12 - I Fedeli D_amore

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Quaderni del Gruppo di Ur XII I FEDELI D'AMORE I Ediz. Gennaio 2006 - II Ediz Ottobre 2006 - III Ediz. Settembre 2007

Dante Gabriel Rossetti - Dantis Amor - 1860

Ogni quaderno del Gruppo di Ur raccoglie, in forma organica e sintetica, quanto emerso nell'omonimo forum, in relazione ad un determinato argomento. In esso si trovano, perciò, sia citazioni degli autori studiati, sia commenti. I quaderni si devono considerare in continuo aggiornamento, dal momento che l'emergere di nuovo materiale sull' argomento trattato può rendere opportuna una nuova edizione.

Questo Quaderno non è ovviamente esaustivo dell'immensa materia, relativa ai Fedeli d'Amore. Attraverso gli esempi forniti, si è cercato di far emergere soprattutto il significato anagogico dei loro scritti. Non si troveranno in questa sede quei brani che, pur riguardando i Fedeli d'Amore, costituiscono parte organica di altri quaderni: ad es. quello del nostro Ekatlos, nel quale si dimostra che Dante era a conoscenza della falsità della cosiddetta "Donazione di Costantino" (vedi quaderno "Sul Papato"). Nella II ediz. è stata aggiunta l'analisi della Canzone "Donne Ch' avete" e sono stati corretti alcuni refusi di stampa. Nella III ediz. è stata ampliato il dialogo su "Maometto e Alì all'Inferno". Il presente Quaderno è perciò suddiviso nelle seguenti sezioni: 1) Ida La Regina: Introduzione 2) )A cura di P.Negri: Due Saggi Anteriori a Ur di Arturo Reghini 2a) Arturo Reghini: L'allegoria esoterica in Dante 2b) Arturo Reghini: Il Veltro 3) Ercole Quadrelli: I Fedeli d'Amore 4)A cura di P.Negri: Luigi Valli e Il Gruppo di Ur 4a) Luigi Valli: Testimonianze di Studiosi delle Tradizioni 5) AAVV: Per una Determinazione del Significato Anagogico 5a) J. Evola: Sulle Esperienze Iniziatiche dei Fedeli d'Amore 6) A cura di Fabritalp ed Ea: Dante e Pitagora di Vinassa de Regny 6a) Fr. Petrus: Ciclo Vitale dell'Uomo secondo Dante 7) Sipex: Quadro Generale della Commedia 8) Afrodite U. e Fr. Petrus: Datazione del Viaggio Dantesco 9) AAVV: Maometto ed Alì all'Inferno 10) Fr. Petrus: Nicolò de Rossi e Guido Cavalcanti 10a) Sipex: La canzone dantesca Donne ch'avete 11) Fr. Petrus: Il Filostrato di Boccaccio 12) Fr. Petrus ed Altri: Il Filocolo di Boccaccio 12a) Appendice: Sogni Inventati e Sogni Reali 13) Venvs G. e Fr. Petrus: Fedeli d'Amore e Via del Sacro Amore.

1) INTRODUZIONE di Ida La Regina Col termine Fedeli d'Amore vengono generalmente intesi gli aderenti ad una confraternita iniziatica, presente nel XIII secolo in Italia, Francia (particolarmente in Provenza) e Belgio. Essi veneravano la Donna (o Dama) Unica, una figura simbolica simile alla gnostica Pistis Sophia, di cui la Beatrice dantesca è l'esempio probabilmente più noto. Simbolicamente affine alla Vergine Maria Nera e isiaca, che adorna tante cattedrali europee (come la Madonna Nera di Loreto o quella di Czestochowa), è descritta da Guido Cavalcanti, come "una giovane donna di Tolosa", città che non può non far pensare a connessioni con Catari e Albigesi. Da: "Rime" di Guido Cavalcanti XXIX - Una giovane donna di Tolosa (sonetto) Una giovane donna di Tolosa, bell'e gentil, d'onesta leggiadria, è tant'e dritta e simigliante cosa, ne' suoi dolci occhi, della donna mia, che fatt' ha dentro al cor disiderosa l'anima, in guisa che da lui si svia e vanne a lei; ma tant'e paurosa, che non le dice di qual donna sia. Quella la mira nel su' dolce sguardo, ne lo qual face rallegrare Amore perchè v'è dentro la sua donna dritta; po' torna, piena di sospir', nel core, ferita a morte d'un tagliente dardo che questa donna nel partir li gitta. Un altro dei Fedeli d'Amore, Francesco da Barberino (che ebbe, come maestro, lo stesso di Dante, cioè Brunetto Latini), nell'opera "Del Reggimento e de' Costumi delle Donne", la descrive invece con questi versi: Ella è colei, ch'à compagno il figliuolo Del Sommo Iddio, e sua Madre con esso: Ell'è colei, che con molte siede in cielo, Ell'è colei, che in terra ha pochi seco. Il valore iniziatico del simbolo della Donna è confermato dal fatto che Beatrice, nella Divina Commedia, ha la funzione di condurre Dante in Paradiso, da vivo e non da morto. I Fedeli d'Amore si esprimevano in un linguaggio segreto, il "parlar cruz", atto a non farsi comprendere dagli altri, la "gente grosa". Una parte del loro stesso nome, "Amor", cela

probabilmente il termine composto "A-mor(s)" (= senza morte), a significare che la loro pratica iniziatica aiuta a non morire spiritualmente. Lo stesso Dante del resto afferma esplicitamente che il significato vero delle proprie parole è nascosto, ora molto, ora poco. Ad es., in Purgatorio, VIII, 19-21 dice: aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, che 'l velo è ora ben tanto sottile, certo che 'l trapassar dentro è leggiero Non a caso, in un sonetto toscano del quattrocento, attribuito al Boccaccio (ad es da Francesco De Sanctis nella Storia della Letteratura Italiana), Dante è paragonato ad una "Minerva oscura", delle cui opere è necessaria "temporale e spiritual lettura". Dante Alighieri son, Minerva oscura d'intelligenza e d'arte, nel cui ingegno l'eleganza materna aggiunse al segno, che si tien gran miracol di natura. L'alta mia fantasia pronta e sicura passò il tartareo e poi il celeste regno, e il nobil mio volume feci degno di temporale e spirital lettura. Fiorenza gloriosa ebbi per madre, anzi matrigna a me pietoso figlio, colpa di lingue scellerate e ladre. Ravenna fummi albergo del mio esiglio; ed ella ha il corpo, e l'alma il sommo Padre, presso cui invidia non vince consiglio.

2) A

cura di P. Negri

DUE SAGGI ANTERIORI A UR DI ARTURO REGHINI Prima del saggio "Il Linguaggio Segreto dei Fedeli d'Amore", pubblicato su Ur come Pietro Negri, Arturo Reghini aveva scritto altri saggi sull'argomento. Il primo dei due che proponiamo venne pubblicato nella rivista Nuovo Patto del Settembre-Novembre 1921. A differenza della monografia di Ur, non è mai nominato Luigi Valli. Questi, pur essendosi segnalato già nel 1906 per una "Lectura Dantis" dedicata al canto XIX del Paradiso, iniziò a essere veramente noto solo dopo che, nel 1922, cominciarono ad apparire le prime opere di più ampio respiro quali: "Il Segreto della Croce e dell'Aquila nella Divina Commedia" e "Il Simbolo Centrale della Divina Commedia: La Croce e L'Aquila". Seguirono, nel 1925, "La Chiave della Divina Comedia" e, nel 1928, "Il Linguaggio Segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore".

2a) ARTURO REGHINI

L'ALLEGORIA ESOTERICA IN DANTE Sotto il senso letterario della Commedia, ossia sotto la peregrinazione di Dante attraverso i tre regni delI'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, si nasconde senza alcun dubbio una allegoria. Non c'è bisogno delle esplicite dichiarazioni di Dante in proposito per esserne certi. Questa allegoria non è semplice, ma molteplice e dai commentatori ne vengono di solito riconosciuti due aspetti, quello morale e quello politico. L'interpretazione morale, o filosofico-morale, vede allegoricamente raffigurata nella Commedia la via che l'uomo deve percorrere per superare il peccato e raggiungere la virtù in modo da sfuggire all' inferno ed al purgatorio e da guadagnare colla perfezione morale il paradiso. Questa allegoria, come del resto il senso letterale del poema sacro, ha innegabilmente un aspetto nettamente cristiano pure abbondando di elementi pagani; e sulla scorta di Aristotile, di S. Tommaso e della scolastica è stato profondamente penetrato dai commentatori. L'allegoria polltica ha per base la lotta tra l'impero ed il papato, e vi figura largamente anche la persecuzione dei templari da parte di Fillppo il Bello e di Clemente V. Naturalmente vi sono dei passi suscettibill della sola interpretazione morale, altri rivestiti del solo simbollsmo politico, ed altri ancora che comportano una doppia interpretazione morale e polltica. L'allegoria politica è quasi sempre trasparentissima e molte volte Dante fa addirittura a meno di ogni velo e fa manifesta tutta la sua visione lasciando pur grattar dove è la rogna. L'allegoria morale ha una apparenza talmente cristiana da autorizzare tutti i cristiani e tutti i frettolosi nel concludere ad attribuire a Dante una ortodossia cattollca, mentre l'allegoria politica ci rivela con tutta sicurezza un Dante partigiano dell'impero e nemico acerrimo della Chiesa, difensore a viso aperto di quell'ordine dei Templari condannato e ferocemente perseguitato per eresia dalla Chiesa, un Dante che esalta Cesare, l'Impero romano, la civiltà classica, e che elegge a propria guida, maestro e signore Virgilio pitagorico ed imperialista. I motivi che hanno indotto Dante a servirsi dell'allegoria non sono dunque di natura politica, inerenti alla sua posizione nella lotta tra guelfi e ghibelllni, perché in tal caso sarebbe naturale di trovare più fitto il velo nei passi che trattano di politica, mentre invece il velo si fa più spesso nei passi che trattano argomenti di morale, di filosofia, di religione, di metafisica; e talora per quanto i commentatori aguzzino gli occhi non riescono a chiarire il senso, oppure ognuno di essi finisce coll'intendere diverso dagli altri. Quale è dunque la ragione che ha spinto Dante all'uso dell'allegoria, anche a costo di non farsi facilmente capire? Fantasia di poeta? Passione per l'enimmistica? No certo, perché noi sappiamo che una dottrina si asconde sotto il velame delli versi strani. E se l'apparenza è cristiana non potrebbe la scelta differire dall'apparenza? Non potrebbe la dottrina così gelosamente nascosta essere eterodossa, molto eterodossa? Sicché Dante puzzerebbe forte di eresia e sarebbe un nemico della Chiesa anche sul terreno religioso oltre che su quello polltico? Le professioni di fede cristiana che egli fa ripetutamente non bastano ad eliminare il dubbio. Se egli infatti era eretico o pagano e non voleva finire arrosto, era forzato a professarsi cristiano. E specialmente volendo levarsi il gusto di esaltare Virgillo, Cesare, Roma che il buon mondo feo, il latin sangue gentile, e gli imperatori che avevano aspetto gentile ossia pagano, occorreva in qualche modo tranquillizzare i sospetti facendo anche l'apologia del cristianesimo. Bisogna ricordare che in quei tempi la carità cristiana poteva sbizzarrirsi a suo piacimento; i numerosi seguaci di quel S.Domenico che negli sterpi eretici percosse animato dal santissimo zelo di salvare le anime (nonché la Chiesa pericolante) andavano per le spiccie e Dante stesso aveva umani corpi già veduti accesi. A che prò fare la fine che poi toccò a Cecco d'Ascoli, quando era possibile dedicare la vita, e l'enorme ingegno e sapienza ad un grandioso disegno polltico e religioso? Nonostante le sue professioni di fede cattolica, Dante aveva amici che andavan

cercando come Dio non fosse, ed eretici dello stampo di Sigieri egli ficca tranquillamente in paradiso, mentre popola di papi l'inferno. Dante stesso fu accusato di eresia secondo risulta da antichi documenti, e secondo narrano i suoi primi commentatori. L'eresia pagana di Dante fu sostenuta dal Foscolo, e poi dal Rossetti con enorme copia di argomenti, ed infine dal prete cattolico Aroux. Un gesuita che volle fare la critica delle opere del Rossetti si ebbe da questi tale esauriente replica che più non fiatò. Non si pone mente che anche nell'apparenza Dante non segue sempre pedissequamente San Tommaso; ne differisce apertamente in questioni importantissime; p.e., nella dottrina escatologica (Purg. XXV 88-102) per adottare una teoria delle ombre dei defunti che è in perfetto accordo colla concezione pagana. Egli fin da principio si inspira a Virgilio, da cui solo prende lo bello stile che gli ha fatto onore. Il suo poema non è che una commedia; e comunque si intende la parola, nel senso moderno od in quello dionisiaco, si è sempre condotti lontano dall'apparente senso cristiano. Nelle grandi llnee la Commedia è uno sviluppo del VI canto dell'Eneide, e Dante ripete quanto Virgilio fa fare ad Enea. Enea scende vivente nell'Ade, rinviene nella selva il ramoscello di mirto degli iniziati, ed apprende de visu la verità dei misteri orfico-pitagorici sopra l'uomo e la immortalltà condizionata. Ed anche Dante corruttibile ancora, ricalca la medesima strada collo stesso scopo e facendo uso del medesimo simbollsmo. Scopo fondamentale, come oramai è noto e provato, dei misteri orfici, pitagorici, eleusini, isiaci, era quello di conferire all'iniziato la conoscenza vera dei principii della vita (Cicerone -De Lege II, 14), la beatitudine, l'immortalltà privilegiata. Ciò si otteneva mediante la iniziazione che constava di prellminari pratiche catartiche, di cerimonie simboliche e di vere e proprie estasi come ci affermano Plutarco, Apuleio, ed altri antichi scrittori e come oramai si viene riconoscendo dai moderni (Vedi p.e. Macchioro-Zagreus). Per tal modo l'uomo veniva rigenerato e dopo la morte lo attendevano i campi Elisii. Il soggetto della Commedia è l'uomo, o meglio la rigenerazione dell'uomo, la sua metamorfosi in angelica farfalla, la Psiche di Apuleio. È dunque il medesimo soggetto dei misteri. Non le sole qualità morali cambiano; Dante si purifica di grado in grado, passa per crisi e coscienze varie e numerose, cade come corpo morto, sviene, rinviene, si addormenta, si ravviva nell 'Eunoè, la sua mente esce di sè stessa, si illuia, si india, si interna, s'infutura, s'insempra, passa al divino dall'umano, all'eterno dal tempo; e finalmente dislega l'anima sua da ogni nube di mortalità. Questo non è un perfezionamento morale, è una vera pallngenesi di tutto l'essere che si attua nel simbolico viaggio. Il velame asconde non soltanto delle disquisizioni morali sopra i peccati e le virtù, ma l'esposizione di mutamenti interiori nella coscienza del pellegrino. I due fiumi del paradiso terrestre sono un evidente imprestito ai misteri orfico-pitagorici. Scoperte archeologiche recenti han fatto rinvenire le così dette laminette auree di Turii, che venivano sepolte insieme al defunto orfico, cui dovevano servire di viatico, quando arrivava nell'Ade. Quivi egli incontrava due fonti, quella del Lete e quella di Mnemosine, ossia quella dell'oblio e quella della memoria. Bevendo all'acqua del Lete, il defunto perdeva ogni memoria, e finiva, miserabile larva incosciente nel fango. Bevendo alla fresca sorgente di Mnemosine si salvava, ed andava tra gli immortali, nei campi elisii. La formula contenuta nella laminetta orfica affermava: «Son figlio della terra e del cielo stellato. Fammi dissetare alla fresca sorgente di Mnemosine, perché io possa essere nume divino e non più mortale». Questo il senso della formula invocatoria orfica; e questa concezione orfico-pitagorica è analoga alla concezione escatologica dei misteri eleusini, ed è svolta nella teoria platonica delle anime e della conoscenza. Dante, a meglio affermare il carattere pagano delle catarsi del purgatorio, da cui esce puro e disposto a sallre alle stele, introduce alla fine della cantica non solo il Lete, ma il meno familiare Eunoè (Purg. XXVIII, 131; XXXIII, 127-145), come egli lo chiama, che «la tramortita sua virtù ravviva», ossia che dà a chi è morto la resurrezione, la seconda nascita. Dante vorrebbe pur cantare in parte lo dolce ben che mai non l'avria sazio; ma si dà la combinazione che ei non ha più lungo spazio, sono piene tutte le carte ordite a questa cantica seconda; e sopra tutto non lo lascia più ir lo fren dell'arte. Adelante, Pedro, con juicio. Siamo in pieno mistero pagano. E chi consideri quale sia stata la guida di Dante capisce che doveva condurlo proprio lì. Dante smarrito nella selva selvaggia ed aspra e forte dei pregiudizi e dell'ignoranza cristiana, incontra

fmalmente in Virgilio, la personificazione della sapienza esoterica, questa voce che per lungo silenzio (dieci secoli di era volgare) pareva fioca; e Virgilio si presenta immediatamente nella sua qualità di iniziato, che ha trasceso la natura umana: «Non uomo, uomo già fui»; ed è per questo che Dante lo prende per duca, maestro e signore che lo inizii e lo renda immortale. Ora la concezione pagana non accordava alle anime umane una vera e propria sopravvivenza; conducevano nell'Ade una vita immemore di larve incoscienti; e solo gli iniziati, gli eroi e quei che Giove rapiva al sommo concistoro erano immortali. Ed il Cristianesimo ebbe il sopravvento sopra i misteri, perché mise democraticamente la salvezza e l'immortalità à la portée de tout le monde. Bastò andare a farsi battezzare e credere che Gesù era risuscitato per essere salvato. Una vera cuccagna per tutti i poveri di spirito, e per tutti i delinquenti cui i misteri chiudevano la porta. Arnobio p.e. spiattella pari pari di essersi fatto cristiano perché il cristianesimo a differenza dei misteri garantiva a tutti l'immortalità. Dante, che prende a guida Virgilio, e che tratta paganamente tutta la questione della pallngenesi, pensava dunque anche egli che non tutti gli uomini potevano eternarsi? che le credenze cristiane non erano sufficienti allo scopo? che le pecore matte ed i superbi cristiani non avevano diritto di cittadinanza nella città eterna, e dovevano finire tra la perduta gente? Parrebbe di sì, posto che non dai preti ma da Brunetto Latini egli apprese "come l'uom si eterna". Esaminando l'opera di Dante senza preconcetti e partiti presi, si arriva a riconoscere nella rinascita spirituale mediante la metamorfosi operata dall'iniziazione il soggetto fondamentale della Commedia, la dottrina nascosta sotto il velame delli versi strani. L'allegoria dantesca ha dunque un importantissimo aspetto mistico, metafisico, veramente esoterico. Aspetto che ancora non è stato riconosciuto. Esso sfugge anche al Rossetti ed all' Aroux, i quali pure riconducendosi per l'interpretazione dell'allegoria ai misteri classici, si riferiscono sempre alla parte cerimoniale di essi. Ed è naturale che sia così, perché per potere accorgersi ed intendere le allusioni ed i riferimenti convenzionali od allegorici occorre conoscere l'oggetto dell'allusione o dell'allegoria; ed in questo caso occorre conoscere le esperienze mistiche per le quali passa il mistero e l'epopta della vera iniziazione. Per chi ha una qualche esperienza del genere non vi ha dubbio sopra l'esistenza nella Commedia e nell'Eneide di una allegoria metafisico-esoterica, che vela ed espone le successive fasi per cui passa la coscienza dell'iniziando per divenire immortale. Il simbollsmo di cui più frequentemente si serve Dante è quello della navigazione, della peregrinazione. Egli è un pellegrino per la diserta piaggia, per lo stretto passo, per l'aspro diserto, prende un'acqua che mai non vi corse, è un navigante pel mar dell'essere. Specialmente il simbollsmo del mare, della nave, della vela è sempre adoperato per trattare dei fatti interiori. È questo velame che egli alza per correr migliore acqua; e come egli stesso dice è sotto questo velame che si asconde la dottrina. È un simbollsmo arcaico, mediterraneo, pagano, già usato da Virgilio e da Ovidio. Esso è usato anche dai cristiani che di navi e navate parlano nei loro templi riferendosi alla navicella di S. Pietro. Ma questa navicella è frutto di una delle tante appropriazioni compiute dai seguaci del profeta asiatico; non è altro che la navicella di Giano; di un dio cioè prettamente romano, sposo di Venilla, la dea del mare e delle sorgenti, ed inventore della costruzione dei navigli. Si vede che cosa diventa l'impresa di Ulisse nella Commedia. Ulisse, il navigatore per eccellenza, ha un tale ardore a divenir del mondo esperto, e delli vizi umani e del valore che non è vinto dalle dolcezze del figlio, dalla pietà dèl vecchio padre, e dal debito amore di Penelope; e perciò si mette per l'alto mare aperto; e dopo averne navigato tanto da divenire vecchio e tardo viene finalmente a quella foce stretta, ov'Ercole segnò li suoi riguardi acciocché l'uom più oltre non si metta. Ma Ullsse ed i suoi compagni non tornano indietro per questo; anzi ricordano che non sono stati fatti a viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza; e quindi si avventurano con folle volo nell'alto passo per ottenere l'esperienza del mondo senza gente, di retro al sol; cioè di quella condizione in cui la coscienza vive di vita tutta interiore, al di là e fuori di ogni celebrazione dovuta ai sensi umani, ed in cui non c'è né gente né sole. Ma questa è un'acqua assai perigliosa e non tutti possono trarsi a riva e volgersi a guardare lo passo che non lasciò giammai persona viva, e che può superare solo chi muore di morte

mistica. È un varco folle (Parad. XXVII), un'impresa assai ardua, non pileggio da piccola barca (Parad. XXIII), e c'è da rimanere travolti e sommersi dal mare dell'essere che si richiude sopra il temerario. Questo dice Dante, dopo avere premesso: (Inf. XXVI, 21) «più l'ingegno affreno ch'io non soglio». Ma Dante non va come Ulisse alla ventura; egli è guidato da Virgilio, più savio che ei non intenda, e per ascoso cammino giunge a riveder le stelle. Per correr migliore acqua alza la vela la navicella del suo ingegno; e dopo le varie pratiche e cerimonie che subisce nel purgatorio, si purga ritualmente e ravvivatosi nel fonte di Eunoè, ne esce rinnovellato di novella fronda, puro e disposto a salire alle stelle (Purg. XXXIII). Dopodichè è opportuno invocare il buon Apollo all'ultimo lavoro (Parad.I). All'aspetto di Beatrice ci "si fa tale dentro", qual si fè Glauco nel gustar dell'erba che il fè consorte in mar degli altri dei (Parad. I, 69-70), ossia si sente morire e divenire immortale come Glauco, quel Glauco che dice di sé: Ante tamen mortalis eram, sed scilicet altis deditus aequoribus (Ovid. Met.) Dante non sa proprio dire altro e si scusa dicendo che: «Trasumanar significar per verba Non si poria; però l'esempio basti a cui esperienza grazia serba» (Parad. I, 70-72). Per verba non si può, ma per erba sì. Egli non ha più l'illusione del mondo materiale, ha un altro senso della realtà: «tu non se' in terra, sì come tu credi» ma tu siedi al tuo proprio sito; giacché come dice nel Conv. IV, 28: «la nobile anima ritorna a Dio, siccome a quello posto, ond'ella si parti a quando venne a entrare nel mare di questa vita». Cosa accade delle anime non nobili non è detto. Ed ora che si sente del mortal mondo remoto (Par. II) si sente a sua volta in grado di far da guida non agli altri che sono in piccioletta barca, ma a quei pochi che drizzano il collo per tempo al pan degli angeli, l'ambrosia che rende immortali come l'erbetta di Glauco. È vero che l'acqua che ei prende giammai non si corse; ma egli ci ha tutta la sapienza pagana che lo assiste: "Minerva spira, e conducemi Apollo e nove muse mi dimostran l'Orse" e Dante incoraggia questi pochi navigatori a mettere tranquillamente per l'alto sale il loro naviglio, servando s'intende il suo solco dinanzi all'acqua che ritorna eguale; e promette loro meraviglie da stare a pari di quelle che videro quei gloriosi argonauti che seguirono quell'altro navigatore ardito che conquistò il vello d'oro (Parad. II, 1-18). Ed infatti, giunto alla fine della navigazione, e giunto l'aspetto suo col valore infinito (Parad. XXXIII), arriva a vedere che nel suo profondo si interna, legato con amore in un volume ciò che per l'universo si squaderna. Crede di avere visto la forma universal di questo nodo, e ne resta ammirato quanto rimase ammirato Nettuno, quando vide l'ombra d'Argo ossia la nave Argo, la prima nave che solcò i mari. I pochi che han servato suo solco sino alla fine vedono dunque che Dante mantiene la promessa fatta loro nel canto 11. Così si spiega questo passo che è uno dei più oscuri di tutto il poema. Ma, intendiamoci, una vera spiegazione si può dare solo a quelli che passano per consimili esperienze; giacché questo è un mistero che «intender non lo può chi non lo prova»; ed io non posso che ripetere le parole di Apuleio dopo l'iniziazione: "Ecce tibi rettuli, quae, quamvis audita, ignores tamen necesse est" (Apuleio - Metam. XI, 23). *** Un'altro saggio di Arturo Reghini su Dante, pubblicato prima di quello apparso in Ur, è "Il Veltro", comparso nel giornale Impero del 24 aprile 1923. Si possono notare diversi accenni a quell'Imperialismo Pagano, che Reghini, aveva teorizzato già nel 1914 ("Imperialismo Pagano" in Salamandra del Gennaio-Febbraio 1914) e che, per un certo periodo, sognò potesse esere attuato dal fascismo. Ne 1928, Evola ne fornì una sua variante in un opera dall'identico titolo (Imperialismo pagano, Atanor, Todi-Roma) che fu la causa principale del deplorevole dissidio tra i due personaggi. Dissidio storicamente inutile, visto il Concordato tra Stato e Chiesa del 1929, che faceva diventare utopica la realizzazione a breve di quell'idea, però mai abbandonata da Reghini. Il presente saggio è anche utile per riflettere sul concetto tradizionale di "vaticinio", che non è mai stato concepito come previsione di un evento ineluttabile (che toglierebbe agli uomini la benchè minima libertà), ma come percezione di una favorevole "tendenza" verso certi eventi, che sta pur sempre agli uomini attuare o contrastare.

2b) ARTURO REGHINI

Il VELTRO I classici dell'Imperialismo, filosofi, politici, profeti insieme, sono quattro: Virgilio, Dante, Machiavelli, Mazzini; italiani tutti. Coloro che con maggiore coscienza hanno tradotto in atto l'Idea son due: Cesare e Napoleone, Italiani pur essi. Virgilio, il cantore delle origini, il foggiatore di versi perfetti, credette vedere intorno a sé i segni precursori dell'ultima età predetta dai Libri sibillini, e vaticinò la discesa dal cielo di un fanciullo che avrebbe dovuto instaurare l'Età dell'Oro. Sembrò avverarsi la profezia colla nascita di Gesù, ed il Poeta pagano parve dare la mano al profeta ebraico, "teste Davide cum Sybilla". Diciamo parve, in quanto che, se a Gesù si volesse applicare il vaticinio virgiliano, bisognerebbe ammettere che non si è ancora tutto attuato, perché è ben vero che Gesù è nato (ed anche morto), ma l'Età dell'Oro è ancor da venire. È vero che non bisogna aver furia! Ma ogni dubbio ci sembra scompaia quando si ricordi che Virgilio era un Pitagorico, e che l'avverarsi di tale profezia, ad un Pitagorico, in quel momento, doveva apparire sicura ed imminente. Infatti la Filosofia pitagorica, che tutto riduce e somma nella Monade universale, porta direttamente alla concezione monarchica; all'unità della Monade corrisponde l'unità del potere, la monarchia; ed il Fondatore della Scuola Italica attuò, come potè, nel suo Sodalizio di Crotone, il concetto sociale unitario. Or quando Virgilio scriveva, l'unità politica era stata attuata sulla maggior parte del mondo conosciuto da quell'immenso Genio di Cesare, che seppe correre l'alea, ed a tempo debito, marciare su Roma. La concezione pitagorica, l'antica profezia della Sibilla e la pienezza dei tempi dicevano naturale e quindi fatale che a coronare l'opera scendesse di cielo in terra una divina progenie. Questo il Veltro virgiliano. Dante, per cui Virgilio è duca, maestro e signore, ha tutta l'aria di essere similmente inspirato quando, a più riprese, profetizza ed invoca la venuta del Veltro, a fare morire di doglia la lupa, ed in attesa a fare penare assai i commentatori. La concezione politica imperialista ha nell'uno e nell'altro altissimo poeta la stessa impostazione pitagorica. Intorno a questa Idea centrale ruotano secoli e secoli di storia italiana ed europea. Il Veltro dantesco non è in modo speciale Arrigo Imperatore, né alcun altro personaggio determinato; il Veltro è l'uomo divino che, data la costituzione del mondo, deve fatalmente manifestarsi presto o tardi. Dante con ardente affetto il sole aspetta, fiso aspettando pur che l'alba nasca; il suo cuore palpita affrettandone, invocandone la venuta, ma la sua mente sa che cosi è scritto. La sua fede nell'avvento fatale di un vero Imperatore poggia sulla prodigiosa sua conoscenza metafisica, sociale, scientifica. Come Virgilio, egli è un Vate nel senso classico della parola. A questa coscienza del divenire politico si accoppia la piena, sicura coscienza del diritto naturale del Popolo Romano a tenere l'Impero. Virgilio afferma che spetta al Popolo Romano il "regere imperio populos"; Dante lo ripete; Mazzini lo ripeterà poi con l'uno e con l'altro. La Romanità era ancora cosi viva nel mondo che anche se fosse stato un tedesco, come Alberto, l'Imperatore sarebbe stato sempre romano. Ma Dante vuole che in Roma tenga la sede dell'Impero e da Roma tragga il prestigio; perché Roma, e solo Roma, possiede, quasi per magia, carattere universale ed eterno. E questa predestinazione naturale all'Impero, questa virtù del Popolo Romano, potentemente sentita da Mazzini, esule e povero, alimentava la sua tenacia e fede nei destini della terza Italia, quando il sacro romano imperio pareva acquisito per sempre a casa d'Asburgo. Le virtù romane, quelle autoctone, presentano i requisiti necessari per un ufficio d'imperio. Prima la fortezza, la virtù del guerriero, la salda tempra del popolo che non piega ai rovesci, oggi ed allora come a Canne; poi la virtù della misura, dell'equilibrio; la prudentia politica di

governo, la giustizia, virtù sociale del cittadino, la temperanza, la virtù dell'uomo nella condotta privata. Virtù congenite, sane, indipendenti dalle credenze e da sanzioni extra-sociali. VIrtù di tutti e per tutti, e non dei pochi come la fede, la speranza e la carità, virtù dei santi e per santi, intese a scopi ultra-umani se non inumani. Queste le basi del diritto naturale del Popolo Romano; queste le virtù che necessita avere. L'Imperatore, quello auspicato da Dante, il Veltro, non ciberà terra né peltro, ma Sapienza, Amore e Virtute. Le virtù umane e nemmeno quelle ordinarie dei santi non bastano. Occorre la diretta inspirazione divina, bisogna che, come il divo Giulio, si immedesimi con Giove, con quell'lmperador che lassù regna. La suprema potestà terrena deve sentire la sua unità colla Monade. Egli deve imperare per volere divino e per diritto divino. Sissignori, per diritto divino, o inconsolabili cortigiani del popolo sovrano! "Vox populi non est vox Dei". Che la potestà imperiale, del resto, debba derivare e derivi direttamente da Dio non è soltanto un corollario di Filosofia pitagorica; lo afferma anche la religione dominante per bocca dell'apostolo Paolo: "Omnis potestas a deo est". E senza dubbio questo pensiero inspirò Napoleone quando, nel giorno della incoronazione a Re d'Italia, tolti di mezzo gli intermediari, si pose in capo da sé la corona. E ben fece perché se, come il Manzoni afferma, Iddio stampò in lui più vasta orma del suo spirito creatore, da Dio stesso fu suscitato e predestinato. Il Veltro è quindi perfettamente al suo posto al sommo della gerarchia. Quando la gerarchia non sussiste, l'assetto sociale precipita. Quando l'Imperatore indulge a sentimenti personali o pretende volgere l'Impero a beneficio di popolo non predestinato, il Fato, cui sottostanno gli Dei, si abbatte su di lui e sull'opera sua. Carlo V esce di senno, una incredibile testardaggine determina Waterloo, sulla Marna e sul Piave si noveran miracoli. Oggi l'Italia sta risanando. Affiorano le antiche virtù. Il suolo sacro della Patria esprime le superbe legioni che Augusto amava; e le masse van ripulendosi del morbo asiatico. "Roma locuta est"; ed i popoli già tendon l'orecchio alle parole di rinsavimento, già figgon lo sguardo ai segni precursori della nuova aurora. Ed in verità, il popolo saprà vivere austeramente, virtuosamente, se il Duce avrà la fede e la reverenza romana per gli Iddii della Patria; sia lecito a noi, nel giorno natale di Roma, leggere i segni secondo il costume dei Padri e dichiarare fausti i presagi.

3) ERCOLE QUADRELLI I "FEDELI D'AMORE" Quel che segue è un saggio di Ercole Quadrelli sui Fedeli d'Amore, estratto da "Il progresso religioso" n°2, Rivista bimestrale del movimento contemporaneo, Città di Castello, 1929. E' un saggio molto importante per svariati motivi: - E' del 1929 e perciò contemporaneo alla rivista Krur. Segue di un anno il saggio di Pietro Negri "Il Linguaggio Segreto dei Fedeli d'Amore", uscito nella seconda annata di Ur e a cui Quadrelli fa un brevissimo riferimento finale. - Mostra il vero stile letterario di Quadrelli (che usa ad es. abitualmente l'accento, all'inizio di parola, al posto della lettera h) e conferma perciò che gli scritti firmati Abraxa erano sì insegnamenti dati oralmente da Quadrelli, sulla base del Corpus Philosophorum Totius Magiae (*) di Kremmerz, ma trascritti da Evola col suo stile. - Ridimensiona infine certe pretese di Guenon nel campo degli studi danteschi e soprattutto alcune critiche guenoniane a L.Valli. (*) Quello autentico e non quello spesso storpiato già nel titolo (da taluni trasformato in Corpus Philosophicum Totius Magiae).

L'ineffabile Essere primissimo - sì difficilmente pensabile senza immediato rischio di blasfemamente confonderlo col Nulla - Lui, sì pienissimo, con il Nulla vuotissimo - che cosa ab aeterno e in eterno lo mosse, e move, a perennemente uscire dall'unità sua semplicissima, per dirompersi in molteplici densità innumerabili? Mistero, a cui non è escogitabile nome alcuno adeguato; attività ineffabile d'ineffabile Agente; necessità libera, nudità sovrabbondante, coerenza di scissione, immobilità di propulsione, slancio dell'uno verso il diverso, impeto della Realtà ad anche parere ciò che Ella già è. Amore? Mistero. Amore di esuberanza, caso mai: traboccamento di plenitudine, effusione di magnificenza: dono. Amori di bisogno - di invocazione, di dedizione - dopo: dal diverso che riaspira a unità , dal piccolo che brama ampliamento, dal crepuscolare che scongiura più luce: più calore, più forza, più vita. E così l'Ineffabile va, della Sostanza, perennemente facendo a sè stesso un tramite di cui Egli stesso è la sede e il viandante; della Energia, facendo a sè stesso un palpito di cui Egli stesso è il ritmo ed il musico; della Luce, un ammanto di cui Egli stesso è la contenuta contenenza, l'unimolteplice vibrazione, la visibile e l'invisibile fiamma, l'immateriale olio, l'occulto Accensore; della Vita, un innumeriforme prorompere di singole affermazioni e di voraci assorbenze, traverso cui Egli stesso è il divorato e il divorante, il sacrificatore e la vittima. Triangolo, che, nel salomonico esagramma, scende, si immerge, s'involve: traverso alla nebulosità , alla fluenza, alla liquidità , al colloide, al solido, al compattissimo: all'indiscomponibile ione, sedici volte, dicono, più denso del plà tino: e, dunque, sedici volte più complicato, più scomponibile, più inaccessibile, all'infinito: nell'infmito al di dentro: al di dentro di tutto ciò che altro non è, di Lui, se non esteriorità . Scende, Egli, e si involve: e, naturalmente, nè si perde, nè si depaupera o à ltera, Egli che dovunque e comunque non è mai fuori di sè: in cui tutto morendo nasce e nascendo muore e vivendo dilegua, in Lui che persiste in tutto quanto da Lui emerge od in Lui si sommerge. Non si perde, non s'altera: non c'è essere che possa agire a depauperazione di sè, se non fosse per incapacità o costrizione. E, come dalla nebulosa al sole - al pianeta, al fluido, alla selce, al metallo - si va Egli più e più immateriando, così dal fango alla mucillagine all'ameba, al vegetale all'animale all'uomo, si va Egli - triangolo, che, nel salomonico esagramma, riascende - riliberando, rievolvendo, ridisimpacciando. Tra l'uomo e Lui, quante altre forme di esseri? E attorno all'uomo, tra gli animali e tra gli alberi - nella terra, nell'acqua, nell'aria - proprio null'altro di vivo? Nulla, nei mari, di più dià fano che le meduse? Nulla, nell'aria, di più sottile e più vasto che non le nubi? E, gl'interminabili spazi dell'etere, disabitati? E non altrettante o più, le sue forme, che quelle dei gas? E la enorme gamma delle vibrazioni note alla Scienza - ignote ai nostri sensi - proprio nessun essere che le percepisca? Quanti interrogativi di cui non Shakespeare e non il suo Amleto avrebber sorriso; di cui non, per millenni, sorrisero o sorrideranno le umane stirpi. Prima ancora - e fosse pur questa una convenzionale priorità di non più che natura - prima ancora di esprimersi in plasmi di materie energie meccaniche, si sarebbe Egli espresso in forme di sostanze-potenze. E, curiose di esperienze anche all'in giù, tante e tante di queste avrebbero anch'esse tentata la sfinge della discesa - questo, il peccato originale? di ciascuno di noi? di un'adamica anima universale? - nè troppo si chiesero se altrettanto agevole sarebbe stata poi la riascesa. Pitagorico-platonici sussurri, rintracciabili un po' in tutte le ampie civiltà , e sui quali non ha voluto dirci Dante, che cosa realmente ei pensasse, o avesse talvolta pensato, o talvolta fosse ancora tentato a pensare (Par. IV, 49-63). Sussurri, non di disperazione: difficile la riascesa, ma non impossibile; esistente anzi, per questo, un'apposita tecnica, pazientemente studiata da collegi sacerdotali, traverso a secoli di dominio pacifico, nei penetrali di certi lor templi famosi. Ne abusarono perfino; ciò ch'era dato a redenzione dell'Umanità , ne fecero strumento di privilegio, a dominazione di casta; nè la punizione si farà gran tempo aspettare. *** Fu Cristo a voler esteso il privilegio, a tutti i semplici di cuore. Fu Paolo, che, cuori ancor più semplici, volle andarne sopratutto a cercare dove la carnalità era massima. E, tutti

indistintamente, gli Apostoli e i primi Discepoli, non davano semplicemente parole di edificazione: imponevano anzi le mani, e trasmettevano lo Spirito: uno spirito non già immateriale e impercettibile, ma fluidico, ma sentito, ma trasformante anche i fisici lineamenti, ma raddrizzante le organiche deformità , ma fenomenicamente avvertibile, spesso, anche a tutti i presenti: credenti che diventassero, miscredenti che rimanessero, o immaginantisi magari diabolicità . Non sono pochi i testi in cui tutto ciò è chiarissimamente detto, e poco importa se nessuno ci abbia ancora pensato: chiarissimamente detto, come si trattasse insomma e su per giù - per ben più nobili motivi, su ben più vasta scala intensiva, e con effetti ben più duraturi dì quella fenomenologia prodigiosa, a cui attende finalmente, con scientifici intenti, la metapsichica. Ma non senza motivo aveva ammonito il Maestro, «Non vogliate buttar margarite dinanzi ai porci». Nelle propagande a masse, tanto difficile diventava il passare al vaglio il buon grano, quanto facile lo era invece stato nelle lunghe discipline dei templi. Infatti, una prima ardua impresa degli epìscopi, fu appunto il metter freno a cotesto anarchico visionarismo dei troppo semplici, a coteste apocalittiche glossolalìe da pitonesse incontrollate. E le trasmissioni dello Spirito furon nuovamente ristrette ad un clero, e, tra questo stesso, a delle èlites direttive: le tante scuole gnostiche, contro cui se la sarebbe presa Plotino, nè ciò fece loro gran male; ma contro cui sempre più se la prese la enorme massa dei - prima ammessi e adesso esclusi - cristiani medesimi, il che condusse al disastro. Il disastro - sin dove ciò concepibile e possibile sia - per lo Spirito Santo medesimo. Chè, messa ormai su una via d'inconfessabile diffidenza, drizzava pronte e minacciose orecchie la dirigente Chiesa ufficiale, ad ogni sussurrata eco di Pneuma, di Spirito, di Paracleto. E senza ufficial tempio nè riconosciuto altare, rimase lo Spirito Santo per secoli e secoli; e quando per primo Abelardo, verso il 1123 - a futuro, imprevisto rifugio di luce per la sua Eloisa - osò intitolare dal "Paraclète" un semidesertico oratorietto di pace vanamente inseguita, ebbe ancora a difendersi, contro teologi, con argomenti teologici. E, in Abelardo, sfioramenti molti di eresie molteplici, ma - a scanso di possibili equivoci un po' più innanzi - nessun sentore, fosse pur minimo, di tradizioni iniziatiche. Due secoli ancora dovrà però aspettare la stessa ineffabile Trinità , a che una sua speciale festa sia ufficialmente sancita (1333) da Giovanni XXII (1). Sbanditi intanto dalla direzione i trasmissori dello Spirito, non eran rimasti - per far Chiesa - che gli accanimenti dialettici sulle dottrine, e il consolidamento delle gerarchie esteriori: due forze ancora enormi, in quanto attinte dalla Grecia la prima, e la seconda da Roma. Anche rimasero, a dir vero, i riti: quasi tutti i più importanti riti. Ridotti a valori prevalentemente simbolici, ma spieganti, anche cosi, la vitalità della Chiesa cattolica, di fronte a quelle che, pur appellandosi a una più astratta spiritualità , à nno sempre più rinunziato a quelle ultime riconnessioni pratiche, con l'antica Chiesa Vivente. La quale, dicono, non perì mai del tutto; e ne vanno ancora cercando il filo, traverso alla storia delle cristiane eresie. E se del tutto non perì mai, bisogna pur riconoscere che, per secoli parecchi, dovette vivere piuttosto male: anche esotericamente. Contaminazioni di tradizioni le più varie - caldaico-egizie, siro-fenicie, manicheo-mitriache, ellenico-celtiche, neoplatonico-gnostiche, ebraico-arabiche - fecero si che nessuna manifestazione eretico-iniziatica risultasse riannodabile a un dato ceppo indiscusso. In quelle a diffusioni momentaneamente trionfanti (Albigesi), il peso bruto delle masse avide risoffocò l'interna fiamma spirituale. In altre, potentemente organizzate (i Templari), la conquista del mezzo - la ricchezza - fece dimenticare la nobiltà dello scopo. Bisogna giungere ai Lulliani, ai Rosa-Croce,. alla linea degli hermetisti benedettini, alla fiorita mistico-platonica, pitagorico-cabalistica, alchimistico-terapeutica, in Italia e in Europa, per avere un qualcosa di cui anche le forme esteriori appaiano meritevoli di riconnessione alle antiche misteriosofie più pure. (1) Cfr. ABELARDO e ELOISA, Lettere; Roma, Formìggini.1927; pagg. 46-50, e specialmente pag. 48. [n.d.u. : Prima Traduzione Italiana dal Testo Latino di Ercole Quadrelli. Prefazione di Antonio Bruers] *** E invece, secondo un genialissimo fra i nostri studiosi (2), ecco una insospettata reviviscenza di

esse, anche nella scuola dei Fedeli d'Amore. Insospettata sino ad un certo punto: dimenticata e negletta, piuttosto, dall'ultima generazione di letterati positivisti; qualcosa di quasi identico fu anzi già sostenuto dall'obliato Gabriele Rossetti; qualcosa di molto prossimo, dal Foscolo e dal Pascoli; e appunto a questi tre è dedicato il libro che sarà pietra miliare. Qualcosa di variamente non remoto fu detto, per i romanzi cavallereschi, dall'Aroux: per la Vita Nova, dal Perez; per il Cavalcanti, dal Salvadori: per l'Acerba dell' Ascolano, dal Crespi: un po' da tutti, per la Donna del Guinizelli, o per la Beatrice di Dante: assolutamente da tutti, per l'amorosa madonna Intelligenza di Dino Gompagni, indiscussa e indiscutibile donna non di carne e non d'ossa. E insospettata convien dir la cosa sino a un certo punto soltanto, anche per l'esser stato ormai vasto il consenso dei critici: specialmente quello degli insieme poeti e filologi, i più competenti, cioè, nella fattispecie (3). Il dissenso, da tutti e soli gli ostili per motivi tutt'altro che critico-storici: sentimentalismi femminùccei, quietovivere da cristallizzati, preoccupazioni pseudoortodossiche, gelosiucce di scuole e chiesuole. Miserevolissima manifestazione di un po' tutto questo, la recensione del Giornale storico della Letteratura Italiana (n° 271-72). Per un tema d'una siffatta importanza letterario-filologica e religioso-civile-politica, proprio di lì doveva venire una trattazione più ampia, un'approvazione o un'opposizione più documentata; una discriminazione, insomma, più diligente. Invece, adunatosi, pare, un concilietto d'illustri redattori, fu affidato al Bertoni l'incarico di lavarsene le mani. Il quale se la cavava infatti con una paginetta di «ti vedo (cara) e non ti vedo; ma sì, come no?, però, chissà », su bazzecolette culminanti nell'insinuazione che ancidere significhi anche altre cose che uccidere. Le quali altre cose (asserite nell'Enciclopedia di quel benemerito Scartazzini che, l'italiano, non era insomma obbligato a saperlo più che tanto) contraddirebbero addirittura a Dante, nel commento al sonetto VII della Vita Nova; ma se una il Bertoni ne avesse saputa di suo - e si fosse degnato di dircela ecco ci sarebbe stato, nella sua eiaculazioncella, almeno un protozoo, meritevole di...microscopio. Certo, non insospettata, la cosa, all'umile (ma non poi tanto) sottoscritto. Il quale, un quindici anni fa, sospettando che nelle antiche nostre rime il futuro endecasillabo fosse (e, nella poesia popolare, rimanesse) un variabilissimo verso doppio, or tetra-esatonico ed or esa-tetratonico - variabile perciò dalle 10 sillabe alle 14 - e normallizzato non già da una metrica, ma da un pausato ritmo musicale entro cui fosse adagiabile - ne ricercai le prove in un po' tutti i relativi codici più antichi; e ve le trovai. Ma che notai strani ritorni di forme o formule da convenzione segreta: da così dicibile gergo massonico (1913), stranamente in anticipo. A fianco dei miei estratti ritmicometrici, notai persino, talvolta, qualche interrogativo in tal senso; ma credetti la cosa una ristretta singolarità eccezionale, nè sospettai possibile ritrovarne la chiave. Sapevo il gran concetto in cui eran stati tenuti - come savi quelli che i nostri professori ci avevan ridotti a letterati; ma contro l'esautorazione non protestava neanche il mio cuore: ciò che di loro interessava anche me, era proprio il lor esser anche stati dei talvolta genialissimi perdigiorno; in armoniose fanfaluche, talvolta anche elevate. - Il più delle volte, però... - Ma, nella stragrande maggioranza, ahimè... - Come mai tanta gente s'era sobbarcata a tramandarci anche tante così a occhio e croce scempiaggini? E la chiave - o la principal chiave - doveva ecco invece ritrovarla il Valli: i pretesi perdigiorno erano, anche in rima, dei combattenti; e, anche le scempiaggini, erano invece documenti strategici. Salute ai sedentari poltroni, che àn potuto non restarne commossi: alle femminette in brache e barbe più o meno tremu1e, che se ne son sentite montar le bizze negli evirati precordii; ma, da personcine posate, non à nno osato portarle in pubblico; un universitario, che a Firenze - sì, dico! - ai suoi (sperabilmente inobbedienti) pupilli, proibisce lettura e discussioni del libro; ma insomma, forse questo l'unico, disgustoso, mucillaginoso caso del genere; dell'universitario ò anzi dimenticato, e non voglio certo più chiedere, il nome. O che d'altronde a Firenze (à già pensato il Filologo) c'è forze, neanche, Università ? (2) VALLI LUIGI, Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d'Amore»; Roma, Biblioteca di Filosofia e Scienza, n° 10, pagg. 454, in 4°, 1928. (3) Senza far torto a nessuno - e sì per informazioni che impressioni mie - mi sia lecito

menzionare, honoris causa, il Mazzoni, il Cesareo, il Panzini, l'Orvieto, il Bruers, e una maggioranza grande fra i più valenti dei giovani. *** Ma che gran porta spalancata oramai, e che nessuno chiuderà più; grande porta oltre cui balzare - sperabilmente, in folla - i futuri studiosi, sopratutto italiani, dietro a una letteraria iniziativa finalmente italiana. Tutti quegli antichi canzonieri, da ripubblicare: scrupolosamente rispettandone anche i ritmi, e nelle redazioni più antiche. Tutti quegli aggruppamenti da studiarsi ex novo, non tanto come di rime, quanto come d'intenzioni (4).Tanti oscuri da metter in luce come uomini di fede e di azione che per un'idea lottavano - e bene o male a rimare s'industriavano poichè questo era il convenuto mezzo di darsi notizie, ammonimenti, incoraggiamenti - e anche lavate di capo - senza rischiar troppo da presso la scomunica o il rogo. E un'epoca eroica scopriranno, naturalmente, gli studiosi; poi un'epoca di rilassamento, di formulario, d'inflazione, di moda; e riprese, ridecadimenti, risurrezioni, scomparse: come in ogni umano movimento di anime. Tutte intese, le alte gerarchie ecclesiastiche, - alla salvaguardia dei lor privilegi, delle loro agiatezze, dei loro ozi, sì raramente studiosi. Tutto chiuso, il Monachismo, nell'isolamento suo splendido, e generalmente grasso, e spesso spesso scostumato: vecchio e durevole bersaglio a tutta la novellistica neolatina, ed, episodicamente, anglosassone. Scarso e inascoltato il basso clero, povero e ignaro quanto le sue pecorelle. E perfino esiliatosi adesso il Papa, là in Avignone: nè maggiormente curante dell'italico giardino in convulsione, di quanto occorra a che un pseudo-romano imperatore non vi si stabilisca. Dunque proprio morta-impietrita la Chiesa? Dunque ancora e ancora vacante, nella presenza del Figliuol di Dio, il saggio di Pietro? Ma poichè invece immortale è la Chiesa, dov'è dunque mai tra gli uomini, la occulta Ecclesia vivente? E poichè il Seggio non deve possibilmente vacare più a lungo, chi dunque vi insedierà un successore legittimo? E chi, nell'Italia contro sè stessa armata da città a città , da quartiere a quartiere - da torre a torre, o da palagio a palagio - rimetterà pace e unità ? - L'Aquila riporrà sull'altare la Croce, si era già detto il Valli che si fosse detto Dante (5); e questo, in sostanza, ridice egli qui che si fossero detto i più illustri fra i Fedeli d'Amore. Romano Giure, per la cristiana Speranza. Quindi, serrata di alcuni spiriti eletti, intorno a quanti, di quel Giure, rivestissero almeno, ancora, una vistosa ed armata parvenza. Gruppo, perciò, di ufficialmente eretici, perchè, il papato visibile, lo credevano ormai nulla più che adulterio. Non si vede, anzi, donde la legittima imperiale autorità avrebbe tratto il legittimo insediabile, se non dal senso della legittima Chiesa: quella stessa, cioè, dei Fedeli d'Amore. Ne avrebbe fatto parte, per caso, qualche dignitario ecclesiastico? Ai tempi del Petrarca, certamente sì: un cardinale Colonna; e si estendeva tale Chiesa, quanta ne abbracciarono i petrarcheschi viaggi, dalle bighellone apparenze ai petrarchisti carissime. Non parrebbe, invece, ai tempi di Dante; nè a Dante poteva risultare (e infatti poi, a dir vero...) niuno più adatto di sè. Sicchè la spiegazione legittima del «Cinquecento Dieci e Cinque = DXV », rischia proprio di esser quella che pareva la più abnorme: «Dantes Xristi Vèrtragus» (Veltro), o, secondo altri, «Vicarius». Spiegazioni ormai antiche, e, in ogni modo, non del Valli, che si è accortamente sempre trattenuto dallo spingersi a coteste conseguenze particolari. D'altronde, nulla di eterodosso, stavolta, e neanche quasi di nuovo, per Dante. Se il suo Arrigo VII fosse davvero riuscito a coronarlo e mitrarlo in terra, come sopra sè - sopra al suo stato di laico - lo aveva fatto San Pietro in cielo, e se fra Roma e Avignone fosser poi corse scomuniche - e il definitivo trionfo storico fosse rimasto a Roma - un diverso capitolo esteriore, ecco tutto, avrebbe scritto quella ecclesiastica Historia che ne conosce ben altri. (4) Cfr. EGIDI FRANCESCO, in La Scuola Superiore, Anno 111, 3-4; pagg. 48-52, in fine. E segnaliamolo doverosamente, questo filologo - uno - che non è stato "al ver timido amico"; non à avuto paura di compromettere la sua serietà . (5) L'allegoria di Dante, Secondo il Pascoli; Bologna Zanichelli, 1922 - Il segreto della Croce e

dell'Aquila; idem, idem, - La chiave della Divina Commedia; idem, 1926. - Note sul segreto dantesco...; in Giorn. dant., I serie, XXVI, 4; II, XXVII, 1; III, XXXIII, 3; IV, XXIX, 4. - Per la Croce e l'Aquila; in Logos, 1924; e in qualche Lectura Dantis. *** Ma eran tutti di questo parere, i Fedeli d'Amore? Osò niun altro di quei laici, sinchè laico rimase - e del solo Folchetto ricordo un'ecclesiastica assunzione, se pur non fu conversione - pensare altrettanto per sè? E come mai il Cavalcanti, iniziatore di Dante, abbandonò a un certo punto la partita, e i due amicissimi divennero, in sostanza, nemici? E, quella parola iniziatore, quanta estensione aveva di significati concreti? quanto profondamento nella tradizione iniziatica? Un cui costante cardine in Occidente - dalla alchimia egizio-greca alla arabo-europea - si è che tre siano le umane sostanze psichiche: la lunare-sensitiva, la mercuriale-razionale, la solare-angelica. Obnubilata e traviata la seconda, dalla prima; avviluppata e generalmente dimenticata la terza, da entrambe le altre. E iniziazione era ammissione a pratiche di liberazione della minore e della maggior prigionieria. Tritemiano scioglimento dell'uno in tre, a ricomposizione del tre in un nuovo uno, dove il predominio sia ormai dell'angelico: del meno remoto della Deità stessa suprema. Se al di sotto si faccia entrare in còmputo il corpo fisico, e se, al disopra, una universal Quintessenza; o se anzi si faccia dell'anima lunare e della mercuriale un'unica psiche, chiaro risulterà con quanto varie, e apparentemente contraddittorie numerazioni, abbian potuto gli Alchimisti complicare un mistero abbastanza semplice. Ma se, venendo a noi, mi faccio, di tutti cotesti Fedeli citati dal Valli, a ristudiare pazientemente il linguaggio, non trovo sicuri riflessi di ciò, fuorchè appunto nel Cavalcanti (p. 34 e 224). Cosa m'avien, quand'i' le son presente, ch'i' no la posso a lo 'ntelletto dire: Veder mi par da la sua labbia uscire una sì bella donna, che la mente comprender no la può: chè 'mmantenente ne nasce un' altra di bellezza nova; da la qual, par ch' una stella si muova, e dica: «La salute tua è apparita ». Si cerchino pure - di questi «versi strani» quant'altri mai - interpretazioni le più varie possibili; la più immediatamente adesiva sarà ormai questa sola: che dal corpo fisico si sprigiona l'anima lunare, e da questa la mercuriale: da cui eromperà ultima l'angelica stella cavalcà ntea, molto analoga all' «angelica farfalla» di Dante. E moltissimi invero i riflessi di carattere iniziatico, rintracciabili anche nel sommo nostro Vate: specialmente nel suo Fiore (6), nella Vita Nova, nel Convivio e in qualcuna delle Epistolae, nonchè magari delle Eclogae. Però nessuna sicura allusione, mai, a qualcuno di quei caratteristici fenomeni concreti, inconfondibilmente saltanti agli occhi, dove siano anche rarissimi e inattesi, come per esempio nel Don Chisciotte. O, meglio, uno di essi, sì, anche in Dante: ma proprio nel Fiore, e poi mai più: e riguardante una cosa subito nota ad ogni primo avviato ai tentativi della Grande Opera. Poi stranissimo, sì, anche il fatto del non esserci quasi stucco nella pitagorica Basilica di Porta Maggiore (7), che non sia commentabile con qualche verso della Divina Comedia; stupefacentissima la coincidenza che quasi al centro di questa stia un dantesco ratto alla Ganimede come, nel bel mezzo del central soffitto di quella, si è dianzi, di quel ratto, riscoperto lo stucco. Ma insomma, qui e quasi ovunque, non altro che riflessi dottrinali: evidentemente attinti da buona fonte, ma non mai intarsiati d'una qualche concretezza di personali esperienze; simbologie, molte; realtà specifiche, quasi mai nulla. Temperamento enormemente passionale, finì forse a sgomentarsi perfino lui, degli anche sconcertanti fenomeni, a cui dovette probabilissimamente dar luogo lo sprigionamento dell'anima lunare, e dei quali potrebb'esser riverbero la men castigata parte del Fiore. Spirito orgogliosissimo, forse più ancora s'impazientì e irritò d'un troppo lungo durare d'alternative incessanti; e riputò più savio il rinnegare la Beatrice sua prima, per la filosofica Donna Gentile. E quando a Beatrice tornò, se la era rifoggiata a suo modo: la aveva

ortodossissimamente teologizzata e cattolicizzata, facendo parte per sè stesso anche in ciò; e fece indubbiamente cosa personalmente bellissima. Però? Però, ecco: Guardaci ben! Ben sem, ben sem Beatrice. Stranissimo verso, che mai più gli si sarebbe neanche affacciato alla mente per quegli istanti divini, se qualche dubbio su quella reale identità , non fosse, talvolta, andata turbando anche lui. Odiosa, poi, quasi stupidamente, la paternale che subito ei si fa rifilare da Lei, se non gli fosse premuto di giustificarsi e riautenticarsi presso terzi, che non tutti gli vollero ancor credere, nonostante tutto. Sin dove gli credettero il Boccaccio e il Petrarca? Sui quali due, i non molti accenni del Valli sono quasi più impressionanti che gran parte di tutto il resto; ma ben altro rimane ancora a scavare da entrambi: specialmente dal Filòcolo e dal Bucolicon del primo, nonchè dal Secretum e dalle Epistolae del secondo. Fra quelli che intanto a Dante non vollero credere, fu proprio quell'Ascolano che - rinascituro Bruno? - preferì giungere, per la Donna sua, al papato del Rogo. Per lui (p. 257), nè Dante divinizzò mai il suo corpo (mai lo rese albergo e strumento di liberata anima angelica), nè mai fu in Paradiso con quella sua Beatrice; fu, sì giù in inferno e in purgatorio; ma, fondando li soi pedi - en basso centro, là lo condusse - la sua fede poca, e so ch'a noi - non fe' mai ritorno. Bellìssima cosa, che un inferno e un purgatorio iniziatici li abbia percorsi anche un Dante; bruttissima, che, proprio il paradiso, si riducesse per fede poca a cercarselo altrove. Ma, se così è, cosa farci? Nulla da vantarsene più del giusto, e nulla da rammaricarsene più del dovere; verità da indagarsi con precisa freddezza obiettiva, senza preconcetti di sorta. E, senza preconcetti di sorta, dimostratissima riesce la risollevata e innovata tesi che tutti in genere i Fedeli d'Amore fossero dunque una segreta fratellanza filosofico-religioso-politica: a basi certamente mistiche, non però sempre nè ovunque iniziatiche. Era semplicemente la Tradizione Iniziatica, ad attingere, anche tra loro, i più promettenti per acceso cuore, saldi nervi e mentale equilibrio. Chi avrebbe mai detto, che, dinanzi al proteiforme Guardiano della Soglia, indietreggerebbe un Dante, dove il Cavalcanti era invece passato? Ma neanche questi precisamenti interessano ancora il Valli. I cui rammodamenti del movimento, alla mistica persiana, non mi sembrano a proposito, che per le esteriorità di dettaglio. Ma neanche strettamente a proposito mi sembrano i raccostamenti che un dotto storico ecclesiastico avrebbe piuttosto voluti, con Gioachino da Fiore. Fiore, sì, infatti, anche lui; e, «di spirito profetico dotato». Ma sembra che, per quei Gioachimiti, fosse il monaco puro e semplice a dover prendere una sia pur ascetica - ma completa, assoluta, esclusiva - direzione dell'Umanità , in tutti quanti i poteri: dal papale all'imperiale, e dal dottrinale all'economico. Non bastano dunque coincidenze di qualche terminologia, e nemmeno comunanze di qualche generico programma a cui accenneremo da ultimo. I Fedeli d'Amore erano, credo, tutti un po' troppo gai, per sognarsi una universale malinconia di quel genere, tra le accese lor rose e i variopinti lor fiori, i lor verdi lauri ed i freschi lor mirti: magari selvaggi talvolta, ma non lungi, mai - non solo in Poliziani, ma neanche in Marsilii Ficini - da chiare acque e da misteriali fontane. E il più personale, e più meritorio sforzo filologico, del Valli? Quello di un ottimo metodo statistico induttivo: cercare quale senso, per certe singole ritornanti parole soddisfacesse non in questo o quel passo, ma in tutto un blocco di estratti dagli autori più vari. E, per esempio, à così trovato che se per Amore di Madonna s'intenda quello della Sapienza Santa, tutto ciò che pareva sì spesso metaforico e artificioso, freddo ed enfatico, diventa appropriato e naturale, caldo e commosso. Ovvio, d'altronde, che Amore e Madonna significassero anche, talvolta, la stessa segreta fratellanza, o locale o totale. Che, oltre alla morte di errore e peccato con la meretrice chiesa dirigente, ci fosse in quelle rime una morte mistica: quella che dagli antichi Misteri passò anche in Paolo (8) e in Agostino, e via via in altri ed in altri, sino a Riccardo da San Vìttore: quella che è rinascita in excessu mentis, e principio d'una superior vita; morte di sensitiva e razional Rachele, per apparizione d'un'angelica Beatrice intuitivi-unitiva; niuna meraviglia più, se

