Dispense Geografia Prof Ssa Giannelli Uniba

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capire quali rapporti spaziali, vecchi e nuovi, sussistano fra di loro e con il sistema territoriale di cui fanno parte, e come tali rapporti influiscano su di essi; interpretare le modalità della loro organizzazione spaziale. Vi è infine un terzo livello, critico-applicativo, che risponde a domande tipo dove e come dovrebbe essere? E dove e come sarà?, con finalità e utilità professionali e previsionali. Lo studio scientifico deve fornire infatti strumenti per analizzare una o più localizzazioni dei fenomeni, ma anche per prevedere loro possibili sviluppi spaziali. Siamo quindi nel campo applicativo, degli interventi sul territorio, che sta suscitando interesse e attenzione crescenti. La Geografia ha diversi livelli di utilità. Un primo livello, descrittivo, risponde a domande del tipo che cosa, dove? Un secondo livello, esplicativo, è caratterizzato dalle domande chi?, perché così?, e, soprattutto, perché lì?, con le quali si vuole capire perché uno o più fenomeni siano localizzati in determinati punti del territorio e perché si presentino così come li osserviamo; La Geografia è il perché del dove. Perché e come alcuni elementi si concentrano in certi luoghi per produrre particolari risultati? Perché sono assenti in altri luoghi? In quale misura ciò che è presente in un luogo influenza ciò che avviene altrove? Perché è importante che le cose varino nello spazio? Quale ruolo svolge un luogo in questa regione e nel mondo e qual è il suo significato per le persone qui e altrove? Quasi tutti i geografi, umani o fisici, sono interessati alla disposizione di luoghi e fenomeni, ossia al modo in cui essi sono distribuiti, organizzati e disposti sulla Terra e al modo in cui si presentano nel paesaggio. Occorre infatti innanzitutto osservare dove si trovano i fenomeni da studiare e, successivamente, ricercare perché e come essi sono andati a localizzarsi là dove risultano ubicati. In altri termini è necessario prima accertare la distribuzione spaziale dei fenomeni, per intere aree (per es. la distribuzione geografica delle strutture ricettive in una regione) e l’ubicazione dei singoli elementi del fenomeno stesso. In seguito vanno ricercati i fattori e i modi della loro localizzazione, cioè il processo che ne ha determinato l’ubicazione, la distribuzione spaziale: queste quindi sono il fatto, l’esistenza stessa dei fenomeni, in determinati luoghi (Ranieri, 1977). La rappresentazione cartografica della distribuzione spaziale di un fenomeno è generalmente il primo passo verso la sua comprensione. l famoso geografo Yi-Fu Tuan ha affermato: “Sono le persone che creano i luoghi”. I luoghi non esistono nel vuoto né possono essere catalogati in termini di caratteristiche o “fatti”. I luoghi cambiano continuamente e gli esseri umani sono responsabili di questi cambiamenti: creano culture, valori, estetica, politica, economia (intesa come teoria economica) e molto altro; inoltre ciascuna di queste creazioni influenza e modella i luoghi. I geografi umani studiano persone e luoghi. La geografia umana si concentra su come gli esseri umani plasmino i luoghi, come organizzino lo spazio e la società, come interagiscano nello spazio e come comprendano se stessi e gli altri in relazione ai territori, alle regioni e al mondo. I progressi nelle tecnologie delle comunicazioni e dei trasporti fanno aumentare la connessione tra luoghi e persone. Vari aspetti della cultura popolare, quali la moda e l’architettura, stanno rapidamente omologando persone e luoghi. Nonostante che tutti questi cambiamenti tendano ad appiattire le differenze, sono ancora molti i modi in cui ci distinguiamo dagli altri.

Il mondo è costituito da circa 200 Paesi, molte religioni, migliaia di lingue e numerosi tipi di insediamenti, dai piccoli villaggi alle megalopoli. Tutto ciò agisce contemporaneamente, seppur in modi differenti, sull’intero Pianeta contribuendo a creare una moltitudine di luoghi e individui infinitamente diversi. Scopo della Geografia umana è comprendere e spiegare tali differenze. In sintesi, essa studia le relazioni fra gli esseri umani e il Pianeta. I geografi considerano la distribuzione diseguale dei vari fenomeni; non parlano soltanto di locale, ma ricorrono alla scala per comprendere le relazioni tra locale, regionale, nazionale e globale. Ciò che accade su scala planetaria influenza il locale, ma anche l’individuale, il regionale e il nazionale e, analogamente, i processi che si svolgono su queste scale influenzano l’intero Pianeta. La globalizzazione è un fattore di grande importanza per determinare come gli esseri umani influenzino i luoghi. Con tale termine si intende comunemente un insieme di processi che aumentano le interazioni, approfondiscono le relazioni ed esaltano l’interdipendenza, a prescindere dai confini dei Paesi, s’intendono anche gli esiti di tali processi, distribuiti in modo disuguale sul Pianeta. Tali processi hanno portato a risultati differenti in luoghi differenti e su differenti scale. I processi che si svolgono a scala mondiale non si manifestano a tale dimensione per magia: è ciò che accade alle altre scale che contribuisce a crearli e a plasmare i loro risultati. Il nostro Pianeta è un sistema, un insieme di elementi in reciproca connessione che hanno una loro identità se presi singolarmente. Nessun luogo sulla Terra è inviolato dall’attività umana. Mentre le persone esplorano, viaggiano, migrano, interagiscono, giocano, vivono e lavorano, costruiscono i luoghi. Le persone si organizzano in comunità, nazioni e reti comunitarie più ampie, istituendo sistemi politici, economici, religiosi, linguistici e culturali che permettono loro di svolgere funzioni nello spazio. Si adattano al loro ambiente geografico fisico, lo modificano, lo manipolano e lo affrontano. Ogni luogo che vediamo è influenzato e creato dagli esseri umani e rispecchia la cultura delle persone che vi sono state presenti nel corso del tempo. La geografia umana è lo studio dei fenomeni umani che si svolgono sulla Terra e la geografia fisica è lo studio dei fenomeni fisici che vi si svolgono. I cinque temi della Geografia, individuati dalla National Geographic Society sono: 1.localizzazione (pone in risalto come la posizione geografica di persone e cose sulla superficie terrestre influenzi ciò che accade); 2.interazione uomo-ambiente; 3.regione (gli elementi geografici tendono a concentrarsi in particolari aree che chiamiamo regioni); 4. luogo (tutti i luoghi sulla superficie terrestre hanno caratteristiche umane e fisiche peculiari e uno degli scopi della Geografia è studiare i loro caratteri e significati specifici. Gli esseri umani sviluppano un senso del luogo infondendovi significato ed emozione, richiamando alla memoria eventi importanti ivi accaduti o contraddistinguendo un luogo con un certo carattere); 5. movimento (mobilità di persone, beni e idee sulla superficie terrestre. L’interazione spaziale dipende dalle distanze, dall’accessibilità e dal collegamento tra i territori. Le interazioni plasmano la geografia umana e comprendere come avvengano è un aspetto importante per interpretare lo spazio geografico). Paesaggio Un elemento centrale della Geografia è il paesaggio, che possiamo definire come l’insieme organizzato delle

entità sensibili di un luogo (Ranieri, 1977) I geografi usano il termine paesaggio per designare il carattere di un luogo, il complesso di elementi naturali, le strutture umane e altri oggetti che conferiscono al territorio una particolare forma. I geografi umani sono particolarmente interessati al paesaggio culturale, l’impronta visibile dell’attività e della cultura umana sul paesaggio. Ogni paesaggio culturale reca strati di impronte prodotte da secoli di attività umana. Può pertanto essere considerato una sorta di libro che offre indizi sulle pratiche culturali, sui valori e sulle priorità dei suoi vari occupanti. Per pervenire alla descrizione del paesaggio è necessario analizzarne i componenti: plastico, costituito dalle diverse forme che il rilievo assume; idrografico, rappresentato dalle vaste superfici delle masse marine nonché dalle masse acquee che giacciono o scorrono sulle terre emerse; vegetale, costituito dalla vegetazione; edilizio, che assomma le costruzioni dovute alla presenza dell’uomo ed alle sue molteplici necessità. I quattro componenti si presentano sotto un aspetto statico perché considerati in un determinato istante, ma mutano nel tempo con varia intensità e questo loro dinamismo comporta variazioni nell’aspetto del paesaggio. Ci sono poi i componenti propriamente in movimento che per loro stessa natura sono in continuo e perenne moto e variazione (cielo, esseri viventi, mezzi di trasporto). Sono invece determinanti del paesaggio i fattori che determinano i componenti ed il loro carattere dinamico, imprimendo al paesaggio caratteristiche fondamentali (ad es. i movimenti endogeni ed esogeni quali terremoti e frane, il clima, le attività economiche, i movimenti della popolazione, il tipo di cultura) Per paesaggio naturale si può intendere il paesaggio che si trovi allo stato di natura, così come il complesso degli elementi naturali del paesaggio stesso, con esclusione di quelli umani o comunque dovuti alla presenza e all’opera dell’uomo.

Per paesaggio umano si può designare un paesaggio trasformato pressoché radicalmente dall’intervento dell’uomo, oppure il complesso degli elementi determinati dalla stessa opera dell’uomo che sussistono nel paesaggio. E’ più opportuno però parlare di paesaggio umanizzato.

LETTURA DEL PAESAGGIO Definizione del paesaggio (naturale? umanizzato? rurale? urbano? industriale?) Descrizione della forma del terreno (pianeggiante, collinare o montuoso? presenza di valli?) Il territorio è bagnato dal mare? Come sono le coste? Vi sono fiumi? C’è vegetazione? Di che tipo? Vi sono animali o strutture che facciano pensare alla loro presenza? Vi sono centri abitati? Grandi o piccoli? Distribuiti come? Vi sono strade? Di che tipo? Elenco degli elementi fisici e antropici (Bissanti, 1991) Concetto geografico di ambiente

Si tratta di un termine usato nelle accezioni più varie: ambiente fisico, cioè quale costituito dal complesso delle condizioni fisiche di un luogo, di un territorio; ambiente umano, ambiente religioso, politico, ecc. Spesso l’ambiente viene anche identificato nel “paesaggio”. Ciascuna di queste diverse espressioni identifica evidentemente soltanto una parte, un aspetto dell’ambiente inteso in senso integrale. L’ambiente è il complesso delle condizioni esterne in cui si sviluppano i fenomeni – considerati singolarmente o in gruppi – studiati dalla Geografia. Esso, cioè, include tanto le condizioni fisiche (clima, geologia, oroidrografia ecc.) quanto quelle umane (popolamento, cultura, organizzazione politica, attività economiche col sistema delle comunicazioni, religione, ecc.) (Ranieri, 1977) Regione I geografi dividono spesso il mondo in regioni a scopo di analisi. Una regione è un’area con caratteristiche simili. Per identificare e delimitare le regioni dobbiamo stabilire i criteri (che possono essere fisici, culturali, funzionali o percettivi) per definirle Quando i geografi scelgono uno o più criteri fisici o culturali per definire una regione, prendono in considerazione regioni formali. Una regione formale è caratterizzata dall’omogeneità in uno o più criteri o fenomeni (ad es. regione fisica o regione culturale). Una regione funzionale, invece, è definita da un particolare insieme di attività o di rapporti al suo interno. I luoghi che fanno parte della stessa regione funzionale interagiscono fra loro. Le regioni funzionali hanno uno scopo politico, sociale o economico condiviso. Le regioni percettive sono invece costruzioni mentali che creiamo per comprendere più facilmente natura e distribuzione dei fenomeni nella geografia umana. Il modo in cui le persone considerano le regioni ha influenza a diversi livelli dall’attività quotidiana fino ai conflitti internazionali su grande scala. Una regione percettiva può includere le persone con i loro tratti culturali (quali abbigliamento, cibo e religione); i luoghi e i loro caratteri fisici, (montagne, pianure e altri elementi geografici); gli elementi costruiti dall’uomo (mulini a vento, grattacieli). Le regioni percettive non sono statiche. Le regioni, siano esse formali, funzionali o percettive, sono modi di organizzazione geografica degli esseri umani, una forma di classificazione spaziale, un mezzo per gestire e comprendere grandi quantità di informazioni. I geografi studiano i luoghi e i modelli su un’ampia gamma di scale. Il termine scala in geografia ha due significati: il primo è il rapporto fra la distanza su una carta e la corrispondente distanza reale sulla superficie terrestre; il secondo è l’estensione territoriale di qualcosa. I geografi si rendono conto che i fenomeni, siano essi umani o fisici, avvengono in un contesto e che il contesto appare diverso su scale diverse L’utilizzo di diverse scale permette ai geografi di superare i singoli fenomeni per capire come i processi visibili su differenti scale si influenzino reciprocamente La cartografia è la disciplina che si occupa dell’ideazione, produzione e diffusione delle carte geografiche. Le carte sono uno strumento geografico incredibilmente potente e la cartografia è antica quanto la stessa Geografia. Molti testi sulla storia della cartografia sottolineano il ruolo importante delle carte geografiche nell’esplorazione, scoperta e apertura verso nuove terre e, al tempo stesso, nella dominazione coloniale come strumento di ausilio nella sottomissione della popolazione nativa.

