Maggioni, Bruno - Ecco Io Sono Con Voi. Anno A

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JOHN CARLOS SILVA GONZALEZ - [email protected] - 24/01/2014

SHEMà Ascolto e Annuncio

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BRUNO  MAGGIONI

Ecco, io sono con voi... Meditazioni sulle letture dell’anno A

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ISBN 978-88-250-3645-9 ISBN 978-88-250-3687-9 (PDF) ISBN 978-88-250-3688-6 (EPUB) Copyright © 2013 by P.P.F.M.C.

MESSAGGERO DI SANT’ANTONIO – EDITRICE Basilica del Santo - Via Orto Botanico, 11 - 35123 Padova

www.edizionimessaggero.it

Prima edizione digitale 2013

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TEMPO DI AVVENTO

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Introduzione al tempo di avvento

Nelle letture bibliche delle domeniche di avvento si sovrappongono due attese: i profeti che attendono il tempo messianico (prima lettura) e i discepoli di Gesù che attendono il ritorno glorioso del loro Signore (Vangelo). I cristiani sanno che il messia è già venuto e che il mondo nuovo è già iniziato, tuttavia vivono ancora nell’attesa: attendono che il seme del regno di Dio diventi un grande albero e che la vittoria del Signore si manifesti in tutta la sua pienezza. «Signore, affretta la venuta del tuo regno», era una delle preghiere più frequenti dei primi cristiani. E così i profeti restano ancora attuali e le loro visioni hanno ancora molto da dirci. È questo il motivo che ci autorizza a commentare la prima lettura (solitamente, ma a torto, trascurata), senza per questo dimenticare che il Vangelo deve in ogni caso restare un punto di riferimento. Siamo infatti uomini del Nuovo Testamento, non dell’Antico, e non possiamo più leggere i passi anticotestamentari nell’identica prospettiva in cui furono scritti: dobbiamo rileggerli in prospettiva cristiana. L’avvento è, infine, un itinerario che di domenica in domenica ci conduce a comprendere meglio il Natale, a comprendere più a fondo, e personalmente, il significato della venuta di Dio fra noi. La liturgia, per giungere a questo, ci aiuta a far nostre le attese dei profeti. Solo coloro che si abbandonano alla speranza sono in grado di capire l’importanza del Natale.

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Prima domenica di avvento

L’attesa del Cristo che è venuto e che verrà Is 2,1-5  ●  Rm 13,11-14a  ●  Mt 24,37-44

La liturgia dell’avvento si apre con una visione di speranza (cf. Is 2,1-5). È una visione coraggiosa, frutto di quella grande fede che soltanto i veri uomini di Dio hanno il dono di possedere. Il coraggio di affermare che un piccolo popolo senza importanza, com’era appunto il popolo d’Israele, sarebbe un giorno diventato il centro religioso e spirituale di tutti i popoli («Ad esso affluiranno tutte le genti», v. 2). Il coraggio di parlare di un mondo rinnovato (e non come semplice desiderio, ma come cosa sicura: «Ricevette in visione», v. 1) in uno dei periodi più tormentati della storia di Giuda e del Vicino Oriente quale era la seconda metà dell’VIII secolo a.C.: guerre, oppressione dei poveri, violenza, frodi e corruzione degli uomini di governo. Isaia sa benissimo che a una simile società Dio non può risparmiare dei castighi: è giusto che le idolatrie degli uomini crollino e la loro arroganza venga confusa. Ma Dio punisce per purificare e disperde per rinnovare. È questa la prima lezione che le parole del profeta ci offrono: il coraggio di sperare sempre e comunque. Vivere l’avvento, dunque, significa ringiovanire la nostra speranza. La visione del mondo rinnovato (in pace, fraterno e sottomesso al Signore) si conclude con un imperativo: «Venite, camminiamo nella luce del Signore» (v. 5). È un invito alla conversione, componente essenziale della speranza. E questa è la seconda lezione. Non basta la fiducia nel futuro per potersi dire uomini di speranza. La speranza è attenzione, impegno e rinnovamento. 8

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Sperare è gettare – qui e ora, nelle proprie concrete situazioni – le basi del mondo nuovo, cioè semi di pace, fratellanza e obbedienza al Signore. «Camminare nella luce del Signore» – espressione che nel Vangelo diventa «seguire Gesù» – è tutto questo. Senza dimenticare una precisazione importante suggerita dal Vangelo (cf. Mt 24,37-44): per non lasciarsi sorprendere impreparati dagli avvenimenti, per mantenere il coraggio e la lucidità in ogni situazione, per saper scoprire le occasioni di rinnovamento che anche nei momenti più oscuri non mancano mai – tutto questo è sperare – occorre essere sobri, non appesantiti, non distratti dalle troppe cose che a gran voce reclamano la nostra attenzione. Altrimenti può succedere come ai tempi di Noè: «Mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito […] e non si accorsero di nulla» (vv. 38-39). Come al tempo di Noè, gli uomini si preoccupano poco della questione fondamentale, e cioè della relazione con Dio, completamente immersi nelle preoccupazioni quotidiane. Vivono tranquilli, ignari del giudizio di Dio che non mancherà: perché al ritorno del Signore ci sarà, appunto, un «discernimento», salvezza per coloro che hanno vigilato e condanna per coloro che non si sono accorti di nulla (cf. vv. 40-41). «Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà», così dichiara Gesù nel Vangelo di Matteo (v. 43). Vigilare non significa, come nel mondo greco, svegliarsi per raccogliere tutte le proprie forze e per trovare in se stessi tutto il coraggio possibile; è invece svegliarsi per confidare in Dio e per aggrapparsi a lui. Vigilare non è un rientrare in se stessi ma un uscire da sé per abbandonarsi al Dio. Si comprende allora come la parola vigilanza non indichi direttamente qualcosa da fare, ma un modo di vivere e di guardare con concentrazione, senza lasciarsi distrarre.

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Seconda domenica di avvento

I tempi lunghi di Dio, la speranza del profeta e la conversione del cuore Is 11,1-10  ●  Rm 15,4-9  ●  Mt 3,1-12

La visione messianica di Isaia (cf. 11,1-10) è forse la più grandiosa di tutte. Il sogno del profeta coinvolge tutte le aspirazioni dell’uomo: la ricerca di Dio e la ricerca della giustizia, la pace fra noi e la pace con la natura; un mondo pieno della saggezza del Signore come le acque riempiono l’oceano. Eppure Isaia non è uno sprovveduto sognatore. È un uomo lucido e sensato, realistico, inquietante. Per accorgersene basta leggere alcune pagine del suo libro. Al profeta non sfuggono la gravità e la vastità della corruzione dilagante (nella politica, nei diversi settori della società, persino nell’apparato religioso): denuncia i grandi proprietari terrieri che aggiungono casa a casa e campo a campo; ironizza sui ricchi che nuotano nel lusso ma non hanno intelligenza né perspicacia e neppure si accorgono che il loro mondo sta andando in rovina; condanna la politica del governo che cerca sicurezza nelle alleanze e negli armamenti anziché nella parola del Signore. È proprio quest’uomo lucido e rigoroso, coi piedi per terra, che osa sognare un mondo totalmente rinnovato. Non, dunque, l’illusione di un sognatore ingenuo, ma il coraggio e la lungimiranza di un uomo di Dio. La chiesa vuole che andiamo incontro al Natale con l’animo carico delle attese dei profeti. Ma non è forse controproducente? I giudei, nutriti appunto dalle speranze profetiche, provarono delusione di fronte a Gesù. 10

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Non potrebbe accadere lo stesso anche a noi? Il messia è venuto e nulla sembra essere cambiato: ancora il peccato, ancora le guerre, ancora la corruzione e la violenza. Tutto è come al tempo di Isaia e anche il popolo di Dio continua a meritarsi gli stessi rimproveri di allora. Fra la visione del profeta e il Natale sembra dunque esserci un contrasto, ma è un contrasto positivo e istruttivo, un passo in avanti nella stessa speranza. Ingenuamente ci attendiamo un Dio che compia gesti sorprendenti, drastici e immediatamente risolutori. Il Natale ci insegna invece che la via di Dio è completamente diversa: è la via del seme, la via della conversione perseguita senza ricorrere né alla violenza né all’impazienza. La via di Dio non salta i tempi della storia, e soprattutto non strappa l’uomo alle sue responsabilità e alla sua libertà. Gesù non ha smentito in alcun modo le attese dei profeti: al contrario le ha fatte sue, sottolineandole e ingrandendole, insegnandoci però nel contempo che lui ha posto il fondamento e ha tracciato la strada ma sta a noi, popolo di Dio, assumercene il carico. Nella prospettiva profetica si inserisce la scena evangelica che ritrae la missione di Giovanni Battista. Il suo compito è di «preparare la via al Signore» annunciandone la venuta imminente. Si presenta come un asceta del deserto, con indosso ruvide vesti e una cintura di pelle attorno ai fianchi; ma non invita gli uomini a divenire asceti come lui. Preparare la strada al Signore è altra cosa. Ecco come il Battista la esprime: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino […]. Non crediate di poter dire fra voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli di Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato» (vv. 2.9-10). Dunque, sono soprattutto due le cose che Giovanni ritiene urgenti: convertirsi e non cullarsi in una illusoria sicurezza. Convertirsi è una parola che indica un mutamento della mente e del 11

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comportamento; non soltanto un cambiamento morale, ma teologico, cioè un modo nuovo di pensare Dio. Le caratteristiche che accompagnano sempre la conversione evangelica sono almeno tre. La prima è la radicalità. La conversione non è un cambiamento esteriore o parziale, ma un riorientamento di tutto l’essere dell’uomo. Per Gesù si tratta di un vero e proprio passaggio dall’egoismo all’amore, dalla difesa di sé al dono di sé; un passaggio talmente rinnovatore da essere incompatibile con le vecchie strutture (mentali, religiose e sociali), come il vino nuovo non si può porre nelle vecchie botti. Una seconda nota della conversione evangelica è la religiosità: non è confrontandosi con se stesso che l’uomo scopre la misura e la direzione del proprio mutamento, bensì riferendosi al progetto di Dio. E il primo movimento non è quello dell’uomo verso Dio, bensì quello di Dio verso l’uomo: è un movimento di grazia che rende possibile il cambiamento dell’uomo e ne offre il modello. La terza caratteristica è la profonda umanità della conversione evangelica: convertirsi significa tornare a casa, un recupero di umanità, un ritrovare la propria identità. Convertendosi l’uomo non si perde ma si ritrova, liberandosi dalle alienazioni che lo distruggono.

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Terza domenica di avvento

I segni di Dio che infondono coraggio Is 35,1-6a.8a-10  ●  Gc 5,7-10  ●  Mt 11,2-11

Nella visione del profeta ci sono parole al futuro, che vanno intese al contempo come una promessa e un progetto: i ciechi vedranno, le orecchie dei sordi si apriranno, il muto parlerà e lo zoppo salterà. È questo il mondo che Dio è pronto a donarci ma che tocca anche a noi costruire. Per Gesù questo progetto non appartiene solo al futuro, ma già è possibile nel presente, è già iniziato: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano» (Mt 11,4-5). Ci sono pure parole informative, che testimoniano un fatto, per parlare del quale non si deve ricorrere né al futuro né al condizionale: «Ecco il vostro Dio, […] Egli viene a salvarvi» (v. 4). Questa è la certezza che sta alla base di tutto e rende ragionevole e doveroso sperare. E ci sono degli imperativi: «Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti» (v. 3). Se Dio è con noi non c’è più posto per la paura né per la rassegnazione. C’è spazio soltanto per la ripresa, il coraggio e la gioia. Sì, anche la gioia: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa» (v. 1). Di qui tutta una serie di conclusioni fin troppo facili da ricavare. La situazione del profeta e la nostra si assomigliano: di fronte al dilagare della corruzione, della violenza, dell’ingiustizia (tutte cose che il profeta ben conosceva, e noi pure), al credente non è permesso 13

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lo scoraggiamento né la rassegnazione, tanto meno il disfattismo. Ciò non sarebbe coerente con la certezza del «Dio che viene a salvarci», la cui venuta, appunto, mantiene aperte tutte le possibilità positive: se Dio è tra noi nulla può mai dirsi definitivamente perduto. E poi c’è modo e modo di leggere – e valutare – le cose che succedono. I profeti sanno che molto spesso si tratta di un vero e proprio giudizio di Dio. Nulla di particolarmente clamoroso, non c’è bisogno che Dio intervenga a punire, più semplicemente, si raccoglie ciò che si è seminato: se si semina l’idolatria del denaro, o l’idolatria del successo, come puoi sorprenderti se poi raccogli corruzione, violenza e menzogna? Ecco perché – di fronte al male che viene allo scoperto e che pare travolgerti – gli autentici credenti non concedono troppo spazio alla meraviglia: sanno benissimo che l’uomo, una volta smarrito il senso di Dio, è capace di questo e ben altro. E neppure concedono troppo spazio alla ricerca delle cause, che peraltro già conoscono da sempre: l’abbandono di Dio, appunto. Si affrettano invece a far pulizia e a ricostruire. Seguendo il filo della visione di Isaia – in cui si alternano, come abbiamo rilevato, imperativi, parole al futuro e parole al presente – tre sono le cose da fare. Primo: annunciare, con voce forte e vigorosa, la grande certezza: «Ecco il vostro Dio» (v. 4). Far riscoprire all’uomo la presenza di Dio significa metterlo in condizione di sperare, significa fargli ritrovare lo slancio, la gioia del momento, la voglia di progettare: in altre parole, il gusto di vivere. Secondo: chiamare a raccolta gli uomini onesti e disponibili, uomini che si sentono smarriti e vacillanti, ai quali tuttavia basta una voce per ritornare a sperare. Il popolo di Dio deve trasformarsi in una grande piazza in cui tutti gli uomini di buona volontà possono incontrarsi. Questi uomini sono numerosissimi: se si riunissero insieme riempirebbero le strade, apparirebbero 14

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come una forza travolgente. Ma bisogna che una voce li inviti a uscire. Terzo: allargare lo sguardo per accorgersi che non c’è solo il male. Ci sono anche i segni del bene: gesti di solidarietà, sforzi di giustizia, ricerche appassionate della verità. Sono i segni di Dio che infondono coraggio e l’uomo di fede deve incaricarsi di mostrarli a tutti. Così Gesù nel Vangelo, agli inviati del Battista che vogliono rendersi conto della sua messianicità («Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?», v. 3), non risponde direttamente, ma rinvia alle proprie opere: «I ciechi riacquistano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo» (vv. 5-6). Si tratta di miracoli che ricalcano le profezie dell’Antico Testamento, e tra questi c’è persino la risurrezione dei morti. L’ultimo segno («ai poveri è annunciato il Vangelo») non è un miracolo e tuttavia è il segno più decisivo, che imprime una direzione ben definita a tutti gli altri, ponendoli al servizio di una concezione messianica sulla quale molti inciamperanno: «E beato colui che non trova in me motivo di scandalo». Che Gesù sia un inviato di Dio è provato dai miracoli, ma è la sua predilezione per i poveri – come le sue umili origini e la via della croce – che rivela la novità teologica della sua rivelazione di Dio e della sua scelta messianica.

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Quarta domenica di avvento

Natale: il «Dio-con-noi». Tra credenti e increduli Is 7,10-14  ●  Rm 1,1-7  ●  Mt 1,18-24

Il brano tratto dal libro del profeta Isaia (cf. 7,1014) richiede qualche parola di ambientazione. A Gerusalemme è appena giunta la notizia che l’esercito di Damasco e l’esercito di Samaria si sono messi insieme sulle montagne di Efraim e stanno marciando contro il piccolo regno di Giuda. Di fronte al pericolo incombente «il suo [del re] cuore e il cuore del suo popolo si agitarono, come si agitano gli alberi della foresta per il vento» (Is 7,2). Ma il profeta non trema perché sa che Dio è in grado di salvare il suo popolo. Va incontro al re che sta facendo il giro dei bastioni per controllare le fortificazioni e lo invita a non aver paura, ad aver fede, a non cercare alleanze altrove ma a confidare soltanto nel Signore. Per indurlo a questo Dio è anche disposto a dargli un segno ma il re ha già deciso di chiedere protezione al governo assiro e rifiuta il segno, adducendo – ipocritamente – una motivazione religiosa: «Non voglio tentare il Signore» (v. 12). La realtà invece è che il re non ha il coraggio di confidare unicamente nel Signore. È in questo preciso contesto che l’annuncio dell’Emmanuele prende tutto il suo rilievo. Di fronte all’incredulità del re, il rimprovero: «Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio?» (v. 13). Ma poi la sorpresa; ci aspetteremmo che il profeta continuasse con parole di minaccia e di castigo e invece continua con una parola di speranza: «La vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele» (v. 14). 16

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All’incredulità del re e del popolo, Dio risponde promettendo la nascita di un bambino che sarà il «Dio con noi». Sta qui la meraviglia del Natale, che poi è la meraviglia dell’amore di Dio: Dio non si allontana dalla nostra incredulità ma la vince avvicinandosi, facendosi fratello degli uomini peccatori. L’evangelista Matteo racconta che Gesù fu generato nel grembo purissimo della Vergine e per virtù dello Spirito (dunque la sua origine viene dall’alto), tuttavia egli è anche inserito in una genealogia, e fra i suoi antenati ci sono giusti e peccatori, credenti e increduli. È questa la grande consolazione, la roccia su cui poggia la speranza cristiana, tema che costituisce – sulla scorta dei passi del profeta – il filo conduttore di tutto il tempo dell’avvento: nonostante le nostre infedeltà, nonostante le forze del male sempre più agguerrite, Dio non cessa di essere l’Emmanuele, il Dio con noi. Un nome semplice e consolante. Dio è uscito dalla sua lontananza e dalla sua invisibilità, facendosi visibile e concreto, raggiungibile. Venuto fra noi in forma umana, il figlio di Dio vuole che si continui a cercarlo fra gli uomini e che lo si accolga come un uomo. Da quando il figlio di Dio si è fatto uomo, non è più possibile un’altra ricerca di Dio, perché Dio non soltanto si è fatto uomo, ma è rimasto fra gli uomini. Tuttavia ci sono tre cose da non dimenticare. La prima è che non bisogna rimanere chiusi nel passato. Agli uomini della sua generazione Isaia andava ripetendo: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche!» (43,18). Non è il passato che deve ritornare. C’è un attaccamento al passato, una nostalgia di ciò che «c’era una volta», che impedisce di afferrare le nuove possibilità. Chi sogna di rifare le cose di prima non è un costruttore di speranza. Poi occorre il coraggio di ammettere che la situazione che ci troviamo tra le mani è causata anche dalla nostra personale responsabilità. Far ricadere le respon17

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sabilità sempre e soltanto sugli altri è semplicistico e ipocrita. Come se, ad esempio, il popolo di Dio dicesse che la colpa è tutta del mondo, della cultura atea, del secolarismo, del consumismo e via dicendo. In realtà la responsabilità è di tutti, e abbiamo la situazione che meritiamo. Dunque umiltà, pentimento, conversione, disponibilità ai cambiamenti: anche coraggiosi, anche dolorosi. Solo gli uomini che si lasciano mettere in discussione hanno capito il Natale e sono portatori di speranza. E infine l’uomo che modella la propria speranza su Gesù Cristo sa che il bene e il male toccano, alla fin fine, i fatti quotidiani, la vita di ogni giorno. Credere che tutto si giochi là dove si decidono i destini dei popoli è una tentazione e un’illusione. La storia cambierà soltanto se ogni uomo prenderà in mano il suo destino, il suo mondo quotidiano, rinnovandolo. La speranza sale dalla base più che discendere dai vertici.