Dante non ne voglia parlare (Vita Nova, XXVIII) anche perchè «converrebbe essere, me, laudatore di me medesimo ». Che le Donne aventi intelletto d'Amore non erano, dunque, che gli stessi occulti condiscepoli della Sapienza Santa; non consta infatti che le vere e proprie donne di allora, avessero, generalmente, maggior intelletto d'Amore, che poco prima o poco dopo di quei lor strani Fedeli. E così via, per tante e tante interpretazioni novelle, sino a quella che il piangere significasse costrizione a simulare; che saluto alludesse a promozione di grado; che pietra sasso, marmo fosse la Chiesa, promiscuamente or corrotta ed or santa, e spesso imprigionante e imprigionata come in sepolcro; donde una luce quasi sempre convincente sulle tante rime or petrose, or antipetrose, ed ora insieme l'una cosa con l'altra. (6) D'accordo col Valli - e con egregi assai - in cotesta attribuzione, non posso consentire con loro per la cronologia. Se non giovanilissima, fu certo, il Fiore. primissima opera un po' vasta della futura gran Musa; opera di quando il futuro creatore d'una lingua italiana, si era semplicemente assunta, anche lui, l'impresa di nobilitare con forme d'una lingua illustre,- col Francese - il suo dialetto fiorentino: come, per il suo dialetto bolognese, aveva fatto il Guinizelli. Ma, per constatar questo, bisogna tenersi al testo del Fiore così com'è nel manoscritto; e, per il Guinizelli, alle redazioni più antiche: non già alle man mano sempre più toscanizzate e italianizzate, dagli stessi successori immediati. (7) Cfr. CARCOPINO JEROME, La basilique pythagoricienne de la Porte-Majeure; Paris, 1926. Il Carcopino non à però pensato a richiami danteschi. (8) Cfr. testo e rimandi di GUIGNEBERT CH. Quelques remarques sur... le Mystère paulinien (Rev. d'hist. et de philos. relig.; sept-oct. 1928). Ma «rèalisant la vèritè dans d'Amour » (p. 424) [- ??? (IV, IS) -] sono proprio espressioni da prendersi in tutta la forza della felicissima traduzione novella, se si voglia penetrare anche il recondito legame fra Sapienza e amore in qualsiasi genere di Fedeli d'Amore. Fra i rimandi. cfr. specialmente MACCHIORO VITTORIO, Orfismo e Paolinismo; Montevarchi, Cultura Moderna, 1922; pp. 311. *** Quali le resistenze ancor possibili? Quelle dei competenti prosuntuosi e pigri: i quali si credono sapientissimi essi soli, e suppongono possibile che un autore di nuova tesi non sia passato egli stesso traverso alle difficoltà, ai dubbi, alle obiezioni che subito si presentano a chiunque, su non controllate genericità , o in isolati dettagli. E poi quelle dei prima di tutto esteti - e cioè poi sensuali: quali più, quali meno - che mal sopportano dedicate ad astrazioni, certe soavi musiche, come "Tanto gentile"; o certe calde scene, come "Guido, vorrei"; o certe realistiche irruenze, come "Così nel mio parlar" (pp. 351-55). E infatti anch'io avrei talvolta voluto escludere dall'allegoricità, divampamenti e fremenze d'una potenza siffatta. Ma chi vieta, anzitutto, che nell'allegoria complessiva siano introdotti episodici riverberi di vita reale e realistica? Non si fanno, anche oggi, opere di tutta invenzione, materiate, qua e là, di vita vissuta e osservata? E che ne sa la moderna mentalità nostra - scientifica e scettica - delle gamme di carità e di odio, in medievali passioni di tutt'insieme fede-pensiero-politica? O chi negherebbe, a chi realissimo vedrà un suo volo su Gerione, la capacità di rappresentarsi nemica viva e presente, una odiatissirna casta minacemente incombente ovunque e da ovunque? - E poi, non vedete? «lo mi vendicherei di più di mille ». O chi era mai dunque «questa scherana micidiale e latra »? questa traditrice di più che mille amanti? una qualche vecchia sgualdrina? E infatti poi, sì: meretrice e omicida, man mano più e più, da ormai un millennio: da «Ahi, Costantin». E alle osservazioni, almeno io, non seppi più che rispondere. Neanche al Valli è invece riuscito di avere «elementi sufficienti » ad «una soluzione defmitiva », per quell'enigma forte delle "Tre

donne intorno al cor" (395-65). Quante volte stancatavi sopra, anch'io, la mia multisiziente curiosità ! E, altrettante volte, riconosciuto infrangibile quel superbo divieto: Canzone, a' panni tuoi non ponga uom mano. E mano dovrebbe infatti, adesso adesso, avercela posta un qualche mio eccelso buon Angelo, poichè semplice, aderentissima, unica, è la spiegazione che mi è qui balenata inattesa. La eccelsa fra le eccelse canzoni dantesche, non è che una più sublime trasposizione della favola dei Tre anelli. Sorella a quella ormai onnipresente Sapienza che è madre ad Amore, Drittura è cioè la Legge Mosaica, direttamente data da Dio. Su mistico fonte di mistico Nilo, generò essa poi la Religione Cristiana, che procreò, per riflesso, la Metafisica Musulmana. à’ specificato così, come ai tempi di Dante lo avrebbe fatto ogni uomo di pensiero; e non mi opporrò nè consentirò a chi, specificando più ancora, volesse pensare ai tre contenuti esoterici: precabalistico, gnostico, alchimico. Chè tali cose - indistintamente tutte - non mi sembrano che transitorie maschere della Tradizione Iniziatica, essenzialmente esperienza dapprima e conoscenza dappoi; poi, ancora una volta, non credo che, neanche al puro e semplice unionismo esteriore, si sia mantenuto fedele il maturo Dante definitivissimo. Ma, che l'identificazione di Drittura sia indubbia, risulta anche da quello strano contegno di Amore: più interessantesi, persino lui, alle due altre, e, con lei, pietoso, sì, ma anche fello, da quando «per la rotta gonna » (la più sbrindellata lei fra le tre, e la più lontana, per tante ragioni, dalla terza), la vide in parte che il tacere è bello. Fellonerìa che pareva insomma un po' trivialuccia, e che diventa semplicemente obiettiva e realistica, in quanto allusiva alla circoncisione. E, identificata l'una, seguono spontaneamente le altre. E poichè i tre grandi aggregati spirituali - che, figli d'uno stesso Dio, avrebber dovuto esser uno - erano invece nientemeno che ostili, non era davvero possibile più di così, udire al mondo, ... nel parlar divino, consolarsi e dolersi. così alti dispersi. Ed eran dunque le tre chiese, che anche i Fedeli d'Amore speravano conciliabili in unica sapienzial Chiesa d'Amore. Non forse, alla corte del lor Federico, se ne eran date superior convegno le tre civiltà ? E anche frate Elia vi si era un dì rifugiato. Onde, qui sì, potevano - in questo programma pratico - veramente allearsi e confluire i più vari indirizzi: a tendenze sia eretiche che ortodosse, a programmi sì ascetici che attivi, a riti tanto greci quanto latini, a organizzazioni vuoi monacali o vuoi laiche, e, forse primi fra tutti, i francescani in genere e i gioachimiti in ispecie - donde, più addietro, un inciso non previsto nella mia prima stesura -; ma, quasi al centro di tutti non tanto per intima vita specifica, quanto per episodico programma di occasionale beneficità anche, sì, la Tradizione Iniziatica. Niente bisogno di giungere al Pico, al Reuklin, al Kunrath; basta già allora, per tutti, Raimondo Lullo - cotesto infaticabile e immarcescibile atleta di tante e sì varie battaglie - il quale, proprio in quegli anni e per quella unione (9), percorreva e moveva terre e mari; ma non riusciva a smovere nè un papa nè un altro nè ancora un altro, sinchè, per il suo unicattolico sogno, trovava, ottantatreenne, lo sfidato e risfidato martirio. Tutte cose, mi pare, che definitivamente troncano la testa al toro, se pur qualche vèrtebra cervicale potesse ancora resistere, in cotesto sfiancatello toro della opposizione antivalliana. Sfiancato che non fosse, pessime ausiliarie sarebbero alla battaglia, certe iniziatiche recensioni come quella, fresca fresca, di Voile d'Isis. Nella quale, sùbito Renè Guènon riconosce al volume del Valli «une documentation formidable» (109), ma, non meno subito, al Valli rimprovera «de n'avoir pas la mentalitè initiatique qui convient » (110). Cosa per cui, tanti errori avrebbe il Valli commessi: - 1° non essersi accorto che il guenoniano Esotèrisme de Dante (io non l'ò letto ancora) à una portata «proprement initiatique» (111); - 2° aver creduto il Rossetti appartenente a quei Rosa-Croce che erano invece assai prima spariti dal mondo... occidentale; proprio così: «du monde occidental » (111). Come se gli aurei Anelli Iniziatici non fasciassero

ormai più tutta quanta la Terra, magari allargandosi a tutto il cosmo planetario-solare: per chi, anche così, se ne contenti; - 3° non aver capito i veri significati di tradizionale (per quella che fra noi è oggi la tradizionale interpretazione dantesca), nè di cuore in genere e di cuor gentile in specie (110-11); - 4° aver creduto autori autorevoli un Mead, un Saunier, un Taxil (così in fascio) e aver citato di seconda mano un segreto Recueil non potuto citare di prima (111-12); 5° aver, in conclusione, mescolato «l' èsotèrique et l' exotèrique» (112), confuso i punti di vista initiatique e mystique, e assimilato le cose iniziatiche «à une doctrine religieuse» (113). Fortunatamente il Guènon passa subito ad asserire che «une tradition vraiment initiatique ne peut pas etre hètèrodoxe». Consolantissimo evento. Il Guènon si riconferma, cioè, di quei tali rispettabilissimi - occultisti spiccatamente francesi, che non contenti di accaparrarsi un vero iniziatismo propio, fabbricano anche un vero ortodossismo agli ortodossi, per poi trionfalmente concluderne le ortodossie di cui sopra. Ed è inutile perseguire l'egregio critico su queste vie, dietro ad appunti, appuntucci e appunterelli, fatti con pur evidenti intenzioni di simpatia. Il Valli non à bisogno che glie lo dica io, di non lasciarsi impressionare da coteste lezioncelle importune. Continui, in una seconda edizione, cioè che gli è benissimo riuscito nella prima. Riduca magari, ancor più, la pur già discreta e sempre dignitosa polemica, e poi faccia pur sempre e soltanto opera di critico puro, di storico puro, di puro esegeta. Fin dove arrivassero gl'intenti eretici, e donde venissero le riconnessioni iniziatiche, le son cose che debbono sbocciare, man mano, da sè. E quando un K, che fra altre iniziali di medaglia voleva probabilissimamente dire Katholicus, glie lo si voglia far leggere Kadosch (119), si riservi pure il diritto di chiedere, non dico il diploma originale, ma una qualsiasi ragione che elimini gli anacronismi. Il che non vuole affatto dire che il Guènon non sia un iniziato e magari un Adepto ancora una confusione rimproverata (112) - ma ch'egli potrebbe semplicemente far a meno di cogliere ogni occasione per riasserire che, iniziato, egli lo è, ma che gli altri occidentali in genere, e certi suoi nemici in ispecie - a scanso di equivoci, non mi consta affatto che mi siano punto amici - hè, poveretti! quelli, no, non lo sono; sicchè, «pour une fois» o una volta tanto, contro cotesti odiati nèognostiques, perfino «la critique (quella profana) a raison» (117, nota). Non si potrebbe, tra noi fuori-soglia, sulla soglia, a mezza soglia, smetterla una buona volta di guardarsi in cagnesco? e credere, invece, che anche nel mondo iniziatico ci sia posto per tutte le buone volontà ? che tutte le strade conducono proverbialmente qui a Roma? - Roma e Amor, sì (113-14), ma anche (Vergilius) Maro, e anche Orma (10) -? E badare ognuno, per conto proprio, a fare quei tanti passi innanzi che non guastano mai - nè mai sono troppi - pur nessuno. E agli altri, augurare che magari ci sorpassino - e così pur fosse che molti ci sorpassassero per il gran meglio di loro, e di tutti. Con sollievo si può quindi ripensare a un'analoga recensione ormai vecchia e con indirizzi magari affini, ma di tutt'altro tono (11). Italiana, questa, e rispecchiante una iniziatica cultura amplissima, occidentalissima, e senza toni maggiori su noterelle minori. Basata talvolta su quei dottrinali raffronti a cui mi duole di non poter dare altrettanta importanza, ma anche insistente, più spesso, su utili dettagli, quasi sempre documentabili. (9) Cfr. Dr. LUCIEN - GRAUX, Le Docteur llluminè; Paris, Fayard, 1927; un ben informato e complessivamente assai cauto lavoro, (10) Un ORMA in cui son certo che "O" non vuoi dire nè Occidente nè Oriente - nè grande nè piccolo - ma per la cui "R" ò un vago sospetto di riferibilità a quei Rosa-Croce che il Guènon crede rifugiati in ...oriente. (11) PIETRO NEGRI, Il linguaggio segreto..; nella rivista romana UR, anno II (1928), fasc. 3-4, pp. 71-80.

4) A cura di P. Negri

Luigi Valli e il Gruppo di Ur Luigi Valli fu un attento lettore della rivista Ur. Nel I vol. della sua opera principale "Il Linguaggio Segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore", cap. 9, cita ad es. il saggio "Un codice alchemico italiano" di Pietro Negri (Ur I/9). Il saggio che qui riportiamo, intitolato "Testimonianze di Studiosi delle Tradizioni", si trova invece nel II vol. della medesima opera. In esso, oltre agli interventi sulla sua opera di Pietro Negri, Ercole Quadrelli e Renè Guenon, sono considerati anche quelli di Antonio Bruers e Sebastiano Arturo Luciani. Antonio Bruers (Bologna 1887-Roma 1957), segretario di Gabriele d'Annunzio, ricoprì le cariche di vicecancelliere dell'Accademia d'Italia e poi dell'Accademia dei Lincei. Fu redattore capo dal 1908 e poi direttore (1931-1939) della rivista di ricerca psichica "Luce e Ombra", ove conobbe, tra gli altri, Emilio Servadio. Oltre a molte opere su D'Annunzio e sulla letteratura italiana e straniera, scrisse opere su Vico, Croce, Beethoven, Mozart, Vivaldi. Si interessò in particolare a Tommaso Campanella: è infatti il curatore dell'opera "Del senso delle cose e della magia", Laterza 1925 e autore dei saggi "Per il monumento a Tommaso Campanella in Stilo" Roma S.A.P.I. 1922 e "Roma nel pensiero di Tommaso Campanella", Istituto di studi romani 1940. Frequentò Ercole Quadrelli. Fece parte del Gruppo dei Romanisti, una vera comunità di "Vestali" della memoria dell'Urbe, che ne ravviva il fuoco dal 1940 a tutt'oggi. Tra le altre iniziative, è consuetudine che durante la cerimonia che si svolge il 21 Aprile in Campidoglio per la celebrazione del Natale di Roma, ricorra la presentazione al Sindaco delle prima copia dell'annuario la "Strenna dei Romanisti", un volume, ogni anno nuovo, di scritti su Roma, relativi alla sua storia, alla sua arte, ai suoi personaggi. Rispondendo a Vittorio Fincati (messaggio n° 190 di questo forum), diremo che è a questo "Natale", che cade nel segno dell'ariete, e non al Natale a noi abituale, che Ekatlos si riferisce nel saggio apparso nel 1929 su Krur. Sebastiano Arturo Luciani (Acquaviva 1884-1959), figlio del fisico Michele Luciani, visse soprattutto a Roma, si occupò di arte, letteratura, filosofia, scrivendo alcune centinaia tra libri e articoli pubblicati in quotidiani e riviste. E' probabilmente da considerarsi il primo critico italiano del cinema. Fu tra i firmatari di uno dei manifesti del futurismo "Le sintesi visive della musica" (1924). Esperto musicologo suscitò particolare interesse con la sua nota "Una nuova interpretazione del fenomeno degli armonici" del 1913, «nella quale per la prima volta la assonanza è considerata come base naturale di tutta l 'armonia e della tecnica musicale antica e moderna» (A. De Angelis). Studiò e praticò la falconeria, producendo scritti come "Dante falconiere", "Il trattato di falconeria dell 'imperatore Federico II", "La caccia col falcone". Scrisse su Dante Alighieri anche "Leggere Dante" e "Saggi sulla Divina Commedia".

4a) LUIGI

VALLI

TESTIMONIANZE DI STUDIOSI DELLE TRADIZIONI Molte altre testimonianze mi sono venute naturalmente da coloro che, pur occupandosi di letteratura, non hanno disprezzato sistematicamente, come si usa nelle scuole, gli strati più profondi del pensiero che molte volte la letteratura nasconde. Pongo primo tra questi Antonio Bruers (Dolce stil nuovo, Il Lavoro d'Italia, 30 dicembre 1927).

Egli è tra coloro che hanno dato alla mia tesi l'appoggio di una approvazione molto calda e molto autorevole. Dirò di più, egli ricorda nel suo articolo di avere augurato dopo la pubblicazione del mio libro « Il segreto della Croce e dell'Aquila nella Divina Commedia » che io approfondissi le opere rossettiane che egli, a differenza della enorme maggioranza dei nostri letterati, aveva lette. Devo in realtà a lui l'essermi accostato al Rossetti e mi è caro riconfermargli qui la mia gratitudine per il suo prezioso consiglio. Il Bruers espone un dubbio sulla eccessività della mia tesi simbolica e scrive: «Il Valli, afferrato e quasi rapito dalla sua mirabile scoperta, tenderebbe ad escludere, in una misura che mi sembra eccessiva, i valori poetici dei Fedeli d'Amore., valori che a mio parere, si identificano nelle figurazioni femminili e naturali ». Riconosco volentieri che il problema del quanto di donna vera o meglio di vere impressioni amorose e terrene sia rimasto nella poesia dei Fedeli d'Amore, è problema non facile a risolversi con precisione assoluta. Secondo me (come secondo ìl Perez) quando Dante nella Vita Nuova dice che i poeti devono rimare su materia amorosa, questa "materia" è contrapposta alla "forma" nel senso scolastico. La materia amorosa (cioè i ricordi, le impressioni, le parole dell'amore) costituivano, diremmo noi, il materiale al quale l'idea iniziatica dava forma, col quale cioè costruiva la vera poesia. Ora io non ho mai negato (Il Linguaggio Segreto, pag. 417 e seg.) che questa gente sia stata innamorata, il che vuol dire che la materia amorosa l'abbia tratta da esperienza diretta e personale oltre che da ricordi letterari e da imitazione di altri. Ma quando era esperienza personale e quando ricordo letterario e imitazione? Difficile dirlo ed è cosa da sentire caso per caso. E certo che Dante nel suo sonetto «Guido vorrei» esprimeva un'idea segreta (come dimostrano la risposta di Guido e il momento in cui i sonetti sono scambiati) ma è ugualmente certo che l'idea gli è venuta da un vero sospiro che deve aver fatto un giorno sognando una passeggiata in barca con amici e donne gentili, come, per qnanto abbia adombrato il saluto rituale (cantato dagli altri poeti del dolce sti1 nuovo e da essi soli) nel sonetto «Tanto gentile », il sonetto è nato, come io ho già scritto, da un' impressione vera di adorazione per una bella donna che passava pel via tra l'ammirazione commossa di tutti. Io non escludo dunque la presenza di donne vere e non escludo che in qualche caso si sia avuto lo spunto da ispirazioni realistiche immediate, impressioni d'amore che poi la convenzione mistica o il pensiero segreto informò di sè. Ma non solo l'ispirazione diretta subì l'elaborazione del pensiero convenzionale, ma per la maggior parte dei casi la presenza di questa ispirazione diretta non appare menomamente e l'evidente convenzionalismo testimonia che si elaboravano elementi letterari. Un altro dei pochi che non arrivano completamente nuovi a questo argomento è S. A. Luciani (Dolce stil nuovo, Tribuna, 22 febbraio 1928). La conoscenza che egli ha dei precedenti gli fa trovare naturalmente la mia tesi molto ovvia. Dopo riassunte le mie idee egli scrive: "Da quanto si è appena accennato si può facilmente argomentare quale importanza oltre che letteraria, filosofica e storica abbia il 'Linguaggio' del Valli, libro geniale e suggestivo, che può essere l'inizio di una nuova e più esatta valutazione di tutta l'arte del Medio Evo". Egli fa due riserve, l'una sulla possibilità . che la Pietra sia una donna reale (ma di questo non dà nessun argomento), l'altra sulla possibilità che ci possano essere poesie originariamente erotiche, ridotte poi a significato mistico, cosa che io sono lontano dal negare in modo assoluto: per il famoso sonetto «Tanto gentile » la mia tesi è molto simile alla sua. Importante e lucidissima mi sembra la formula riassuntiva del Luciani , secondo la quale «si tratta qui come in tutta l'arte medioevale della incarnazione di una idea, non della idealizzazione di una realtà». Egli conclude accennando ad eventuali attenuazioni della mia tesi: «Il Valli ha dato in realtà un colpo di timone troppo brusco alla nave della critica ufficiale, perchè essa non dovesse sbandarsi. àˆ cosa' inevitabile tuttavia che questa nave muti rotta una buona volta ». Pietro Negri ('Ur' Marzo 1928) è un profondo conoscitore di tradizioni. Considera il mio libro come uno spezzone di gelatina. gettato in mezzo alle solite idee della scuola e mi indica, come argomentazioni nuove, alcuni ricollegamenti abbastanza importanti per quanto poco noti, di fatti e di idee del mondo iniziatico. Certo è importantissimo, a proposito del ricollegamento posto dal Rossetti tra l'amor platonico del Medioevo e gli antichi nùsteri, il fatto che la Rosa sia anche nel libro di edificazione iniziatica di Apuleio quella che deve salvare l'uomo imbestiato e che sia appunto la mèta di tutta la sua avventurosa ricerca, la quale rappresenta indiscutibilmente la

rigenerazione spirituale coronata dalla iniziazione. Il Negri ritiene con me che il Rossetti sia stato condotto alla sua interpretazione dalla conoscenza di antiche tradizioni. «Il Mistero dell'amor platolonico» del Rossetti non è dedicato come gli par di ricordare a un B. L. che sarebbe Bulwer Lytton, erudito di esolerismo, bensì a un S... K. . . Questi è Seymour Kirkup che era però anche lui un erudito di esoterlsmo (I). Ritengo notevolmente importanti anche i molti raffronti che egli fa del simbolismo dei Fedeli d'Amore con quello che era diffuso in altri movimenti iniziatici e specialmente nell'alchimia. Tornerò io stesso sulla importanza del raffronto tra la figura del 'rebis' alchemico da lui riesumata e la figura «moglier e marito» di Francesco da Barberino. (I) Dall'epistolario ancora inedito del Rossetti si può rilevare che mentre Hookam Freer che aveva dato il danaro per la stampa del 'Mistero dell'Amor Platonico' ne chiese poi la distruzione, il Rossetti chiedeva al Seymour Kirkup che evitasse questo disastro. Per alcuni anni il libro fu tenuto in casa Rossetti e non diffuso. Morti il Rossetti e i due suoi amici, altri persuase la vedova Rossetti a distruggerlo. Ercole Quadrelli (Progresso Religioso, marzo 1929) non solo ha accolto con grande fervore la mia interpretazione, ma ha vivacemente polemizzato contro qualcuno dei miei oppositori della tradizione scolastica e col Guenon al quale rimprovera di fabbricare una ortodossia iniziatica artificiosa per suo conto, ma io desidero soprattutto di fissare un emendamento che egli ha proposto a una mia interpretazione e che mi sembra ottimo. Cecco d'Ascoli nel suo sonetto a Dante scrive: Usa cautela e spesso la ricapita, e sappiti mostrar Francesco e Rodico. Va, come ti convien, diritto e clodico. Capiterai, come quei che ben capita. . . E evidente che qui il consiglio è di usare per prudenza un linguaggio o una condotta doppia. Posta la lotta tra i 'franceschi' (di Filippo il Bello) ed i Templari avevo immaginato che quel Rodico potesse alludere a Rodi invece della vicina Cipro, sede dei Templari. Il Quadrelli mi fa osservare che Rodico potrebbe benissimo ricollegarsi invece. a 'ròdon' (Rosa) e quindi significare semplicemente 'seguace della Rosa'. L'interpretazione è molto più chiara e più ragionevole della mia e merita senz'altro di sostituirla. R. Guenon, studioso ben noto delle tradizioni iniziatiche, ha dedicato al mio libro un lungo articolo nella rivista Le Voile d'Isis (fèvrier 1929). Egli è l'autore del libretto 'L'esoterismo di dante' (Paris 1925). E' naturale che egli consenta con me perchè da lungo tempo le tradizioni iniziatiche avevano rivendicato a sè Dante e i Fedeli d'Amore, io anzi ho espresso il dubbio che il Rossetti, che ebbe le prime idee sul contenuto segreto dell'opera di Dante a Malta, dove era entrato in rapporto con un gruppo di Rosa-Croce, abbia avuto da loro notizia di questi contenuti segreti che poi ricercò più o meno disordinatamente per via critica. Il Guenon trova che la mia argomentazione è basata su testi precisi che ne costituiscono tutto il valore e riconoscendo la solidità del mio metodo e l'importanza della mia dimostrazione, mi espone cortesemente alcune obbiezioni e alcune conferme. Le obbiezioni si concretano in questo, che io parlo un linguaggio inesatto quando mi riferisco alle tradizioni iniziatiche perchè non le conosco. E' verissimo. Non ho mai avuto contatti con tradizioni iniziatiche di nessun genere. La mia formazione spirituale e mentale è nettamente critica e finchè il Pascoli e il Rossetti non mi hanno aperto gli occhi, la tradizione scolastica era riuscita a impormi le sue interpretazioni. Ma debbo dichiarare che io insisto nel tenermi al mio metodo critico e storico. La mia frase 'far la storia per la storia' che al Guenon dispiace, è semplicemente l'insegna di un metodo critico positivo e il fatto che i grandi spiriti del Medioevo dei quali io mi occupo agissero diversamente, come egli mi ricorda, non mi tange appunto perchè essi erano uomini del Medioevo e io sono un uomo del secolo xx. Può anche darsi, come egli dice, che il Rossetti non possa essere stato Rosa-Croce "perchè i veri Rosa-Croce erano spariti dal mondo occidentale assai prima ", ma ognuno comprende che

questi problemi interni delle tradizioni iniziatiche, chi siano i Rosa-Croce veri e chi i falsi, rappresentano per me problemi secondari e quasi insolubili. Riconosco perfettamente che alla chiarificazione di tutto il problema che io ho posto sarà utilissimo il concorso di coloro che seguono quelle tradizioni; però se io prima di citare uno o un altro storico di tradizioni occulte dovessi aspettare da non so quale autorità la lista degli storici accettati e non accettati, ortodossi e non orlodossi, credo che il mio lavoro non potrebbe mai andare avanti. So di certo che c'è della gente che si dà il titolo di Rosa-Croce anche oggi. Anche chi sa pochissimo degli ambienti iniziatici sa che in essi ogni gruppo si attribuisce il titolo di ortodosso e di erede legittimo vero ed unico dell'antichissima tradizione. Ecco perchè non ci troviamo d'accordo sull'uso della stessa parola ortodosso, che per me naturalmente significa la dottrina della Chiesa di Roma e per il Guenon significa altra cosa. Sono quelle "mèprises que les profanes manquent rarement de commettre" come egli dice ed io riconosco che, essendo profano, parlo evidentemente un linguaggio diverso dal suo; ma dove non posso consentire è là dov'egli dice che io faccio una confusione tra punto di vista mistico, e punto di vista 'iniziatico'. Non so da quali mie parole possa essere sorto questo equivoco. La confusione sarebbe stata certo grave, perchè tutti sanno quanto misticismo niente affatto iniziatico abbia pervaso il Cristianesimo e il Cattolicismo. Ma il Guenon accenna a molti fatti che possono affiancare la mia argomentazione, alcuni dei quali non privi d'importanza, per esempio quello che non soltanto nel titolo di Rosa Mystica ma anche sotto altri aspetti la Vergine è stata avvicinata alla figura della Sapienza e con essa confusa. Altra nota importante: a proposito della terza novella del Boccaccio nella quale Melchissedec afferma con la parabola dei tre anelli che tra Giudaismo, Cristianesimo e Islamismo 'nessuno conosce quale sia la vera fede', egli mi dice che secondo la tradizione iniziatica Melchissedec sarebbe appunto il rappresentante della tradizione unica nascosta sotto tutte queste forme esteriori. Mi ricorda, a proposito dei probabili rapporti fra i Fedeli d'Amore e i Templari, che il grido di guerra dei Templari era 'Vive Dieu Saint Amour!'. Naturalmente non posso che consentire col Guenon quando egli accenna ai moltissimi punti della mia trattazione che avrebbero bisogno di ben altro sviluppo. Concludo. L'incontro delle mie constatazioni con quelle di qualche tradizione iniziatica è incontro di due ordini di pensieri che vengono da vie diverse, con diversi intenti, con diversissima valutazione forse dei fatti storici che si hanno sott'occhio. Mi compiaccio delle concordanze sui fatti, mi spiego le discrepanze sui termini e sui giudizi, sono ben lieto di apprendere dati di fatto nuovi, continuo nel mio metodo e nel mio intento che è puramente storico. Cosi quando il Guenon, accennando anche alla mia scoperta delle simmetrie della Croce e dell' Aquila e a questo venire alla luce del segreto di Dante dopo sei secoli, dice che questo è accaduto "parce qu'il ètait prèvu que le secret devait etre gardè pendant six siècles (le Naros chaldèen)", io per mio conto continuo a credere che la cosa si vada chiarendo oggi soltanto perchè oggi l'abbiamo studiata senza preconcetti, con molto più materiale a disposizione e con buon metodo.

5) Per Una Determinazione Del Significato Anagogico

Tullio Quasimodo: Ritengo che uno dei nodi da sciogliere, riguardo alla dottrina dei Fedeli d'Amore, è decidere a che cosa si riferisca esattamente il significato anagogico e perciò iniziatico delle loro opere. Mi sembra infatti che i vari studiosi, riguardo a questo più alto livello di significato (e perciò non considerando altri significati di livello più basso come ad es. il significato etico-politico), abbiano sostanzialmente suggerito le seguenti soluzioni: a) il linguaggio "amoroso" dei Fedeli d'Amore nasconde delle pratiche esoteriche genericamente

concepite e perciò non necessariamente basate sull'uso iniziatico dell'amore. b) il linguaggio "amoroso" indica proprio l'uso iniziatico dell'amore, ma inteso quale "amor platonico", cioè senza contatto fisico. Per intenderci si tratterebbe di pratiche analoghe a quelle indicate nel primo dei due saggi di Abraxa, dedicati alle "operazioni a due vasi". c) il linguaggio amoroso indica l'uso iniziatico dell'amore richiedente il contatto fisico, come avviene per le pratiche del secondo saggio di Abraxa. d) il linguaggio amoroso ha più significati iniziatici tra quelli citati, ad es. b) e c) o addirittura a), b) e c). EA: Penso non vi sia alcuna difficoltà ad ammettere tutti e tre i significati anagogici suggeriti (cioè la soluzione d=a+b+c). Riguardo al primo, si può notare che la pratica esoterica ha degli aspetti comuni, qualunque sia la metodologia adoperata, aspetti che perciò si ritrovano sempre in qualunque scritto esoterico. Tuttavia la scelta di un linguaggio amoroso come gergo non può essere casuale. Infatti altri linguaggi tradizionalmente usati (e perciò collaudati) nell'esprimere contenuti esoterici erano a disposizione, a es. il linguaggio epico e mitologico. Perciò l'uso del linguaggio amoroso si spiega con la necessità di utilizzare (pena un'eccessiva vaghezza di significato) espressioni non troppo diverse dalla metodologia effettivamente utilizzata. Riguardo a quest'ultima, tutte le tradizioni esoteriche indicano che, dal punto di vista dell'esperienza interiore, non vi è sostanziale differenza tra le pratiche senza o con contatto fisico, così che i testi relativi (non solo quelli dei Fedeli d'Amore) sono applicabili ad entrambe. Tuttavia, dato il periodo storico (dominato dal cattolicesimo exoterico e sessuofobico) e le vicissitudini politiche alle quali furono soggetti diversi rappresentanti di questa corrente (a cominciare da Dante), reputo non facili pratiche sistematiche con contatto fisico e perciò ritengo che siano state prevalenti quelle senza contatto fisico. Frater Petrus: Come mai nonostante i numerosissimi studi su Dante e le molteplici "chiavi della Divina Commedia", proposte da illustri commentatori, la principale opera di Dante rimane ancora, per molti studiosi, un enigma? Il più esoterico tra i grandi commentatori, e cioè Gabriele Rossetti (1), aveva soprattutto come obiettivo di mostrare agli scettici come nell'opera dantesca vi fossero degli evidenti influssi degli ambienti iniziatici. In ciò egli è pienamente riuscito e le conferme venute poi da altri autori, come lo stesso R.Guenon, non aggiungono proprio nulla alle argomentazioni di Rossetti, nè i loro opuscoli sono lontanamente paragonabili alle monumentali opere del Nostro. Questi tuttavia non volle o forse non ebbe tempo di affrontare direttamente il significato più intimo della Commedia. Luigi Valli, dal canto suo, sulle orme di Rossetti, ma anche di Giovanni Pascoli, illustrò sì delle importanti simmetrie, ma più idonee a disvelare i risvolti politico-religiosi dell'opera, che non quelli esoterici propriamente detti. Valli, infatti, pur geniale nelle sue intuizioni e meticoloso nei suoi studi, disponeva più di uno "sguardo" religioso che esoterico. Un autore piuttosto trascurato e che meriterebbe maggiore attenzione è Pietro Magistretti, uno dei primi membri della Società Storica Lombarda, che individuò nei simboli del "Fuoco" e della "Luce" un aspetto essenziale della Commedia, giacchè come egli stesso dice, nella prefazione della sua opera principale (2), "ove si sottraessero alla Divina Commedia la luce e il calore, essa ne morrebbe, per così dire, come l'albero cui fossero tolti tali elementi che l'aria gli trasmette". (1) Gabriele Rossetti [Vasto (Chieti), 28 febbraio 1783 - Londra, 26 aprile 1854] non è da confondersi con il figlio Dante Gabriel Rossetti (Londra 1828 - Birchington 1882) fondatore della Fratellanza Preraffaelita. (2) P. Magistretti, Il Fuoco e La Luce nella Divina Commedia, Milano - Dumolard, 1888. EA: In relazione agli studi sui Fedeli d'Amore, e agli studiosi un po' dimenticati, D. di Mambro , che saluto, mi ha giustamente ricordato il nome di Carlo Vecchione, le cui opere sono citate anche da Gabriele Rossetti. Attualmente una di esse, Della Sapienza Riposta Della Letteratura Antica Seguita Da Dante, Napoli 1850, viene pubblicata gradualmente per capitoli, con una nota introduttiva di G.Lo Monaco, all'indirizzo Internet: http://it.geocities.com/tidelar/Introduzionesr.htm Se Pietro Magistretti ha evidenziato l'importanza de "Il fuoco e la Luce nella Divina Commedia",

Guglielmo Bilancioni ha sottolineato la corrispondente importanza del suono, nel suo studio "A Buon Cantor Buon Citarista", Formiggini, Roma, 1932. Sagittario: Per quanto riguarda in specifico la Divina Commedia, si può anche dire, analogamente a quel che si è già detto in questo forum per l'Apocalisse, che essa sia un libro magico, veicolo di una duplice magia: se si considerano gli episodi narrati come situati nel "tempo sacro" è la descrizione di un itinerario interiore. Se si considerano, invece, situati all'epoca di Dante, allora le apparenti profezie sono altrettanti sortilegi, atti al ripristino di un certo tipo di tradizione. Sortilegi che gli studiosi di Dante, consapevolmente o inconsapevolmente, alimentano e rinnovano, come una vera e propria ininterrotta catena di maghi, operante dall'epoca di Alighieri ad oggi. [n.d.u. : Questo tema è stato approfondito da Sipex nel suo "Quadro Generale della Commedia": vedi, in questo stesso quaderno, la sezione 7.] Quirino_Spqr: Da tutti gli autori, che abbiamo riletto assieme finora, viene semplicemente affermata o confermata l'esistenza di un generico significato anagogico, nelle opere dei Fedeli d'Amore. Il primo autore che abbia fatto un passo oltre è probabilmente J. Evola, che ha collegato il significato anagogico a pratiche inerenti la Metafisica del Sesso. Dalla sua opera omonima, trascrivo il seguente brano. Qualche perplessità mi ha destato la frase "Il significato del nove è di essere la prima potenza del tre; quello dell'ottantuno, è di esserne la potenza perfetta (33)". Penso si tratti di un refuso di stampa e che si possa correggere la frase (eliminando la parentesi) in "Il significato del nove è di essere la prima potenza del tre; quello dell'ottantuno, è di esserne la potenza perfetta".

5a) J. EVOLA Da Metafisica del Sesso: "Sulle esperienze iniziatiche dei FEDELI d'AMORE" “…L'affiorare della donna iniziatica attraverso quella reale è chiaramente esposto in alcune rime di Guido Cavalcanti, il quale sembra essere stato uno dei capi principali dell'organizzazione: “Veder mi pare da le sue labra uscire – una sì bella donna, che la mente – comprender non la può; che ‘nmantinente – ne nasce un'altra di bellezza nuova – da la qual par ch'una stella si muova – e dice: la saluta tua è apparita” Sia Cavalcanti, sia Dante sia Cino da Pistoia dicono essere “per la virtù che li dava la mia immaginazione”, cioè attraverso il fatto evocativo di cui si è parlato, che Amore prende dominio sull'anima del suo fedele. Va poi rilevata l'anfibologia semantica propria ai termini salute e saluto in quasi tutta la poesia dello Stil Novo. Il saluto della misteriosa donna, indicato quale il fine dell'amore, sempre di nuovo è tale da conferire anche la salute a chi lo riceve; esso, cioè, propizia una esperienza e provoca una crisi delle quali può procedere la salute in senso spirituale, per un suo potere che mette alla prova la forza di chi l'ottiene e che spesso perfino la eccede. Dante dice appunto: “Qual soffrire di starla a vedere – diverrà nobil cosa, o si morria – e quando trova alcun degno che sia – di veder lei, quei prova sia virtude;- che gli avvien ciò che dona salute”. Si può riportare allo stesso contesto la visione, nella quale Amore si presenta nei tratti inconsueti, tutt'altro che arcaici e sentimentali, di un Signore di pauroso aspetto. Nelle sue braccia, dice Dante “mi parea di vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in un drappo sanguigno leggermente; la quale io riguardando…conobbi che era la donna della salute, la quale mi aveva il giorno innanzi degnato di salutare”. Attivare attraverso l'amore questa donna vista nuda e dormente, cioè latente – è quella che i testi ermetici chiamano la “nostra Eva occulta” – significa lasciar agire su sé un potere capace di uccidere, di provocare la morte iniziatica. Il tema ricorrente fino alla monotonia in tutta questa letteratura è che all'apparire della donna nella mente il cuore è morto. Al veder la donna e al riceverne il saluto Lapo Gianni dice “Allora mi rafforzai per non cadere – il cor divenne morto, ch'era vivo”. Guido Guinzinelli parla di un saluto

e di uno sguardo mortali e si paragona a colui che “sua morte vide. – Per gli occhi passa, come fa lo tuono, che ferisce per la finestra de la torre, - e ciò che dentro trova, spezza o fende” Amore mette in guardia chi vuole vedere la donna, dicendo “Fuggi, se ‘l perir t'è noia”. In una tale esperienza non si deve dunque temere la morte; una profonda frattura interiore può essere infatti la conseguenza. Una canzone, che forse è dello stesso Cavalcanti, parla di una “passione nuova – tal ch'io rimasi di paura pieno;- ch'a tutte le mie virtù fu posto un freno – subitamente, si ch'io caddi in terra- per una luce che nel cor percosse, e se libro non erra, lo spirito maggior tremò si forte – che parea ben che morte – per lui in questo mondo fosse giunta”. In non diversi termini Dante descrive questa esperienza di folgorazione: al percepire l'improvvisa vicinanza della donna del miracolo, per la forza d'Amore tutti gli spiriti sente distrutti, sussistendo soltanto quelli della vista, ma staccati dagli organi fisici, come in un raptus estatico. Così a Dante sembra di cadere per terra e dice “Io tenni li piedi in quella parte della vita di là dalla quale non si puote ire più per intendimento di tornare”, più oltre si parla di una trasfigurazione; in un altro passo egli torna sul motivo della distruzione operata dall'amore. Peraltro, nel cabbalismo si parlava del mors osculi, della morte data dal bacio, e espressioni analoghe si ritrovano anche fra i poeti del sufismo persiano. Considerando nel loro insieme gli scritti dei Fedeli d'Amore, appare che a produrre codesti effetti talvolta è l'azione diretta della donna (il suo apparire), talaltra una sua azione indiretta: la sua immagine, il suo saluto la sua idea porta Amore dalla potenza all'atto, nei termini di una forza che desta terrore e che uccide iniziaticamente. A tale azione Cavalcanti parla anche di un azione sull' ”intelletto possibile” termine, questo, tolto all'aristotelismo averroista ove esso disegna il voùs, il principio intellettuale nel suo aspetto trascendente che nell'uomo comune esiste appunto al solo titolo di una possibilità. Secondo la via seguita dal vero Fedele d'Amore è dunque mediante la donna-vita che tale possibilità viene ad atto, cioè che si fa realtà nella sua coscienza, trasformandolo. Cavalcanti scrive “Voi che per gli occhi mi passate il core – e destate la mente che dormia”, e aggiunge che amore “prende loco e dimoranza nel possibile intelletto come un subietto”. Guinzelli indica il “core” come sede della “nobiltà” che viene ad atto per effetto della donna. Nello sviluppo dell'esperienza il momento emotivo-traumatico sembra dunque trapassare in un puro intelletto (la “rinascita nella mente”, di cui parla il Corpus Hermeticum). La “nobilitate” di cui a tale riguardo spesso si parla (indicando l'Amore come il “Signore de la nobilitate”), portata ad atto dalla donna nell'estasi che essa provocava, è una perfezione ontologica non priva di relazione con tale risveglio dell'essenza intellettuale; in tutte le cose, dice Dante citando anche Aristotele, la nobilitate è la perfezione della loro natura, e a tale proposito si parla anche di denudamento, si usa di nuovo il simbolismo della nudità: Amore è potenza capace di far uscire lo spirito dal suo “albergo” di farlo volare “nudo, senza scorza”. In genere, il tema ricorrente è una crisi a cui segue il principio di una vita nuova o trasformata, per il che non mancano talvolta espliciti riferimenti al mistero androginico. Il da Barberino fa dire a Amore “Li colpi pe' son di cotal natura, - che qual si crede di quegli esser morto, - allora in vita maggiore si ritrova”. In una tavola egli ordina i gradi dell'esperienza, di cui si tratta, in una specie di gerarchia. In questa illustrazione si vedono delle figure maschili e femminili simmetriche che, come è abbastanza evidente e come il Valli aveva già notato, vanno prese a coppie, a paia. Uomini e donne sono colpiti dai dardi d'Amore, in modo più o meno grave; da principio cadono a terra, ma via via che ci si avvicina a una figura centrale sono in piedi e hanno delle rose, simbolo della rinascita iniziatica. Dopo l'ultima coppia, che reca la didascalia “Da questa morte seguirà vita”, non vi sono più un uomo e una donna separati ma vi è un'unica figura androginica, al disopra della quale Amore, tendendo lui stesso delle rose, spicca il volo su un cavallo bianco. La figura androginica ha una didascalia con le parole “Amore ci hai di due facta una cosa, con superna virtù per maritaggio”. I significati-chiave non potrebbero essere dati in modo più chiaro: dopo la crisi, che anche nei primi gradi ferisce, atterra, uccide, il congiungimento con la donna e la suprema vertù per maritaggio conducono all'androgine (che nell'illustrazione è raffigurato esattamente come il Rebis ermetico), stato di là del quale Amore svilupperà verso l'alto, in un volo o rapimento, in una direzione trascendente, l'esperienza. E in effetti un altro Fedele dell'Amore, Nicolò de' Rossi, trattando dei “gradi e della

virtù del vero amore”, considera come culminazione di essi tutti l'estasi “quale dicitur excessus mentis” (si aggiunge: sicut fuit raptus Paulus), il che vale quando dire l'apertura dello spirito a stati superindividuali e superrazionali dell'essere. In particolare è interessante che Dante riferisca all'azione di Amore anche un vincolamento e soggiogamento dello spirito vitale, cioè della parte naturalistica, o parte yin, dell'essere, alla quale fa esclamare “Ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi”. E' come se per il risveglio di un superiore principio (l'intelletto possibile passato all'atto, la nobilitate – in termini indù: il principio luminoso Shiva) una gerarchia nuova si stabilisce fra i vari poteri dell'essere umano. Nel Convivio pur predominando una interpretazione più allegorico-sapienzale che non anagogica e iniziatica (è alla prima, che Dante dice esplicitamente di arrestarsi), la “miracolosa donna di vertude” è detta destare il “dritto appetito” quello che “disfà e distrugge lo suo contrario”; da lei promana un fuoco “che rompe li vizi innati, cioè connaturali” avendo “potestade in riconseguita natura in coloro che la mirano, ch'è miracolosa cosa”. La salute conseguita attraverso il risveglio e questa nuova situazione interiore delle potenze dell'essere assicura la partecipazione all'immortalità iniziatica. Abbiamo già menzionato l'etimologia convenuta, servendosi della quale un esponente provenzale della stessa corrente, Giacomo di Baisieux, identifica l'amore al “senza morte”, alla distruzione della morte, per cui egli parla degli amanti come di “coloro che non muoiono” e che vivranno “in un altro secolo di gioia e di gloria”. In ogni caso resta ben ferma, nei Fedeli d'Amore, la concezione della donna a cui si è uniti, come del principio possibile di una vita superiore sì che al suo distaccarsi si affaccia nuovamente l'ombra della morte. Cecco d'Ascoli dice appunto “Io sono al terzo cielo trasformato – in questa Donna, ch'io non so chi fui. – Per cui sento ognora più beato. – Di lei forma il mio intelletto, mostrandomi salute agli occhi suoi, - mirando la virtù nel suo cospetto. Dunque io sono Ella: e se da me si sgombra – allor di morte sentiraggio l'ombra. Circa i Fedeli d'Amore concluderemo accennando ancora a due punti. Il primo riguarda il simbolismo numerico. Si sa della parte che il numero tre coi suoi multipli ha sia nell'opera principale di Dante che nella Vita Nova. In questa, è specialmente la prima potenza, o quadrato, del tre, ossia il nove, ad aver risalto. Nel primo incontro la donna ha nove anni (il che, dati gli effetti traumatici prodotti dalla visione di essa, dovrebbe già far escludere l'interpretazione realistica di Beatice come bambinetta di tale età). E' all'ora nona che avviene il saluto, come pure una delle visioni più significative narrate dal poeta. Il nome della donna dice Dante “non soffre di stare in altro numero se non il nove”. Il numero riappare come durata di una certa dolorosa malattia di Dante. Come spiegazione Dante si limita a dire che “lo numero tre è la radice del nove, però che, senza numero altro alcuno, per sé medesimo fa nove”. Quanto al tre, egli, riferendosi alla Trinità cristiana, lo chiama “lo fattore per se medesimo de li miracoli” e conclude dicendo “Questa donna fu accompagnata da questo numero del nove, a dare ad intendere che elle era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade”. Questo è in fondo, un parlare a metà, mentre negli ambienti a cui Dante apparteneva si doveva certamente conoscere un aspetto più preciso e universale del simbolismo del tre e delle sue potenze. Abbiamo giù ricordato come il tre sia il numero dello yang e come esso abbia anche significato ciò che nasce dall'aggiungersi dell'Uno al numero femminile, al Due, per ricondurre, di là da esso, all'unità. Nell'antico Egitto il tre era il numero della folgore, ma anche quello della forza vitale e dell'ente-vita invisibile chiuso dentro il corpo, il kha. Peraltro, allo yang fu anche associato il nove e, infine, l'ottantuno, tanto che quest'ultimo numero ha una parte curiosa, cui accenneremo, perfino in un dettaglio delle tecniche sessuali taoiste. Il significato del nove è di essere la prima potenza del tre; quello dell'ottantuno, è di esserne la potenza perfetta (33). Quest'ultimo numero porta, in un certo modo, di là dalla stessa esperienza della “donna del miracolo” - e non è senza significato il fatto che lo stesso Dante, nel Convivio, ne parli dandolo come l'età di una vita perfetta e compiuta; egli ricorda anche che tale fu l'età di Platone e giunge a dire che il Cristo avrebbe raggiunto tale età se non fosse stato ucciso. Ma questa età simbolica figura anche in altre tradizioni – non diversa età, fra l'altro, fu attribuita a Lao-Tze. Nel complesso, si tratta di cicli di compimenti dell'Uno che ritrova sé stesso attraverso la Diade, il Due, il femminile, sviluppandosi come l'atto, la potenza di sé