Con la parola carta si intende, genericamente, qualsiasi rappresentazione di parte o di tutta la superficie terrestre. Ciò vale sia per l’italiano che per tutte le lingue neolatine. Gli inglesi, invece, usano: chart per indicare propriamente le carte marine (che un tempo, per l’Inghilterra, ebbero molta più importanza di quelle terrestri), aeronautiche, magnetiche e in genere tutte le carte e cartogrammi che riportano dati statistici; map per indicare le carte topografiche e geografiche. La carta geografica è una rappresentazione piana, grafica, simbolica, approssimata e ridotta di tutta o parte della superficie terrestre. E’ piana e grafica in quanto disegnata su un foglio di carta piano; è simbolica perché i fenomeni si rappresentano con simboli (segni convenzionali che ovviamente possono solo indicare schematicamente la realtà rappresentata); è approssimata perché, essendo la superficie terrestre curva, nel trasporto “in piano”, essa subisce deformazioni mai eliminabili e per la sua costruzione viene usato il metodo delle proiezioni poiché queste ci danno la misura delle deformazioni in base alla tecnica di proiezione adottata. L’approssimazione può riguardare i valori lineari o quelli areali o, ancora, quelli angolari: sono pertanto proprietà di una carta geografica l’equidistanza, l’equivalenza o l’isogonia. La carta è: equidistante quando i rapporti che intercorrono fra le distanze sono uguali a quelli reali (ad es. nel caso delle carte stradali); equivalente quando i rapporti di uguaglianza riguardano le dimensioni delle aree (ad es. nel caso delle carte politiche ed economiche); isogonica quando due linee qualsiasi tracciate sulla carta e le corrispondenti sulla superficie terrestre formano un angolo dello stesso grado (ad es. nel caso delle carte nautiche). Spesso una carta isogonica è anche conforme, cioè riproduce fedelmente i contorni delle sue raffigurazioni. Una proprietà esclude le altre, a meno che non si tratti di superfici molto ridotte o di un globo. Se poi la carta è priva di proprietà si definisce afilattica. La carta geografica è ridotta perché riproduce la superficie terrestre mediante un rapporto di riduzione tra le sue dimensioni reali e quelle del disegno, rapporto che prende il nome di scala, che può essere grafica e numerica Il terreno, con tutti i suoi particolari, viene riprodotto sulla carta in dimensioni convenientemente ridotte. Il rapporto 1:n che esiste fra una lunghezza l della carta e la corrispondente lunghezza reale L del terreno si chiama “scala di proporzione di una carta”; 1:n=l/L (dove n è il denominatore della carta costituito da una o più cifre significative seguite da zeri). Pertanto una lunghezza reale L è uguale alla corrispondente grafica l moltiplicata per il denominatore della scala La scala si riferisce sempre alle lunghezze e non alle aree, che variano secondo il quadrato del rapporto espresso dalla scala. La scala grafica è invece rappresentata da una retta suddivisa in segmenti ai quali è attribuito un valore lineare noto. Il primo concetto di scala si deve ad Eratostene, con una misura del raggio terrestre eseguita nei pressi di Alessandria d’Egitto. La scala è sempre determinata dallo scopo cui la carta deve servire. Si hanno, pertanto, carte geografiche, carte corografiche, carte topografiche, piani, piante topografiche e mappe, a cui si potrebbero aggiungere planisferi, mappamondi e globi, che sono un particolare tipo di rappresentazione geografica. I planisferi sono la rappresentazione cartografica piana, di solito a piccola o piccolissima scala (1:diversi milioni), dell’insieme del globo terrestre senza la separazione degli emisferi.

La costruzione dei planisferi comporta normalmente notevoli deformazioni, per l’impossibilità di riportare esattamente una sfera sul piano. I planisferi classici sono centrati sull’equatore e di solito riportano in colore più vistoso le regioni ove le deformazioni sono rese “accettabili”.

I mappamondi sono la rappresentazione cartografica piana, di solito a piccola o piccolissima scala, dell’insieme del globo terrestre in due distinti emisferi.

I globi sono invece una particolare rappresentazione cartografica , di solito a piccola o a piccolissima scala, su una sfera, sia essa la rappresentazione di un pianeta che dello spazio celeste. Le carte geografiche sono quelle a piccola scala, superiore a 1:1.000.000. Rappresentano grandi divisioni naturali o politiche della Terra, ad. es. un continente, riportandone i limiti di Stato, la configurazione dei più importanti elementi orografici e idrografici, i maggiori centri abitati e la rete delle principali linee di comunicazione, in modo da dare, a colpo d’occhio, l’idea delle caratteristiche essenziali dell’insieme. Le carte corografiche (da corografia, descrizione regionale) sono quelle a media scala, superiore a 1:100.000 sino al milione (escluso). Rappresentano il territorio, o parti del territorio di uno o più stati limitrofi, riportando i particolari orografici e idrografici, i centri abitati, le vie di comunicazione e la vegetazione, con la possibilità di dettaglio consentite dalla scala. Appartengono a questo tipo le carte stradali e quelle turistiche. Le carte topografiche sono quelle a grande scala, comprese tra le scale 1:5.000, 1:10.000 e 1:100.000. Si ottengono, di norma, per mezzo delle campagne di rilevazione topografiche e fotogrammetriche, devono dare la fedele rappresentazione del terreno, con tutte le sue forme e accidentalità e devono riportare ogni particolare naturale o manufatto nella quantità e con la precisione concessa dalla scala.

In principio le carte topografiche furono allestite e utilizzate soprattutto per scopi militari. Oggi gli usi di tali carte per scopi civili sono notevolmente cresciuti, tanto da divenire strumenti indispensabili per i programmi e i lavori pubblici per l’utilizzazione, il miglioramento e la conservazione del suolo; per l’utilizzazione delle risorse idrografiche, per la difesa contro le inondazioni, per progetti di arterie e strade in genere; per lavori di ogni genere da compiersi sul terreno, per applicazioni legate all’industria privata, ecc. Queste carte costituiscono la cartografia base o fondamentale di uno Stato. Le piante topografiche sono quelle rappresentazioni, frutto anch’esse di rilevamenti topografici, con scala di denominatore inferiore a 1:5.000, che consentono di riportare particolari in qualità e precisione maggiori. Ciascun elemento cartografico comprende superfici limitate di terreno per le quali la curvatura terrestre risulta trascurabile. Le mappe e, in particolare, le mappe catastali sono elaborati speciali a grandissima scala, che, oltre i normali particolari topografici, riportano anche i confini della proprietà fondiaria e i fabbricati, la suddivisione in appezzamenti a seconda della coltura o del grado di produttività, l’estensione di ogni singolo appezzamento. Le scale normalmente adoperate sono quelle di 1:2.000 e di 1:4.000, e di 1:1.000 e 1:500 per casi speciali. Dall’esame dello sviluppo storico della cartografia si rileva che, mentre le carte antiche erano, nella grande maggioranza, a piccola scala e che solo verso la fine del Medioevo si giunse alle carte corografiche, l’età moderna non solo basa la cartografia sulle carte topografiche, ma tende a carte di sempre maggior dettaglio e quindi a scale sempre maggiori. Le carte derivate vengono ricavate dalle carte rilevate, per spoglio di particolari e per generalizzazione della rappresentazione e dei concetti, di solito a scale più piccole fino a quelle delle carte geografiche. Rispetto al contenuto e allo scopo della loro costruzione le carte possono essere classificate in: carte generali (o del terreno o normali o topografiche o geografiche), che rispondono all’unica esigenza di rappresentare la realtà del terreno, dando il maggior numero possibile di informazioni nei riguardi di esso, senza occuparsi di speciali fatti o fenomeni (attività umana, fenomeni fisici, elementi climatici, ecc.). Le carte generali possono essere a loro volta distinte in: fisiche, che rappresentano gli aspetti naturali di una zona (fiumi, laghi, coste, rilievi ecc.); politiche, che rappresentano gli aspetti umani (confini, città, ferrovie, strade ecc.); fisico-politiche, che riportano entrambi questi tipi di elementi. carte tematiche, che pur servendosi di un fondo topografico o geografico, danno rappresentazioni convenzionali (servendosi di simboli) per scopi speciali o per dimostrare particolari, situazioni o fenomeni. Più precisamente, sono quelle che servono per illustrare nella distribuzione, nella qualità, nella quantità ecc. un aspetto particolare del territorio: fisico, biologico, antropico o economico, e i concetti e rapporti geografici che non si vedono sul terreno. Ne esistono moltissimi tipi, ad es.: le carte dei climi, le carte della vegetazione, le carte economiche che rappresentano la distribuzione di elementi connessi ad attività umane come le industrie, gli allevamenti, le produzioni agricole. Un cenno particolare meritano le carte geologiche che indicano, tramite colori e simboli, i diversi tipi di rocce, la loro età, i giacimenti minerari ecc., presenti in una determinata zona. Le carte tematiche si prestano inoltre a mettere in evidenza cambiamenti, a fare confronti mediante la correlazione cartografica. Sono per questo molto usate nella geografia moderna. Sono atlanti tematici quelli dedicati a un argomento specifico, ad es. alla rappresentazione cartografica di beni culturali, indipendentemente dal fatto che rappresentino l’intero globo o solo una parte di esso; carte speciali – o applicate – quelle costruite per uno scopo preciso. Ne fanno parte: il gruppo delle carte idrografiche, che comprende le carte marine (mari e coste), quelle nautiche e quelle idrografiche continentali (fiumi e laghi); le carte aeronautiche, usate per il volo; le carte turistiche (più incentrate sulle vie di comunicazione). Per quanto concerne l’aspetto cronologico, le carte vengono suddivise in:

carte attuali, di più recente realizzazione riguardo a una regione o a un soggetto; carte di previsione, che riguardano la situazione o la probabile evoluzione di determinati fenomeni per un dato periodo o in una data futura; carte storiche, che documentano la rappresentazione di fatti o di fenomeni anteriori all’epoca dell’edizione della carta stessa; carte vecchie, considerate tali o per insufficiente aggiornamento, o per essere superate da edizioni più recenti; carte antiche, che costituiscono ormai veri cimeli dell’attività cartografica di un’epoca che spesso caratterizzano.

r e a lt à t e r r it o r ia le

p l a s ti c o ( r i d u z i o n e s c a l a )

z m fo itan erd p

fo t o o b liq u a (3 D > 2 D ) f o t o v e r ti c a l e ( p e r d i t a d i v e d u t a fr o n ta le ) c a r t a ( a s t r a z io n e ) Il cartogramma è una rappresentazione grafica (rappresentazione del dato statistico) di uno o più fenomeni quantitativi riferiti all’area (generalmente delimitata amministrativamente) nell’ambito della quale i fenomeni che si vogliono rappresentare si verificano. Il più comune e più semplice da realizzare è il cartogramma a mosaico: si assegnano colori in scala graduata alle classi in base alle quali si organizza la distribuzione dei dati; si riportano poi le rispettive campiture nelle aree amministrative. Il cartogramma a curve isometriche (isoplete) è più complesso da realizzare, ma di più efficace lettura. Si uniscono sulla carta tutti i punti che hanno lo stesso valore del fenomeno da rappresentare.

I cartogrammi a simbolo scalare (che può essere areale o volumetrico) si basano su valori assoluti che vengono rappresentati con figure piane (circoli o quadrati o rettangoli) o solide (sfere o cubi o parallelepipedi) di dimensioni proporzionali ai valori da rappresentare.

Il cartogramma a punti (anch’esso basato su valori assoluti) illustra per mezzo di punti o altri simboli un certo numero di unità del fenomeno; i punti vengono poi posizionati su una base amministrativa e, ove possibile, distribuiti in ciascuna delle aree cui si riferiscono, in modo da rendere agevole e rapido il conteggio e il confronto tra le quantità di ciascuna area.

Stranieri residenti in Italia nel 2010

Il modo più semplice di identificare una località, in un dato punto della superficie terrestre, è di dargli un nome (toponimo). E’ però con l’utilizzo di un sistema di coordinate (latitudine e longitudine) che si può rappresentare su una carta la sua posizione assoluta. La posizione relativa descrive l’ubicazione di un luogo rispetto ad altri elementi umani o fisici. Le posizioni assolute non variano, mentre le posizioni relative variano nel corso del tempo. Per localizzare con precisione un punto sulla superficie terrestre dobbiamo fissare un sistema di riferimento che lo individui univocamente. Il reticolato geografico è il sistema di riferimento rispetto al quale viene individuata, qualsiasi essa sia, la posizione di un oggetto sulla superficie del nostro pianeta. E’ una specie di maglia che avvolge l’intera superficie terrestre, composta di circonferenze immaginarie che si intersecano. Di queste:

–quelle in direzione est-ovest sono dette paralleli; –quelle in direzione nord-sud sono dette meridiani. Questo reticolato serve per trovare le coordinate geografiche (latitudine e longitudine) di qualunque punto sulla Terra. Immaginiamo di tagliare il globo terrestre con un piano che passi per il suo asse di rotazione. Dall’intersezione tra questo piano e la superficie terrestre otteniamo una circonferenza: il meridiano. Più precisamente, si considerano come meridiani geografici le semicirconferenze comprese fra un Polo e l’altro. A ogni meridiano ne corrisponde un altro opposto chiamato antimeridiano, che completa la circonferenza. Tutti i meridiani hanno uguale lunghezza: misurano poco più di 40.000 km. I piani contenenti l’asse terrestre, con i quali possiamo immaginare di tagliare la Terra, sono infiniti. Tuttavia, si usa prendere in considerazione solo 180 piani, alla distanza angolare di un grado (1°) l’uno dall’altro. Le semicirconferenze considerate, dette meridiani di grado, sono quindi 360: 180 meridiani e 180 antimeridiani. Per convenzione, si è scelto un meridiano di riferimento dal quale iniziare i conteggi: è quello che passa per l’osservatorio astronomico di Greenwich, a Londra. Immaginiamo ora di tagliare la sfera terrestre con un piano che sia perpendicolare al suo asse di rotazione. Dall’intersezione di questo piano con la superficie terrestre otteniamo ancora una circonferenza: il parallelo. Tutti i piani perpendicolari all’asse terrestre individuano dei paralleli; a seconda della distanza del piano di intersezione dal centro della Terra, la circonferenza individuata sarà più o meno grande e tutte le circonferenze saranno tra loro parallele. Quando il piano di intersezione passa esattamente per il centro della Terra, sulla superficie terrestre si ottiene la circonferenza più lunga, l’Equatore, che divide la Terra in due emisferi: quello settentrionale dalla parte del Polo Nord (emisfero boreale), e quello meridionale dalla parte del Polo Sud (emisfero australe). Come i meridiani, anche i paralleli sono infiniti, ma anche nel loro caso si prendono in considerazione solo 180 circonferenze, che sono distanziate l’una dall’altra di 1°. Perciò si dice che i paralleli sono 90 a nord dell’Equatore e 90 a sud (per la precisione, quelli ai Poli sono due punti). Oltre all’Equatore, due importanti paralleli sono il Tropico del Cancro (23°27’ a nord dell’Equatore) e il Tropico del Capricorno (23°27’ a sud dell’Equatore). Le coordinate geografiche sono la longitudine e la latitudine. La longitudine di un punto P è data dall’angolo compreso tra il piano che contiene il meridiano passante per P e il piano che contiene il meridiano di riferimento: la misura di quest’angolo viene effettuata sull’arco di parallelo che passa per il punto P considerato. Come tutti gli angoli, anche la longitudine si misura in gradi e frazioni di grado. La longitudine può essere Est o Ovest a seconda che il punto si trovi a oriente o a occidente del meridiano di riferimento. La latitudine del punto P è data dall’angolo (al centro della Terra) corrispondente all’arco di meridiano che congiunge il punto P con l’Equatore. Anche la latitudine si misura quindi in gradi e frazioni di grado. La latitudine può essere Nord o Sud a seconda che il punto si trovi nell’emisfero boreale o in quello australe.