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Tempo di Natale

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Introduzione al tempo di Natale

Il Natale è al centro della fede cristiana, ma molti segni fanno pensare che per troppi cristiani si sia quasi ridotto a un semplice fatto di costume. Lo festeggiano in tutto il mondo credenti e non credenti, e questo non è privo di sospetto. Il Natale rischia di divenire una ricorrenza, una vacanza o un generico richiamo a valori universali quali la bontà, la pace e la famiglia. È invece una festa precisa, con un volto preciso, una «pietra di contraddizione» accettata da alcuni e rifiutata da molti. È urgente che il Natale ritorni a essere se stesso. E il primo passo da compiere a questo scopo è una lettura seria dei racconti evangelici della nascita di Gesù. Espressione della fede robusta dei primi testimoni, questi racconti devono essere per noi la «memoria» a cui costantemente riferirci.

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25 dicembre: Natale del Signore (Messa della notte)

Evento da annunciare e condividere Is 9,1-6  ●  Tt 2,11-14  ● Lc 2,1-14

Il racconto dell’evangelista Luca (cf. 2,1-14) certo è pieno di poesia, ma è anche ricco di spunti polemici nei confronti delle nostre concezioni. Vuole consolare, ma soprattutto vuole convertire. E difatti il Natale non è soltanto un evento di cui gioire in quanto compimento della nostra attesa («Vi annuncio una grande gioia», v. 10); è anche un evento al quale convertirci (convertire la nostra stessa attesa!) e rivelatore di una strada da percorrere. Riassumiamo in tre punti i principali insegnamenti del racconto evangelico. Anzitutto l’intero racconto è costruito sullo schema dell’annuncio missionario. Dapprima la narrazione dell’accaduto (l’editto di Cesare Augusto e la nascita di Gesù a Betlemme), poi l’annuncio ai pastori di quanto accaduto (gli angeli sono i primi missionari che annunciano l’evento di salvezza), e infine l’accoglienza dell’annuncio (i pastori vanno a Betlemme e incontrano Gesù). Si noti come la successione degli eventi (il fatto, l’annuncio, l’accoglienza) non è chiusa, ma aperta: i pastori infatti a loro volta raccontano ad altri quanto hanno visto («Dopo averlo visto, riferirono ciò che del Bambino era stato detto loro», v. 17). Avviene sempre così: chi ha incontrato il fatto cristiano e ne ha compreso il significato di salvezza, non lo tiene per sé, ma lo annuncia ad altri. Il Natale è una festa missionaria da annunciare, non da tenere per sé, è una gioia da condividere, non da godere da soli, a porte chiuse. 22

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Un secondo punto essenziale del racconto è racchiuso nelle parole degli angeli ai pastori. Sono appunto le parole che esprimono il senso profondo dell’avvenimento e la fede in Cristo delle prime comunità. Il bambino povero e rifiutato («Per loro non c’era posto nell’alloggio», v. 7) è il Salvatore, il Messia, il Signore. Sta proprio qui la sorpresa: il Signore glorioso ha il volto di un bambino povero, rifiutato, avvolto in fasce e «deposto nella mangiatoia» (quest’ultima espressione è tanto importante che ritorna tre volte). Tutto il racconto di Luca è contemporaneamente attraversato dal motivo della povertà e dal motivo della gloria: povertà e gloria sono intrecciate, inseparabili. E questo è significativo: si delinea così la strada di Dio come strada di povertà, e si afferma il profondo legame fra la presenza di Dio e la storia dei poveri: è in una storia di povertà che si nasconde la gloria di Dio ed è ai poveri che essa si rivela. Infine c’è un ultimo tema: il concetto di pace, che l’evangelista pone in collegamento con l’avvento messianico presentandolo come conseguenza dell’amore divino verso l’uomo. È un concetto di pace che diverge sia dalla concezione romana che da quella dell’ebraismo dell’epoca (e si differenzia anche dalle nostre attuali concezioni). A Roma si era sviluppata una filosofia politica che sosteneva e giustificava l’ascesa della città a potenza mondiale: Roma conduce le sue guerre per imporre le leggi della pace ai vinti e per garantire a loro, in tal modo, ordine sicurezza e civiltà. Non è a questo concetto di pace che il Vangelo allude, anzi Matteo riferisce la nascita di Gesù in sottintesa antitesi alla ideologia imperiale… Il vero Salvatore non è l’imperatore Augusto, ma il bambino posto nella mangiatoia; la vera pace non è la pax augusta, ma quella offerta da Dio agli uomini, oggetto del suo amore. Nell’ebraismo palestinese i maestri della legge concepivano la pace come accordo tra le parti che si riconoscono reciprocamente diritti e pos23

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sibilità di vita, limitando ciascuna le proprie esigenze. Si tratta di una concezione di profonda saggezza, ma che resta pur sempre racchiusa entro la buona volontà degli uomini. L’evangelista si colloca invece nella tradizione dei profeti, per i quali la pace è un dono di Dio, un miracolo del suo intervento salvatore. Da non dimenticare, infine, che la pace fra gli uomini è, come dice il canto degli angeli, la trascrizione terrestre di quanto avviene nel cielo, la replica in terra della gloria che gli angeli cantano in cielo. Se dunque vogliamo dare gloria a Dio, dobbiamo costruire la pace fra noi.

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Santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

Una parola che scende alle radici Sir 3,3-7.14.17a  ●  Col 3,12-21  ●  Mt 2,13-15.19-23

La famiglia di Nazaret è unica e irripetibile, sia per le persone che la compongono sia per il suo significato, tuttavia la fede scorge in essa anche una dimensione quotidiana, tale da costituire un modello per tutte le famiglie. Ed è istruttivo osservare che la liturgia – accanto a un brano evangelico che parla della santa famiglia e, quindi, dei suoi avvenimenti singolari – ha scelto due altri passi che invece trattano dei rapporti umani che devono svilupparsi in ogni famiglia. Accanto dunque a un discorso su Gesù e sulla sua famiglia, un discorso – che in qualche modo vuole esserne il commento e l’applicazione – sulle nostre famiglie: un passo del libro del Siracide (cf. 3,3-7.14.17) e un brano dell’apostolo Paolo (cf. Col 3,12-21). II libro del Siracide appartiene al filone sapienziale. Accanto ai profeti che procedono in ascolto della parola di Dio, ci sono i sapienti che procedono in nome della saggezza, dell’esperienza, della ragione e del buon senso. La loro regola non è soltanto la fede, ma anche – e forse prima – la sana umanità. È questa appunto la prima impressione che la lettura del libro ci offre: un discorso di fede (Dio vi è nominato molte volte) ma insieme un discorso di profonda umanità. I consigli che vengono dati non sono tipici del credente, ma appartengono a ogni uomo di buona volontà e li possiamo ritrovare in molte culture. Il passo del Siracide può essere considerato come una spiegazione e un commento del quarto comandamento: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghi25

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no i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà» (Es 20,12). Il testo è semplice, ma alcune osservazioni sono ugualmente opportune. Primo: il brano non si rivolge ai fanciulli o agli adolescenti perché onorino e obbediscano ai genitori, ma ai figli adulti perché si occupino dei loro genitori anziani. Secondo: occorre precisare l’esatto significato del verbo «onorare» ripetuto più volte. Non equivale al semplice obbedire ma abbraccia una gamma di atteggiamenti più ampia e flessibile. L’obbedienza è senza dubbio un dovere ma non è il solo e, in certi casi, neppure il principale. Onorare significa obbedire, rispettare, aiutare, dare affetto, spazio e importanza. Dare, ad esempio, importanza all’esperienza dei genitori anziani, esperienza che non necessariamente deve essere ripetuta, ma certo sempre attentamente valutata e mai acriticamente rinnegata. Significa comprendere che i genitori, anche se anziani e ammalati, hanno una loro funzione in quanto portatori di un patrimonio di esperienza e di saggezza che non deve assolutamente andare perduto. I genitori anziani, che non possono più lavorare e guadagnare, non hanno perso il loro significato e la loro presenza in famiglia non deve considerarsi un inutile peso. Tutt’altro: possono insegnarci a vivere. Terzo: si noti la costante correlazione tra l’onore verso Dio e l’onore verso i genitori: rispettare il padre e la madre è temere il Signore e abbandonare il padre è come bestemmiare Dio. È un esempio particolare della presenza di Dio nel prossimo, ed è una forte sottolineatura dello stretto rapporto fra doveri verso Dio e doveri verso l’uomo, religione e giustizia. In un certo senso, i rapporti familiari sono il banco di prova della vera religiosità. Quarto: a chi onora il padre e la madre è promesso il dono di una «lunga vita». Non si tratta del numero di anni o della salute. Si tratta di qualcosa di più profon26

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do: chi ama i genitori e li accoglie, si prepara a sua volta un futuro di accoglienza. Il conflitto fra le generazioni si risolve anzitutto all’interno delle famiglie: i genitori che amano e accolgono i propri genitori anziani danno ai figli adolescenti una lezione di convivenza, una prova di come uomini di età differente e di mentalità diversa possano non solo vivere insieme, ma amarsi e reciprocamente arricchirsi. Passando dal testo del Siracide alla lettera di Paolo ai Colossesi (cf. 3,12-21) il discorso si apre decisamente su dimensioni ecclesiali e comunitarie: gli avvertimenti di vita familiare (le mogli devono andare d’accordo con i propri mariti e i mariti devono amare le proprie mogli, i figli devono obbedire ai genitori e i genitori non devono esasperare i figli) si trovano alla fine di un’esortazione che riguarda l’intera comunità cristiana, vista appunto come una famiglia più grande e più profonda: non è più il sangue che fonda anzitutto i rapporti di fraternità ma il possesso della medesima fede e l’essere amati dal medesimo Padre. L’episodio evangelico (cf. Mt 2,13-15.19-23) narra l’itinerario, quasi un nuovo esodo, della famiglia di Gesù: Betlemme, Egitto, Nazaret. Giuseppe, Gesù e Maria vivono la condizione di profughi. Da questo punto di vista la famiglia di Nazaret è una famiglia del tutto normale: il figlio di Dio condivide il destino degli uomini, non vive un destino diverso, a parte. Certo, si tratta di una famiglia amata da Dio, oggetto attento e prediletto della sua provvidenza («Alzati, prendi con te il bambino», v. 13a) ma non è sottratta al destino degli uomini («Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo», v. 13b). L’amore di Dio salva gli uomini, ma non sottraendoli alla storia dell’uomo e neppure alla storia della violenza. Dio li accompagna e li aiuta nelle difficoltà, come ha fatto con Gesù: non l’ha sottratto alla morte, ma lo ha accompagnato nella morte. 27

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Solennità di Maria santissima madre di Dio

Meditare e custodire Nm 6,22-27  ●  Gal 4,4-7  ● Lc 2,16-21

Nel giorno di Capodanno la liturgia celebra la solennità di Maria madre di Dio. Semplicemente per porre l’anno nuovo sotto la sua protezione? Molto di più. La maternità divina di Maria è infatti la novità che si è inserita nel tempo degli uomini, trasformandolo. A Capodanno si fanno gli auguri e si finge di credere che l’anno nuovo sarà diverso da quello passato. Ma ciò che non è possibile allo sguardo privo di fede, diventa una realtà per la fede. Il tempo non è più uno scorrere senza capo né coda, quasi un girare in tondo senza nulla concludere. Nella pienezza dei tempi è venuto il figlio di Dio, nato da una donna (come attesta l’apostolo Paolo nella sua lettera ai Galati) e con questa nascita il tempo si è trasformato: ha acquistato consistenza, direzione e novità. Nella monotonia del tempo e nel succedersi delle giornate è presente il Signore, la cui parola garantisce alla vita un futuro. Nello scorrere del tempo è presente il Signore che rende possibile agli uomini peccatori la speranza, il coraggio di amare, la fiducia in se stessi e negli altri. È questo il senso primo della maternità divina di Maria: Dio è qui con noi, un fratello fra molti fratelli, solidale con la nostra carne e il nostro sangue. Che sarebbe mai il tempo senza questo evento sorprendente? Il brano evangelico (il passo in cui Luca racconta che i pastori si recarono a Betlemme e trovarono il bambino e sua madre) non spiega il mistero della maternità di Maria, si limita, con molta discrezione, a farcelo intravedere, come da lontano: il messia è nato da una 28

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donna, e chi lo incontra lo trova accanto alla madre. E questo è già significativo: il bambino e la madre non sono separabili. C’è però un punto che Luca sottolinea, ed è l’atteggiamento della madre nei confronti del figlio, il modo con cui Maria ha vissuto la sua maternità: «Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (v. 19). L’annotazione più importante è proprio quest’ultima che abbiamo riportato. Lo stupore di Maria si distingue dallo stupore generale. Anche Maria sente le parole («tutte queste parole») che spiegano l’evento che ella stessa vede e vive. Parole che custodisce nel cuore, dentro di sé. Le parole che in altri suscitano stupore, in lei si fanno ascolto consapevole, pensoso e intelligente: il cuore indica tutto questo. La funzione della madre è anzitutto di «custodire»: il figlio nato da lei, le parole che si dicono di lui, gli eventi che accadono attorno a lui, tutto questo non lo considera «suo» ma semplicemente affidato, da custodire con fedeltà. E poi «meditare»: il mistero di Gesù (come il mistero di Dio e il mistero della vita) è difficile da comprendere, e comunque lo si comprende a mano a mano che si svolge davanti agli occhi, a mano a mano che lo si vive con fiducia. La comprensione è frutto di un viaggio: un viaggio che si compie rendendosi disponibili, osservando e meditando, soprattutto «partecipando». Ed è appunto ciò che fa Maria sentendo, da una parte, le parole che proclamano la gloria del Bambino (parole da lei stessa ascoltate e accolte dall’angelo nell’annunciazione) e, dall’altra, vedendo «il bambino adagiato in una mangiatoia» (v. 16). È la solita tensione fra grandezza e piccolezza, gloria e povertà che costituisce l’ossatura dell’evento cristiano. L’ascolto di Maria diventa dunque un’interpretazione vera e propria che fa luce sul mistero di Gesù: Maria non è solo la madre di Gesù, ne è anche la più profonda interprete. 29

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Seconda domenica dopo Natale

Comprendere a quale speranza Dio ci ha chiamato Sir 24,1-4.12-16  ●  Ef 1,3-6.15-18  ●  Gv 1,1-18

La liturgia ci invita a proseguire la meditazione sul mistero dell’incarnazione. Il cuore dell’uomo è abitato da un desiderio di vita, di luce e di conoscenza. Come dare una risposta a questo anelito di speranza, di pace, di pienezza di bene che l’uomo porta e aspira per sé e per il mondo intero? Nell’inno che apre la lettera agli Efesini (cf. 1,36.15-18), l’apostolo Paolo introduce il motivo della speranza: «[Il Padre della gloria] illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati» (v. 18). La speranza, a cui Paolo qui accenna, non si identifica con la speranza mondana, bensì la converte profondamente, rinnovandola. La prima novità è il fondarla non sulle previsioni degli uomini (quasi sempre molto insicure) ma sulla promessa di Dio di cui ti fidi totalmente. La seconda novità è lo sperare ciò che Dio ci ha promesso, cioè il trionfo dell’amore e della sua verità, non il trionfo di chi sa quali altre cose. Dio non sostiene le nostre speranze inutili o illusorie. Il passo dell’apostolo Paolo è preceduto da uno dei più importanti tra i testi dell’Antico Testamento che inneggiano alla figura della sapienza personificata e che costituisce il punto culminante di tutto il libro del Siracide (c. 24). La sapienza prende la parola per esprimere il suo ruolo nella creazione dell’universo e nella storia del popolo di Israele. Il progetto di Dio fin dagli inizi della storia è fondato e guidato dalla sua sapienza, ben 30

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oltre le attese e i desideri degli uomini. E nelle parole e immagini che descrivono la sapienza intuiamo che si allude al Verbo eterno per mezzo del quale tutto è stato fatto, nel quale il Padre, inviandolo nel mondo, ci ha detto e ci ha donato tutto. Veniamo allora al prologo di Giovanni: «In principio era il Verbo», così l’incipit del Vangelo di Giovanni, riproposto all’ascolto dei fedeli in questo tempo di Natale. L’evangelista sa benissimo che il Verbo è Gesù Cristo. Nonostante ciò il suo scopo è di illustrare l’affermazione centrale di tutto il testo. «Il Verbo si è fatto carne» (v. 14); ma per far capire chi è quest’uomo di cui parla tutto il Vangelo, guarda in alto, va alla radice, indicando così quale è la sua origine. Attira subito l’attenzione sul fatto che questo Gesù è parola di Dio e per descrivere questa Parola la metterà in rapporto a Dio e al mondo. Chiamare Gesù Cristo «Parola» è già un’affermazione splendida e piena di speranza. Egli già in seno alla Trinità e, successivamente nella sua esistenza storica, è la Parola, non solo in quanto ha parlato, ma perché in tutta la sua persona, nelle sue parole e nei suoi gesti, rimanda continuamente al Padre, è la sua trasparenza. La parola è il mezzo con il quale noi comunichiamo, il pensiero che in qualche modo è nascosto si rende trasparente grazie alla parola e chi ci ascolta riesce a coglierlo. Gesù Cristo è quindi questa trasparenza del Padre; con il termine «parola» s’intende non solo la comunicazione, ma anche la ragione, l’intelligenza. Gesù, in quanto parola di Dio, non è una parola vuota, secondaria, che non dice nulla, ma è una parola luminosa, una parola intelligente, una parola che incanta, una parola nella quale si può scoprire una ragione, una logica. Gesù, che è Parola, viene pure riconosciuto e professato come vita e luce degli uomini (cf. v. 4): vita e luce sono due simboli fondamentali ed esprimono ciò che 31

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l’uomo cerca e vorrebbe avere. Tuttavia se il mondo ha estremamente bisogno di questa luce che splende, in realtà non ne vuol sapere, la rifiuta: «e le tenebre non l’hanno vinta» (v. 5). Si osservino anzitutto i tempi verbali. Per la luce si ricorre al presente «splende», per il rifiuto della tenebra al passato («non l’hanno vinta»). La luce brilla sempre, appartiene alla sua natura illuminare. Questo è il significato del presente. Per la tenebra invece un verbo al passato, per dire che si tratta di un fatto storico, non di una necessità, un fatto che potrebbe esserci e non esserci, perché dipende dall’uomo e dalla sua libertà. Questo significa che nessuno può far cessare la luce che proviene da Cristo: essa brilla sempre, ovunque. La tenebra può rifiutarla, ma non spegnerla. Il dramma è profondo ma lo spazio della speranza è sempre aperto. Nel prologo c’è un’altra affermazione che, ancora più profondamente, costituisce il fondamento di tutta la speranza cristiana: «Il Verbo si è fatto carne» (1,14). Carne è l’uomo nella sua caducità e nella sua debolezza. Per comprendere la forza di questa affermazione di Giovanni basta confrontarla con un’affermazione del profeta Isaia: «Ogni uomo è come l’erba […]. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la Parola del nostro Dio dura per sempre» (40,6.8). Per il profeta tra la parola di Dio e la caducità dell’uomo c’è un «ma» che indica tutta la distanza fra l’inconsistenza dell’uomo e la solidità di Dio. Nel prologo di Giovanni, invece, il «ma» è scomparso. La solidità della parola di Dio si è fatta carne, ciò che permane ha assunto ciò che è caduco: nel cammino di ogni uomo e dell’intera umanità si è inserita una presenza che salva dalla vanità e dall’impermanenza.