stesso fino ad essere identico a questa sua stessa potenza a stabilirsi nella “nobilitade”. Ora, Dante che fa morire Beatrice il giorno 9 del mese di Giugno, nota peraltro che in Siria il giugno è il nono mese e, per ultimo, egli aggiunge che tale morte avvenne quando “lo perfetto numero nove era compiuto”, cioè nell'81 del XIII secolo. Il secondo punto, su cui volevamo dire, riguarda proprio la morte della donna, di Beatrice. Già dal Perez, poi dal Valli, tale morte è stata messa in relazione con quella della Rachele biblica, ricordando come da Agostino e da Riccardo di S. Vittore la morte di Rachele fosse stata assunta a simbolo dell'estasi, dell'excessus mentis. Il Valli pensa che anche nella Vita Nova la morte della donna sia “una figurazione del trascendere della mente sopra se stessa nell'atto della contemplazione pura: mistica rappresentazione della mente che si perde in Dio”. Ma questa interpretazione ci sembra poco adeguata; non solo essa verte sul piano semplicemente mistico, piano che non è quello dei Fedeli d'Amore, ma, secondo noi, inverte addirittura la situazione di cui si tratta. Di certo, la morte della donna contrassegna la fase ultima della esperienza che s'inizia col saluto sui lei, e a tale riguardo nel c. XXVII della "Vita Nuova" si trovano espressioni enigmatiche. Dopo aver riferito della morte di Beatrice, Dante aggiunge le misteriose parole: “Non è convenevole a me trattare di tale evento, perché trattando converrebbe essere me laudatore di me stesso”: quasi che l'evento, la morte di Beatrice, tornasse a sua gloria. L'interpretazione mistica del Valli non calza, perché se si fosse trattato della morte della mente (“l'uccisione del mentale”, del manas, secondo la terminologia yoghica indù) si sarebbe avuto semplicemente a che con uno deglii effetti della donna e d'Amore sull'amante; a tacere che il morire, interpretato come un mistico naufragare, riguarderebbe allora non la donna, bensì il Fedele d'Amore: mentre è detto il contrario, è la donna a morire, a gloria del Fedele d'Amore.. a noi non sembra troppo arrischiato l'idea opposta, cioè che il termine ultimo dell'esperienza sia rappresentato dal superamento della donna nella reintegrazione completamente attuata. E' ciò che nell'ermetismo corrispondente all'”Opera al Rosso” dopo l'”Opera al Bianco” (cui precede l'”Opera al Nero”, la “morte” o “dissoluzione”), ossia una condizione di virilità ristabilita di là dell'apertura estatica; stato finale, questo, per il quale, sempre nell'ermetismo, si parlava talvolta di un uccidere colei da cui era stati uccisi ma altresì “generati” (rigenerati). E, come si è visto, oltre al nove, proprio l'ottantuno Dante fa intervenire per la morte della donna. Verso una tale interpretazione conduce anche un punto che, ci sembra, non è stato mai messo sufficientemente in risalto, ossia che mentre nel misticismo cristiano l'anima fa da femina quale “fidanzata” dello sposo celeste, in tutta questa letteratura, ma altresì nella varietà del simbolismo della donna, precedentemente ricordate nella saga e nel mito, le parti in genere si invertono, perché è il soggetto dell'esperienza ad avere la qualità maschile. Né ci si poteva attendere altro, se i Fedeli d'Amore erano una organizzazione iniziatica e non mistica. Un ultimo dettaglio non privo di significato: con una apparente anomalia Guido Cavalcanti, il quale, come si è detto, deve essere stato uno dei capi di quella organizzazione, afferma che Amore deriva e prende dimora non nel cielo di Venere bensì in quello di Marte – “lo qual da Marte vene e fa dimora”; e Dante, tacitamente, sembra che condividesse tale veduta. E', questo, un punto, di cui a nessuno sfuggirà il valore segnaletico. Ci siamo soffermati alquanto sui Fedeli d'Amore perché con essi si stabilisce in un certo modo un raccordo fra alcuni dei principali motivi da noi messi in rilievo nel corso del presente studio, anche nel campo dell'eros profano. In questo campo, un Knut Hamsun ha potuto parlare, per l'amore, di “un potere di annientare l'uomo e poi di nuovo innalzarlo e segnarlo col suo marchio rovente”. Stendhal riporta le seguenti espressioni per un caso reale del cosiddetto coup-de-forude : “Una forza superiore di cui ho terrore mi ha tolta a me stessa e alla ragione”. Nel sentire l'alito di Lotte, Werther dice: “Credo di precipitare come colpito da un fulmine”. Devesi ritenere che fra i Fedeli d'Amore esperienze consimili, mediate dalla donna, venissero sviluppate e integrate, fuor da tutto ciò che è letteratura e iperbole. Nello loro composizioni lo stesso tema è preciso e ricorrente, così come sono ricorrenti, e stanno ben in evidenza, altri temi da noi sporadicamente raccolti studiando i fenomeni di trascendenza dell'amore profano:

raptus e morte, significato profondo del cuore, trauma nel cuore considerato come luogo occulto (la “segretissima camera del cuore” di Dante) e luogo da purificare (“il cuore gentile”) perché in esso prenderà inizio il mistero folgorante del Tre per effetto della donna-miracolo e del “Segnore di nobilitate”. Concludendo, nel riguardo dei Fedeli d'Amore vanno dunque respinte sia le interpretazioni estetiche e realistiche che vogliono riferire il tutto a donne reali e ad esperienze di un semplice amore umano trasposte, sublimate e iperbolizzate dal poeta, sia le interpretazione puramente simboliche che fanno entrare in giuoco mere astrazioni sapienzali o anche personificazioni di una Gnosi (la “Sapienza Santa”) come potere illuminante, però senza nessuna relazione effettiva con la forza della femminilità. Il secondo è stato il punto di vista seguito dall'esegesi non solo del Valli, ma anche del Guenon e del Reghini; se può essere accettabile nel caso di ambienti mistici di derivazione più o meno neoplatonica (includendo Bruno), e anche della poesia arabo-persiana fiorita tra il IX e il XIV secolo, esso, secondo noi, risulta incompleto nel caso dei Fedeli d'Amore. Se ci si riferisce ad essi, l'alternativa va superata, e come fondo essenziale si deve considerare la possibilità di evocazioni e di contatti a fini iniziatici col principio occulto della femminilità in una regione liminale, immateriale, più in là della quale non vi sono più che le forme della magia sessuale vera e propria come estremo sviluppo delle possibilità dell'eros sul piano non profano. Questo è il dominio che avremo ancora da trattare dopo aver fatto cenno alla terza delle soluzioni elencate all'inizio, a quella delle trasmutazioni ascetiche e yoghiche delle forza del sesso. Ciò a parte, nel complesso di tutto quanto è evocazione e partecipazione possono venire distinte due vie che, rispettivamente, stanno nel segno dei due archetipi femminili fondamentali: Demetra e Durga. La prima via si basa sul principio femminile-materno considerato come scaturigine del sacro, e conduce verso una immortalità, una pace e una luce quasi sulla stessa linea di ciò che nello stesso ambito profano e umano può venire a chi prende rifugio presso la donna materna; in questo contesto il pitagorismo potè riconoscere alla donna una particolare sacrità e si potè parlare perfino della madre iniziatrice. L'orientamento di tale corrente, data qui come un esempio, risultando chiaro dal fatto che la casa di Pitagora, dopo la sua morte, fu trasformata in un sacrario di Demetra. La stessa figura di donna si potenzia nel mito nei termini della Vergine celeste e della Madre divina mediatrice. L'altra via passa invece per Durga, il femminile afrodisiaco abissale, e può essere tanto via di perdizione quanto via di superamento della Madre nel segno di quelli che noi abbiamo chiamato i Grandi Misteri in senso proprio. EA: Soffermiamoci dunque sulla frase del testo evoliano "Il significato del nove è di essere la prima potenza del tre; quello dell'ottantuno, è di esserne la potenza perfetta (33)". Presa in un senso letterale e matematico, la frase contiene due errori: - nove non è la prima potenza del tre, bensì la seconda; la prima potenza è infatti il tre medesimo; - ottantuno non è la terza potenza del tre (pari invece a ventisette) bensì la quarta potenza. Se, come ha proposto Quirino, si togliesse il 33 tra parentesi, permarrebbe pur sempre il primo errore. La frase è tuttavia corretta, se interpretata "ad sensum". Evola intendeva infatti dire: "Il significato del nove è di essere il quadrato del tre; quello dell'ottantuno e di esser, a sua volta, il quadrato del nove." Infatti Seneca, a proposito della perfezione dell'ottantuno, scriveva: "perfectum numerum quem novem novies multiplicata componiunt". Frater Petrus: Credo anch'io che Evola volesse esprimere il fatto che nel nove il tre è stato moltiplicato una sola volta per se stesso, mentre nell'ottantuno è stato moltiplicato tre volte per se stesso. Ha solo utilizzato in modo inesatto il termine potenza. Che la perfezione sia indicata da tre alla quarta (ottantuno), piuttosto che da tre alla terza (ventisette) si ricollega a quanto ha detto Massimo sulla maggior perfezione simboleggiata dal tetraskele rispetto al

triskele. Se infatti poniamo un tre in corrispondenza di ciascun braccio di questi due simboli e poi li moltiplichiamo tra loro, nel caso del triskele il prodotto sarà ventisette , che perciò (dato il significato complessivo del triskele) potrà sì esprimere un certo grado di perfezione, ma che non esce dai limiti della Natura. Nel caso del tetraskele i quattro tre daranno per prodotto ottantuno, che indicherà perciò il sovrannaturale (l'atto perfetto dello Spirito) che si aggiunge alla perfezione naturale. Si tratta, come dice Evola nel seguito del brano proposto da Quirino, del compimento dello Spirito, che nel rapporto con la Natura ritrova sè stesso; ma si ritrova (è bene sottolinearlo) "potenziato". In altri termini, non si tratta di uno svincolarsi dello Spirito dalla Natura, per rientrare semplicemente in sé stesso; tale disidentificazione potendo servire solo in via preliminare. Poi lo Spirito deve, per così dire, "sposare" la Natura (nozze alchimiche) e infine volgersi a dominarla. Il simbolismo occidentale delle "potenze" del Tre (cioè dello Spirito=Uno sommato alla Natura=Due), ha un suo equivalente nella nota frase del Tantrismo shivaita che "lo Spirito (simboleggiato da Shiva) è come un cadavere (shava) senza la sua Potenza (Shakti)". EA: Se si tiene presente quanto già è stato detto, nel Quaderno dedicato alla Porta Magica di Roma, appare chiaro il significato delle potenze del Tre, in relazione all'Opus alchimicum. Nell'uomo comune che, per la sua preponderante dipendenza dalla Natura, può dirsi "Uomo Naturale", il connubio tra Spirito e Natura ha dotato lo Spirito (Sole) di tre corpi di manifestazione nella Natura (Mercurio, Luna e Saturno), che con lo Spirito medesimo costituiscono i "quattro corpi" dell'Ermetismo. Le tre qualità della Natura (Prakriti) e cioè albedo (sattva), rubedo (rajas) e nigredo (tamas) non sono mai isolate, ma sempre mescolate, in varia proporzione: nel Mercurio prevale l'albedo, nella Luna rubedo, nel Saturno nigredo. Si tratta del primo Tre, "base" di tutte le successive eventuali "potenze". Se l'uomo rimane a questo stadio, pur essendo perfetto (trino) in quanto uomo, alla sua morte lo Spirito ritorna in sé stesso, abbandonando i tre corpi di manifestazione, che seguono destini inerenti alle rispettive qualità, così che non permane, nella Natura, alcunchè che possa dirsi (se non con scarsa motivazione e limitatamente al corpo mercuriale) appartenente a quell'individuo. Il primo passo dell'opus consiste nell'assumere il dominio del corpo mercuriale (trasformazione del mercurio in oro). Nel Mercurio predomina albedo, tuttavia in misura diversa nei suoi tre aspetti principali. Nella lunula superiore del simbolo del mercurio (intelletto ricettivo) albedo prevale nettamente. Nel cerchio col punto centrale (Egoità e Mente quale Sensorio comune) rubedo, pur seconda rispetto ad albedo, è in elevata proporzione. Nella croce sottostante (Elementi Elementanti o Elementi Sottili) è nigredo ad essere seconda ad albedo. Il dominio di queste tre mescolanze mercuriali costituisce il secondo Tre, che moltiplicato per il primo (la "base") produce il Nove, simbolo perciò, in tale ambito, del primo e più semplice nucleo di individualità, in grado di sopravvivere alla morte. Nel reincarnarsi o, più in generale, nel trasmigrare, questo nucleo (sole-mercurio) dipenderà ancora dai servigi della Natura, che dovrà fornirgli, tramite le comuni modalità, i corpi lunare e saturnio, ai quali non è ancora in grado di sopperire da solo. Il secondo passo consiste nell'assumere il dominio del corpo lunare (trasformazione dell'argento in oro). Nella Luna predomina rubedo ma, anche in questo caso, in diverse proporzioni, a seconda dei cicli ai quali è sottoposta la vitalità. La Luna crescente è simbolo di fasi, nelle quali albedo cresce progressivamente, pur rimanendo seconda rispetto a rubedo. La Luna calante è simbolo di fasi nelle quali nigredo cresce, pur rimanendo seconda rispetto a rubedo. La Luna Piena e la Luna Nera sono simboli di momenti di "transito" nei cicli della vitalità, nei quali rubedo, che è sempre dominante, inibisce la qualità che stava crescendo, stimolando la ricrescita dell'altra che era in diminuizione. Il dominio della crescita, della diminuizione e del transito degli aspetti vitali antagonisti costituisce il terzo Tre che, moltiplicato per il precedente Nove, produce il Ventisette. Questo secondo grado di realizzazione è ancora "nei limiti della Natura", in quanto il praticante non è ancora capace di darsi da sé un corpo grossolano di manifestazione (ma solo uno "sottile", cioè sole+mercurio+luna), così che, per assumerne uno, deve ancora prenderlo tra quelli prodotti normalmente dalla Natura. Il terzo passo consiste appunto nell'assumere il dominio del corpo saturnio (trasformazione del piombo in oro). In Saturno prevale nigredo, anche qui in diverse proporzioni. A questo livello grossolano, le mescolanze delle tre qualità vengono chiamate, dalla Tradizione, "Umori". In

Occidente gli umori sono chiamati: Flegma, Bile e Sangue; in India sono detti Flegma, Bile e Aria. Aria e Sangue si corrispondono simbolicamente, basti pensare che il secondo è veicolo della prima. I tre umori non vanno confusi con il concetto che ha di essi la medicina profana contemporanea. Per fare un esempio, l' "Aria", simboleggiando tutto ciò che ha natura vibratoria, comprende anche le oscillazioni elettromagnetiche e le trasmissioni nervose. Non possiamo, però, qui soffermarci sulle submodalità di questi umori, ci limiteremo a ricordare che, qui in Occidente, una delle più note è la distinzione tra "bile gialla" e "bile nera". Più importante è osservare che, nel flegma, prevale nettamente nigredo; nella bile, rubedo è seconda a nigredo; nel "sangue-aria", albedo è seconda a nigredo. Il dominio di questi tre Umori costituisce il quarto Tre che, moltiplicato per il precedente Ventisette, produce l'Ottantuno. L'adepto, giunto a questo punto, è "al di là della Natura"; non nel senso che è staccato da essa, ma nel senso che per manifestarsi, in uno qualunque dei suoi "corpi", non è più soggetto agli automatismi della Natura.

6) DANTE E PITAGORA di Paolo Vinassa De Regny

Fabritalp: Volendo approfondire l'uso del simbolismo pitagorico nell'opera di Dante, potrebbe essere utile leggere o rileggere assieme alcuni brani di "Dante e il simbolismo pitagorico" di Paolo Vinassa De Regny, F.lli Melita Editori, Milano, 1988. EA: Benissimo, ti aiuterò nella trascrizione. Si tratta dell'ultima edizione dell'opera: Paolo Vinassa de Regny- Dante e Pitagora - Gioacchino Albano, Milano,1956. Su questo autore segnalo la seguente nota di A. Boni, "Ricordo di Paolo Vinassa De Regny", in «Bollettino Società Geologica Italiana», LXXVII (1958), fasc.1, pp. 237 - 240. Paolo Emilio Vinassa De Regny, nacque a Firenze nel 1871. Studiò Scienze Naturali all'Università di Pisa, allievo del Canavari, fu attratto dallo studio della geologia e paleontologia. Nel 1902 divenne professore straordinario di Mineralogia e Geologia presso la Scuola Superiore Agraria di Perugia; fu poi a Catania dal 1908 al 1911 e a Parma dal 1911 al 1924. Vulcanologo durante l'eruzione dell'Etna del 1910 e volontario negli Alpini durante la prima guerra mondiale, dal 1924 fu a Pavia, alla stessa cattedra che fu dell'abate Antonio Stoppani (1824 - 1891) e di Torquato Taramelli (1845 - 1922), uno dei fondatori della Società Geologica Italiana. De Regny restò a Pavia dal 1941. Fu rettore dell'Ateneo di Pavia, socio dell'Accademia dei Lincei, dell'Accademia d'Italia e di altre importanti associazioni scientifiche; fu anche senatore del Regno. Ma De Regny fu soprattutto un geologo rilevatore, stratigrafo e tettonista. Esercitò la sua attività in Montenegro, in Libia e in Dancalia, regione di cui tracciò una prima carta geologica. Fondamentale la sua opera di paleontologo, tanto da essere richiesta anche all'estero, nello studio della fauna fossile di Timor e del Karakorum, scrisse un manuale di paleontologia (edito da Hoepli) su cui hanno studiato generazioni di studenti; dal 1897 al 1941 diresse, inoltre, la Rivista Italiana di Paleontologia. In campo geologico si dedicò alla geochimica, elaborando una teoria sulle relazioni fra le strutture atomiche e la frequenza e distribuzione degli elementi. E' ricordato dai molti geologi che furono suoi allievi come un grande divulgatore. Morì a Cavi di Lavagna nel 1957.

Estratti da VINASSA DE REGNY PAOLO "Dante e Pitagora"

1. - Il Numero Numeris quos in Scripturis esse sacratissimos et mysteriorum plenissimos dignissime credimus. AGOSTINO - Quæst. in Genesim - I, CIII Il concetto di numero è fondamentale nell'uomo, anche il meno evoluto. L'idea numerica più semplice è quella di avvertire una modificazione nella quantità di oggetti che cadono sotto i nostri sensi. Sembra che anche taluni animali, come certi uccelli in rapporto alla quantità delle uova, abbiano un vago concetto di numero come quantità , qualora questa venga cambiata. Ma esclusiva dell'uomo è la facoltà di contare. Il primo metodo di conteggio si è basato certamente sugli arti, specialmente le mani; cosà si è arrivati al dieci, base del sistema decimale. Se l'uomo avesse avuto sei dita per mano certamente avrebbe prevalso la numerazione duodecimale che, tra parentesi, sarebbe stata assai più comoda. La numerazione duodecimale è rimasta nel concetto di dozzina. Taluni popoli, ad esempio gli Esquimesi, si direbbe abbiano introdotto nel conteggio anche le dita dei piedi, arrivando cosà ad una numerazione vigesimale. Traccia di tale numerazione è rimasta anche nel francese. Ciò che dà un'inutile complicazione nell'espressione di un numero; ad esempio 92 in francese implica una moltiplicazione ed una somma: esso è difatti quatrevingtdouze, cioè: 4x20+12. Quando fu scoperta e introdotta la scrittura, i numeri, che prima erano indicati con semplici segni, vennero poi identificati con lettere alfabetiche; cosà, è ben noto, fecero ad esempio i Romani. Anzi la numerazione romana perdurò sino al secolo XV, benchè, già poco dopo il 1200, il mercante pisano Fibonacci, che fu anche valente matematico, avesse portato dall'Oriente la numerazione indiana, impropriamente detta araba. La scienza del numero difatti, nata forse in Grecia, passò in India e dall'India agli arabi. Questi ebbero anzi grandi matematici e diedero il nome all'algebra, parola la cui derivazione dall'arabo (art. al) è chiarissima. Fu questa numerazione che diede modo di sviluppare in modo straordinario specialmente l'aritmetica. Infatti coi numeri letterali romani perfino le operazioni fondamentali erano di una difficoltà enorme. E' noto un aneddoto relativo ad un mercante olandese del Medio Evo, che voleva far studiare il figlio, e che chiese consiglio ai dotti del tempo. «Se volete che vostro figlio impari l'addizione e la sottrazione - gli fu risposto - potete mandarlo in un'Università germanica; ma se pretendete che sappia fare anche la moltiplicazione e la divisione occorre che lo mandiate in un'Università italiana ». Dal quale aneddoto risulta non solo la stima di cui, nel Medio Evo, godevano le Università italiane, ma anche la grande difficoltà che presentavano le due ultime operazioni, che oggi i nostri bimbi eseguiscono nelle prime classi elementari (1). Nell'antichità dunque l'aritmetica, per noi assai facile, era una scienza alta ed astrusa, tanto che rimase riservata solo ad alcuni ingegni superiori ed in modo speciale alla casta sacerdotale.

Nell'India, che forse fu erede della scienza aritmetica italo-greca, detenevano i misteri del numero i sacerdoti brahmani. Vedremo presto che lo stesso era avvenuto in Egitto. Retaggio dunque spesso esclusivo del sacerdozio, il numero assunse quindi, sino dall'inizio, un significato sacro, divino; ed al numero ed ai suoi simboli venne cosà dato un contenuto mistico. Come si è accennato, i cosiddetti numeri arabi, la cui introduzione in Europa si deve al Fibonacci, tardarono molto ad essere adottati dal pubblico. Ed anche per questo sistema di numerazione perdurò il mistero. Il sistema aritmetico moderno, detto di posizione, si originò per la scoperta, forse di un ignoto indiano, che rese facili tutte le operazioni introducendo il simbolo dello zero. Fu questa una delle più grandi scoperte dell'umanità . Lo zero, che ha vari significati in aritmetica, pel pubblico grosso sta a rappresentare il nulla. E invece non è affatto cosà. Lo zero fu destinato, all'inizio, a segnare un vuoto. Era cioè il segno che indica come sul pallottoliere (uno dei più antichi strumenti di calcolo, usato però anche oggi dai popoli orientali) una determinata fila era vuota. Facciamo un esempio. Se su di un pallottoliere risultavano su cinque file le cifre 8, 3, 5, non si sapeva come scriverle, in modo da dare un concetto della loro posizione. Poteva aversi 83005, oppure 80305 o anche 80035. L'indicazione, mediante una linea o un circoletto delle file vuote del pallottoliere, segnava la posizione in esso delle varie cifre, e quindi il valore diverso del numero ottenuto. Nacque cosà l'aritmetica detta appunto di posizione, per merito della quale le operazioni, che colle lettere numeriche risultavano complicatissime, si resero alla portata di tutti. Questo zero portò, come si è detto, la rivoluzione nell'aritmetica e cosà apparve come qualcosa di miracoloso. Da questo concetto mistico si ebbero una quantità di espressioni rimaste nel linguaggio, e che appunto accennano ad un che di segreto, di misterioso. Gli arabi chiamarono lo zero siphr, che nel latino divenne zephr (da cui zero); per altre lingue "siphr" divenne invece "cifra". Che poi il nuovo sistema di numerazione, che facilitava le operazioni aritmetiche, fosse qualcosa di misterioso si rileva dalle locuzioni derivate da siphr, cioè: in cifra, decifrare ecc., le quali tutte indicano qualcosa di segreto. E questo tanto più che, come si è visto, la numerazione araba fu ostacolata dai misoneisti, dai tradizionalisti e perfino proibita dalla Chiesa. Fu in un Consiglio di Cardinali del 1299 che venne espressamente proibito l'uso delle cifre arabe. Anche l'Arte maggiore dei commercianti di Calimala nello stesso anno emise un analogo provvedimento. Ma è certo che molti mercanti usavano il nuovo sistema in segreto. Queste proibizioni contribuirono ad aumentare il misterioso nel numero. Dante, tradizionalista come tutti i sapienti del suo secolo, benchè già da tempo taluni seguissero la nuova numerazione, forse la ignorava; certo non ne tenne mai conto, mantenendosi costantemente fedele alla numerazione romana. A proposito di questa numerazione occorre una breve digressione. All'inizio quasi certamente le indicazioni numeriche si fecero non con lettere ma con segni. è naturale che il segno uno fosse dato da un tratto più o meno verticale. Dopo l'uno veniva la decina, che si segnava con due tratti incrociati. Anche oggi i contadini analfabeti segnano i sacchi, i barili, in questo modo. Il centinaio era indicato con tre segni angolari e il migliaio con quattro segni a zig-zag. Oltre il migliaio non si andava. I segni quindi erano quelli indicati nella figura 1:

fig. 1

Se osserviamo tali segni si vede chiaramente che l'uno è analogo alla lettera I, il dieci alla X, il cento, arrotondato, alla lettera C ed il mille alla M. Sono dunque quattro le lettere numeriche fondamentali. Ma tutti sanno che esistono anche le lettere V, L e D, per 5, 50 e 500, che sono la

metà di dieci, di cento e di mille. Tali lettere sono pure derivate dai segni precedenti. Difatti, dividendo meccanicamente per mezzo di un tratto orizzontale il segno del dieci, vien fuori una V, che è il dimezzamento della X; e tagliando ugualmente un cento, C, angoloso, vien fuori una L. Tagliando invece verticalmente il segno delle migliaia ne riesce una specie di gancio, che, arrotondato, si può identificare con una D. Risulta dunque che le vere lettere numeriche sono quattro e solamente quattro, poichè le altre sono il dimezzamento meccanico di esse. Ora queste quattro lettere, I, X, C e M, occupano nell'alfabeto una posizione che ha un valore numerico sacro, mistico. La I è la nona lettera dell'alfabeto. E poichè l'uno è, come meglio vedremo, il logos, il numero non-numero ma origine di tutti i numeri, poichè è quello che moltiplicato o diviso per se stesso o elevato a qualsiasi potenza resta sempre uno, è il simbolo di Dio. Molti casi abbiamo che confermano questa idea. Il Valli (2) cita una figura di Francesco da Barberino, che si fa raffigurare inginocchiato davanti ad una lettera iniziale di un suo capitolo, che è appunto una I. E Dante ci dice che: «I si chiamava in terra il Sommo Bene ». E ciò in opposizione a quanto scrisse nel "De Vulgari Eloquentia " ove il nome di Dio è indicato con El. Ma El è l'ebraico Eli, mentre la lingua usata da Adamo è scomparsa. La scelta di I per il nomen Domini si deve al fatto che tale lettera, come si è detto, è anche l'Uno, cioè Dio. Ubertino da Casale afferma che I è giustamente il nomen Domini perchè è la mediana delle vocali e simboleggia quindi il Verbo tra il Padre e lo Spirito. Nè si deve dimenticare che coll'I si forma il Triunus, il III, simbolo, secondo Agostino, del Dio Uno e Trino. Può interessare il fatto che anche Laotseu, 600 anni prima di Cristo, dava grande importanza all'1. La X è la ventunesima lettera dell'alfabeto, cioè tre volte il misterioso sette. Appunto perchè il sette è il mistero, in matematica l'incognita si indicò con x. Il centinaio ha colla C la terza lettera, e finalmente l'ultima, la M, occupa il dodicesimo posto e vedremo quanto il 12 sia numero mistico. Dante queste lettere usava nei suoi computi e ad esse dava somma importanza. Quando si voglia parlare di numerismo dantesco bisogna sempre tener presente la numerazione letterale romana e non la nostra araba, che Dante non conosceva, o che non volle forse conoscere. (1)Se ne può dare un esempio. Se si dovesse moltiplicare 1001 per 288 (cioè in cifre romane MI per CCLXXXVIII) o dividere l'uno per l'altro detti numeri, ci troveremmo davanti ad un problema per noi oggi, se non assolutamente, certo difficilmente solubile. (2)Valli, Il linguaggio segreto dei Fedeli d'Amore. Note aggiunte, pag. 121. 2. - Pitagora e i Pitagorici Una delle più alte manifestazioni filosofico-scientifiche si affermava, seicento anni prima di Cristo, a Crotone per merito di Pitagora. Si impose difatti allora la filosofia del numero-idea, vanto della solare, armonica civiltà mediterranea, italica. Non si trattava pei pitagorici di reconditi e cervellotici significati cabalistici. Fu gloria di Pitagora di fare assurgere quasi a religione il numero. Pitagora, il filosofo scienziato un po' mitico, che i suoi seguaci considerarono un semidio, è celebre per sè e più che altro per la sua scuola, che continuò a lungo dopo la sua morte; e che fu mistica, iniziatica, retta dal giuramento della sacra tetractis, la quaternità . I pitagorici adoravano difatti questa divina tetrade, costituita da 1, 2, 3, 4, la cui somma dava 10. Riporto dal Dantzig (3) la preghiera dei pitagorici alla Tetractis: «Benedici a noi, o numero divino, tu da cui derivano gli dei e gli uomini. O santa, santa Tetrade, tu che contieni la radice, la sorgente dell'eterno flusso della creazione. Il numero divino si inizia coll'unità pura e profonda, e raggiunge il quattro sacro; poi produce la matrice di tutto, quella che tutto comprende, che tutto collega; il primo nato, quello che giammai devia, che non affatica, il sacro dieci, che ha in sè la

chiave di tutte le cose». Oltre alle speculazioni filosofiche sul numero si deve ai pitagorici la fondazione del metodo sperimentale, duemila anni prima di Galileo; e inoltre il concetto di fisica-matematica, l'idea di infinitesimo, il teorema detto appunto di Pitagora, e, nella teoria delle proporzioni, la sezione aurea, base dell'architettura e delle arti figurative sino a Leonardo almeno. Non certo oggi. è un pitagorico, Parmenide, che dimostrò sferica la Terra. E un altro pitagorico, Filolao, insegna che la Terra non è al centro dell'Universo. Aristarco nel 300 a.C. lo segue. Ma questa esatta opinione dei grandi pitagorici viene sommersa dalla dottrina geocentrica di Tolomeo. Occorreranno i genî di Copernico e di Galileo per farla rivivere. Pitagora fu dunque uno scienziato pei suoi tempi veramente sommo, ma fu anche il filosofo che applicò il numero all'Universo. Il numero nel pitagorismo non è una quantità astratta ma una virtù intrinseca ed attiva dell'Uno Supremo, Dio, sorgente dell'armonia universale. Il numero pei pitagorici era perciò l'essenza delle cose, poichè il numero è dovunque. L'Universo esiste in grazia del numero; il Cosmos (nome proposto da Pitagora) non solo è ordine (4) matematico ma è altresà bellezza, armonia, poichè armonia e ordine sono inseparabili. La scuola pitagorica ha portato l'armonia dei suoni anche nei cieli. I pianeti distano, pei pitagorici, dello stesso intervallo proporzionale, che la scuola pitagorica aveva dimostrato sperimentalmente esistere tra le note musicali. Le sfere celesti perciò risuonavano di una perfetta armonia. E all'idea pitagorica accede Dante, il quale appena iniziata la sua salita ai cieli resta attonito non solo per l'enorme luce ma anche per la magica armonia musicale dovuta a Colui che tutto muove. E per tutto il Paradiso si avrà sempre luce, canto, suono, armonia fuori dell'umano. Pitagora non lasciò alcun trattato: difatti la sua scuola si basava solo sull'insegnamento orale agli iniziati. Fu primo Filolao, discepolo di Pitagora, che coi suoi scritti svelò una parte almeno degli insegnamenti del maestro. Filolao afferma che armonia e numero non sopportano nè comportano errori. Si deve a Filolao il concetto di concordia discors, avendo egli asserito che l'armonia è l'unità del multiplo, è l'accordo del discordante, il nostro contrappunto musicale. Lo stesso autore scrive che «tutte le cose che sono a nostra conoscenza hanno un numero; poichè è impossibile che qualsiasi cosa possa esser conosciuta o immaginata senza numero ». Pei pitagorici ogni cosa fisica è decadica, poichè, come dice Teone Smirneo, la decade racchiude in sè pasan füsin; ogni proprietà ed essenza fisica. Ne riparleremo. E Temisto asserisce che i dieci numeri erano eideitikoi, formativi. Secondo Porfirio poi era dovere dell'uomo di combattere sempre l'ametrion, la mancanza di simmetrie nelle cose. La scuola pitagorica ha pure un altro vanto: quello di avere identificato aritmetica e geometria eguagliando l'unità , origine di tutti i numeri, al punto, origine di tutte le figure. Da ciò l'importanza dei primi quattro numeri e corrispondenti punti, per cui si potevano costruire tutte le figure, e la cui somma dava il perfetto dieci. I pitagorici, che avevano trovato sperimentalmente il rapporto dei suoni, trovarono pure che le figure geometriche soggette al tatto ed alla vista erano perfezione di numero. Circolo, sfera e figure poligonali regolari, tutte costruibili con squadra e compasso, erano gli elementi con cui il Dio Supremo aveva costruito armonicamente l'Universo (5). Grandioso è pertanto il concetto dei pitagorici di far significare al numero un'idea. Da essi venne appunto il concetto di numero-idea, concetto che è pure di Platone. Queste concezioni sono la vera grandezza della scuola pitagorica, poichè, come dice lo Chaignet, concepire la proprietà dei numeri è matematica, ma scorgere il rapporto tra numero ed essere è profonda filosofia. Ed un altro ammiratore dei pitagorici, Barthelemy Saint Hilaire (6), chiama gloria della scuola l'idea pitagorica, che la natura fisica si riduca tutta a figure geometriche e queste a numeri, scoprendo

in tutte le armonie della Natura le armonie musicali, i cui rapporti si risolvono con numeri proporzionali. In Italia per lungo tempo non si è data quasi importanza a Pitagora, questo colosso del nostro pensiero mediterraneo, tutti occupati come eravamo a correr dietro ai nebulosi filosofi nordici. Fortunatamente oggi si torna a lui. E ne fanno fede il volume dell'Alessio e più che altro un poderoso studio del Capparelli, di cui è comparso da non molto il primo volume; indicati entrambi nell'elenco bibliografico. Ma torniamo adesso all'argomento che più interessa, quello cioè numerico, relativo alla Tetractis. Dato il concetto pitagorico dell'uno-punto, la tetractis si rappresentava anche con un triangolo perfetto; come indica l'annessa figura 2. Da ogni angolo si sale da 1 a 4; la somma dei punti è 10, numero che tutto comprende.

fig. 2

L'indicazione del numero coi punti è rimasto anche nel nostro linguaggio matematico col termine che noi diciamo quadrato, cubo ecc. Così 3 ² è uguale a 9; ma segnato coi punti risulta precisamente un quadrato, come indica la figura 3. Lo stesso si dica del cubo. Il quadrato però aveva anche un altro nome; era la dünamics, la potenza, nome che è rimasto anche nella nostra nomenclatura aritmetica.

fig. 3

Quanto al valore dei componenti la tetractis, possiamo osservare che l'uno non è un numero; esso è il principio di tutto; en archà pòinton ha in sè tutto ed è pur sempre uno: è la normale immateriale, l'idea, il logos. Ma insieme è anche il punto, origine ed inizio di tutte le figure piane e solide. Nell'Uno e nel Punto è adombrato il Creatore. Dice Severino Boezio ( "Ars geometrica ", pag. 397): Primus autem numerus est binarius; unitas enim... numerus non est, sed fons et origo numerorum. Un verso di Dante (Par. XV, 57) parrebbe banale: esso dice: «raia da l'un, se si conosce, il cinque e il sei ». Sembra un'asserzione senza scopo: ma essa è pitagorica: ogni numero deriva, raggia, dall'uno, se ben si considera, se ben si conosce. Son quasi le parole di Boezio. Ma questa idea è diffusa. E la troviamo anche negli antichi filosofi cinesi, vari secoli prima di Cristo. Per Hoi-nan-tseu l'uno è la radice di tutte le cose; per Wei-kiao esso è la sostanza della ragione; mentre per Lao-tseu è la ragione che produce l'uno. Per molti altri filosofi cinesi l'uno è la monade che tutto produce. Il due è perciò il vero primo numero: da esso sia con la sua somma 2+2, sia colla moltiplicazione 2x2, sia colla sua potenza 2 ² si genera sempre il perfetto 4. Ma contemporaneamente il 2 è da questi generato (4-2=4:2=radice di 4=2). Il due è la lunghezza, è la linea terminata da due punti opposti; esso è perciò l'origine delle antinomie, dei contrari dello stesso tipo: bene e male, caldo e freddo ecc. Il tre è il primo numero dispari (poichè, come si è visto, l'uno non è vero numero). Ma il tre è

anche la più semplice superficie chiusa in un'area, il triangolo coi tre punti ai vertici. Ora il triangolo è l'origine delle figure piane, che tutte possono risolversi in tanti triangoli; in essi abbiamo lunghezza e larghezza. Ed esso è pure la faccia della prima e più semplice figura solida, il tetraedro, connesso al quattro. Il quattro, generato dal due e generatore dello stesso due, è il prodotto di due fattori uguali (2x2) e cioè l'isos isachis; geometricamente ci dà il tetraedro (il tetragono di Dante) con tre punti in un piano e il quarto fuori. Il tetraedro è la figura geometrica più semplice che chiuda lo spazio a tre dimensioni. Esso, formato da quattro triangoli, è l'origine delle figure solide che tutte si possono risolvere in tetraedri. In esso abbiamo le tre dimensioni del nostro mondo fisico: altezza, lunghezza, larghezza. La figura 4 dà un'idea di questi fatti:

fig. 4

La somma dell'uno, del due, del tre e del quattro dà il dieci, la decade perfetta, che comprende l'Universo fisico. Si ha cosà la sacra tetractis su cui giuravano i pitagorici, e che non era il quattro, come alcuni hanno supposto, ma il complesso dei primi quattro numeri, nei quali era compreso il punto, la linea, il triangolo e il tetraedro, che andavano cioè dal punto immateriale sino ai corpi con altezza, larghezza e spessore: pasan füsin. Nel giuramento pitagorico questa perfetta tetractis, che si assommava nella decade, è detta «sorgente dell'inesauribile natura ». E nel commento di Jeroele ai versi aurei (Ed. Carabba, pag. 47) si dice che la «quaternità è la fonte dell'eterno ordine delle cose ». Bisogna poi ricordare che pei pitagorici la decade non era formata da dieci numeri successivi come la nostra decina, ma era la somma dell'unità coi tre numeri fondamentali, ed era essa stessa unità . Ogni numero superiore al dieci era formato da varie decadi a sè stanti; difatti pei pitagorici, come unità di misura, non si andava oltre il dieci, la tetractis. Nel già citato commento di Jeroele (pag. 122) si dice che «l'intervallo finito del numero è la decade...; ma il valore, la virtù della decade è la sua quaternità ». Dante pure accede a questa idea del dieci, poichè dice nel Convivio (2, XIV, 3) dal diece in su non si va se non esso diece alterando (nel senso latino) cogli altri nove e con sè stesso. Ma con questo non è terminato il numerismo pitagorico. Pitagora, difatti, da un suo probabile viaggio in Egitto portò un altro principio geometrico, che è anzi quello che lo ha reso celebre anche al pubblico mediamente cólto. Ed è il noto triangolo rettangolo, che porta il suo nome, e che venne considerato mistico, sacro. Questo triangolo a lati speciali non è però una sua scoperta. Già gli Assiro-babilonesi, duemila anni avanti Cristo, ma specialmente gli Egiziani lo conoscevano. Vi era anzi in Egitto una casta sacerdotale, gli Arpedonapti, addetti all'ufficio di tracciare perpendicolari e contorni geometrici esatti per edifici e proprietà . Dalla storia della matematica sappiamo in qual modo essi riuscirono a tracciare un triangolo esattamente rettangolo. Una corda veniva divisa in dodici parti uguali ed i suoi due capi assicurati ad un piolo. Si poneva poi un secondo piolo in corrispondenza della divisione 3, e quindi un terzo alla divisione 7 in modo che la corda risultasse tesa. Il triangolo cosà formato risultava perfettamente rettangolo. Se Pitagora conosceva, come certamente conosceva, questo procedimento egiziano, sembra però esclusivamente opera sua l'aver notato che i tre numeri consecutivi 3, 4 e 5 dei due cateti e dell'ipotenusa erano i soli che sussistessero appunto cosà consecutivi. Sua è pure la constatazione delle relazione: 3 ²+4 ²= 5 ². Cioè il ben noto teorema detto appunto di Pitagora,

che cioè la somma dell'area dei due quadrati costruiti sui cateti è uguale all'area del quadrato costruito sull'ipotenusa. La dimostrazione geometrica, che mette in figura la relazione numerica, pare sia dovuta ad Euclide. Ora da questa relazione sussiste pure che un triangolo rettangolo, che abbia un lato (cateto) lungo 3 e l'altro cateto lungo 4, ha necessariamente il terzo lato (ipotenusa) lungo 5. Questo triangolo coi lati 3, 4 e 5 è un triangolo speciale, sacro; e Platone lo pose ad emblema della sua Repubblica. Plutarco, pitagorico esso pure (7), dice (De Iside et Osiride) che la Trinità egizia era rappresentata da questo triangolo. Il cateto 4 era la base, Osiride, il cateto verticale, 3, era Iside e l'ipotenuta, 5, Oro (8). In altro passo lo stesso Plutarco chiamò questo triangolo: il più bello di tutti. Sussiste anche il fatto che non esiste altra serie di numeri consecutivi per le lunghezze dei lati di un triangolo rettangolo all'infuori di questa serie 3, 4 e 5. Non possono perciò aversi serie come 4, 5, 6 oppure 5, 6, 7 ecc. (9). Da ciò l'essenza filosofica mistica di questi tre numeri la cui somma 12 è, come il 10 della Tetractis, numero di alta perfezione (10). Per la scoperta di questa relazione dei tre numeri 3, 4, 5 e delle loro proprietà , Pitagora espresse la sua gratitudine alla Divinità , che gli aveva manifestato questa verità straordinaria, sacrificando, secondo Apollodoro, un'ecatombe. Ma poichè Pitagora era vegetariano, la leggenda non regge. Ha quindi maggior valore l'affermazione di Porfirio che il sacrifizio fu simbolico mediante una figura di bue composta da farina di farro. L'influenza pitagorica si rileva anche dalla numerazione latina. Il due è il numerus binarius; il tre il ternarius; poi si ha il quaternarius... il denarius ecc. Ma per l'Uno si ha unitas e non unarius. Ciò che conferma, col documento eminente probatorio della lingua, come l'uno fosse considerato quale entità a sè e diversa dal rimanente dei numeri. I numeri del triangolo sacro hanno un significato non solo nella loro successione e nella loro somma totale, ma anche sommati due a due. Cosà il 3+4 dà 7. Il sette è l'ebdomade, è il numerus virginalis, quello cioè che non è generato e non genera. Non ha madre perchè è numero primo, indivisibile. Non genera, è verginale, perchè, moltiplicato per il numero minore possibile, il 2 dà il 14, che è oltre la decade, è cioè la decade più quattro. La stessa proprietà di non generare ha anche il 6, che moltiplicato per 2 dà 12, oltre la decade; ma il 6 è generato dal 2 e dal 3; non è quindi senza madre e non è cosà misterioso come il 7, che fu sempre, in parecchie religioni, ed anche nella nostra, considerato appunto come misteriale. Sommando il 3 col 5 si ha 8. Ora 8 è il doppio del perfetto 4, è anche il primo numero cubico possibile (2 ³=8); è cioè il primo numero che esprime potenza di potenza. Ma è anche l'unione dell'origine dei numeri, l'uno, col numero vergine, il sette. è pertanto numero sacro e vedremo come lo abbiano adoperato i numeristi cattolici, come Sant'Ambrogio. Sommando finalmente il 4 col 5 si ha il perfetto nove, che è la dinamis, la potenza del già perfetto tre. Abbiamo cosà, da tempi antichissimi, un complesso di numeri di un significato speciale mistico, accolto da numerosi adepti, i quali si sono continuati sino a noi. E posso dire sino a noi, poichè anche il D'Annunzio era talvolta numerista. Lo prova la stesura della Laus Vitæ ove predomina il misterioso sette. Sono difatti 8400 versi (7x1200) distribuiti in 21 (3x7) canti e in 400 strofe ciascuna di 21 versi. Ma torniamo agli antichi. (3)Dantzig, Le nombre. Payot, Paris 1931, pag. 127. (4)Dice Eustachio (Ad Iliad., I, 16): Kosmos gar e taxis: il mondo è ordine. (5)Il fatto che la scuola pitagorica era iniziatica e segreta fece sà che col tempo si ebbero una quantità di sètte, continuatesi poi per secoli, affermatesi anche a Roma, come ne fa fede la Basilica di Prima Porta. Esse terminano poi con gli epigoni frammassoni, seguaci solo formalmente dei numeri mistici, della squadra, del compasso, come pure del grande architetto. Dato il periodo che questo misticismo portava in sè, la Chiesa cattolica è sempre stata contraria

a queste sètte nascoste, di tradizione, non di essenza, pitagorica. Tale opposizione era viva specialmente al tempo dei dicitori in rima, quali erano i «Fedeli d'Amore », di cui faceva parte, ma poi «parte per sè stesso » anche Dante. Sui Fedeli, sulla loro opera, sul loro linguaggio si consulti la magistrale opera del Valli e i recenti e documentati lavori del Ricolfi, pubblicati specialmente nella Biblioteca della Nuova Rivista storica. (6)Phytagore et la phylosophie pytagoricienne, Paris, 1875. (7)Non si potrebbe, anche oggi, da un fisico esprimere una più perfetta definizione della monade, l'elemento fisico elementare costituente, che non quella data dai pitagorici. Questa monade, questo quid integrante è il «punto immateriale posto in una determinata posizione ». Si potrebbe dire senz'altro: il punto situato. E da ciò pure si rileva che fu Pitagora a stabilire la discontinuità della materia. (8)Bisogna ricordare che l'Universo pitagorico, retto dal numero intero, è l'Universo sensibile, quello della vita quotidiana dei nostri sensi, della realtà comune. Le quantità irrazionali, secondo i pitagorici, appartengono al mondo dell'Infinito. (9)Plutarco, Opuscoli morali. Iside e Osiride. Trad. Adriani, VI, 310, Firenze, Piatti, 1821. (10)Boezio segna altri numeri interessanti per questi lati come: 6, 8, 10; 15, 20, 25; ma essi rientrano tutti nell'espressione generale: n3, n4, n5, cioè multipli del 3, 4, 5. è interessane notare che anche in talune chiese si è mantenuto, forse avendone però dimenticato il significato originario, questo numero 12 diviso in 3+4+5. Si suona l'alba con dodici rintocchi, e certe volte separati nei tre numeri sacri. Cosà in Santa Maria sopra Minerva, a Roma, l'alba viene appunto suonata con tre, poi quattro, poi cinque colpi di campana. 3.-Virgilio e i Latini Le linee fondamentali sin qui accennate del pitagorismo son chiare in Platone (11), il cui profondissimo dialogo Timeo ne è tutto permeato. Ma di questo non occorre parlare per non fare inutile sfoggio di erudizione. Ricorderemo tra i pitagorici, come si è già detto, il nome di Plutarco, che, nei suoi opuscoli morali, è prettamente numerista. Tra i latini imbevuti di pitagorismo ricordiamo Cicerone. L'eclettico filosofo fu pitagorico, forse in seguito al suo periodo di governatorato a Tarso; poichè a Tarso confluiva tutto quanto aveva rapporto alla mistica orientale. Furono pitagorici numeristi Ovidio, che mette spesso in evidenza il tre e nei Fasti segnala il dieci e i suoi multipli come fausti per Roma. Fu numerista Apuleio che dice del Sette: Eum numerum præcipue religionibus optissimum divinus ille Pythagoras prodidit. L'idillio di Ausonio verte tutto sul tre e anche Orazio (Odi III; 19) canta: Tribus aut novem miscentur cyathis pocula commodis. E Seneca, a proposito dell'81, scriveva: perfectum numerum quem novem novies multiplicata componiunt. Basterebbe il VI dell'Eneide per rilevare tutto il pitagorismo di Virgilio; ma egli fu anche il più perfetto numerista tra i latini. In modo speciale appare in Virgilio il sette, diviso spesso in tre e quattro. Il terque quaterque beati (Eneide, 1, 94) è ben noto. Ma una espressione analoga si ha anche nelle Georgiche (1, 410) col ter gutture voce aut quater ingeminat, e ancora nell'Eneide (IV, 587) si legge: "Terque quaterque manu pectus percussa ". Questa divisione del 3 e 4 era rimasta anche nel Medio Evo nel Trivio e Quadrivio della cultura. Del numerismo in Virgilio non so che alcuno si sia espressamente occupato, benchè esso sia manifesto. Vi accenno sommariamente. Dodici, numero sacro, sono i libri del poema. Dodici gli avvoltoi visti da Romolo. Nel testo predomina in modo assoluto il 3 coi suoi multipli: tre volte tre, tre volte quattro, tre volte cinque, tre volte dieci, tre volte cento. Il 30 è indicato dal numero dei porcellini che Enea vede là dove sarà costruita Roma. Più raro il quattro, sia come tale, sia quattro più quattro. Ma il numero del mistero, il sette, viene spesso ripetuto, anzi è il primo a comparire nel poema. Sino dal primo libro ci si presentano «sette e sette leggiadre ninfe e belle ». Enea si ricovera coi sette compagni superstiti, combatte cogli avversari delle sette navi e tutti e sette distende a terra. I profughi vanno raminghi, secondo la profezia, per sette anni. Ai funerali di Anchise il serpe, animale simbolico e mistico, per sette volte e con sette giri si avvolge al tumulo. Sette sono i «non domi giovenchi ». Nel nono libro compaiono i sette rami del Nilo; sette e sette sono i Rutuli, capitani egregi. Nel decimo libro troviamo i sette figli di