Tutti i punti che si trovano su uno stesso parallelo hanno la stessa latitudine, tutti i punti che si trovano sull’Equatore hanno latitudine 0°; il valore massimo possibile per la latitudine e di 90° ai Poli. Analogamente tutti i punti che si trovano su uno stesso meridiano hanno la stessa longitudine, tutti i punti che si trovano sul meridiano di riferimento hanno longitudine 0°; il valore massimo possibile di longitudine è 180°; questa è la longitudine dell’antimeridiano corrispondente al meridiano iniziale. Le carte a scala topografica esistono per circa un quarto della superficie terrestre, mentre per le altre zone si hanno carte a piccola scala E’ anche vero che i sistemi tradizionali di costruzione delle carte topografiche non consentono di procedere con rapidità nella costruzione di carte a grande scala. Negli ultimi decenni però la costruzione delle carte geografiche è stata notevolmente semplificata dallo sviluppo delle tecniche di telerilevamento, mediante le quali i geografi monitorano la superficie terrestre da grande distanza. Si tratta di un insieme di tecniche, strumenti e mezzi interpretativi che permettono di acquisire immagini a distanza (da un aereo o da un satellite artificiale) mediante la registrazione, per mezzo di sensori, dell’energia che le varie sostanze sono in grado di assorbire, riflettere ed emettere, ottenendo informazioni qualitative e quantitative su fenomeni o oggetti, senza entrare in contatto con essi. L’uso delle tecniche di rilevamento ha assunto notevole importanza soprattutto dopo l’avvento dei satelliti artificiali. I dati raccolti dai sensori installati sui satelliti possono essere trasmessi immediatamente alla Terra, dove vengono elaborati e tradotti in immagini, sulle quali possono essere eseguite le misure necessarie per tracciare le carte con grande precisione. I dati rilevati raccolti da satelliti e aeromobili ed elaborati in tempo reale sono disponibili quasi immediatamente. Google Earth è un software che genera immagini virtuali della Terra impiegando immagini telerilevate, fotografie aeree e dati topografici. Il sistema di posizionamento globale (GPS, global positioning system) permette di localizzare con straordinaria precisione gli elementi sulla superficie terrestre. Si tratta di una costellazione di satelliti radioemittenti geostazionari su orbite terrestri schierata dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Progressi dell’informatica, crescente accessibilità ai dati e alla tecnologia GPS e disponibilità di software per impieghi specifici hanno determinato negli ultimi venti anni enormi progressi nel campo dei sistemi informativi geografici (GIS, Geographical Information System). Il GIS è un software che permette di immagazzinare, trasformare e visualizzare dati spaziali per diversi scopi, utilizzato per applicazioni sia nella geografia umana che in quella fisica.

Si possono così confrontare un’ampia varietà di dati spaziali creando rappresentazioni digitalizzate del territorio, combinando strati di dati spaziali. La quantità di dati che possono essere inseriti in un GIS, la potenza dell’analisi dell’hardware e la facilità di analisi con le applicazioni GIS permettono ai geografi di rispondere a domande complesse.

GIS Pompei antica

La metacarta è una rappresentazione cartografica in cui la superficie dei territori (in genere Stati o regioni) è rappresentata proporzionalmente al dato del fenomeno che si vuole rappresentare. Vi è pertanto una alterazione (dilatazione o restringimento) delle aree della carta rispetto alla rappresentazione cartografica tradizionale.

Ciascuno di noi ha in mente rappresentazioni di luoghi in cui è stato o di cui ha quanto meno sentito parlare. Si tratta di carte mentali, più o meno particolareggiate a seconda che si tratti di spazi vissuti o meno. I geografi hanno studiato la formazione di carte mentali da parte di uomini, donne e bambini, rilevando alcune differenze. Le donne, ad esempio, tendono a usare punti di riferimento, mentre gli uomini preferiscono affidarsi a percorsi. Gli spazi di attività variano con l’età e di conseguenza varia anche l’estensione delle carte mentali. Al cuore della Geografia umana sta il concetto di cultura; ai geografi umani interessano non soltanto i differenti modelli e paesaggi associati a differenti gruppi culturali, ma anche i modi in cui le culture influenzano sia la creazione sia il significato di quei modelli e paesaggi. I geografi identificano un singolo attributo di una cultura come tratto culturale. Un particolare tratto può essere comune a diverse culture, ma ciascuna cultura sarà costituita da una combinazione distinta di tratti culturali nota come complesso culturale. Una fucina culturale è un’area in cui i tratti culturali si sviluppano e da cui si diffondono ad altre aree. La diffusione culturale è il processo di disseminazione, diffusione di un’idea o di un’innovazione dalla fucina ad altri luoghi, che avviene attraverso il movimento di persone, beni o idee nello spazio. La diffusione di un tratto culturale dipende, tra l’altro, dal tempo e dalla distanza dalla fucina che, combinandosi, quando sono elevati determinano il decadimento del processo di diffusione Anche le barriere culturali possono operare contro la diffusione: certe innovazioni, idee o pratiche non sono accettabili o adottabili in alcune culture a causa di atteggiamenti prevalenti o persino di tabù. I geografi classificano i processi di diffusione in: diffusione per espansione diffusione per rilocalizzazione Nella diffusione per espansione un’innovazione o un’idea si sviluppano in una fucina e vi rimangono radicate pur diffondendosi anche verso l’esterno. Vi può essere: diffusione per contagio, in cui sono influenzati quasi tutti gli individui e i luoghi adiacenti; diffusione gerarchica, in cui il principale canale è costituito da un segmento di individui sensibili a ciò che viene diffuso; diffusione per stimolo. Nella diffusione per rilocalizzazione vi è il movimento effettivo di individui che hanno già adottato l’idea o l’innovazione e che la portano con sé in una nuova località dove la disseminano. La diffusione per rilocalizzazione avviene spesso attraverso la migrazione. Se il Paese d’origine perde una quantità elevata della propria popolazione, le consuetudini culturali possono indebolirsi nella fucina e rafforzarsi all’estero. I geografi si occupano della popolazione spiegando come le sue caratteristiche varino nello spazio. I demografi indicano la densità di popolazione come misura della popolazione totale rapportata alla superficie territoriale. Nessuno però ha una popolazione distribuita uniformemente sul territorio. Un miglior indice di densità di popolazione rapporta la popolazione totale di un Paese o di una regione alla superficie delle terre coltivabili che contiene. Si definisce densità fisiologica ed è pari al numero di abitanti rapportato all’unità di superficie delle terre agricole produttive (ad es. la densità di popolazione in Egitto è di 78 ab./kmq, ma la densità fisiologica è pari a 2.616 ab./kmq.) La popolazione non è uniformemente distribuita sulla superficie terrestre o in un Paese.

Un terzo della popolazione mondiale vive in Cina e in India I geografi studiano la distribuzione della popolazione: la descrizione dei luoghi sulla superficie terrestre in cui vivono gli individui o i gruppi di individui (a seconda della scala). Fin dagli albori dell’umanità le persone hanno avuto una distribuzione disuniforme sulle terre emerse. Su scala planetaria saltano agli occhi tre principali addensamenti demografici. Ciascuno dei tre addensamenti maggiori è situato sulle terre emerse eurasiatiche. Il quarto in ordine di grandezza è situato nell’America settentrionale. Asia orientale: vi è concentrato quasi un quarto della popolazione mondiale, soprattutto in Cina (dove vivono 1,3 miliardi di persone), Corea e Giappone; Asia meridionale: vi è la seconda principale concentrazione di popolazione, localizzata soprattutto in India (1,5 miliardi di persone), Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka. Europa: una fascia ad alta densità di popolazione si estende dall’Irlanda e dalla Gran Bretagna alla Russia, comprendendo vaste regioni di Germania, Polonia, Ucraina e Bielorussia. Include anche Olanda, Belgio, parti della Francia e dell’Italia settentrionale. E’ un addensamento demografico che comprende oltre 709 milioni di abitanti, meno della metà di quello sudasiatico. Le logiche della distribuzione della popolazione sono però diverse: in Asia vi è una maggiore corrispondenza fra alta densità di popolazione e bassopiani costieri e fluviali, mentre in Europa la maggiore densità di popolazione si riscontra in aree connotate da economia industriale; in Asia solo il 30% della popolazione risiede in città grandi e piccole, in Europa più del doppio. Le tre principali concentrazioni di popolazione costituiscono oltre 4 miliardi della popolazione mondiale. In nessun’altra regione della Terra esiste un addensamento demografico il cui ammontare sia almeno la metà di uno qualsiasi di questi tre: le popolazioni di America meridionale, Africa e Australia, nel loro insieme, superano appena la popolazione della sola India. L’America settentrionale ha un’unica regione popolata assai densamente che si estende lungo le aree urbane della East Coast, da Washington D.C. a sud fino a Boston a nord. In questa regione le città si agglomerano formando un’unica grande area urbana (megalopoli) nella quale abita più del 20% della popolazione statunitense. Aggiungendo la popolazione delle città canadesi limitrofe (Toronto, Montreal, Ottawa e Québec) si ottiene un addensamento demografico pari a circa un quarto di quello europeo.

Distribuzione della popolazione mondiale

Distribuzione della popolazione mondiale

Popolazione mondiale al 2002 Paesi e regioni attraversano stadi di espansione e di declino in tempi variabili. L’Asia meridionale è la regione più importante nel quadro dei tassi di crescita della popolazione. I Paesi la cui popolazione cresce più lentamente (compresi quelli i cui tassi stanno diminuendo) si trovano nelle regioni economicamente più ricche (Stati Uniti, Canada, Europa e Giappone e, nell’emisfero meridionale, Nuova Zelanda e Uruguay) Gli attuali elevati tassi di crescita della popolazione in molti Paesi poveri non sono necessariamente permanenti. In Europa la crescita è variata parecchie volte negli ultimi tre secoli. Si parla di transizione demografica per indicare il passaggio da tassi elevati di natalità e mortalità a tassi inferiori di entrambi. E’ un processo che si è riscontrato, con tempi diversi, nei differenti Paesi fino al loro sviluppo. La fase iniziale è di crescita lenta della popolazione, contraddistinta da tassi elevati di natalità e mortalità; la seconda è di forte crescita della popolazione fino ad un’esplosione demografica dovuta ad una contrazione forte del tasso di mortalità a fronte di un tasso di natalità ancora molto elevato; la terza è di calo della crescita della popolazione per la forte diminuzione del tasso di natalità; l’ultima, con bassi tassi di natalità e mortalità, caratterizza una situazione di stabilità della popolazione, che in alcuni momenti può anche presentare un saldo negativo.

Transizione demografica Si ritiene che nella maggior parte dei Paesi le popolazioni cesseranno di crescere nel corso di questo secolo, raggiungendo un cosiddetto livello demografico stazionario, con una stabilizzazione della popolazione mondiale. Quando si studiano le popolazioni ci si interessa anche della loro composizione, cioè della struttura in termini di età, sesso e altre caratteristiche quali l’istruzione. Età e sesso sono espressi tramite piramidi della popolazione, che mostrano immediatamente la situazione demografica di un Paese. Nei Paesi poveri, in cui i tassi di natalità e mortalità rimangono generalmente elevati, la piramide somiglia a una conifera, con rami lunghi alla base e corti alla sommità. Nei Paesi ricchi le componenti più numerose della popolazione sono al centro, con la tendenza a spostarsi verso l’alto, rispecchiando l’invecchiamento della popolazione e la diminuzione della natalità.

Per comprendere la condizione di un Paese è opportuno considerare anche alcuni indicatori della salute di un territorio, quali i tassi di mortalità infantile. La salute e il benessere sono strettamente correlati alla posizione fisica e all’ambiente. I geografi medici studiano la distribuzione delle malattie e contribuiscono a prevedere la loro diffusione e a studiare strategie di prevenzione, oltre che a dare indicazioni di localizzazione di presidi sanitari.