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Epifania del Signore

Anche i lontani attorno al presepe Is 60,1-6  ●  Ef 3,2-3a.5-6  ●  Mt 2,1-12

L’Epifania è il giorno della manifestazione, il giorno in cui il progetto di Dio (che la Bibbia chiama il «mistero» di salvezza) giunge al punto di maggior chiarezza con la nascita di Gesù. Un disegno in atto da sempre, preparato da Dio già nei tempi antichi, come traspare dalla pagina profetica di Isaia (cf. 60,1-6). Una lettura attenta evidenzia in primo luogo i due imperativi: «Alzati e rivestiti di luce» (v. 1) e «Alza gli occhi intorno e guarda» (v. 4). Due imperativi che reggono l’intero discorso e gli imprimono un tono di diretto coinvolgimento: il profeta si rivolge direttamente con il «tu» al popolo che lo ascolta (e ora a ciascuno di noi che lo legge), interpellandolo ed esortandolo. «Alzati!» è un invito a smetterla con la stanchezza e con le lamentele, e «rivestiti di luce!» è un invito alla gioia. «Alza gli occhi intorno e guarda» è un invito a uscire dal proprio angusto orizzonte, a rompere il cerchio delle proprie meschine preoccupazioni e a smetterla di ripiegarsi su se stessi. Se appena alzi lo sguardo, ti accorgi che c’è tutto un movimento. Un duplice movimento: la luce di Dio che viene verso Gerusalemme e l’intera umanità che si pone in cammino. Due realtà, dunque, da guardare, due realtà grandiose chiarissime, ma se non si alza lo sguardo – se non ci si scuote, se non si esce da se stessi – si rischia di non vederle: un contrasto, e cioè una città luminosa in un mondo immerso nella nebbia, e una immensa carovana, l’intera umanità in cammino attratta dalla luce. 33

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Almeno altri due aspetti sono da notare. Si osservi, ad esempio, come la luce non provenga dalla città, ma piova sulla città: Gerusalemme non brilla di luce propria, ma di luce ricevuta, di luce riflessa. È lo splendore di Dio che la illumina: «La gloria del Signore brilla sopra di te» (v. 1), «su di te risplende il Signore» (v. 2). Se il popolo di Dio è una luce in un mondo oscuro, un punto di riferimento per l’umanità disorientata, tutto questo non è per merito, ma per grazia. Ed è per questo che i popoli – attratti da quella luce – non lodano la città, ma il Signore: «Tutti verranno […] proclamando le glorie del Signore» (v. 6). E osservando l’immensa carovana che si avvicina, ci si accorge che in essa ci sono come due colonne: la colonna dei figli di Israele che rimpatriano dall’esilio, e la colonna delle nazioni straniere attratte dalla luce; due spezzoni di umanità accomunati nello stesso cammino e diretti verso lo stesso punto («tutti costoro si sono radunati, vengono a te», v. 4). È una visione di universalismo, la visione di un’umanità non più contrapposta, ma riunita e in cammino. E con questo il profeta ci ha svelato due delle principali caratteristiche del disegno di Dio: la salvezza è dono e l’intera umanità – senza distinzione di sorta – è chiamata a godere della stessa luce. Ma non tutto è ancora precisato. Tanto è vero che il racconto evangelico (cf. Mt 2,1-12), pur riprendendo sostanzialmente la visione del profeta, la approfondisce e vi introduce delle sorprese. Gesù è il momento della verità, il momento in cui il disegno di Dio appare con una tale chiarezza da non tollerare più alcun equivoco. E infatti la pagina di Matteo di equivoci ne fa crollare almeno tre. Primo: ciò che brilla come un’oasi di luce in un mondo oscuro e induce i popoli a mettersi in cammino, non è anzitutto una città né una comunità, ma una persona: Gesù. I magi, simbolo delle nazioni, vengono 34

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a cercare il figlio di Dio, non Gerusalemme: «Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti per adorarlo» (v. 2). Secondo: le nazioni vengono ad adorare Gesù, ma la sua città lo induce a fuggire («Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme», v. 3). E questa è senza dubbio la sorpresa più sconcertante: non è più dall’Egitto che proviene il rifiuto, né dalle nazioni, ma da Gerusalemme e dal suo re, dallo stesso popolo di Dio. E così ogni eventuale orgoglio del popolo di Dio è tagliato alla radice. Terzo: il movimento delle nazioni che si indirizzano verso Cristo non è tutto. Il disegno di Dio contempla anche un movimento inverso altrettanto importante. Il Vangelo si apre con la visione dei magi (i popoli) che vengono a cercare Gesù (un movimento dalla periferia al centro), ma si chiude con la visione dei discepoli che si incamminano verso le nazioni (un cammino dal centro alla periferia): «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19).

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Battesimo del Signore

Il figlio «prediletto» che dev’essere ascoltato Is 42,1-4.6-7  ●  At 10,34-38  ●  Mt 3,13-17

Il battesimo di Gesù al Giordano (cf. Mt 3,13-17) è un racconto di rivelazione: ci aiuta a comprendere chi è Gesù e – indirettamente – chi è il cristiano. Determinanti sono le parole introduttive dell’oracolo profetico: «Ecco il mio servo» (Is 42,1). Indicano l’oggetto che sta a cuore a Dio e che egli intende, appunto, farci conoscere. Le frasi successive ci dicono quello che il servo possiede (lo Spirito), la missione che gli è affidata e lo stile con cui la deve compiere. Ciascuno di questi singoli aspetti merita tutta la nostra attenzione. Chi è il servo? Scrivendo questa parola il profeta pensava certamente al popolo di Israele (o meglio, al gruppo dei pii e degli autentici credenti), ma pensava anche al messia. Dicendo «ecco il mio servo», Dio vuole parlarci insieme del messia e del suo popolo, di Gesù e della sua chiesa. Servo: la parola evoca obbedienza e sottomissione, è una missione da compiere non a nome proprio né con proprio stile, ma in dipendenza e a nome di un altro. Questo è vero, tuttavia il nostro passo moltiplica le espressioni per ricordare anche un altro aspetto, e cioè l’amicizia: «di cui mi compiaccio», «il mio eletto», «che io sostengo» (v. 1). Dunque, servo e più di servo. Al battesimo di Gesù la voce celeste ha giustamente cambiato il termine servo in «figlio»: Gesù è sottomesso e docile alla volontà del Padre, obbediente, ma è più di servo, è figlio. E lo stesso può dirsi del cristiano: servo e figlio. 36

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La missione che Dio affida al suo servo (cioè a Israele e al suo messia, a Gesù e ai suoi discepoli) è descritta con tre tratti fondamentali. È anzitutto una missione «universale», rivolta alle «nazioni» e alle «isole». Il servo si assume la responsabilità del mondo intero perché sa che il suo Dio ama l’intera umanità. Con una convinzione, e cioè che i lontani aspettano che qualcuno parli loro di quel Dio che ancora non conoscono ma che vanno cercando e di cui hanno bisogno. Una missione – ed è il secondo tratto – che privilegia, se così si può dire, i «prigionieri», cioè i poveri, i deboli: certo è aperta a tutti, ma proprio per questo dà la precedenza a chi è più trascurato. Il servo si assume la difesa di chi è senza difesa, si fa avvocato di chi è senza avvocato, si fa amore per chi è senza amore. Una missione, infine, che ha come contenuto essenziale il «diritto». La parola ricorre tre volte, ed è una parola biblica dal significato ricco e molteplice, più ricco di quello che abitualmente assume nelle nostre lingue. Indica giustizia nel senso di mettere le cose a posto, di leggi imparziali, di trattamenti uguali per tutti, ma indica anche diffusione della verità e conoscenza del Signore: per questo il servo è detto «luce delle nazioni» (v. 6). E tutto questo con uno stile: il servo non cerca il clamore, non compie gesti chiassosi e appariscenti, non spegne e distrugge, ma rianima e incoraggia; è umile, semplice e discreto. Tuttavia è fermo e sicuro: «proclamerà il diritto con verità» (v. 3). Lo stile del servo è la tolleranza, la discrezione, la non-violenza. È lo stile di Gesù, come Matteo sottolinea nel suo Vangelo (cf. 12,17-21) ma non sempre – purtroppo – è lo stile dei suoi seguaci: «Giacomo e Giovanni dissero: Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (Lc 9,54). Abbiamo lasciato il tratto più importante e caratteristico: «Ho posto il mio Spirito su di lui» (v. 1). È la 37

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radice di tutti gli altri aspetti. È solo lo Spirito – e soltanto lo Spirito – la forza capace di prendere un uomo qualsiasi, un meschino ed egoista come tutti gli altri, e trasformarlo in «servo» e in «figlio», gioiosamente consapevole di essere amato, dedito a una missione che va ben oltre il proprio personale interesse. La trasformazione di un uomo in «servo» e «figlio» è un miracolo: il miracolo appunto della nascita cristiana e battesimale. Guidati dalla parola del profeta e dal Vangelo di Matteo siamo continuamente passati da Gesù al discepolo, e non certo per confondere le cose: un conto è Gesù e un conto siamo noi. Ma resta vero che il battesimo di Gesù è il modello del nostro battesimo, e che per comprendere chi siamo noi dobbiamo guardare lui.

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Tempo di quaresima

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Introduzione al tempo di quaresima

La prima lettura delle domeniche di quaresima non è scelta in base al Vangelo, come succede invece per il resto dell’anno liturgico. Tratta dall’Antico Testamento, la prima lettura indica le tappe principali della storia di Israele: Adamo, Abramo, Mosè, Davide, i profeti. Il Vangelo, invece, tratteggia i momenti più salienti dell’itinerario di Gesù. Nel tempo di quaresima, dunque, prima lettura e Vangelo presentano le tappe principali della storia d’Israele e quelle più significative del cammino di Gesù come due linee che si chiariscono reciprocamente e formano un vero e proprio itinerario di conversione. Come nel tempo di avvento, porremo attenzione particolare alla prima lettura in quanto ci offrirà alcune chiavi di comprensione e approfondimento dei testi evangelici. Nelle grandi tappe del cammino di Israele e di Gesù, come ci raccontano le letture di quaresima, ciascuno di noi è chiamato a specchiarsi. Compito difficile e necessario. Difficile, perché richiede un coraggioso riorientamento della vita. Necessario, perché è l’unico cammino che conduce a Dio e al ritrovamento di noi stessi. Ma dove trovare la forza per farlo? Nella potenza di Dio, ci suggerirà la lettura del Vangelo di Giovanni quasi al termine di questo itinerario di conversione. «Io sono la risurrezione e la vita», non semplicemente la vita, ma anche la risurrezione e con questo Gesù afferma di possedere la forza per vincere persino la morte, e con la morte il peccato, l’inerzia e la passività. Egli ha la forza – in una parola – di rendere possibile ciò che a noi pare impossibile. 41

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Prima domenica di quaresima

Ripudiato Dio, ecco subito gli idoli Gen 2,7-9; 3,1-7  ●  Rm 5,12-19  ●  Mt 4,1-11

La pagina di Genesi (cf. 2,7-9; 3,1-7) contiene almeno tre insegnamenti che conservano tutta la loro attualità. A parte la forma linguistica, potrebbe essere una pagina scritta oggi. Primo: l’uomo è colto nella sua caducità e nella sua grandezza, soprattutto nel suo dramma. È tratto dalla terra e destinato a ritornare alla terra: così il cerchio si apre (cf. Gen 2,7) e si chiude («Polvere tu sei e in polvere ritornerai», Gen 3,19). Eppure l’uomo viene da Dio ed è amato da Dio: Dio gli è fedele, qui sta tutta la sua dignità e la sua speranza. L’uomo si dibatte in una contraddizione che sembra insanabile: da una parte i molti segni che assicurano che Dio è buono e che ha fatto l’uomo e il mondo secondo un disegno sapiente; dall’altra, il dilagare del male, della violenza e della morte. Di fronte alle molteplici forme del male non bisogna accusare Dio, testimonia il nostro passo, la responsabilità della colpa è dell’uomo. Il male ha un’origine storica, non metafisica o cosmica, dipende dalla libertà dell’uomo. La storia è piena di contraddizioni perché l’uomo si ostina a volerla costruire disobbedendo al Signore. Secondo: il peccato – quello di Adamo e quello di tutti gli altri – non resta chiuso nell’intimo dell’uomo, ma dilaga all’esterno, si traduce in mentalità e abitudini, crea cultura, legami e condizionamenti, si fossilizza in strutture. C’è, insomma, una solidarietà nel peccato, da Adamo fino a noi. Il suo peccato ci condiziona e il 42

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nostro, a sua volta, condiziona le generazioni future. È per mettere in luce questa storia di peccato che i primi racconti della Bibbia si sviluppano secondo uno schema genealogico: un peccato dipende dall’altro, il peccato di Caino dipende dal peccato di Adamo, e così via. Terzo: il peccato di Adamo non è solo il primo peccato, ma è anche il modello di ogni altro peccato. Nella sua tentazione vediamo fotografata la nostra. Come appare dal dialogo fra Eva e il serpente, la forza della tentazione sta nel dubitare di Dio, nel credere che egli imponga una legge per impedirci di divenire simili a lui (dunque per umiliarci e salvare i suoi privilegi), anziché per impedirci di morire (cioè per il nostro bene). La tentazione sta tutta qui: credere che la legge di Dio sia alienante e che l’uomo viva meglio al di fuori di essa. Tentazione attualissima che sembra descrivere – in una sorta di profezia – la mentalità dell’uomo moderno, che nell’obbedienza al Signore e nell’ascolto della sua parola ha paura di sminuirsi, di perdere libertà e autonomia. Non per nulla si cerca da molte parti di presentare l’ateismo come umanesimo. E invece è il contrario, dice il nostro passo, che è insieme frutto di rivelazione e di esperienza: quando l’uomo travalica i limiti e si atteggia a signore, e vuole costruire una storia per conto proprio, è allora che si perde la libertà e si genera la violenza, e l’uomo è ridotto a strumento. La tentazione di Gesù (cf. Mt 4,1-11) che troviamo nel Vangelo ripropone – nella sostanza – la medesima tentazione di Adamo. In superficie le tentazioni sono molte, ma alla radice è sempre una sola: percorrere la via messianica indicata da Dio (la via della croce) oppure scegliere una via propria conforme alle valutazioni degli uomini (la via del prestigio, del successo, del dominio)? Per due volte (v. 3 e v. 6) Satana si rivolge a Gesù dicendogli: «Se tu sei figlio di Dio…». Per Gesù l’essere figlio si esprime nell’obbedienza radicale e nella dedizione totale al Padre. Per Satana invece essere figlio 43

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significa poter disporre della potenza divina a proprio piacimento e per la propria gloria. A differenza di Adamo, Gesù ha scelto l’obbedienza, indicando così anche a noi il cammino del ritorno. In perfetto contrasto con l’atteggiamento di Adamo, l’ultima risposta di Cristo al tentatore è: «Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”» (v. 10). È una risposta che ogni uomo deve fare sua. E a nessuno sfugga la sincera ammissione di Satana: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai» (v. 9). È esatto: tutti coloro che si sottraggono a Dio per fare da soli e per porsi nel mondo come padroni, in realtà sono costretti ad adorare Satana. Non vogliono il vero Signore e se ne trovano un altro, tirannico e mortificante. Un tiranno che ha molti nomi (denaro, successo, potere), ma un unico volto: è contro l’uomo.

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Seconda domenica di quaresima

Abramo: il coraggio di cambiare vita Gen 12,1-4a  ●  2Tm 1,8b-10  ●  Mt 17,1-9

La storia di Abramo, ma in un certo senso l’intera storia della salvezza – il grande cammino di ritorno a Dio – incomincia con questo racconto brevissimo, asciutto e tuttavia così ricco di significato. Al primo posto l’iniziativa di Dio: «Il Signore disse ad Abram» (v. 1). Tutto parte da qui, da questo intervento di Dio descritto con semplicità, senza quei tratti grandiosi (lampi e tuoni, luce che abbaglia) che abitualmente accompagnano le descrizioni bibliche delle apparizioni divine. Semplicemente «Dio disse». Abramo ha già alle spalle un’intera vita, è vecchio («aveva settantacinque anni quando lasciò Carran», v. 4, precisa il testo), ha moglie e figli, un ambiente e un passato, e tuttavia è come se la sua vita cominciasse soltanto ora. La sua vera storia inizia qui, quando Dio gli rivolge la parola e imprime alla sua esistenza una svolta. Prima era come un camminare senza direzione e senza senso, il solito affannarsi degli uomini giorno dopo giorno, cercando che cosa? Ora diventa un cammino che imbocca una direzione e un significato. La parola di Dio si presenta come un ordine («Vattene dalla tua terra […] verso la terra che io ti indicherò», v. 1), e come una promessa («Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome», v. 2). Ordine e promessa che, parallelamente, esigono dall’uomo obbedienza e fiducia: all’ordine si obbedisce e alla promessa si aderisce con fiducia. Abramo è chiamato a un cambiamento di esistenza («lascia e vieni»), 45

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ad abbandonare cioè tutto il suo mondo già noto, abituale (la casa, la terra, i parenti) per andare verso un futuro la cui unica garanzia è la parola del Signore. E questa è obbedienza, ma soprattutto è fiducia. Si tratta di imparare a vivere non più nello sforzo disperato di conservare ciò che già si possiede, ma nello sforzo fiducioso di andare in avanti, di uscire da ciò che ci è già noto e abituale per andare verso un mondo che il Signore garantisce ma che noi ancora non vediamo. Perché Dio ha chiamato Abramo? Se è il Dio di tutti, perché chiama un uomo solo? Non c’è che una risposta: Dio non chiama a una salvezza per se stessi, ma a un servizio e una responsabilità nei confronti di tutti. Ecco il senso dell’affermazione: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (v. 3). E questa è la terza componente del nuovo cammino: dopo l’obbedienza e la fiducia, il servizio. C’è una quarta caratteristica: la perseveranza. Il seguito della storia di Abramo ci dice che il suo cammino fu continuamente messo alla prova. Gli anni passano, i figli non vengono, e le promesse di Dio sembrano sempre più allontanarsi. Dio non ha fretta di mantenere le sue promesse. Si accontenta di rinnovarle. Commovente è il racconto del colloquio notturno fra Abramo e il Signore: «Soggiunse Abram: “Ecco, a me non hai dato discendenza […]”. Poi lo condusse fuori e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”; e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”. Egli credette al Signore» (Gen 15,3-6). L’intero cammino di Abramo è racchiuso in questa semplice annotazione: «Egli credette al Signore». Ma l’episodio più impressionante è ancora un altro, è il racconto del sacrificio di Isacco (cf. Gen 22), che inizia con una battuta e già lascia trasparire la lezione: «Dio mise alla prova Abramo» (v. 1). Dio ha promesso ad Abramo una numerosa discendenza ora gli chiede l’unico figlio. È un Dio misterioso, un Dio che mette alla prova, un Dio le cui vie non sono le nostre. 46