Forco e sette sono i dardi avvelenati. Poi nel dodicesimo libro il rinforzato scudo è trapassato nei suoi sette doppi. Cosà l'Eneide comincia col sette e si chiude col sette. Ma questa ebdomade torna predominante nella celebre Egloga quarta, su cui tanto si è scritto, e di cui l'opera del Carcopino (12) è forse l'illustrazione migliore. Tale Egloga è un riecheggiamento dell' «Anno grande » della tradizione pitagorica e sibillica. I cristiani interpretarono invece quell'Egloga come canto messianico; per essa Virgilio nel Medio Evo fu considerato profeta. L'Egloga è nettamente ebdomadica nella sua stesura, ed in essa si ha anche la ripartizione in trivio e quadrivio. La bella poesia comincia difatti con tre versi, cui seguono due strofe di sette versi ciascuna, poi un gruppo di altri ventotto (4x7) versi. Vengono poi quattro versi, che coi primi tre (terque quaterque) formano ancora sette e finalmente la poesia si chiude con altre due strofe di sette versi ciascuna. In tutto si hanno cioè 63 versi. Ora il 63 è dato da nove volte sette. Esso è un numero mistico, che aveva un suo aggettivo speciale. Questo aggettivo, perduto però il suo significato numerico mistico, dura anche oggi nella nostra lingua: è l'aggettivo climaterico. Applicato alla vita umana, il 63, anno climaterico (13), era un anno mistico, che occorreva superare per aver lunga vita. Augusto, scrivendo al nipote, si rallegra difatti con sè stesso per aver ormai superato l'anno climaterico. Si vede dunque quanta influenza il pitagorismo avesse nel mondo romano e come Virgilio ne sia stato uno dei principali rappresentanti. Dante riconosce in Virgilio il suo maestro e il suo autore e dice che da lui ha ripreso «lo bello stilo » che gli ha fatto onore. Su questo «bello stilo » si è scritto e discusso con risultati assai meschini. Si può considerare la questione anche sotto il nuovo punto di vista numeristico. L'analogia tra Virgilio e Dante nell'espressione ermetica, numeristica, potrebbe far ritenere che «lo bello stilo » sia da riportare a questo modo di esprimersi. Ma sarebbe un'osservazione forse troppo sottile. Tutti i commentatori si sono lambiccati il cervello per trovar modo di accordare lo stile di Virgilio e quello di Dante, che difficilmente si potrebbe immaginare più diverso, qualora per stile si intenda il modo di esprimersi scrivendo. Chi asserisce, come lo Scartazzini, che Dante con quelle parole voglia alludere alla sua opera Monarchia; chi invece, e sono i più, dopo aver ricordato le parole del De Vulgari Eloquentia, vuole che «lo bello stilo » sia quello tragico, che Dante adoprò nelle sue canzoni. Vediamo per prima cosa quale tra le opere di Dante gli abbia fatto onore, naturalmente prima della Commedia. Mi sembra che il trattato politico Monarchia sia assolutamente da escludere. In ogni caso riterrei piuttosto che si tratti della "Vita nova " con le canzoni, che gli procurarono risposte più che onorevoli e lusinghiere da parte dei dicitori in rima e dei «Fedeli d'Amore », e che anche Bonagiunta ricorda a lode nel Purgatorio. Quindi «lo bello stilo » dantesco che gli ha fatto onore, se si tratta di modo di scrivere, potrebbe essere il suo parlare chiuso, sottile, diciamo pure senz'altro, il suo modo di esprimersi in un linguaggio mistico, numeristico, ermetico. Sebbene il numerismo e il parlare sottile non sia cosà completo e perfetto nelle altre opere dantesche come nella Commedia, pure esso è innegabile nella prosa della Vita nova, che è tutta ispirata, mistica ed ermetica, e anche nelle canzoni, e specialmente in quelle a cui è nato lo «stil novo ». Vediamo ad esempio come siano disposte le composizioni nel misterioso libretto della Vita nova. Si hanno prima dieci sonetti e brevi ballate, poi una canzone, poi altri quattro sonetti, infine una canzone mediana di importantissimo argomento; ad essa seguono, simmetrici, altri quattro sonetti, poi ancora una canzone e finalmente, per terminare, un'altra serie di 10 sonetti o brevi componimenti. Si ha cosà la successione: 10+1+4+1+10, assolutamente simmetrica. E questo nessuno credo vorrà dire che sia un caso. Nè credo possa attribuire a caso che le

visioni della Vita nova sono precisamente sette. Perciò l'ipotesi di riportare l'espressione «bello stilo » al modo di esprimersi ermetico cui abbiamo accennato potrebbe trovare una conferma. Ma non credo affatto che col «bello stilo » Dante abbia voluto alludere solo allo stile letterario. Nella nostra lingua (e anche nella francese) stile è pure modo di vita, modo di comportarsi. Ora Dante seguà, da adulto, uno stile di vita analogo a quello di Virgilio. Onesti, dignitosi, austeri e soprattutto alieni dalla volgarità : schivi di onori, entrambi i poeti riconobbero una sola superiorità politica, quella dell'Impero. Come Virgilio, anche Dante fu tremendamente solo, isolato non tanto nel modo di pensare ma anche in quello di comportarsi. Come Virgilio, anche Dante ebbe altissimo il concetto della moralità della vita. E fu Virgilio che col suo insegnamento, il suo esempio allontanò Dante da certe forme di volgarità , come la tenzone con Forese, e lo portò su di una nuova via, gli fece assumere uno stile più adeguato all'austerità , alla signorilità nella vita. (11) Sulle idee platoniche a questo riguardo è interessante: Robin, La thèorie platonicienne des idèes et des nombres. Paris, Alcan, 1918. (12) Carcopino, Virgile et le mysthère de la IV èclogue. Paris, Artisan du livre, 1930. (13) Vi era pure un altro climaterico di minore importanza, cioè il primo climaterico, il 35, che è dato da 5x7, e che compare anche in Dante. Prima di passare agli scrittori cattolici numeristi ricordiamo cosà di passata che furon pitagorici: Marsilio Ficino e, più ancora, Pico della Mirandola: a lui si deve la definizione dell'unità , come punto infinito di tutti i numeri e completamento di qualsiasi cosa. Anche il Cardinale Cusa (De docta ignorantia, I, 5) asserisce: non potest autem unitas esse numerus; sed est principium omnis numeri. Dicendo Uno Dio (dicono Ambrogio e Tommaso, Summa, I, 30, 3) non si vuole esprimere un valore quantitativo ma un valore assolutamente qualitativo. Furono pitagorici inoltre il Campanella, ferocemente antiaristotelico, e Giordano Bruno, che fu deciso numerista e dimostrò la perfezione della decade, basandosi sulla considerazione che la somma degli estremi successivi dei numeri dava sempre come risultato 10 (9+1=10; 8+2=10 ecc.). Egli anche ricorda la perfezione del sei. Furono dunque pitagorici i neoplatonici ed è naturale essendo stato Platone un pitagorico. Furono pitagorici Galileo, Copernico, Leonardo, ammiratore ed applicatore della «sezione aurea ». E fu Leonardo che scrisse: «La vera opera d'arte risulta dall'accordo di quei certi elementi che formano una divina simmetria ». 4. - I Padri della Chiesa Col mistero del sette è connessa la fondazione dell'Ordine dei Certosini. Narra il Puteus (Vita S. Brunonis, 41) che il santo vescovo di Grenoble Ugo sognò sette stelle che lo conducevano nella deserta landa della Chartreuse. La mattina successiva giungeva Bruno con sei compagni, che gli chiedevano un luogo remoto per fondare il loro Cenobio. Per questa ragione nello stemma dei Certosini sono sette stelle attorno alla Croce e al Globo. Alessandro VIII fece coniare una medaglia con l'effigie di San Bruno e sette stelle. Un numero mistico pitagorico, l'8, cristianamente diventa il numero delle beatitudini, come ce lo prospetta Sant'Ambrogio in questa frase: «Quatuor tantum beatitudines sanctus Lucas dominicas posuit, octo vero sanctus Mathæus... Ille in illis octo mysticum numerum reseravit ». A tutti questi padri, che Dante conosceva benissimo, si deve aggiungere un altro autore ammirato da Dante: e fu Severino Boezio. Si potrebbe anzi asserire che egli avesse ripreso da Boezio un suo profondo convincimento: accordare cioè le due filosofie, quella scolastica aristotelica e quella mistica pitagorica. Boezio difatti nei suoi scritti cerca e trova questo accordo. Ma le preferenze di Boezio nel campo scientifico sono per i pitagorici. Già vedemmo come egli consideri l'unità identicamente ai pitagorici. Per quanto non faccia eccessivo misticismo numerico, pure il suo trattatello di aritmetica è tutto pervaso da un senso generale di armonia, di profondità e di intima essenza del numero, in cui egli sente quasi sempre un senso divino. In un suo trattato (Institutiones arithmeticæ) sono ad esempio frasi come questa: «Omnia quæcumque... natura constructa sunt numerorum videndum ratione formata » (pag. 12); egli afferma poi (pag. 41) che i numeri perfetti hanno idea della virtù, e nel numero trova un che di admirabile

profundissimumque (pag. 52). Il suo trattato sulla Musica è squisitamente pitagorico. Nè poteva essere altrimenti, quando si ricordi che Pitagora e la sua scuola hanno fondato sperimentalmente la scala numerica dei suoni. Tutto ciò che si è scritto sull'acustica e gli intervalli dei suoni sino ai giorni nostri non è che ampliamento e precisazione delle scoperte pitagoriche. Di altri numeri cristiani mistici possiamo citare il XXX, tre volte il perfetto X, il XXXIII che contiene tre volte il perfetto dieci e tre volte il perfetto uno e che altresà simboleggia Cristo-Uomo nei suoi anni di vita mortale cosà accettati dopo l'Opus majus di Bacone. Si hanno poi il C, potenza del perfetto X, ed M dato dal moltiplicare per dieci il numero cento potenza del dieci.L'idea pitagorica del numero, come armonia divina, venne ripresa in pieno dai numeristi cattolici, i quali però modificarono il concetto del numero-idea secondo la credenza ortodossa. Dei Padri della Chiesa il più gran numerista è Agostino (ammiratore di Platone) da cui deriva direttamente il Doctor seraphicus Bonaventura, maestro a Dante di mistica francescana. Il grande per quanto un po' troppo trascurato Bonaventura fu profondo studioso del vescovo ipponate. L'ammirazione sua per Agostino è dimostrata dal fatto che esso si appoggia a lui con grande frequenza. Il Padre Faccin, devoto indagatore della vita del serafico, ha pazientemente contato che egli cita Agostino ben 2.625 volte. Ammiratori delle solari armoniche teorie pitagoriche, questi nostri grandi filosofi cristiani non potevano non essere seguaci del numero come suprema armonia dell'ordine divino. Nè va dimenticato che Agostino arriva a Dio anche per mezzo del numero e dell'armonia. Il primo collegium con regole a tipo cenobiale fu fondato dal grande santo, che volle cosà quasi rinnovare le riunioni pitagoriche. Tanto è imbevuto di pitagorismo Agostino che egli definisce il bello come unità , ordine, armonia. Dice difatti Omnis pulchritudinis forma unitas est. E dà tanta importanza al numero che lo considera l'essenza delle cose. Per Agostino l'essere è essere uno e tutto quanto tende ad essere tende all'ordine, al numero. L'albero è albero in quanto è un albero; l'uomo è uomo in quanto è un uomo. Cito solo qualche passo del grande ipponate tra i più interessanti (14). Nel De libero arbitrio il numero è considerato in tutta la sua eccellenza e son citati anche i salmi che alla perfezione del numero si riferiscono. Cosà (pag. 278) egli afferma l'incorruptibilis numeri veritas. E dal salmo 146 riporta: Sapientiæ conjunctus est numerus. Dal salmo 176 cita il versetto: Circuivi cor meum ut scirem est considerarem et quærerem sapientiam et numerum. Inoltre il capitolo XI del Libro II è tutto in lode della Sapienza e del Numero. Nel De Ordine (II, 146) egli dice ancora: Pulchra numero placent. Ratio sentit nihil aliud sibi placere quam numerus. E continua: «Tutto in natura vuol realizzare il numero e l'unità , che è il numero per eccellenza... Se l'uomo è superiore al bruto è perchè conosce e produce i numeri; perchè l'anima è piena di forme (idee!), cioè di numeri; forma, numero è la stessa cosa. Sopra i numeri sensibili e cangianti ci sono i numeri spirituali, eterni, intelligibili e invariabili, che l'Unità perfetta ed assoluta domina ». E nel De quantitate animæ (pag. 252) mette in evidenza l'eccellenza del punto geometrico; come nell'opuscolo De musica (pag. 133) avverte che tutto l'ordine sta nel numero. A sua volta Bonaventura è eminentemente fedele al concetto mistico numerista; si può dire che non vi sia opera del Serafico che non contenga qualche accenno alla santità del numero. Egli, nello sviluppare i suoi temi d'ordinario, preferisce il numero tre, e lo stesso numero adopra per le divisioni; anche per le gerarchie egli ha sempre una tripartizione e complessivamente ne conta nove. Nel mirabile Itinerarium mentis in Deum (II) egli dice: «Poichè ogni bellezza e diletto non possono sussistere senza proporzione e la proporzione sta principalmente nel numero, occorre che ogni cosa sia secondo numero, e perciò il numero è l'esemplare precipuo dell'animo del Creatore e nelle cose è il principale vestigio per condurle alla sapienza ». Come i pitagorici avevan dato importanza filosofica a certi numeri, cosà anche i numeristi cristiani ne pongono in evidenza altri: ma come è ben naturale, a tali numeri annettono un senso cristiano. Sono cioè quei numeri che Agostino ha chiamato spirituali, eterni, intelligibili e invariabili dominati dall'Unità . Naturalmente l'importanza massima è data all'1 e al 3. Scrive Agostino (De musica, 138, 2): «Ternarius primus est et totus impar ». Ma continua poi più esplicitamente: «Quare in ternario numero quadam esse perfectionem video; quia totus est, habet enim principium, medium et finem ». Dobbiamo ricordare ancora una volta che si tratta di numeri romani, e che quindi il tre si deve scrivere III. Esso ha dunque principio, mezzo e fine tutti uguali tra loro e ciascuno è l'unità . Nel tre è insieme il tre e l'uno; il simbolo della Trinità -Unità è perciò in esso ben manifesto. La decade per Agostino è pure numero perfetto. Egli dice (De musica, pag. 138): «In denario

numero præfinitum est ». Ed è pure perfetto il 12: «Numerus duodenarius magnum continet sacramentum ». Esso difatti, come si è detto, è la somma dei numeri sacri 3+4+5. Il concetto di somma dei numeristi platonici è abbastanza diffuso. Dice Filone d'Alessandria ( "De vita contemplativa ") che il 50 è il più santo e il più naturale dei numeri perchè è la somma delle potenze del triangolo sacro: 3 ²+4 ²+5 ²=50. Dà molta importanza alle potenze dei numeri anche Bonaventura. Tutta la sua opera, come si è detto, è basata sul 3, ma anche sul suo quadrato 9. In modo particolare il Dottor Serafico si occupa del valore dei numeri nel suo Hexaëmeron. Egli dice del 9: «Secundum hunc numerum (il 9) habent illuminationes Trinitatis esse ». (Hexaëmeron, XXI, 1). E subito dopo, per il 10, osserva: «Novenarium completur et perficitur per additionem unitatis ». Il 7 è spesso citato da Bonaventura come il numero del mistero: l'ebdomade è sempre misteriale. Egli riporta da San Gregorio, che: «Septenarius, secundum Gregorium, est numerus universitatis in majori mundo et in minori et in Deo » (Hexaëmeron, XVI, 5). E poco dopo aggiunge: «Septenarius autem magnum mysterium habet ». E conferma e rinforza subito dopo: «Iste numerus... est mysterialis ». Naturalmente hanno valore anche i multipli del 7 (2x7; 5x7). Le potenze, per Bonaventura, sono specialmente quelle del tre. Egli dice infatti (Psalterium David, 88): «Sunt tria, ter tria novem, ter novem vigintiseptem, ter vigintiseptem octuagintaunum » (15). Solo nel Sermo XV del suo Hexaëmeron, dopo aver parlato della perfezione del 12, parla anche della sua dinamis, la sua potenza: 12 ²=144. è interessante notare che anche Confucio diede somma importanza al numero 81, potenza della potenza della potenza del mistico 3. Un numero su cui hanno posto la loro attenzione i cristiani è il sei. Agostino lo considera una perfezione geometrica. Difatti col 6 si forma l'esagono iscritto al circolo e i cui lati sono uguali al raggio. San Beda (Hexaëmeron, II, 1) dice: «Senarium numerum constat esse perfectum, quia primus suis partibus expletur, sexta videlicet, quod est unus, et tertia quæ sunt duo, et dimidia quæ sunt tria. Unum enim et duo et tria faciunt sex ». Bonaventura considera il 6 altamente degno, basandosi al solito sull'autorità di Agostino. Egli dice (Psalterium David, 128): «Tanta est dignitatis huius numeri (senarii) quod, dicit Augustinus, opera perfecta sunt, quæ facta sunt sub senario. Inde dicitur perfectus numerus senarius ». Anche Nicomaco, nella sua Theologia aritmetica, dà al 6 un grande valore. L'idea della perfezione del 6 è rimasta anche nel nostro linguaggio: noi difatti diciamo assestare, mettere in sesto per mettere in ordine; ed anche al compasso diamo il nome di seste. Il sei è dunque un numero mistico, relativo specialmente all'uomo; divenne perciò simbolo della perfezione della vita umana, cioè della giustizia. Tanto questo concetto era diffuso che le città si divisero in sestieri; il Villani difatti nella sua Cronaca (III, 2) dice: «la città ... si resse in sei sestieri siccome numero perfetto». Fuori della vita il numero dell'Uomo perfetto per Agostino è il misterioso 7; difatti il settimo periodo della vita è la morte, grande mistero; e il settimo periodo della storia del mondo è il misterioso sabato eterno. Col mistero del sette è connessa la fondazione dell'Ordine dei Certosini. Narra il Puteus (Vita S. Brunonis, 41) che il santo vescovo di Grenoble Ugo sognò sette stelle che lo conducevano nella deserta landa della Chartreuse. La mattina successiva giungeva Bruno con sei compagni, che gli chiedevano un luogo remoto per fondare il loro Cenobio. Per questa ragione nello stemma dei Certosini sono sette stelle attorno alla Croce e al Globo. Alessandro VIII fece coniare una medaglia con l'effigie di San Bruno e sette stelle. Un numero mistico pitagorico, l'8, cristianamente diventa il numero delle beatitudini, come ce lo prospetta Sant'Ambrogio in questa frase: «Quatuor tantum beatitudines sanctus Lucas dominicas posuit, octo vero sanctus Mathæus... Ille in illis octo mysticum numerum reseravit». A tutti questi padri, che Dante conosceva benissimo, si deve aggiungere un altro autore ammirato da Dante: e fu Severino Boezio. Si potrebbe anzi asserire che egli avesse ripreso da Boezio un suo profondo convincimento: accordare cioè le due filosofie, quella scolastica aristotelica e quella mistica pitagorica. Boezio difatti nei suoi scritti cerca e trova questo accordo. Ma le preferenze di Boezio nel campo scientifico sono per i pitagorici. Già vedemmo come egli consideri l'unità identicamente ai pitagorici. Per quanto non faccia eccessivo misticismo numerico, pure il suo trattatello di aritmetica è tutto pervaso da un senso generale di armonia, di profondità e di intima essenza del numero, in cui egli sente quasi sempre un senso divino. In un suo trattato (Institutiones arithmeticæ) sono ad esempio frasi come questa: «Omnia quæcumque... natura constructa sunt numerorum videndum ratione formata» (pag. 12);

egli afferma poi (pag. 41) che i numeri perfetti hanno idea della virtú, e nel numero trova un che di admirabile profundissimumque (pag. 52). Il suo trattato sulla Musica è squisitamente pitagorico. Né poteva essere altrimenti, quando si ricordi che Pitagora e la sua scuola hanno fondato sperimentalmente la scala numerica dei suoni. Tutto ciò che si è scritto sull'acustica e gli intervalli dei suoni sino ai giorni nostri non è che ampliamento e precisazione delle scoperte pitagoriche. Di altri numeri cristiani mistici possiamo citare il XXX, tre volte il perfetto X, il XXXIII che contiene tre volte il perfetto dieci e tre volte il perfetto uno e che altresí simboleggia Cristo-Uomo nei suoi anni di vita mortale cosí accettati dopo l'Opus majus di Bacone. Si hanno poi il C, potenza del perfetto X, ed M dato dal moltiplicare per dieci il numero cento potenza del dieci. Il numerismo cattolico, dopo Bonaventura, continuò per secoli. è San Bernardino che divide sempre gli argomenti delle sue pratiche secondo i numeri. E più recentemente ne fa fede l'opera del P. Atanasio Kircher, "Arithmologia, sive de abditis numerorum mysteriis " stampata nel 1665, la quale col solo suo titolo indica bene il contenuto mistico. Il Kircher parla dei numeri secondo le idee pitagoriche; riporta poi, si può dire, parola per parola, certe indicazioni di Agostino che però non cita affatto. Anche per l'erudito gesuita la tetractis si trova in tutte le cose. Del III dice che è il numerus triunus; ed anche per lui è misteriale il 7. Dice difatti (pag. 272): «Septenarius numerus arcana continet mysteria ».Si vede dunque che sino quasi all'inizio del 1700 imperavano tuttora, anche nel clero, le idee sulla mistica del numero, modificate però e dirò cosà cristianizzate dai numeristici cattolici medioevali. Su questi autori familiari a Dante, egli si è basato per la mistica dei numeri, che appare in tutte le opere dantesche ma in modo speciale nella Commedia (16). (14) Mi son servito dell'edizione Plantin di Anversa del 1576. Opera D. A. Augustini hippon. episcopi per theologos lovanienses repurgata. (15) A proposito di questo 81 è da notare che Dante (Convivio, 4, XXIV, 6), parlando dei periodi della vita umana, gli dà una grande importanza tutta cristiana: «Io credo, se Cristo non fosse stato crocifisso e fosse vissuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura trapassare, elli sarebbe alli LXXXI anno di mortale corpo in eterno trasmutato ». E questa è una secca smentita a tutti quanti asseriscono che secondo Dante la vita naturale umana sia di 70 anni. (16) Anche il Bossuet (Apocalypse, 14, 4) dice, a proposito dei 144 mila signati (12x12): «Bisogna intendere nei numeri dell'Apocalisse una certa ragione mistica, a cui lo spirito ci vuole attenti ». EA: Il capitolo che ora presentiamo di "Dante e il simbolismo pitagorico" è di fondamentale importanza per capire l'atteggiamento spirituale di Vinassa de Regny. Egli, non senza analogie al Papini successivo alla "conversione", è una sorta di "pitagorico cattolico". Pur cioè riconoscendo che in Dante vi sia un influsso pitagorico, nega che Dante sia un esoterista, giacchè il suo pitagorismo sarebbe perfettamente "ortodosso", essendo accettato e veicolato dagli stessi "Padri" della chiesa. L'atteggiamento di De Regny è sintomatico di quel che avveniva in certi ambienti di Firenze dagli Anni Venti in poi, ma che finì con l'influenzare anche personalità non fiorentine, come ad es. Girolamo Comi e Guido de Giorgio (Vedi in proposito il Quaderno "Papini e il Gruppo di Ur"). 5. - Il Numero in Dante Scopo della Commedia è di giungere o, meglio, di far giungere l'Umanità dalla selva del peccato e del marasma politico sino al Dio cattolico Uno e Trino, nel quale si assomma anche, come vedremo, il supremo quesito aritmetico e geometrico che affannava da secoli l'umanità : la quadratura del circolo. Questa struttura armonica, numeristica, geometrica di tutte le opere di Dante, ma specialmente della Commedia, fu detta, da coloro che poco intesero Dante e i tempi suoi, una cabbala; e con ciò dimostrarono di non conoscere la diversità tra la strampalata cabbala giudaica e la mirabile armonia pitagorica del numero. Chi poi parla di cabbala pitagorica fa una contraddizione in termini.

A dimostrare l'assoluta ignoranza sul valore delle credenze numeristiche nel Medio Evo e in Dante basterebbero le parole (17) del D'Ancona. Dice infatti questo autore: «Dante era ossequiente alla dottrina scientifica dell'età sua, anche nella parte più vacua e superstiziosa... Alla stessa dottrina dei tempi appartengono anche queste fantasticherie del Poeta sul numero nove... Vi è una reminiscenza evidente delle dottrine pitagoriche e neoplatoniche da un lato, delle mistiche e cabalistiche dall'altro, e qualche cosa che giunge a lui per superstizione e volgare tradizione ». Quindi Dante nella Vita nova (e più ancora nella Commedia) aveva per la testa reminiscenze, fantasticherie vacue e superstiziose e tradizioni volgari accolte senza critica. Il Poeta è ben servito da taluni dei suoi più illustri commentatori! Ben diversamente disse il Carducci: «Questa cabala fu il freno dell'arte che fece cosà proporzionata, armonica, direi quasi matematica, l'esecuzione formale dell'immensa epopea ». Il Carducci, toscano, etrusco (gli etruschi erano pitagorici), ha assai meglio intuito e giudicato questa mirabile forma, che, come ad un concetto di perfezione, obbedisce al numero, suprema armonia. Nel precedente capitolo abbiamo veduto come Dante visse in un ambiente ove il misticismo dei numeri, trasmesso da Pitagora sino a Bonaventura, era diffuso tra i laici ed i religiosi; perciò non è lecito parlare di fantasticherie superstiziose nè di tradizioni vacue e volgari. Dante non si limita ad accettare il ben noto tre e il nove che da tutti i commentatori è ammesso; ma molti altri numeri adopra in un determinato significato. Egli parla spesso del modo «sottile » di interpretare i numeri in rapporto alle cose. Nel Convivio (8, V, 5-7), dopo aver parlato della divisione degli Angeli in tre gerarchie e ciascuna in tre ordini, aggiunge: «Ed è potissima ragione de la loro speculazione lo numero in che sono le gerarchie e quello in che sono gli ordini. E poco dopo (7-9) osserva che «la Trinità è in tre Persone e ciascuna Persona si può triplicemente considerare ». E, sempre nel Convivio (XIII, 17), dice: «Li princàpi delle cose naturali son tre... Non solamente tutti insieme ma anche in ciascuno è numero... per che Pittagora poneva li princàpi de le cose naturali lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose esser numero ». E finalmente ricordiamo le osservazioni (Convivio, 2, XIV, 2, 3) sulle stelle della Via Lattea che sono per lui 1022, cioè 2, 20 e 1000 come Dante stesso dice e sulle deduzioni sottili che si possono fare su questo numero, su cui torneremo. Dante è dunque numerista ed anzi segue i numeri pitagorici, resi però sottilmente cristiani dai Padri della Chiesa, da Ambrogio, Agostino e più che altri da Bonaventura: tutti quanti grandi suoi maestri. Dante però non segue tutta la numeristica cristiana. Molti altri numeri mistici cita ad esempio Agostino; ma Dante non li considera, limitandosi a quelli pitagorici cristianizzati. Si disse e si continua a dire che Dante è un tomista. L'affermazione, nel senso di credere che Dante sia un puro scolastico, è inesatta. Egli è anche tomista; ma quando occorre si distacca dall'Aquinate. Basterà , a conferma di questo, ricordare il Purgatorio in cui tutto procede secondo la dottrina francescana e più specialmente bonaventuriana, che è in contrasto con quanto afferma l'Aquinate. Inoltre la scolastica non dà alcuna importanza al misticismo del numero. Nel grande Doctor angelicus difatti la parte mistica numeristica non appare. Invece essa è prevalente in Bonaventura, il Doctor seraphicus. Il Righi, profondo conoscitore di Bonaventura, ripete quanto da tempo aveva detto l'Ozanam. Questi difatti aveva osservato che Bonaventura «convertiva in dottrina ciò che era narrato dall'estasi e dai rapimenti di Francesco ». Il Righi a sua volta dice che l'esegesi di Bonaventura ha carattere prevalentemente mistico: «Negli scritti teologici egli cerca la Verità , ma più che altro inculca la Bontà , fa tutto illuminare dalla Luce divina, tenendosi però sempre stretto alla guida ed al lume della Rivelazione. Da qui la fonte della sua mistica che appare ogni volta che ne capiti l'occasione». Una leggenda ci narra che Tommaso chiese al suo grande amico e antagonista Bonaventura quale fosse la sua biblioteca. E il Serafico rispose mostrandogli il Crocefisso. La leggenda, come tutte quelle francescane, è bella; ed ha una parte di vero, come tutte le leggende. Bonaventura non avrà avuto una sua biblioteca propria, poichè la regola francescana imponeva di non aver proprietà di sorta. Tutto gli veniva dall'amore della Croce; ma Bonaventura aveva però letto tutto quanto si riferiva alla teologia e alla filosofia del suo tempo. Sembra esatta la notizia che egli avesse di propria mano ricopiato tutta la Bibbia e per due volte; le sue letture dei Santi Padri sono certo state complete e numerose. Come già si è detto, Agostino appare l'autore preferito; e tale preferenza è facile a comprendere per la somiglianza dei due grandi nel

loro sentimento. Giustamente Bonaventura poteva accennare al Crocefisso come suo ispiratore. Nel Serafico si ha il mirabile connubio tra la profonda dottrina dogmatica e il calore del misticismo francescano, derivato dall'amore a Dio, alla passione di Gesù, alla Vergine madre. «Mentre (dice il Righi, pag. 84) i commenti al libro delle Sentenze gli meritano uno dei primi posti tra i pensatori cristiani e lo rendono uno dei pràncipi della scolastica », pure giustamente potè Leone XIII, nell'allocuzione al Generale dei Minori dell'11 novembre 1890, dire: «Dopo che ha salito le vette della più alta speculazione parla con tanta perfezione della mistica, che, senza esagerazione, lo si può ritenere uno dei primi maestri di mistica ». Dante fu perciò, più che tomista, bonaventuriano; cioè scolastico e mistico insieme come fu Agostino. Giustamente l'Ozanam dice che accanto al misticismo dell'Ipponate si deve ricercare il suo dogmatismo. Come fu eclettico Agostino, cosà è Dante. Esso pure batte tanto alla porta di Aristotele quanto a quella di Pitagora e di Platone. Non si può però negare a Dante una preferenza pei mistici. A questo proposito si possono rilevare alcuni fatti di un certo interesse. Quando parla di Francesco nel Paradiso lo chiama serafico, mentre Domenico è cherubico. Ora i Serafini, nella gerarchia angelica, sono superiori ai Cherubini. Inoltre di Domenico si parla, sà, nei ben noti canti X e XII del Paradiso; ma esso non viene mai più incontrato da Dante. Nell'Empireo invece ci sono presentati alcuni santi che stanno presso Dio: Dante ne cita solamente tre: «Francesco, Benedetto ed Augustino ». Sono tre mistici: manca Domenico e primo fra tutti è Francesco. Può anche esservi nell'elencazione un'omissione involontaria; ma in Dante nulla è lasciato al caso, e si deve perciò ammettere che la citazione dantesca dei tre santi stia a indicare una preferenza ed una superiorità pei mistici. Inoltre la sola santa di cui si parla, in perifrasi, nella Commedia è Chiara, la mistica sorella di Francesco (18). Si disse che Dante sia stato francescano o almeno abbia voluto rendersi tale in gioventù; i documenti mancano; ma certo è che egli sentà fortemente la mistica francescana. Il suo animo, spesso esacerbato e sdegnoso, non era certo quello mite, semplice, ingenuo, entusiasta di Francesco. La mistica di Dante è perciò quella di Bonaventura, la quale, come sappiamo, è lo sviluppo scientifico della mistica francescana. Dante pertanto, come si è detto, è altrettanto tomista quanto bonaventuriano. Il grande Poeta è eclettico, come lo era Agostino, e sembrerebbe impossibile con quanto si conosce della sua personalità a prima vista intransigente. è un ingegno perfettamente conciliante. Insofferente, quasi fazioso in certi argomenti, cerca invece l'accordo per le grandi questioni religiose e politiche. Suo è il sogno della conciliazione tra le due grandi potestà , la religiosa e la politica, nell'unità della Chiesa purificata, rinnovata e dell'Impero ricostituito in nazioni (Imperium et Nationes, il detto di Federico di Svevia); sua la dimostrazione che si possa essere insieme mistici francescani e scolastici tomisti. E lo prova, come vedremo, l'ultimo canto del poema, ove imperano entrambe le dottrine. Nè va dimenticato che egli è un italiano, un toscano, mediterraneo. Nel suo sangue, nel suo modo di sentire, di pensare, si era trasfusa la millenaria civiltà etrusca, che tutto ordiva secondo numero e armonia. Un altro esempio ci sta a indicare questa predilezione di Dante per la regolarità armonica pitagorica. Tra gli scultori egli cita soltanto Policleto (Purg., X, 32): Ora questi era noto come autore di uno scritto (il Regolo) sulla proporzione del corpo umano come prototipo dell'armonia secondo il numero e nel Medio Evo era considerato maestro del calcolo della misura, era cioè un perfetto pitagorico. Epigoni del numerismo furono e sono i frammassoni. Per questo taluni, e primi tra tutti il Rossetti e l'Aroux, hanno voluto vedere in Dante un settario, un illuminato, quasi un protestante, comunque un anticattolico. Nulla di tutto questo. Dante è invece un perfetto cattolico; non solo dal punto di vista dogmatico, ma anche come credente e praticante. Egli è veramente, come lo chiama San Pietro, un «buon cristiano ». Su questo argomento occorre una breve digressione. Si dice per tradizione che Dante fosse sottoposto a processo per eresia; ma la leggenda non è affatto confermata. Una sola cosa è sicura; che egli era assai mal visto dagli inquisitori del tempo e su questo ritorneremo. Date le contingenze politiche in quei burrascosi momenti, il suo trattato, Monarchia, venne condannato e pubblicamente bruciato. Ma i tempi mutarono. Un grande Pontefice, Leone XIII, fece cancellare il Monarchia dall'indice dei libri proibiti. Ma vi è di più. Un altro Pontefice, di cui tutti ammirammo la pietà e l'alto ingegno, Benedetto XV,

proclamò la Divina Commedia il quinto Vangelo e pel centenario dantesco, il 30 aprile 1921, pubblicò un breve discorso, che, dopo quello di Leone XII per Cristoforo Colombo (19), fu il secondo esempio di un discorso pontificale al mondo, non per chiarire verità , ma per prospettare la gloria, anche cattolica, di un uomo, che, se non fu un santo da altari, fu certo un uomo provvidenziale, mandato da Dio, e dal Suo Amore ispirato. Come si può spiegare questo rovesciamento di posizioni per cui di un uomo sospetto e di un'opera creduta eretica si fa rispettivamente un messo provvidenziale ed un quinto Vangelo? Dante, cosà profondamente ortodosso, fu certo un feroce nemico di taluni pontefici. Ma questo fatto si può riportare alla sua fervente anima di cristiano, che avrebbe voluto vedere la Chiesa tornare al suo primitivo splendore, anche per la virtù dei suoi sacerdoti. Opinione questa molto diffusa tra i fedeli del tempo. Ma i sacerdoti di allora a questo non pensavano. Ci volle Lutero perchè venisse Trento! Quelle animule timorate che si scandalizzarono per le roventi parole dantesche contro i pontefici e il clero del suo tempo, e che pertanto vorrebbero far passare Dante per un eretico, un frammassone, uno scomunicato, dovrebbero meditare su quanto scrivevano allora sull'argomento non dei laici come lui ma papi e santi. Lasciamo pur da parte San Pier Damiano in confronto al quale gli attacchi di Dante alla Curia possono passare per complimenti. Basterà ricordar che questo gran santo dice chiaramente che la Chiesa era divenuta la bottega di Simone. Ma gli stessi pontefici intervenivano. Nel 1254 Papa Innocenzo IV pubblicò una bolla in cui si leggono queste gravi parole: «Intanto i nostri uomini di chiesa, divenuti gente di legge, cavalcando superbi destrieri, vestiti di porpora, coperti di gioielli, d'oro, di seta, riflettendo i raggi del Sole, scandolezzato dal loro acconciamento, fanno da per tutto mostra orgogliosa di sè; e nelle persone loro, in luogo del Vicario di Cristo, si danno a conoscere eredi di Lucifero, ed eccitano le ire del popolo, non solo contro sè stessi, ma contro la sacra autorità che indegnamente rappresentano. Sara dunque è schiava ed Agar si è fatta padrona ». E lo stesso Pontefice aveva proclamato: «La corruttela del popolo proviene principalmente dalla corruttela del clero ». Ma non solo i pontefici; anche i santi parlavano al modo stesso. è attribuita a San Bernardo una tremenda orazione contro il clero al Concilio di Reims. Il Mabillon, editore degli scritti del grande mistico chiaravallese, la pone nel Vol. II delle opere suppositicia; ma con tutta questa sua prudenza non può onestamente esimersi dall'osservare che, se anche non si tratta di opera genuina, certamente è un centone di frasi riprese da altre opere di San Bernardo. In questa diatriba feroce contro il clero e specialmente contro i vescovi si dice tra l'altro: «Dicimini pastores dum sitis raptores. Paucos habemus pastores, multos excommunicatores. Quare, Domine Jesu, elegisti diabolum episcopum? Plus nitent calaria quam altaria. Non sunt pastores sed traditores ». E continua chiamandoli superbi, nepotisti, nemici dei poveri, peggiori di Giuda che si contentò di poco, mentre essi pretendono molto. Sono pure attribuiti a Bernardo attacchi ai pontefici tali che quelli di Dante sono complimenti. Il gran santo dice che Roma è Babilonia e il papa è l'Anticristo. Rivolgendosi poi direttamente al Pontefice esclama: «Costui è Pietro, che non si sa che sia stato mandato in giro ornato di gemme e di seta, coperto d'oro, portato da un bianco palafreno, seguàto da una turba di soldati e assiepato di ministri attorno a lui; eppure senza tutto questo credè potersi adempiere il salutare comandamento: Se mi ami pasci le mie pecore. In questa cosa tu, pastore, succedesti a Pietro non a Costantino ». Anche Sant'Antonio, in una delle sue prediche, esclamava: «L'avarizia rode alcuni preti anzi mercanti. Salgono su questo Monte Tabor che è l'altare, e tendono reti per pescare l'oro; e del Sacramento della Salute fanno letame di cupidigia ». Ma sentiamo quello che più tardi dirà una santa, la grande Caterina da Siena: «La inflata superbia regna nella sposa di Cristo... i prelati non attendono altro che a delizia a stati di grandissime ricchezze... fatti lupi e rivenditori della Divina Grazia ». Il pio frate Cavalca, nel suo Specchio di vera penitenza, dice dei prelati che «si può dire santo non quel prelato che dia del suo, ma che non rubi l'altrui ». Non vi è dunque alcuna ragione di accusar Dante di irreligiosità ; egli ha scritto nè più e forse meno di quello che scrivevano e predicavano Pontefici e Santi. Ma egli teneva ben distinta la contingenza delle condanne politiche dal fatto religioso, dogmatico, indiscusso e indiscutibile. Dante è un politico che disprezza i vili, quali il Papa Caorsino, ma quando trova dei personaggi

degni di lui li onora della sua riprovazione. Cosà fa pel grande Bonifacio, che destina all'Inferno anche prima della sua morte. Ma Dante cattolico inveisce contro l'attentatore di Anagni, contro lo schiaffeggiatore dello stesso Bonifacio. Qui difatti non si tratta del Papa ostile ma dell'alta dignità pontificia. Bonifacio, per Dante, è degno dell'Inferno, ma è sempre il Supremo Pontefice, il successore del maggior Pietro. Questa distinzione tra Curia politica e Papato religioso, che tanto ha fatto adirare nel recente passato e fa adirare anche oggi gli intransigenti, ha dunque, come si vede, un'origine antica ed illustre. Vediamo ora un poco più estesamente la figura religiosa del grande fiorentino. Sulla sua ortodossia dottrinale non si possono affacciare dubbi. Suoi maestri ed autori sono i grandi santi dottori cattolici. Ma Dante non è solo il teologo, non è solo il padrone delle Scritture e loro esatto e ortodosso interprete; il sapiente che sa e può rispondere a Pietro sulle verità della Fede ed essere approvato; ma è, Dante, buon cristiano, come lo chiama l'apostolo stesso; è il cattolico per sentimento, il credente persuaso e dotto, ed anche il piamente orante colle preghiere degli umili: l'Ave Maria, il Pater noster. Occorre dir questo per ritrovare intera la personalità di Dante. Oggi purtroppo si usa confondere la cultura religiosa colla religione, colla fede, ed è male; perchè, se per un cristiano è necessaria una cultura, la religione non si deve limitare ad una credenza intellettualistica, filosofica. Come ben dice il Papini, non si deve avere in sè un Dio teologico; ma occorre un Dio vero, personale, sentito. La cultura religiosa è necessaria: ma la religione vera è un'infanzia del cuore, da cui la verità : «Se non vi farete come pargoli non entrerete nel Regno dei Cieli ». Ora Dante fu sà un coltissimo teologo, ma altresà un umile credente in un suo Dio personale. E ben il Carducci potè confrontarlo col Petrarca dicendo mirabilmente che il cantore di Laura fu un devoto mentre Dante fu un credente. Nella Commedia non mancano, anzi abbondano, i richiami alla religione semplice, alla credenza umile, all'abbandono a Dio, come potrebbe fare il più semplice e il più «pargolo » dei cristiani. Dante è quello che ai troppo sapienti chiede: «Chi sei tu che vuoi sedere a scranna » e giudicare delle cose divine colla tua vista umana? E' colui che consiglia di star «contenti al quia», che indica che a nostro salvamento bastano le Scritture e il pastore della Chiesa che ci guida. Prettamente religioso, ligio alla forma più ortodossa è anche il comportamento di Dante rispetto a due grandi peccatrici, Francesca e Cunizza. Quanta pietà per Francesca! Ma essa è morta in flagrante peccato mortale senza possibilità di pentimento; è dannata. Sembra, ed anzi è, che Dante uomo sia profondamente commosso e addolorato cantando di essa; ma, come cattolico rigidamente credente, la deve condannare. Cunizza certamente fu peccatrice, ma essa ebbe modo di pentirsi e di terminare in virtù la sua vita. Per quanto sian gravi i peccati commessi, la Bontà divina accoglie i penitenti quando il pentimento sia totale e sincero; basta il pentimento a redimere dal peccato. Ma vi è un altro esempio, che ha dato tanto da fare ai commentatori. Capeto, in un mirabile punto della storia di Francia, inveisce contro quel Carlo, pieno di magagne, che però abbiamo trovato salvo nella Valletta amena. Nessuna contraddizione. Carlo, al letto di morte, si pentà sinceramente dei propri misfatti; egli è dunque perdonato; orribili furono i peccati suoi, come quelli di Manfredi, ma la Bontà divina accoglie chiunque si rivolge a lei. Non si può essere più ortodossi, direi quasi catechistici, di cosà. E a questo proposito ricordiamo che Dante ha fatto salvo Rifeo, pagano. Perchè allora non ha voluto fare altrettanto per il maesto suo, Virgilio, per il quale si permette solo una nascosta speranza, non di salute eterna ma di mitigazione di pena? Credo che si debba trovare una spiegazione di questo. San Paolo, secondo la leggenda, ha deplorato di non esser giunto in tempo per salvare il Poeta latino. è noto un inno che faceva parte della liturgia della messa di San Paolo, che pare si continuasse a cantare sino a tutto il 1400. In questo inno si dice che l'Apostolo, dinanzi al mausoleo di Virgilio, piangendo, cosà si esprimesse: Quem te, inquit, reddidissem, si te vivum invenissem, pœtarum maxime! Dove non era riuscito San Paolo non poteva sostituirsi Dante! Egli ha dunque potuto permettersi

(in perfetta ortodossia!) il salvataggio di Rifeo ma non poteva, come cattolico credente, andar contro San Paolo e sostituire il proprio al giudizio dell'Apostolo. Profonda è la religiosità di Dante quando nel XIV del Paradiso parla della resurrezione della carne. Vi è un anelito profondo alla vita futura; poichè il Poeta canta che non si deve piangere nè temere la morte, sapendo che lassù si vive e si ha il refrigerio della beata pioggia eterna. Ed affettuoso è il pensiero che il riprender la carne possa esser di gioia per le mamme e per i padri; e qui la parola mamma (rima sottile) rende affettuosamente umano il concetto della resurrezione dei corpi. Veramente dunque, quando Beatrice chiede a Pietro di interrogare il suo fedele sulle verità cattoliche, osserva che non ce ne sarebbe bisogno, poichè il santo vede certamente nell'interno di Dante. Ed è forse per questo, per la conoscenza che Pietro ha di lui e della sua semplice fede, che lo invita a sè colla paterna parola «buon cristiano » (20). *** Dante, col suo numerismo, non fu dunque un eretico, un ribelle, nè il suo numerismo va confuso con quello delle sètte eterodosse. Egli aveva, direi, una quasi istintiva mentalità numeristica ed armonica. Questa del resto si trova dal più al meno in tutti noi. Basta mettersi a indagare sul modo di scrivere di molti autori, anche modernissimi, per rilevare come sia diffusa, ad esempio, l'espressione ternaria anche ripetuta. Alfredo O'Rahilly, membro del Parlamento irlandese, nella sua bibliografia del Padre Guglielmo Doyle (21), cappellano militare morto in Fiandra nel 1917, ricorda come questo gesuita tenesse nota e contasse esattamente, giorno per giorno e mese per mese, le aspirazioni a Dio che egli soleva fare. Dunque questo desiderio e questa inconsapevole attrazione al numero è diffusa. E Dante questo numerismo, questa armonia tenne sempre presente nell'orditura di ogni canto e di ogni cantica, orditura preordinata a cui, come dice lo stesso Poeta, il freno dell'arte non permetteva di trasgredire. Come osserva acutamente il Giusti nel suo saggio sulle Opere del Parini, i forti ingegni, mentre sono audacissimi nell'infrangere i ceppi imposti dagli altri, sono poi durissimi ad imporsene dei nuovi e terribili. Il numerismo dantesco non ha dunque alcuno scopo ermetico, iniziatico o, per dirla con una parola espressiva per quanto poco esatta, anticattolico. In questo particolare di un eventuale ermetismo eterodosso dantesco non mi trovo quindi d'accordo col Valli. Questi, ad esempio, ha creduto che Dante volesse nascondere la simmetria Croce-Aquila, come se si trattasse di un segreto pericoloso a svelarsi, dato il temo, lo dirò col Giusti, «agli arrosti propizio ». La mirabile simmetria Croce-Aquila rilevata dal Pascoli che il Valli ha magistralmente posta in rilievo non dice altro, per quanto nascosta alla «gente grossa », se non quello che Dante ripeteva sempre assai chiaramente; che cioè non poteva aversi giustizia e pace se non con l'accordo tra l'autorità religiosa e quella civile, che per Dante non poteva essere che quella imperiale. Non poteva certo l'Inquisizione bruciare per questo la Commedia e il suo autore. Certo il Monarchia fu condannato; ma si trattò di condanna contingente, in rapporto cioè ai tempi e alle condizioni speciali della Chiesa di allora; su per giù come fu per la condanna di Galileo. Ma poichè il Monarchia non conteneva errori dogmatici venne cancellato dall'indice dei libri proibiti, come accadde per l'opera di Copernico, che però venne tolta dall' «Indice » solo nel 1758. Assai più pericolosa appariva la «Beatrice », che poteva somigliare troppo alle «Donne » degli Eretici, tipo Cecco d'Ascoli, che si collegava alla «Donna » degli Orfici. Perciò, come vedremo, Dante mette bene in chiaro che la «sua donna » è ben diversa da quella degli altri Fedeli. Dante dunque, adoperando il numero, non ebbe affatto l'idea di nascondere in esso qualcosa di meno che ortodosso. Egli, invece, che era tutto, anche uno scienziato, amava, come tutti i sapienti dei suoi tempi, di scrivere per la gente «sottile ». Quelli che erano «in piccioletta barca » non potevano comprenderlo: la gente «grossa », quelli che, come dice il Boccaccio, intendevano «alla melanese », erano esclusi dalla possibilità di entrare nel senso volutamente recondito, ma non eterodosso, della parola dantesca. Questo vezzo degli scienziati si è continuato per lungo tempo: essi scrivevano pei dotti, anzi pei doctissimi. Quando l'astronomo Huygens, ed eravamo dopo Galileo, volle comunicare ai colleghi la sua scoperta circa la forma dell'anello di Saturno, adoprò un anagramma, che poi dovette decifrare lui stesso. Leonardo scriveva a rovescio e spesso anagrammava le parole più importanti e segrete. Nel mondo

artigiano (e intendo con questo anche gli artisti) si avevano regole segrete, come quelle degli architetti (22), seguaci essi pure del mistero del numero; regole che il maestro rivelava solo ai discepoli più quotati. Dante quindi non vuol parlare in chiare note, ma avviluppa le sue idee in enigmi e concetti sottili in modo da esser compreso solo dai dotti: Odi profanum vulgus. Al volgo profano è contrapposto, come qualcosa di sacro, di iniziatico, il mondo dei sapienti. *** Dante fu eminentemente geometrico, perchè egli ricordava che «sempre la Divinità geometrizza» e tutto il poema compose secondo una mirabile geometria. Egli anzi dice chiaramente: le cose tutte quante hanno ordine tra loro e questo è forma (idea!) che l'Universo a Dio fa simigliante. Ora il numero è ordine, è armonia; e pertanto il Poeta adopra il numero, che è perfezione. Dante non usa che i numeri mistici sacri usati anche dai Padri della Chiesa: solamente dà molta importanza al gruppo pitagorico 3, 4, 5 su cui i Padri meno hanno insistito; e un numero poi crea suo, speciale, sul quale torneremo parlando dell'ultimo canto. In conclusione, non Dante è numerista. Numerista è Dio: e Dante lo segue devotamente. Vi sono taluni che non vogliono accogliere i risultati di questi nuovi studi sul numero in Dante, obiettando che si tratterebbe di un artifizio indegno del grande Poeta. Occorre intenderci su questa parola artifizio. I dantisti ufficiali, quelli che appartengono all'hortus conclusus validamente guardato contro gli intrusi, quelli che riproducono da anni gli stessi dischi fonografici, non sembrano avere un esatto concetto dell'artifizio. Artifizi stucchevoli son quelli di taluni modesti dicitori in rima del tempo, artifizio quello di talune rime del Petrarca, dei secentisti, degli arcadi, di gente senza ispirazione che si è sbizzarrita in mille giocarelli. L'artifizio in questi casi è palese e l'artifizio nega la poesia. Ora non si considera in Dante un artifizio la terzina ferreamente legata, la struttura ternaria prevalente, i cento canti costituiti da 1+33+33+33 ecc.; e dovrebbe essere artifizio non adoprare la stessa rima nello stesso canto e più ancora fare imperare, come vedremo, anche nella rima, l'armonica legge pitagorica? E si può dire artifizio questa mirabile prassi dantesca, soggetta ad innumeri freni dell'arte, che viene scoperta soltanto oggi? L'artifizio si svela subito. Cosà, ad esempio, tutti vedono l'artifizio dell'acrostico del XII del Purgatorio, colle terzine che tutte cominciano con: Vedea, O, Mostrava. Ma là dove nulla appare a prima vista, e dove son occorsi sei secoli per scoprirlo, non si tratta più di artifizio ma di arte sovrana. Quando si ammette la struttura ternaria, il 3, il 33, il 10, il 100, allora, come dice giustamente il Petrocchi, è illogico non fare il passo completo ed accettare anche gli altri numeri, che chiaramente appaiono quando si analizzi accuratamente la stesura della Commedia. Dante ha costruito la sua mirabile cattedrale al Dio Uno e Trino secondo i dettami dell'armonia, cioè del numero e della geometria. Numero, armonia, geometria eran connaturati nella mente fuor dell'umano grande di Dante, come eran connaturati il verso, la terzina, la rima regolata. Si ammetta, come è necessario ammettere, che il freno dell'arte dantesca non si riferisca solo alla terzina, alla rima non mai ripetuta nello stesso canto, alla struttura ternaria di tutto il poema, ma anche ai numeri che son perfezione, armonia e avremo un Dante che sovrasta di mille cubiti gli altri, per aver sottoposto al «fren dell'arte » anche la struttura numerica della sua epopea. Non si deve però credere che Dante scrivesse secondo un suo prontuario numeristico. L'armonia, la simmetria, il numero erano connaturati in lui. Quando un popolo crea una lingua e un grande scrittore la codifica, la grammatica non esiste ancora. I grammatici vengono dopo e ricercano a posteriori le leggi della lingua che studiano. Cosà facciano noi ricercando nella prassi dantesca le leggi del numero, che Dante possedeva nella sua anima. Quelli che non possono negare certi dati di fatto relativi al numero ricorrono a quel comodissimo concetto di «caso ». Il caso è la scappatoia degli infingardi e dei presuntuosi. Infingardi che non vogliono sobbarcarsi alla fatica di una più profonda ricerca; presuntuosi perchè non vogliono riconoscere la propria inferiorità . Per Dante non si dà mai che si possa parlare di «caso ». E del resto basta ricorrere ad un facile calcolo delle probabilità per eliminare questa idea errata.

Prendo ad esempio, per un tal calcolo, una delle cose più mirabili che siano tra le rime della Commedia. Come abbiam veduto, i tre numeri consecutivi 3, 4, 5 del triangolo pitagorico son sacri, divini. Orbene: la rima Dio è tre volte nell'Inferno, quattro volte nel Purgatorio e cinque volte nel Paradiso (23). Ed anzi, per non alterare questa mirabile sigla, Dante adopra il latinismo Deo, non certo per deficienze di rima! Dir questo per Dante, che ne ha una stragrande ricchezza, sarebbe davvero eresia. Se ricorriamo al calcolo delle probabilità con riferimenti numerici adatti arriviamo all'espressione 1/70.000.000.000.000.000.000.000.000 espressione che alla nostra piccola mente non può dir nulla. Bisogna ricorrere ai confronti. La luce, a percorrere una distanza espressa da un numero di metri uguale al denominatore di questa frazione (che rappresenta il numero dei casi possibili fra i quali il caso avrebbe scelto l'unico favorevole dato dal numeratore), impiegherebbe 75 milioni di secoli. Per discendere ad un paragone più prosaico si può dire che la probabilità che abbia agito il solo caso equivale a vincere 150 quintilioni di volte una quaterna al lotto. Come ho detto, faccio questo solo esempio per non riempire di formule questo volume. Assicuro però coloro che hanno poca dimestichezza con questi conteggi, che per qualsiasi altro esempio numerico che citeremo in seguito, i calcoli possono esser ripetuti; e tutti, dico tutti, escludono che si possa parlare di caso. (17) La Vita nuova, II ed., Pisa, Nistri, 1884, pag. 205. (18) Forse taluni saranno meravigliati di questa asserzione e citeranno il verso38 del Canto XXI dell'Inferno ove in tutte lettere è nominata Santa Zita. Ma questo nome è ricordato a scorno dei quasi idolatri Lucchesi, che avevano di motu proprio fatta santa questa Zita. Essa non fu santificata che oltre tre secoli dopo Dante! (19) A proposito di Colombo, ricordiamo che egli pure fu un mistico. Partà pieno di fede più che di cognizioni scientifiche; perciò potè scrivere: «Dio mi concesse le chiavi dell'Oceano e il potere di infrangere le catene del mare, che erano strettamente serrate ». Il misticismo non è raro negli scienziati. Newton si pose a studiare l'Apocalisse. Kepler ricercò le sue leggi nell'armonia divina e si credè destinato da Dio a svelare agli uomini le verità della meccanica celeste. (20) Dante e la filosofia cristiana. Loc. cit., pag. 172. (21) Tip. Baravalle, Torino, 1924. (22) I magistri comacini eran forse in questo senso una congrega di iniziati pitagorici. (23) Nell'Inferno ai canti: III, 122; IV, 38 e XII, 119. Nel Purgatorio ai canti: VII, 5; XI, 88; XXVII, 24 e XXXII, 59. Nel Paradiso ai canti: VIII, 90; X, 56; XXIV, 130; XXVI, 56 e XXVIII, 128. Naturalmente non sono rima Dio, nè Uccel di Dio, nè Figliuol di Dio ecc. che hanno altro significato da Dio, come dice Dante stesso nel Convivio a proposito della rima e di cui avremo occasione di parlare. 6. - Gematria Dantesca Prima di entrare nel vivo del numerismo dantesco è necessario dire due parole su di un capitolo della Cabbala giudaica, la Gematria. Dante ricorre ad essa pochissime volte; e lo fa per imitare un altro suo grande maestro, Giovanni, nell'Apocalisse, che è opera tutta intessuta di numerismo. La Gematria è, diciamo cosí, una scienza, che ricerca l'interpretazione simbolica numerica sia di singole lettere, sia di intere parole, sia delle prime tre lettere di ciascuna parola. Tale scienza fu ampiamente coltivata dal rabbinismo. Si dice che vi fossero rabbini che conoscevano il valore gematrico di quasi tutte le parole della Bibbia. Anche i greci indulgevano a questa moda (24). Uno degli esempi piú noti e celebri di Gematria si trova, come si è detto, nell'Apocalisse di Giovanni, ove il mostro terribile è indicato solo con un numero 666. Su questo numero e sulla

sua interpretazione vi è un'intera biblioteca. Dante scrisse pure una sua Apocalisse ed egli pure come Giovanni indicò con un numero, non un mostro ma un Veltro, Messo di Dio, un Salvatore. È il ben noto «cinquecento dieci cinque» del XXXIII del Purgatorio. Questo numero va scritto DXV e non, come i commentatori arbitrariamente cambiarono, DVX. Si tratta del numero gematrico 515, sul cui significato pure si ha un'altra biblioteca facente il paio con quella del 666 di San Giovanni. La sola cosa che risulti sicura è la diversità tra i due simboli. Per l'Evangelista il 666 è la bestia satanica mandata fuori dall'abisso; per Dante il 515 è un inviato celeste che ricaccerà la lupa nell'Inferno. Il primo è pessimista, il fiorentino imperiale è ottimista Dante ha però un secondo esempio di Gematria. Nel cielo di Marte le fiamme delle anime gloriose si dispongono in «cinque volte sette» (il numero del climaterico minore!) vocali e consonanti a comporre il versetto: Diligite justitiam qui judicatis terram. Di queste 35 lettere Dante pone in rilievo, secondo le regole gematriche, le sole prime tre, D, I, L, del DXV. Questo fatto permette di dedurre che il numero 515 è numero per Dante di molta importanza; e questo conferma le acute investigazioni del Benini (25) su questo numero e sul 666 nella Commedia. Finalmente si può osservare che la Gematria DIL si ha nel cielo dei giusti e nel versetto che impone ai governanti la Giustizia. E il DXV, il Messo di Dio, il Veltro, è colui che verrà ad instaurare la Giustizia nel mondo. A mettere in evidenza l'importanza che Dante ha voluto dare a questo 5. 1. 5. si può rilevare, come ha fatto acutamente e logicamente il Benini, che egli si è proclamato sesto tra i poeti imperiali proprio al 515° verso del poema. Si può riportare anche a Gematria la figurazione ed interpretazione della M ingigliata, l'ultima lettera «del vocabol quinto», cioè terram, del versetto sopraindicato. Su questa M e sulla sua derivazione si è avuto una recente polemica in seguito alla pubblicazione fatta da Mgr. Tondelli di un Liber figurarum attribuito a Gioacchino da Fiore. Lascio da parte la questione se il Liber figurarum sia opera di Gioacchino. Francesco Foberti (26), uno dei piú valenti suoi conoscitori ed uno dei piú fervidi difensori della sua ortodossia, ritiene che anche questo libro sia da riportare alla letteratura gioachimita, ma non a Gioacchino. Condivido pienamente l'opinione del Foberti. Si deve difatti pensare all'enorme mole delle opere che dalle idee, travisate, dell'abate florense ebbe origine. L'idea di una nuova età dello Spirito, di una fine del mondo, del mille e non piú mille, si continua in tutte le opere piú o meno ortodosse dei religiosi per parecchi decenni. Ma non è il caso di insistere su questo argomento che esorbita dal mio assunto, il quale si può riassumere cosí: da dove Dante ha preso l'idea di quel movimento di anime fiammanti, che dopo varie evoluzioni si fermano a formare una M ingigliata e poi un'aquila?; ma, piú ancora, che cosa significa quella M? Prima di tutto riprendiamo e riassumiamo la visione dantesca dei canti che ci interessano; e cominciamo a considerare quello che Dante ci narra del cielo di Marte. Le luminose facelle dei beati formano varie lettere a combinare una scritta che non è dunque continua. Prima una D, poi una I, poi una L; poi tutto il versetto, che è l'inizio del Liber Sapientiæ, con cui si invitano i potenti ad amare la Giustizia. Le lettere poi scompaiono, salvo l'ultima lettera di terram, che è una M luminosa d'oro. E su questa M il Poeta vide scendere altre luci sul suo colmo e lí quietarsi cantando. L'M ha dunque un colmo: essa cioè è tondeggiante: non è la nostra M angolosa, è l'M gotica, curva in alto. Poi numerose altre faville, altre luci, piú di mille, ad altezze diverse formano la testa e il collo di un'aquila. E l'anime beate, che sono «ingigliate all’m», con poco moto prendon parte esse pure a formare la figura dell'aquila. Come si è formata quell'immagine luminosa, quell'aquila a cui si giunge da una modificazione della M? Ed eccoci al nodo della questione, cioè quel verbo, creato da Dante: ingigliare, che a me sembra assai importante per chiarire il modello che può avergli servito per questa figurazione. Il Gaetani, geniale studioso di Dante, è stato il primo a far osservare che la M di Dante doveva essere l'M gotica. E ne dà una figura, che poi viene ingigliata. Ma questa M ha sul colmo un giglio, mentre Dante dice che sul colmo di essa si posano le luci a formare il collo e la testa dell'aquila. Inoltre, per aversi poi l'aquila occorre una completa dissoluzione della M. Ma Dante di questa dissoluzione non parla affatto (27). È necessario dunque ricorrere ad altro tipo di M ingigliata. Effettivamente vi è un'altra figura che

arieggia alla M, che ha una base a coda d'aquila stilizzata, che possiede uno stelo su cui può formarsi il collo e la testa dell'aquila, che è ingigliata sopra la M, e che non ha bisogno di scomporsi. Questa figura è lo stemma fiorentino, il giglio, degno di essere nel cielo, quando sia formato, come nel Paradiso, dai giusti e non sia il «maladetto fiore» della moneta.