Per descrivere la diffusione fisica di una malattia si utilizzano tre espressioni: 1.malattia endemica (o endemia) per indicare la presenza costante di una malattia infettiva o di un microrganismo infettivo in una data regione; 2.malattia epidemica (o epidemia) per indicare una malattia che si diffonda, all’improvviso e brevemente, in una data regione; 3.malattia pandemica (o pandemia) per una patologia che si presenti in molte e ampie parti del pianeta, talora contemporaneamente. Migrazione I flussi migratori variano per regione, centro di provenienza (rurale o urbano), genere (inteso come sesso), classe socioeconomica, età, razza ed etnia. Il movimento trasforma i luoghi (sia quelli da cui gli esseri umani emigrano sia quelli in cui immigrano), accelera la diffusione delle idee e delle innovazioni, intensifica l’interazione e trasforma le regioni; è spesso strettamente legato alle condizioni ambientali. La mobilità varia da locale a globale e dal movimento giornaliero a un unico movimento nell’arco della vita. Possiamo distinguere, in base al tempo di lontananza da casa: •il movimento ciclico, che indica periodi brevi di lontananza da casa; •il movimento periodico, con periodi lunghi di lontananza da casa; •la migrazione, che implica una lunga permanenza all’estero. Movimento ciclico La scala dello spazio di attività (brevi movimenti in un’area locale) delle persone varia da società a società. Un movimento ciclico è il pendolarismo, che comporta da minuti a ore e può implicare più modi di trasporto. I progressi nella tecnologia dei trasporti hanno espanso gli spazi di attività quotidiana. Un’altra forma di movimento ciclico è quello stagionale, di carattere elitario. Al contrario il nomadismo, terzo tipo di movimento ciclico, è questione di sopravvivenza, cultura e tradizione. Il nomadismo è in calo, ma è ancora presente in alcune regioni dell’Asia e dell’Africa. I nomadi devono conoscere il loro territorio per trovare acqua, cibo e riparo nei loro movimenti ciclici, che ripetono nel tempo vie familiari già ripercorse più e più volte. Il movimento periodico implica un periodo di lontananza da casa più prolungato rispetto al movimento ciclico. Un tipo comune di movimento periodico è quello della forza lavoro migrante che coinvolge decine di milioni di lavoratori su scala planetaria, molti dei quali diventano immigrati. Una forma specializzata di movimento periodico è la transumanza: un sistema pastorale in cui i pastori trasferiscono il bestiame secondo la disponibilità stagionale di pascoli. Il servizio militare è un’altra forma di movimento periodico La migrazione Il processo di migrazione implica il trasferimento di lungo periodo di un individuo, di una famiglia o di un gruppo più grande in una nuova località all’esterno della comunità d’origine. La migrazione internazionale (o migrazione transnazionale) è il movimento che implica l’attraversamento di confini; la migrazione interna è quella che avviene entro i confini di un Paese. La migrazione può essere volontaria o involontaria (forzata). Non sempre la distinzione è netta, la differenza essenziale consiste nella possibilità di scegliere almeno la propria destinazione o attività.

Gli studi sul genere e sulla migrazione dimostrano come in molte regioni gli uomini si muovano di più e migrino più lontano delle donne. Nel Paese di destinazione gli uomini hanno generalmente più opportunità lavorative e le donne vengono retribuite meno. La migrazione forzata più grande e devastante nella storia dell’umanità è stata la tratta atlantica degli schiavi africani, che ne portò decine di milioni dalle loro case all’America meridionale, ai Caraibi e all’America settentrionale, con enormi perdite di vite. L’intensità dei flussi migratori volontari cambia al variare dei fattori quali le somiglianze tra il luogo di origine e il luogo di destinazione, l’efficacia del flusso di informazioni dal luogo di destinazione al luogo di origine e la distanza fisica tra il luogo d’origine e il luogo di destinazione. Quando si sceglie volontariamente di migrare, intervengono fattori di espulsione e di attrazione che operano in misura diversa secondo le circostanze e la scala della migrazione. I primi sono le condizioni o le percezioni che inducono un migrante a decidere di abbandonare un luogo. I fattori di attrazione sono invece le circostanze che attraggono il migrante verso certi luoghi. Un migrante percepirà verosimilmente meglio i fattori di espulsione (condizioni di lavoro o pensionamento, costo della vita, sicurezza personale, disastri ambientali) a causa della maggiore familiarità con il luogo di origine. Quando si considerano i fattori di attrazione interviene il principio del decadimento con la distanza: i potenziali migranti tendono ad avere percezioni più articolate dei luoghi vicini e pertanto si allontanano meno di quanto preventivassero inizialmente. Spesso la migrazione avviene a tappe e in ogni fase intervengono nuovi fattori di attrazione. Inoltre, durante il cammino la maggior parte dei migranti è attratta da opportunità lungo il percorso, con la valutazione, di volta in volta, dei fattori di espulsione e di attrazione. I migranti possono arrivare in un Paese legalmente o clandestinamente. Ogni Paese stabilisce chi sia autorizzato ad immigrare e in quali circostanze. Uno dei più forti fattori di espulsione è la povertà. Il genere, l’etnia, la razza e il denaro sono fattori che inducono a emigrare, insieme alle circostanze politiche, ai conflitti armati e alle guerre civili, alle condizioni ambientali (ivi compresi terremoti, uragani, eruzioni vulcaniche), alla speranza di ricongiungimento di gruppi culturali o comunque di tutela della propria cultura. I progressi tecnologici rendono più semplice l’emigrazione tanto per le modalità di comunicazione di informazioni e opportunità, che rafforzano il ruolo dei legami di parentela come fattori di espulsione o attrazione, quanto per i miglioramenti nei mezzi di trasporto. Quando i migranti si muovono lungo e attraverso legami di parentela, creano quella che i geografi chiamano migrazione a catena, dovuta alla percezione positiva della destinazione a seguito delle rassicurazioni ricevute, anche sulla formazione potenziale di una nuova comunità, che promuovono un’ulteriore migrazione lungo la stessa catena. Le catene di migrazione costruite l’una sull’altra generano ondate di immigrazione che si propagano dallo stesso luogo d’origine allo stesso luogo di destinazione. Negli ultimi cinque secoli si sono verificati diversi grandi flussi migratori su scala planetaria, internazionale (regionale) e nazionale, con centinaia di migliaia di persone che hanno contribuito al cambiamento dei territori di partenza e destinazione. Prima del 1500 la migrazione su scala planetaria avveniva casualmente per cercare spezie, conquistare fama o condurre esplorazioni. Gli ultimi cinque secoli hanno visto una migrazione umana su una scala senza precedenti, generata in gran parte dalla colonizzazione europea. I flussi migratori hanno infatti compreso movimenti dall’Europa alle Americhe; da Gran Bretagna e Irlanda ad Africa e Australia; dall’Africa alle Americhe nel periodo della tratta degli schiavi; su impulso dei Britannici dall’India all’Africa orientale, all’Asia sudorientale e all’America caraibica. Alcuni flussi planetari erano forzati e altri erano volontari, ma tutti erano transoceanici. Le migrazioni possono però avvenire su scala internazionale (regionale), quando i migranti si trasferiscono in un Paese

vicino. Per comprendere i flussi migratori da un Paese ad un altro non è sufficiente analizzare il fenomeno su scala globale, ma è necessario ingrandire lo studio su scala internazionale (regionale). Il colonialismo europeo contribuì a creare ovunque isole di sviluppo, spesso città costiere la cui istituzione si basava sugli scambi commerciali. Nelle isole di sviluppo affluisce la maggior parte degli investimenti esteri e si concentra la maggior parte delle occupazioni retribuite e delle infrastrutture. Ad esempio, all’interno dell’Africa occidentale le aree petrolifere della Nigeria sono isole di sviluppo. Il colonialismo europeo ebbe conseguenze anche sui flussi migratori regionali in Asia sudorientale. Nella seconda metà del diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo secolo molti Cinesi immigrarono in città di questa regione per lavorare nell’industria, nel commercio e nella finanza. Oggi le minoranze cinesi costituiscono percentuali notevoli della popolazione di Thailandia, Malaysia e Indonesia. Nell’ambito dei processi di migrazione, vennero chiamati dalle pubbliche amministrazioni dell’Europa occidentale lavoratori ospiti i migranti per lavoro che andavano a colmare il vuoto lasciato dai lavoratori morti durante la seconda guerra mondiale, e che, finita l’esigenza, sarebbero tornati nei Paesi di origine. Il flusso internazionale di lavoratori ospiti, di breve o di lungo periodo, cambia il mosaico etnico, linguistico e religioso. In Europa, ad es., i lavoratori provenienti da Turchia, Africa settentrionale, Asia meridionale e altri ex possedimenti coloniali hanno modificato il paesaggio culturale. Nuovi templi, moschee, ristoranti, negozi di alimentari e altri prodotti e servizi destinati agli immigrati si sono radicati nel paesaggio culturale europeo. Altra categoria di migranti è quella dei rifugiati, cioè di quelle persone che, temendo di essere perseguitate per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori dal proprio Paese e non può avvalersi della sua protezione. Sono invece profughi interni coloro che sono sfollati all’interno dei confini del loro Paese Lo status di rifugiato conferisce diritti giuridici, compreso il possibile diritto d’asilo, al quale gli altri non hanno diritto. Una volta che sono cessate le condizioni di rischio nel Paese di origine, vi è il processo di rimpatrio, con l’assistenza delle Nazioni Unite. La maggior parte dei rifugiati proviene da Paesi relativamente poveri e si trasferisce in Paesi confinanti altrettanto poveri. All’inizio del secolo, l’Africa subsahariana aveva il maggior numero di rifugiati e la maggiore potenzialità di nuovi flussi, seguivano le regioni dell’Asia sudoccidentale e dell’Africa settentrionale. In Europa negli anni Novanta il crollo della Jugoslavia e i conflitti che l’accompagnarono crearono la più grande crisi dalla fine della seconda guerra mondiale. Nel 1995 i rifugiati erano sei milioni, attualmente vi sono 1,6 milioni di profughi interni. Molti Paesi pongono restrizioni all’immigrazione: gli Stati Uniti nel 1921 stabilirono quote d’immigrazione in rapporto al numero dei compatrioti già presenti, poi modificate in limiti assoluti numerici (170.000 immigrati dai Paesi esterni e 120.000 dalle Americhe), mentre fino alla metà degli anni Settanta l’Australia non ammetteva immigrazione di popolazione non bianca. Cultura locale e popolare I gruppi culturali possono essere definiti dagli studiosi culture tradizionali (meglio: locali) oppure parte della cultura popolare. Secondo alcuni studiosi cultura tradizionale/locale (piccola, tipicamente rurale, coesa nei tratti culturali, con una popolazione omogenea) e popolare (grande, tipicamente urbana, con cambiamenti rapidi ed una popolazione eterogenea) sono i due estremi tra i quali si colloca la maggior parte delle culture. Una cultura locale è un gruppo di persone che, in un particolare luogo, si considerano una comunità, condividono esperienze, consuetudini e tratti e si adoperano per conservarli affermando la propria unicità. Alcune culture locali si basano principalmente sulla religione, altre sulle celebrazioni comunitarie o sulle strutture familiari, altre sull’assenza di scambi con altre culture.

Sono dinamiche e si ridefiniscono o perfezionano continuamente attraverso i contatti con altre culture e la diffusione dei tratti culturali e influenzano anche gli insediamenti, edificando quartieri e costruendo chiese o centri di celebrazione. Le culture locali hanno generalmente due obiettivi: escludere le altre culture evitando la contaminazione e conservare la propria. Nelle aree rurali le culture locali si preservano con facilità grazie al maggior isolamento che tende a escludere le influenze esterne. Il geografo Shortridge ha definito neolocalismo la tutela della cultura locale in cui si infonde nuovo vigore in contrapposizione all’incertezza contemporanea. Alcune culture locali sono riuscite a costruire un mondo separato, un luogo dove praticare consuetudini all’interno di una grande città costruendo quartieri etnici omogenei. La cultura materiale di un gruppo di persone comprende gli oggetti che esse costruiscono, come opere d’arte, case, capi di abbigliamento, sport, danze e cibi. La cultura immateriale è costituita invece da credenze, pratiche, senso estetico e valori di un gruppo di persone. Ciò che si produce nella cultura materiale rispecchia la cultura immateriale. Una cultura locale può anche cercare di evitare l’appropriazione culturale, cioè l’adozione di consuetudini e conoscenze da parte di altre culture che le usano a proprio vantaggio, anche per trarne benefici economici. La mercificazione influenza in vari modi le culture locali. In primo luogo la cultura materiale: gioielli, capi di abbigliamento, cibi e giochi possono essere commercializzati da membri o non membri. Lo stesso avviene per la cultura immateriale: religione, lingua e credenze sono mercificate, spesso da non membri che vendono terapie spirituali ed erboristiche locali. Quando le culture o le consuetudini locali sono mercificate, un’immagine o un’esperienza divengono stereotipo, proprio ciò che il turista desidera. Una cultura locale “autentica” non si adatta a una singola esperienza o immagine: è, al contrario, complessa e non stereotipata. A differenza delle culture locali, che sono presenti in aree relativamente piccole, la cultura popolare è ubiquitaria, può cambiare nel volgere di giorni o ore ed è praticata da un gruppo eterogeneo di persone. Come la cultura locale, la cultura popolare comprende la musica, la danza, l’abbigliamento, le preferenze alimentari, le pratiche religiose e l’estetica. Ad es. le tendenze della moda si diffondono molto rapidamente per via gerarchica. Le principali vie di diffusione della cultura popolare sono i trasporti, il marketing e le reti di comunicazione. La cultura popolare si diffonde a velocità più elevata attraverso gli spazi più compressi. Tutti gli aspetti della cultura popolare hanno una fucina, che generalmente opera tramite la diffusione per contagio e poi per diffusione gerarchica. Anche se la cultura popolare si è diffusa in tutto il pianeta, non ha cancellato tutte le culture locali; al contrario un aspetto della cultura popolare (quale la musica o il cibo) quando si incontra con una nuova località e con la sua gente e la cultura locale assumerà forme nuove. In questo caso i geografi e gli antropologi parlano di riterritorializzazione della cultura popolare. L’influenza dell’Europa, degli Stati Uniti e del Giappone sulla cultura popolare di tutto il pianeta fa sì che molte persone si sentano minacciate dall’omologazione culturale. Su scala planetaria l’America settentrionale, l’Europa occidentale e il Giappone esercitano attualmente la massima influenza sulla cultura popolare. L’America settentrionale influenza l’Europa occidentale e il Giappone nella musica, negli sport e nel fast food; il Giappone influenza l’America settentrionale e l’Europa occidentale nei programmi televisivi per bambini e nei giochi elettronici; l’Europa occidentale influenza l’America settentrionale e il Giappone nella moda, nell’arte e nella filosofia.