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Fin qui la storia di Abramo, il padre di tutti i credenti. Il Vangelo di Matteo completa il discorso raccontandoci il cammino di Gesù, che in compagnia dei discepoli si dirige verso Gerusalemme (cf. Mt 17,1-9). Sullo sfondo c’è la croce, e questa incute nei discepoli timore e resistenza. Occorre uno sguardo più acuto per accorgersi che dietro la croce c’è la risurrezione. E questo è appunto il senso dell’episodio della trasfigurazione. Gesù mostra ai discepoli che lo accompagnano che cosa veramente li attende alla fine del cammino: non la croce, ma la risurrezione. Sappiamo che nel cammino della conversione c’è posto per la tentazione che viene da Satana, il quale vuole distoglierci dalla strada di Dio per incamminarci su altre strade: la tentazione di Abramo e la tentazione di Gesù nel deserto. Nell’itinerario della conversione ci sono anche le prove che vengono da Dio stesso: hanno lo scopo di purificare, approfondire e convertire. Ma nella vita di fede, anche questo non va dimenticato, non mancano le luci, le consolazioni, le verifiche, la pregustazione della comunione con Dio, la certezza che la sua parola ha sempre ragione. Ci sono momenti in cui il credente vorrebbe ripetere le parole di Pietro sul monte: «Signore, è bello per noi essere qui» (Mt 17,4). Così, la trasfigurazione non è soltanto la rivelazione dell’identità profonda di Gesù e del suo destino, è nel contempo una rivelazione dell’identità del discepolo. La via del discepolo è ugualmente incamminata verso la croce e la risurrezione. Nel cammino della fede non mancano momenti chiari, gioiosi, all’interno della fatica dell’esistenza cristiana. Occorre saperli scorgere e saperli leggere. Il loro carattere è però fugace e provvisorio, e il discepolo deve imparare ad accontentarsi. Non sono il definitivo, la meta, ma soltanto un anticipo profetico di essa. 47

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Terza domenica di quaresima

Un popolo tra libertà e nostalgie di schiavitù Es 17,3-7  ●  Rm 5,1-2.5-8  ●  Gv 4,5-42

Il racconto dell’Esodo, ambientato durante la lunga marcia del deserto, ci prepara all’ascolto del bellissimo incontro di Gesù con la donna di Samaria. Molteplici sono le risonanze in comune: l’incredulità dell’uomo, la pazienza di Dio, il dono dell’acqua. L’episodio (cf. Es 17,3-7) narra un’esperienza che si è impressa nella memoria di Israele in modo indelebile. Gli ebrei compresero (e noi con loro) che fu un momento di particolare lucidità, un’esperienza che ha messo a nudo alcuni atteggiamenti che accompagnano sempre il cammino dell’uomo verso Dio. È appunto in questa prospettiva che vogliamo rileggere l’episodio di Massa (tentazione) e Merìba (protesta), ricostruendo i due lati del confronto: da una parte il ragionamento del popolo, dall’altra la risposta di Dio. Privo di acqua per sé e per il bestiame, il popolo protesta e pretende: «Dateci acqua da bere!» (v. 2). Non prega (come farà invece Mosè), non chiede, ma pretende e reclama, come chi crede di poter accampare diritti. «Tentare il Signore» è tutto questo. Poi dalla protesta passa alla «mormorazione»: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto […]?» (v. 3). Questo «mormorare» significa mettere in dubbio la validità di ciò che Dio ha fatto, la validità dell’impresa iniziata. Valeva la pena di liberarsi dall’Egitto per poi trovarsi in questa situazione precaria? D’accordo la libertà, ma la vita in Egitto era pur sempre tranquilla, il cibo e l’acqua assicurati! Di fronte alla fatica della libertà nasce la nostalgia della schiavitù. 48

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Infine, dopo la protesta e la mormorazione, si mette in dubbio la stessa presenza del Signore: «Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?» (v. 7). Non è più in discussione qualcosa, ma tutto. L’interrogativo degli ebrei a Merìba si ritrova anche in altri passi della Bibbia, e sembra essere – paradossalmente – il compagno inseparabile del popolo. Riemerge in ogni difficoltà. Eppure le prove della presenza di Dio ci sono, e numerose. Ma non bastano mai. Il popolo ha visto il miracolo del Mar Rosso e ha già sperimentato il dono della manna, ma è sufficiente un nuovo imprevisto perché rimetta tutto in discussione. Il Vangelo chiama questo atteggiamento «durezza di cuore». Sin qui il ragionamento del popolo di Israele, quasi la radiografia di molti nostri ragionamenti. Ma c’è anche l’altro lato da osservare, e cioè il comportamento di Dio. Di fronte al dubbio che serpeggia nel popolo, egli riafferma la sua presenza: «Io starò davanti a te là sulla roccia» (v. 6). E alla protesta risponde con il dono: «Tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua» (v. 6). Dio è paziente, ciò che vuol far comprendere non è facile e vi insiste. Ma è altrettanto vero che Dio è esigente: interviene e aiuta, ma non sopprime il cammino, né la fatica, né la precarietà. Non conduce direttamente il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto alla libertà, ma lo fa peregrinare lungamente nel deserto. È un simbolo dell’intera storia umana. Anche se sotto il segno di Dio, il cammino (quello della chiesa verso il regno, o di un popolo verso la libertà o di un uomo verso il Signore) non cessa di essere faticoso, tortuoso e minacciato. Pretendere un Dio risolutore significa non capire nulla. Il racconto evangelico completa la lezione dell’Esodo, a eccezione di un punto: precisa che l’acqua che Dio intende donarci non è l’acqua del pozzo, ma il suo spirito, la sua verità, la sua parola che ci insegna a vivere e che ci parla di lui. È questa la vera sete dell’uomo, cosa che però l’uomo non sempre è pronto a riconoscere, 49

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tanto è vero che spesso chiede una cosa mentre Dio vuole dargliene un’altra. La tentazione di chi cerca Dio è sempre quella di rinchiudere il dono di Dio dentro la propria attesa, ma Dio non si lascia imprigionare nelle attese dell’uomo: le dilata. È il caso della donna di Samaria. «Signore, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua» (Gv 4,15), chiede. E più avanti, accortasi che Gesù è profeta, gli sottopone un’altra questione: «È meglio adorare a Gerusalemme o su questo monte?» (cf. v. 20). Ma non sono questi i problemi che Gesù intende risolvere. La donna cerca di situare Gesù nelle categorie religiose tradizionali, la sua ricerca è chiusa nel passato, ma egli cerca invece di aprirla a esigenze più profonde e di condurla alla fede. Infatti le dice: «Se tu conoscessi […] chi è colui che ti dice “Dammi da bere”». (v. 10). È Gesù che dà da bere a lei e non il contrario, come la samaritana pensava. In tutto dialogo appare chiaro come sia Gesù a suscitare le attese di questa donna, quasi obbligandola a esprimersi; da quelle poi parte per lasciarle cadere o dilatarle. E come se la costringesse a guardare al futuro e a prendere coscienza che nel mondo è arrivata una novità che rinnova il problema dalle fondamenta. Il cammino della donna può certamente essere visto come un’immagine del cammino dell’uomo verso Dio. Gesù guida la ricerca, la disincaglia dalle chiusure che via via incontra e la libera da alternative che l’uomo riterrebbe inevitabili (la donna non deve farsi giudea, ma restare samaritana). La ricerca termina in Cristo, rivelatore e salvatore, ma l’accoglienza del dono di Cristo è uno spazio aperto sulla vera adorazione del Padre. Importante, e sottolineato, è l’invito al superamento di ogni altra attesa religiosa: le attese religiose, evocate dalle espressioni e dai simboli attorno a cui si svolge il dialogo, sono tutte superate e concentrate in Cristo. In lui acquistano un senso di presenzialità e di pienezza. 50

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Quarta domenica di quaresima

Dio guarda al cuore, non alle apparenze 1Sam 16,1b.4.6-7.10-13a  ●  Ef 5,8-14  ●  Gv 9,1-41

La liturgia chiama la quarta domenica di quaresima la domenica Laetare (della gioia). Il cammino quaresimale è un cammino di conversione, non di tristezza. Convertirsi significa ritornare a casa, ritrovare Dio e se stessi e questo è gioia! La lettura dell’Antico Testamento e il Vangelo non svolgono un tema comune, la prima continua la meditazione sulle grandi tappe della storia della salvezza: dopo Adamo, Abramo e l’Esodo, è la volta di Davide. Di lui, la Bibbia ricorda l’abilità politica e militare, il coraggio e l’intelligenza, ma soprattutto l’obbedienza al Signore. Davide è il re secondo il cuore di Dio, e non perché senza debolezze – di lui, anzi, si racconta ampiamente anche il peccato – ma perché ha sempre avuto la consapevolezza di essere al servizio dell’unica regalità del Signore. Davide non ha mai tentato di sostituirsi a Dio, usurpandone i diritti. E questa è la cosa che conta di più. Una preoccupazione che traspare anche dalle prime parole del nostro racconto: «Il Signore disse a Samuele […]: mi sono scelto […] un re» (1Sam 16,1). Prima di raccontare l’elezione di Davide, la Bibbia afferma che Dio non rinuncia alla sua regalità: c’è posto soltanto per una regalità che si esercita nell’obbedienza e nel servizio per un’autorità che non potrà mai dirsi assoluta, ma sempre delimitata da precisi doveri. Il nostro racconto riproduce il canovaccio comune a tutte le chiamate di Dio. Dio può chiamare direttamente (come Abramo e Mosè), oppure attraverso un 51

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suo profeta, come Davide. In ogni caso però l’iniziativa resta sua, libera e gratuita. Si veda con quanta insistenza questo è sottolineato: «Ti mando, mi sono scelto, ti farò conoscere, ungerai per me colui che ti dirò» (vv. 1b.3b). Il racconto, pur affermando con chiarezza ciò che abbiamo detto sinora, attira l’attenzione su un altro punto che costituisce senza dubbio la sua lezione principale e, in un certo senso, la sua novità: «L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (v. 7). Corre una profonda differenza tra le valutazioni degli uomini e le valutazioni di Dio: «Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo» (v. 7). Dunque due modi differenti di guardare; persino gli uomini migliori, come Samuele, rischiano sempre di lasciarsi incantare dall’aspetto e dall’imponenza della statura. Ma non Dio, egli valuta in base ad altri valori. Cosa che appare da tutta la storia della salvezza, al punto da costituire una legge fondamentale dell’agire divino: il Signore promise una numerosa discendenza ad Abramo quando era vecchio; chiamò Mosè non quando era alla corte del faraone, influente e affermato, ma dopo, quando era perseguitato e fuggiasco; e fra i molti figli di Iesse scelse il più piccolo. Si potrebbe continuare con gli esempi, ma è più importante rilevare che la Bibbia racconta tutti questi episodi con uno scopo preciso, quello cioè di indurci a cambiare mentalità e a valutare le cose (persone, avvenimenti) con i criteri di Dio. Il Vangelo di Giovanni racconta la guarigione di un cieco dalla nascita, e poi riporta ampiamente il dibattito che ne seguì (cf. 9,1-41). La tesi centrale è che Gesù è la nostra luce. Con una precisazione però, e cioè che la sua luce – pur così chiara – non è accolta da tutti. Il racconto si snoda infatti seguendo lo schema di un contrasto: da una parte, un cieco che viene alla luce e riconosce in Gesù il Signore («Credo, Signore!», v. 38); dall’altra, i farisei che, convinti come sono di ve52

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dere, restano nelle loro tenebre («siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane», v. 41). La «loro» verità non ammette che un miracolo avvenga di sabato, e questa loro sicurezza li chiude e li acceca. Non si lasciano smuovere da nulla, neppure dall’evidenza dei fatti, per salvare uno schema religioso che non si vuole modificare. Fariseo è l’uomo incapace di aprirsi alla storia, al concreto comunque esso sia, e di lasciarsi da esso mettere in questione: non è leale, bara al gioco ed è cieco. Dio scelse il piccolo Davide e non i suoi fratelli più appariscenti, e Gesù rivela se stesso a un cieco e non a coloro che si reputavano maestri. La ragione è la medesima: Dio guarda al cuore, non alle apparenze.

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Quinta domenica di quaresima

Quando sembra inutile continuare a sperare Ez 37,12-14  ●  Rm 8,8-11  ●  Gv 11,1-45

II profeta Ezechiele svolse il suo ministero fra gli esiliati, a Babilonia. Nel 597 a.C. Gerusalemme si arrese all’esercito babilonese, e il re Ioiakim venne deportato a Babilonia assieme alle persone più importanti della città. Fra i deportati ci fu anche Ezechiele. Dapprima gli esiliati mantennero una inalterabile fiducia in Dio e nei destini del popolo. Gerusalemme non sarà distrutta, pensavano, l’esilio non sarà che una breve parentesi (un giusto ma momentaneo castigo di Dio) e presto si ritornerà in patria. Ma poi, di fronte alla nuova sconfitta del 586 a.C. e alla distruzione di Gerusalemme, le illusioni si infransero e subentrò la disperazione. È appunto a questo stato d’animo molto pericoloso che le prime righe del nostro passo (cf. 37,12-14) si riferiscono: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti» (v. 11). E invece no, ribatte il profeta a nome di Dio: «Io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe» (v. 12). Tutto il passo si regge su questo contrasto: da un lato l’abbattimento degli esuli («Siamo perduti»), dall’altro la parola di Dio («Apro i vostri sepolcri»): lo scopo è di far compiere al popolo una svolta, un capovolgimento alla fiducia. La situazione del popolo in esilio è descritta dal profeta in forma di visione: «Il Signore […] mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare accanto a esse da ogni parte. Vidi che erano in grandissima quantità […] e tutte inaridite» (37,1-2). Una 54

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situazione umanamente senza sbocchi, paragonabile alla morte, tale da spingere gli esiliati a concludere: «La nostra speranza è svanita, siamo perduti». È uno stato d’animo pericoloso: dallo scoraggiamento si passa infatti fatalmente al disimpegno. A che serve?, si dice. E ci si lascia andare. Così accadeva, appunto, agli ebrei dispersi (e non soltanto a loro): non c’è più speranza, è inutile continuare con fatica a condurre una vita propria in mezzo a un popolo straniero, non serve, facciamo come tutti e confondiamoci in mezzo agli altri. Ma è davvero una situazione senza speranza? I veri credenti, come il profeta Ezechiele, rispondono sempre di no, perché sanno che ogni situazione, anche la peggiore, resta sempre nelle mani di Dio. Infatti su tutte quelle ossa inaridite, sugli esiliati delusi che si erano persi d’animo, cade come una sferzata la parola del Signore: «Io vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio» (v. 12). Parola solenne e sicura: «Io l’ho detto e lo farò» (v. 14). Come si intuisce facilmente, è sempre e solo una questione di fede, o meglio, tutto dipende dal saper ancorare la propria fiducia nel giusto fondamento, cioè nel Signore. Non in un ribaltamento della situazione a opera di uomini, né nelle cosiddette energie sommerse del popolo, né nella convinzione che quando si tocca il fondo poi si risale, ma nel Signore. Se ti guardi attorno, ti viene da pensare che è sciocco continuare a sperare. Ma se guardi a Dio, allora di colpo tutte le speranze sono di nuovo consentite. Anche Lazzaro nella tomba, come raccontato nel Vangelo di Giovanni (cf. 11,1-45), è il simbolo di una situazione umanamente senza uscita, situazione che Gesù, nonostante amasse Lazzaro profondamente, ha inspiegabilmente permesso; ma la fede di Marta e di Maria non è venuta meno. Forse c’è anche un leggero rimprovero nelle loro parole («Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto», v. 21), ma la fede ha in 55

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ogni caso il sopravvento: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno» (v. 24). Fede ammirevole, e tuttavia non ancora completa; occorre sperare di più. Gesù risponde spostando l’accento in due direzioni che poi convergono. La prima è cronologica: la risurrezione dei morti non è un fatto degli ultimi tempi, ma accade adesso. La seconda è di persona: la risurrezione dei morti non è un’opera compiuta solo da Dio alla fine dei tempi, ma è un evento che Gesù compie. Quindi, Marta pensava: «Esiste una risurrezione dei morti alla fine, per opera di Dio»; Gesù ribatte: «Esiste la risurrezione dei morti adesso, per opera di Cristo». Marta sperava in un lontano futuro («nell’ultimo giorno»), Gesù parla al presente: «Io sono la risurrezione e la vita» (v. 25). D’accordo il futuro, ma molto è già possibile oggi: è possibile convertirci, vincere il nostro peccato, costruire comunità cristiane più evangeliche, avviare nella società un processo di giustizia.