Vediamo questo tipico e storico giglio fiorentino (28): i due petali laterali sono le due gambe dell'm tondeggiante, su cui scendono poi le facelle a formare il collo e la testa di un'aquila. I due gigli laterali, «ingigliati all’m», con poco moto, spostandosi di poco, terminano il contorno superiore delle ali. Dal giglio si è formata un'aquila. Non mi sembra che occorra andare a ricercare altri modelli quando ne abbiamo uno cosí noto a Dante, e che «con poco moto» ci dà la figura dell'aquila, derivandola da una M ingigliata, e senza scomporla. A questo proposito non si deve dimenticare che, nel precedente canto di Cacciaguida, Dantericorda espressamene il giglio fiorentino. È lecito quindi pensare che egli avesse presente il giglio, stemma della sua città. Si potrà forse osservare che Dante, il florentinus natione non moribus, ce l'aveva con Firenze e quindi non avrebbe dovuto mettere in cielo il suo giglio.

Ma ricordiamo che Dante è un amante appassionato delle cose a lui care, principalmente la sua fede e la sua patria. Come tutti gli amanti intransigenti vorrebbe perfetta la cosa amata. Ecco perché inveisce contro i pontefici, non pastori ma lupi, contro la Chiesa che si corrompe nei costumi, mentre detiene la Verità rivelata, a cui Dante crede con tutte le sue forze e con l'umiltà piú profonda. Ecco perché è cosí aspro verso la sua città natale, che ama però con affetto immenso di figlio. È naturale quindi che nella visione della futura giustizia egli veda il giglio della sua città che si unisce all'Aquila del giusto Impero. Ritengo dunque che l'm ingigliata di Dante derivi senz'altro dal giglio fiorentino. Questa però potrebbe considerarsi questione di poca importanza. Piuttosto è da vedere che cosa Dante abbia voluto significare con questa M ingigliata, che prende poi la forma di aquila. Io credo che a domandare al primo che passa che cosa rappresenti la M ingigliata, questi, intuitivamente e senza esitazione, risponderebbe che essa non può essere che la Vergine Maria. E cosí ho súbito pensato io pure, credendo che l'interpretazione fosse pacifica. Ma mi ero ingannato. Quella che il buon senso consiglia a noi profani, non è l'opinione di molti dantisti di professione. Difatti i commentatori piú quotati non parlano di Maria. Il vecchio Buti dice, e non si comprende con qual fondamento, che in quella M Dante ha voluto indicare il Mondo e dal Mondo nascerebbe l'Aquila. Un commentatore piú recente e tra i piú valorosi, il Parodi, asserisce che in quella M si deve leggere Monarchia. Ed il giglio di cui è infiorata la Monarchia sarebbe la casa di Francia. Da questo giglio di Francia si passerebbe poi all'Aquila Imperiale. Secondo il Parodi, dunque, con questa figurazione Dante ha voluto adombrare la sua speranza, che la Casa di Francia si sarebbe sottomessa all'Impero. Ritengo che tutto sia possibile, meno che Dante abbia potuto nemmeno lontanamente sognare una simile sottomissione. La Casa di Francia e il suo giglio sono messi al bando dal Poeta, appunto perché oppositori e nemici

irriducibili dell'Impero. Il Trucchi, che ha pubblicato recentemente un'esplicazione della Commedia e che molto spesso ha ottime vedute, per caso strano non dà alcuna importanza a questa M, che anche per lui può essere Mondo o Monarchia. Il Trucchi però propende piuttosto a ritenerla segno di Monarchia. Ma non riconosce alcun valore speciale a questa visione. Eppure Dante avverte in modo esplicito dell'importanza della cosa e ci fa attenti al significato profondo di essa, poiché prima di parlarne si rivolge a tutte le Muse, invocando la fonte a cui esse si dissetano, la Diva Pegasea, che fa gloriosi e rende longevi gli ingegni. Chi ha interpretato come Maria quella M è stato il Laurenti nel suo opuscolo Ermetica ed ermeneutica dantesca (pag. 188 e seg.). E con questa interpretazione entriamo in pieno campo religioso e anzi in quello preferito da Dante per la sua venerazione alla Vergine. Di questa creatura eccelsa, fiore dell'Umanità, santificata dallo Spirito Divino, Maria, parla la profezia di Isaia. Rileggiamola: «Et egredietur virgo de radice Jesse, et flos de radice eius ascendet». Germoglierà una vergine dalla radice di Jesse e dalla sua radice sorgerà un fiore. Ecco che si spiegano quelle parole dantesche: surgono, resurgir, salir che rappresentano l'ascendet d'Isaia e si spiega pure quell'ingigliarsi all'm, col fiore germogliante dalla radice. Ma, osserva il Laurenti, vi ha di piú. Isaia continua: «Judicabit in justitia pauperes». Ecco che viene il concetto di giudizio e di giustizia, cioè le parole segnate dalle divine facelle: «Amate la giustizia voi che giudicate la Terra». Pare di veder riprodotta la visione dantesca. Il giglio fiorentino, che, privo del petalo centrale, è una M ingigliata dai due fiori laterali: le luci divine che calano sul colmo dell'M a formare il collo e il becco dell'aquila, le fiammelle ingigliate che, con poco moto, si dispongono a terminare il contorno delle ali. Sarebbe cosa bellissima se nell'aquila si potesse riconoscere un simbolo dello Spirito. Ma in tutta l'iconografia cattolica lo Spirito non è figurato quale aquila. Occorre allora ricercare se vi sia qualche altro significato sottile, che possa essere invocato a spiegare questa speciale figurazione della M di Maria coll'Aquila. E lo troviamo in una curiosa pagina del Convivio (3, V, 2) a cui mi pare non sia stata fatta soverchia attenzione. In questa pagina Dante, esplicando il verso «Non vede il Sol che tutto il mondo gira», della canzone Amor che ne la mente mi ragiona, ci dà la spiegazione della rotazione del Sole attorno alla Terra immobile. In questa spiegazione il Poeta vuol render conto degli antipodi e vi suppone situate, simmetriche, due città. Ma, strano assai, è il nome di esse. Una si chiama Maria e l'altra Lucia! La trasparenza di questi due nomi fittizi è chiara e chiarissimo è pure il simbolo, quando il Poeta dice: «Li cittadini di Maria tengono le piante contro le piante di quelli di Lucia». Per mostrare però anche meglio che in Maria è personificata la Croce, il nome di Maria è ripetuto esattamente nove volte; mentre per Lucia, l'Impero, la Giustizia (simboleggiati nel sei), il suo nome viene appunto ripetuto sei volte. Cosí, secondo l'idea dominante di Dante, Croce e Impero sono, in Terra, agli antipodi; e da ciò il male dell'Umanità, posta nella selva oscura senza speranza. Ma nel cielo della Giustizia, là dove si auspica la perfezione umana coll'accordo dei due poteri, ecco che la M ingigliata, Maria, si dispone non piú agli antipodi ma intimamente legata all'Aquila, Lucia. L'opposizione assoluta, diametrale del Convivio si cambia cosí nell'auspicata unione della Croce coll'Impero. Ed ecco come la cabalistica gematrica viene riportata alle credenze cattoliche ed al grande sogno di Dante, religioso e imperiale. (24) Stratone, in un epigramma, che non occorre tradurre, dice che proctos e chsisos si equivalgono gematricamente. (25) Dante nelle bellezze dei suoi enigmi risolti: passim. (26) Questioni dantesche e storia francescana. Misc. francesc. XXXIX, Gioacchino da Fiore, Padova, Cedam, 1942. (27) Esposizione della Divina Commedia, Paradiso, pag. 296. (28) La figura soprariportata mi è stata cortesemente favorita dall'Uff. d'Arte del Comune di Firenze quale stemma ufficiale, depositato all'Ufficio di Araldica, ed è ricavata dai vecchissimi esemplari esistenti nell'Archivio e risalenti al 1200. È quindi certo il Giglio di Dante. Fabritalp: Concluderei con un breve estratto dalla Parte Terza (Il numero nel testo):

Capitolo I. - L'uno e il tre [...] Nella Commedia i canti sono cento; numero perfettissimo, perchè potenza del perfetto dieci, nel quale è contenuto l'unità e la trinità nella sua potenza. E i cento canti son divisi in tre cantiche ciascuna di trentatre canti, poichè il primo canto non è un canto sopranumerario dell'Inferno, ma è il canto proemiale a tutto il poema. Un canto di più non poteva stare nel Purgatorio. Poteva forse stare nel Paradiso, come canto riassuntivo: ma allora l'Uno, inizio del tutto come vogliono i pitagorici, sarebbe stato al termine non al principio come di dovere, e sarebbe stata impossibile la mirabile successione: 1 + 33 + 33 + 33. [...]

6a)

CICLO VITALE DELL'UOMO SECONDO DANTE di Frater Petrus

Scrive Vinassa de Regny: "A proposito di questo 81 è da notare che Dante (Convivio, 4, XXIV, 6), parlando dei periodi della vita umana, gli dà una grande importanza tutta cristiana: «Io credo, se Cristo non fosse stato crocifisso e fosse vissuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura trapassare, elli sarebbe alli LXXXI anno di mortale corpo in eterno trasmutato». E questa è una secca smentita a tutti quanti asseriscono che secondo Dante la vita naturale umana sia di 70 anni". Come si concilia ciò con la precedente affermazione dantesca in Convivio, 4, XXIII 6-10: «tutte le terrene vite (...) convengono essere quasi ad immagine d'arco assomiglianti (...) lo punto sommo di questo arco (...) io credo che nei perfettamente naturati esso sia nel trentacinquesimo anno» ? Credo che la cosa migliore sia rileggere per esteso i due capitoli in questione, per poi trarne le possibili conclusioni.

Dante Alighieri Convivio - TRATTATO IV Capitolo XXIII Poi che dimostrata sufficientemente pare la diffinizione di nobilitade, e quella per le sue parti, come possibile è stato, è dichiarata, sì che vedere si puote omai che è lo nobile uomo, da procedere pare a la parte del testo che comincia: L'anima cui adorna esta bontate; ne la quale si mostrano li segni per li quali conoscere si puote il nobile uomo che detto è. E dividesi questa parte in due: che ne la prima s'afferma che questa nobilitade luce e risplende per tutta la vita del nobile, manifestamente; ne la seconda si dimostra specificamente ne li suoi splendori, e comincia questa seconda parte: Ubidente, soave e vergognosa. Intorno de la prima è da sapere che questo seme divino, di cui parlato è di sopra, ne la nostra anima incontanente germoglia, mettendo e diversificando per ciascuna potenza de l'anima, secondo la essigenza di quella. Germoglia dunque per la vegetativa, per la sensitiva e per la razionale; e dibrancasi per le vertuti di quelle tutte, dirizzando quelle tutte a le loro perfezioni, e in quelle sostenendosi sempre infino al punto che, con quella parte de la nostra anima che mai non muore, a l'altissimo e gloriosissimo seminadore al cielo ritorna. E questo dice per quella prima che detta è. Poi quando comincia: Ubidente, soave e vergognosa, mostra quello per che potemo conoscere l'uomo nobile a li segni apparenti, che sono, di questa bontade divina, operazione; e partesi questa parte in quattro, secondo che per quattro etadi diversamente adopera, sì come per l'adolescenza, per la gioventute, per la senettute e per lo senio. E comincia la seconda parte: In giovinezza, temperata e forte; la terza comincia: E ne la

sua senetta; la quarta comincia: Poi ne la quarta parte de la vita. In quest[o] è la sentenza di questa parte in generale. Intorno a la quale si vuole sapere che ciascuno effetto, in quanto effetto è, riceve la similitudine de la sua cagione, quanto è più possibile di ritenere. Onde, con ciò sia cosa che la nostra vita, sì come detto è, ed ancora d'ogni vivente qua giù, sia causata dal cielo, e lo cielo a tutti questi cotali effetti, non per cerchio compiuto, ma per parte di quello a loro si scuopra; e così conviene che 'l suo movimento sia sopra essi come uno arco quasi, [e] tutte le [terrene] vite (e dico [terrene], sì de li [uomini] come de li altri viventi), [mon]tando e volgendo, convengono essere quasi ad imagine d'arco assimiglianti. Tornando dunque a la nostra, sola de la quale al presente s'intende, sì dico ch'ella procede a imagine di questo arco, montando e discendendo. Ed è da sapere che questo arco [di giù, come l'arco] di su sarebbe eguale, se la materia de la nostra seminale complessione non impedisse la regola de la umana natura. Ma però che l'umido radicale [è] meno e più, e di migliore qualitade [e men buona], e più ha durare [in uno] che in uno altro effetto - lo qual è subietto e nutrimento del calore, che è nostra vita -, avviene che l'arco de la vita d'un uomo è di minore e di maggiore tesa che quello de l'altro. E alcuna morte è violenta, o vero per accidentale infertade affrettata; ma solamente quella che naturale è chiamata dal vulgo, e che è, è quel termine del quale si dice per lo Salmista: "Ponesti termine, lo quale passare non si può". E però che lo maestro de la nostra vita Aristotile s'accorse di questo arco di che ora si dice, parve volere che la nostra vita non fosse altro che uno salire e uno scendere: però dice in quello dove tratta di Giovinezza e di Vecchiezza, che giovinezza non è altro se non accrescimento di quella. Là dove sia lo punto sommo di questo arco, per quella disaguaglianza che detta è di sopra, è forte da sapere; ma ne li più io credo tra il trentesimo e quarantesimo anno, e io credo che ne li perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno. E muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo, lo quale volle morire nel trentaquattresimo anno de la sua etade; ché non era convenevole la divinitade stare [in] cos[a] in discresc[er]e, né da credere è ch'elli non volesse dimorare in questa nostra vita al sommo, poi che stato c'era nel basso stato de la puerizia. E ciò manifesta l'ora del giorno de la sua morte, ché volle quella consimigliare con la vita sua; onde dice Luca che era quasi ora sesta quando morio, che è a dire lo colmo del die. Onde si può comprendere per quello "quasi" che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo de la sua etade. Veramente questo arco non pur per mezzo si distingue da le scritture; ma, seguendo le quattro combina[zioni] de le contrarie qualitadi che sono ne la nostra composizione, a le quali pare essere appropriata, dico a ciascuna, una parte de la nostra etade, in quattro parti si divide, e chiamansi quattro etadi. La prima è Adolescenza, che s'appropria al caldo e a l'umido; la seconda si è Gioventute, che s'appropria al caldo e al secco; la terza si è Senettute, che s'appropria al freddo e al secco; la quarta si è Senio, che s'appropria al freddo e a l'umido, secondo che nel quarto de la Metaura scrive Alberto. E queste parti si fanno simigliantemente ne l'anno, in primavera, in estate, in autunno e in inverno; e nel die, ciò è infino a la terza, e poi infino a la nona (lasciando la sesta, nel mezzo di questa parte, per la ragione che si discerne), e poi infino al vespero e dal vespero innanzi. E però li gentili, cioè li pagani, diceano che 'l carro del sole avea quattro cavalli: lo primo chiamavano Eoo, lo secondo Pirroi, lo terzo Eton, lo quarto Flegon, secondo che scrive Ovidio nel secondo del Metamorfoseos. Intorno a le parti del giorno è brievemente da sapere che, sì come detto è di sopra nel sesto del terzo trattato, la Chiesa usa, ne la distinzione de le ore, [le ore] del dì temporali, che sono in ciascuno die dodici, o grandi o piccole, secondo la quantitade del sole; e però che la sesta ora, cioè lo mezzo die, è la più nobile di tutto lo die e la più virtuosa, li suoi offici appressa quivi da ogni parte, cioè da prima e di poi, quanto puote. E però l'officio de la prima parte del die, cioè la terza, si dice in fine di quella; e quello de la terza parte e de la quarta si dice ne li principii. E però si dice mezza terza, prima che suoni per quella parte; e mezza nona, poi che per quella parte è sonato; e così mezzo vespero. E però sappia ciascuno che, ne la diritta nona, sempre dee sonare nel cominciamento de la settima ora del die: e questo basti a la presente digressione. Capitolo XXIV Ritornando al proposito, dico che la umana vita si parte per quattro etadi. La prima si chiama Adolescenzia, cioè "accrescimento di vita"; la seconda si chiama Gioventute, cioè "etate che puote giovare", cioè perfezione dare, e così s'intende perfetta - ché nullo puote

dare se non quello ch'elli ha -; la terza si chiama Senettute; la quarta si chiama Senio, sì come di sopra detto è. De la prima nullo dubita, ma ciascuno savio s'accorda ch'ella dura in fino al venticinquesimo anno; e però che infino a quel tempo l'anima nostra intende a lo crescere e a lo abbellire del corpo, onde molte e grandi transmutazioni sono ne la persona, non puote perfettamente la razionale parte discernere. Per che la Ragione vuole che dinanzi a quella etade l'uomo non possa certe cose fare sanza curatore di perfetta etade. De la seconda, la quale veramente è colmo de la nostra vita, diversamente è preso lo tempo da molti. Ma, lasciando ciò che ne scrivono li filosofi e li medici, e tornando a la ragione propria, dico che ne li più, ne li quali prendere si puote e dee ogni naturale giudicio, quella etade è venti anni. E la ragione che ciò mi dà si è che, se 'l colmo del nostro arco è ne li trentacinque, tanto quanto questa etade ha di salita tanto dee avere di scesa; e quella salita e quella scesa è quasi lo tenere de l'arco, nel quale poco di flessione si discerne. Avemo dunque che la gioventute nel quarantacinquesimo anno si compie. E sì come l'adolescenzia è in venticinque anni che precede, montando, a la gioventute, così lo discendere, cioè la senettute, è [in] altrettanto tempo che succede a la gioventute; e così si termina la senettute nel settantesimo anno. Ma però che l'adolescenza non comincia dal principio de la vita, pigliandola per lo modo che detto è, ma presso a otto anni dopo quell[o]; e però che la nostra natura si studia di salire, e a lo scendere raffrena, però che lo caldo naturale è menomato, e puote poco, e l'umido è ingrossato (non per[ò] in quantitade, ma p[ur] in qualitade, sì ch'è meno vaporabile e consumabile), avviene che oltre la senettute rimane de la nostra vita forse in quantitade di diece anni, o poco più o poco meno: e questo tempo si chiama senio. Onde avemo di Platone, del quale ottimamente si può dire che fosse naturato e per la sua perfezione e per la fisonomia che di lui prese Socrate quando prima lo vide, che esso vivette ottantuno anno, secondo che testimonia Tullio in quello De Senectute. E io credo che se Cristo fosse stato non crucifisso, e fosse vivuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura trapassare, elli sarebbe a li ottantuno anno di mortale corpo in etternale transmutato. Veramente, sì come di sopra detto è, queste etadi possono essere più lunghe e più corte secondo la complessione nostra e la composizione; ma, come elle siano in questa proporzione, come detto è, in tutti mi pare da servare, cioè di fare l'etadi in quelli cotali e più lunghe e meno secondo la integritade di tutto lo tempo de la naturale vita. Per queste tutte etadi questa nobilitade, di cui si parla, diversamente mostra li suoi effetti ne l'anima nobilitata; e questo è quello che questa parte, sopra la quale al presente si scrive, intende a dimostrare. Dov'è da sapere che la nostra buona e diritta natura ragionevolmente procede in noi, sì come vedemo procedere la natura de le piante in quelle; e però altri costumi e altri portamenti sono ragionevoli ad una etade più che ad altra, ne li quali l'anima nobilitata ordinatamente procede per una semplice via, usando li suoi atti ne li loro tempi ed etadi sì come a l'ultimo suo frutto sono ordinati. E Tullio in ciò s'accorda in quello De Senectute. E lasciando lo figurato che di questo diverso processo de l'etadi tiene Virgilio ne lo Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita ne dice ne la prima parte de lo Reggimento de' Principi, e lasciando stare quello che ne tocca Tullio in quello de li Offici, e seguendo solo quello che la ragione per sé ne puote vedere, dico che questa prima etade è porta e via per la quale s'entra ne la nostra buona vita. E questa entrata conviene avere di necessitade certe cose, le quali la buona natura, che non viene meno ne le cose necessarie, ne dà; sì come vedemo che dà a la vite le foglie per difensione del frutto, e li vignuoli con li quali difende e lega la sua imbecillitade, sì che sostiene lo peso del suo frutto. Dà adunque la buona natura a questa etade quattro cose, necessarie a lo entrare ne la cittade del bene vivere. La prima si è obedienza; la seconda soavitade; la terza vergogna; la quarta adornezza corporale, sì come dice lo testo ne la prima particola. E` dunque da sapere, che sì come quello che mai non fosse stato in una cittade, non saprebbe tenere le vie sanza insegnamento di colui che l'hae usata; così l'adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere lo buono cammino, se da li suoi maggiori non li fosse mostrato. Né lo mostrare varrebbe, se a li loro comandamenti non fosse obediente; e però fu a questa etade necessaria la obedienza. Ben potrebbe alcuno dire così: dunque potrà essere detto quelli obediente che crederà li malvagi comandamenti, come quelli che crederà li buoni? Rispondo che non ha quella obedienza, ma transgressione: ché se lo re comanda una via e lo

servo ne comanda un'altra, non è da obedire lo servo; ché sarebbe disobedire lo re, e così sarebbe transgressione. E però dice Salomone, quando intende correggere suo figlio (e questo è lo primo suo comandamento): "Audi, figlio mio, l'ammaestramento del tuo padre". E poi lo rimuove incontanente da l'altrui reo consiglio e ammaestramento, dicendo: "Non ti possano quello fare di lusinghe né di diletto li peccatori, che tu vadi con loro". Onde, sì come, nato, tosto lo figlio a la tetta de la madre s'apprende, così tosto, come alcuno lume d'animo in esso appare, si dee volgere a la correzione del padre, e lo padre lui ammaestrare. E guardisi che non li dea di sé essemplo ne l'opera, che sia contrario a le parole de la correzione: ché naturalmente vedemo ciascuno figlio più mirare a le vestigie de li paterni piedi che a l'altre. E però dice e comanda la Legge, che a ciò provede, che la persona del padre sempre santa e onesta dee apparere a li suoi figli; e così appare che la obedienza fue necessaria in questa etade. E però scrive Salomone ne li Proverbi, che quelli che umilemente e obedientemente sostiene dal correttore le sue corrett[iv]e riprensioni, "sarà glorioso"; e dice "sarà", a dare ad intendere che elli parla a lo adolescente, che non puote essere, ne la presente etade. E se alcuno calunniasse: "Ciò che detto è, è pur del padre e non d'altri", dico che al padre si dee riducere ogni altra obedienza. Onde dice l'Apostolo a li Colossensi: "Figliuoli, obedite a li vostri padri per tutte cose, per ciò che questo vuole Iddio". E se non è in vita lo padre, riducere si dee a quelli che per lo padre è ne l'ultima volontade in padre lasciato; e se lo padre muore intestato, riducere si dee a colui cui la Ragione commette lo suo governo. E poi deono essere obediti maestri e maggiori, c[ui] in alcuno modo pare dal padre, o da quelli che loco paterno tiene, essere commesso. Ma però che lungo è stato lo capitolo presente per le utili digressioni che contiene, per l'altro capitolo l'altre cose sono da ragionare.

Commento L'immagine del ciclo vitale umano, che probabilmente Dante aveva in mente nello scrivere questi due capitoli del Convivio, è una ellisse disposta verticalmente, il cui perimetro è diviso in quattro parti da due rette intersecantesi nel più basso dei due fuochi. Con una tale costruzione, solo la parte sinistra (da 0 a 25 anni) e destra (da 45 a 70 anni) del ciclo risultano uguali tra loro.

Come si può notare il trentacinquesimo anno di età si trova effettivamente al vertice del diametro maggiore ed è in tal senso che esso è il "mezzo del cammin di nostra vita", la quale ha una durata perfetta se è di anni 81 (= 34)

Dante attribuisce alla prima parte della vita, cioè all'Adolescenza ( fino a 25 anni ) l'umido e il caldo (è perciò analogica all'elemento che ha le medesime qualità: l'aria); alla Gioventute ( fino a 45 anni ) attribuisce il caldo e il secco (analogica al fuoco); alla Senettute ( fino a 70 anni ) Dante attribuisce il secco e il freddo (analogica alla terra); alla Senio ( fino agli 81 anni teorici ) attribuisce il freddo e l'umido (analogica all'acqua). Come indica chiaramente ciò che viene detto sul corpo di Cristo (se non fosse morto in croce), in riferimento all'alchimia interiore, la quarta età (senio) corrisponde alla realizzazione del "corpo eterno". Esso è vissuto dall'alchimista come uno "sciogliersi" dei vincoli ai quali era soggetto il corpo mortale: è perciò simbolicamente della natura dell'acqua.

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QUADRO GENERALE DELLA COMMEDIA di Sipex

Domenico di Michelino (1417 – 1491)- La commedia illumina Firenze - in Santa Maria del Fiore.

Quel che segue è una scheda sintetica della Divina Commedia, destinata ad un primo inquadramento generale dei problemi, per chi parta da un punto di vista esoterico. Su suggerimento di Ea, ho riscritto la "scheda" comunicata in un primo tempo. Essa, infatti, era un semplice canovaccio di partenza, che di fatto non raccoglieva molto di più delle nozioni comunemente accettate dalla maggior parte degli studiosi. Tenendo conto sia dei miei scritti successivi, sia di quanto, più in generale, è emerso in questo Forum, questa volta ho

evidenziato un livello "magico" nella struttura della Commedia, che va a determinare gli altri livelli via via più concreti: dottrinale, cosmologico e formale. Titolo originale: Comedia - Poema in tre cantiche (Inferno - Purgatorio - Paradiso) di Dante Alighieri. Genesi e Storia Iniziale La vera genesi di quest'opera è da ricercarsi, come diremo nel seguito, in quella dimensione magica in cui vissero l'autore e la Confraternita dei Fedeli d'Amore. La discussione relativa ad opere precedenti, che abbiano potuto fungere da modelli per la Divina Commedia è molto complessa e richiederebbe probabilmente una trattazione a parte. Tuttavia, ai fini pratici, possono anche essere sufficienti i cenni che faremo alle principali tra esse, parlando della struttura dottrinale delle tre cantiche. La datazione dell'opera è ancor oggi problematica. I dati oggettivi che abbiamo a disposizione sono: - l'Inferno non contiene notizie posteriori al 1309. La prima menzione di copie manoscritte di questa cantica è del 1313. Tuttavia si trova una citazione di Inf. V 103-105 (episodio di Paolo e Francesca) in una copertina, datata 1404, dell'Archivio di Stato di Bologna. - il Purgatorio non contiene riferimenti a fatti posteriori al 1313 e fu divulgato separatamente nei due anni seguenti. - il Paradiso fu terminato negli ultimi anni di vita del poeta. Se si considera autentica la XIII epistola, quella a Cangrande della Scala, la cui composizione è collocabile, secondo il Mazzoni "tra il 1315 e il dicembre del 1317", a quell'epoca le prime due cantiche erano già divulgate e Dante aveva dato inizio al Paradiso, ma non era ancora in grado d'inviarne parte allo Scaligero, che della terza cantica era il dedicatario. Sempre nell'epistola XIII, Dante spiega a Cangrande il motivo del titolo "Comedia". La ragione del titolo è retorica e connessa al tema trattato ed al livello linguistico: l'opera inizia infatti con una situazione spaventosa e termina felicemente (al contrario, la tragedia può aver inizio piacevole ma fine tremenda), e il livello linguistico (la parlata volgare) è dimesso e umile per facilitare la comunicazione. L'aggettivo "divina", usato da Boccaccio nella sua biografia dantesca, il Trattatello in laude di Dante, fu introdotto solo in un'edizione a stampa del 1555. Struttura La commedia racconta un viaggio nei tre regni dell'aldilà compiuto da Dante ("simbolo" esemplare dell'uomo), che si affida a diverse "guide" successive, tra le quali le principali sono Virgilio (ragione), Beatrice (fede) e S.Bernardo (slancio mistico). Durante il tragitto sono incontrati numerosi personaggi del passato, le cui svariate situazioni esistenziali sono conseguenza del male e del bene perseguiti nel mondo terreno. Il poema, secondo quanto Dante stesso afferma riguardo alle sue opere (Trattato II del Convivio), ha quattro livelli principali di significato: - Letterale: il viaggio di Dante nei tre regni oltremondani copre un arco di sette giorni, con palese riferimento ai biblici sette giorni della creazione del mondo. - Allegorico: il paragone è lo strumento con cui il poeta ritrae il reale, mediante un intreccio di notazioni varie. - Morale: redenzione dell'anima del poeta dopo il periodo di traviamento (selva oscura) e redenzione politica dell'umanità che, con la guida della ragione (Virgilio) e dell'impero e una ritrovata moralità della Chiesa, raggiunge la felicità naturale (Paradiso Terrestre = giustizia e pace). - Anagogico: quello supposto dalla maggior parte degli esoteristi potrebbe essere esposto sinteticamente così: la guida della ragione e poi della fede (Beatrice), che muove le montagne (Magia), applicata allo sviluppo interiore (S.Bernardo, Teurgia) porta alla condizione soprannaturale (Empireo, Theosis).

A questi quattro livelli di significato, corrispondono, in ordine inverso, quattro livelli strutturali della Commedia: a) struttura magica b) struttura dottrinale c) struttura cosmologica d) struttura formale a) Struttura Magica Tutti gli studiosi che accettano l'esistenza dell'esoterismo sono andati alla ricerca dei "dettagli" del significato anagogico che abbiamo sinteticamente enunciato, ma ... non li hanno trovati. Perchè? In generale, l'esoterismo dà luogo a due tipi principali di prodotti (orali o scritto-grafici qui non importa): 1) racconti di esperienze vissute o procedure da seguire per viverle o riviverle (Riti); 2) formule, o comunque insiemi più o meno complessi di simboli, che esprimano una volontà magica propria o di gruppo (Sortilegi). La prima cosa dunque che gli studiosi di esoterismo debbono chiedersi è che tipo di prodotto è la Commedia. La maggior parte di loro non lo ha fatto, dando per scontato che l'aspetto esteriore di "viaggio iniziatico" dovesse per forza corrispondere ad un prodotto del primo tipo, cioè ad un resoconto esperienziale interiore o rituale. Nulla di più errato, giacchè significa sostanzialmente confondere il significato letterale con quello anagogico. E' infatti la "lettera" dell'opera che parla di un itinerario iniziatico che culmina, già in vita, con l'unione con Dio; dunque il significato anagogico deve essere un altro! Niente da stupirsi dunque che tutti quegli studiosi non abbiano potuto trovare ciò che cercavano. Non hanno tenuto presente l'ammonimento di Johannes Schröder, condiviso da altri alchimisti, che ancora nel XVII sec. ammoniva: "Quando i Filosofi parlano senza raggiri, diffido della loro parola; quando si spiegano per enigmi, rifletto". Dunque la Commedia non può essere che un prodotto del secondo tipo: un libro "vivente" (come sono viventi anche certi quadri, statue, edifici, composizioni musicali) una complessa formula magica che, anche se può offrire spunti per riflessioni del primo genere, si propone un unico scopo: di restare intatta nei secoli e di essere ripetuta e perciò rigenerata da quanti più esseri possibile. Si vuole dunque affermare che Dante non ha dato vita a prodotti del primo tipo? Per nulla, lo ha fatto eccome! alla stessa identica maniera...degli altri Fedeli d'Amore a lui contemporanei, con canzoni, ballate, sonetti e rime varie, cioè con componimenti poetici di più limitata estensione, scritti nel "gergo d'amore" (che è sostanzialmente assente nella Commedia) e a volte accompagnati da un commento narrativo (Vita Nova) o dottrinale (Convivio). Sarabbero stati adatti anche come formule magiche? sì, ma molto meno. Certo i componimenti danteschi di più limitata estensione sono letti e studiati, come quelli di Guinizelli, Cavalcanti e tutti gli altri, ma la Commedia... addirittura c'è chi la conosce tutta a memoria! Essa è, sul piano magico, quello che, sul piano religioso, è il Credo dei cristiani, cioè la volontà che vi è legata, viene potenziata tutte le numerose volte che viene letta o studiata o ripetuta a memoria. Qual è questa volontà? Mi limiterò a dire che alcuni effetti magici si mostrarono già qualche decennio dopo, ad es. quando il modello della Rosa Mistica, descritto da Dante negli ultimi canti del Paradiso, si concretizzò sul piano umano con la Confraternita dei Rosacroce. Profezia? precognizione? no, questa è roba da contemplativi: i maghi credono solo ... nella magia! Dunque la struttura magica della Commedia è semplicemente la volontà magica che Dante vi legò (legatura delle sorti, sortilegio). Essa è il Fuoco dell'arte (volere radiante) che per concretizzarsi, in un primo effetto condivisibile da tutti, cioè l'opera scritta, deve coagularsi, trasformandosi progressivamente in Aria, Acqua e Terra.

b) Struttura dottrinale La prima fase di concretizzazione della struttura magica (= Fuoco) si ha nella determinazione della struttura dottrinale (= Aria, moto delle idee), cioè nella scelta di quell'impianto teologico-filosofico ed esoterico, più adatto a suscitare l'interesse dei lettori, nei confronti dell'opera. La complessità degli schemi adottati dal poeta richiede che la materia venga trattata a parte, in apposite voci di approfondimento. Perciò, il lettore veda, nel seguito del testo, i capitoli: - Struttura dell'Inferno - Struttura del Purgatorio - Struttura del Paradiso c) Struttura cosmologica La struttura dottrinale (=Aria) si concretizza, a sua volta, ulteriormente nella scelta di un ambiente organizzato, di un "cosmos" dove ciò che sarà narrato acquisterà senso e coerenza. In conseguenza delle scelte dottrinali di Dante , la struttura cosmologica (=Acqua, coesione del contenuto, determinata dall'ambiente scelto) della Commedia coincide in massima parte con la rappresentazione cosmologica più diffusa nell'immaginario medievale. Il viaggio all'Inferno e sul monte del Purgatorio rappresentano infatti l'attraversamento dell'intero pianeta, dalle sue profondità alle regioni più elevate; mentre il Paradiso è una rappresentazione simbolico-visuale di un cosmo aristotelico-tolemaico cristianizzato. L'Inferno era rappresentato all'epoca di Dante come una cavità di forma conica interna alla Terra, allora concepita come divisa in due emisferi, uno di terre e l'altro di acque. La caverna infernale era nata dal ritrarsi delle terre inorridite al contatto con il corpo maledetto di Lucifero e delle sue schiere, cadute dal cielo dopo la ribellione a Dio. La voragine infernale aveva il suo ingresso esattamente sotto Gerusalemme, collocata a 90° rispetto al semicerchio di 180° formato dalle terre emerse. La metà marina della Terra si estendeva invece su tutta la semisfera opposta al continente euroasiatico. Agli antipodi di Gerusalemme, e quindi al 90° della semisfera acquea, si ergeva l'isola montagnosa del Purgatorio, composta appunto dalle terre fuoriuscite dal cuore del mondo all'epoca della ribellione degli angeli. In cima al Purgatorio, che peraltro era una creazione recente dell'immaginario cristiano legata alla necessità di giustificare la dottrina delle indulgenze, Dante colloca il Paradiso terrestre del racconto biblico, il luogo terrestre più vicino al cielo. Il Paradiso è strutturato secondo la rappresentazione cosmologica aristotelica, rivisitata in epoca ellenistica da Tolemeo, e risistemata ulteriormente dai teologi cristiani, secondo le esigenze della nuova religione. Nel suo rapimento celeste dietro l'anima di Beatrice, Dante attraversa dunque i nove cieli del cosmo astronomico-teologico, al di sopra dei quali si distende, metafisicamente infinito, l'Empireo - in cui ha sede la Rosa dei Beati, godenti la diretta visione di Dio. Ai nove cieli corrispondono nell'Empireo i nove cori angelici che, col loro movimento circolare intorno all'immagine di Dio, provocano il relativo movimento rotatorio del cielo a cui ciascuno di essi è preposto - questo come conseguenza della dottrina dell'Atto Puro e del Primo Cielo Mobile, desunta dalla Metafisica di Aristotele. La struttura cosmologica della Commedia è dunque strettamente connessa alla struttura dottrinale del poema, per cui la collocazione dei tre regni, e, al loro interno, l'ordine delle anime ovvero delle pene e delle grazie-, corrisponde a precisi intendimenti di ordine morale e teologico. In particolare, la topografia dell'Inferno comprende i seguenti luoghi: - Un ampio vestibolo o Antiferno, dove vengono puniti coloro che nessuno vuole, nè Dio nè il demonio: gli ignavi. - Il fiume Acheronte, che separa il vestibolo dall'inferno vero e proprio. - Una prima sezione costituita dal Limbo, immerso in una tenebra perenne. - Una serie di cerchi meno scoscesi in cui patiscono i peccatori incontinenti.

- La città infuocata di Dite, le cui mura circondano la voragine finale. - Il cerchio dei violenti in cui scorre il fiume sanguigno del Flegetonte. - Un burrone scosceso, che dà all'ottavo cerchio, chiamato Malebolge: il cerchio dei fraudolenti. - Il pozzo dei Giganti. - Il lago ghiacciato di Cocito, dove sono immersi i traditori. La topografia del Purgatorio è invece cosi strutturata: - Un Antipurgatorio, costituito da una spiaggia su cui vengono traghettate le anime dall'angelo nocchiero che le preleva alla foce del Tevere. Specularmene all'Inferno, in esso subiscono la loro purificazione i negligenti, i tardi cioè a pentirsi. - Ai piedi del monte, ancora parte dell'Antipurgatorio, c'è una valletta fiorita in cui espiano i loro peccati i principi negligenti. - Il purgatorio vero e proprio è un monte scosceso, formato da ampi dirupi e cerchi rocciosi, a ciascuno dei quali è preposto un angelo guardiano. - Sulla cima del monte c'è il Paradiso terrestre, che ha l'aspetto di una foresta rigogliosa, popolata di figure allegoriche. Topografia del Paradiso: Il Paradiso è situato oltre la "sfera dell'aria" e "la sfera del fuoco" ed è suddiviso nei seguenti cieli: - I cielo o della luna: spiriti che mancarono ai voti (intelligenze motrici: Angeli) - II cielo o di mercurio: spiriti che operarono il bene ma per desiderio di gloria terrena (intelligenze motrici: Arcangeli) - III cielo o di venere: spiriti amanti (intelligenze motrici: Principati) - IV cielo o del sole: spiriti sapienti (intelligenze motrici: Potestà ) - V cielo o di marte: spiriti dei morti per la fede (intelligenze motrici: Virtù) - VI cielo o di giove: principi giusti (intelligenze motrici: Dominazioni) - VII cielo o di saturno: spiriti contemplanti (intelligenze motrici: Troni) - VIII cielo o delle stelle fisse: spiriti trionfanti (intelligenze motrici: Cherubini) - IX cielo o del primo mobile: cori angelici (intelligenze motrici: Serafini) - X cielo o empireo: la "candida rosa", nove cerchi angelici, Dio. d) Struttura formale In base alla struttura cosmologica (= Acqua) viene determinata la struttura formale (= Terra, forma sensibile del poema), cioè il contenuto manifesto dell'opera nella sua peculiare forma organizzativa e linguistico-espressiva. Da questo punto di vista, la Commedia si presenta come un poema didascalico, che prende dal poema epico la protasi e l'invocazione per ciascuna delle tre cantiche. E' composta da versi endecasillabi, distribuiti in 100 canti, che sono raggruppati in tre cantiche di 33 canti ciascuna più un canto introduttivo (1+33+33+33 = 100). Il 3 ricorre anche nella forma metrica, che è la terzina o "terza rima", ossia strofe di tre endecasillabi a rima incatenata (ABA\BCB\CDC). Più in generale, i numeri, legano le numerose corrispondenze formali del testo (ad. es, i canti sesti delle tre cantiche sono di tema politico), legando gli episodi in un'intricata rete di valori dottrinali e simbolici. Sebene il livello linguistico di una commedia debba essere, come Dante stesso dice, dimesso e umile, pure è facile notare nelle tre cantiche un diverso stile. La norma teorica della "convenientia" impone che lo stile sia conforme all'argomento trattato, perciò lo stile si fa via via più elevato passando dalla prima alla terza cantica, con intensificazione anche del linguaggio metaforico. Comunque, in generale, Dante ama un'espressione sintetica, che evochi immagini visive e sensazioni acustiche, ogni volta che esse possano sostituirsi proficuamente ai semplici legami logici. La giustapposizione sintattica (brevi elementi successivi con stacchi e cesure) ereditata dalla letteratura latina medievale, fa a volte sembrare a noi moderni (abituati ad un modo espressivo più legato) il suo linguaggio poco fluido.

Struttura dottrinale dell'Inferno Nella prima cantica, Dante impiega, per la classificazione delle colpe e la distribuzione dei dannati, l'Etica Nicomachea (come dice esplicitamente Virgilio nel canto XI dell'Inferno) e la Retorica di Aristotele con i loro commenti medievali, ma contemporaneamente si avvale di S.Tommaso per quel che riguarda il cerchio degli eretici, dei Mythologiarum Libri di Fulgenzio Planciade e del De Officiis di Cicerone per le partizioni della malizia e della frode. I peccatori più "vicini" a Dio a alla luce, posti nei primi più vasti gironi, sono gli incontinenti, coloro cioè che hanno fatto il minor uso della ragione nel peccare. I peccati di incontinenza, infatti, sono compiuti soprattutto per debolezza o per incapacità di controllo è perciò, più che alla ragione, sono da imputarsi ad un difetto di volontà nel contrastare il male e nel fare il bene. Più in basso stanno coloro che hanno commesso peccati di malizia, cioè azioni legate all'uso errato della ragione, messa al servizio del male. Essi, a loro volta, possono dividersi in peccatori di "eresia", peccatori che hanno agito con "forza" (violenti) e peccatori che hanno agito con "frode". L'eresia è il peccato meno grave giacchè è frutto di un autoinganno della ragione. Seguono i peccati dei violenti che hanno agito accecati dalla passione e tuttavia ad un livello di intelligenza maggiore degli incontinenti e degli eretici. I fraudolenti e i traditori sono i peccatori più malvagi, perchè hanno scientemente voluto e realizzato il male. Si può frodare chi si non si fida o chi si fida: ingannare chi si fida (tradimento), cioè chi ci è legato da particolari vincoli (parentela, ospitalità , patria comune), è certamente più grave. L'Inferno digrada a cerchi concentrici. Essi sono in numero di nove, ai quali si aggiunge un vestibolo (Antiferno) dove le anime sostano in attesa di conoscere la loro sorte e dove trovano stabile dimora gli ignavi, cioè "coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo". I primi cinque cerchi comprendono il Limbo (dove sospirano Dio i giusti che non conobbero la rivelazione o i bambini che non ebbero il battesimo) e i quattro cerchi degli incontinenti: lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi. I quattro successivi cerchi sono chiusi entro le mura della città di Dite, per indicare la gravità dei peccati. Nel sesto sono puniti gli eretici; il settimo è il cerchio dei violenti, diviso in tre gironi: nel primo sono puniti i violenti verso gli altri - gli omicidi - nel secondo i violenti verso la propria persona e le proprie sostanze - i suicidi e gli scialacquatori - nel terzo i violenti verso Dio (sodomiti, bestemmiatori, usurai). L'ottavo cerchio, ove sono puniti coloro che hanno usato la frode contro chi non si fida, è suddiviso in dieci bolge: quelle dei ruffiani e seduttori, adulatori, simonàaci, indovini, barattierà, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia, falsari. Il nono cerchio, ove sono puniti i traditori, cioè coloro che hanno usato la frode contro chi si fida, è suddiviso in quattro zone: Caina [traditori dei parenti], Antenora [della patria], Tolomea [degli ospiti], Giudecca [dei benefattori]). Lucifero, in forma di immenso mostro con tre teste, dalle ali di pipistrello, è collocato al fondo dell'inferno, che coincide col centro della terra. Muove costantemente le ali per mantenere ghiacciato il fiume Cocito e strazia nelle tre bocche Bruto, Cassio (traditori e uccisori di Cesare) e Giuda (traditore di Cristo).

Il passaggio dall'Inferno al Purgatorio Nel canto XXXIV dell'Inferno, Dante incontra Lucifero. Egli ha tre facce: quella davanti rossa, la destra di colore tra il bianco e il giallo, la sinistra nera. Sotto ciascuna faccia vi sono due ali senza penne, nerastre e simili a quelle dei pipistrelli, così gigantesche da generare col loro moto tre venti. Le tre qualità della Natura, albedo, rubedo e nigredo, si esprimono dunque sia in Dio, sia in Lucifero, ma in modo opposto. Le tre persone della Trinità , definite da Dante (canto III, versi 5-6), sulla base degli insegnamenti della teologia, Potestate, Sapienza, Amore, corrispondono nell'ordine a rubedo, albedo e nigredo. In particolare, riguardo a quest'ultima qualità , occorre notare che, nella Trinità , ha ovviamente anch'essa un significato positivo. La sua tendenza "discendente" assume la valenza di amore per tutti gli esseri. I tre colori sono nominati nello stesso ordine nel caso delle facce di Lucifero. Il rosso della faccia anteriore simboleggia, in

questo caso, il desiderio insoddisfatto (l'impotenza). Il bianco non puro, ma giallastro, della faccia destra indica l'ignoranza. La faccia nera indica l'odio. E' appena il caso di notare che desiderio, ignoranza e avversione sono considerati dagli iniziati di ogni epoca come i tre principali ostacoli alla meditazione. Essi sono la fonte di ogni erroneo "dualismo" intellettivo (ciascuna faccia mette in moto due ali) e generano tre correnti sottili disarmoniche (i tre venti), che "gelano" l'uomo nella sua sofferente condizione.

Struttura dottrinale del Purgatorio Dante passa dall'Inferno al Purgatorio, guidato da Virgilio lungo il corpo di Lucifero, che è infisso al centro della terra, con la testa rivolta verso l'emisfero boreale e i piedi verso quello australe. La montagna del Purgatorio sorge su un'isola rimasta solitaria nell'emisfero australe, dopo la caduta di Lucifero. Mentre le altre terre si ritirarono nell'emisfero boreale. Nella rappresentazione dantesca della caduta di Lucifero (Inferno XXXIV versi 121-126 e Paradiso canto XXIX, versi 49-51) confluiscono tre elementi: 1) il testo biblico di Isaia (XIV, 12-17), integrato dai passi dell'Apocalisse (XII, 7-16), di Luca (X, 18) e di Matteo (XXV, 41); 2) la cosmologia e cosmografia aristotelica che, per Dante, costituiva la descrizione dell' "ambiente" nel quale il dramma biblico si svolse; 3) le considerazioni teologico-cosmologiche necessarie per adattare il dramma della caduta di Lucifero al suddetto ambiente. La caduta di Lucifero è così presentata in Isaia: "Come cadesti dal cielo Lucifero, stella del mattino?... Tu che dicevi in cuor tuo: 'In cielo io salirò... m'assiderò sul monte del Testamento dalla parte dell'aquilone ; salirò al di sopra delle nubi, sarò pari all'Altissimo'. Ed invece tu sarai trascinato all'inferno, nella profondità del lago". Il lago, identificato da Dante con il fiume del pianto di cui parla Virgilio nel libro VI dell'Eneide, è, nella Commedia, lo stagno di Cocito. Aristotele, nel libro II del De Caelo, afferma che la parte più nobile del mondo è quella da cui comincia il movimento diurno del sole, cioè l'Oriente. E poichè nell'uomo la destra è più nobile della sinistra, si deve considerare l'Oriente simbolicamente come la destra del mondo. Se si inscrive in un cerchio, che rappresenti il mondo, la figura d'un uomo visto di fronte, per far sì che la sua destra sia a Oriente, è necessario che la sua testa coincida col polo antartico, e i suoi piedi col polo artico. Perciò il polo antartico è simbolicamente il capo del mondo, mentre quello artico ne rappresenta le estremità inferiori. Nel cielo antartico debbono dunque trovarsi quelle costellazioni, che mandavano originariamente sulla terra i loro più benefici e salutari influssi e che la terra stessa attraevano a sè, come magnete il ferro, facendola emergere dalle acque con la loro virtù (o potere). Dante, accogliendo questa visione cosmologica, attribuisce alla caduta di Lucifero il cataclisma geologico, che determinò il trasferimento delle terre emerse e abitate dall'uomo nell'emisfero boreale, e il contemporaneo formarsi della montagna del purgatorio, sormontata dal paradiso terrestre (Caput Mundi) nell'emisfero australe. Mentre le anime dannate entrano all'inferno dopo aver attraversato l'Acheronte, sulla barca del demone Caronte, invece le anime espìanti giungono alla montagna del purgatorio, dalla foce del Tevere, su un vascello mosso dalle ali dell'angelo nocchiero. Il piano dell'isola e la prima parte della montagna costituiscono l'Antipurgatorio. La parte superiore del monte è il Purgatorio vero e proprio . La struttura dottrinaria del Purgatorio segue la classificazione tomistica dei vizi connessi all'amore mal diretto. Infatti, i peccati degli espìanti sono originati da tre cause fondamentali: - amore rivolto al male (superbia, invidia, ira), - amore troppo debole per Dio (accidia) , - amore troppo forte per i beni terreni (avarizia e prodigalità , gola, lussuria).

Perciò il purgatorio è diviso in sette cornici (delimitate dal lato interno dalla parete a piombo sul monte, e dal lato esterno dal vuoto) in ciascuna delle quali si espia uno dei sette peccati capitali, nell'ordine già citato. Essendo il Purgatorio costruito specularmente all'Inferno (la montagna è l'immagine speculare della voragine), anche l'ordine dei peccati risulta capovolto: il cammino di Dante è infatti dal peccato più grave (superbia) a quello più lieve (lussuria). L'ingresso in purgatorio è consentito solo dall'angelo guardiano, che apre una pesante porta con due chiavi, secondo un rito che allude ad un certo livello dell'iniziazione. Ogni cornice ha un custode angelico, l'angelo della virtù contrapposta al peccato, e precisamente gli angeli dell'umiltà , della misericordia, della pace, della sollecitudine, della giustiza, dell'astinenza e della castità . Disposti al passo del perdono, ognuno di essi cancella una delle sette P, incise sulla fronte di Dante dall'angelo guardiano della porta del purgatorio. L'espiazione implica, oltre alla pena fisica che risponde alla legge del contrappasso (ed è atta a colpire più la natura spirituale e intellettiva degli individui che il loro corpo) anche momenti di riflessione e di pentimento, passaggio necessario per il termine dell'espiazione e il raggiungimento dell'estasi propria del Paradiso: perciò le anime sentono voci o vedono scene che ricordano episodi di virtù premiata o di colpa punita. Gli espìanti, a differenza dei dannati che restano fissati per l'eternità al luogo in cui devono pagare la loro colpa, percorrono tutte le cornici purgatoriali, fermandosi in ciascuna, a seconda dell'intensità delle colpe. Tenendo conto dell'Antipurgatorio, alla base della montagna, e del Paradiso terrestre, collocato sulla vetta, anche nella divisione del Purgatorio si ripete l'iniziatico numero nove (lo stesso dei cerchi dell'inferno) che si ritroverà una terza volta nel Paradiso. Nell'Antipurgatorio, camminano mestamente i negligenti, cioè coloro che, per pigrizia, hanno aspettato a pentirsi fino all'ultimo istante della vita. Sono divisi in quattro gruppi: - Gli scomunicati che devono stare nell'antipurgatorio trenta volte il tempo che durò la scomunica; - I pigri; - I morti di morte violenta; - Gli amanti della gloria terrena. Gli ultimi tre gruppi sosteranno nell'antipurgatorio tanti anni quanti vissero. La sommità della montagna (che si erge verso il cielo, fin oltre la sfera del fuoco) è costituita dal pianoro del Paradiso Terrestre, dove convergono le anime purgate prima di accedere al Paradiso. Il Paradiso terrestre è una foresta rigogliosa, antitesi della Selva oscura. In essa scorrono i due fiumi Lete ed Eunoè: il primo ha la funzione di cancellare la memoria del male, il secondo quella di riaccendere la memoria del bene. Giunto alle soglie del Paradiso terrestre, Virgilio deve abbandonare il Poeta; alla guida di Dante si pone il poeta latino Stazio (Dante immagina si sia convertito segretamente), che lo condurrà nel giardino celeste, dove sarà accolto da Matelda. Questa è, a sua volta, anticipazione dell'apparizione di Beatrice, discesa per lui dal cielo, ammantata delle tre virtù teologali. Si compie, a questo punto, il rito catartico della personale confessione e purificazione del poeta, che diviene così "puro e disposto a salire a le stelle". Proprio negli ultimi canti del Purgatorio, inoltre, viene affidato a Dante il suo compito di scrittore, che è quello di testimoniare agli altri uomini la verità così come l'ha appresa.