La rapida diffusione della cultura popolare può far sì che i consumatori perdano le tracce della fucina di un bene o di un’idea. Quando la diffusione della cultura popolare sposta o sostituisce la cultura locale, solitamente incontra resistenza (si pensi alle politiche francesi). La preoccupazione per la perdita d’identità locale non è limitata a particolari regioni; si trova, infatti, anche nei Paesi ricchi, dove si riflette in vari ambiti, dall’aumento del fondamentalismo religioso alla istituzione di “comuni” quasi autonome. Fra le minoranze nei Paesi ricchi, per esempio, si coglie nelle iniziative per promuovere le lingue, le religioni e le consuetudini locali, ostacolando le influenze culturali della società dominante. Nei Paesi poveri la classe politica cerca di promuovere un’ideologia nazionalista esplicitamente in contrasto con la mondializzazione culturale. Sempre nei Paesi poveri, le minoranze sociali ed etniche cercano l’autonomia da regimi che promuovono l’adeguamento a un modello culturale nazionale. Gli aspetti che le persone scelgono di adottare dalla cultura popolare e quelli che rifiutano contribuiscono a plasmare il carattere e la cultura delle persone, dei luoghi e dei paesaggi. La tensione fra cultura popolare e cultura locale si può cogliere nel paesaggio culturale, l’impronta visibile dell’attività umana sul paesaggio, che rispecchia i valori, le regole e il gusto estetico di una cultura. Tale impronta va dalle modifiche all’ambiente naturale alla costruzione di edifici, strade, cartelli, recinzioni e statue. Quando si perdono le caratteristiche di unicità del luogo, si usa il termine placelessness (assenza di luogo). A proposito dei paesaggi culturali si possono fare tre osservazioni: 1.particolari forme architettoniche e di pianificazione si sono diffuse in tutto il pianeta (si pensi alla diffusione del grattacielo) 2.alcune imprese e prodotti si sono diffusi a tal punto che oggi lasciano una distintiva impronta paesaggistica in territori assai lontani l’uno dall’altro (basti osservare le insegne o pensare alle forti somiglianze degli aeroporti internazionali o dei centri commerciali) 3. la commercializzazione “all’ingrosso” di paesaggi, benché non promuova la convergenza, favorisce un offuscamento dell’identità territoriale. Gli elementi vengono trapiantati da un luogo ad un altro indipendentemente dal loro adattamento al paesaggio (ad es. a Las Vegas vi sono varie strutture progettate in modo da evocare differenti parti del mondo; in America settentrionale a volte nelle periferie compaiono imitazioni di centri di città, per far sembrare tutto “più americano”). “Prestiti e mescolamenti” culturali avvengono ovunque, anche se in modi differenti. Questo fenomeno è detto continuum globale-locale. Le persone mediano e modificano i processi regionali, nazionali e planetari in un processo detto glocalizzazione (fusione dei termini globalizzazione e localizzazione); il carattere di un luogo è il risultato di una serie di scambi, appunto fra locale e globale. Identità L’identità si può definire il modo in cui intendiamo noi stessi. Costruiamo la nostra identità attraverso esperienze, emozioni, connessioni e rifiuti. Lo spazio geografico fa parte integrante di questo processo e le nostre percezioni dei luoghi ci aiutano a comprendere chi siamo. Uno dei metodi più efficaci per costruire un’identità è l’identificazione contro (qualcun altro): prima definiamo l’altro, poi ci definiamo come non l’altro. Attraverso la definizione dell’ “altro” nell’epoca delle esplorazioni e del colonialismo gli europei hanno definito se stessi “non misteriosi” e “non selvaggi”, quindi “civili”. In epoca moderna uno dei più potenti generatori d’identità è lo Stato. Il nazionalismo è una forza così potente che spesso gli individui considerano se stessi soprattutto Italiani, Francesi ecc. La razza è un perfetto esempio di come si costruiscano le identità.

Le differenze di classe sociale ed economica hanno alimentato il concetto di superiorità associato alla razza, il razzismo. Le distinzioni usate oggi sono tratte da categorie radicate nella storia culturale, nelle relazioni di potere e nelle politiche di un luogo nel corso dei secoli. Il modo in cui consideriamo noi stessi è complesso; abbiamo diverse identità su diverse scale: individuale, locale, regionale, nazionale e planetaria. Esse si influenzano reciprocamente e i modi in cui luoghi e persone interagiscono su differenti scale influenzano le identità. La costruzione dell’identità e l’ “identificazione contro” sono radicate sui territori come qualsiasi altro processo sociale o culturale. Quando costruiamo le identità, parte di ciò che facciamo consiste nell’infondere significato a un luogo associandogli memorie ed esperienze. Molti geografi definiscono questo processo senso del luogo. L’etnia è un buon esempio di come le identità influenzino i luoghi e viceversa. Oscilla e varia secondo le diverse scale e i diversi luoghi essendone ampiamente influenzata, oltre che nel corso del tempo. Una carta di tutte le aree etniche si presenterebbe come un mosaico tridimensionale con migliaia di tessere spesso parzialmente sovrapposte, alcune non più grandi di un quartiere, altre grandi quanto interi Paesi. Anche una popolazione poco numerosa, se dotata di un’identità e di una coscienza etnica, può esercitare un’influenza durevole sul paesaggio culturale. I gruppi culturali fanno spesso appello all’etnia quando la razza non è in grado di spiegare le differenze e l’antagonismo tra i gruppi. I geografi che studiano le identità (genere, etnia, razza, sessualità) si rendono conto che quando le persone creano luoghi lo fanno nel contesto di relazioni sociali. Per esempio si possono creare o riscontrare luoghi generizzati (o genderizzati): rivolti al genere, cioè destinati alle donne oppure agli uomini, anche nelle loro differenti identità sessuali. Le relazioni di potere influenzano direttamente l’identità e i paesaggi; la natura di tale influenza dipende dal contesto geografico. Le identità dei luoghi e delle culture devono essere create e ciò può avvenire in modi diversi, anche conflittuali. In questo processo il potere è centrale: il potere di vincere la contesa su come si dovrebbe vedere il luogo e quale significato attribuirgli; il potere, in altre parole, di costruire la geografia immaginativa dominante, le identità. Le relazioni di potere fanno molto di più: possono soggiogare interi gruppi di persone, imponendo comportamenti o stabilendo dove le persone debbano essere accolte o respinte (si pensi alle leggi di segregazione razziale). Anche senza il sostegno della pubblica amministrazione, le persone creano luoghi dove limitano l’accesso agli altri (delimitandoli a volte con murales o colori diversi degli edifici). I geografi Domosh e Seager definiscono il genere “gli assunti di una cultura sulle differenze fra uomini e donne: i loro ‘caratteri’, i ruoli che svolgono nella società, ciò che rappresentano”. Cultura e società diverse hanno idee differenti su quali occupazioni siano appropriate per gli uomini e quali per le donne e hanno creato divisioni del lavoro per genere. La suddivisione del lavoro è uno degli esempi più evidenti di come una società possa essere basata sul genere. In Indonesia e nei Paesi poveri la maggior parte delle mansioni nell’industria è riservata alle donne, considerate come forza lavoro “a perdere”, che può essere sfruttata più facilmente ed è meno propensa a scioperare. La statistica della produttività più usata, il reddito nazionale lordo (RNL), non comprende il lavoro domestico non retribuito delle donne né, generalmente, il lavoro compiuto dalle donne nelle aree rurali dei Paesi meno sviluppati. Gli studiosi stimano che, se si attribuisse un valore monetario alla produttività delle donne nella sola famiglia, il RNL annuo totale del Pianeta aumenterebbe di circa un terzo. Nei Paesi poveri le donne producono più della metà del cibo, costruiscono case, pozzi, seminano piante e seguono il raccolto, producono capi d’abbigliamento; svolgono un ruolo importante nella cosiddetta

economia informale. Va comunque crescendo il numero delle donne nella forza lavoro “ufficiale”. Fra il 1970 e il 1990 nei Paesi ricchi la partecipazione passò dal 35% al 39%; in America centrale e meridionale dal 24% al 29%; in Asia orientale e sudorientale la percentuale aumentò molto lievemente; nell’Africa subsahariana scese dal 39% al 37%. Queste statistiche rivelano che nelle economie in ristagno o in declino le donne sono spesso le prime a soffrire della contrazione occupazionale. Le donne continuano comunque ad essere retribuite meno e ad avere meno accesso a cibo e istruzione in quasi tutte le culture e in quasi tutti i Paesi. In gran parte dell’Asia e dell’Africa subsahariana la maggioranza delle donne retribuite (rispettivamente più del 50% e l’80%) lavora ancora in agricoltura. Le differenze di genere nell’accesso alle strutture e ai servizi rende più vulnerabile anche in ambito sanitario la componente femminile della popolazione (si pensi alla diffusione dell’Aids più elevata fra le donne in alcuni Paesi). Geografia politica La geografia politica è lo studio dell’organizzazione politica del pianeta. I geografi studiano i processi politici su varie scale. Su scala planetaria abbiamo una suddivisione in singoli Paesi detti Stati. L’attuale divisione del planisfero politico è il prodotto d’innumerevoli accordi e aggiustamenti entro e tra le società umane, a partire da un’organizzazione politica dello spazio (in Stati) che risale a meno di quattro secoli fa. Come gli individui creano i luoghi, conferendo carattere allo spazio e plasmando la cultura, così creano gli Stati e i loro confini. Nel mondo attuale esistono circa 200 Stati, le cui dimensioni e la cui importanza vanno da quelle dell’ex Unione Sovietica a quelle di unità territoriali di meno di un kmq. Questi Stati coprono circa l’80% della superficie delle terre emerse del pianeta (e le acque territoriali adiacenti). Le aree che restano fuori della sovranità nazionale sono controllate attraverso accordi coloniali o di amministrazione fiduciaria congiunta. Uno Stato è un’entità che deve avere popolazione, sovranità e territorio. Un popolo è costituito da individui che la lunga coabitazione in uno stesso territorio finisce con accomunare nella lingua, nei costumi, nella storia, nelle tradizioni, nel tipo e grado di civiltà. La territorialità è l’azione di un individuo o un gruppo tesa a influenzare o controllare persone, fenomeni e relazioni delimitando e affermando il controllo su un territorio. Essa è dunque l’ingrediente essenziale nella costruzione degli spazi sociali e politici, che assume forme diverse secondo il contesto sociale e geografico. Oggi il concetto di territorio è strettamente legato a quello di sovranità. Il comportamento territoriale implica un’espressione di controllo su un territorio. Nel diritto internazionale sovranità significa controllo politico e militare del territorio. Quando la comunità internazionale riconosce un’entità come Stato ne riconosce anche la sovranità all’interno dei suoi confini. In base al diritto internazionale gli Stati sono sovrani e hanno il diritto di difendere la propria integrità territoriale contro le aggressioni di altri Stati. Non tutti gli Stati hanno la stessa capacità di influenzare altri Stati o di raggiungere i propri scopi politici con mezzi diplomatici, economici e militari.

I concetti di Stato, sovranità e territorio ebbero origine in Europa a metà del diciassettesimo secolo. All’inizio del diciassettesimo secolo Stati quali la Serenissima Repubblica di Venezia, il Brandeburgo, lo stato Pontificio, il Regno d’Ungheria e alcuni Stati tedeschi minori facevano parte di una complessa miscellanea di entità politiche, spesso con confini mal definiti. La nascita dello Stato politico fu accompagnata dal mercantilismo, che all’atto pratico determinò l’accumulazione di ricchezza attraverso il saccheggio, la colonizzazione e la protezione delle industrie nazionali e dei mercati esteri. Vi era una forte concorrenza, insorgevano spesso conflitti e prevalevano governi repressivi. Nella storia europea la nascita dello Stato moderno può essere fatta risalire alla pace di Westfalia, firmata nel 1648 tra i principi degli Stati che costituivano il Sacro Romano Impero Germanico e alcuni stati confinanti (si inaugurò infatti un nuovo ordine internazionale nel quale gli Stati si riconoscevano fra loro in quanto tali). I trattati che costituivano la pace ponevano termine al più distruttivo conflitto europeo sulla religione, la Guerra dei trent’anni. Il linguaggio dei trattati, riconoscendo i diritti dei governanti all’interno di territori definiti, poneva le fondamenta per un’Europa formata da Stati costituiti formalmente anche da un territorio. Inizialmente gli accordi valsero solo per gli Stati firmatari dei trattati, ma diedero origine a un ordine politico e territoriale che si diffuse in tutta l’Europa occidentale e centrale. L’idea di Stato moderno ha poi avuto un notevole impulso grazie alla Rivoluzione industriale, alla Rivoluzione francese e alle dinamiche storiche europee, legate alle rivendicazioni di indipendenza nazionale dei secoli XIX e XX. Il territorio viene considerato un elemento fisso dell’identificazione politica e gli Stati definiscono territori esclusivi, che non possono essere sovrapposti nemmeno parzialmente. I governi esercitano la sovranità sui territori e sugli individui che li abitano. Stato e Nazione non sono sinonimi. Stato è un termine giuridico del diritto internazionale e la comunità politica internazionale ha raggiunto un certo accordo sul suo significato. Lo Stato può definirsi come l’organizzazione giuridica di un popolo su un determinato territorio. Popolazione e territorio, pertanto, si configurano come elementi geografici dello Stato, il quale gode della piena sovranità, qualunque sia la sua forma costitutiva (unitaria, federale, repubblicana, monarchica). Nazione, invece, è un termine definito culturalmente e non tutti concordano sul suo significato esatto. Si definisce nazione un gruppo di individui che basino la propria appartenenza al gruppo stesso su un senso di cultura e storia condivisa, aspirando a un certo grado di autonomia politica e territoriale. Le nazioni considerano variamente di condividere una religione, una lingua, un’etnia o una storia. Una nazione è identificata dal sentimento collettivo della propria appartenenza; non possiamo definirla semplicemente come il gruppo di individui che vivono all’interno di un territorio (raramente l’estensione di una nazione corrisponde esattamente ai confini dello Stato). La consapevolezza di formare un gruppo unitario trasforma un popolo in nazione, caratterizzata quest’ultima dalla volontà di erigersi a Stato o di salvaguardarne l’avvenuta formazione. Storicamente le Nazioni sono state considerate entità naturali mutevoli nelle quali gli individui nascono. Secondo una concezione ampiamente condivisa, tutti gli individui appartengono, e sono sempre appartenuti, a una Nazione. Lo studioso statunitense Anderson definisce la Nazione “comunità immaginata”, perché non incontreremo mai tutte le persone nella nostra Nazione e, ciò nonostante, ci sentiamo parte di un gruppo. Uno Stato-Nazione è una regione organizzata politicamente nella quale Nazione e Stato occupino lo stesso spazio. Gli Stati e i governi desiderano una Nazione unificata entro i loro confini per creare stabilità e sostituire