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Domenica delle Palme: passione del Signore

Dall’«osanna» al «crucifige» la serenità del credente Is 50,4-7  ●  Fil 2,6-11  ●  Mt 26,14-27,66

La domenica delle Palme è caratterizzata dall’entrata di Gesù a Gerusalemme, un episodio festoso: «La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva, gridava: Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!» (Mt 21,9). Un momento di gioioso trionfo, che prelude però agli insulti della croce. È il trionfo di un messia crocifisso, come appunto la liturgia sottolinea ponendoci di fronte a un contrasto violento e significativo; dopo la festosa processione degli ulivi, tutte e tre le letture della messa ci parlano della croce: Matteo racconta la passione e la morte di Gesù, l’apostolo Paolo ci invita a imitare i sentimenti di Cristo che «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8) e Isaia parla del servo del Signore. Vista la pregnanza di questa figura, ci soffermiamo sulla pagina profetica (cf. Is 50,4-7), dove il servo di Dio – prefigurazione del messia, ma anche personificazione dell’intero popolo di Dio – parla in prima persona e ci racconta, per cenni brevissimi ma significativi, la sua storia, o meglio, ci descrive i tratti salienti della sua spiritualità. Eccoli: ogni mattina si pone in ascolto della parola del Signore; Dio gli affida la missione di sostenere e confortare gli sfiduciati; una missione questa che va incontro a resistenze e a persecuzioni violente, che però egli affronta con coraggio perché la sua fiducia è nel Signore. Sono esattamente i tratti della fisionomia e della storia di Gesù. E se la liturgia ce li propone, non è sol57

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tanto per farci conoscere Cristo e contemplarlo negli eventi della settimana santa, ma anche per offrirci un programma e una verifica. Il servo di Dio vive in mezzo a un popolo stanco, scoraggiato, privo di slancio. Non è la situazione degli esiliati, ma quella di chi, ritornato dall’esilio con l’animo pieno di speranze, ha dovuto poi constatare, con il passare del tempo, che quelle speranze non si sono realizzate. Una stanchezza dunque, che non è fisica ma morale, interiore. È la stanchezza peggiore, perché è molte cose insieme: delusione, sfiducia, scoraggiamento, rassegnazione. Diversamente dalla sua comunità, il servo di Dio è pieno di slancio e di coraggio. Il popolo dice: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato» (Is 49,14) e invece il servo afferma: «Il Signore Dio mi assiste […] sapendo di non restare confuso» (v. 7a.d). La ragione di un tale contrasto è semplice: ogni giorno il servo si pone in ascolto del Signore, è questo il segreto dei profeti e di tutti i veri uomini di Dio; l’incontro quotidiano con Dio non permette che si accumuli stanchezza e sfiducia, ma ringiovanisce. L’incontro con la parola di Dio non avviene di tanto in tanto, ma tutti i giorni, e non è l’ultima cosa della giornata ma la prima («ogni mattina»). Il servo poi non parla da soggetto protagonista, ma attribuisce tutto all’azione di Dio: è il Signore che gli apre l’orecchio, è il Signore che gli dona una lingua da discepolo. Orecchio e lingua: l’orecchio per ascoltare e la lingua per annunciare. Con una precisazione ripetuta due volte: orecchio e lingua «da discepolo». Quest’immagine del discepolo sottolinea la docilità, la disponibilità e l’attenzione – tutte cose che si richiedono per ascoltare e per parlare – ma sottolinea anche qualcosa d’altro: discepolo è colui che va a scuola, e studia, che frequenta assiduamente e sistematicamente. In altre parole, non si ascolta la Parola improvvisando, 58

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occorre preghiera, ma anche intelligenza, studio, fatica e metodo. Il profeta «ogni giorno» ridesta l’orecchio, va a scuola di Dio, per poter nutrire se stesso ed essere in grado di dare una risposta agli stanchi. Cerca la parola di Dio per essere un uomo di speranza. Senza questo incontro quotidiano non si può dare una risposta a nessuno, né alla propria stanchezza, né a quella degli altri. Il servo di Dio è perseguitato. Il racconto degli oltraggi segue una specie di crescendo: lo flagellano, poi gli strappano la barba – pena non soltanto dolorosa ma umiliante – e infine lo coprono di sputi. È la passione di Gesù: «Allora gli sputarono in faccia e lo percossero; altri lo schiaffeggiarono» (Mt 26,67). Ma ciò che qui è più sottolineato è il coraggio e la serenità del profeta: egli non sottrae il suo volto, addirittura presenta il dorso ai flagellatori, e non perde in nessun istante la fiducia nel suo Dio. È questa fiducia che lo rende coraggioso e forte: «per questo rendo la mia faccia dura come pietra» (Is 50,7c). Una fiducia possibile soltanto là dove c’è un quotidiano dialogo con Dio. Non è difficile passare da Isaia alla passione di Gesù, una storia che appare come un prodigio di coraggio, di fedeltà e di amore. La radice? Il Vangelo, sia pure con grande discrezione, ce la lascia intravedere ed è la medesima radice di cui ci ha parlato il profeta: la costante comunione col Padre, continuamente nutrita nella preghiera e nella meditazione delle Scritture. Di fronte alle persone venute «con spade e bastoni» (v. 55) per arrestarlo come un ladro, Gesù esclama: «Ma tutto questo è avvenuto perché si compissero le Scritture dei profeti!» (v. 56). E sulla croce recita un salmo (Sal 22), nel quale già si prefigurava il suo destino.

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Triduo pasquale, tempo di Pasqua e solennità del Signore nel tempo ordinario

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Giovedì santo

Li amò fino alla fine Es 12,1-8.11-14  ●  1Cor 11,23-26  ●  Gv 13,1-15

Con la messa in Coena Domini inizia il triduo della Pasqua del Signore. Il mistero pasquale viene ricordato nella sua dimensione celebrativa dall’apostolo Paolo, che ai cristiani di Corinto scrive come Gesù ha lasciato ai suoi discepoli, nel segno del pane spezzato e distribuito e del calice dato da bere, il dono di se stesso (cf. 1Cor 11,23-26). Questo gesto Gesù comanda ai suoi di «farlo» perché ciò che esso significa e contiene, il dono della sua vita, continui a rimanere presente per loro: «fate questo in memoria di me». L’apostolo afferma che: «Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (v. 26). Se Paolo racconta l’ultima Pasqua di Gesù, il gesto del pane e del vino, la prima lettura (cf. Es 12,1-8.1114) ci presenta le sue origini antiche, l’agnello pasquale di Israele. Il racconto dell’Esodo ci riporta all’evento storico della liberazione del popolo dall’Egitto (cf. v. 11). Il suo ricordo, però, non si esaurisce nel passato, ma è «un memoriale» (v. 14), che rende presente quanto accaduto, per cui è sempre un’esperienza di liberazione e di salvezza, anche se ci si trova in una situazione di difficoltà e oppressione, come lo erano gli ebrei in Egitto. E la Pasqua antica trova il suo compimento nel gesto di Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli, prima della sua morte in croce (cf. Gv 13,1-15). Per comprendere il significato di questa azione di Gesù, occorre partire dalle parole iniziali dell’evangelista: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò 63

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fino alla fine» (v. 1). Qui è riassunta tutta la vita di Gesù: l’amore per i discepoli fino a quel momento e da lì in poi, per il tratto di strada che rimane fino alla croce. Tutta l’esistenza di Gesù si può raccogliere nella categoria dell’amore. L’espressione «fino alla fine» indica la caratteristica di questo amore: la totalità, fino al massimo della perfezione. Gesù ama oltre ogni misura. Il gesto della lavanda dei piedi viene raccontato nei suoi minimi particolari (cf. vv. 4-5) per mettere in evidenza che non è soltanto un atto di umiltà. In realtà, come il testo lascia intuire, si tratta di un gesto di rivelazione per mostrare un significato più profondo e autentico. È un gesto rivoluzionario che rovescia i rapporti abituali tra maestro e discepoli, tra padrone e servi. Gesù stesso dice che ordinariamente il maestro è onorato, servito e tuttavia qui lui fa un gesto da schiavo. Con il suo gesto Gesù rende visibile la logica – di amore, di servizio, di dono – che ha guidato tutta la sua esistenza e che esprime la sua dignità e la sua filiazione divina. La lavanda dei piedi svela chi è Gesù, o per meglio dire, rivela la figura di Dio che egli è venuto a mostrare. È servendo e donandosi che il Cristo si rende disponibile nelle mani del Padre, divenendone l’immagine e la trasparenza: Dio è amore. È un gesto sconvolgente sul piano religioso perché ci comunica qualcosa del volto di Dio impensabile per i ragionamenti umani: Dio serve l’uomo. E la lavanda dei piedi mostra che il servire, non il potere né il comandare, è azione divina. Gesù ha chiara consapevolezza del senso di ciò che sta compiendo; non così i suoi discepoli. La reazione di Pietro denota una vera e propria incomprensione del gesto di Gesù (cf. vv. 6.8). Non è semplicemente il rifiuto di un gesto di umiltà da parte di Gesù, ma più profondamente della scelta del messia e Signore di abbassarsi e di farsi servitore. È un’incomprensione della via della croce, in linea con altri passi evangelici (cf. Mt 16,22; Mc 8,32). Pietro non comprende la croce, non 64

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comprende il modo di Gesù di rivelare se stesso. Lo riconosce come Messia e Signore, ma proprio per questo vorrebbe che Gesù percorresse una strada differente. Di fronte alla resistenza del discepolo, Gesù invita Pietro alla fiducia: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, lo capirai dopo» (v. 7). Oltre che rivelazione di Gesù, il gesto della lavanda è una lezione per i discepoli: «Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (v. 15). Il termine tradotto in italiano con «esempio» ha una connotazione visiva di immagine, tipo, modello da osservare. Gesù non presenta semplicemente questo «esempio», si potrebbe dire dimostrazione, come un modello esteriore da imitare, ma come un dono che genera il comportamento futuro dei discepoli. La comunità cristiana è invitata a intraprendere la strada del servizio. La grandezza della chiesa, come già quella di Cristo, si rivela nel servizio.

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Venerdì santo

Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto Is 52,13-53,12  ●  Eb 4,14-16; 5,7-9  ●  Gv 18,1-19,42

Il venerdì santo non è «semplicemente» il ricordo del tragico e doloroso evento della crocifissione, ma è e deve rimanere memoria di una morte che è pasquale, di una passione che è «beata». Il racconto della passione del Vangelo di Giovanni, senza venir meno alla dimensione storica e realistica, interpreta i fatti proprio alla luce di questa idea fondamentale: il crocifisso è il vero vincitore. Il Cristo regna dalla croce. È proprio attorno a questa convinzione di fede che sfida le apparenze sensibili, che l’evangelista racconta le ultime ore delle vita di Gesù. La passione di Gesù è la reazione del mondo alle sue parole, un netto rifiuto, ma è nel contempo la smentita dell’illusione del mondo: colui che il mondo rifiuta è il trionfatore. La passione prefigura e inizia la condanna di Gesù da parte del mondo, ma in realtà è il momento in cui avviene la sconfitta del mondo. Agli occhi degli uomini tutto sembra irrimediabilmente perduto – il momento della massima debolezza – eppure è il cammino glorioso verso il Padre. Nell’ampia scena del processo (cf. 18,33-38) Gesù è giudicato dagli uomini, ma in realtà è lui stesso che giudica il suo popolo ponendolo di fronte all’alternativa di obbedire o rifiutare. L’evangelista vede realizzarsi nella croce di Gesù il giudizio definitivo, salvezza per i discepoli e condanna per il mondo. «È compiuto!» esclama Gesù crocifisso (19,30). Il verbo, che ricorre tre volte, suggerisce l’idea di un per66

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corso che ha raggiunto il suo vertice. Compiuta è l’obbedienza di Gesù, compiuta è la Scrittura, compiuta è l’alleanza di Dio con l’uomo: oltre non si può andare. Vale la pena sottolineare come ai piedi della croce anche gli avversari riconoscono che Gesù è vissuto consegnandosi al Padre: «Ha confidato in Dio, lo liberi lui, ora, se gli vuol bene» (Mt 27,43). Se Gesù è morto «fidandosi» di Dio – anche in un momento in cui tutto parlava di abbandono – è perché ha vissuto fidandosi di lui; e se Gesù ha fatto della sua croce un dono è perché è sempre vissuto donandosi. Sulla croce Gesù non ha fatto niente di più di ciò che ha sempre fatto. È così che egli ha vissuto la sua morte in croce, come un compimento: «è compiuto». L’evangelista aggiunge: «consegnò lo spirito» (v. 30). Anche questo particolare va letto secondo una triplice dimensione. Gesù muore: è il fatto nella sua esteriorità. Gesù muore cosciente e consenziente; il verbo è infatti all’attivo, mostrando che Gesù fino all’ultimo ha l’iniziativa: è lui che china il capo e rende lo spirito. Infine, Gesù dona lo Spirito: Gesù conclude la sua opera in un atto di serena consapevolezza e nell’atteggiamento che gli è stato abituale lungo tutta la vita, il dono. Dio non può fare un gesto più grande di questo. Non può fare niente di più per rivelare il suo amore. È il massimo di chiarezza a coronamento della vita di Gesù. E infine l’episodio che rappresenta il punto focale verso cui tutto il racconto della crocifissione sembra convergere. L’evangelista narra che un soldato aprì con una lancia il costato di Gesù da cui uscì sangue e acqua (cf. v. 34). In questo gesto drammatico in realtà, secondo Giovanni, si compie un altro passo della Scrittura: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (v. 37, cf. Zc 12,10). Così la scena si trasfigura: appena morto Gesù dona sangue e acqua, un dono che deriva dalla sua morte e al tempo stesso ne indica il significato salvifico (per noi) e la permanenza («Volgeranno lo 67

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sguardo»). Il trafitto da contemplare è Gesù, con tutti questi significati: la persona, il gesto compiuto, il significato per noi di quel gesto. Nella successione degli eventi – la morte, la sepoltura e la risurrezione – l’evangelista inserisce la nostra scena, appunto, nella quale lo sguardo di tutte le generazioni si ferma sul trafitto. La morte è vinta dalla risurrezione, il Crocifisso è il glorioso, ma lo sguardo deve fermarsi sul trafitto, da cui sgorga l’acqua e il sangue. La croce, con i suoi doni, non va dimenticata. È la memoria fissa. L’evangelista invita tutti i credenti a guardare una persona («colui») e nel contempo un evento («che hanno trafitto»), un evento che conclude una storia iniziata così: «Il Logos si è fatto carne» (1,14). Un evento che si è dilatato nel tempo, quasi un punto che resta immobile e permanente (la memoria fissa), e tuttavia datato. Chi opera oggi è il Cristo risorto, il Cristo dello Spirito, dei sacramenti, della comunità, tuttavia il credente deve continuare a guardare il Cristo dal fianco trafitto. Si può dire che il trafitto, che dona il sangue e l’acqua, è il mistero dell’incarnazione nella sua massima trasparenza: è qui, infatti, che si vede tutta la concretezza dell’umanità di Cristo, la sua totale obbedienza al Padre, il suo amore giunto al limite estremo. È quando giunge a guardare il Cristo trafitto che il lettore del Vangelo comprende appieno il significato delle parole del prologo: «Il Logos si è fatto carne e abbiamo visto la sua gloria» (1,14). Qui si comprende il significato di «carne», perché ora vede non solo la piena e reale umanità del Logos, ma anche la precisa vicenda storica che ha vissuto. E qui comprende quale «gloria», cioè quale volto di Dio, i credenti scorgono nell’uomo Gesù e nella sua vicenda storica. Nel trafitto si contempla l’amore di Gesù per il Padre e per noi, e in questo amore di Gesù si contempla l’amore del Padre per noi, e nello stesso tempo si contempla anche l’uomo, la malvagità dell’uomo (che 68

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lo ha trafitto) e, nel contempo, l’amore misericordioso di Gesù (il quale, trafitto, dona la vita). È in questo amore misericordioso che l’uomo trova, nonostante il peccato, la propria dignità e la ragione per continuare a sperare. Il Cristo dal fianco trafitto, da cui scaturiscono il sangue e l’acqua, è il grande simbolo di Dio e del suo dono di salvezza, egli rende visibile l’invisibile.

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Veglia pasquale nella risurrezione del Signore

Gesù, il Crocifisso, è risorto Gen 1,1-2,2  ●  Gen 22,1-18  ●  Es 14,15-15,1 Is 54,5-14  ●  Is 55,1-11  ●  Bar 3,9-15.32-4,4 Ez 36,16-17a.18-28  ●  Rom 6,3-11  ●  Mt 28,1-10

Per antichissima tradizione questa è «la notte di veglia in onore del Signore» (Es 12,42), «la veglia madre di tutte le veglie». In questa notte il Signore «è passato» per salvare e liberare il suo popolo oppresso dalla schiavitù; in questa notte Cristo «è passato» alla vita vincendo la grande nemica dell’uomo, la morte; questa notte è memoriale del «passaggio» del credente in Dio attraverso i sacramenti pasquali, dall’uomo vecchio destinato alla morte, all’uomo nuovo destinato alla gloria. La liturgia della Parola della veglia pasquale con l’abbondanza delle sue letture proclama il compimento che tutta la storia della salvezza dell’Antico Testamento si realizza nella Pasqua del Signore Gesù. L’evangelista Matteo (cf. 28,1-10) racconta che le donne si recano, di primo mattino, a visitare il sepolcro e diversamente dagli altri Vangeli, non si limita a descrivere la pietra ribaltata, ma aggiunge che ci fu «un gran terremoto» (v. 2), e che un angelo del Signore («il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come la neve», v. 3) discese dal cielo. Sono aspetti simbolici che sullo sfondo di alcune immagini dell’Antico Testamento vogliono offrire un codice di lettura e schiudere il senso della risurrezione stessa: è l’evento che manifesta il giudizio di Dio, che segna la fine del vecchio mondo e l’inizio del nuovo; è il gesto ultimo e definitivo di salvezza che impegna gli uomini a una risposta di fede. 70

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Al di là di questi tratti iniziali, l’evangelista sottolinea soprattutto un fatto, che il Crocifisso è risorto. Sono le parole dell’angelo che danno l’annuncio, illuminando gli occhi delle donne incapaci da sole di comprendere: «So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto […], come aveva detto» (vv. 5-6). L’angelo, come si vede, non si limita ad affermare che il Cristo è risorto, ma attira l’attenzione sulla croce: la risurrezione è la vittoria della croce, ne svela il senso positivo e salvifico. Mantenere ferma l’identità tra il Crocifisso e il risorto è fondamentale. La via dell’amore percorsa con ostinazione da Gesù non è dunque stata vana: contrariamente al giudizio degli uomini, essa è la via che porta alla vita e costruisce il mondo nuovo. La risurrezione è un giudizio di Dio che capovolge le valutazioni degli uomini e nel quale si possono scorgere almeno due significati. Anzitutto Dio ha fatto risorgere proprio colui che gli uomini, a nome suo, hanno crocifisso. Questi hanno condannato Gesù, appendendolo alla croce, giudicandolo un falso messia, incapace di offrire salvezza: Dio approva Gesù di Nazaret e lo fa risorgere. Dunque Gesù aveva ragione, la risurrezione è la verità del Crocifisso. Insistendo sulla realtà della risurrezione (risurrezione del corpo e non solo dello spirito) il Vangelo intende non soltanto ribadire la realtà storica della risurrezione di Gesù, ma anche aprirci a una grande e concreta speranza, una speranza religiosa, perché ha il suo fondamento in Dio, nell’amore di Dio. Dio è fedele ed è il vivente, ha creato tutto per la vita, non per la morte. L’amore che è sembrato sconfitto sulla croce, in realtà, nel risorto, è vittorioso. In secondo luogo, la risurrezione di Gesù – verità della scelta della croce – è anche la verità dell’uomo, in quanto la croce non appartiene soltanto al cammino di Gesù, ma è anche, in senso molto reale, il simbolo della vita in generale, della nostra vita incamminata 71

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(sembra) verso la morte, sconfitta di fronte al peccato e alla violenza. È la risurrezione che permette di fare di questa vita – in apparenza segnata dalla vanità e dal peccato – una diversa lettura. Molte sono le esperienze che possono indurre l’uomo a perdere il senso dell’esistenza e smarrirsi. L’esperienza, ad esempio, di una vita che promette e non mantiene, l’esperienza della vanità e della stoltezza, del peccato e della violenza. Il mondo nuovo anziché avvicinarsi sembra allontanarsi, e la storia continua a essere in mano ai potenti e ai prepotenti. Ebbene, queste riflessioni portano ai piedi della croce, al momento in cui (nella vita di Gesù e nella nostra) l’amore sembra sconfitto dal peccato, la verità dalla menzogna, la vita dalla morte, la promessa di Dio dal suo apparente abbandono. Tuttavia dopo la croce c’è la risurrezione, e la risurrezione di Gesù mostra che il muro della vanità si è infranto. Naturalmente, non ogni vita infrange il muro della vanità, del non senso, ma solo quella che ripercorre il passaggio aperto da Gesù: la via dell’amore, della dedizione e della obbedienza a Dio. A Pasqua si celebra la vittoria di un preciso modo di vivere. L’uomo trova la sua verità. L’uomo che si apre alla fede nella risurrezione, vive la gioia di un’esistenza che ha trovato finalmente il suo fondamento e la sua ragione: quella in cui l’amore, che appare inutile, è invece la realtà che vince perché fondata sulla fedeltà dell’amore di Dio.