Il passaggio dal Purgatorio al Paradiso Vorrei soffermarmi (così come ho fatto per il transito dall'Inferno al Purgatorio) sul transito dal Purgatorio (e precisamente dal Paradiso Terrestre) al Paradiso. Dante, nell'Eden, si bagna nel Letè e così dimentica il male commesso, si immerge poi nell'Eunoè, per ricordare tutto il bene compiuto, di cui non ha più coscienza, e si ritrova finalmente "puro e disposto a salire le stelle". Le spiegazioni riguardanti i due fiumi si trovano in due canti del Purgatorio. Nel canto XXVIII, Matelda spiega a Dante: "L'acqua che vedi non scaturisce da una polla che sia alimentata dal vapore acqueo convertito in pioggia dal freddo, come un fiume (terreno) il quale accresce e diminuisce la sua portata; ma nasce da una fonte costante e inesauribile, che dal volere di Dio attinge tant'acqua, quanta ne

versa nei due fiumi aperti in due direzioni opposte. Nel fiume che è da questa parte l'acqua scorre con un potere che toglie il ricordo del peccato in chi la beve; nel fiume che è dall'altra parte l'acqua restituisce il ricordo del bene compiuto. Da questo lato il fiume si chiama Letè; così dall'altro si chiama Eunoè, e l'acqua non opera il suo effetto se prima non è bevuta in entrambi i ruscelli". Nel canto XXX, Dante dice: "Gli occhi mi caddero sulla limpida acqua del Letè; ma vedendo rispecchiata in essa la mia confusione, li volsi sull'erba, tanto era il peso della vergogna che mi fece abbassare la fronte". Nel medesimo canto Beatrice conclude: "Un sommo decreto di Dio sarebbe violato, se si oltrepassasse il Letè e si gustasse la dolcezza delle sue acque senza pagarne il prezzo con un pentimento così profondo da far spargere lagrime". Il ricordo di sé (1) va di pari passo con lo "sciogliersi" dell'attaccamento egoico ed ha due aspetti, frutto in realtà della medesima pratica. La presenza a sé stessi non solo porta a disidentificarsi dai sentimenti egoici che appaiono nella mente, ma anche dagli avvenimenti passati e dalla vergogna che proviamo per alcuni di essi. Quella vergogna ci è apparsa spesso, ma ci faceva soffrire, così la relegavamo per più tempo possibile nella subcoscienza. La presenza mentale guarda quella vergogna negli occhi: la chiarezza della visione rende momentaneamente la sofferenza forte come non è mai stata. Ma la presenza mentale continua nella sua azione: quella stessa sofferenza si fa distante, svanisce assieme all'ego che ha sbagliato e che ha sofferto e che ora non è cosa diversa dalla presenza stessa. Questa non solo purifica così dagli errori, ma ci riporta il ricordo di tutto ciò che abbiamo fatto di piccolo o grande per l'ascenso spirituale nostro o altrui. Non importa se quei tentativi erano più confusi che efficaci: essi erano sinceri. Svanito il peccato con l'ego che l'ha compiuto, restituitoci il senso vero di tutto ciò che abbiamo fatto, conosciamo cos'è la purezza. E' finito il faticoso "Opus mulierum", sta per iniziare l'agile "Ludus puerorum". (1) Che forse sarebbe meglio chiamare semplicemente il Ricordo, con la lettera maiuscola.

Struttura Dottrinale del Paradiso Da un punto di vista dottrinario, nella stesura del Paradiso, Dante si è servito della concezione aristotelica dei cieli, così come si era venuta a trasformare nei secoli, e come fu accolta nel mondo cristiano. Egli stesso così la descrive nel Convivio : "Aristotele credette, ..., che fossero pure otto cieli, dei quali lo estremo, e che contenesse tutto, fosse quello dove le stelle fisse sono, cioè la spera ottava; (II,3,3); Tolomeo poi, accorgendosi che l'ottava spera si movea per più movimenti, ..., pose un altro cielo essere fuori de lo Stellato, lo quale facesse questa revoluzione da oriente a occidente... (II,3,5) Veramente, fuori di tutti questi, li cattolici pongono lo cielo Empireo, che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso; e pongono esso essere immobile… (II, 3, 8). Quest'ultimo è il cielo dei beati - Questo loco è di spiriti beati, secondo che la Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna (II,3,10)". Se i cieli si muovono, si pone il problema di chi li muove. Sempre nel Convivio, Dante dice che al loro movimento sono associati "sustanze separate da materia, cioè Intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli" (II,4,2). Dante ritiene che la verità su questa questione sia difficile da vedersi per due ragioni, "e per difetto di ragione e per difetto d'ammaestramento" (II,4,8). Ritorna successivamente su questo concetto, spiegando: "Detto è che per difetto d'ammaestramento li antichi la veritade non videro de le creature spirituali" (II,5,1); in parte la raggiunse il popolo d'Israele, ad opera dei suoi profeti. I cristiani, infine, "ammaestrati da colui che venne da quello, da colui che le fece, da colui che le conserva, cioè da lo Imperadore de

l'universo, che è Cristo", ebbero completa conoscenza di questa verità. La struttura del Paradiso è perciò costruita sulla base di una cosmologia geocentrica, che pone la Terra al centro di una serie di nove sfere concentriche crescenti, rappresentanti i cieli della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno, dello Zodiaco o delle Stelle Fisse, e del Primo Mobile o Cristallino. Quest'ultimo, che "non ha altro dove che la mente divina" (XXVII, 109-110), racchiude l'universo sensibile e, nello stesso tempo, ne è al di fuori. Oltre il Primo Mobile è il cielo Empireo, raffigurato come una simmetrica serie di nove sfere concentriche decrescenti, che sono le sedi di Angeli, Arcangeli, Principati, Potestadi, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini e Serafini, e il cui centro è un punto di luce abbagliante simbolo di Dio (XXVIII, 16-18). L'universo descritto da Dante si compone perciò di due distinte serie di sfere, una sensibile e l'altra "celeste" (invisibile ai sensi, coelum viene da coelare=nascondere) i cui centri sono rispettivamente la Terra e Dio. Dante (XXVIII, 46-57) è turbato dall'apparente mancanza di simmetria: le sfere dell'universo sensibile sono tanto più perfette quanto più si allontanano dalla Terra, mentre quelle dell'universo celeste divengono tanto più perfette quanto si avvicinano al centro divino. Secondo la spiegazione che mette in bocca a Beatrice (XXVIII, 61-78), l'ordine inverso delle sfere spirituali è solo apparente, e il centro divino è in realtà la sfera maggiore. Perciò Dio appare "inchiuso da quel ch'elli 'nchiude" (XXX, 12). Tra i nove cieli c'è dunque una gerarchia di perfezione, dalla luna (più vicina alla terra e perciò più lontana da Dio, più piccola, più lenta) al Primo Mobile (più vicino a Dio, più grande, più veloce ). Dante nella sua ascensione incontrerà le anime dei beati secondo un ordine di maggior perfezione e beatitudine, ma anche in una precisa corrispondenza simbolico-astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto. E così, nel Cielo della Luna appaiono gli spiriti che mancarono ai voti; nel Cielo di Mercurio gli spiriti attivi; nel Cielo di Venere gli spiriti amanti; nel Cielo del Sole gli spiriti sapienti; nel Cielo di Marte gli spiriti guerrieri; nel Cielo di Giove gli spiriti giusti; nel Cielo di Saturno gli spiriti contemplanti; nel Cielo delle stelle fisse gli spiriti trionfanti; nel Primo Mobile le gerarchie angeliche. La collocazione delle anime dei beati è però provvisoria, sono "scese" nelle sfere celesti solo per far capire a Dante le gerarchie interne dei beati, ma il loro vero "luogo" è la Rosa Mistica nell'Empireo, l'anfiteatro spirituale dal quale essi contemplano direttamente Dio. L'Empireo, la decima sfera, incorporea, immobile, che raggruppa tutte le altre è la sede vera e propria di Dio, anche se Egli è in tutte le cose ("Trascendenza Immanente"), come già nel primo canto del paradiso, l'incipit chiarisce: La gloria di colui che tutto move per l'universo penetra, e risplende in una parte più e meno altrove. (Par I, 1-3) Tutti gli altri cieli ruotano tanto più velocemente quanto più sono alti. Dio infonde movimento al Primo Mobile. Questo movimento passa gradualmente agli altri cieli, che sono presieduti dalle intelligenze angeliche. Il movimento verso il "basso" è in stretta relazione con un simmetrico movimento verso l'alto: quello delle creature che tendono a tornare a Dio. Tutto ciò è in armonia ancora una volta con la dottrina di Aristotele. Questi, in accordo col XII libro della Metafisica, nel libro VIII della Fisica sostiene che la divinità muove il mondo stando ferma, ovvero causa il moto dell'universo come causa finale (se fosse causa efficiente, sarebbe essa stessa in movimento), poiché a lei tende - come l'amante verso l'oggetto amato - il "primo cielo", che però per Aristotele, diversamente da Tolomeo e da Dante, era il Cielo delle Stelle Fisse. Il movimento dei cieli si trasmette non direttamente ma come conseguenza dell'atto delle Intelligenze angeliche, che presiedono a ciascun cielo: Lo moto e la virtù d'i santi giri, come dal fabbro l'arte del martello, da' beati motor convien che spiri, (Par II 127-129 )

I beati motori sono appunto le Intelligenze angeliche che, nel presiedere al cielo loro assegnato dal disegno divino, sono causa efficiente del movimento delle rote celesti , che sono solo cause strumentali degli effetti prodotti (musica celeste, influssi astrali etc.), allo stesso modo che il martello è solo lo strumento, mentre la causa efficiente è il fabbro. Esempio mutuato da Aristotele, e utilizzato anche nel Convivio (I,XI 11) anche se in negativo, perchè lì dar la colpa al martello è menzognera scusa di un cattivo fabbro: " sì come lo mal fabro biasima lo ferro apresentato a lui, e lo malo citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal coltello e del mal sonar al ferro e alla cetera, e levarla da sè. In un punto sicuramente Dante si allontana da Aristotele: nel far sua la dottrina pitagorica dell'Armonia delle Sfere: Quando la rota che tu sempiterni desiderato, a sé mi fece atteso con l'armonia che temperi e discerni, parvemi tanto allor del cielo acceso de la fiamma del sol, che pioggia o fiume lago non fece alcun tanto disteso. La novità del suono e 'l grande lume di lor cagion m'accesero un disìo mai non sentito di cotanto acume. (Paradiso, canto I, vv.76-81) "L'armonia che temperi e discerni" è espressione tecnica e musicale: temperare indica qui l'atto dell'accordatura, tipico soprattutto di uno strumento a corde come la lira: "le sante corde/ che la destra del cielo allenta e tira" (Par XV, 5-6 ), mentre nell'espressione discerni è ravvisabile un riferimento alla discretezza dei numeri per mezzo dei quali, secondo la teoria pitagorica, vengono stabiliti i rapporti matematici che organizzano lo spazio sonoro (1) . (1) Vedi: Nino Pirrotta, «Dante musicus: gothicism, scholasticism, and music» in: Speculum. A journal of Mediaeval studies, vol.XLIII, Cambridge Massachusetts, 1968, pp.245-257. L'origine, perlomeno in ambito occidentale, della teoria nota come armonia delle sfere viene comunemente ascritta alla scuola pitagorica o a Pitagora stesso, che secondo la testimonianza di Giamblico (La vita pitagorica, 65-67) poteva udire la musica cosmica. Aristotele confutò tale teoria nel De Caelo. È egli stesso a riportare la giustificazione, attribuita ai pitagorici, del perché non udiamo la celeste armonia: perché un suono o un rumore non vengono percepiti se non in contrasto con il proprio opposto, il silenzio o meglio l'assenza del suono medesimo; dal momento che quello prodotto dalla rotazione delle sfere planetarie è un suono che ci è presente sin dalla nascita, non è possibile riconoscerlo, in quanto ci manca la percezione del suo contrario. Una saturazione per assuefazione, simile a quella provata dai fabbri che appaiono indifferenti al rumore provocato dalla propria quotidiana attività lavorativa. Invece, Aristotele, alla domanda perché non udiamo la musica delle sfere, risponde che è così, semplicemente perché non c'è nessuna musica. Se esistesse un suono prodotto dalla rotazione degli astri, sarebbe talmente forte ed intenso da distruggere la vita sulla terra, cosa che non è. Perciò, non esiste alcuna musica delle sfere. E perché non esiste? Perché gli astri si muovono nel medium della propria sfera, e quindi non si produce attrito. L'ostacolo della confutazione di Aristotele venne aggirato proprio da un aristotelico, Simplicio (vissuto nel VI secolo d.C.), il cui commento greco al De Caelo venne tradotto in latino da Guglielmo di Moerbeke, nella seconda metà del XIII secolo. Simplicio sposta l'asse del ragionamento, dall'udibilità della musica in sé, allo stato ricettivo in cui è necessario si ponga l'ascoltatore: "Forte igitur, secundum virorum philosophiam, solvendam instantiam, dicendo quod non omnia sunt invicem commensurata, neque omne omni est sensibile neque apud nos. Insinuant autem

canes odorantes animalia de longe, quod homines non odorant. Quanto itaque magis, intantum natura distantibua, quantum incorruptibilia a corruptibilibus et caelestia a terrenis, verum est dicere quod divinorum corporum sonus terrenis auribus non est audibilis! Si autem aliquis et hoc corpus terrenum separatum et autoideale ipsius et caeleste sedile et eos quam in ipso sensus purificatos habeat, aut per bonam sortem, aut per vitae bonitatem, aut adhuc propter sacerdotalem perfectionem, iste utique videbit quae aliis invisibilia sunt et audiet quae ab aliis non audiuntur, sicut narratur Pythagoras extitisse. Divinorum autem et immaterialium corporum, si utique fiat aliquis sonus, neque percussivus neque perimens fit, sed generativorum sonorum excitat virtutes et operationes et cognatum sensum perficit. Et proportionem quidem habet quandam ad sonum concurrentem cum motu terrenorum corporum. Operatio autem quaedam est motus illorum impassibilis soni, qui apud nos fit propter sonativam aeris naturam. Si igitur ibi aer passivus non est, constat quod neque sonus utique erit. Sed videtur Pythagoras sic dicere harmoniam illam audivisse tamquam et in numeris harmonicas proportiones intelligens, et quod in ipsis audibile, audire dicebat harmoniam. -Dubitaret autem utique quis merito, propter quid ipsa quidem astra visivis nostris sensibus videntur, sonus autem ipsorum auribus nostris non auditur. Et dicendum quod neque astra ipsa videmus. Neque enim magnitudinem ipsorum aut figuras neque excellentes pulchritudines, sed neque motum per quem sonus fit, sed velut illustrationem quandam ipsorum videmus talem, velut et solis circa terram lumen et non ipse sol videtur. Forsitan autem neque utique erit mirum, visivum quidem sensum veluti immaterialiorem et secundum actum magis axistentem quam secundum passionem, et mulutm aliis supereminentem, claritate et fulgore caelestium honorari. Alios autem sensus neque alias alteras assignet causas probabiliores, amicus sit sed non inimicus habeatur" (2) . Come si vede, Simplicio fa esplicito riferimento a Pitagora e alle credenze che volevano che il filosofo udisse l'armonia celeste, essendo in condizione di "perfezione sacerdotale" e cita esplicitamente la riconoscibilità di proporzioni e numeri all'interno dell'armonia percepita. Per Simplicio, la musica delle sfere non è dunque tanto una vibrazione propagantesi nell'aria e che colpisca l'udito umano, ma piuttosto un atto intellettivo, con cui l'uomo conosce i rapporti armonici che regolano la struttura ordinata dell'universo. Tommaso d'Aquino dissentì dalle ragioni addotte da Simplicio, ritornando ai principi d'indagine puramente fisico-acustici di Aristotele. Ma non poteva certo convincere in questo modo un Dante, secondo cui "dietro ai sensi/vedi che la ragion ha corte l'ali" (Par II, 56-57) e che era perfettamente d'accordo, sull'imperfezione dei sensi terreni, con Cicerone, secondo il quale "tum multo puriora et dilucidiora cernentur, cum, quo natura fert, liber animus pervenerit" (Tuscolane, 1, XX, 46). Non a caso, è proprio nel Somnium Scipionis, episodio del dialogo De re publica di Cicerone, che si ha una descrizione dell'armonia delle sfere, che forse fu modello di quella di Dante: Publio Cornelio Scipione Emiliano racconta come il nonno, Publio Cornelio Scipione l'Africano, gli sia apparso in sogno e, nel descrivergli la via Lattea, sede degli uomini che hanno servito e amato la patria, gli abbia parlato, fra le altre cose, della musica meravigliosa prodotta dal movimento delle sfere celesti. "Il suono, - spiega Scipione - per la rotazione vorticosa di tutto l'universo, è talmente forte, che le orecchie umane non hanno la capacità di coglierlo, allo stesso modo in cui non potete fissare il sole, perché la vostra percezione visiva è vinta dai suoi raggi". (2) "Simplicii, Commentaria in quatuor libros de Coelo Aristotelis", ff.24v-25r (II, ad t.c.37), riportato in Bruno Nardi, «La novità del suono e 'l grande lume», in Saggi di filosofia dantesca (4. Il pensiero filosofico), Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp.73-80. Nello scandire i tempi del viaggio paradisiaco, Dante ha tenuto presente lo schema dell'opera "Itinerarium mentis in Deum" di San Bonaventura da Bagnoregio, teologo mistico (agostiniano e neoplatonico), che prevedeva tre gradi di apprendimento: il primo è quello "Extra nos", cioè della conoscenza sensibile, che culmina in Dante con l'esperienza dei cieli sensibili (i primi otto); il secondo è quello "Intra nos", che "ha per oggetto lo spírito, rivolto in sé e a sé" e che corrisponde in Dante all'esperienza del Primum Mobile; il terzo è quello "Supra nos", ed "ha per oggetto la mente, che si eleva spiritualmente sopra di sé" e che corrisponde in Dante all'esperienza dell'Empireo.

In quest'ultima fase del viaggio di Dante, Beatrice lascia il posto a S.Bernardo che in vita "contemplando, gustò di quella pace" (Par XXXI, 111), poiché per innalzarsi alla visione suprema della Divinità non basta più la scienza teologica costruita sulla fede, ma si richiede "ardore contemplativo" e soccorso di grazia, da impetrarsi con l'intercessione della Vergine. Ancora una volta, non è un caso che, anche nelle opere di S.Bernardo, si ritrovi la teoria dell'armonia delle sfere: " [I tre monaci] incontanente che furono dentro [alla porta d'esso Paradiso], udirono lo suono della rota del cielo che si volgeva; lo quale suono era di tanta dolcezza e suavitate e di tanto diletto, che quasi non sapevano lo sito dove erano, anzi si posono a sedere dentro della porta, tanto erano allegri e dilettosi di quello suono della rota del cielo!". (Leggenda del Paradiso Terrestre, ne Le sette opere di penitenza di San Bernardo, Venezia, Mongelli, 1846)

8) DATAZIONE DEL VIAGGIO DANTESCO

di Afrodite Urania e Frater Petrus Afrodite Urania: Raccolgo qui di seguito i versi sui quali si basano i principali tentativi di datazione del viaggio dantesco. 1) Inferno, I, 1 "Nel mezzo del cammin di nostra vita ". 2) Inferno, I, 37-43 "Temp'era dal principio del mattino, e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle ch'eran con lui quando l'amor divino mosse di prima quelle cose belle; sì ch'a bene sperar m'era cagione di quella fera a la gaetta pelle l'ora del tempo e la dolce stagione;". 3) Inferno, XX, 127-129 "... e già iernotte fu la luna tonda: ben ten de' ricordar, chè non ti nocque alcuna volta per la selva fonda ". 4) Inferno, XXI, 112-114 "Ier, più oltre cinqu'ore che quest'otta, mille duegento con sessanta sei anni compiè che qui la via fu rotta ". 5) Purgatorio, I, 19-21

"Lo bel pianeto che d'amar conforta faceva tutto rider l'oriente, velando i Pesci ch' erano in sua scorta ". 6) Purgatorio, II, 94-102 "Ed elli a me: "Nessun m'è fatto oltraggio, se quei che leva quando e cui li piace, più volte m'ha negato esto passaggio; chè di giusto voler lo suo si face: veramente da tre mesi elli ha tolto chi ha voluto intrar, con tutta pace. Ond'io ch'era ora a la marina volto dove l'acqua di Tevero s'insala, benignamente fu' da lui ricolto ". 7) Paradiso, IX, 37-42 "Di questa luculenta e cara gioia del nostro cielo che più m'è propinqua, grande fama rimase; e pria che moia, questo centesimo anno ancor s' incinqua: vedi se far si dee l'orno eccellente, sì ch'altra vita la prima relinqua ". 8) Paradiso, XXI, 13-15 "Noi sem levati al settimo splendore, che sotto 'l petto del Leone ardente raggia mo misto giù del suo valore ". Frater Petrus: Secondo la testimonianza di Ser Piero di Messer Giardino da Ravenna, raccolta dal Boccaccio, Dante vicino a morire (Settembre 1321) avrebbe indicato la propria età in 56 anni e 4 mesi. In base a questa indicazione, la sua data di nascita si colloca nel Maggio del 1265. Un'ulteriore indicazione ci viene dal XXII canto del Paradiso: 22.106 S'io torni mai, lettore, a quel divoto 22.107 triunfo per lo quale io piango spesso 22.108 le mie peccata e 'l petto mi percuoto, 22.109 tu non avresti in tanto tratto e messo 22.110 nel foco il dito, in quant'io vidi 'l segno 22.111 che segue il Tauro e fui dentro da esso. 22.112 O gloriose stelle, o lume pregno 22.113 di gran virtù, dal quale io riconosco 22.114 tutto, qual che si sia, il mio ingegno, 22.115 con voi nasceva e s'ascondeva vosco 22.116 quelli ch'è padre d'ogne mortal vita, 22.117 quand'io senti' di prima l'aere tosco;

Dante ascende all'ottavo cielo, quello delle stelle fisse, nel quale si trova la costellazione dei

Gemelli, che nello Zodiaco segue quella del Toro. Egli afferma di esser nato nel periodo in cui il sole è in congiunzione con la costellazione dei Gemelli e perciò nel periodo tra il 21 maggio e il 21 giugno. Mettendo assieme le due indicazioni precedenti, si ottiene una data di nascita compresa ta il 21 e il 31 maggio 1265. Secondo Inferno I/1, il suo viaggio inizia "Nel mezzo del cammin di nostra vita " e cioè considerando, come era d'uso, una durata media di 70 anni, a 35 anni. Questa informazione è però piuttosto ambigua, perchè non è chiaro se Dante volesse indicare il 35° anno della sua vita (quando cioè aveva 34 anni compiuti) o se invece volesse indicare di aver già compiuto 35 anni o infine se volesse indicare il momento esatto in cui compiva 35 anni. Da sola, questa prima indicazione del poeta è perciò molto vaga, perchè consente solo di collocare l'inizio del suo viaggio iniziatico nel periodo piuttosto ampio (due anni) compreso tra il 21-31 Maggio 1299 e il 21-31 Maggio 1301. Consideriamo ora la seconda indicazione che Dante ci fornisce e cioè Inferno I/37-43:

1. 37 Temp'era dal principio del mattino, 1. 38 e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle 1. 39 ch'eran con lui quando l'amor divino 1. 40 mosse di prima quelle cose belle; 1. 41 sì ch'a bene sperar m'era cagione 1. 42 di quella fiera a la gaetta pelle 1. 43 l'ora del tempo e la dolce stagione;

La notte era finita e il sole sorgeva in congiunzione con il segno dell'Ariete, proprio come quando Dio, all'equinozio di primavera, mise in moto per la prima volta il firmamento. Lo zodiaco dei "Segni" ha, a differenza di quello delle "Costellazioni", l'enorme vantaggio di poter prescindere dal fenomeno della precessione equinoziale ed è perciò sempre ad esso che occorre fare riferimento, quando non vi sia da parte di Dante una esplicita indicazione di fare diversamente. Il giorno che stava nascendo non era necessariamente successivo a quello di inizio del poema, perchè si può benissimo ammettere che la peregrinazione nella selva fosse iniziata esattamente a mezzanotte. Questa seconda informazione, che il poeta ci offre riguardo al suo viaggio, ci permette di escludere che esso sia iniziato nel giorno del suo compleanno, che come abbiamo visto cadeva nel segno dei Gemelli. Viene invece indicato chiaramente il periodo in cui il sole è in Ariete. Non è invece ancora chiaro: 1) se si tratta del 1300 o del 1301; 2) se il poeta intende indicare un giorno esatto: ad es. l'equinozio di primavera (21 Marzo), quando, secondo la tradizione seguita da Dante, venne messo in moto l'attuale firmamento (cioè il II giorno della Genesi, nel quale il firmamento venne creato) o il giorno della nascita di Adamo (25 Marzo= VI giorno della Genesi); o se intenda indicare genericamente il periodo in cui il Sole è in Ariete (21 Marzo - 20 Aprile). In ogni caso, l'incertezza sul periodo da considerarsi per l'inizio del viaggio si è ridotta di ben dodici volte, rispetto alla prima informazione, (da due anni a due soli mesi) essendo tale inizio sicuramente compreso o tra il 21 Marzo e il 20 Aprile del 1300 o tra il 21 Marzo e il 20 Aprile del 1301. Continuiamo la lettura dell'Inferno, alla ricerca di indicazioni temporali. II Canto 2. 1 Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno 2. 2 toglieva li animai che sono in terra 2. 3 da le fatiche loro; e io sol uno...

Siamo giunti dunque al tramonto. VII Canto. 7. 97 Or discendiamo omai a maggior pieta; 7. 98 già ogne stella cade che saliva 7. 99 quand'io mi mossi, e 'l troppo star si vieta.

Il fatto che le stelle inizino la discesa, indica che è passata la mezzanotte. XI Canto 11.112 11.113 11.114 11.115

Ma seguimi oramai, che 'l gir mi piace; chè i Pesci guizzan su per l'orizzonta, e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace, e 'l balzo via là oltra si dismonta .

I Pesci si trovano all'orizzonte e, poichè precedono l'Ariete, segno in cui, come abbiamo già visto, si trova il sole, ciò vuol dire che sta per sorgere l'alba. L'Orsa maggiore è in direzione del Coro o Maestrale, vento che soffia da nord-ovest. XV 15. 49 15. 50 15. 51

«Là sù di sopra, in la vita serena », rispuos'io lui, «mi smarri' in una valle, avanti che l'età mia fosse piena.

15. 52 15. 53 15. 54

Pur ier mattina le volsi le spalle: questi m'apparve, tornand'io in quella, e reducemi a ca per questo calle ».

"Avanti che l'età mia fosse piena" è da ritenersi espressione equivalente a " Nel mezzo del cammin di nostra vita". "Ier mattina" conferma che tutta la narrazione da I/37 a 15/54 è da ritenersi avvenuta in poco più di una giornata. E giungiamo così all'informazione importantissima del XX Canto: 20.124 20.125 20.126

Ma vienne omai, chè già tiene 'l confine d'amendue li emisperi e tocca l'onda sotto Sobilia Caino e le spine;

20.127 20.128 20.129

e già iernotte fu la luna tonda: ben ten de' ricordar, chè non ti nocque alcuna volta per la selva fonda

Secondo un'antica credenza popolare sulla superficie lunare è visibile l'immagine di Caino, oppresso da un fascio di spine. La luna tocca il mare sotto Siviglia e si trova ora al confine tra i due emisferi (boreale e australe), cioè tramonta. La notte precedente ci fu la luna piena, che fu più volte utile a Dante nella selva buia. Questa informazione è di grande importanza, perchè riduce da due mesi a due soli giorni il possibile inizio del viaggio di Dante: Può infatti trattarsi soltanto: 1) del plenilunio antecedente alla Pasqua del 1300, cioè della notte del Martedì 5 Aprile: errano

perciò di sicuro coloro che lo fanno iniziare il 7 o l'8 Aprile; 2) oppure del plenilunio del 25 Marzo 1301, cioè di quel 25 Marzo che, come abbiamo già ricordato, è, per tradizione, considerato il giorno di nascita di Adamo. L'informazione temporale successiva si trova nel canto XXI dell'Inferno: 21.112 Ier, più oltre cinqu'ore che quest'otta, 21.113 mille dugento con sessanta sei 21.114 anni compiè che qui la via fu rotta. Ieri, cinque ore dopo l'attuale, si sono compiuti 1266 anni da che questa via fu interrotta. Il terremoto che causò le interruzioni (cfr. Inferno XII, 37-45) avvenne alla morte di Cristo. Nell'interpretazione di questi versi, alcuni critici letterari si sono serviti della data della morte di Cristo (di per sè incerta) fornita da storici o da scienziati o da teologi. Ciò avrebbe senso solo se Dante non avesse chiaramente espresso il suo parere in merito. Poichè, invece, egli lo ha fatto, solo la sua datazione (giusta o errata che sia) deve essere utilizzata nell'interpretazione dei suoi versi. Il poeta affronta il problema della morte di Cristo, nel Convivio (IV, XXIII, 10-11): "10. E muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo, lo quale volle morire nel trentaquattresimo anno de la sua etade; chè non era convenevole la divinitade stare [in] cos[a] in discresc[er]e, nè da credere è ch'elli non volesse dimorare in questa nostra vita al sommo, poi che stato c'era nel basso stato de la puerizia. 11. E ciò manifesta l'ora del giorno de la sua morte, chè volle quella consimigliare con la vita sua; onde dice Luca che era quasi ora sesta quando morio, che è a dire lo colmo del die. Onde si può comprendere per quello 'quasi' che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo de la sua etade". Come già sappiamo Dante considerava la vita media di un uomo pari a 70 anni. Pertanto, simboleggiando la durata della vita con un arco, il tratto ascendente della vita culmina nel compimento del 35° anno. Poi inizia il tratto discendente dell'arco, che porta alla vecchiaia e alla morte. Dante afferma che non era cosa conveniente per la divinità vivere la fase discendente, sperimentando così la degenerescenza del corpo ("chè non era convenevole la divinitade stare [in] cos[a] in discresc[er]e") e che per questo Cristo morì nel suo 34° anno. Ma in che mese e giorno? Dante aggiunge che, se non volle vivere l'arco discendente della vita, tuttavia non bisogna credere che egli non volesse neppure raggiungere la sommità dell'arco ("nè da credere è ch'elli non volesse dimorare in questa nostra vita al sommo"). Ciò significa che, secondo Dante, Cristo morì un attimo prima di compiere 35 anni, cioè nel momento di raggiungere il sommo dell'arco. Ciò si verificò anche per l'ora della sua morte. Dante, citando il vangelo di Luca, dice che "era quasi ora sesta quando morio, che è a dire lo colmo del die", cioè un attimo prima di giungere al mezzogiorno. Bisogna, a questo punto, ricordare che nel corso del Medioevo non era consuetudine iniziare a contare i giorni dell'anno dal primo giorno di gennaio, come facciamo oggi. I più comuni criteri di datazione erano la datazione "a nativitate Domini", cioè a partire dal 25 dicembre, e la datazione "ab incarnatione", cioè a partire dal 25 marzo (nove mesi prima della nascita). Il comune di Firenze, nel XIII e XIV secolo, preferiva questo secondo criterio, ponendo l'inizio dell'epoca cristiana al 25 marzo dell'anno I dopo Cristo. Quale criterio ha seguito Dante nel suo poema? Non certo quello "a nativitate", perchè, come sappiamo, il suo viaggio non avvenne a fine Dicembre, bensì in Primavera. Perciò, secondo Dante, Cristo morì un attimo prima di compiere 35 anni, calcolati "ab incarnatione". Se a questi 35 anni si aggiungono i 1266 indicati dai versi del canto XXI, si ottiene la data del 25 Marzo 1301, cioè una delle due uniche date di plenilunio, precedentemente da noi individuate come possibili per l'inizio del suo viaggio. Questa data è, come si può constatare, simbolicamente importantissima, poichè è: 1) La data in cui si incarnò Cristo e perciò il giorno dell'Annunciazione dell'Angelo alla Madonna.

2) La data (secondo Dante) in cui morì Cristo. 3) La data in cui fu creato Adamo nel Paradiso Terrestre. L'Ave dell'Angelo alla Madonna è un ben noto simbolo dell'iniziazione. La morte di Cristo è simbolo della morte iniziatica. La nascita di Adamo è il simbolo della creazione (in virtù dell'iniziazione) del nuovo uomo, che viene a trovarsi in una condizione interiore paragonabile a quella del Paradiso Terrestre.

9)

Maometto e Alì all'Inferno

"Mentre che tutto in lui veder m'attacco, guardommi, e con le man s'aperse il petto, dicendo: 'Or vedi com'io mi dilacco! vedi come storpiato è Maometto! Dinanzi a me sen va piangendo Alì, fesso nel volto dal mento al ciuffetto. E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fur vivi, e però son fessi così." (Inferno, Canto XXVIII, vv. 28-36) Tarquinio Prisco: Questi sono una parte dei versi dell'Inferno che Dante dedica a Maometto e al suo genero Alì, fondatore della corrente Sciita. Entrambi si trovano tra i seminatori di discordie, cioè tra coloro che in vita hanno provocato lacerazioni politiche o religiose o familiari. Maometto ha il corpo dilaniato dal mento al basso ventre. Alì ha una pena complementare, avendo il volto aperto dal mento ai capelli. Entrambi sono puniti nelle parti del corpo che più hanno peccato: Alì nel cervello, Maometto nella gola, nel cuore e nel ventre. Gli studiosi arabi si sono in genere scandalizzati e, nelle traduzioni da loro fatte già a partire dal 1930, hanno omesso in vario modo i versi dal 22 al 63. Ma non si limitano a questo, pretendendo che Dante debba molto alla cultura araba e in particolare al Libro della Scala, che presenterebbe diverse analogie con l'Inferno. Dunque, secondo loro, non solo Dante si sbaglierebbe riguardo a Maometto, ma sarebbe addirittura un ingrato, visti i suoi pretesi debiti nei confronti dell'Islam. Che queste amenità le dicano gli islamici in fondo è comprensibile; lo è meno che anche qualche europeo ed italiano sembri volerli compiacere. EA: C'è un'unica recente e lodevole eccezione tra gli studi provenienti dall'area islamica: la traduzione di Kadhim Jihad, poeta iracheno e insegnante di arabo. In una intervista al quotidiano La Stampa, in data 11 dicembre 2003, si può leggere: - Kadhim Jihad ha tradotto la Divina Commedia in arabo. Tutta. E dunque non ha salvato Maometto dall'Inferno, canto XXVIII, laddove il profeta compare tra i "seminator di scandalo e di scisma", "rotto dal mento infin dove si trulla". Squartato dal viso al basso ventre. Torturato, umiliato. Nessun arabo tra i traduttori (parziali) o i divulgatori di Dante finora aveva osato. Khadim l'ha fatto e ora, ci dice sorridendo, è assolutamente "tranquillo". Ma non teme una "fatwa", una condanna degli imam barbuti, tipo quella che colpì Salman

Rushdie per i suoi "versetti satanici"? "No - risponde Khadim -. Io sono soltanto il traduttore. Semmai la fatwa ricadrebbe su Dante... Ma sono sicuro che lui ne uscirebbe trionfatore". ... Secondo Kadhim, Dante non è anti-Islam e lo prova il fatto che colloca in quella "zona franca" che chiama Limbo, accanto a Virgilio e Omero, anche due musulmani come il filosofo Averroè (la razionalità ) e il condottiero Saladino, avversario ma non nemico. Tarquinio Prisco: In effetti Kadhim Jihad è una lodevole quanto rara eccezione, perchè gli studiosi islamici hanno detto delle vere enormità, spesso basandosi su una conoscenza piuttosto approssimativa dell'opera dantesca. Una prova? Il 30 Ottobre 1989, al Consolato Generale d'Italia a Casablanca, in occasione delle celebrazioni del Centenario della nascita della "Società Dante Alighieri", Mahmoud Salem Elsheikh tenne un discorso (piuttosto noto e rintracciabile in Internet) nel quale pretese di "psicanalizzare" Dante, attribuendogli, come affezione, la "sindrome del debitore". In altri termini, Dante, debitore nei confronti della cultura islamica, avrebbe odiato il suo creditore, al punto di mettere Maometto ed Alì nell'Inferno. A conferma di ciò affermò che: " Dante comunque non risparmia dal suo Inferno chiunque si sia avvicinato alla cultura arabo-islamica; basti ricordare la sorte di Michele Scotto (Michael Scott), il filosofo e scienziato scozzese celebre per le sue traduzioni dall'arabo in latino di parecchi libri dello Stagirita e di un compendio aristotelico di Avicenna e per i suoi studi di alchimia, condannato alla quarta bolgia dell'Inferno, quella degli indovini, dove i dannati hanno la testa capovolta e con passi lenti e stentati camminano all'indietro: Quell'altro che ne' fianchi è così poco, Michele Scotto fu, che veramente de le magiche frode seppe 'l gioco. Inf. XX, 115-17 Nemmeno papa Silvestro II (Gerberto il Franco), reo di avere frequentato la cultura araba "fonte di tutti i mali", sfugge al duro giudizio di Dante, che lo ricorda addirittura come consigliere di frode: Ma come Costantin chiese Silvestro d'entro Siratti a guerir de la lebbre ... Inf. XXVII, 94-95" Gli errori di Mahmoud Salem Elsheikh, in questo brano, sono due. Innanzitutto, come ha indicato chiaramente Kadhim Jihad, riportando gli esempi di Averroè e Saladino, non è affatto vero che Dante abbia messo all'Inferno tutti i personaggi appartenenti o vicini alla cultura arabo-islamica. In secondo luogo, è una vera enormità confondere papa Silvestro I, che secondo la leggenda guarì la lebbra dell'imperatore Costantino, con papa Silvestro II (Gerberto di Aurillac). Qualsiasi studioso di Dante, anche mediocre, sa che il poeta, in quei versi, fa un arguto accostamento tra la lebbra di Costantino e la febbre di potere di Bonifacio VIII ("ma come Costantin chiese Silvestro d'entro Siratti a guerir della lebbre cosi mi chiese questi per maestro a guerir della sua superba febbre"). Abraxa: L'immagine di Maometto, punito all'inferno da demoni feroci, avrà un certo seguito nell'arte medievale. Piuttosto noto è il particolare dell'affresco di Giovanni da Modena (1410 ca) nella Cappella Bolognini della chiesa di San Petronio, a Bologna, che è oggetto di contestazioni da parte della Comunità Islamica del capoluogo emiliano. Può essere perciò utile indagare sul perchè della collocazione dantesca di Maometto. Diciamo subito che riteniamo sia da rigettarsi l'ipotesi avanzata da quei critici e studiosi della Comedia, che affermano che Dante abbia tenuto presente una leggenda diffusa nel Medio Evo, in base alla quale Maometto stesso o il suo maestro spirituale era appartenuto alla Chiesa Cristiana e secondo alcune versioni della leggenda - aveva addirittura aspirato invano ad essere eletto Papa. Non riuscendovi, avrebbe fondato una nuova religione. Similmente, altri studiosi ritengono che Dante abbia assimilato il giudizio su Maometto espresso da Giovanni Damasceno, secondo cui egli, partendo dal Vecchio e dal Nuovo Testamento e influenzato dalla dottrina di Ario, avrebbe creato una sua propria eresia; oppure il giudizio di

Tommaso d'Aquino, che riteneva Maometto un insegnante di verità mescolate a cose estremamente false - seguìto da uomini bestiali, abitanti del deserto - che, con l'aiuto di essi e con l'uso delle armi, costrinse gli altri all'obbedienza della sua legge (1). (1) W. E. Phipps, Muhammad and Jesus, 1996, trad. it., Maometto e Gesù, di A. Audisio, Mondadori, Milano 2002, p. 15. Gli influssi dell'ebraismo e del cristianesimo sull'islamismo non sono certo da sottovalutarsi, tuttavia è ben difficile che Dante si sia rifatto a quel tipo di credenze, per almeno due motivi: - Il primo è di carattere storico: nei secento anni che vanno dal 632, anno della morte di Maometto, al 1265 anno della nascita di Dante si colloca un periodo finale, caratterizzato da forte separazione politica tra Occidente e mondo islamico, ma anche da un enorme incremento delle conoscenze europee sull'Islam. Questo periodo, che comincia con il 1066 e termina nel 1291 è ovviamente quello delle crociate e, in esso, i cavalieri Templari non solo trovarono in Oriente conferma del loro "Secretvm Templi", riguardante il vero cristianesimo primitivo, ma recarono anche in Occidente - assieme agli altri Crociati - notizie di prima mano sull'Islam, così che è impossibile che Dante non sapesse che Maometto, da un punto di vista cristiano, non creò uno scisma, perché non convertì cristiani, ma pagani. Dunque Dante - seguendo Giovanni Damasceno e Tommaso d'Aquino - avrebbe al più potuto mettere Maometto tra gli eretici, ma non tra gli scismatici. - Il secondo è di carattere letterario: Dante tace completamente dello scisma che Maometto avrebbe causato. Segno evidente che non può parlarne apertamente. Come mai? perchè il medesimo scisma, nell'ambito della religiosità umana, è causato da tutte quelle religioni - compreso quel cristianesimo fasullo propiziato dai successori di Costantino che pretendono di essere l'unico culto possibile, dividendo ipso facto l'umanità in fedeli e infedeli. Dunque Dante avrebbe dovuto mettere tra gli scismatici anche i papi cattolici, cosa che infatti fa con una mirabile allegoria. Maometto chiede a Dante che, quando ritornerà nel mondo dei vivi, rechi a Fra' Dolcino, una raccomandazione. Parafrasando dice: "Di' a Fra Dolcin che si armi di vettovaglie, se non vuole raggiungermi presto, perchè sarà bloccato nella neve. Se non lo fa, offrirà al vescovo di Novara una facile vittoria, che altrimenti sarebbe tutt'altro che facile". Non ci sono ragioni per cui Maometto avrebbe dovuto preoccuparsi per un eretico del nord Italia, anche perchè, nella stessa bolgia, vi erano altri personaggi occidentali, che avrebbero potuto pronunciare quelle stesse parole con maggiore collegamento storico o ideologico a Fra Dolcino. E' chiaro che, con questa stranezza, Dante sta invitando il lettore a soffermarsi particolarmente sul significato allegorico. Fra Dolcino (che sarebbe stato arso vivo nel giugno 1307 con la compagna Margherita da Trento) fu un seguace di Gherardo Segarelli (Ozzano Taro, Collecchio (PR), 1240 ca - Parma, 18 luglio 1300) che fondò la setta ereticale cosiddetta degli "Apostoli". Morto sul rogo Segarelli, Fra Dolcino si autoproclamò nuovo capo della setta. A Dante, Dolcino non piaceva, perchè alla mistica di Segarelli aveva aggiunto una ideologia pseudoghibellina - e non meno settaria del cattolicesimo che combatteva - che ammetteva ruberie e brigantaggi, così da recar nocumento all'immagine del vero ghibellinismo. Nel 1306, si ebbe l'episodio che Maometto profetizza a Dante: Fra Dolcino lasciò il novarese dove si trovava, per dirigersi verso i monti ricoperti di neve, giungendo il 10 Marzo nel vercellese presso Trivero e insediandosi presso il monte Zebello (detto da quel momento Rebello o Rubello, perchè occupato dai ribelli). Dolcino - proprio come Dante mette in bocca a Maometto - avrebbe avuto bisogno di vettovaglie; non avendole, si diede ancora a rapine e delitti di ogni genere, così alienandosi la simpatia della popolazione. Ebbe così facilmente successo la campagna militare organizzata dal vescovo di Vercelli, per sconfiggere e catturare l'eretico assieme ai suoi seguaci. Fin qui il significato letterale dei versi danteschi. Ma qual è quello allegorico? Fra Dolcino si fece arbitrariamente successore di Gherardo e "Capo degli Apostoli", dunque allegoricamente rappresenta quei papi che arbitrariamente si proclamarono successori di Gesù e, che - in misura ben più grande di Dolcino - crearono uno scisma nella religiosità

umana, che il precedente paganesimo, ma anche il primo cristianesimo - ben diverso da quello raccontato dai cattolici - avevano invece evitato. Perciò, da un punto di vista allegorico, Maometto sta dicendo ai Papi: "Questa bolgia degli scismatici - a meno di non cambiar rotta non è solo il mio, ma anche il vostro ineluttabile destino". Sipex: Il termine "Apostoli" o "Apostolici" si riferiva allo stile di vita rifacentesi alla chiesa primitiva e al continuo spostarsi per diffondere il loro pensiero. Il processo contro Gherardo Segarelli si svolse nel 1299 a Modena. Non vi erano appigli concreti perchè si potesse formulare un'accusa di eresia. Per Segarelli l'unica autorità era il Vangelo, ma non ne proponeva una particolare lettura o interpretazione. Egli riproponeva invece ai suoi seguaci l'assoluta povertà della prima Regola Francescana e come i "francescani spirituali" negava ogni autorrità civile o ecclesiastica. Era probabilmente questo atteggiamento sociale a dare molto fastidio e, non essendovi altro da imputargli, lo si accusò della libertà sessuale che gli "Apostoli" professavano. Dice ad es. uno stralcio del verbale del processo: "Richiesto se un uomo possa toccare una donna che non sia sua moglie, e una donna possa toccare un uomo che non sia suo marito e palparsi vicendevolmente nelle zone impudiche standosene nudi e che ciò possa essere fatto senza ombra di peccato...rispose che un uomo e una donna, sia pur non uniti in matrimonio, e un uomo con un uomo e una donna con una donna possono palparsi e toccarsi vicendevolmente nelle zone impudiche. Disse che ciò può avvenire senza ombra di peccato a condizione che vi sia l'intenzione di pervenire alla perfezione...non riteneva che tali palpeggiamenti impudichi e carnali fossero peccaminosi, anzi potevano essere fatti senza peccato in un uomo perfetto, stando a quanto diceva". Questa dottrina di Segarelli sembra una forma popolare di quella stessa dottrina che professavano, ad un livello più erudito, i Fedeli d'Amore. In particolare si riallaccia a quelle varianti che - come in Niccolò de Rossi - prevedevano il contatto carnale.

10) Nicolò De Rossi e Guido Cavalcanti

di FRATER PETRUS

Un Fedele d'Amore trascurato: Nicolò de Rossi E' comprensibile che la critica letteraria profana, occupandosi dei Fedeli d'Amore, abbia a lungo snobbato Nicolò de Rossi. Essa, infatti, prende in considerazione generalmente la sola forma poetica esteriore ed al massimo i suoi significati allegorici ed etico-politici, trascurandone gli eventuali significati esoterici. Però, gli studiosi che si occupano dell'aspetto esoterico dei Fedeli d'Amore dovrebbero occuparsi non solo dei grandi poeti e scrittori, appartenuti a questa corrente iniziatica, ma anche di coloro, che, pur non essendo ritenuti eccelsi dal punto di vista letterario, hanno sfruttato

verosimilmente loro particolari condizioni politiche per esprimere più liberamente proprio l'aspetto esoterico. Uno di essi è appunto il poeta Nicolò de' Rossi (ca. 1290 - ca. 1348) il cui Canzoniere è conservato nei MSS: 7.1.32 della biblioteca capitolare colombina di Siviglia e 3953 Vaticano barberiniano latino. Dal punto di vista della sola forma poetica, N. de Rossi non è certo tra i rappresentanti maggiori dei Fedeli d'Amore, ma il discorso cambia quando si tratta degli aspetti esoterici della sua poesia. Se ne accorse L.Valli, che cita questo autore ben dieci volte ne "Il linguaggio segreto di Dante e dei fedeli d'amore". N. de Rossi visse in ambiente guelfo. La sua città, Treviso, era, alla sua epoca, minacciata da Can Grande della Scala e la protezione del pontefice, nei confronti di tale avversario, era largamente auspicata. E' in tale contesto politico che deve essere inquadrata la sua opera poetica e diventano allora comprensibili certe sue poesie rivolte al pontefice. Per invocare aiuto per la sua Treviso scrisse infatti anche sonetti in lode di Giovanni XXII. Perciò, non essendo minimamente nel mirino della chiesa, egli potè esprimersi più liberamente, proprio in relazione a quel quarto livello di significato, che Dante chiama "anagogico", e sul quale gli altri Fedeli d'Amore dovettero sostanzialmente tacere. Cercheremo di dare qualche indicazione in merito nel seguito. Il più interessante componimento di Nicolò (o Niccolò) De Rossi è probabilmente la canzone "Color di perla". Essa, che è comunemente considerata una "risposta" a "Donna me prega" di Guido Cavalcanti, è seguita da un commento, una expositio in latino, scritta da De Rossi stesso. Per comprender meglio "Color di perla" è perciò utile, probabilmente, esaminare preventivamente la canzone di Cavalcanti, uno tra i maggiori dei Fedeli d'Amore, anche per l'espressione poetica.

Guido Cavalcanti DONNA ME PREGA

Parafrasi e Commento della I Stanza Versi Donna me prega, - per ch'eo voglio dire d'un accidente - che sovente - è fero ed è si altero - ch'è chiamato amore: sì chi lo nega - possa 'l ver sentire! Ed a presente - conoscente - chero, 05 perch'io no sper - ch'om di basso core a tal ragione porti canoscenza: ché senza - natural dimostramemto non ho talento - di voler provare là dove posa, e chi lo fa creare, 10 e qual sia sua vertute e sua potenza, l'essenza - poi e ciascun suo movimento, e 'l piacimento - che 'l fa dire amare, e s'omo per veder lo pò mostrare.

Parafrasi Una donna mi invita, per cui parlo di un fenomeno contingente (accidente), che spesso è selvaggio e così nobile da chiamarsi amore: chi nega che sia così possa sperimentare quello vero! Ed ora esigo una persona dotata di conoscenza, poiché non mi attendo che chi è vile di cuore possa comprendere un tale argomento: infatti, senza una dimostrazione basata sulla filosofia naturale, non riesco a provare dove [l'amore] risiede e chi lo fa produrre, quale sia la sua facoltà e il suo potere, poi la sua essenza, e ogni suo moto e il piacere che lo fa dire "amare", e se un uomo può mostrarlo visibilmente.

Commento: Come ha indicato Luigi Valli ne "Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore", in tale linguaggio le "donne" sono i Fedeli d'Amore stessi. Dunque è uno di essi che

invita Guido Cavalcanti a parlare. La prima stanza indica l'argomento della canzone: l'amore. Definirlo un fenomeno contingente (accidente) non è affatto riduttivo, come qualche commentatore pretende. Un iniziato guarda la realtà com'è (non la sostanzializza attaccandosi ad essa) e l'esperienza mostra che l'amore a volte è presente nel nostro animo e a volte no. Quindi l'animo sussiste che l'amore vi sia o meno. L'amore è perciò da dirsi un sentimento non necessario, bensì contingente. Che il poeta non voglia affatto sminuirlo lo dimostrano gli aggettivi che usa: selvaggio (fero) e perciò affine alchimicamente alla "materia prima", nonchè nobile. Chi nega tali caratteristiche possa sperimentare quello vero, che non è l'amore, sia pur travolgente, dei profani (che non è "nobile"), nè l'amor di Dio dei mistici (che non è "selvaggio"), ma quello messo in atto dai Fedeli d'Amore. E' infatti un Fedele d'Amore o potenzialmente tale (persona dotata di conoscenza) che il poeta richiede come uditore. Il termine "di basso core" indica una persona inidonea a sperimentare il tipo d'amore di cui si parla. Il poeta avvisa quindi il lettore che si servirà di termini presi dalla "filosofia naturale" di Aristotele, comprendente il De Anima, quali simboli per indicare le caratteristiche di questo speciale amore.

Parafrasi e Commento della II Stanza Versi In quella parte - dove sta memora prende suo stato, - sì formato, - come diaffan da lume, - d'una scuritate la qual da Marte - vène, e fa demora; elli è creato - ed ha sensato - nome, d'alma costume - e di cor volontate. Vèn da veduta forma che s'intende, che prende - nel possibile intelletto, come in subietto, - loco e dimoranza. In quella parte mai non ha pesanza perché da qualitate non descende: resplende - in sé perpetual effetto; non ha diletto - ma consideranza; sì che non pote largir simiglianza.

Parafrasi 15

20

25

L'amore si manifesta in quella parte dell'anima dove risiede la memoria - avendo preso forma, come corpo trasparente dalla luce, da un'oscurità che procede da Marte - e là permane; l'amore è creato e si denomina in base alla sensazione, è disposizione abituale dell'anima e volontà del cuore. Esso muove dalla visione di una figura che si percepisce, che assume stabile dimora nell'intelletto possibile, così come nel soggetto. Nell'intelletto possibile l'amore non ha potere, poiché esso non deriva dalle quattro qualità elementari: risplende in lui l'eterna intellezione, non accoglie il piacere ma lo contempla, così da non poterlo assimilare.

Commento: Quel che inizia in questa stanza non è affatto un trattatello in versi sull'amore genericamente concepito: comincia invece la descrizione di quell'amore di cui fan uso i Fedeli d'Amore. Tale amore viene "acceso" nell'anima sensitiva (che è, in base alla dottrina aristotelica, la parte dell'anima dove risiede la memoria). Ma qual è lo stato d'animo da cui partire? La qualità di un corpo trasparente appare grazie alla presenza della luce: al contrario, condizione perchè questo amore si accenda è l'assenza (scuritate) della passione contraria, cioè della repulsione e dell'ira (di Marte). Una volta acceso deve essere reso continuo (e fa demora). Questo amore non è dunque spontaneo, ma creato e prende nome in base alla sensazione interiore. Quali siano i vari gradi dell'amore e come essi si classifichino in base alla sensazione interiore è proprio l'oggetto della canzone di "risposta" di Niccolò de Rossi a Cavalcanti. Questo amore deve diventare una abitudine dell'anima (d'alma costume) e nello stesso tempo essere sotto il dominio della volontà. Con terminologia analoga, A. Crowley ha detto: "Amore è la legge, amore sotto la volontà". Si parte guardando e interiorizzando una figura, che assume stabile dimora nell'intelletto possibile e nel soggetto (cioè nell'intelletto ricettivo e nell'ego) grazie alla ripetizione della visione o del ricordo. Che tutto rimanga sotto il dominio della volontà è garantito dal fatto che sulla presenza mentale (separando di controllo) dell'intelletto ricettivo la passione amorosa non ha reale potere. Tale intelletto, infatti, pur appartenendo al polo "natura" dell'essere umano, non possiede le "qualità" degli elementi, nè sottili, nè tanto meno grossolani [nel simbolo del

mercurio sia la luna dell'intelletto possibile, sia il cerchio solare (ego) con il punto al centro (sensorio comune) sovrastano la croce degli elementi]. Si ricorda che le quattro qualità elementari sono: secco e umido , caldo e freddo. Escludendo l'etere o quintessenza, gli altri quattro elementi posseggono ciascuno due qualità: calda e umida è l'aria, caldo e secco è il fuoco, umida e fredda è l'acqua, fredda e secca è la terra. L'intelletto possibile è eterno specchio della luce dell'intelletto attivo (il polo "sovrannaturale" nell'uomo). Non è lui a provar piacere: semplicemente lo contempla, tanto che gli è impossibile assimilarlo a sè. Questa disidentificazione dal piacere ha a che fare con la rettificazione della luna superiore, che si ha nel simbolo dell'Ermete. Nell'opera "Tecniche della Concentrazione Interiore", Massimo Scaligero così espone la XXXIX meditazione: L'accoppiamento sessuale riguarda esclusivamente i corpi eterico-fisici [cioè lunare e saturniano], in sé incapaci di brama. La brama muove unicamente dal corpo astrale [cioè mercuriale] che, in quanto corpo-di-brama, kama rupa, è estraneo alle ragioni cosmiche di tale accoppiamento. In realtà il corpo astrale essenziale, o astrale superiore [cioè l'intelletto possibile], immune da brama, partecipa all'accoppiamento come puro potere metafisico. In tal senso è la pura forza dell'Amore della coppia, estranea al sesso". Poi aggiunge: "Questa meditazione contiene in sé il germe della liberazione della psiche dal vincolo alla corrente che dal profondo àltera e distrugge la Vita".

Parafrasi e Commento della III Stanza Versi Non è vertute, - ma da quella vène ch'è perfezione - (ché si pone - tale), 30 non razionale, - ma che sente, dico; for di salute - giudicar mantene, ch la 'ntenzione - per ragione - vale: discerne male - in cui è vizio amico. Di sua potenza segue spesso morte, 35 se forte - la vertù fosse impedita, la quale aita - la contraria via: non perché oppost' a naturale sia; ma quanto che da buon perfetto tort'è per sorte, - non pò dire om ch'aggia vita, 40 ché stabilita - non ha segnoria. A simil pò valer quand'om l'oblia.

Parafrasi Affermo che l'amore non è virtù, ma proviene da quella perfezione (perchè si rende tale) che non è razionale ma sensitiva; rende insano il giudizio, perchè l'intenzione prende il posto della razionalità: discerne male chi è legato alla passione. Dal potere di amore deriva spesso la morte, qualora fortemente sia ostacolata la forza vitale: non perché sia contronatura, ma perchè quanto più per destino è sviato dal perfetto bene, non si può dire che l'uomo viva veramente, poiché non ha ferma signoria di sé. Lo stesso avviene quando l'uomo lo dimentica.