altre identità con forti connotazioni politiche in grado di sfidare lo Stato. Tuttora i principali attori delle relazioni internazionali continuano a giudicare valida la creazione di StatoNazione, ritenendo che solo con esso si possa procurare una pace di lungo periodo. L’obiettivo di creare uno Stato-Nazione risale alla Rivoluzione francese, che mirava al controllo da parte di una comunità storica e culturale anziché da parte di una monarchia o un colonizzatore. La Rivoluzione francese promosse inizialmente il concetto di democrazia, il concetto di popolo sovrano dello Stato. Si cominciò a considerare il concetto di Stato-Nazione come l’espressione giusta della sovranità e la via migliore per giungere alla stabilità. Nell’Europa del diciannovesimo secolo quest’aspirazione fu accompagnata da un aumento del nazionalismo, che fu usato dagli Stati per diversi scopi. In alcuni casi integrarono la popolazione in un’unità nazionale (Francia, Spagna) e in altri riunirono entro un singolo Stato individui con caratteristiche culturali comuni (Germania, Italia). Similmente, individui che si sentivano una nazione separata all’interno di uno Stato o di un impero lanciarono movimenti separatisti coronati da successo e ottennero l’indipendenza (Irlanda, Norvegia, Polonia). Nel processo di creazione degli Stati-Nazione europei, gli Stati assorbirono entro i propri confini entità più piccole, risolvendo i conflitti con la forza o con i negoziati e definendo i confini. Come mezzo per promuovere il nazionalismo, nella seconda metà del diciannovesimo secolo e nella prima metà del ventesimo gli Stati europei usarono anche la colonizzazione dell’Africa e dell’Asia. Mediante l’identificazione contro un “altro” lo Stato e il popolo contribuivano a identificare i caratteri della propria nazione e, così facendo, lavoravano alla costruzione di uno Stato-Nazione. La frequente mancanza di coincidenza fra Nazione e Stato crea complicazioni, per esempio Stati privi di nazione e nazioni prive di Stato. Pressoché ogni Stato attualmente esistente è uno Stato multinazionale, cioè ha più di una Nazione all’interno dei suoi confini (ad es. lo Stato jugoslavo ebbe sempre più di una nazione, prima di dissolversi). Quando una nazione si estende in più Stati, è detta nazione multistatale (ad es. il territorio della Transilvania). Un altro caso particolare è quello di nazioni senza Stato (si pensi ai palestinesi). Per conoscere qualsiasi Stato si devono prendere in considerazione anche le relazioni spaziali e funzionali all’interno dell’economia planetaria. La teoria dei sistemi-mondo, elaborata dal sociologo ed economista statunitense Wallerstein, si basa su tre principi: 1.l’economia planetaria ha un unico mercato e una divisione generale del lavoro 2. esistono più Stati, ma quasi tutto avviene nel contesto dell’economia planetaria 3. l’economia planetaria ha una struttura stratificata in tre zone. Secondo tale teoria lo sviluppo di un’economia planetaria cominciò con lo scambio capitalistico intorno al 1450 e abbracciò il Globo intero nel 1900. Con il capitalismo individui, imprese e Stati producono beni e li scambiano sul mercato internazionale, proponendosi di realizzare un profitto. I produttori possono inoltre realizzare profitti con la cosiddetta mercificazione, intesa come trasformazione di beni e servizi in beni economici. Inoltre, per guadagnare cercano in tutto il Pianeta la forza lavoro meno costosa. Esistono circa 200 Stati, ma tutto avviene nel contesto dell’economia planetaria fin dal 1900. I teorici dei sistemi-mondo considerano l’economia planetaria stratificata in tre zone: il centro, la periferia e la semiperiferia.

Centro e periferia non sono semplicemente luoghi, bensì processi che si svolgono sul territorio. Il centro è caratterizzato da livelli d’istruzione, salari e tecnologia superiori: i processi centrali generano più ricchezza nell’economia planetaria. La periferia è caratterizzata da livelli d’istruzione, salari e tecnologia inferiori: i processi periferici generano meno ricchezza. I processi non sono statici né confinati negli Stati. Wallerstein ha definito la semiperiferia come il territorio nel quale si svolgono sia i processi che costituiscono il centro che quelli che costituiscono la periferia. Si tratta delle regioni che vengono sfruttate dal centro, ma, a loro volta, sfruttano la periferia. Il centro sfrutta la periferia traendo vantaggio dalla forza lavoro a basso costo o da norme ambientali permissive. Le due più diffuse forme di organizzazione dello Stato sono lo Stato unitario e lo Stato federale. Per reggere gli Stati multinazionali i governi, anche quelli democratici, spesso hanno soppresso il dissenso con la forza. Fino alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati europei erano in maggioranza unitari: erano fortemente centralizzati e la capitale era il centro del potere. Gli Stati unitari non compivano grandi sforzi per comporre le minoranze o le regioni periferiche in cui l’identificazione con lo Stato era più debole. Le Nazioni più piccole al loro interno (ad es. i Bretoni in Francia o i Baschi in Spagna) erano represse e soppresse. L’organizzazione amministrativa di uno Stato unitario è progettata per assicurare l’autorità del governo centrale su tutte le parti dello Stato. Un’altra forma di Stato multinazionale è lo Stato federale, nel quale il territorio è organizzato in unità federate (regioni, singoli Stati, province o cantoni) che possono esercitare un controllo più o meno forte sulle politiche e sulle spese del governo centrale, esercitando i poteri nei limiti previsti dalla Costituzione federale. Conferendo il controllo su certe politiche (in particolare su quelle attinenti alla cultura) ad entità più piccole il governo riesce a garantire l’unità dello Stato federale. Il federalismo accoglie gli interessi regionali conferendo poteri primari alle province, agli Stati o ad altre unità regionali su tutte le materie tranne quelle assegnate esplicitamente al governo centrale. Il geografo australiano Robinson ritiene che una federazione sia il sistema politico più geograficamente espressivo, perché basato sull’esistenza e sull’accoglimento delle differenze regionali, anche se non sempre in tal modo si risolvono le problematiche multinazionalistiche. La devolution è il trasferimento di alcuni poteri e competenze dal governo centrale ai governi locali. Pur essendoci attualmente una tendenza all’aumento delle richieste di autonomia, essa non alimenta necessariamente un incremento delle richieste d’indipendenza. Il decentramento trae origine da motivazioni etnoculturali, economiche e territoriali spesso combinate fra loro. Molti dei movimenti decentratori europei si sono originati da Nazioni che all’interno di uno Stato si definiscono distinte per etnia, lingua o religione. La geografia dell’Europa orientale è cambiata drasticamente negli ultimi vent’anni con la divisione della Cecoslovacchia e della Jugoslavia. Le spinte verso il decentramento si stanno intensificando in Stati che apparivano stabili (ad es. la Cina con i movimenti separatisti tibetano e uighuro). Le motivazioni economiche hanno un considerevole ruolo in Spagna (insieme a quelle etnoculturali, in Catalogna), Francia e Italia. In Italia, le richieste di autonomia per la Sardegna sono profondamente radicate nelle condizioni economiche dell’isola, che accusa il governo centrale di trascurarla. Anche l’Italia peninsulare deve affrontare intense forze devolutive, anche radicate nel divario economico e sociale fra il Nord, strettamente

connesso al Centro Europa, e il Sud, appartenente alla periferia europea. Le spinte verso la secessione hanno almeno una caratteristica in comune: spesso avvengono ai margini degli Stati. Distanza, lontananza e ubicazione marginale contribuiscono alla formazione delle aspirazioni al decentramento. Molte confinano con vicini che possono sostenere gli obiettivi separatisti. Le aspirazioni separatiste riguardano molte isole, alcune delle quali nel tempo sono divenute Stati indipendenti. Il geografo politico statunitense Cohen ha teorizzato che le entità politiche situate in zone di confine possano divenire “Stati ponte” (gateway), assorbendo e assimilando culture e tradizioni diverse ed emergendo come nuove entità, non dominate dall’una o dall’altra potenza (es. le isole Hawaii). Le influenze territoriali possono svolgere un ruolo importante nell’avvio e nel mantenimento dei processi di decentramento e secessione. La distanza chilometrica può essere accresciuta da differenze nella geografia fisica: essere isolati in una valle o separati da una catena montuosa o da un fiume può alimentare un sentimento di lontananza. I territori degli Stati sono separati da confini internazionali, variamente tracciati da linee rette o serpeggianti, per seguire l’andamento di rilievi, fiumi o valli. Il confine fra Stati è un piano verticale che taglia suolo, sottosuolo e spazio aereo dividendone il territorio. Molti confini sono stati definiti prima che si conoscesse l’estensione o l’importanza delle risorse del sottosuolo, che possono anche estendersi oltre i confini di uno Stato. Lo spazio aereo di uno Stato è definito come la porzione dell’atmosfera che sovrasta il suo territorio e si estende verticalmente fino a una quota da determinare. La creazione del confine fra due Stati implica quattro stadi: 1.definizione del confine attraverso un atto giuridico nel quale si definiscono punti nel paesaggio (per esempio linee di cresta di una montagna, fiumi o strade) o punti di latitudine e longitudine; 2. delimitazione cartografica del confine; 3. (se gli Stati lo desiderano) demarcazione del confine mediante recinzioni, muri, pilastri o altri mezzi visibili; 4. amministrazione del confine: determinazione della procedura atta a mantenere il confine e a regolare i flussi di persone e merci. In tempi diversi geografi politici e altri studiosi hanno auspicato l’adozione di confini naturali al posto di quelli geometrici, in quanto visibili sul paesaggio come elementi geografici fisici. I confini fisico-politici seguono un elemento concordato del paesaggio, quale la linea mediana di un fiume (ad es. il Rio grande fra Stati Uniti e Messico) o il crinale di una montagna (ad es. i Pirenei fra Spagna e Francia) o un lago (ad es. quattro dei cinque Grandi Laghi dell’America settentrionale costituiscono il confine fra Stati Uniti e Canada). La linea di costa rappresenta il relativo confine naturale di uno Stato rivierasco, il quale esercita la sua sovranità anche in corrispondenza delle acque territoriali, che gli accordi internazionali hanno stabilito avere un’estensione di dodici miglia dalla costa. Alle acque territoriali si aggiunge una zona contigua, ampia anch’essa dodici miglia, nella quale lo Stato ha diritto e potere di intervento negli ambiti di controllo doganale, movimenti migratori e misure sanitarie. Al di là della zona contigua si estende per altre 200 miglia (e se la piattaforma continentale è più estesa a volte anche di più) una zona economica esclusiva (ZEE), in cui allo Stato costiero si riconosce il diritto di esercitare in esclusiva la pesca ed ogni altra attività economica, come l’esplorazione e lo sfruttamento di risorse minerarie. per questo tipo di confini.

Inoltre i confini fisici non arrestano necessariamente il flusso di persone e merci, inducendo alcuni Stati a rafforzarli con ostacoli artificiali. La stabilità dei confini attiene più alle circostanze storiche e geografiche locali che alla natura del confine stesso. La storia è ricca di controversie di varia natura riguardanti la definizione dei confini: economiche, di prestigio, etniche (come l’imposizione di confini all’interno delle ex colonie africane a prescindere dalla diversità e composizione etnica della popolazione). 2. dispute di ubicazione: si incentrano sulla delimitazione e forse sulla demarcazione del confine. Non è in discussione la definizione bensì la sua interpretazione, a causa di terminologia generica o mancanza di precisione nei trattati confinari (ad es. confini interni non ben delimitati di territori successivamente divenuti Stati); 3. dispute di gestione: coinvolgono Paesi che non sono d’accordo sulla gestione del loro confine (ad es. nel caso della migrazione); 4. dispute di ripartizione (o allocazione): riguardano l’impiego delle risorse e la loro divisione (ad es. del gas naturale fra Paesi Bassi e Germania o del petrolio fra Iraq e Kuwait). Oggi molte di queste dispute interessano confini marittimi internazionali a causa dei giacimenti petroliferi sottomarini e approvvigionamenti idrici. Nonostante i conflitti fra Stati, oggi non esiste pressoché alcun Paese che non faccia parte di qualche organizzazione sovranazionale, entità costituita da tre o più Stati che formano una struttura amministrativa per il mutuo vantaggio e il perseguimento di obiettivi comuni. Nel ventesimo secolo si sono formate numerose associazioni di tipo politico, economico, culturale e militare. Dopo la Prima guerra mondiale si ebbe la costituzione delle prime organizzazioni sovranazionali. Oggi esistono oltre 60 organizzazioni sovranazionali (come NATO, North Atlantic Treaty Organization, e NAFTA, North American Free Trade Agreement), molte delle quali hanno organi sussidiari che portano il totale a più di 100. Dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1945 gli Stati formarono una nuova organizzazione per incoraggiare la sicurezza internazionale e la cooperazione: l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite, in inglese United Nations, UN). Con l’ammissione del Montenegro nel 2006 il numero dei Paesi membri è giunto a quota 192. In linea di principio solo gli Stati sovrani possono diventare membri dell’ONU (anche se alcuni non erano pienamente sovrani all’epoca del loro ingresso). L’ONU ha come fine la collaborazione internazionale in materia di diritto, sicurezza, sviluppo economico, progresso sociale, diritti umani e perseguimento della pace. L’ONU comprende numerosi organi sussidiari, quali la FAO (Food and agriculture organization), l’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) e l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità, in inglese WHO, World Health Organization). Gli Stati membri delle Nazioni Unite s’impegnano a rispettare i modelli di comportamento approvato. Le violazioni possono causare un’azione collettiva (sanzioni economiche o intervento militare autorizzato dal Consiglio di sicurezza). Gli Stati creano organizzazioni sovranazionali per rafforzare la propria posizione economica, politica e persino militare. Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, Paesi con molte caratteristiche culturali ed economiche comuni, intrapresero il primo importante esperimento di cooperazione economica regionale istituendo l’unione economica denominata Benelux: gli accordi prevedevano il libero movimento di lavoratori, capitali, merci e servizi nella regione. Dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1947 il Segretario di Stato degli Stati Uniti Marshall, decise di finanziare un piano di aiuti economici per l’Europa, il Piano Marshall, che portò all’Europa occidentale circa 12 miliardi di dollari, risollevandone le economie nazionali e stimolando la nascita della cooperazione fra