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Domenica di Pasqua

La lezione di Pasqua: un Dio imparziale At 10,34a.37-43  ●  Col 3,1-4  ●  Gv 20,1-9 Lc 24,13-35

L’episodio della corsa dei discepoli al sepolcro il mattino di Pasqua apre il racconto pasquale (cf. Gv 20,19). Maria si reca al sepolcro, lo vede aperto e pensa subito al trafugamento del cadavere. Ne è sicura e corre a portare la notizia ai discepoli. Pietro e il discepolo «che Gesù amava» corrono al sepolcro. Pietro entra per primo nel sepolcro e nota che le bende e il sudario, nei quali era avvolto il corpo di Gesù, non erano gettati per terra alla rinfusa, ma piegati con ordine: un indizio che già di per sé smentisce l’opinione di un frettoloso trafugamento del cadavere. A sua volta entra nel sepolcro anche il discepolo amato, «e vide e credette» (v. 8). È chiaro che l’evangelista attribuisce a questo discepolo amato un ruolo importante, ne mette in risalto la sicurezza, l’intuizione e la prontezza a discernere la traccia del Signore risorto. Lui solo ha compreso tutto il senso racchiuso nel sepolcro vuoto e nei panni piegati. La conclusione dell’episodio è perlomeno sorprendente: «Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (v. 9). Non soltanto dunque l’incomprensione di Maria e di Pietro, ma anche la fede del discepolo amato è in qualche modo rimproverata, quasi fosse ancora insufficiente, anch’egli infatti ha avuto bisogno di vedere per credere. Se avesse compreso le Scritture, non avrebbe avuto bisogno di vedere, dato che la Scrittura è essa 73

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stessa una sufficiente testimonianza della risurrezione. A questo punto viene alla mente la conclusione dell’intero capitolo 20 di Giovanni, quando Gesù si rivolge a Tommaso, dicendogli: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (v. 29). Tommaso avrebbe dovuto credere fidandosi della testimonianza degli altri apostoli, senza pretendere una personale visione. La vera beatitudine è riservata a chi crede senza pretendere di vedere, e questo è anche il caso nostro. Occorre passare dalla visione alla testimonianza: credente è ora chi, superato il dubbio e la pretesa di vedere, accetta la testimonianza autorevole di chi ha veduto. Nel tempo della chiesa, la visione non deve più essere pretesa: basta la testimonianza apostolica, come attesta il discorso di Pietro tratto dal libro degli Atti (cf. 10,34.37-43). Pietro racconta – per cenni rapidissimi – le tappe principali della vita di Cristo, dal battesimo di Giovanni alla croce e risurrezione. Una presentazione, dunque, dell’intero Vangelo, letto però e valutato alla luce della sua conclusione, che è appunto la risurrezione. Rileggendo l’intera vita di Gesù, soprattutto la sua passione e la sua morte, alla luce della risurrezione, allora tutto si rischiara e alcuni tratti prendono particolare rilievo. Pietro nel suo discorso ne sottolinea almeno tre. Il primo: «Noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti» (v. 41). Con questa annotazione l’apostolo vuole assicurarci che la risurrezione è un fatto reale, concreto, avvenuto e testimoniato. Non è un simbolo o una semplice speranza, Gesù ha vinto la morte ed è entrato nella vita con tutta la sua umanità, spirito e corpo. È una precisazione importante che dà valore alla interezza dell’uomo: non solo lo spirito, ma il corpo è chiamato da Dio alla vita. II secondo: «Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno» (vv. 74

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39-40). Fra il giudizio di Dio e il giudizio degli uomini c’è un netto contrasto. Le valutazioni di Dio sono capovolte rispetto a quelle degli uomini. Gli uomini hanno condannato Gesù, Dio invece lo ha approvato e lo ha fatto risorgere. L’apostolo sottolinea questo contrasto per indurre i suoi ascoltatori alla conversione. Occorre mutare i propri criteri di valutazione. C’è modo e modo di leggere le vicende, c’è modo e modo di valutare la storia. C’è una lettura mondana e c’è una lettura di fede. L’uomo convertito è colui che ha imparato a ragionare – vale a dire a valutare la propria vita e le vicende – secondo i criteri che sono racchiusi nella risurrezione di Gesù: ciò che è considerato stolto dagli uomini può essere saggio agli occhi di Dio, ciò che gli uomini rifiutano può essere proprio ciò che Dio cerca. Infine la terza sottolineatura: «Gesù passò beneficando e risanando tutti» (v. 38). Gesù ha detto e ha fatto molte cose, ma tutte furono dettate da un’unica ansia: fare del bene. Completamente dimentico di sé, è vissuto – dall’inizio alla fine – per Dio e per i fratelli. Questa è una vita che il mondo rifiuta e deride, e non raramente crocifigge, ma è quella che Dio approva. Gesù ha vinto la morte per sé e per noi, e questo è il fondamento della nostra gioia. Ma la sua risurrezione ci insegna anche che non tutte le strade portano alla vita: le strade dell’egoismo, della violenza e della menzogna non portano alla vita, ma come dice l’Apocalisse, conducono alla seconda morte. Soltanto la via percorsa da Gesù – la via della croce e dell’amore – porta alla vita.

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Introduzione al tempo di Pasqua

Il tempo liturgico che va dalla Pasqua alla Pentecoste è dominato dal Vangelo della risurrezione. Protagonista è il Cristo risorto. I brani proposti dalla liturgia intendono rispondere ad alcuni interrogativi: quale è il significato salvifico della risurrezione? Quali atteggiamenti concreti scaturiscono dalla fede nel Cristo risorto? Quali sono i doni del Cristo risorto, doni che la comunità cristiana deve accogliere e vivere, se vuole divenire segno di un mondo nuovo e di speranza? La prima lettura, invece, è una pagina del libro degli Atti degli Apostoli. Il filo conduttore è la novità di vita, e perciò la domanda pertinente che dobbiamo porre ai testi è questa: quali sono i tratti che caratterizzano la vita nuova che il Cristo morto e risorto ci dona? O in altre parole: che cosa significa morire e risorgere con Cristo, abbandonare l’uomo vecchio e vestirsi dell’uomo nuovo? Ecco, dunque, le domande che devono guidare la lettura proposta del Vangelo di Giovanni e del libro degli Atti in questo tempo pasquale.

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Seconda domenica di Pasqua

Essere cristiani oggi senza vergogna o paura At 2,42-47  ●  1Pt 1,3-9  ●  Gv 20,19-31

Il libro degli Atti degli Apostoli è l’unico libro di tutto il Nuovo Testamento che racconta espressamente la vita dei primi cristiani. Il filo conduttore è la novità di vita, e perciò la domanda pertinente da porre ai testi è questa: quali sono i tratti che caratterizzano la vita nuova che il Cristo morto e risorto ci dona? È una vita che si articola, come suggerisce la lettura proposta (cf. At 2,42-47), attorno a tre capisaldi fondamentali. Il primo è l’insegnamento degli apostoli, cioè l’ascolto della Parola: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli» (v. 42). Non c’è crescita cristiana, né alcun rinnovamento, senza un costante ascolto della parola del Signore. I cristiani di Gerusalemme erano «perseveranti», dunque non praticavano un ascolto episodico, frammentario, improvvisato, ma un ascolto costante, e sistematico, e soprattutto comunitario, cioè sotto la guida degli apostoli. Non dunque una ricerca individuale ma condotta insieme, corale, né una ricerca lasciata allo spirito dei singoli gruppi, ma sottomessa alle direttive dell’autorità degli apostoli. Queste le condizioni per un corretto ascolto della Parola, il quale esige impegno serio e continuato: la frammentarietà non porta a nulla, come non porta a nulla – ma addirittura disperde anziché edificare – una lettura che privilegi l’interpretazione personale a scapito dell’interpretazione della chiesa. Il secondo caposaldo della vita dei cristiani di Gerusalemme era l’assiduità nelle preghiere: «Ogni giorno 77

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erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case…» (v. 46). Anche qui il tratto messo in evidenza è la costanza: «ogni giorno». Questi primi cristiani si sentivano ancora legati al popolo d’Israele, alla sua liturgia e alle sue feste, e per questo frequentavano il tempio. Tuttavia la loro fede si esprimeva soprattutto nel celebrare l’eucaristia nelle case. Il testo non si dilunga su queste celebrazioni, ne sottolinea però la semplicità e la gioia, lasciandoci capire che si trattava di celebrazioni ricche non soltanto di fede, ma anche di fraternità e di calore umano. Infine – fra l’ascolto della Parola e la preghiera – particolare attenzione era riservata alla comunione fraterna. Non era una fraternità che si riduceva ai momenti assembleari o cultuali, ma una fraternità che si estendeva a tutta la vita e coinvolgeva i rapporti quotidiani. Una comunione concreta, globale, nell’esistenza. Non solamente un rapporto spirituale, né una semplice (anche se fondamentale) comunione nella fede, ma un rapporto di reciproco aiuto, di vera e propria condivisione, a tutti i livelli: «Vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti» (v. 45). Questi primi cristiani non rinunciavano ai loro beni per desiderio di essere poveri, ma perché volevano vivere la fraternità: l’ideale è la fraternità, non la povertà. Ascolto costante della Parola, perseveranza nella preghiera e sforzo di fraternità quotidiana, ecco dunque alcuni tratti che caratterizzano la comunità degli uomini che hanno fatto Pasqua, degli uomini cioè che sono passati (Pasqua significa appunto «passaggio») da un modo vecchio a un modo nuovo di vivere. Il Vangelo di Giovanni (cf. 20,19-31) ci suggerisce un quarto segno del rinnovamento: il passaggio dalla paura alla gioia e al coraggio. Il racconto ci presenta dapprima i discepoli in preda alla paura («per paura dei giudei le porte del luogo dove si trovavano erano chiuse»), poi ce li mostra pieni di gioia e di slancio. 78

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Il motivo della paura non è nuovo per il quarto Vangelo. C’è la paura della folla che non osa parlare in pubblico di Gesù («nessuno però parlava di lui in pubblico, per paura dei giudei», 7,13). C’è la paura dei parenti del cieco nato di fronte all’autorità (cf. 9,22). C’è la paura dei notabili che, temendo di essere espulsi dalla sinagoga, non osano dichiararsi dalla parte di Gesù (cf. 12,42). È una paura di cui il mondo approfitta, sulla quale fa leva, per ricattare i discepoli e farli tacere, per impedire alla luce di farsi strada. Ed è una paura – va detto chiaramente – che trova complicità nel cuore stesso del discepolo, spesso troppo desideroso della stima del mondo ed eccessivamente preoccupato di sé. È una paura conosciuta dalla comunità di Giovanni, combattuta com’era dalla sinagoga e dall’ostilità del mondo. Ed è una paura che molti cristiani di oggi, per un motivo o per l’altro, continuano ad avere. È una paura che rende ciechi ed esitanti. La fede nel Cristo risorto vince la paura, condizione indispensabile per aprirsi al dono della gioia e della pace. Esse sono donate soltanto all’uomo che ha infranto l’attaccamento a se stesso e quindi non è più ricattabile dal mondo. La pace e la gioia – doni del Cristo risorto – fioriscono soltanto nella libertà e nel dono di sé, senza nessun «rispetto umano». Far Pasqua significa vincere la paura, liberare il proprio cuore dal timore del mondo e da tutti i suoi ricatti. Un miracolo che soltanto il Cristo risorto può compiere: la vittoria sulla paura, e cioè il coraggio della verità, della fedeltà al Vangelo, della testimonianza, è dono e segno della sua presenza.

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Terza domenica di Pasqua

E la luce venne verso Emmaus At 2,14a.22-33  ●  1Pt 1,17-21  ● Lc 24,13-35

L’evangelista Luca – che spesso si rivela un fine narratore – ha costruito il racconto dei discepoli di Emmaus attorno alle immagini del «cammino». L’immagine è suggerita con insistenza: dapprima un cammino che allontana da Gerusalemme, dagli avvenimenti della passione e dal ricordo di Gesù, potremmo dire un cammino dalla speranza alla delusione («speravamo», v. 21), un cammino carico di tristezza («si fermarono col volto triste», v. 17); ma poi, dopo l’incontro con la parola del Signore, un cammino di ritorno, dalla delusione alla speranza («Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme», v. 33). L’inversione di marcia è dovuta alla nuova lettura degli eventi che lo sconosciuto ha loro suggerito. Gli eventi sono rimasti quelli di prima – la croce e il sepolcro vuoto – ma ora sono letti diversamente, con occhi nuovi. L’immagine del cammino si presta molto bene a illustrare i due interrogativi che l’evangelista ci propone: come riconoscere il Signore nel nostro cammino quotidiano? E come valutare gli eventi che troppo spesso sembrano contraddire ogni speranza? Per riconoscere il Signore e per ritrovare la speranza anche là dove sembra smentita – dice Luca – occorre una chiave di lettura che l’uomo non sa trovare da solo, ma che viene dalle Scritture ed è dono di Dio: «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture» (v. 27). La luce che illumina gli avvenimenti è dono di Dio ma esige disponibilità. I due discepoli si allontanavano da Gerusalemme e dalla speranza però, come annota 80

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l’evangelista, stavano «insieme» e camminavano «pensosi», discorrendo fra loro non di cose futili, ma di «tutto quello che era accaduto» (v. 14), di Gesù di Nazaret e della liberazione di Israele. Sono le condizioni perché la parola di Dio possa illuminare. Essa è infatti la luce che solo gli uomini che cercano – uomini pensosi e preoccupati della sorte del mondo (e non soltanto della propria) e che fra loro sanno discorrere dei veri problemi – possono trovare. A uomini frastornati o rinchiusi in problemi marginali la parola di Dio ha ben poco da dire. L’incomprensione dei discepoli è in due direzioni: innanzitutto il Signore cammina con loro e non lo riconoscono, e in secondo luogo l’avvenimento della croce è da loro interpretato come un fallimento. Quanto alla prima incomprensione, Luca insegna che la presenza di Dio è reale, vicina, ma è come velata, e solo gli occhi della fede sanno scoprirla: il Signore si fa presente nella «frazione del pane» (è appunto lì che i due discepoli lo riconoscono), nella comunità radunata nel suo nome, negli emarginati da accogliere, nei bisognosi da aiutare, nella parola dell’apostolo che interpella. Rispetto alla seconda mancanza di comprensione, si deve dire che il discorso è ancora più importante e ricco di conseguenze. Alla luce delle Scritture e della risurrezione, il discepolo deve capire che la via dell’amore percorsa da Gesù non è fallimentare. Contrariamente al modo di pensare degli uomini, che gli stessi discepoli troppo spesso condividono, la strada del Cristo è la sola che porta alla vita e costruisce un mondo nuovo. Certo, gli uomini hanno condannato Gesù appendendolo alla croce, ritenendolo un falso messia incapace di dare salvezza ma Dio lo ha fatto risorgere. Ci sono dunque due modi di valutare la via del Cristo, il modo degli uomini e quello di Dio. E ci sono, analogamente, due modi di leggere la storia e valutarla: vista in superficie, con occhi privi di fede, essa è in mano ai potenti e ai prepotenti; vista in profondità, con gli occhi della fede, 81

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essa è nelle mani di Dio e del suo amore. Non Pilato, non i capi giudei, ma il Crocifisso è costruttore di storia. Capire la morte e risurrezione di Gesù significa comprendere questo giudizio di Dio. Naturalmente il cristiano non deve accontentarsi di valutare la storia in modo diverso, con occhi nuovi; in tutto questo è racchiuso un impegno preciso: sapendo come stanno le cose, il cristiano deve decidere da che parte mettersi per poter essere un vero costruttore del regno di Dio. Dopo averci detto che la realtà da leggere con occhi nuovi è la presenza del Signore sul nostro cammino e il mistero della croce, Luca aggiunge che a questa nuova comprensione della vita è legato il dono della gioia. Questo discorso sulla gioia cristiana a prima vista può suonare strano. La gioia è possibile soltanto nella libertà, nella pace e nella fraternità. Ma dove sono oggi la libertà e la pace? Come si può gioire in un mondo pieno di contraddizione e di violenza, in una storia carica di ingiustizie? Siamo forse invitati a evadere dalle nostre situazioni e a consolarci dimenticandole? Certamente no. La gioia cristiana non nasce dall’evasione ma dal contrario, nasce dalla fiducia in un impegno sostenuto da Dio. Il discepolo avverte la drammaticità della storia, l’urgenza dell’impegno, sente il peso della tentazione e conosce il rischio e la fragilità della libertà. Per questo il credente è serio, e la storia ha bisogno di uomini seri e pensosi. Ma il discepolo sa anche che il Signore è risorto, che la morte è riscattata, che la carta vincente è quella di Dio (non dunque la prepotenza e la violenza, ma l’amore), che la nostra stessa libertà è nelle mani di Dio, che la salvezza viene da Dio. Per tutto questo il discepolo è sereno. Serio e sereno. Da qui deriva il coraggio di annunciare Cristo apertamente a tutti, come racconta la prima lettura (cf. At 2,14.22-33). «Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò a loro» (v. 14): l’apostolo parla ad alta voce, in 82

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pubblico e richiama l’attenzione di tutti. Di Cristo non si parla a bassa voce ma con voce alta e chiara. Nella società palestinese del tempo non mancavano certo conflitti culturali, sociali e politici, e molte cose (noi oggi parleremmo di «strutture»), sia religiose che politiche, dovevano essere cambiate. Tuttavia Pietro sembra concentrarsi su un unico punto, il più essenziale, la radice di ogni altra eventuale presa di posizione: parlare di Cristo, della sua morte e della sua risurrezione, e del progetto di vita che egli ha indicato. Si parla dunque subito di Gesù e del suo messaggio: il resto verrà dopo. E c’è una chiara insistenza in questo discorso: proprio Gesù nazareno, il Crocifisso, è risorto («Voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte» (vv. 23-24). È questo un tratto abituale della predicazione apostolica che ha lo scopo di sottolineare un contrasto: da una parte i giudei che hanno rifiutato Gesù di Nazaret, ritenendolo abbandonato da Dio; dall’altra, il giudizio di Dio che ha esaltato Gesù e lo ha riscattato dalla morte. Dunque un contrasto profondo tra il giudizio dell’uomo e il giudizio di Dio. Un tale contrasto è sottolineato per mostrare tutta la cecità insita nella mentalità dell’uomo e per indicare di quale radicale cambiamento esso abbia bisogno. È questo il cambiamento che è urgente compiere.