Commento: Non è l'amore virtuoso (la caritas cristiana) quello di cui l'autore sta parlando, ma quello che proviene dall'ottenuta ("chè si pone tale") perfezione, non della ragione, ma del sentimento. Sull'ottenimento di tale perfezione, si confronti il saggio di Agarda "Appunti sull'azione nelle passioni", nel III vol. di Introduzione alla Magia. Il sentimento, usato dai Fedeli d'Amore, agisce mettendo fuori gioco il discernimento e permettendo così di sostituire al semplice ragionamento la sicurezza della volontà magica (la 'ntenzione): che questa "messa fuori gioco" sia possibile lo si può arguire, osservando come già nell'uomo comune la passione contrasti il discernimento. Dal potere di amore deriva spesso la morte iniziatica, se viene spossato quell'attaccamento alla vita, che impedisce il superamento della condizione ordinaria: non perchè essa sia contronatura, ma perchè allontanati dal perfetto bene non si vive veramente. Contrariamente a quanto pensano gli esponenti della critica letteraria non esoterica, che riferiscono quest'ultima frase all'amore, essa si riferisce invece alla vita banale dell'uomo comune, che non ha ferma

signoria su sé stesso. Lo stesso risultato si può ottenere quando l'iniziato taglia fuori il giudizio obliandolo: l'autore fa qui un parallelo con i risultati ottenuti con la concentrazione mentale, perchè anche con essa, oltre che con l'amore, si può metter fuori goco il chiacchiericcio mentale. Nel citato saggio di Agarda si mette in evidenza come anche certe situazioni di guerra possano condurre al medesimo risultato.

Parafrasi e Commento della IV Stanza Versi L'essere è quando - lo voler è tanto ch'oltra misura - di natura - torna, poi non s'adorna - di riposo mai. Move, cangiando - color, riso in pianto, e la figura - co paura - storna; poco soggiorna; - ancor di lui vedrai che 'n gente di valor lo più si trova. La nova- qualità move sospiri, e vol ch'om miri - 'n non formato loco, destandos' ira la qual manda foco (Imaginar nol pote om che nol prova), né mova - già però ch'a lui si tiri, e non si giri - per trovarvi gioco: né cert'ha mente gran saver né poco.

Parafrasi L'essenza dell'amore è un volere tanto intenso che supera i limiti naturali e non si concede 45 mai riposo. Trasforma, mutando il colore del volto, il riso in pianto e rende timido l'aspetto per la paura; è incostante; lo potrai vedere più stabile in persone di valore. Questa nuova qualità d'amore causa sospiri e 50 esige che l'uomo miri dove l'immagine non ha ancora preso forma, destandosi l'ira che infuoca (non può immaginarlo chi non lo prova) e che (l'uomo) non si muova nonostante che lo si attiri e che non si 55 distragga per trovar sollievo: nè certo la mente ricava grande o piccolo sapere.

Commento: L'essenza della tecnica amorosa dei Fedeli d'Amore consiste in un volere così intenso che porta l'amore a manifestarsi in maniera da oltrepassare quei limiti naturali che ha negli uomini comuni e nel non concedersi mai riposo. Questo "amore sotto la volontà" non è qualcosa che deve essere trattenuto interiormente: bisogna invece lasciare che la sua ipernormale intensità (trattenendo la quale si rischierebbero guai psicosomatici), trovi libero sfogo in conseguenti atteggiamenti del volto o del corpo. Nei proficienti i risultati sono incostanti; diventano stabili solo nei più valenti tra i Fedeli d'Amore. Questa superiore qualità d'amore causa un diverso modo di respirare ("move sospiri") e permette all'iniziato di far attenzione agli intervalli di pensiero che esistono tra un'immagine e l'altra (" 'n non formato loco") . In quegli intervalli egli potrà notare il destarsi di un fuoco di natura irosa: fenomeno che non potrebbe mai immaginarsi se non lo sperimentasse. Lo stadio d'amore descritto qui da Cavalcanti è uno stadio avanzato, nel quale l'imagine dell'amata, dopo un volontario inizio, si riforma continuamente da sola, così che il Fedele d'Amore ormai libero dalla necessità di ricrearla con sforzo lui stesso, può dedicare attenzione anche agli intervalli sia pur minimi tra una immagine e l'altra. In quegli intervalli, può cogliere lo stesso fuoco che l'uomo comune conosce solo quando è generato in lui dall'ira. Infatti esso si forma ogni qual volta il nostro ente si sente in qualche modo racchiuso in uno spazio fisico o mentale ristretto. Ciò si verifica principalmente in due casi: 1) Quando un uomo è invaso dall'ira è perchè si sente oppresso da qualcuno o qualcosa che restringe il suo campo di azione. Questo evento ha il potere di rendere più acuta la sua presenza mentale nei confronti dell'oggetto della sua collera, fino a concentrarlo esclusivamente su di esso. 2) Quando il pensiero è costretto volontariamente per poco o per molto tempo sullo stesso tema e perciò in uno spazio mentale ristretto. E' ciò che avviene in qualsiasi forma di concentrazione, compresa quella descritta da Cavalcanti sulla persona amata. In altri termini il fuoco del "furor" non è altro che l'aspetto egoico nel quale si manifesta lo

stesso fuoco della concentrazione. Se sono permessi come abbiamo visto generici sfoghi corporei come riso e pianto, non sono invece ammessi sfoghi specificamente erotici ("nè mova") nonostante l'attrazione che il praticante prova ("già però ch'a lui si tiri"), perchè si ritiene che ciò incanalerebbe l'eros nei comuni binari dell'amor profano (è questa la maggior differenza come vedremo con la tecnica di De Rossi) . Non ci si deve distrarre per trovar sollievo e si deve rinunciare a trarne qualsiasi sapere astratto grande o piccolo, perchè ciò rimetterebbe in gioco il comune raziocinare. Una tecnica consimile, ma praticata in coppia e perciò con un partner non immaginato, ma percepito, è chiamata da Kremmerz 'piromagia'. Ne 'Gli Amanti' così si riferisce al precetto di non muoversi: "Bada bene, inchioda il tuo corpo su di una seggiola e fa che l'altra, lei, sia inchiodata alla sua".

Parafrasi e Commento della V Stanza e del Congedo Versi De simil tragge - complessione sguardo che fa parere - lo piacere - certo: non pò coverto - star, quand'è sì giunto. Non già selvagge - le bieltà son dardo, ché tal volere - per temere - è sperto: consiegue merto - spirito ch'è punto. E non si pò conoscer per lo viso: compriso - bianco in tale obietto cade; e, chi ben aude, - forma non si vede: 65 dungu' elli meno, che da lei procede. For di colore, d'essere diviso, assiso - 'n mezzo scuro, luce rade, For d'ogne fraude - dico, degno in fede, che solo di costui nasce mercede. 70 Tu puoi sicuramente gir, canzone, là 've ti piace, ch'io t'ho sì adornata ch'assai laudata - sarà tua ragione da le persone - c'hanno intendimento: di star con l'altre tu non hai talento. 75

Parafrasi Da somiglianza di natura [fra due esseri] l'amore genera lo sguardo, che promette il piacere: non può rimaner nascosto quando è 60 giunto a questo punto. Le bellezze ritrose non sono dardo d'amore, perché il volere è reso accorto dal timore: chi ne è colpito ne ha merito. E non si può riconoscere dal volto: un pallore impenetrabile (compriso) si trova in esso; e, per chi comprende correttamente, l'essere spirituale ("forma") non è oggetto d'apprensione sensibile; e tanto meno l'amore che procede da esso. Privo di colore, diviso nell'essere, seduto in un mezzo oscuro, reca a terra la luce. Sinceramente affermo, meritevole di fiducia, che solo da un tale amore nasce ricompensa. Tu canzone, puoi andartene in tutta sicurezza, ovunque ti piaccia, poiché io ti ho elaborata in modo tale che la tua argomentazione sia lodata da chiunque è competente in materia: non hai desiderio di startene con chi non lo è.

Commento: Perchè nasca l'amore vi deve essere, da un lato, una polarità tra maschile e femminile, ma d'altro lato anche una certa affinità di natura (simil complessione): questa somiglianza, sussistente pur nella polarità dei sessi, è ciò che comunemente si chiama complementarità. In tal caso può scoccare tra i due lo sguardo d'amore. Una ragazza ritrosa, però, non lancia sguardi di questo genere, perchè timorosa e accorta: è proprio questo tipo di donna che sceglie il Fedele d'Amore ("consiegue merto spirito ch'è punto"). Veniva, infatti, normalmente scelta una ragazza "irraggiungibile", perchè il "modus operandi" di Cavalcanti e diretti seguaci era prettamente "platonico" e un contraccambio, in termini di amor profano, da parte della ragazza non sarebbe stato che di intralcio. Al contrario dell'amor profano che non può rimaner nascosto ("non pò coverto star"), perchè rivelato dallo sguardo d'amore, quello del Fedele d'Amore non può vedersi sensibilmente. Nessun rossore lo tradisce, il volto rimanendo di un pallore ieratico. Tale amore è dunque invisibile, come lo spirito da cui procede. Il passo successivo descrive il Fedele d'Amore stesso, nel momento di operare: pallido in volto ("for di

colore"), attuante il separando di controllo ("d'essere diviso"), seduto al buio ("assiso 'n mezzo oscuro"), porta a manifestazione la luce ("luce rade"). Il poeta usa "radere" nel senso di "far precipitare al suolo qualcosa di elevato" e perciò di farlo divenire alla propria portata, cioè, nella fattispecie, di renderlo manifesto all'occhio interiore. Solo dall'amore così praticato deriva un beneficio iniziatico. Nel congedo si ribadisce l'esotericità dello scritto, che perciò non è destinato ai profani.

Nicolò de Rossi COLOR DI PERLA Dopo aver esaminato "Donna me Prega" di Guido Cavalcanti, è giunto il momento di esaminare la "risposta" in versi di Nicolò de Rossi e cioè la canzone "Color di Perla". Tale componimento è accompagnato da un commento di De Rossi stesso, scritto in tardo latino. Quel che segue è la parte iniziale del commento, ove vengono enunciati i quattro gradi d'amore: liquefacio (liquefatio, liquefactio), langor (languor), çelus (zelus), extasys: "Ad evidenciam dicendorum premitte quia caritas, dilectio et amor idem est. Dicitur enim caritas quasi cara unitas; dilectio, duorum ligatio; amor, suavis dulcedo. Et istius veri amoris quatuor sunt gradus: primus est liquefacio, cuius duo sunt effectus, scilicet anxietas videndi, et eius signum, propter quod quis potest conoscere in quo statu sit amoris, est impaciencia consorcii in amato; alius effectus est desiderium loquendi, et eius signum audacia proferendi. Secundus gradus est langor, cuius est effectus visio amati per trasparenciam, et eius signum effussio lacrimarum propter cogitationem; alius effectus habitatio in duobus locis, et eius signum delectabilior quies in amato quam in semet ipso. Tercius gradus est çelus, cuius est effectus timor displicendi, et eius signum delectatio uniuscuiusque operationis amati; alius effectus est costancia serviendi, et eius signum leticia ipsius virtutis. Quartus gradus est extasys, cuius est effectus quieta possessio rei amate, et eius signum est securitas ipsius; alius effectus est suavis degustatio, cuius signum est vitoria contrariorum. Et hoc dicit tota cancio". Nella canzone, il poeta si propone di dire appunto "i gradi e la virtude del vero amore". I Fedeli d'Amore sono stati spesso paragonati agli iniziati tantrici dell'Oriente. Proprio questa canzone di Nicolò de' Rossi ci permette di verificare se tale paragone ha un fondamento e in che misura. Uno dei testi tantrici più chiari a riguardo e perciò più facilmente confrontabile è "La vita di Naropa", una esposizione del tantra buddhista tibetano. Secondo tale scuola, sia nella pratica con un partner immaginario (jnana mudra: analoga a quella che, come abbiamo già visto, indicava Guido Cavalcanti) sia nella pratica con un partner umano (karma mudra) si sperimentano quattro livelli di beatitudine, detti rispettivamente: • “ananda” (‘felicità’) : un gioioso eccitamento dovuto alla graduale scomparsa della grossolana dicotomia soggetto/oggetto. • “paramananda” (‘felicità suprema’): un piacere estatico procurato dalla scomparsa dell’idea grossolana del sé personale. • “vilaksana” (‘assenza di eccitamento’), consistente in un benessere - detto anche talvolta ‘piacere speciale’ - derivante dall'esperiernza che soggetto e oggetto sono come una cosa sola (scompare cioè l'idea di partner). • “sahajananda” (‘felicità simultanea o co-emergente o innata o spontanea’), consistente nella intellezione diretta della non-dualità di beatitudine e vacuità. I primi tre tipi di beatitudine hanno un carattere determinato, mentre l'ultimo è indeterminato e abbraccia gli altri con cui è sempre presente, anche se non è notato. Diventati consapevoli di sahajananda, si può rimanere in tale consapevolezza, sia mentre si sperimentano le altre tre forme di beatitudine, sia sperimentandola isolatamente: ciò porta l'esperienza delle quattro beatitudini ad un superiore valore. Con queste premesse, procediamo ora all'esame della canzone Color di Perla:

Parafrasi e Commento della I Stanza Versi Color di perla, dolçe mia salute, lo tuo conforto - acorto - mi rende, quanto si stende - lo meo intellecto, ch'eo dica gli gradi e la vertute del vero amore - che nel core - sende, 05 per che risplende - di nobel effecto: da ch' el non ponçe quasi passione, ma cum rasone - cade for dil senso, compreso - de imaçinaria fede e de la spene, che fermo gli crede. 10 L'anema lieta sego lo compone e dà casone - che 'l conserva acenso, intenso - poi naturale morte: de lui è speciale questa sorte.

Parafrasi Color di perla, dolce mia salvezza il tuo consiglio mi rende capace, nella misura in cui spazia il mio intelletto, di descrivere i gradi e la virtù del vero amore, che nel cuore scende, per risplendere di nobile effetto: dacchè esso non punge come una passione, ma assieme alla ragione cade fuori dalla sfera sensitiva, compenetrato di fede immaginativa e della speranza che crede in esso fermamente. L'anima beata con sé lo congiunge e costituisce la causa che lo conserva acceso, intenso dopo la morte naturale: questo modo d'essere gli è peculiare.

Commento: Nella II stanza di "Donna me prega" Guido Cavalcanti afferma che sull'intelletto ricettivo la passione amorosa non ha reale potere. Nicolò de Rossi, per sottolineare con ancora più decisione che l'amore praticato dai Fedeli d'Amore non è quello volgare, gli nega completamente il carattere di passione. Esso è invece un modo di manifestarsi della caritas, che è compenetrato dalle altre due virtù teologali: la fede e la speranza. Tale tipo d'amore è proprio dell'anima beata, che lo mantiene desto e intenso anche dopo la morte naturale. Si tratta dunque di quell'amore che è "a-mors", senza morte, immortale.

Parafrasi e Commento della II Stanza Versi Çunto primo, lo spirto liquefaçe: 15 da Marte move - cum Jove - parato, ché, temperato, - habilitate trova. Per exencia lo simele plaçe; per accidente - nol sente - ordinato, coagulato - ad anni vera prova; 20 e tremente - mostra anxietate di prender qualitate - cum veçuta, unde minuta - si cerne la entença, quando di pari contende potença. Ancor disidera la voluntate 25 le plu fiate, - sendo conceputa, isconosuta - parlando largire:

Parafrasi Al primo grado [d'amore], lo spirito "liquefa": si origina da Marte se questi è preparato con Giove, perchè, essendone temperato, acquista la capacità [di generare l'amore]. Si ha piacere di ciò che è simile in essenza; ciò che è simile solo per qualche qualità non lo si sente conplementare, nè così solido per [affrontare] ogni vera prova; e tremando si mostra ansietà di provar diletto mediante la vista [dell'amato] onde si avverte una minor intensità [d'amore] quando tale vista è impedita da una forza

de sano seno non crede falire.

contraria. Inoltre la volontà desidera il più delle volte, essendo concepita nascostamente, di manifestarsi con la parola: di buon cuore non crede di venir meno.

Commento: Il primo grado di amore è la Liquefactio (o "liquefacio" nel tardo latino di de Rossi), così detta perchè la rigidità dell'io sembra liquefarsi, affievolendosi la dicotomia tra soggetto ed oggetto. Cavalcanti dice che l'amore praticato dai Fedeli d'Amore si origina "d'una scuritate la qual da Marte vène"; De Rossi chiarisce che per "oscurare" o "temperare" Marte si può utilizzare Giove (simbolo della "gioia simpatetica", onde l'aggettivo "gioviale" riferito a chi manifesta tale qualità). E' bene che il partner prescelto sia effettivamente complementare. In questo primo grado si dipende molto dalla "vista" dell'amato, altrimenti l'amore si affievolisce. Nel commento in latino, De Rossi afferma che ciò costituisce il difetto di questo grado ("propterea iste gradus nondum est perfectus"). Inoltre è forte il desiderio di manifestare il proprio amore con la parola.

Parafrasi e Commento della III Stanza Versi En tale modo vene che omo langue per lo temere - del piaçere - tratto, 30 se en abstratto - lo obietto rebalça. Poi soprabolle lo fervido sangue, el vil pensero, - dal vero - distratto, è struto ratto, - la mente renalça: sì che per transparente vede adeso 35 lunçi e preso, - non habitüata, la cosa amata - oltra quel' opaco corpo che lacremando spande laco; e fa demora ne lo loco enstesso che, compresso, - la tene animata; 40 glorificata - vïa plu se posa dove dimanda paçe pïetosa.

Parafrasi In tal modo avviene che l'uomo langue per il timore di esser sottratto dal piacere, quando l'oggetto [amato] si tramuta in ricordo. Poi sovrabolle fervido il sangue, il vil pensiero, allontanato da quello vero, è subito distrutto, la mente si riinnalza: così che adesso vede come in trasparenza lontano e vicino, non come gli è solito, l'oggetto amato oltre i limiti [sensoriali] di quell'opaco corpo che va spandendo un lago di lacrime; e risiede nello stesso luogo che, circoscritto, la tiene in vita; piena di gloria di più si riposa dove richiede la pace compassionevole.

Commento: Colui che ama passa dal primo al secondo grado d'amore, cioè al "Languore" che è, secondo il commento di De Rossi, "obstupefatio de absencia amati per visum vel mentis excessum in animo iam formati". Riguardo all'ottenimento della "visione per trasparenza", che è propria di questo stadio dell'amore, non possiamo che rimandare, per la definizione e i dettagli, all'ottima monografia di Luce, intitolata non a caso "Il Diafano" (Introd. alla Magia II v.). Gli ultimi quattro versi descrivono (a due a due) i due luoghi ove la mente risiede in questo stadio: in sè stesso, ma ancor più nell'amato. Ribadendo quanto aveva detto all'inizio del commento, De Rossi cita Agostino: "Moratur etiam amor penes amatum, unde Augustinus: anima verius est ubi amat quam ubi animat". Perchè il lettore possa comprendere meglio che senso ha parlare di localizzazione della mente, De Rossi espone anche una interessante dottrina dell'interazione tra le facoltà dell'anima, le tre parti del cevello, il cuore e l'attività delle membra: " In celebro sunt tres celule: in prima parte anteriori viget fantasia et ymagynatio, que rem amandam representat; in medio virtus rationalis, que discernit verum a falso et illud diiudicat; in posteriori parte viget memoria que iam iudicata reponit: deinde sic repositum descendit ad cor, tamquam ad

conceptorem, et cor postea operantur circa diversa officia membrorum quod conceptum est, ut in loquela plus circa pulmonem, in ira circa fel, in amore circa iecur, et hoc comotive; in officio autem lingua loquitur, in ira totus corpus commovetur, sic et amore; et ideo amor ut anima in omnibus exercet officium".

Parafrasi e Commento della IV Stanza Versi Mont'a la beatitudine en çelo a salto a salto - ne l'alto - profondo, mero e tondo, - per linea ascendente. 45 Radiando come stelato celo çusta sua força - scorça - çascun pondo, secondo - ch'al dilecto è deçente. Solicito se rende tutor troppo, e dà oppo - che la pura amicicia 50 per malicia - de lüi non si stempre. Unito et endiviso gola sempre; sol de disiri se anoda groppo che fa entoppo - a chiunca vicia la leticia - ch'el atende per merto: 55 et en parte ne posede experto.

Parafrasi La beatitudine si eleva a zelo gradatamente nell'altezza profonda, pura e sferica, lungo una linea ascendente. Irradiando come cielo stellato grazie alla sua forza rimuove ogni ostacolo, secondo quel che è conveniente all'amato. Si rende continuamente molto sollecito e fa in maniera che la pura amicizia per malvagità non sia da lui compromessa. Unito e concorde sempre prova diletto; tutti i desideri riunisce in uno che crea ostacolo a qualunque vizio la letizia che gli procura la virtù: ed in parte ne possiede esperienza.

Commento: Si giunge al terzo grado della beatitudine: lo Zelo. De Rossi chiarisce che: "non prout çelus est passio, sed prout est pars virtutis, quia ex intensione amoris procedit". La sollecitudine è dovuta soprattutto al timore di dispiacere all'amato: "Inter ceterea que reddunt amantem sollicitum, est timor displicendi, ut hic et Ovidius: Res est soliciti plena timoris amor. Nam qui diligit timet et operatur in totum ne propter sui defectum amicicia sauciatur". In questo stadio si prende diletto di qualsiasi atto dell'amato: "Nota hic delectationem amantis uniuscuiusque rei facte per amatum. Nam adeo unitur amans cum amato, ut indisolubiliter et indivisse pro posse circa eius vultum versetur: in eo sitis et in suis actibus inebriatur. Unde Ovidius: denique quidquid agis, lumina nostra vivant". Un'altro effetto di questo grado d'amore è la costanza di servire accompagnata dal diletto per questa virtù in sé stessa: "Traditur hic quedam constancia serviendi. Amans autem nunc constans factus totum suum desiderium in amato recludit, non solum aborens eum offendere, set etiam propter factum tercii suspicans se posse ledi, semper resistit cuicumque rei nociture suo gaudio, quod meruisse contendit". L'ultimo verso esprime il fatto che, a questo punto, essendo ormai impossibile ogni dissonanza con l'amato, la fede nel proprio amore si tramuta inevitabilmente (e si potrebbe dire magicamente) in ricambio e perciò in prima esperienza d'amore: "Hic ostenditur leticia virtutis constantie: nam reiectis dissonis ipsius amati virtute amantis experiencia paulisper gaudet amans quod fide speravit. Si può notare che De Rossi utilizza una tecnica mista: sfruttando la fase dell'innamoramento e del corteggiamento, e perciò l'amore ancora senza contatto, il Fedele d'Amore può ottenere la Liquefactio, il Languor e lo Zelus. Quest'ultimo, se già ciò non si è verificato, rende magicamente attuale il contraccambio dell'amato. Perciò nel grado dello Zelus si ha già un primo contatto fisico. Come chiarirà De Rossi, nella prossima stanza, è con il pieno contatto che si manifesta anche il quarto grado d'amore o Estasi. Si rende finalmente chiara tutta la differenza con la tecnica puramente interiore di Cavalcanti e perciò il motivo, che rende necessaria una "risposta" a quanto questi espone in "Donna me prega".

Parafrasi e Commento della V Stanza e del Congedo

Versi Cusì atinçe la soma gerarchia: le soe lode - gode - sopra natura, ché dura - nel seraphico ardore. En estasym on'altra vita oblia; contempla rapto - e capto - la figura, sença rancurà - palpando amore. 'Perfetto sta en apice di bene; quieto tene - far di pena guardo né teme dardo - per cui altri trema: sì 'l fa segur la clara diadema, Suave gusto, relicta la spene, gl'adevene; - po' ch'à passato 'l cardo, non à reguardo, - ché la beata alma luçe, fronduta de victoria palma. Cançone mia, regraciani madona, che m'à donato - l'ornato - parlare, per che andare - pòi a chi te spogna: fra l'altre non te fie fata vergogna.

Parafrasi

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Così si raggiunge la somma gerarchia: le sue lodi gode soprannaturali, finchè rimane nel serafico ardore. In estasi ogni altra vita oblia; contempla rapito e catturato la figura, privo di sofferenza, possedendo pienamente l'amore. Perfetto rimane all'apice del bene; attende quieto, insensibile ad ogni molestia, nè teme la freccia di cui altri ha paura: così lo rende sicuro la luminosa aureola, Soave gusto, messa in quiete la speranza, gli giunge; dopo che ha superato il culmine, non ha timore, perchè l'anima beata riluce, incoronata con la palma della vittoria. Canzone mia, ringraziami la mia signora, che mi ha fatto dono di un'elegante parola, per poi giungere a chi ti espongo: fra le altre non sarai stimata vergognosa.

Commento: Aumentando l'intensità d'Amore si perviene alfine alla suprema gerarchia angelica. De Rossi spiega nel commento: "Ad cuius intelligentiam est notandum quod Gerarcia dicitur sacer principatus, et sunt tres: ... Tercie Gerarcie serviunt ordines excelentes, scilicet seraphin, quod interpretatur amans sive ardens; cherubin, quod interpretatur sciens, troni qui tronus sedens Deus describitur". Si è giunti così al quarto e ultimo dei gradi d'Amore: l'Estasi. De Rossi aggiunge, nel commento, che è anche detta "excessus mentis" e ne distingue quattro modalità. L'amore conduce proprio alla quarta e suprema, durante la quale si è dimentichi persino di sé stessi: "Primo modo et comuniter, quamvis non multo proprie, dicitur extasys quando quis abstrahitur, non quantum ad actum vel usum sensuum, set solum quantum ad intencionem, quam totam confert in usum superiorum vel amatorum; et hoc est comune omnibus contemplativis. Secundo modo dicitur proprie quando quis abstrahitur ab istis et ab illis et introducitur in visionem ymaginariam, ut habetur in actibus apostolorum de Petro: et factus est in extasim mentis etc. Tercio modo dicitur magis proprie quando quis abstrahitur ab istis et ab illis et introducitur in visionem intellectualem, ubi videt res intellectuales non per rerum prescentiam set per revelationem, sicut dicitur de Adam quando Dominus misit soporem in eo. Quarto modo sumitur proprissime et sic hic per comparationem dicimus, scilicet quando mens ab omnibus actibus virium inferiorum et nulli nature inter se et Deum interposite intenta, set visione intelectuali divinam exenciam intuetur, sicut fuit raptus Paulus: et hoc fit tam per intellectum quam per voluntatem, quorum principalis auctor est amor. Unde dicitur hic quod, quando amans est in tali gradu raptus, non solum externorum, ut dicit Bernardus, set sui ipsius obliviscitur. Est enim amor estasym faciens ut non sinat sui esse amatores, set amatorum". Per un paragone col tantrismo, citiamo lo scrittore buddhista C.M. Chen: "Quando la beatitudine giunge al culmine ... l'esistenza egoica incorporata nell'ottavo livello della coscienza ed accumulata dalle vite precedenti viene dimenticata e con questa assenza si realizza l'identificazione con il grande sunyata". (C.M. Chen Discrimination between Buddhist and Hindu Tantras, Kalimpong, 1969) Importantissima è la scelta del termine "palpando", indicatrice che De Rossi sta parlando di una tecnica con contatto fisico. Dice infatti nel commento che l'amato non viene semplicemente toccato come l'aria, ma toccato e palpato come il legno e come lo fu il corpo di Cristo : "Et ideo contemplando et intuendo amatum securus non tantum illum tangit, set etiam

palpat amorem et ipsum. Plus enim est palpare quam tangere: nam omne corpus etiam tangenti non resistibile, ut aer, tangitur set non palpatur; solum autem resistibile, ut lignum, tangitur et palpatur. Unde Christus: ipse ego sum: palpate et videte, quia spiritus carnem et ossa non habet sicut me videtis habere". Effetto di quest'estasi è Il possesso "quieto" della persona amata. La concentrazione rende insensibili ad ogni molestia. Commenta De Rossi: "Atende hic quietam possessionem rei amate. Cum autem amans realiter illam palpet, perfecti boni appicibus gloriantur, tam quiete amorem inspitiens, quod ullius sentille molestiam nusquam sentit". E, per un altro paragone con il tantrismo, si può citare ancora Chen: "L'ego personale dell'uomo è assorbito nell'oggetto dell'attrazione ... Nulla del mondo intero rimane nella sua mente. Nulla può disturbare la concentrazione dell'uomo sugli atti d'amore". La Vittoria di cui si parla è quella sui Contrari, si è perciò raggiunta la Coincidentia Oppositorum. De Rossi, che lo aveva già accennato nella parte iniziale del commento, lo conferma ancora con le parole: "Postremo hic ostenditur victoria contrariorum. Anima enim sive intellectus, postquam intravit et excessit cardinem istius gradus, secura nichil timens, victoriosa lucet et plena deliciis exultat in numero beatorum".

10a)

La Canzone dantesca Donne ch'avete di Sipex

Dopo la I ediz. del quaderno "Fedeli d'Amore", alcuni, che hanno accolto favorevolmente la mia interpretazione della Divina Commedia, intesa non come semplice viaggio iniziatico (significato letterale del poema), ma come immenso cosmogramma magico (significato anagogico), mi hanno invitato a dar seguito alla mia affermazione che l'iter iniziatico, proposto o affrontato da Dante, sia descritto invece in alre sue opere. A tal fine, avendo Frater Petrus esaminato "Donna me prega" di Guido Cavalcanti e "Color di Perla" di Nicolò de Rossi, prenderò in considerazione la canzone dantesca, "Donne ch'avete intelletto d'amore". Se Color di Perla è considerata la "risposta" di De Rossi a Donna me prega di Cavalcanti, Donne ch'avete intelletto d'amore è considerata la risposta di Dante. Dante stesso ne "suggerisce" il confronto in un passo del De Vulgari Eloquentia (II,12,3): "Fra questi l'endecasillabo, quando vogliamo poetare nello stile tragico, merita assolutamente il privilegio di prevalere nella testura, per certa sua eccellenza. V'è stanza infatti che gode d'essere intessuta di soli endecasillabi, come quella di Guido da Firenze: Donna me prega, perch'io volgl[i]o dire; e anche noi diciamo: Donne ch'avete intelletto d'amore". Che non si tratti di un accostamento casuale, riguardante la sola forma esteriore, e che questa specifica canzone sia invece di importanza fondamentale è confermato dal fatto che Dante (Purg., XXIV, 49-57) si fa dire da Bonagiunta Urbicciani da Lucca d'esser stato lui a trar fuori per primo "le nove rime", proprio con il componimento Donne ch'avete intelletto d'amore. Sempre Bonagiunta definisce "dolce stil novo" questa nuovo poetare di Dante, in contrapposizione a quello di Giacomo da Lentini, di Guittone d'Arezzo e di Bonagiunta stesso.

Ma dì s'i' veggio qui colui che fore trasse le nove rime, cominciando Donne ch'avete intelletto d'amore. E io a lui: "I' mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch'e' ditta dentro vo significando". "O frate, issa vegg'io", diss'elli, "il nodo che 'l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!". Come è noto, la canzone "Donne ch'avete intelletto d'amore" fa parte della Vita Nova di Dante. Secondo una convenzione ottocentesca (detta comunemente "vulgata"), il testo di quest'opera è stato diviso in quarantadue capitoli ed è stata mantenuta questa suddivisione anche nelle edizioni critiche del 1907 e del 1932. Un più attento riesame dei manoscritti antichi ha evidenziato invece che codici lontani tra loro e risalenti a testimoni indipendenti concordano nel dividere l'opera in trentuno paragrafi. Il numero dei paragrafi è pari a quello dei componimenti poetici (venticinque sonetti, una ballata e cinque canzoni); però non vi è corrispondenza completa, dato che tre paragrafi ospitano due poesie (gli attuali 3, 13 e 17, già VIII, XXII e XXVI della vulgata) e altri tre nessuna (16, 19, 31, già XXV, XXVIII-XXX e XLII). La canzone "Donne ch'avete", che si trovava nel cap. XIX della vulgata, fa parte del paragrafo 10, comprendente i capitoli XVII-XIX della vulgata. E' perciò il primo testo poetico che si inserisca subito dopo la "conversione" del poeta. Negato ogni contraccambio esteriore o interiore all'amore del poeta, che soffre fino a "morirne" in presenza di madonna, egli si decide per un amore gratuito, che si esprima esteriormente nell'esercizio della poesia di lode. Si tratta dunque di un "amore senza contatto", sulla stessa linea di G. Cavalcanti e su diversa linea quindi rispetto a N. De Rossi. Se all'inizio si serve di un supporto del mondo esteriore (la donna amata, opportunamente scelta affinchè sia irraggiungibile), se ne libera quando è abbastanza forte da determinare la morte iniziatica; cioè quando l'uomo comune non avrebbe altra scelta che immalinconire senza rimedio oppure distogliersi. Per il timore di non esserne all'altezza, Dante rimane diversi giorni con il desiderio di dire e la paura di cominciare. Come notò acutamente A.Onofri (Nuovo Rinascimento come Arte dell'Io), la nuova poesia, il dolce stil novo, non è completamente figlio della volontà del poeta, anche se essa indubbiamente lo prepara. Il nocciolo dell'ispirazione giunge come una "grazia" d'Amore, che investe non solo la mente, ma contemporaneamente l'organo della fonazione: "la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: Donne ch'avete intellecto d'amore". La confezione completa del testo richiede però più giorni: "pensando alquanti die". La canzone è composta da cinque strofe di soli endecasillabi in rima, secondo lo schema ABBC, ABBC, CDD, CEE. Per la sua comprensione, Dante fornisce diverse indicazioni. In particolare dice: "Questa canzone, acciò che sia meglio intesa, la dividerò più artificiosamente che l'altre cose di sopra. E però prima ne fo tre parti. La prima parte è proemio de le seguenti parole; la seconda è lo 'ntento trattato; la terza è quasi una serviziale de le precedenti parole. La seconda comincia quivi: Angelo clama [v. 15]; la terza quivi: Canzone, io so che [v. 57]" Dunque la prima parte o proemio è costituita dalla prima delle cinque strofe. La seconda parte dalle tre strofe centrali. La terza parte o serviziale dall'ultima strofa. Iniziamo dal proemio: Donne, ch' avete intelletto d'amore, io vo' con voi de la mia donna dire, non perch' io creda sua lauda finire, ma ragionar per isfogar la mente.

Io dico che, pensando il suo valore, 5 Amor sí dolce mi si fa sentire, che s' io allora non perdessi ardire, farei, parlando, innamorar la gente. E io non vo' parlar sí altamente, 9 ch' io divenissi per temenza vile; ma tratterò del suo stato gentile a respetto di lei leggeramente, donne e donzelle amorose, con vui, 13 ché non è cosa da parlarne altrui. La prima parte, dice Dante, deve ulteriormente suddividersi: "La prima parte si divide in quattro: ne la prima dico a cu' io dicer voglio de la mia donna, e perché io voglio dire; ne la seconda dico quale me pare avere a me stesso quand' io penso lo suo valore, e come io direi s' io non perdessi l'ardimento; ne la terza dico come credo dire, acciò ch' io non sia impedito da viltà; ne la quarta ridicendo anche a cui ne intendea dire, dico la cagione per che dico a loro. La seconda comincia quivi: Io dico (v. 5); la terza quivi: E io non vo' parlar (v. 9); la quarta: Donne e donzelle (v. 13)". Dante si rivolge direttamente alle "donne che hanno intelletto d'amore", destinatari della canzone di lode dell'amata, non perchè voglia trattare esaustivamente questo soggetto (v. 3) ma per dare sfogo ai suoi pensieri (v. 4). Pensando al valore di Beatrice, l'Amore si fa sentire così dolcemente che, se il poeta ne avesse l'ardire, parlando l'amore si diffonderebbe tra la gente (v. 8). Proprio per evitare il timore di parlare, egli rinuncia ad uno stile aulico e ne sceglie uno più semplice eppur rispettoso (vv. 9-12). Infine rivolgendosi nuovamente alle "donne" destinatarie (v. 13), specifica che non avrebbe senso parlarne ad altri. Similmente al caso di "Donna me prega" di G. Cavalcanti i destinatari della poesia sono particolari "donne", che posseggono "Intelletto d'Amore". E' appena il caso di ricordare che Luigi Valli, ne "Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore", ha definitavamente dimostrato che, in tale linguaggio, vengono chiamati "donne" i Fedeli d'Amore stessi. Nel caso poi in questione la cosa è evidentissima, perchè l'intera Vita Nova è indirizzata da Dante a "questo mio primo amico a cui io ciò scrivo" (par. 19. 10, già XXX 3) innamorato di monna Giovanna o Primavera (par. 15, già XXIV), cioè Guido Cavalcanti che menziona l'amata, con quest'ultimo nome, nella ballata "Fresca rosa novella". Se l'amore è "senza contatto" come in G. Cavalcanti, tuttavia compare subito un aspetto aggiuntivo: accesosi nel poeta, esso può, nel momento stesso di parlarne poetando, essere irradiato ad altri uomini. Questa tecnica, da un lato ricorda la raccomandazione di Kremmerz di "orare" non con la sola mente, ma anche con la bocca (l'attenzione alle parole pronunciate con trasporto determina il "silenzio del pensiero", cioè elimina le divagazioni). D'altro lato ricorda l' "amore irradiante", già presente nel Buddhismo delle origini, che porta l'amore a piena potenza, non limitandolo al soggetto-oggetto iniziale. La sola differenza è che nel Buddhismo delle origini l'oggetto iniziale dell'amore è accuratamente scelto come non-erotico (escludendo anche un "eros gentile"). Questo poetare, indicato da Dante, deve essere un semplice "isfogar la mente", niente dunque preoccupazioni razionali di esaurire l'argomento, niente artificiosi stili dottorali. Unico limite in cui si muove lo "sfogo" è la lode rispettosa dell'amata, visualizzata in uno "stato gentile". Esaminato il Proemio della canzone, passiamo ad esaminare la parte centrale di essa, nella quale viene fornito un esempio della teorizzata lode. Angelo clama il divino intelletto 15 e dice: «Sire, nel mondo si vede maraviglia ne l'atto che procede d' un' anima che 'nfin qua su risplende».

Lo cielo, che non ha altro difetto che d'aver lei, al suo Segnor la chiede, e ciascun santo ne grida merzede. Sola pietà nostra parte difende, ché parla dio, che di madonna intende: «Diletti miei, or sofferite in pace, che vostra speme sia quanto me piace là, dov' è alcun che perder lei s'attende, e che dirà ne lo inferno: - o malnati, io vidi la speranza de' beati». Madonna è desiata in sommo cielo: 29 or vo' di sua virtú farvi sapere. Dico: qual vuol gentil donna parere vada con lei; ché quando va per via, gitta nei cor villani Amore un gelo, per che ogne lor pensero agghiaccia e père; e qual soffrisse di starla a vedere diverría nobil cosa, o si morría: e quando trova alcun che degno sia di veder lei, quei prova sua vertute; ché li avvien ciò che li dona salute, e sí l'umilia, ch'ogni offesa obblía. Ancor l' ha dio per maggior grazia dato, che non può mal finir chi l' ha parlato. Dice di lei Amor: «Cosa mortale 43 come esser può sí adorna e sí pura?» Poi la reguarda, e fra sé stesso giura che dio ne 'ntenda di far cosa nova. Color di perle ha quasi in forma, quale convene a donna aver, non for misura; ella è quanto de ben può far natura; per esempio di lei bieltà si prova. De gli occhi suoi, come ch' ella li mova, 51 escono spirti d'amore infiammati, che feron li occhi a qual, che allor la guati, e passan sí che 'l cor ciascun retrova. Voi le vedete Amor pinto nel viso, 55 là o' non pote alcun mirarla fiso. Come per il Proemio è Dante stesso, nella parte in prosa della Canzone, ad indicare il modo in cui il contenuto delle stanze va suddiviso: "Poscia quando dico: Angelo clama, comincio a trattare di questa donna; e dividesi questa parte in due. Ne la prima dico che di lei si comprende in cielo; ne la seconda dico che di lei si comprende in terra, quivi: Madonna è desiata [v. 29]. Questa seconda parte si divide in due: ché ne la prima dico di lei quanto da la parte de la nobilitade de la sua anima, narrando alquante de le sue vertudi, che de la sua anima procedeano; ne la seconda dico di lei quanto da la nobiltà del suo corpo, narrando alquanto de le sue bellezze, qui: Dice di lei Amor [v. 43]. Questa seconda parte si divide in due: ché ne la prima dico d'alquante bellezze, che sono secondo tutta la persona; ne la seconda dico d'alquante bellezze, che sono secondo diterminata parte de la persona, quivi: De li occhi suoi [v. 51]. Questa seconda parte si divide in due; ché ne l' una dico de gli occhi, li quali sono principio de l' Amore; ne la seconda dico de la bocca, la quale è fine d' Amore. E acciò che quinci si lievi ogni vizioso pensiero, ricordisi chi ci legge, che di sopra è scritto che 'l saluto di questa donna, lo quale era de le operazioni de la bocca sua, fue fine de li

miei desiderî, mentre ch'io lo potei ricevere". Come si vede, si tratta di una suddivisione dicotomica, nella quale è sempre la II parte a dicotomizzarsi ulteriormente. Dante ammette che avrebbe potuto indicare altre suddivisioni, ma che non lo ha fatto per riserbo esoterico: "Dico bene, che a più aprire lo 'ntendimento di questa canzone si converrebbe usare di più minute divisioni; ma tuttavia chi non è di tanto ingegno, che per queste che sono fatte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d' avere a troppi comunicato lo suo intendimento, pur per queste divisioni che fatte sono, s'elli avvenisse che molti lo potessero audire". La tre stanze, che costituiscono la lode, seguono sostanzialmente lo schema del trimundio: la seconda stanza è dedicata al cielo, ove risiede il "Divino Intelletto", la terza all'intermundio ove si manifestano le "potenze" (virtù), la quarta infine al mondo fisico, sede della bellezza naturale, ovvero di ciò che "appare". La seconda stanza ci trasporta dunque sul piano divino. Un angelo, nella sua qualità di messaggero, annuncia al Divino Intelletto l'agire meraviglioso di Beatrice, che procede dalla sua animicità luminosa, irradiantesi fino all'Empireo. Il Cielo e i suoi Santi richiedono la presenza di Beatrice, ma il divino giudice ha compassione di Dante e decide che Beatrice per ora resterà sulla terra, per permetter a lui che, "perder lei s'attende", di dire alle anime dell'Inferno: "O mal nati, io vidi la speranza de' beati". Se "Madonna è disiata in sommo cielo", viene spontaneo illustrarne le virtù: è quanto avviene nella terza stanza, che enumera appunto le virtù, cioè i poteri, che lei ha sugli esseri umani: - rende "gentile" ogni donna che le si accompagni; - al suo passaggio, Amore lancia nei cuori villani come un gelo, a causa del quale i loro pensieri ghiacciano e muoiono; - chi soffre alla sua vista può divenir nobile oppur morire; - chi è degno di vederla sperimenta la sua stessa virtù, il suo potere, "ciò che li dona salute, e sí l'umilia, ch'ogni offesa obblía". L'umiliazione, lo spossamento (l'ermetica putrefactio) dei limiti dell'uomo reca cioè l'oblio dei medesimi, che prima ne tarpavano le possibilità. - ma è certo "che non pò mal finir chi l'à parlato". Precisazione importante, perchè Dante, come dice la stanza precedente, andrà all'Inferno, ma non per permanervi, giacchè "à parlato" con Beatrice, ne ha ricevuto il "saluto", cioè "la salute", la salvezza. La sua discesa agli Inferi è dunque transitoria, come quella di Cristo, come quella degli Iniziati. Nella quarta stanza continua la personificazione di Amore, che si chiede come possa una cosa mortale essere così bella e pura. Dante passa quindi alla, prima e unica, descrizione fisica di Beatrice. Vengono evidenziati: - il "color di perle", la sua carnagione chiara, che Nicolò De Rossi, come sappiamo, sceglie addirittura come nome della sua donna; - la sua bellezza suprema in ambito naturale, che la rende modello, archetipo terreno, perchè "per esempio di lei bieltà si prova"; - gli occhi da cui "escono spirti d'amore infiammati", che colpiscono chiunque la guardi e che trovano riscontro in quel "lume pien di spiriti d'amore" della ballata "Veggio negli occhi de la donna mia" di Guido Cavalcanti; - "Amor pinto nel viso, là o' non pote alcun mirarla fiso", luogo che l'indispensabile commento in prosa di Dante chiarisce essere, non gli occhi, ma quella bocca, che proferisce il saluto. Amore è dunque come "il rossetto" di Beatrice. Terminiamo con l'analisi del congedo, cioè dell'ultima strofa della canzone. Dante, nella parte in prosa, dice che "è quasi una serviziale de le precedenti parole". E chiarisce: " Poi quando dico: Canzone, io so che tu, aggiungo una stanza quasi come ancella a le altre, ne la quale dico quello, che di questa mia canzone desidero. E però che in questa ultima parte è lieve a intendere, non mi travaglio di più divisioni". Canzone, io so che tu girai parlando

a donne assai, quand' io t' avrò avanzata; Or t'ammonisco, perch' io t' ho allevata per figliuola d'Amor giovane e piana, che là ove giugni, tu dichi pregando: «Insegnatemi gir, ch' io son mandata a quella di cui loda io somo ornata». E se non vuoli andar, sí come vana, non restare ove sia gente villana: ingégnati, se puoi, d'esser palese solo con donne o con uom cortese, che ti merranno là per via tostana. Tu troverai Amor con esso lei; raccomandami a lui come tu dèi. Questo congedo, apparentemente semplice a comprendersi, viene ovviamente tenuto in scarsa considerazione dalla comune critica letteraria, che ignora il fatto che gli esoteristi hanno spesso nascosto intenti profondi, dietro espressioni dal'apparenza banale. Dal punto di vista letterale, la stanza di congedo è costruita nella forma di un'apostrofe alla canzone stessa che, evitando ogni contatto con la "gente villana", dovrà mettersi in cammino per palesarsi solo ai suoi destinatari. Sappiamo, dall'inizio della canzone, che destinatari sono le donne dotate di "intelletto d'amore". Proprio in questa stanza, Dante specifica che con tale termine egli non si riferisce solo ad esponenti del gentil sesso, perchè la canzone può esser palese non solo "con donne", ma anche con "uom cortese", che la conduca per la via più breve (tostana) al destinatario ultimo della poesia, cioè alla stessa Beatrice. Si tratta del tradizionale "envoi" o invio del messaggio poetico, tipico della lirica cortese. Le pratiche iniziatiche, di alta ascesi, terminano spesso con una "dedica", degli effetti della pratica stessa, ad un insieme di destinatari più o meno vasto. In ambito buddhista, ad es., sovente la pratica finisce con l'augurio che essa possa recar beneficio a tutti gli esseri senzienti. Più riservato, Dante dedica la canzone a tutti i Fedeli d'Amore, con l'auspicio che essi conducano la canzone a Beatrice, cioè, per tramite della canzone, giungano allo stesso obiettivo dell'autore. Non si tratta di semplice "altruismo", ma di indirizzare la forza complessiva della "catena" iniziatica verso il medesimo obiettivo. Nel caso del buddhismo la "catena" è in genere estesa a tutti gli esseri senzienti.

11) Il FILOSTRATO di BOCCACCIO

di Frater Petrus

Boccaccio (Firenze? 1313 - Certaldo, 1375), ha trattato la "dottrina d'amore" praticamente in tutte le sue opere. Tuttavia quella che la sintetizza più efficacemente è probabilmente il poemetto in ottave (1), denominato Filostrato. (1) L'ottava (o ottava rima) è una strofa composta da otto endecasillabi, i primi sei a rima

alternata e gli ultimi due a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. Come indica lo stesso autore, all'inizio dell'opera, il titolo (formato con l'accostamento di un termine greco, "filos", e di uno latino, "stratus") vuol significare "uomo vinto e abbattuto d'amore". Da questo punto di vista, l'amore è in fondo un aspetto di quella folgore di Zeus che, secondo il mito, abbattè la superbia dei Titani. L'Amore, se usato in modo iniziatico, ha la capacità di trasformare la percezione egoica in percezione d'amore. Così Boccaccio esprime, in una strofa del poema, la trasmutazione indotta dall'Amore in Troilo o Troiolo, ultimo figlio di Priamo, innamoratosi della bella Griseida (l'antica Briseide) figlia di Calcante: III, 93 Ed avvegna ch'el fosse di reale sangue, e volendo ancor molto potesse, benigno si faceva a tutti eguale, come ch'alcun talvolta nol valesse. Così voleva Amor che tutto vale, che el per compiacere altrui il facesse; superbia, invidia e avarizia in ira aveva, e ciò ch'ognun dietro si tira. Nel proemio in prosa, Boccaccio affronta il problema relativo all'individuazione dell'aspetto d'Amore, che dona all'amante la più grande beatitudine. Gli aspetti che prende in considerazione sono tre: - pensare a lei nel segreto del proprio cuore, - parlare di lei coi propri amici, - essere con la donna amata. La prima "tecnica", puramente immaginativa, è ciò che in Oriente viene detto "Sigillo della Conoscenza" (Jnana Mudra) e prevede l'uso di un partner puramente interiore o interiorizzato. La seconda tecnica è una variante della prima. Il "parlare con gli amici" non significa ovviamente un semplice chiacchierare, nè implica che gli amici siano presenti in quel momento; indica invece il cantare il proprio amore in poesia. All'immaginazione della prima tecnica si aggiunge l'esaltazione dello stato poetico, in tutto simile a quella di chi pronuncia un inno durante un rito: 72 Era contento Troiolo, ed in canti menava la sua vita e 'n allegrezza; ... La terza tecnica è quella descritta da Abraxa in Ur e può essere, come sappiamo, con o senza contatto fisico. Boccaccio afferma che, dopo aver a lungo creduto, come molti altri, che la beatitudine maggiore si raggiunga pensando segretamente all'amata (I tecnica), ora sa invece che la beatitudine di essere con l'amante (III tecnica) sorpassa di gran lunga quella ottenibile nelle altre due situazioni. Nel poema descrive lo stato in cui l'Amore dispone i due amanti; in esso conoscenza materiale e immaginativa si mescolano indistinguibilmente: III, 34 Ei non uscir di braccio l'uno all'altro in tutta notte, e tenendosi in braccio, si credieno esser tolti l'uno all'altro,

o che non fosse ver che 'nsieme in braccio, sì com'elli eran, fosse l'uno all'altro, ma sognar si credien d'essere in braccio; e l'uno all'altro domandava spesso: - Hotti io in braccio, o sogno, o sei tu desso? Boccaccio simboleggia l'amore cosciente (amor intellectualis) o, come altri dicono, amore sotto la volontà , con la dea Venere. Nell'invocazione a lei dedicata, così si esprime: III, 89 Io non ho grazie quai si converrieno a te da me, o bella luce etterna; però prima tacer che non appieno renderle vommi; tu, chiara lucerna, al disidero mio non venir meno, prolunga, cela, correggi e governa il mio ardore e quel di questa a cui son dato, e fa ch'io non sia mai d'altrui. Pandaro, l'intermediario o messaggero fra Troilo (=Sole) e Criseida (=Luna), è un simbolo dell'Ermete. Del modus operandi di questa evoluzione iniziatica del Mercurio ha parlato Kremmerz (Scienza dei magi e Fascicoli della Miriam) ed Ea nel quaderno dedicato alla Porta magica di Roma. Ma Troilo va poi soggetto ad una triste delusione, perchè Griseida l'abbandona per amore di Diomede. Questo è il secondo senso in cui l'amore vince e abbatte l'uomo: procurandogli sofferenza. Circa un uso iniziatico della sofferenza, attivamente assunta, si veda il capitolo che Evola dedica alla sofferenza, in Fenomenologia dell'Individuo Assoluto. La volubilità di Griseida conduce il poeta a porre un nuovo problema: qual è il tipo di donna più idoneo? In Oriente, già in testi assai noti come il Kama Sutra, si suole distinguere tra varie tipologie di donne (e di uomini), ma, ponendosi da un punto di vista più iniziatico, vengono distinti soprattutto due tipi, detti rispettivamente "Sigillo dell'Azione" (Karma Mudra) e "Sigillo del Voto" (Samaya Mudra). Quest'ultimo tipo di partner, avente la pienezza di tutte le qualificazioni, equivale a ciò che, in talune scuole dell'esoterismo occidentale, è detto "Binomio Complemento". Boccaccio così descrive la donna perfetta: VIII, 32 Perfetta donna ha più fermo disire d'essere amata, e d'amar si diletta; discerne e vede ciò ch'è da fuggire, lascia ed elegge provvida, ed aspetta le promission; queste son da seguire, ma non si vuol però scegliere in fretta, chè non son tutte sagge perchè sieno più attempate, e quelle vaglion meno. Soprattutto i primi versi ricordano moltissimo un passo del testo tibetano "La vita e l'insegnamento di Naropa": "Il tipo migliore ... è dotato dei segni rilevanti dei tre livelli di comportamento nei loro aspetti manifesto, nascosto e mistico...quando è inebriata del desiderio sessuale non conosce nè

vergogne nè freni con il partner yogico".