Stati. Gli Stati destinatari di tali aiuti nel 1948 istituirono l’Organizzazione europea per la Cooperazione economica (OECE), sostituita nel 1961 dall’OCSE, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, un accordo fra 30 Paesi che accettano i principi della democrazia rappresentativa e del libero mercato. Nel 1958 entrò in vigore il trattato di Roma che istituiva la CEE (Comunità economica europea), alla quale inizialmente aderivano Belgio, Francia, Germania occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi bassi. Alla fine degli anni Ottanta la CEE comprendeva: Germania occidentale, Francia, Gran Bretagna, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Danimarca e Irlanda. Il passo successivo, a seguito del programma di cooperazione posto in essere da questi dodici Paesi, fu l’istituzione dell’Unione Europea (UE) con il trattato di Maastricht firmato nel 1992 ed entrato in vigore nel 1993. Il Consiglio Europeo, organo di supervisione formato dai capi di Stato e di governo dei Paesi aderenti, decise l’entrata in vigore della moneta unica euro dal 1° gennaio 2002. Nel 2004 entrano a far parte dell’UE dieci nuovi Stati dell’Europa orientale e mediterranea, nel 2007 altri due (Bulgaria e Romania), mentre per Croazia, Macedonia e Turchia sono in corso i negoziati di adesione e Islanda, Albania e Montenegro hanno presentato domanda. L’integrazione è un processo complesso nel quale occorre contemperare gli interessi e i contrasti regionali con l’attuazione delle norme comunitarie. L’U.E. è un mosaico di Stati con differenti tradizioni, etnie e storie di conflitto. Di fronte a situazioni economiche o sociali difficili possono riacuirsi tensioni. L’ampliamento dell’U.E. rende sempre più difficile per i singoli Stati esercitare un’influenza rilevante e genera il timore che i loro interessi siano soffocati. L’integrazione è inoltre un processo costoso perché i Paesi ricchi devono sovvenzionare quelli più poveri e l’ingresso degli Stati europei orientali aumenta l’onere finanziario che grava sui Paesi occidentali e settentrionali. L’U.E. è un’organizzazione sovranazionale differente da qualsiasi altra. Ha una struttura organizzativa sfaccettata, tre capitali (Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo), gestisce miliardi di euro. Si occupa di relazioni estere, politiche interne e militari. In conclusione, gli Stati continuano ad essere la base territoriale per i produttori e i consumatori, ma la struttura internazionale dell’economia rende sempre più difficile controllare le relazioni economiche. I confini degli Stati sono sempre più erosi dalla diffusione internazionale delle informazioni e la diffusione planetaria di merci e informazioni ha prodotto geografie economiche, sociali e culturali che soverchiano sempre la struttura degli Stati. Al tempo stesso il nazionalismo continua ad essere una forza sociale fondamentale. Geografia elettorale La suddivisione del territorio statale in circoscrizioni (dette anche collegi o distretti) elettorali rappresenta una componente chiave della geografia politica di uno Stato. Gli esperti di geografia elettorale si occupano di come la configurazione delle circoscrizioni elettorali rispecchi e influenzi gli affari sociali e politici. Ogni Paese utilizza differenti sistemi elettorali. Lo studio geografico del comportamento elettorale è particolarmente interessante perché mostra come il voto possa essere influenzato dalla posizione dell’elettore nel territorio. I geografi politici studiano l’affiliazione alle chiese, il livello di reddito, l’etnia, il livello d’istruzione e numerosi altri fattori sociali ed economici per comprendere le motivazioni di scelta del voto. E’ alla scala locale che avviene il contatto più diretto e importante di un elettore con il proprio governo.

Geografia urbana Le comunità umane esistono da più di 100.000 anni, ma trascorsero più di 90.000 anni prima che gli individui iniziassero ad aggregarsi in città. Le tracce archeologiche indicano che gli esseri umani crearono le prime città circa 6000 anni fa, tuttavia solo negli ultimi due secoli le città hanno assunto una dimensione e una struttura simili a quelle attuali. Prima di essere in grado di vivere in città, gli esseri umani dovettero compiere la transizione dalla caccia e dalla raccolta all’agricoltura. Solo allora, fra 10.000 e 12.000 anni fa, divenendo una popolazione più sedentaria, si aggregarono in villaggi agricoli di limitata estensione vivendovi per tutto l’anno in uno stato di sussistenza. Erano società di natura egualitaria, dove le abitazioni avevano approssimativamente la stessa dimensione e contenevano lo stesso numero di beni. Si ritiene che queste caratteristiche fossero tipiche delle società sviluppatesi dove ebbe origine l’agricoltura, la regione dell’Asia sudoccidentale nota come Mezzaluna fertile. Quando iniziarono a crearsi le città iniziarono a emergere le differenze: gli individui generavano ricchezza materiale personale, effettuavano scambi commerciali anche a grandi distanze, intraprendevano altre attività economiche. Vi era inoltre una stratificazione sociale (con differenti strutture delle abitazioni). Il processo di formazione delle città è legato alla formazione di un surplus agricolo e alla stratificazione sociale. La classe dirigente era costituita da un gruppo di capi e organizzatori che controllava le risorse, e spesso anche la vita, degli altri cittadini; aveva il controllo degli alimenti, dalla loro produzione all’immagazzinamento alla distribuzione e riscuoteva le imposte anche dalla popolazione che viveva fuori dalle mura difensive della città. Non tutte le città si svilupparono da villaggi agricoli. L’innovazione della città, detta prima rivoluzione urbana, avvenne in cinque nuclei separati, strettamente legati alle aree di origine dell’agricoltura: la Mesopotamia, la valle del Nilo, la valle dell’Indo, la confluenza del Fiume Giallo e del Fiume Azzurro, nell’attuale Repubblica Popolare Cinese, la Mesoamerica. La prima area, la Mezzaluna fertile, è il territorio in cui comparvero le prime città, approssimativamente nel 3500 a.C. Questo polo di urbanizzazione è la Mesopotamia, la regione di grandi città quali Ur e Babilonia (o Babele), situate fra Tigri ed Eufrate. Il secondo nucleo di urbanizzazione, risalente al 3200 a.C., è la Valle del Nilo. Secondo alcuni studiosi questa regione non è un centro di urbanizzazione autonomo, bensì un caso di diffusione dalla Mesopotamia. Il terzo nucleo di urbanizzazione, risalente al 2200 a.C. è la valle dell’Indo, un’altra regione nella quale, verosimilmente, l’agricoltura si diffuse dalla Mezzaluna fertile. Il quarto centro di urbanizzazione, risalente al 1500 a.C., sorse intorno alla confluenza del Fiume Giallo e del Fiume Azzurro, nell’attuale Repubblica Popolare Cinese. Il quinto nucleo di urbanizzazione, risalente al 200 a.C., è la Mesoamerica. Le antiche città non erano solo centri di religione e potere ma anche nodi economici. Erano i principali mercati e le basi in cui operavano ricchi mercanti, proprietari terrieri e commercianti; centri educativi nei quali erano attivi insegnanti e filosofi; vi si svolgevano lavori artigianali. In base agli attuali criteri, le città antiche non erano grandi. In Mesopotamia e nella valle del Nilo, dopo circa 2000 anni di crescita e sviluppo, probabilmente il numero di abitanti era compreso tra 10.000 e 15.000. La società era quasi totalmente rurale, le strutture urbane erano molto rare. Ai nostri giorni la popolazione totale è in prevalenza urbana, complessivamente vivono più persone nelle città grandi e piccole che nelle aree rurali. Si usa il termine urbano per indicare il centro urbano e l’area suburbana. La migrazione dalle aree rurali a quelle urbane rispecchia il cambiamento dell’economia e la crescente facilità di movimento. Pressoché ovunque gli abitanti delle aree rurali si stanno trasferendo in quelle urbane, alle città piccole e grandi e ai

sobborghi. Nella nostra epoca l’urbanizzazione può avvenire molto velocemente. L’urbanizzazione sta avvenendo ovunque, ma la sua distribuzione non è uniforme. In Europa occidentale, Stati Uniti, Canada e Giappone quattro persone su cinque vivono in città, grandi o piccole; in India e in Cina questo rapporto è più vicino a quattro su dieci. La seconda rivoluzione urbana ebbe inizio nel diciottesimo secolo con la Rivoluzione industriale in Gran Bretagna. Nella seconda metà del diciassettesimo secolo e nel corso del diciottesimo secolo le migliorie apportate alle tecniche agricole e di allevamento permisero l’affrancamento di numerosi contadini dal lavoro nei campi, con la conseguente migrazione nelle città, dove gli imprenditori attinsero a tale forza lavoro per le industrie. Gli insediamenti dovettero adattarsi alla popolazione in rapida crescita, alla proliferazione delle fabbriche e degli impianti di distribuzione, all’espansione dei sistemi di trasporto e alla costruzione di alloggi. Non tutte le città mercantili divennero industriali, molte si svilupparono da piccoli villaggi o lungo fiumi e canali artificiali navigabili. Importante fattore di localizzazione era la vicinanza ad una fonte di energia. Gli studi quantitativi di geografia urbana presentano spesso tre componenti chiave: popolazione area di mercato distanza Osservando una carta geografica si possono notare agglomerati urbani di dimensioni diverse e con aree di mercato di differente estensione. Aree commerciali e popolazione si combinano in una gerarchia comunemente definita dalla legge rangodimensione. Secondo la legge rango-dimensione, in un modello di gerarchia urbana, il numero degli abitanti di una città è inversamente proporzionale al suo rango nella gerarchia. La regola rango-dimensione non è valida per tutti i Paesi: non si applica a quelli che abbiano un’unica città (detta città primate) strutturalmente ben più grande e funzionalmente molto più complessa di ogni altra. Christaller elaborò la teoria delle località centrali per prevedere come e dove si potrebbero distribuire funzionalmente e spazialmente l’una rispetto all’altra le località centrali nella gerarchia urbana. Individuò alcuni assunti in un paesaggio economico semplificato, relativi al territorio e alla popolazione in esso presente: il territorio è una pianura senza confini non ci sono barriere fisiche né altri ostacoli al movimento è omogeneo da tutti i punti di vista la popolazione è distribuita in modo uniforme dispone dello stesso reddito ha la stessa propensione al consumo ha una perfetta conoscenza del mercato si comporta in modo assolutamente razionale vi è un unico sistema di trasporti il movimento è possibile in tutte le direzioni L’unico ostacolo al movimento è la distanza Christaller studiò la vendita di beni e servizi, calcolando la distanza che gli individui sarebbero disposti a compiere per acquistarli.

Furono elaborati i concetti di soglia e portata, applicati alle aree di mercato delle località centrali: soglia: livello minimo di domanda necessario per garantire la copertura dei costi di produzione e di un profitto portata: massima espansione spaziale delle vendite Una località centrale è una località in grado di offrire una vasta gamma di beni e servizi ad una popolazione dispersa intorno ad essa, oltre che ovviamente a quella in essa esistente. Ogni località centrale ha una regione complementare circostante, un’area di mercato esclusiva nella quale la città ha il monopolio sulla vendita di certi beni e servizi, essendo l’unica in grado di fornirli ad un dato prezzo ed entro una data distanza. Christaller calcolò il sistema ideale di località centrali e confrontò questo modello con situazioni reali, tentando di spiegare variazioni ed eccezioni. Nella gerarchia urbana le località centrali, di rango diverso, sarebbero articolate l’una dentro l’altra, quindi la località centrale più grande fornisce il massimo numero di funzioni alla maggior parte della regione. All’interno dell’area di mercato della località centrale più grande, una serie di piccoli centri minori fornirebbe funzioni a parecchie località più piccole. In base a questa teoria ci si attenderebbe un’area di mercato di forma circolare; i cerchi tuttavia devono sovrapporsi parzialmente o escludere dal servizio certe aree. Per questo Christaller diede forma esagonale alle regioni che costituivano le aree di mercato. Nelle città si trovano spazi definiti per funzioni definite. Molti geografi urbani definiscono zonizzazione funzionale la divisione di una città in zone, omogenee e specializzate, per certi scopi e funzioni (ad es. zona industriale e zona residenziale). La maggior parte dei modelli designa la zona economica chiave della città (nel caso in cui esista) come centro finanziario e commerciale (central business district, CBD). Il CBD è una concentrazione di funzioni commerciali e direzionali. L’espressione centro cittadino (central city) designa l’area urbana non periferica: indica solitamente la parte più antica della città o la sua parte originale, contrapposta ai sobborghi più recenti. Il sobborgo (suburb) è una parte esterna, funzionalmente uniforme, di un’area urbana ed è spesso (ma non sempre) adiacente al centro cittadino. La maggior parte dei sobborghi è residenziale, ma alcuni hanno differenti usi del suolo (scuole, centri commerciali e uffici). La suburbanizzazione è il processo di urbanizzazione delle aree originariamente esterne all’ambiente urbano; si verifica quando individui e attività economiche migrano dalla città. Il geografo urbano statunitense Muller sostiene che il sobborgo sia divenuto un’entità urbana autosufficiente che contiene le proprie attività economiche e culturali. Molte delle città più popolose si trovano nelle regioni più povere, per es. San Paolo (Brasile), Città del Messico (Messico) e Delhi (India). Nella periferia del Pianeta le persone continuano a migrare nelle città, spesso incalzate da fattori di attrazione più immaginari che reali. Alla periferia delle città si sviluppano continuamente enormi baraccopoli in cui le abitazioni sono costruite con materiale di scarto, lamiere e cartoni. Le città ubicate nelle regioni più povere sono generalmente prive di leggi di zonizzazione, in assenza delle quali le città hanno un uso misto del suolo. Per quanto riguarda il centro del Pianeta, vi sono spesso piani adottati dai governi delle città per rivitalizzare i centri cittadini, a volte abbandonati dai residenti a favore dei sobborghi Con il fenomeno della gentrification si ha uno spostamento della classe media che occupa valorizzandole le costruzioni del centro città dove precedentemente vi era stato un abbandono da parte dei residenti. Con l’aumento della popolazione, in alcune regioni degli Stati Uniti le aree urbane hanno subito uno sprawl urbano (dispersione, o scompostezza, urbana). Nel mondo “globalizzato” molti dei processi più importanti si svolgono entro e tra città, non entro o tra