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Quarta domenica di Pasqua

Credere a Cristo è anche credere alla chiesa At 2,14a.36-41  ●  1Pt 2,20b-25  ●  Gv 10,1-10

Il Vangelo racconta una parabola (cf. Gv 10,1-10) che si muove su uno sfondo familiare alla vita palestinese: a sera i pastori conducono il gregge in un recinto per la notte (un solo recinto serve per diversi greggi) e al mattino ciascun pastore grida il suo richiamo e le sue pecore – che conoscono la voce del proprio pastore – lo seguono. Narrando questa scena familiare Gesù sottolinea anzitutto che egli è il vero pastore perché, a differenza del mercenario, non viene a rubare le pecore ma a donare la vita. Il falso pastore pensa a se stesso e sfrutta le pecore, il vero pastore invece pensa alle pecore e dona se stesso. La caratteristica del vero pastore è dunque il dono di sé. C’è anche una seconda riflessione: Gesù è la porta dell’ovile. E questo assume due significati: uno in direzione dei capi e l’altro in riferimento ai discepoli! Gesù è la porta per la quale si deve passare per essere legittimi pastori: nessuno può avere autorità sulla chiesa se non legittimato da Gesù. E, secondo, nessuno è discepolo se non passa attraverso Gesù ed entra nella sua comunità. Come si vede, Gesù è al centro sia dell’autorità che in suo nome governa, sia dei fedeli che in comunione con lui possono appartenere veramente al popolo di Dio. La parabola, tuttavia, non descrive soltanto la figura del pastore e dell’apostolo, ma delinea anche il comportamento delle pecore. E qui si affaccia un terzo 84

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tema: la sequela. La sequela è frutto di una chiamata («Egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome», v. 3); implica un’appartenenza (le pecore sono sue) e si esige un ascolto («ascoltano la sua voce», v. 3). Chiamata, appartenenza e ascolto costituiscono i tratti della comunità, che cammina insieme con Gesù. Naturalmente tutto questo richiede il netto rifiuto di ogni altro pastore, e di ogni altro maestro («un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui», v. 5). Alla dimensione comunitaria, ben richiamata nelle immagini dell’ovile e del gregge, si associa il grande discorso di Pietro pronunciato il giorno di Pentecoste: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At, 2,36). Tutto parte da qui. Ne seguirebbe che l’apostolo non abbia altro da dire. È convinto che si tratti di una notizia certa, fondata, di eccezionale importanza per tutti: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele» (v. 36). E giustamente: che la croce porti alla risurrezione, la morte alla vita, la sofferenza alla gloria è proprio ciò che gli uomini desideravano sapere ma che neppure osavano sperare. È una notizia che cambia senso alla vita intera. Il dolore, la fatica, l’insoddisfazione che ci prende nel profondo e ci costringe, giorno dopo giorno, a cercare sempre qualcosa di nuovo, la stessa morte, tutto viene come trasfigurato. Persino il peccato – che tanta parte ha nella nostra esistenza e che sembra dominare incontrastato – viene ora considerato in modo diverso, non è più vittorioso ma sconfitto. Se si guarda con attenzione all’affermazione di Pietro questo lo si comprende chiaramente. Ponendoci davanti agli occhi «quel Gesù che noi abbiamo crocifisso», l’apostolo intende farci prendere coscienza del mistero della malvagità umana (espressione che troviamo qualche riga più avanti: «questa generazione perversa»), malvagità che appendendo alla croce «quel Gesù» ha raggiunto per così dire il suo vertice. Non abbiamo esi85

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tato a condannare alla morte più infame il più giusto degli uomini. È storia di sempre, è la nostra storia. Nell’affermazione di Pietro è racchiusa anche l’altra faccia della storia: quel Gesù che abbiamo crocifisso è morto per noi, alla nostra cattiveria ha contrapposto il suo amore, al nostro rifiuto la sua solidarietà e da questo confronto è uscito vincitore: «Dio lo ha fatto Signore e Cristo» (v. 36). Non è pensabile una notizia più lieta di questa, e giustamente Pietro la annuncia ad alta voce, pubblicamente: la malvagità resiste ed è grande, tentare di negarla, anche solo di sminuirla, sarebbe menzogna, ma è possibile vincerla e Dio l’ha già vinta. Il racconto prosegue affermando che al sentire queste parole gli ascoltatori «si sentirono trafiggere il cuore» (v. 37). Come si sa, nel linguaggio biblico il cuore non è semplicemente la sede dei sentimenti, degli affetti e dell’amore, ma il nucleo più profondo di noi stessi, il luogo segreto dove avvengono le riflessioni più personali, dove si prendono le decisioni che toccano più da vicino, dove nasce l’odio o l’amore, la scelta della verità o della menzogna. Le parole di Pietro raggiungono dunque questo nucleo segreto e profondo degli ascoltatori, sconvolgendolo. Quando la verità raggiunge nell’intimo, ci si accorge che il modo di pensare e di vivere è abituale è sbagliato, se ne prova un dispiacere sincero e si desidera cambiare. Essere «trafitti nel cuore» significa tutto questo. Di qui la domanda: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (v. 37). E la risposta: cambiare pensieri e ragionamenti – questo è il significato del primo imperativo: «convertitevi» –, farsi battezzare nel nome di Gesù (cioè credere nella morte e risurrezione del Signore e percorrere, a nostra volta, la via della croce), non avere più nulla da spartire con la mentalità mondana («Salvatevi da questa generazione perversa!», v. 40). Ma la risposta di Pietro non consiste soltanto di una serie di imperativi, è anche una promessa: «Riceverete il dono 86

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dello Spirito Santo» (v. 38). Senza questo dono dello Spirito il programma di rinnovamento resterebbe lettera morta e la nostra debolezza continuerebbe ad avere il sopravvento. La conclusione contiene un’altra interessante precisazione: «quel giorno furono aggiunte circa tremila persone» (v. 41). Convertirsi concretamente non significa altro che questo: entrare a far parte di una comunità di fede. Come Gesù non ha indicato semplicemente una serie di principi, e non si è accontentato di invitare a una generica conversione, ma ha chiamato i discepoli a condividere la strada che egli stesso stava percorrendo, così i primi missionari non si limitano ad annunciare le esigenze del cambiamento offrendo semplicemente una nuova serie di criteri orientativi, ma, più concretamente ed efficacemente, invitano gli ascoltatori a entrare a far parte del cammino della comunità, che in alcuni passi degli Atti degli Apostoli è chiamata, appunto, la via.

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Quinta domenica di Pasqua

Spontaneismo e comunità: la scelta degli apostoli At 6,1-7  ●  1Pt 2,4-9  ●  Gv 14,1-12

Il brano degli Atti degli Apostoli (cf. At 6,1-7) ci offre alcune importati precisazioni sulla vita della primitiva comunità di Gerusalemme. Innanzitutto, come si ricava dall’espressione «servire alle mense» (v. 2), i primi cristiani passarono molto presto da una forma spontanea di reciproco aiuto a una forma istituzionale e organizzata. E questo è molto importante perché se è vero che la radice degli atteggiamenti cristiani si trova all’interno dell’uomo, è altrettanto vero che da quella radice scaturisce l’esigenza di prendere sul serio l’organizzazione. Lo spontaneismo non è il segno di una profonda e autentica conversione. Ogni forma organizzativa deve mantenere vivo il contatto con la radice interiore che l’ha generata, e continuamente rinnovarsi nell’incontro con lo Spirito, ma Spirito e struttura, vivacità interiore e organizzazione, non si oppongono, al contrario, si esigono vicendevolmente. L’autentico amore nasce dal cuore, è un atto profondamente libero, sempre nuovo; tuttavia, perché l’amore sia autentico si richiede costanza, sistematicità, organizzazione. Una seconda precisazione: la fraternità deve formarsi anche là dove origine, mentalità, cultura e provenienza sono differenti. Non tutto era ideale nella comunità di Gerusalemme, anche i primi cristiani hanno incontrato tentazioni e delusioni. Per esempio, la tentazione della omogeneità: ci si illude di fare comunione nella fede e in Cristo, mentre in realtà si è uniti perché si appartiene 88

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alla stessa razza, si proviene dalla stessa educazione, si ha la stessa mentalità. Questo accadde anche ai cristiani di Gerusalemme; infatti, quando entrarono a far parte della comunità gli ellenisti (ebrei provenienti dall’emigrazione, con mentalità diversa) nacquero i primi attriti: «quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica» (v. 1). Un fatto molto normale, e tuttavia è proprio qui che si verifica se la comunione è veramente da cristiano o no. E giungiamo così alla terza precisazione. Gli apostoli di fronte al malcontento serpeggiante affidano l’organizzazione caritativa a sette persone di fiducia, ma si riservano il compito prioritario dell’annuncio della Parola e la preghiera. Questa scelta non è soltanto affermazione della superiorità dell’evangelizzazione e della preghiera, ma è la vera strada per risolvere la divisione. L’unità infatti è un dono di Dio, frutto della fede e della conversione. Scegliendo l’annuncio della Parola e la preghiera i dodici non si pongono alla periferia del problema, ma vanno dritti al suo centro. Inventare una struttura adatta per risolvere un conflitto è importante, ma il vero problema è un altro. La comunione è una continua vittoria di Cristo sulla divisione sempre in agguato, è un continuo miracolo. Il peccato approfitta anche di elementi normali, quali appunto la diversità di espressione culturale, di temperamento, di interessi razziali e nazionali, di condizioni sociali. La divisione non sta in queste differenze, che sono appunto normali, ma nello spirito partigiano che ne approfitta. La comunione non consiste nel sopprimerle ma nell’eliminare lo spirito partigiano. Ecco perché per costruire la comunione occorre l’ascolto della Parola e la preghiera. Il brano evangelico (cf. Gv 14,1-12) tratto dal discorso pronunciato da Gesù nell’ultima cena, sembra muoversi in una prospettiva completamente diversa da quella descritta precedentemente, ma non è del tutto così. «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in 89

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Dio e abbiate fede anche in me» (v. 1), sono le sue prime parole. Gesù intende infondere fiducia e coraggio ai suoi discepoli che «restano» nel mondo. Il Vangelo conosce soltanto un mezzo attraverso il quale il cuore dell’uomo può veramente difendersi dalla paura: la fede. Soltanto Dio è la roccia, le altre sicurezze deludono e creano affanno. La fede ci assicura che il Signore non ci lascia soli («Verrò di nuovo e vi prenderò con me», v. 3). Ci promette anche che molte cose all’apparenza umanamente impossibili sono invece possibili («Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio», v. 12). Soprattutto ci garantisce che ora l’uomo non è più al buio in una situazione senza sbocchi, ma ha davanti ben chiara la strada da percorrere: «Io sono la via, la verità e la vita», (v. 6). Dunque Gesù è la via che conduce al Padre, la via che l’uomo deve percorrere se non vuole smarrirsi. È qui che Vangelo e prima lettura si incontrano: la via da percorrere è la via che Cristo ha percorso, la via da intraprendere è il cammino della comunità che nasce attorno alla sua Parola.

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Sesta domenica di Pasqua

Il tempo della chiesa: tempo di prove e conflitti At 8,5-8.14-17  ●  1Pt 3,15-18  ●  Gv 14,15-21

Il racconto di Filippo e della sua missione in Samaria è preceduto da un’annotazione interessante: «Scoppiò una violenta persecuzione contro la chiesa di Gerusalemme» (At 8,1). Non è una coincidenza secondaria e il legame fra persecuzione e diffusione del Vangelo non è puramente esteriore, è invece un legame profondo. Secondo il racconto degli Atti il conflitto non fa parte di un momento passeggero della storia della chiesa, ma l’accompagna sempre: il tempo della chiesa è tempo di gioia e consolazione derivanti dalla presenza dello Spirito (cf. At 9,31), ma è ugualmente occasione di tentazione, sofferenza e persecuzione. È la via del Cristo che continua. La missione di Filippo in Samaria ci mostra come la chiesa stia fedelmente camminando sulla strada tracciata dallo stesso Gesù: «e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). Il Cristo ha indicato alla sua chiesa un cammino, non una città in cui sistemarsi stabilmente e comodamente. Filippo è dunque l’artefice di una tappa importante del cammino della comunità: per la prima volta si esce dai propri confini territoriali e culturali e si porta il Vangelo a gente ritenuta esclusa e diversa, i samaritani appunto, che i giudei disprezzavano e consideravano alla stregua degli infedeli. In seguito alla persecuzione, i cristiani si disperdono, emigrano e sorgono nuove comunità. Chi credeva con la persecuzione di far cessare il cristianesimo, si è sba91

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gliato totalmente. Nascono comunità nuove, che non si considerano staccate e indipendenti, si intrecciano visite, riconoscimenti, scambi. E questa è una terza annotazione importante. Non basta essere in comunione all’interno della propria comunità, o del proprio gruppo, della propria associazione. La comunione è come un fiume inarrestabile che rompe tutti gli argini. La novità evangelica e la presenza dello Spirito esigono che la comunione si realizzi anche fra le diverse comunità, fra gruppo e gruppo, fra associazione e associazione. La chiesa di Gerusalemme si sente responsabile della comunità di Samaria fondata da Filippo, e invia Giovanni e Paolo. Un invio ufficiale, che evidenzia un ultimo aspetto, il ruolo insostituibile degli apostoli. Senza di loro la comunità è ancora incompleta: sono loro, infatti, che portano a termine l’opera Filippo («imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo», v. 17). Non c’è vera comunità cristiana senza la presenza dell’apostolo. Il brano evangelico con le ultime parole di Gesù ai discepoli (cf. Gv 14,15-21) svolge – sia pur con espressioni molto diverse – sostanzialmente lo stesso tema del racconto di Atti, delinea cioè le caratteristiche del vero discepolo. Si concentra però su un unico punto: l’amore. Si tratta di un amore concreto e fattivo. Amare Dio significa infatti osservare i comandamenti che poi – come dirà altrove Gesù – si riducono a uno: l’amore fraterno. È unicamente nell’esperienza dell’amore fraterno che ci si accorge del dono dello Spirito e del ritorno del Signore. Una frase della prima lettera di Giovanni è in proposito esplicita: «Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni e gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi» (4,12). È nell’amore fraterno che si fa esperienza di Dio. Ecco perché nella nostra vita il dono dello Spirito e il ritorno del Signore continuano a essere una realtà remota, non ci amiamo gli uni gli altri. 92

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Il brano è pure percorso da una netta opposizione fra i discepoli e il mondo. Gesù si manifesta ai discepoli ma non al mondo («Il mondo non mi vedrà più, voi invece mi rivedrete», v.19); i discepoli possiedono lo Spirito, il mondo no («Il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete», v. 17). Stando a queste parole, il mondo è totalmente incapace di accogliere lo Spirito, non lo vede e non lo riconosce. Eppure le manifestazioni dello Spirito, come già prima le parole e i gesti di Gesù, sono sotto gli occhi di tutti, sono reali, storiche e riscontrabili. Ma il mondo è distratto, i suoi interessi sono altrove, e non vede. O se è costretto a vedere, interpreta diversamente. Al mondo manca la luce (non perché non gli sia offerta ma perché la rifiuta) per riconoscere lo Spirito, e la luce – come si accennava – è l’amore. A questo punto però, dopo aver tanto sottolineato l’opposizione fra i discepoli e il mondo, ci accorgiamo che il confine fra i due non è netto. La linea del mondo passa anche all’interno della comunità e nel nostro stesso cuore, perché il mondo non è un luogo, ma una logica.

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Ascensione del Signore

La parola ora passa al credente At 1,1-11  ●  Ef 1,17-23  ●  Mt 28,16-20

L’ascensione è il termine della «via» di Gesù: attraverso la croce e la risurrezione egli è ritornato al Padre, il suo cammino terreno è finito. Ma l’ascensione è anche l’inizio di un nuovo cammino fra gli uomini: il cammino della chiesa che continua quello di Cristo. È in questa seconda prospettiva che leggiamo il racconto degli Atti (cf. 1,1-11). Una sola riga per raccontare il fatto della partenza di Gesù. Non c’è alcun cedimento alla curiosità e il mistero di Dio resta intatto: si dice semplicemente che «fu elevato in alto» (v. 9), e questo significa che il cammino terrestre di Gesù termina là dove è iniziato, nella comunione col Padre. E si aggiunge che «una nube lo sottrasse ai loro occhi» (v. 9), per esprimere che è finito il tempo della sua presenza visibile. Il racconto, dunque, riassume il fatto in una sola riga ma si dilunga sul prima e sul dopo, attirando l’attenzione, più che sull’ascensione in se stessa, sugli atteggiamenti che i discepoli hanno assunto nei suoi confronti. Due atteggiamenti sbagliati: prima della partenza di Gesù sono curiosi di conoscere «i tempi e i momenti» del regno di Dio; dopo la sua scomparsa stanno a guardare il cielo. Il primo atteggiamento è rimproverato da Gesù, il secondo dagli angeli. Gesù è ancora una volta costretto a correggere le idee dei suoi discepoli, a raddrizzare le loro speranze e le loro domande. «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (v. 6), gli chiedono i discepoli. La sua risposta – le sue ultime parole prima di la94

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sciarli – è per metà rimprovero e per metà programma. Rimprovero, perché la domanda si preoccupa di ciò che è secondario e trascura l’essenziale, come spesso succede agli uomini. L’importante non è indagare sul «quando», che peraltro è un segreto di Dio e tale resta, ma chiedersi che cosa fare nel frattempo, in che direzione muoversi, quali compiti assumere. Questo è il punto su cui i discepoli dovrebbero concentrare la loro attenzione, e non cercare invece di penetrare i segreti di Dio, ponendosi domande oziose o impossibili. E poi la domanda è ancora legata a vecchie concezioni: i discepoli pensano a una restaurazione di Israele e non hanno capito che il regno di cui Gesù ha parlato è diverso, e sembrano supporre che il compito sia solo di Dio, mentre è anche loro. E sono impazienti di vedere subito i frutti, di vedere subito il trionfo e il successo, mentre i tempi di Dio sono lunghi e richiedono pazienza. Insomma, i discepoli si chiedono: «Che cosa farà Dio? Quando lo farà?». E invece dovrebbero chiedersi: «Che cosa dobbiamo fare noi?». È questa la domanda che Gesù avrebbe voluto sentirsi rivolgere, e in ogni caso è a questa domanda non formulata che egli risponde: «di me sarete testimoni» (v. 8). Partito Gesù, i discepoli restano a guardare il cielo, e anche questo atteggiamento è rimproverato: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» (v. 11). Il discepolo, che ha visto Gesù salire verso il Padre, possiede una speranza («questo Gesù tornerà») e con questa speranza deve reinserirsi fra la gente, impegnarsi in terra, fra gli uomini. Nessuna evasione gli è permessa, il suo compito è di essere «testimone», parola assai ricca di impegni e di risonanze. Testimone è colui che annuncia un messaggio del quale è pienamente convinto e per il quale è pronto a pagare di persona. Testimone è chi vive in se stesso ciò che annuncia, e vivendolo lo esemplifica e lo rende 95

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credibile. Testimone è, ancora, colui che non soltanto esprime la propria fede, ma ne indica le prove e le ragioni: non solo manifesta ciò che crede, ma anche perché lo crede. C’è chi parla in privato, di nascosto, soltanto fra amici. Il testimone di Gesù parla invece in pubblico, di fronte a chiunque e dovunque: la corsa della testimonianza va da Gerusalemme al mondo. In questa prospettiva si inserisce la conclusione del Vangelo di Matteo (cf. 28,16-20), che non parla espressamente della salita di Gesù al cielo (questo fatto è semplicemente supposto), ma più esplicitamente della missione che egli ha affidato ai discepoli («andate e fate discepoli tutti i popoli», v. 19) e della sua solenne promessa di restare sempre fra noi («ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo», v. 20). Fare discepoli tutti i popoli non significa, necessariamente, che tutti debbano convertirsi. Ciò che importa è che il popolo di Dio sia fra «tutti i popoli», magari una minoranza ma fra tutte le genti. E non si dimentichi che il termine «discepolo» definisce in modo corretto e sintetico l’esistenza cristiana. Il cristiano è un discepolo. Non si tratta di offrire un messaggio, ma di istaurare una stretta relazione con il Cristo: una relazione personale e di sequela per condividere il suo progetto di vita. L’ultima frase, poi, è sorprendente: il Signore risorto non è partito, ma è venuto («sono con voi tutti i giorni»)! Si direbbe, dunque, un Vangelo poco adatto a commentare la festa che si celebra. E invece è proprio il contrario: Gesù infatti è salito al cielo non per dirci che non è più fra noi, ma per dirci che sono cambiate le modalità della sua presenza: a una presenza terrestre, visibile, circoscritta nel tempo e nello spazio, subentra una presenza nello Spirito, nella Parola, negli apostoli, nei fratelli, nei sacramenti. Ed è salito al cielo non per dirci che la sua missione è finita, ma per dirci che ora tocca a noi continuarla. 96