12) Il FILOCOLO di BOCCACCIO

Introduzione Frater Petrus: Il Filocolo è un romanzo in sette libri, che contiene la storia d'amore di Florio e Biancifiore (o Biancofiore) due giovani che, cresciuti insieme e reciprocamente innamorati, vengono separati dalla volontà contraria dei genitori di Florio. Questi intraprende una lunga peregrinazione per ritrovare l'amata. Filocolo, nel greco approssimativo del Boccaccio, dovrebbe significare «fatica d'amore», ed è il nome che Florio assume nell'accingersi alla ricerca faticosa di Biancifiore. L'etimologia è così presentata dall'autore (Libro III cap.75): "Filocolo è da due greci nomi composto, da "philos" e da "colon"; e "philos" in greco tanto viene a dire in nostra lingua quanto "amore" e "colon" in greco similemente tanto in nostra lingua risulta quanto "fatica": onde congiunti insieme, si può dire, trasponendo le parti, fatica d'amore". Ma, in greco, il miglior equivalente di "fatica" è "ponos". Perciò, nell'edizione veneziana del 1527, il curatore rinascimentale Tizzone Gaetano di Posi ritenne utile correggere il titolo in "Filopono". Questo termine (già usato dagli studiosi quale appellativo di un commentatore ellenistico di Aristotele) significa però "Amante della Fatica" e non "Fatica d'Amore". Marco Guazzo, nel 1530, propose Filocopo, dal momento che "copos" in greco significa "sofferenza" e ipotizzando che Boccaccio l'avesse confuso con "cholos" = "rabbia". Vista l'incertezza, gli editori moderni preferiscono generalmente mantenere il titolo originario di Boccaccio. L'anacronismo, che pervade questo romanzo, deve subito mettere in guardia il lettore. La leggenda di Florio e Biancifiore era diffusissima ai tempi del Boccaccio, sia in virtù della tradizione orale, sia grazie ad alcune versioni popolari scritte. Da un punto di vista temporale, essa era collocabile, come le leggende in genere, in quel "tempo mitico o archetipico", i cui eventi possono riattualizzarsi in qualsiasi momento della storia. Ed è proprio Boccaccio a riattualizzare la leggenda dei due innamorati, fondendola con episodi, in parte veri, in parte immaginari, della sua epoca. I Libro Frater Petrus: Nel prologo, in parte epico, in parte autobiografico, del I libro, Giunone, l'antica nemica dei Troiani, si reca dal papa per esortarlo ad abbattere la potenza degli Svevi, ultimi discendenti della stirpe romana, a sua volta discesa da Enea. Poi la dea scende nell'Averno, per chiedere aiuto alla furia Aletto contro Manfredi, novello Enea. Il papa si rivolge a Carlo d'Angiò, che scende in Italia, sconfigge Manfredi e fonda il regno di Napoli. Ai tempi di Roberto, discendente del suddetto Carlo I, "un giorno, la cui prima ora saturno avea signoreggiata, essendo già Febo co' suoi cavalli al sedecimo grado del celestiale Montone pervenuto, e nel quale il glorioso partimento del figliuolo di Giove dagli spogliati regni di Plutone si celebrava" (Pasqua), l'autore scorge, in un tempietto di Partenope (Napoli), una giovane donna di mirabile bellezza, che diviene subito la signora del suo cuore. Qualche giorno dopo, l'autore rivede la sua donna in compagnia di altre, in un tempio denominato "dal principe dei

celestiali uccelli" (identificato nella chiesa del monastero di Sant'Arcangelo a Baiano). Ella manifesta il desiderio che la storia dell'amore di Florio e Biancifiore non sia "lasciata solamente ne' fabulosi parlari degli ignoranti" e che venga composta su di essa un libretto in lingua volgare. Accogliendo la richiesta come un imperativo, l'autore si mette all'opera. Ha così inizio la storia vera e propria: Giulia Topazia ed il marito Quinto Lelio Africano, nobile romano discendente degli Scipioni, intraprendono un pellegrinaggio al santuario di San Jacopo di Compostella in Galizia, per chiedere la grazia di avere un figlio. Ottenutala, intraprendono un secondo viaggio di ringraziamento, ma il diavolo, con l'inganno, scatena contro i pellegrini, che partecipano al viaggio, Felice, re pagano di Spagna, che governa anche Marmorina, cioè Verona, così chiamata per le sue famose cave di marmo (1). All'agguato sopravvive solo Giulia Topazia, che è accolta, per riparazione, alla corte di Felice. Tuttavia ella muore, dando alla luce una bambina, Biancifiore. Nello stesso giorno, la regina partorisce Florio. Floro o Florio, variante maschile di Flora, significa "fiore". In alchimia, il "fiore" per eccellenza è quello di zolfo, ossia lo zolfo purissimo di prima emissione vulcanica. Biancifiore o Biancofiore è invece simbolo di altrettanto puro mercurio. Essi hanno diversa nascita: il primo è di stirpe regale per indicare la sua origine celeste; la seconda, pur nobile, è però di una nobiltà inferiore, ad indicare la sua origine tutta naturale. Il nome Topazia indica, ovviamente, una "sostanza", che ha le proprietà della corrispondente "pietra". Perciò, è di per sè trasparente e incolore ma, a causa della presenza di impurità metalliche, può assumere, in natura, i più svariati colori. Il colore può poi modificarsi per riscaldamento o irradiazione. Il discendente di Scipione l'Africano è egli stesso un valoroso condottiero ed indica lo "hegemonikon" degli Stoici, il sovrano interiore, pur avente ancora tutti i suoi limiti umani. Il pellegrinaggio a Compostella è il simbolo della strada da seguire per giungere all'illuminazione. Il pellegrinaggio è doppio, giacchè il primo serve a chiedere ed ottenere l'iniziazione, la "grazia" che genera il "feto immortale". Il secondo pellegrinaggio indica l'opus vero e proprio, che inizia con la prima operazione alchimica, la morte o putrefazione, che permette al mercurio di "venire alla luce". Anche la scelta di Verona non è casuale, perchè era sede della Signoria Scaligera (= portatrice della scala). Essa è dunque paragonabile, simbolicamente, a quella località di Luz-Bethel, ove Giacobbe sognò la famosa scala, che gli permise di giungere in cielo. Pietro Negri: L'utilizzo delle cave del veronese risale all'epoca romana (probabilmente al I sec. a.C) e proseguì sino al V sec. d.C. Si interruppe poi per gli elevati costi, dovuti alle difficoltà di estrazione del marmo dalle cave (o "preare") e di trasporto. Riprese con l'avvento della Signoria Scaligera (dal 1262 al 1387). Le numerose opere architettoniche in marmo, innalzate o restaurate, procurarono a Verona il nome di città marmorina o città marmorea. I marmi estratti nel veronese sono di vario genere: dal famoso "Rosso Verona" al "Nembro Rosato" e al "Giallo Reale". Per diversi secoli, molto famosi e richiesti anche all'estero furono gli scalpellini e i lapicidi di questa area geografica, autentici artisti e "Massoni Operativi", ora quasi completamente scomparsi. Sipex: Figura simbolicamente assai significativa è sicuramente il "gran re Felice, reggitore de' regni di Speria, nipote di Atalante, sostenitore de' cieli, governava vicino a' colli d'Appennino una città chiamata Marmorina." (Lib. I, cap. X). Volutamente Boccaccio fa di lui una figura storicamente impossibile e anacronistica, perchè il lettore ne intuisca il significato simbolico. Felice è nome di origine latina (felix), che significa "fertile, favorito dagli dei". Per i cristiani è nome augurale, che significa "colui che è spiritualmente beato". In India il corpo di beatitudine (ananda maya kosha) è il più elevato dei cinque involucri (kosha) che formano l'individuo. Hesperos significava, presso i Greci, "Occidente", per questo essi chiamavano Esperia tanto l'Italia quanto la Spagna, entrambe poste ad occidente della Grecia . Volendo distinguere l'una dall'altra, chiamavano la Spagna col titolo di Esperia ultima. Essendo la vicenda ambientata prevalentemente in Italia, Boccaccio usa Speria, da un punto di vista letterale, soprattutto nel senso di Spagna, ma, da un punto di vista simbolico, indica con tale termine la tradizione occidentale. Atalante o Atlante era un gigante mitologico, figlio del titano Giapeto e di Climene. Per aver lottato contro gli dei dell'Olimpo, Zeus lo condannò a reggere eternamente il mondo sulle spalle.

Boccaccio sottolinea che egli è in particolare "sostenitore dei cieli", identificandolo così, di fatto, con un attributo del Dio ebraico-cristiano, che non è solo creatore, ma anche sostenitore o conservatore di ciò che ha creato. In Neemia 9:6, si trova scritto: Tu, tu solo sei il Signore, tu hai fatto i cieli, i cieli dei cieli e tutte le loro schiere, la terra e quanto sta su di essa, i mari e quanto è in essi; tu conservi in vita tutte queste cose e l'esercito dei cieli ti adora. In India questa funzione sostenitrice-conservatrice della divinità è esercitata in particolare dalla seconda persona della Trimurti, Vishnu, a cui si debbono periodiche e dirette manifestazioni nel mondo creato (Avatara). Anche il cristianesimo ha assegnato questa funzione soprattutto alla seconda persona della Trinità , come è chiaramente indicato dall'Epistola agli Ebrei, 1:1-4 : [1] Dio, che aveva gia parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, [2 ]in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. [3] Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutte le cose con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell'alto dei cieli, [4] ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Ci sono dunque tutti gli elementi per identificare re Felice, nipote di Atalante, con quel Corpo Solare, che costituisce il più elevato dei corpi ermetici. La sua sposa o "potenza" è semplicemente indicata (a differenza di tutti gli altri personaggi) non con un nome proprio, ma semplicemente con l'appellativo di "reina", ad indicare che si tratta di una potenza ad uno stato ancora indifferenziato. Come ha detto Frater Petrus, è significativo che la capitale dei regni di Felice sia proprio Verona o Marmorina. Al simbolismo della scala a cinque pioli dello stemma degli Scaligeri, si riconnette quanto ha detto Pietro Negri riguardo alla presenza della Massoneria Operativa nel veronese. Sempre a questo proposito, Ea, in un passato messaggio, ha indicato che i gradi veri e propri ("interni al tempio") della Massoneria Operativa erano cinque. Il primo grado e il settimo essendo "fuori dal tempio". Afrodisia: Riguardo al duplice pellegrinaggio vorrei riportare i seguenti passi del Filocolo [Lib. I, cap. 5]: Risuona per Roma, com'è detto, la gran fama nella quale un nobilissimo giovane dimorava, il quale si chiamava Quinto Lelio Africano, disceso del nobile sangue del primo conquistatore dell'africana Cartagine. ... avea, secondo la nuova legge del Figliuol di Dio, una giovane romana nobilissima, nata della gente giulia, e Giulia Topazia nominata, presa per sua legittima sposa, ... e ancora di lei niuno figliuolo avea potuto avere, ... essendo Lelio un giorno intorno a quel disio molto pensoso, udì narrare di quello Iddio, che sopra gli sperii liti dimorava lontano, maravigliose cose per lui fatte; le quali poi ch'egli ebbe udite, se n'andò in uno santo tempio, là dove la reverenda imagine del glorioso santo era figurata, nel cospetto della quale disse così: «O grazioso Iddio, il quale sopra i liti occidentali lasciasti il tuo santo corpo, l'anima renduta al sommo Giove, ... Io sono giovane d'eccellentissima fama, e di famosi parenti disceso, e nella presente città copioso di ricchezze e di congiunti parenti, accompagnato di nobilissima e bella giovane, con la quale io sono stato tanto tempo ch' io veggio incominciare la sesta volta al sole l'usato cammino, e niuno figliuolo ancora di lei ho potuto avere, ... Ond'io divotamente ti priego che nel cospetto dello onnipotente Signore grazia impetri, ... , che Egli uno solamente concedere me ne deggia ...La qual cosa se Egli me la concede, io ti prometto e giuro per l'anima del mio padre e per la deità del sommo Giove che i tuoi lontani templi saranno da me visitati personalmente, e i tuoi altari di divoti fuochi saranno alluminati». Due cose mi sembrano particolarmente degne di rilievo:

- Sembrerebbe che il primo dei due pellegrinaggi sia avvenuto in un S. Jacopo di Compostella "nostrano", una chiesa italiana, "sostitutiva" dell'originale spagnola, perchè vi si trovava l'immagine del santo. Ma quale? L'espressione "nella presente città " indica chiaramente che si tratta di una chiesa di Roma, nodo centrale dei pellegrinaggi dalla Terra Santa alla Galizia e viceversa. Una identificazione precisa è tuttavia impossibile, dal momento che il Catalogo di Torino delle Chiese di Roma, risalente al sec. XIV (Ms. Torino, Biblioteca dell'Università , cod. E. V. 17, cc. 1r-16v), riporta sette tra chiese e ospedali dedicati a S. Jacopo (o Jacobo). - E' poi interessante che Boccaccio dia al santo il titolo di "Iddio", testimonianza di quella Deificatio Hominis (stadio superiore alla semplice Santificatio), perseguita anche dalle organizzazioni contemplative cristiane, presenti a quell'epoca in Occidente. Frater Petrus: Trovo eccellente la tua interpretazione di questo passo del Filocolo, giacchè, oltre ad essere pienamente aderente "alla lettera" del testo, chiarifica anche il significato simbolico. Stabilito infatti che il primo pellegrinaggio si riferisca simbolicamente all'iniziazione e il secondo al successivo opus realizzativo, la maggior brevità e fatica del primo rispetto al secondo corrisponde bene alla diversa difficoltà esistente tra l'iniziazione e la piena realizzazione. Nel medesimo brano, altrettanto evidente e significativo è l'identificazione di Giove con il Geova ebraico-cristiano, segno probabile di una integrazione, esistente in certi ambienti dell'epoca, tra esoterismo politeista e cristiano. II Libro Frater Petrus: Uno dei capitoli fondamentali del II Libro del Filocolo, e dell'intera opera, è il III cap. In esso, Boccaccio aiuta sensibilmente il lettore a comprendere il significato anagogico del Filocolo. L' "abile mezzo" , come si direbbe in Oriente, da lui adoperato è quello di narrare un sogno profetico, donato da Venere a re Felice. Tale sogno, da un lato, costituisce una allegoria dell'intera opera e, dall'altro, ne fornisce la chiave anagogica. Riporto, per la sua importanza, integralmente il suddetto capitolo: Sì tosto come Amore dalla sua madre fu partito, così ella nella lucida nuvoletta fendendo l'aere pervenne a' medesimi tetti, e, tacitamente preso il vecchio re, il portò in una camera sopra un ricco letto, dove d'un soave sonno l'occupò. Nel qual sonno il re vide una mirabile visione: che a lui pareva esser sopra un alto monte, e quivi avere presa una cerbia bianchissima e bella, la quale a lui molto parea avere cara; la quale tenendola nelle sue braccia, gli pareva che del suo corpo uscisse un leoncello presto e visto, il quale egli insieme con questa cerbia sanza alcuna rissa nutricava per alcuno spazio. Ma, stando alquanto, vedeva discender giù dal cielo uno spirito di graziosa luce risplendente, il quale apriva con le proprie mani il leoncello nel petto; e quindi traeva una cosa ardente, la quale la cerbia disiderosamente mangiava. E poi gli pareva che questo spirito facesse alla cerbia il simigliante; e fatto questo si partiva. Appresso questo, egli temendo non il leoncello volesse mangiar la cerbia, la lontanava da sè: e di ciò pareva che l'uno e l'altro si dolesse. Ma, poco stante, apparve sopra la montagna un lupo, il quale con ardente fame correva sopra la cerbia per distruggerla, e il re gliele parava davanti; ma il leoncello correndo subitamente tornò alla difesa della cerbia, e co' propii unghioni quivi dilacerò sì fattamente il lupo, che egli il privò di vita, lasciando la paurosa cerbia a lui che dolente gliele pareva ripigliare, tornandosi all'usato luogo. Ma non dopo molto spazio gli parea vedere uscir de' vicini mari due girfalchi, i quali portavano a' piè sonagli lucentissimi sanza suono, i quali egli allettava; e venuti ad esso, levava loro da' piedi i detti sonagli, e dava loro la cerbia cacciandogli da sè. E questi, presa la cerbia, la legavano con una catena d'oro, e tiravansela dietro su per le salate onde infino in Oriente: e quivi ad un grandissimo veltro così legata la lasciavano. Ma poi, sappiendo questo, il leoncello mugghiando la ricercava; e presi alquanti animali, seguitando le pedate della cerbia, n'andavano là ove ella era; e quivi gli parea che il leoncello, occultamente dal cane, si congiungesse con la cerbia amorosamente. Ma poi avedendosi il veltro di questo, l'uno e l'altro parea che divorar volesse co' propii denti. E subitamente cadutagli la rabbia, loro rimandava là onde partiti s'erano. Ma inanzi che al monte tornassero, gli parea che essi si tuffassero in una chiara fontana, della quale il leoncello

uscendone, pareva mutato in figura di nobilissimo e bel giovane, e la cerbia simigliantemente d'una bella giovine: e poi a lui tornando, lietamente li ricevea; e era tanta la letizia la quale egli con loro facea, che il cuore, da troppa passione occupato, ruppe il soave sonno. E stupefatto delle vedute cose si levò, molto maravigliandosi, e lungamente pensò sopra esse; ma poi non curandosene, venne alla reale sala del suo palagio in quell'ora che Amore s'era da' suoi nuovi suggetti partito. Da un punto di vista semplicemente allegorico, le concordanze degli elementi del sogno di re Felice sono le seguenti: Montagna= Marmorina, la capitale che re Felice "governava vicino a' colli d'Appennino". (1) Cerbia bianca= Biancifiore, allevata alla corte di re Felice. Leoncello= Florio, figlio di re Felice. Spirito luminoso= Cupido, che fa innamorare reciprocamente Florio e Biancifiore. Lupo= Il siniscalco Massamutino, al quale re Felice assegna il compito di ordire una trama per accusare ingiustamente e poter così giustiziare Biancifiore. Egli viene però ucciso, in un "giudizio di Dio", da Florio, agente in incognito, che dimostra così l'innocenza di Biancifiore. Girfalchi (2)= Mercanti orientali di Alessandria d'Egitto ai quali re Felice vende Biancifiore, visti inutili gli altri tentativi di allontanarla da Florio. Veltro= L'Ammiraglio di Alessandria che tiene prigioniera Biancifiore in una torre. Florio, nascosto in una cesta di fiori, riesce a penetrare in essa e trascorre una notte d'amore con Biancifiore. Scoperti dall'Ammiraglio, che vorrebbe farli uccidere, si salvano grazie ad interventi divini e umani. L'Ammiraglio (che è fratello della madre di Florio) scopre che Florio è suo nipote, celebra egli stesso le nozze dei due giovani e facilita il loro ritorno in patria. Fontana= Fonte Battesimale di Roma, ove Florio, convertito da Ilario, personaggio "all'ordine de' cavalieri di Dio (3) scritto", viene battezzato assieme al suo seguito, dal sommo pontefice Vigilio. (1) Appennino Veronese. (2) Il girfalco o gerfalco è un uccello di rapina, il più grande tra le varie specie di falchi. (3) Così erano soprannominati i Templari, ma l'Ordine del Tempio fu fondato nel 1118-1119 e soppresso nel 1312, non poteva perciò esistere all'epoca di Vigilio, che fu papa dal 537 al 555. Che si tratti proprio del Vigilio storico e non di personaggio di fantasia è confermato dai riferimenti a Giustiniano, che fu imperatore nel medesimo periodo, e ad Agapito I, uno degli immediati predecessori di Vigilio. Il termine "cavalieri di dio", oltre che per i "monaci guerrieri" degli ordini cavallereschi, si trova però anche usato per i semplici monaci. Nel 18° cap dei "Fioretti di S.Francesco", il termine viene riferito agli oltre cinquemila frati ("lo esercito de' cavalieri di Dio") intervenuti ad un Capitolo generale, presso Santa Maria degli Angeli. Ma l'ordine francescano fu fondato nel 1210, così ancora una volta le date non concordano. O Boccaccio fa riferimento ad uno degli ordini monastici esistenti già all'epoca di Vigilio, oppure sta usando, come anche in altri punti del Filocolo, un anacronismo, per sottolineare l'importanza simbolica dei personaggi.

Significato Anagogico del Sogno di Re Felice Gli Ambienti Naturali Frater Petrus: Veniamo ora ad esaminare, brevemente, la chiave anagogica, fornita dal sogno di re Felice, con il che si renderà anche evidente tutta la differenza che passa tra il livello allegorico dell'interpretazione (il secondo, stando al Convivio di Dante) e quello anagogico (il quarto e più elevato). Iniziamo dai due ambienti naturali, che compaiono nel sogno: la montagna e il mare. Inutile mettersi a discettare su tutti i significati simbolici che questi due ambienti possono avere. Far sfoggio di erudizione non serve nell'esoterismo, dove invece occorre capire, deducendolo dal contesto, ma anche dalla propria esperienza interiore, quale tra i possibili significati è corretto

nel caso specifico, che si sta esaminando. Si potrà notare ad es. come, in questo sogno, la montagna non ha affatto il significato, altrove frequente, di "luogo di ascesa". Ha invece il significato di luogo originario, dove l'evento narrato ha l'inizio, ma anche la fine. Mentre il mare è il luogo della peregrinazione intermedia. Paragonando questo sogno all'Odissea, in esso la Montagna ha la stessa funzione di Itaca. La montagna, per la sua relativa immutabilità , è uno dei simboli del Sè. Se il Sole è simbolo della chiara consapevolezza del Sè , la Montagna lo è del suo aspetto "immutabile", cioè immortale. Al contrario il Mare, per le sue correnti, è un ovvio simbolo della Natura e del suo Divenire. L'ascesi spirituale non può che avere origine dal Sè, che però all'inizio non è conosciuto nella sua vera essenza, velato com'è dall'ego di tutti i giorni . D'altro canto l'ascesi medesima non può che dipanarsi temporalmente nel divenire (il mare). E' solo confrontandosi con il divenire che l'ascesi spirituale può giungere a vera stabilità . Chi sa meditare in un romitaggio, ma non è in grado di permanere nello "stato naturale della mente", quando si trova in mezzo alla folla, è ancora lontano dalla meta. E' solo quando la vera essenza del divenire è compresa, che anche quella del Sè lo è (il ritorno alla montagna). Un famoso discorso del maestro Ch'ing yuan Wei-hsin (Seigen I shin, in giapponese), della dinastia T'ang, ci offre un ottimo paragone: "Trent'anni fa, prima di iniziare lo studio dello Zen, dissi: -Le montagne sono montagne, le acque sono acque-. Dopo aver avuto un'intuizione sulla verità dello Zen ..., dissi: -Le montagne non sono montagne, le acque non sono acque-. Ma ora, avendo raggiunto la dimora del riposo finale [cioè, l'illuminazione], dico: -Le montagne sono realmente montagne, le acque sono realmente acque-". Per chi non ha ancora praticato, il Sè è semplicemente il proprio Ego, legato alla presente esistenza e il Divenire coincide con la descrizione del mondo, dettata dal senso comune collettivo (il "buon senso") della propria epoca e del proprio ambiente. Quando si inizia la propria ascesi, essa è inevitabilmente influenzata dalle provvisorie descrizioni del Sè e del Divenire, che i maestri forniscono alla sete di sapere dei discepoli, per far loro abbandonare la precedente descrizione mondana. Se essi si fissano in tali nuove descrizioni, vuoi razionali, vuoi anche simboliche (2), finiranno con avere una visione "manierata" ed artificiale della realtà . Ad es., come spesso avvenne in India (3), l'immutabilità del Sè potrà essere erroneamente concepita, come effettivamente simile all'immobilità di una montagna, dimenticando quindi l'aspetto attivo di questa "immobilità" (4). Andando al di là della semplice speculazione ed immaginazione, coltivando l'esperienza diretta e non egoica della realtà (Intuitio Intellectualis), finalmente si avrà una visione effettiva di entrambi i poli della realtà . (1) Nel caso di Itaca, è la posizione relativamente immutabile dell'isola rispetto alle altre terre ad avere analogo significato. (2) Avent mera funzione indicatrice, come quella del "dito che mostra la luna". (3) Suscitando, per reazione, l'opposta dottrina buddhista del "Non-Sè" (Anatta). (4) "Motore Immobile" lo definì Aristotele, "Agire senza Agire" i filosofi dell'Estremo Oriente. Gli Animali simbolici La Cerva Frater Petrus: Nel sogno di re Felice, appaiono cinque specie animali: la cerva bianca, il giovane leone, il lupo, i due girfalchi e il veltro. Iniziamo con l'indagare il significato anagogico della cerva bianca. "Come la cerva anela ai rivi d'acqua, così l'anima mia a Te anela, o mio Dio". Così inizia il salmo 42. La cerva che anela alle fonti di acqua pura è il simbolo di quell'aspetto dell'anima umana che anela al Sè, al "Dio in noi". Ma di quale aspetto si tratta? Fin dall'epoca dei cacciatori Paleolitici del grande Nord, il cervo fu venerato come il principale obiettivo dei riti di caccia. Sul simbolismo del cervo, ha scritto Adriano Romualdi (1): "Al toro - simbolo della cieca forza generatrice, connesso con l'ideologia della fecondità , rozzamente raffigurato

insieme con la Dea Nuda nelle più antiche culture agricole europee - si contrappone il cervo, l'animale dei cacciatori del Nord, Seelentier des nordischen Menschen, e, secondo Weisweiler, 'animale della civiltà artica'. Il cervo è significativamente associato col simbolismo del sole e della luce". Il cervo dunque non è, come il toro, simbolo della forza primigenia e scatenata del caos, bensì della vita in un senso superiore, imperniato secondo Romualdi nella concezione metafisica dell'ordine, il "kosmos" greco, la "ratio" romano-italica, l' "orlog" germanico. Secondo autori come il Weisweiler (2) si può ritenere che, in epoca remota, nel centro Europa, si siano sovrapposti due diversi flussi culturali, quello del toro mediterraneo e quello del cervo artico. Questo spiegherebbe le, sia pur parziali, sovrapposizioni simboliche dei due animali, attestate ancora in epoca celtica e romana. Ciò è vero, in particolare, per il noto simbolo del cerchio sormontato dalla falce lunare, stilizzazione della testa del toro-cervo, ma anche parte superiore del simbolo alchimistico del Mercurio. In questo forum, parlando della Porta Ermetica di Roma, Ea ha indicato che la falce lunare (3) di tale simbolo equivale all'intelletto ricettivo (scr: buddhi), aspetto animico in cui prevale come qualità albedo (sattva) e che perciò riceve direttamente la luce dell'Intelletto Attivo (Purusha). L'intelletto ricettivo, talvolta paragonato ad "un occhio nel buio", anela, come indica il salmo, alla luce del "Dio in Noi" . Nella preistoria greca, la religione pelasgica aveva una principale divinità detta la Grande Madre o Dea Bianca o Triplice Dea, o semplicemente "l'Ineffabile". Suprema reggitrice di tutte le cose, si manifestava nella trina immagine di madre-ninfa-vergine. A livello cosmico, infatti, l'Intelletto ricettivo ha tre aspetti che, nella società patriarcale Indù, è costituito dalla corrispondente Trimurti. In Grecia, arrivarono poi gli Achei e sostituirono alla Grande Madre il figlio Zeus. Gli aspetti della Triplice Dea furono assunti dalla moglie Era, dalla bella Afrodite e da dee vergini come Artemide e Atena. Nella religione ellenica, la cerva (e spesso, per estensione, il cervo) era attributo costante di Artemide e, in quella romana, di Diana, divinità lunari ("dee bianche") e cacciatrici. La caccia ad essa era in rapporto con il tempo notturno e con la ricerca della saggezza. Lo dimostra anche il mito di Eracle. Tra le sue celeberrime fatiche, vi è infatti la cattura della cerva di Cerinea (monte tra l'Arcadia e l'Acaia), che aveva le corna d'oro e gli zoccoli di bronzo ed era sacra ad Artemide. Per questo motivo doveva essere catturata viva ed Eracle ci riuscì solo dopo averle dato la caccia per un anno, inseguendola fino alla terra degli Iperborei. Anteriormente al Filocolo del Boccaccio, è da segnalarsi "l'Erec et Enide", romanzo arturiano scritto nella seconda metà del XII secolo da Chrètien de Troyes. In esso l' "avventura della cerva bianca" è apparentemente un gioco di corte a contenuto erotico, alludendo alla conquista della donna; ma in realtà ha significato iniziatico. Dopo Boccaccio, analogo simbolismo è stato utilizzato nella "Cerva bianca", poemetto allegorico in ottave, diviso in sette canti, pubblicato per la prima volta a Milano nel 1510, dove il Fregoso racconta la vicenda della ninfa Mirina, tramutata da Diana in cerva, e del cacciatore Fileremo, che la insegue con i cani Desio e Pensiero, nel tentativo di restituirle figura umana, attraverso i regni di Diana, d'Antero e d'Amore. (1) Di Adriano Romualdi (1940-1973), si veda: "Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni", Edizioni di Ar, Padova 1978 ed anche "Sul problema d'una Tradizione Europea", edizioni di Vie della Tradizione, Palermo 1996. (2) Weisweiler Josef: storico e archeologo, autore, negli anni quaranta e cinquanta, di numerosi saggi in tedesco sulla preistoria indoeuropea e sui Celti. (3) Ea ha anche indicato che il cerchio solare, sottostante la falce lunare, è il comune ego (scr: ahamkara). I Girfalchi Frater Petrus: Anche nel caso di questo simbolo, è perfettamente inutile enumerare i disparati significati che il falco ha avuto fin dalla più remota antichità . Occorre invece indicare il significato specifico che assume nel sogno di re Felice, tenendo conto che i falchi sono due e che non sono falchi qualunque, bensì girfalchi. Bisogna inoltre tener presente il rapporto che

essi hanno con la cerva bianca: "Ma non dopo molto spazio gli parea vedere uscir de' vicini mari due girfalchi, i quali portavano a' piè sonagli lucentissimi sanza suono, i quali egli allettava; e venuti ad esso, levava loro da' piedi i detti sonagli, e dava loro la cerbia cacciandogli da sè. E questi, presa la cerbia, la legavano con una catena d'oro, e tiravansela dietro su per le salate onde infino in Oriente: e quivi ad un grandissimo veltro così legata la lasciavano". Abbiamo già identificato, nelle onde del mare, il flusso del divenire e, nella Cerva, l'Intelletto ricettivo (Buddhi), cioè la lunula che sormonta il simbolo del mercurio. Genericamente il falco è simbolo degli dei solari. Qui però non si tratta del sole a sè stante (Intelletto Attivo, Purusha), ma del sole sottostante la lunula nel simbolo del mercurio, cioè dell'Ego o mente dualistica (Ahamkara), che valuta gli oggetti in relazione all'interesse del presunto soggetto. Il dualismo è sottolineato simbolicamente proprio dal fatto che i girfalchi sono due e dall'etimologia del loro nome. In italiano può dirsi sia gir(i)falco, sia gerfalco. Le etimologie proposte sono più d'una e si lumeggiano a vicenda. La più generica fa derivare i prefissi "gir" e "ger" dal greco "hieros=sacro". Secondo questa etimologia, il girfalco (nome scientifico: falcus rusticolus) sarebbe perciò una variante nordica del "Falco Sacro" degli Egizi. In effetti il girfalco anche nella sua forma ricorda il Falco Sacro, ne è tuttavia più grande, con una lunghezza di circa 60cm e un'apertura d'ali di m1,30-1,40, ed è quindi la specie di mole maggiore, fra quelle appartenenti al genere Falco. Questa etimologia, da un punto di vista simbolico, conferma semplicemente il fatto che questo falco costituisce un importante simbolo sacro. Una seconda etimologia tiene conto del fatto che l'uso di adoperare i falconi nella caccia è soprattutto di provenienza germanica e che, in tale lingua, si trovano i termini corrispondenti: "girfalc" o "gèrfalko" (ant. ted.), "girvalke" (med. ted.), "geierfalk" (mod. ted.). Probabilmente derivano dal sostantivo che, nel medesimo linguaggio, significa "cupidigia, ingordigia": ant. ted. "giri", med. ted. "gir" o "gàr", mod. ted. "gier". La supposta radice indoeuropea è "gar=inghiottire", da cui deriverebbe anche il sanscrito "gara=ingoiare", l'anglosassone "garfalca=avvoltoio" e il latino, ed anche italiano, "grassare=predare". Simbolicamente, questa etimologia sottolinea la cupidigia tipica della mente egoica. La terza etimologia fa derivare il nome dal tardo latino "gyrare", perchè questo uccello di rapina persegue la preda con lunghi giri e facendo la ruota con la coda. Questa terza etimologia sottolinea il vagare della mente egoica attorno ai propri oggetti di desiderio, come anche la sua vanità (far la ruota). In natura, i girfalchi rimangono spesso nelle vicinanze di stormi d'uccelli marini, che sono tra le loro prede preferite. Inoltre, fanno le uova in nidi posti sulle sporgenze delle scogliere. Nel sogno di re Felice, essi sorgono dal mare a sottolineare la connessione tra la comune visione del divenire (il mare) e l'ego (i girfalchi), che è la principale causa di tale visione. L'ego trascina l'intelletto ricettivo (la cerva) nei flutti del divenire. Ciò è connesso con una visione erronea del Sè (o Intelletto Attivo) e con l'abbandono della dimora della "sede mediana", ove il Sè si manifesta per mezzo di "luci" e dei cosiddetti "suoni inaudibili" (simboleggiati dai sonagli lucenti e silenziosi). Oltre che dall'Europa Settentrionale, i girfalchi giunsero in Italia dall'Oriente, portati dagli Arabi e dai crociati. Nel Milione, Marco Polo ricorda i girfalchi delle isole dell'Asia Settentrionale, utilizzati dal Gran Khan. Fu Federico II ad unificare le due scuole di falconeria nordica e orientale. Nel sogno di re Felice, i girfalchi trascinano la cerva in Oriente, simbolo del sole nascente e che, poichè nasce, è destinato anche a tramontare e a scomparire. Non a caso il Dio dei Morti egizio, Sokar o Sokaris, era rappresentato con la testa di falco. L'Oriente vale perciò, nel nostro caso specifico, come ulteriore simbolo dell'ego transeunte. Accenniamo al fatto che il veltro (1) a cui la cerva viene saldamente legata è il corpo fisico o saturnio, che ne limita la ricettività durante la vita terrena. La catena, con cui i girfalchi trascinano la cerva e la legano al veltro, è d'oro per simboleggiare l'aspetto attraente, che ha per l'ego, questo legame. (1) Del veltro parleremo più diffusamente nel seguito.

Il Lupo Frater Petrus: Come molti altri simboli, il lupo ha perlomeno un duplice significato. Ciò è reso evidente già dalle favole di Esopo e di Fedro che presentano il lupo come un animale malvagio, feroce e ingannatore, ma a volte anche giusto e rispettoso della parola data. Si tratta di due possibilità insite in chi ha natura guerriera e perciò il lupo è associato simbolicamente ad Ares-Marte. Non a caso, nel mito della fondazione di Roma, Romolo e Remo, figli di Marte e Rea Silvia, furono allevati da una lupa. Per comprendere meglio il valore anagogico specifico che il Lupo ha nel sogno di Re Felice, occorre però esaminare altri due miti. Nella religione ellenica, il lupo non è associato solo ad Ares, ma anche ad Apollo. Questi fu partorito da Latona, che aveva assunto sembianze di lupa, e per questo ad Argo era chiamato Apollo Liceo [Lykaios (gr.) o Lyceius (lat.), cioè "Lupesco"]. Sotto forma di lupo, animale connesso etimologicamente con la luce (Lykos, la parola greca per lupo, ha la stessa radice di Lyke, luce), ingoia il toro, simbolo del caos selvaggio e il suo gesto archetipico è ripetuto poi, con le opportune varianti del caso, da molti eroi solari che uccidono o catturano tori o esseri taurimorfi: Eracle, Teseo, Mitra. Se a questo punto ci ricordiamo quanto già è stato detto, riguardo alla sovrapposizione e sostituzione simbolica tra Cervo e Toro, verificatasi in un certo periodo della storia europea, ci ritroviamo immediatamente nella stessa situazione del sogno di Re Felice, dove un lupo "con ardente fame correva sopra la cerbia per distruggerla". Sappiamo già che la cerva simboleggia l'Intelletto Ricettivo (Buddhi) e i due Girfalchi il dualistico Ego (Ahamkara). Il Lupo simboleggia allora la mente nell'aspetto specifico di Sensorio Comune (Manas). Esso riunisce in unità le varie impressioni sensoriali e perciò, assieme alla luce dell'Intelletto Attivo (Purusha), è concausa di quei processi di astrazione che hanno sede nell'Intelletto Ricettivo. Contribuisce dunque a "gettar luce" sull'Intelletto Ricettivo (la cerva), ma nello stesso tempo lo "divora". Infatti, il Sensorio Comune è al servizio dell'Egoità e perciò non compie un unione neutrale delle varie impressioni sensoriali, ma le smembra in una parte importante per l'Ego (la "Figura") e in una parte, ben più vasta, ma egoicamente meno importante (lo "Sfondo"). Poichè, nell'uomo comune, il Sensorio Comune taglia fuori la massima parte delle impressioni materiali e sottili, annichila gran parte delle immense possibilità percettive dell'Intelletto Ricettivo. Nella mitologia nordica, Fenrir (o Fenris) era un lupo gigante, figlio di Loki. Quando Fenrir apriva le fauci, con una toccava la terra, con l'altra il cielo. Il Sensorio Comune è infatti "a contatto" da una parte con i sensi materiali e sottili, dall'altra con l'insieme intellettuale dell'uomo. Il mito narra che il dio Tyr, per incatenare definitivamente il malvagio animale, lo sfidò a rompere un laccio sacro e indistruttibile. Fenrir fiutò l'inganno e disse di accettare, solo se qualcuno avesse posto la mano tra le sue fauci. Il lupo non riuscì a rompere il magico laccio, ma Tyr perse l'arto. L'incatenamento della, di per sé formidabile, energia del Sensorio Comune, per metterla al servizio dell'Ego, implica una menomazione delle nostre capacità generali. Fenrir è destinato ad ingoiare il Dio supremo Odino il giorno del Ragnarok. Quest'ultimo, essendo un tempo mitico, non coincide con un periodo di tempo particolare. Si verifica in qualsiasi momento, in qualsiasi uomo in cui la luce dell'Intelletto Attivo è divorata da un sensismo totalmente assorbente e materialisticamente orientato. Il Leone Frater Petrus: Il Leone è anch'esso un simbolo polivalente, prova ne è che nella religione Ellenica era associato a disparate divinità come Artemide, Apollo, Efesto, Dioniso e Rea e, in quella romana, a Giunone e Fortuna. Così, ancora una volta, non esistendo un significato generico, si tratta di individuare il significato specifico che assume il leone nel sogno di Re Felice. Essendo gli animali simbolici, già visti, equivalenti ad aspetti dell'essere umano, c'è da aspettarsi che sia così anche per i rimanenti. Abbiamo già indicato che il leoncello equivale come personaggio a Florio e che questi a sua volta ha relazione con i fiori di Zolfo. Ma di quale zolfo si tratta? Chimici e alchimisti ne conoscono perlomeno due varietà. Ad es. ne "I Secreti della Signora Isabella Cortese", opera alchimica del XVI sec. (1) si legge:

" E però sappi che tutti i metalli sono composti di mercurio e zolfo, cioè di materia e forma. Il mercurio è la materia et il zolfo è la forma, secondo la purità et l'impurità del mercurio e dello zolfo, mediante l'influenza che pigliano. E per questo l'oro è generato di argento purissimo e zolfo rosso è puro mediante il Sole, e però è il più perfetto metallo di tutti e l'argento è fatto di mercurio e di zolfo bianco, mediante l'influenza della Luna, e però è più perfetta degli altri cinque, e non habbiam bisogno se non di zolfo con l'influenza del Sole, overo della Luna. Il qual zolfo è forma et anima dei metalli, et il resto è materia grossa dell'argento vivo". Analogamente nell'anonimo Rosarium Philosophorum (2) si trova: "Poiché è stato detto che lo Zolfo dei Filosofi è rosso nel Sole per la più grande digestione, e lo Zolfo, bianco nella Luna, per minore digestione". Il leone associato sia ad Apollo, sia ad Artemide si presta bene a rappresentare sia il solare zolfo rosso, sia il lunare zolfo bianco. Deve dunque trattarsi di un aspetto dell'essere umano che si basa su una polarità sole-luna. Questo aspetto sappiamo essere il corpo "eterico" o vitale (forma corporis), agente proprio tramite la polarità insita nel "soffio" o "pneuma", che è quella tra il solare "prana" e il lunare "apana" (3). Si spiega così perchè, nel folclore medievale, si credeva che i cuccioli del leone nascessero senza vita e che il genitore donasse loro la vita soffiandoci sopra. Inoltre, sebbene fosse considerato re degli animali, si pensava avesse paura degli scorpioni, del veleno dei serpenti e degli incendi, tutti simboli di ciò che distrugge la vita. (1) Esistono dodici edizioni veneziane di questo testo, stampate tra il 1561 ed il 1677. Ne esiste anche una traduzione tedesca: Verborgene heimliche Kunste und Wunderwerke in der Alchymie, Medicin und Chyrurgia Hamburg 1592, 1596 e Frankfurt 1596. (2) Si tratta di un testo alchimico del XIII secolo, attribuito ad Arnaldo da Villanova (1235-1315). La prima pubblicazione a stampa del Rosarium è probabilmente la miscellanea pubblicata a Francoforte sul Meno nel 1550, intitolata "Alchemia Opuscula complura veterum philosophorum...", di cui esso costituiva la II parte. (3) Per maggiori dettagli si veda quanto detto da Ea nel quaderno dedicato alla Porta Ermetica di Roma. Il Veltro Frater Petrus: E veniamo al simbolo del Veltro (o levriero) pregno di significato presso i Fedeli d'Amore. Gli studiosi si sono concentrati per lo più sul significato politico che ha in Dante, identificandolo in un virtuoso principe, forse un imperatore, capace di ristabilire l'impero romano e di riformare il mondo corrotto. Taluni lo identificano con Cangrande della Scala. Ed anche nel sogno di re Felice si parla di un "grandissimo veltro" (cioè di un Cane Grande). Ma noi ci stiamo occupando del livello anagogico del significato e perciò dobbiamo mettere da parte tutti i livelli inferiori di interpretazione. Nel III Dialogo de "Lo spaccio della bestia trionfante", Giordano Bruno fa dire a Sofia: Lascia l'ombre ed abbraccia il vero. Non cangiare il presente col futuro. Tu sei il veltro che nel rio trabocca, mentre l'ombra desia di quel c'ha in bocca. Aviso non fu mai di saggio o scaltro perdere un bene per acquistarne un altro. A che cerchi si lungi diviso se in te stesso trovi il paradiso? Anzi, chi perde l'un mentre è nel mondo, non speri dopo morto l'altro bene. Perchè si sdegna il ciel dare il secondo

a chi il primiero non caro non tenne; così, credendo alzarti, vai a fondo; ed ai piacer togliendoti, a le pene ti condanni; e con inganno eterno, bramando il ciel, stai ne l'inferno. Dunque il Veltro indica quel che nell'uomo lo rende completo, più completo di quanto non lo sia da morto, perfino se in paradiso. Si tratta di un motivo comune a tutta la tradizione iniziatica, che fa affermare, ad es. a Pico della Mirandola (De Hominis Dignitate), la superiorità dell'uomo rispetto agli stessi angeli, per la presenza in lui di aspetti oltre che "celesti", anche "terreni". Nella Tavola Smeraldina infine si legge: "Il padre di ogni telesma, di tutto il mondo è qui. La sua forza è intera se essa è convertita in terra". Crediamo non sia necessario altro per identificare il veltro con il corpo fisico o saturnio, che rende completo l'uomo anche sul piano terreno. Nel sogno di Re Felice, il veltro è "grandissimo" sia nel senso fisico di "molto grosso" (= grossolano), sia per l'importanza che ha nell'opus alchimico. A questo proposito, si può rivedere utilmente il capitolo de La Tradizione Ermetica di Evola, intitolato "Saturno, Oro inverso". Nella tecnica iniziatica indicata dal sogno, si fa uso del leone (= forza vitale, prana-apana) per "liberare" la cerva, riportare cioè l'intelletto ricettivo a tutta la sua potenza, facendone specchio perfetto (non più deformato dall'egoità) dell'intelletto attivo (purusha). Ma cosa simboleggia l'intelletto attivo nel sogno? Ovviamente, come ha già indicato Sipex, colui che, pur corporeamente immobile, sottilmente agisce e, nella "sostanza" mentale (prakriti), provoca il sogno ... Re Felice. Sperando di aver chiarito, per quel che mi è possibile, la chiave anagogica del Filocolo, che lo stesso Boccaccio ci fornisce, lascio al lettore il compito di servirsene nell'eventuale studio dell'opera completa.

12a) Appendice

Sogni Inventati e Sogni Reali Luca Malagrida: a proposito di animali simbolici nei sogni vorrei che gentilmente qualcuno mi desse una interpretazione di un sogno che recentemente mi ha molto colpito. Premessa: mi è piaciuto molto un film che si chiama "pulp fiction", ma ho sempre avuto difficoltà a ricordarne il titolo perchè prima mi veniva sempre in mente il nome"deep purple". Successivamente ho visto un altro film, "fight club", in cui il protagonista, durante una seduta di meditazione collettiva veniva invitato a entrare con la mente nella propria caverna interiore per scoprire qual'era il suo animale guida (nella fattispecie un pinguino); mentre guardavo la scena mi divertivo a pensare a quale potesse essere il mio (eventuale) animale guida e mi chiedevo come avrei fatto a scoprirlo. Il film mi piacque molto e vi trovai alcune analogie con l'altro che ho citato, tanto che lo definii un "pulp fiction" in chiave esoterico-psicanalitica (e per

me, come ho detto, il nome "pulp fiction" è per qualche motivo strettamente associato a un altro:"deep purple"). La mattina dopo all'alba, immerso in un dormiveglia che è durato vari minuti avevo in mente un nome che andava e veniva quasi pulsando: "deep turtle", non "deep purple"(più o meno:"porpora scura"), ma "deep turtle": "tartaruga profonda"; e insieme al nome mi sembrava di vedere la testa di una tartaruga dalle scaglie smeraldine e uno sguardo che veramente mi sembrava venire da antichità insondabili. Ho pensato che questa fosse la risposta alla mia domanda su quale potesse essere il mio animale guida. Mi farebbe molto piacere che qualcuno mi dicesse qualcosa sulle modalità così "linguistiche" di questo sogno (e tra l'altro non ricordo di aver sognato in inglese prima d'ora) e sul fatto che abbia "visto" proprio una tartaruga. Ea: Si narra che un maestro Zen, per mettere alla prova un discepolo, una mattina gli disse: "Sai, stanotte ho fatto un sogno..." "Ah sì?"- rispose il discepolo - "allora beviti una tazza di the!" "Bravo!" - concluse il maestro - "se tu mi avessi risposto diversamente, ti avrei cacciato!" Luca Malagrida: però io non sono un maestro zen e non stavo mettendo alla prova nessuno. Pensavo che piuttosto che limitarsi solo all'esegesi di assolutamente tutto ciò che è stato detto scritto e sottinteso da una congerie un po' eterogenea di maestri più o meno riconosciuti, sarebbe stato interessante capire come si "fa" su sè stessi (se volete "in corpore vili"dato che vi sto contraddicendo) questa ricerca; come si intraprende con le proprie gambe questo cammino sulla "via"; e per farlo ovviamente serve una guida che, per l'appunto,"guidi" facendosi capire. Ricordo infine, naturalmente sorridendo, che in un racconto del libro di "mu mon" (ossia: la porta che non è una porta") un maetro zen si becca 500 reincarnazioni sotto forma di volpe delle montagne per aver dato una risposta troppo secca a un allievo. Frater Petrus: A scanso di ogni equivoco, vorrei precisare (ma pensavo fosse evidente) che il Sogno di Re Felice è ovviamente creazione fantastica di Boccaccio, nel quale gli animali rappresentano volutamente aspetti della struttura interiore dell'uomo, così come la cultura medievale (influenzata soprattutto dall'aristotelismo) la concepiva. Non tento affatto, perciò, nè una interpretazione psicanalitica, che non avrebbe senso, trattandosi di sogno razionalmente creato dall'autore e non nato dalle latebre dell'anima, nè interpretazioni sciamaniche o new-age, del tutto estranee all'Italica Schola, all'epoca di Boccaccio come oggi. Rammento che questo è un forum dedicato al Gruppo di Ur e ne vuole idealmente proseguire gli studi. Quanto alla psicanalisi, allo sciamanesimo e al new-age esistono forum sicuramente più "attrezzati", in tali specialità , ai quali rivolgersi (1). Aggiungo che, in magia, la pratica sul sogno ha sostanzialmente due fasi: a) Consapevolezza dei sogni: che nulla ha a che fare con una qualsivoglia "interpretazione" degli stessi. Si tratta solo di rendere il sogno "lucido". b) Trasformazione volontaria dei sogni (ormai resi lucidi) in stati di assorbimento magico-meditativo. Il discepolo dello Zen (disciplina solare quanto la magia), a cui faceva riferimento la "storiella" narrata da Ea, era perfettamente consapevole di ciò ed è per questo che non risponde al maestro: "Cosa hai sognato?". Il contenuto essendo ininfluente rispetto alla lucidità da mantenersi. Il consiglio "Beviti una tazza di the" si deve al fatto che da un maestro ci si aspetta che sia pervenuto al II stadio di pratica (la trasformazione volontaria dei sogni) e perciò il ricadere nel I stadio, ancora involontario, indicato dalla frase "Sai stanotte mi è capitato di fare un sogno..." può essere frutto solo di un turbamento momentaneo del maestro, superabile (nell'augurio del discepolo) con una comune tazza di the. Niente di offensivo dunque da parte di nessuno dei due. (1) [n.d.u. : E' perlomeno singolare che una persona che pratica una "via", certo non consigliata da noi, alla prima incertezza chieda consiglio proprio a noi. Non dovrebbe chiederlo a chi quella via gli ha indicato? (In una lettera privata, Malagrida accenna ad una specie di iniziazione da parte di un musicofilo)].

Deo_Ame: Fr. Petrus ha ben evidenziato che il lavoro sul sogno, proprio dell'alta magia, è basato sulla lucidità e sulla susseguente possibilità di controllo. Ciò differenzia l'alta magia da qualsiasi scienza tradizionale o moderna, che propugni una tecnica basata sull'interpretazione, come l'oniromanzia o la psicoanalisi. Il mago apprezza il sogno così com'è, ritenendolo una forma spontanea del "pensiero libero dai sensi", della quale occorra soltanto assumere il controllo, per avere a disposizione un potente strumento operativo, non ostacolato dalle impressioni sensoriali dello stato di veglia. Chi "interpreta" svaluta un po' il sogno così com'è, preferendo ritenerlo come una sorta di codice che debba esser tradotto. Questo crea un mucchio di problemi: 1) Che si tratti veramente di un codice in cui si trasforma qualcos'altro è solo un'ipotesi suggestiva finchè si vuole, ma mai veramente provata. Si dirà che lo dimostrano gli oniromanti oppure Freud. Ma l'unica dimostrazione possibile sarebbe quella di fornire un codice di interpretazione effettivamente valido sempre. Purtroppo gli oniromanti spesso si sbagliano e il codice proposto da Freud non fu accettato neppure da discepoli diretti come Jung o Adler, che ne proposero altri. E anche la psicoanalisi, proprio come l'oniromonzia, se a volte può avere qualche effetto positivo sul paziente, altre volte non ce l'ha. I successi, in entrambi i casi, possono spiegarsi diversamente. Se un oniromante azzecca una previsione, ciò può essere dovuto semplicemente alla sua sensibilità o capacità intuitiva e pertanto la previsione può benissimo non esser affatto contenuta nel sogno. Se uno psicanalista ha un effetto positivo sul suo paziente, ciò può esser semplicemente dovuto al suo influsso suggestivo o alla sua capacità di dialogo, senza che l'interpretazione del sogno c'entri un bel niente. Del resto le libere associazioni di parole, fornite dal paziente a partire dagli elementi del sogno, condurranno inevitabilmente, prima o poi, a simboli interpretabili in base alla libido (se l'analista è freudiano) o alla volontà di potenza (se è adleriano) o alla necessità di armonia interiore (se è junghiano) etc. Dunque il lavoro sul sogno può essere solo una scusa per generare la catena di libere associazioni (che si sarebbe generata comunque a partire anche da un altro sogno o da una semplice parola stimolo) e non contenere minimamente il significato che gli si attribuisce. 2) Chi ritiene di dover "interpretare" corre perciò il rischio di smarrirsi semplicemente nei meandri delle proprie ... "interpretazioni", assai più illusorie del sogno, che perlomeno, in sè stesso, costituisce una forma sottile di percezione diretta. Taluno dirà che i metodi basati sull'interpretazione siano di carattere maggiormente mistico-contemplativo, dal momento che vanno in cerca di un "messaggio" vuoi dell'inconscio, vuoi di qualcosa di superiore. Temo però che i veri mistici non sarebbero d'accordo. Ad es. S.Giovanni della Croce ritiene che se le immagini oniriche o di altra provenienza possono venire da Dio, possono però avere anche altre provenienze e venire pure dal diavolo. Il suo metodo consiste nel non attaccarsi ad esse: così facendo si avrebbe un doppio vantaggio: se le immagini provengono dal demonio, non attaccandosi ad esse si elimina il possibile influsso malefico; se invece vengono da Dio esse influiranno positivamente, soprattutto se il mistico, non arrovellandosi inutilmente su di esse, mantiene quieto il suo animo. Anche nell'alta mistica quindi: nessuna interpretazione! (1) L'alta magia si distingue dall'alta mistica solo perchè alla semplice fase di lucidità (opera al bianco) fa seguire una fase attiva di controllo (opera al rosso). (1) S. Giovanni della Croce, Opere, Postulazione generale dei Carmelitani Scalzi, Roma, 1975.

13) Fedeli d'Amore e Via del Sacro Amore

Venvs Genitrix: In Eros e Spagiria (1), Massimo Scaligero scrive: "Abbiamo altresì rilevato come il Sacro Amore non sia identificabile con l'eros mistico, nè con la bhakti, nè con la devozione della Philocalia, nè con l'emozionalismo sufico, nè con l'esperienza dei 'Fedeli d'Amore', essendo l'Assolutamente Nuovo: la relazione pura dell'Io, possibile nell'epoca dell'Anima Coscente, la radicale volontà ritrovata nella coscienza di sé, come coscienza dell'essere dell'altro: il fondamento del puro pensiero realizzato nell'incontro dell'Io dell'altro". Questa affermazione, che coinvolge anche i Fedeli d'Amore, aggiunge, al già difficile compito degli studiosi di individuare dottrine e metodi di questa scuola iniziatica, anche quello di adeguarne eventualmente i metodi all'uomo attuale. (1) Il saggio si trova in M.Scaligero "Yoga, Meditazione, Magia", Teseo Roma 1971. Frater Petrus: E' mia impressione che Scaligero abbia tratto questa deduzione dal fatto che Dante e i Fedeli d'Amore, vivendo sul finire della cosiddetta IV epoca postatlantidea, si servissero di un metodo iniziatico, che non può ancora definirsi rosacrociano. Tuttavia non bisogna dimenticarsi che soprattutto i "tardi" Fedeli d'Amore, come Boccaccio, da un punto di vista temporale e ideologico, sembrano "passare il testimone" proprio ai Rosacroce. Siamo perciò convinti che le loro tecniche iniziatiche si avvicinassero già molto a quelle adatte all'uomo contemporaneo. In questo forum abbiamo cercato di dare un piccolo contributo a dissuggellare tali tecniche e abbiamo anche indicato, in specifico, una di esse che, rivelata da Cavalcanti, è assai affine ad una meditazione di Scaligero. Siamo altresì consapevoli dell'importanza assoluta che, in relazione alla "via a due vasi", hanno i pur sintetici scritti di Introduzione alla Magia, firmati Abraxa. Tali saggi sono stati il punto di partenza sia di Evola, sia di Scaligero, che però hanno proceduto in due direzioni diverse: Evola, in Metafisica del Sesso, si è servito degli scritti di Abraxa come chiave (2) per una visione retrospettiva di tutti i passati aspetti magico-religiosi della sessualità. Scaligero invece è partito da quei saggi, per additare una via del Sacro Amore all'uomo futuro. Non stupisca questa affermazione: Scaligero soleva affermare che R.Steiner non si era mai espresso direttamente sulla via del Sacro Amore, ma che tuttavia nel suo insegnamento c'erano tutti gli strumenti necessari per delinearla. Scaligero è dunque partito dalla sintetica esposizione di Abraxa, per saggiarla in tutti i suoi dettagli, grazie agli strumenti forniti da Steiner. Non è l'unico campo in cui ha proceduto così: ad es., partendo dalle "Istruzione per la Conoscenza del Respiro" di Abraxa, è l'unico scrittore che abbia saputo aggiungere importanti dettagli a quell'opus, non ultimi quelli relativi all'esperienza dell' "Arcangelo dell'Aria". Forse è un particolare non a tutti noto che Scaligero fu membro della Miriam, prima di dedicarsi all'ascesi steineriana (3). In questo forum sono già stati presentati alcuni suoi scritti sull'argomento del Sacro Amore, stesi in un'epoca di collaborazione con il cognato Paolo Virio. Altri scritti attendono di essere esaminati. (1) M. Scaligero, "Forma Attuale della Conoscenza Metafisica", in La Via della Volontà Solare, Tilopa, Roma, 1986. (2) Nel cap. "La Miriam e la Piromagia" afferma infatti: "Le due monografie ora citate sono forse quelle in cui gli insegnamenti segreti di magia sessuale a finalità iniziatiche sono esposti con un minimo di veli". (3) In relazione al periodo immediatamente precedente a quello antroposofico così si esprime in Dallo Yoga alla Rosacroce (Perseo, Roma, 1972): "Evola ... con cordiale correttezza mi indirizzò a Colazza e a Bonabitacola: quest'ultimo già lo conoscevo per la mia precedente appartenenza alla Miriam. Da Colazza sarei andato più tardi. Riaccostai Giulio Parise, Arturo Reghini, taluni valorosi amici della Miriam come Ciccio Modugno e Salvatore Mergè ..."

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