interi Stati. Alcuni definiscono world cities le città che, essendo centri di servizi economici, estendono la propria influenza oltre i confini degli Stati. La world city è un nodo della cosiddetta globalizzazione, un luogo attraverso il quale passano le relazioni internazionali. Quasi tutti concordano nel ritenere New York, Londra e Tokyo le più importanti. Alcuni geografi hanno individuato una scala gerarchica ai cui vertici ci sono dieci città alfa, dieci beta e 35 gamma. Le città alfa hanno la capacità di fornire servizi nell’economia planetaria; ovviamente non hanno solo un ruolo internazionale, le principali (Londra e Parigi) sono anche capitali. TREMITI L’arcipelago delle Isole Tremiti ubicato a nord del promontorio garganico dista 24 miglia (pari a 44 km circa) dal centro molisano di Termoli, 12,5 miglia (23 km) dal punto più vicino del Gargano (Torre Mileto), 21 miglia (39 km) da Rodi Garganico e 65 (120km) da Manfredonia. Le Isole Tremiti vennero costituite in comune autonomo nel 1932. L’arcipelago comprende le isole di San Domino, San Nicola, Capraia, Pianosa ed un isolotto denominato Cretaccio, per una estensione totale di 3,34 kmq. L’isola più grande, San Domino, vero centro turistico delle Tremiti, presenta una superficie di 2,08 kmq, con uno sviluppo costiero, irregolare e ricco di insenature, di 9,7 km, ed un’altezza massima di 116 metri, che ne fa anche l’isola più alta dell’arcipelago. Il lato di ponente è a picco sul mare, così anche quello nord-orientale, mentre sugli altri versanti l’isola degrada, più o meno dolcemente, verso il mare. Di fronte a San Domino, in direzione NE, a soli 450 m di distanza, si erge l’isola di San Nicola, centro storico per eccellenza dell’arcipelago. Ad eccezione del piccolo molo al quale attraccano i mezzi adibiti al trasporto merce e passeggeri, l’isola si presenta a picco sul mare, con un’altezza massima di 75 metri, uno sviluppo costiero di 3,7 km ed una forma allungata che realizza una superficie di 0,41 kmq. A 200 metri dall’isola di San Domino si trova l’isolotto del Cretaccio, il cui nome deriva dall’aspetto particolare di questo grande scoglio dalla forma accidentata, soggetto all’erosione e al dilavamento per opera del mare e degli agenti atmosferici, a causa della composizione argillosa che esso presenta. Ha un’estensione di 0,30 kmq, con uno sviluppo costiero di 1,3 km ed un’altezza massima di 30 metri s.l.m. L’isola più distante dalle altre, e soprattutto da San Domino, è quella denominata Capraia o Caprara per l’abbondanza delle piante di capperi. La punta più vicina dell’isola dista 1,5 km dal porticciolo di San Domino, quella più distante, all’estremo est dell’arcipelago, è situata a 3 km dal porto stesso, dal quale a volte rimane isolata per via delle cattive condizioni del mare. L’isola di Capraia, disabitata come quella del Cretaccio, è la seconda per estensione (0,44 kmq), con uno sviluppo costiero di 4,7 km ed un’altezza massima di 53 metri. Presenta una costa molto frastagliata, con numerose piccole insenature sul lato sud e coste alte e rocciose sul versante nord, che guarda al mare aperto. A NE di questo piccolo arcipelago tremitese c’è una quinta isola, che ne fa parte amministrativamente (pur distando da Capraia ben 20,5 kmq), con una superficie di appena 0,11 kmq, uno sviluppo costiero di 1,7 km e un’altezza massima di soli 10 metri s.l.m.: Pianosa. E’ un’isola di difficile accesso, per la lontananza e la mancanza di collegamenti con il resto dell’arcipelago, ma anche perché area con il maggior vincolo di protezione nell’ambito della Riserva Marina delle Isole Tremiti, istituita nel 1989. Pianosa è l’ultimo avamposto territoriale italiano nell’Adriatico, al di là del quale, come prima isola non italiana, vi è Pelagosa, che dista da Pianosa 25 miglia.

Isole Tremiti (Fg) Pianosa Un’ipotesi è che l’attuale arcipelago sia derivato dalla frammentazione di un’unica superficie, adducendo a testimonianza di ciò la relativa scarsa profondità che presentano i tratti di mare tra le isole. Le Tremiti presentano due tipi di forme costiere: costa rettilinea a balza costa a declivio con numerose insenature. Il primo tipo si riscontra sul versante SW dell’isola di San Domino, con una parete di roccia alta ottanta metri circa, sovrastante la grotta del Bue Marino e nelle vicinanze del Faro Militare. Anche sul tratto nordorientale dell’isola troviamo alti strapiombi che impediscono l’accesso via mare a questi punti della costa. L’isola di San Nicola, con la sola eccezione del piccolo tratto di approdo, è a picco sul mare, con dirupi anche di sessanta metri ed un andamento lineare che non lascia spazio alla formazione di insenature o grotte. A Capraia, infine, la costa rettilinea a balza si riscontra in tutto il versante a mare aperto dell’isola e cioè sul lato nord ed in parte anche su quello occidentale. La costa in declivio è invece presente nelle altre zone dell’arcipelago. Esiste a San Domino un’unica spiaggia sabbiosa, lunga appena una cinquantina di metri. Depositi ghiaiosi sono invece quelli della Cala Sorrentino a Capraia e di Cala Matano e dei Pagliai a San Domino. Le principali notizie sulle Isole Tremiti, con riferimento all’antichità classica, si devono a Strabone (geografo greco del I sec.), che nel riferirsi alle isole le indica con il termine Diomedee, in relazione al mito dell’eroe greco Diomede (che visse nell’arcipelago i suoi ultimi giorni) la cui scomparsa convinse la dea Minerva a tramutare i compagni di viaggio in uccelli dal verso somigliante al pianto di un neonato (le diomedee, appunto), per piangere la perdita dell’eroe. Con questo nome le isole saranno citate anche da Tolomeo e Plinio, mentre Tacito utilizzerà per la prima volta la denominazione Trimerum nei suoi Annales, probabilmente in relazione ai terremoti che le avrebbero sconvolte secoli addietro. Un canonico lateranense vissuto alle Tremiti nel XVI secolo, Cochorella, in un suo scritto del 1508 suggerisce che il cambiamento di denominazione delle isole da Diomedee in Tremiti sia da attribuirsi all’aspetto dell’arcipelago. Questo sembra infatti suddiviso in tre monti separati l’uno dall’altro da un braccio di mare lungo circa quattrocentocinquanta metri. Nelle carte nautiche medioevali si legge il nome Tremiti fin dal secolo XIII. La continuità della permanenza dell’uomo nell’arcipelago tremitese è documentata dalla preistoria, ma un discorso organico sulla storia dell’arcipelago può essere affrontato solo assumendo come punto di partenza il quattrocento a.C., e precisamente il periodo relativo alla scoperta delle Tremiti da parte dell’eroe greco Diomede. Sono diverse le fonti che narrano le vicissitudini del guerriero e dei suoi compagni, tutti reduci dalla guerra di Troia, i quali, avventuratisi nel mare Adriatico e approdati alle isole (che peraltro erano già nell’orbita commerciale dei navigatori elleni) ne faranno la base per i loro spostamenti sulla vicina costa garganica, fino a che lo stesso Diomede non sceglierà di tornarvi in punto di morte. Narra Cochorella che nel 311 d.C. un eremita, guidato da un’apparizione della Vergine Maria, abbia identificato il luogo di sepoltura di Diomede e vi abbia trovato il tesoro grazie al quale avrebbe poi edificato sull’isola di San Nicola un santuario, la cui fama si propagò fino al continente, attirando così nelle isole numerosi fedeli, che portavano in dono beni di grande valore e persino interi possedimenti nelle vicine province pugliesi e abruzzesi. Ciò permise all’arcipelago di diventare, nel corso dei secoli, un grandissimo centro religioso, che vivrà periodi di grande attività e splendore nei secoli XI e XV. Affiancata alla fama che ebbero le Tremiti per le loro grandi potenzialità religiose, le isole nei primi secoli d.C. affrontarono anche una realtà molto meno felice, di luogo di deportazione.

Alle Tremiti furono infatti deportati i rei delle province tirreniche e liguri. Vi venne anche esiliata la nipote dell’imperatore Augusto, Giulia, colpevole di adulterio, la quale visse nell’arcipelago fino alla sua morte. Tra alcune tombe ad inumazione dell’antichità classica scavate nella roccia calcarea del pianoro di San Nicola, si suole indicare quella di Giulia, ma non vi sono prove concrete di tale attribuzione. Con la decadenza dell’impero le Tremiti diventarono covo di pirati (cosa peraltro già successa dopo la morte di Diomede), che si servivano di esse come base per assalire i naviganti. Con il passar degli anni la loro funzione di luogo di confino tornò a prevalere, tanto che nel 768 vi fu relegato Paolo Diacono, consigliere di Desiderio e di Carlo Magno. Le Isole Tremiti sono state per sei secoli il convento fortezza di almeno tre ordini di monaci guerrieri. I primi ad amministrarne la vita spirituale ed economica sono i monaci Benedettini, ai quali viene affidata nel 1006 la cura del santuario di Santa Maria di Tremiti, con lo scopo di permettere l’evangelizzazione di quanti venissero ad entrare in relazione con essi. Ai Benedettini si deve la fondazione dell’Abbazia, dapprima alle dipendenze di Montecassino, poi resa autonoma grazie alla potenza che vantava per merito di concessioni, privilegi e donazioni in numero e valore. Nell’arco di due secoli i Benedettini perdono i loro “connotati” religiosi per preferire la vita materiale e persino, sembra, l’alleanza con i pirati che a quell’epoca solcavano le acque limitrofe. Nel 1252 un editto papale decreta l’assegnazione dell’Abbazia alla cura dei Padri Cistercensi, che la reggono per un secolo circa riportandola all’antico splendore e provvedendo all’ampliamento e al consolidamento delle preesistenti fortificazioni di San Nicola, con un muraglione di cinta che circonda il monastero e la chiesa, ed alla costruzione di torri di avvistamento. Le Isole Tremiti all’epoca dei monaci Lateranensi Dopo appena un secolo dall’inizio del loro valido operato, l’ordine dei Cistercensi scompare dall’arcipelago, secondo una prima ipotesi per abbandono delle isole per timore dei continui assalti dei pirati slavi, secondo un’altra, più accreditata, a causa di un’incursione degli stessi pirati, i quali, riusciti con uno stratagemma a penetrare nella cinta muraria dell’isola, uccisero tutti i monaci, misero a ferro e fuoco l’Abbazia e la depredarono di ogni valore. L’eco delle gesta dei pirati è tale che, quando il pontefice Gregorio XII invita vari ordini religiosi a trasferirsi alle Tremiti per un’opera di ricostruzione materiale e spirituale, questi si rifiutano. Il 7 settembre 1412, inizialmente contro la sua volontà, l’ordine dei Canonici Lateranensi viene investito del possesso dell’Abbazia e fortezza delle Tremiti. Per le Tremiti inizia un nuovo periodo di splendore. I possedimenti che dopo l’eccidio dei Cistercensi erano stati sottratti alla giurisdizione dell’Abbazia, vengono abbondantemente compensati da quelli donati ai Lateranensi da fedeli, anche coronati. Viene donata loro anche la proprietà dell’isola di San Domino (detenuta sino ad allora da un eremita) e con essa i frutteti, gli oliveti e le piantagioni che l’isola offriva. Oltre che alla vita religiosa, i monaci si dedicano alla coltivazione dei campi, alla restaurazione dell’Abbazia, del forte e delle cisterne di acqua piovana. Costruiscono anche imponenti opere murarie che rendono l’isola un baluardo inattaccabile da parte di quei pirati che tanto già avevano sconvolto la storia del monastero. Riescono così ad opporre vittoriosa resistenza persino all’attacco sferrato nel 1567 dai Turchi di Solimano I. L’Abbazia torna a primeggiare, esercitando anche una forte influenza sull’economia dei territori molisani e garganici. Ma questa situazione non dura a lungo. Gli intensi sacrifici effettuati per difendere l’isola, le spese necessarie a salvaguardare l’efficienza delle opere e della guarnigione (300 soldati) di presidio alla fortezza, le spese di culto intaccano duramente il patrimonio del monastero. L’ovvia conseguenza è una crisi economica che sfocia in controversie anche di ordine politico. L’Abbazia

resiste ad altre incursioni dei Turchi ma, stremata nelle forze, percorre la strada di un rapido declino che sfocia nella cessazione di fatto, nel 1676, del governo dei canonici Lateranensi. Nel 1737 Carlo III dichiara le isole di dominio reale, nel 1780 Ferdinando IV di Borbone ordina la soppressione dell’Abbazia e l’incameramento dei relativi beni al demanio regio. Nel 1792 le Isole Tremiti diventano colonia penale, pur conservando un certo loro ruolo militare, tanto da riuscire ad opporre resistenza all’assedio della flotta anglo-russa per ben sei mesi. Agli inizi del 1900 viene relegato nell’arcipelago un gruppo di anarchici, nel 1911 è la volta dei prigionieri della guerra libica, presto decimati da un’epidemia. Dopo la prima guerra mondiale le isole divengono confino di polizia per detenuti comuni, successivamente per quelli politici, accusati di opposizione al regime fascista. Al 1943 risale la decisione di liberare tutti i confinati trattenuti nelle isole. Nel 1946 il Ministero dell’Interno deciderà di rinunciare definitivamente al ripristino della colonia di confino. “San Domino e San Nicola sono ormai due isole morte e il contrasto con il movimento che vi regnava quando assolvevano il ruolo di confino è impressionante” (Mantovani, 1976). Anche i collegamenti con il continente subiscono una brusca rarefazione e l’unica risorsa rimane la pesca. Occorrerà aspettare più di dieci anni perché i primi turisti inizino a scrivere un nuovo capitolo per l’arcipelago.

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