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Domenica di Pentecoste

Ricevete lo Spirito Santo At 2,1-11  ●  1Cor 12,3b-7.12-13  ●  Gv 20,19-23

A Pentecoste – il giorno in cui gli ebrei ricordavano gli avvenimenti del Sinai e il dono della legge – lo Spirito di Dio scende sul gruppo dei discepoli, radunati in preghiera, e li trasforma in una comunità universale e missionaria (cf. At 2,1-11). Un gruppo di discepoli paurosi, al riparo, preoccupati di sé e della propria incolumità, vengono trasformati in uomini coraggiosi e universali, dimentichi di sé e interamente protesi verso il compito di annunciare il Cristo al mondo intero. Lo Spirito è insofferente di chiusure e di particolarismi, quando raggiunge una comunità la spalanca e la mette in cammino. Non un cammino qualsiasi però, ma un cammino che si qualifica per alcune caratteristiche. La piccola comunità si apre per costruire una comunità più grande, i discepoli si perdono per radunare tutti gli uomini. Il cammino dello Spirito punta decisamente in direzione della comunione. Si tratta di una unità che è tutto il contrario di quella di Babele: là un tentativo di unione fondata sulla costrizione e sulla forza; qui una riunione nello Spirito, nella libertà e nell’amore, nel consenso, attorno alla Parola di Dio. Infine non si trascuri l’annotazione: «Ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (v. 6). Lo Spirito è rispettoso della lingua dei popoli, della loro cultura, dei loro costumi: non c’è una lingua dello Spirito, che tutti sono costretti a imparare abbandonando la loro, a significare che lo Spirito rispetta tutte le culture e non si lega a nessuna di esse, tutte però le purifica e le converte. Lo Spirito è, dunque, rinnovatore e al suo contatto l’intera rete delle relazioni e dei rapporti – che costitui­ 97

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scono l’intelaiatura della nostra vita – si trasforma. Lo Spirito è portatore di novità e di rottura nei confronti del mondo, dell’uomo lasciato a se stesso, prigioniero delle sue meschinità e delle sue chiusure. Ma è portatore di novità e di rottura anche nei confronti di una religiosità che ha smarrito la centralità dell’amore e di conseguenza è invecchiata, abitudinaria e priva di slancio. L’apostolo Paolo, nella sua prima lettera ai Corinti (12,3-7.12-13), ci fa riflettere in un’altra direzione: non più il rapporto chiesa-mondo, ma i rapporti interni, tra singolo e singolo, e tra gruppo e gruppo. Le affermazioni salienti sono due. La prima: lo Spirito si manifesta in forme molteplici; la varietà dei doni e delle tendenze è un fatto positivo, anche se spesso scomodo. Una comunità uniforme, appiattita, incapace di accettare gioiosamente diverse tendenze non è in alcun modo il segno dello Spirito. E la seconda: la semplice verità, ovviamente, non è ancora il segno dello Spirito. Solo se animati dalla carità, solo se capaci di entrare in un discorso globale e comune, le diverse tendenze si trasformano in doni dello Spirito di Dio. Lo Spirito infatti è collaborazione ed edificazione comune, e non tollera contrapposizioni, rivalità e dispersioni. Il passo evangelico (cf. Gv 20,19-23) ci ripropone una terza riflessione, che in un certo senso sta alla base di quelle che abbiamo fatto sinora: lo Spirito è il dono di Cristo. «Ricevete lo Spirito Santo» (v. 22): lo Spirito viene dal Cristo risorto, ma il lettore del Vangelo di Giovanni sa molto bene che lo Spirito è legato alla croce di Gesù, dalla quale scaturì l’acqua, simbolo dello Spirito (cf. 19,30.34). L’evangelista Giovanni non ci dice soltanto che lo Spirito è legato alla risurrezione e alla croce di Gesù, racconta che il Cristo «soffiò e disse loro» (v. 22). Il gesto è un simbolo conosciuto nell’Antico Testamento, ed esprime l’idea di una creazione rinnovata. Lo Spirito strappa l’uomo al mondo e al peccato, e ne fa una nuova creatura, capace di slanci nuovi e di nuove idee. 98

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Solennità della Santissima Trinità

La vita dell’uomo è fatta di dialogo Es 34,4b-6.8-9  ●  2Cor 13,11-13  ●  Gv 3,16-18

Il mistero della Trinità è senza dubbio il dato più specifico della concezione cristiana di Dio e ne costituisce l’originalità. Ed è anche, di conseguenza, l’aspetto più caratteristico dell’esperienza cristiana di Dio: il cristiano incontra e dialoga con un Dio che è Padre, figlio e Spirito Santo. Tuttavia ci resta l’impressione che – nell’educazione cristiana comune – la Trinità venga per lo più ridotta a pura verità da credere, a dogma incomprensibile, a un mistero (nel senso comune mistero significa appunto realtà incomprensibile). Non è raro, in una simile prospettiva, sentirsi chiedere: perché mai Dio ci ha rivelato una tale verità se poi non riusciamo a comprenderla? A che serve? Ecco una prima risposta: lo scontro con il mistero di Dio ci fa prendere coscienza dei nostri limiti. Ci mostra l’infinita distanza che separa la nostra intelligenza dalla sua realtà. E ci dà l’occasione di offrire a Dio l’ossequio della nostra sottomissione intellettuale (in un certo senso è questo l’omaggio più profondo che l’uomo può tributare al suo creatore). Ma una tale risposta è sufficiente? «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Queste brevi parole appartengono a un contesto – il colloquio di Gesù con Nicodemo – che tratta il tema della fede. Ma fede in che cosa? Il volto di Dio è un volto di amore, ed è nell’amore di Dio apparso in Cristo che dobbiamo credere. Dio è comunità d’amore, un amore che 99

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non sta chiuso in se stesso, ma si diffonde e si fa dono, e questa è la prima meraviglia. E poi la seconda meraviglia: l’uomo è chiamato a far parte della gioia di Dio, a entrare nella sua stessa comunità d’amore, invitato al dialogo con il Padre, il figlio e lo Spirito. Lo ricorda l’apostolo nella seconda lettura: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (2Cor 13,13). Tutto questo costituisce per l’uomo una luce e insieme un impegno. Una luce: l’uomo sente insopprimibile la nostalgia della comunità, della solidarietà e del dialogo; ne ha bisogno per vivere e per crescere, ne ha bisogno più dell’aria che respira. È una constatazione che tutti gli uomini hanno sempre fatto, ma è soltanto alla luce del discorso di Gesù (del suo discorso su Dio, appunto) che questa constatazione acquista un’insospettabile profondità: siamo fatti per incontrarci, per dialogare e amare, perché siamo «immagine di Dio», e Dio è appunto una comunità d’amore. La vocazione alla comunità è la traccia della Trinità nell’uomo, e l’impegno; se i discepoli vogliono essere nel mondo il segno di Dio, se vogliono – come si suol dire – «dar gloria a Dio», allora devono costruire dialogo e comunione, proprio come Paolo, con parole molto semplici, raccomanda ai suoi cristiani di Corinto: «Fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace, e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi» (13,11). La gloria della Trinità è la comunione fra gli uomini. Riflettere a questo punto sulla lettura dell’Antico Testamento potrebbe sembrare un inutile passo indietro: l’apparizione di Dio a Mosè non è trasparente ma velata («il Signore discese nella nube»), come se avesse deciso, pur volendo in qualche modo rivelarsi all’uomo, di mantenere intatto il suo segreto più intimo: Dio infatti parla del suo atteggiamento verso l’uomo, ma non della sua vita intima, e nelle sue parole non c’è 100

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traccia della Trinità. Tutto questo è vero, ma è anche vero che la narrazione del libro dell’Esodo è una delle pagine religiose più significative (cf. Es 34,4-6.8-9). Non ha la profondità della rivelazione di Gesù, ma ne costituisce le premesse e il contesto. Più che le premesse, nel racconto dell’incontro di Dio con Mosè, infatti, ci sono alcuni tratti che costituiscono delle vere e proprie costanti di ogni manifestazione del divino, e sono indicati dagli atteggiamenti che l’uomo deve sempre assumere in ogni sua ricerca di dialogo con Dio: tratti e atteggiamenti che il Vangelo non considera superati, tutt’altro. Per prima cosa la distanza e la vicinanza, il timore e la confidenza. Non è l’uomo che supera questa distanza, non è l’uomo che si avvicina a Dio, è Dio che si avvicina all’uomo: «Allora il Signore […] si fermò là presso di lui (Mosè)» (v. 5). E anche quando si avvicina, molto del suo mistero resta inaccessibile. L’uomo è troppo piccolo per comprendere Dio, guai se si illudesse di averlo capito! Di fronte alla presenza di Dio, più che il discorso contiene il silenzio, più che il parlare l’adorazione («Mosè si curvò in fretta fino a terra», v. 8) e lo stupore. Il molto, e troppo facile, parlare di Dio non è sempre segno di fede. Dio è il Signore, tuttavia si degna di «camminare in mezzo a noi»: di qui il timore e la confidenza. Gli stessi sentimenti che si ritrovano nella preghiera cristiana: Padre nostro, questa è la confidenza, ma anche «che sei nei cieli», e questa è la consapevolezza che Dio è diverso da noi, è al di sopra di noi. Rivelandosi all’uomo Dio vuole fargli capire due cose, e cioè che la sua azione è contemporaneamente regolata dalla giustizia e dalla misericordia. Dalla giustizia: «E nulla lascia impunito», di fronte a lui nulla si può nascondere, i conti che ora sembrano smentiti (i mali impuniti, la menzogna trionfante) saranno un giorno pareggiati. Ecco perché l’incontro con Dio su101

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scita sempre nell’uomo la consapevolezza del proprio peccato e il timore del giudizio. Ma accanto alla giustizia la misericordia, e questa seconda ha il sopravvento. Nelle parole di Dio c’è un solo cenno alla giustizia, ma c’è al contrario molta insistenza sulla misericordia («lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà», v. 6). Come si vede, il Dio di Mosè ha già il volto del Dio di Gesù Cristo, il volto del Padre che si rivela soprattutto nel perdono. Di qui la preghiera: «Tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato» (v. 9).

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Solennità del Santissimo corpo e sangue di Cristo

Non di solo pane vive l’uomo Dt 8,2-3.14b-16a  ●  1Cor 10,16-17  ●  Gv 6,51-58

Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio (cf. 8,2-3.14b-16a), non è difficile rintracciare allusioni e riferimenti come, ad esempio, quello della manna, che ci aiutano a comprendere il brano evangelico (cf. Gv 6,51-58) che – attorno ai gesti e alle parole di Gesù all’ultima cena – sviluppa un discorso sulla salvezza donata da Dio, sul senso profondo dell’intera esistenza di Gesù e sul progetto di vita a cui il discepolo è chiamato. Il passo del Deuteronomio è rivolto a un popolo sostanzialmente tranquillo, che vive in una situazione di benessere: terra fertile e prodotti abbondanti, pane a sazietà, case comode. Anche tutto questo è dono di Dio, senza dubbio («il Signore, Dio tuo, sta per farti entrare in una buona terra», v. 7), ma questo non impedisce che si tratti di una situazione carica di pericoli. C’è il pericolo della dimenticanza di Dio e il pericolo dell’autosufficienza. Nell’abbondanza – di ricchezza, di cultura, di lavoro, di mezzi – la coscienza «si gonfia» e «dimentica»: «Il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto» (v. 14). Dimentichiamo Dio, dimentichiamo la precarietà delle stesse cose che possediamo, che esaltiamo e che ci affascinano, dimentichiamo di avere bisogno di un’altra Parola, di un altro pane, di un’altra ricchezza. Sazi e distratti, sicuri di noi stessi, il pensiero di Dio viene relegato ai margini e accantonato. Non combattuto, accantonato. E naturalmente viene meno 103

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anche l’osservanza dei comandamenti e valori importanti, essenziali per la stessa convivenza umana, non vengono più sentiti come tali. In questa situazione c’è una sola cosa da fare: ricordare. È questo l’imperativo fondamentale del nostro brano, la lezione che il predicatore – perché di una predica si tratta – vuole inculcare nella comunità che lo ascolta: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto» (v. 2). Non si suggerisce di combattere il benessere quasi fosse in se stesso malvagio, una terra fertile e un’esistenza in pace sono dono di Dio. Si dice però di vivere nel benessere con un’altra coscienza, con spirito maturo, cioè senza esaltazione e senza illusioni, soprattutto senza dimenticanze. Senza dimenticare, ad esempio, che non si vive di solo lavoro, né solo di nutrimento terrestre. L’uomo è affamato della parola di Dio, ne ha bisogno per vivere, per ritrovare se stesso e gli altri, per fondare su una base sicura la speranza. Nel benessere e nel lavoro l’uomo si ricordi di colui dal quale il benessere proviene: «Mangerai, sarai sazio e benedirai il Signore, tuo Dio, a causa della buona terra che ti avrà dato» (v. 10). A questo punto non è difficile leggere il brano evangelico nell’ottica indicata dal Deuteronomio. Con un passo avanti: la parola di cui l’uomo ha bisogno («non di solo pane») è Gesù stesso, la sua parola, la sua presenza, la sua «carne» e il suo «sangue». Non è il pane di Mosè che dà la vita («non è come quello che mangiarono i padri e morirono», v. 58), e non è più in quella direzione che va cercato il Signore. L’Antico Testamento è tutto percorso – e il Deuteronomio ce ne ha offerto la testimonianza – da un’ansiosa ricerca della parola di Dio, che rischiara il cammino della vita e ne rivela il senso. Si legge nel profeta Amos (8,11): «Verranno giorni […], in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore». 104

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Nella tradizione giudaica la manna era divenuta il simbolo della Parola e i giudei l’attendevano di nuovo in dono, abbondantemente. Gesù afferma che è proprio lui, il figlio del falegname, a riassumere in sé e a compiere tutta questa attesa: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (v. 54). Il vero pane, la vita eterna, la risurrezione: ecco le grandi attese dell’uomo, le sue vere esigenze. Si possono attutire, si può far finta di non averle, ma non si possono spegnere.

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Tempo ordinario

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Introduzione al tempo ordinario

Diversamente dagli altri tempi liturgici, il tempo ordinario non celebra un particolare mistero della vita del Signore e della storia della salvezza, bensì il mistero di Cristo nella sua globalità. È il tempo per eccellenza della sequela e del discepolato, sulle orme di Gesù verso il compimento della storia (trentaquattresima domenica). Di domenica in domenica si segue il Signore sulla via del «compimento di ogni giustizia» (Mt 3,15), perché i credenti diventino sempre più simili al loro maestro. Ogni domenica ha un tema dominante, che mette in risalto qualcuno tra i molteplici aspetti del mistero cristiano. La prima lettura, tratta dall’Antico Testamento, è in concordanza tematica col Vangelo in modo che ci sia tra loro un rapporto di promessa-compimento, profezia-realizzazione. Le seconde letture, invece, seguono il filo semicontinuo dell’epistolario paolino e di altre lettere del Nuovo Testamento. Nel tempo ordinario si ricordano la missione del Signore, la sua vita quotidiana, le sue parole, le sue parabole, il suo stile di vita, i suoi incontri con le persone, il tempo trascorso con i discepoli, le guarigioni nelle situazioni più inaspettate. Al discepolo si offre così la possibilità di riscoprire passo dopo passo che l’esperienza cristiana nasce da una lieta notizia, che allarga il cuore e ridà la voglia di vivere, come racconta la parabola dell’uomo che trova il tesoro nascosto nel campo e poi vende tutto per avere quel tesoro (cf. Mt 13,44). È in questa esperienza di scoperta, di conversione e di gioioso possesso che si radica la bellezza e la pienezza della vita cristiana e di ciò che dà autenticamente senso. 109

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Seconda domenica del tempo ordinario

Il cristiano ideale è colui che serve Is 49,3.5-6  ●  1Cor 1,1-3  ●  Gv 1,29-34

Il testo profetico di Isaia (cf. 49,3.5-6) presenta la misteriosa figura del servo di Dio che secondo una possibile interpretazione rimandava al popolo di Dio e al messia. Nella nostra prospettiva possiamo vedervi una prefigurazione di Gesù, come pure i tratti della comunità cristiana e del cristiano ideale. Si tratta di una specie di racconto biografico di vocazione, rivolto a tutti i popoli della terra e svolto nella forma di un dialogo tra il servo e il Signore. Quattro personaggi sono chiamati in causa: il Signore, il servo, Israele e l’intera umanità. Osservare questi quattro personaggi nelle loro reciproche relazioni è forse il modo più semplice per comprendere il nostro passo. Leggendo la propria vita alla luce del Signore, il servo comprende – ed è la cosa più importante di tutte – di essere l’oggetto di un amore preveniente e gratuito: «mi ha chiamato […] mi ha plasmato suo servo dal seno materno» (vv. 1c.5b). Tutto ciò che il servo è e possiede è dono di Dio. I verbi che descrivono le sue prerogative hanno tutti Dio per soggetto: «Mi ha chiamato […] ha pronunciato il mio nome» (v. 1), «Ha reso la mia bocca come spada affilata» (v. 2), «Mi ha plasmato suo servo» (v. 5), «Io ti renderò luce delle nazioni» (v. 6). Il servo non possiede nulla in proprio, ma tutto come dono del Signore. La lezione è trasparente: il cristiano impari a considerare la gioia della fede e, più ampiamente, la sua intera esistenza come puro dono dell’amore di Dio, dono gratuito da spendere per tutti, una fortuna 110

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da trasformare in servizio. È proprio questo il punto verso il quale la gratuita iniziativa di Dio tende sempre: trasformare un uomo (un uomo tentato di erigersi a Signore e padrone) in un servo. Se dopo aver osservato il servo nei confronti del suo Signore si considera viceversa il comportamento del Signore verso il servo, allora si nota, non senza sorpresa, che il tratto principale è la fiducia. Il Dio onnipotente ha fiducia nell’uomo e vi si affida: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria» (v. 3). Dio non costruisce la propria gloria da solo (cioè la realizzazione dei propri disegni di salvezza) ma insieme all’uomo. Una fiducia che ci commuove e ci esalta, ma che a parer nostro, sembra troppe volte sprecata. Non sarebbe meglio che Dio facesse tutto da solo? E invece no, Dio si affida all’uomo (alla sua chiesa, ai suoi cristiani, a ogni uomo di buona volontà) e non si lascia scoraggiare da nulla, a differenza degli uomini che invece sono sempre pronti a farlo. Il servo si scoraggia («Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze», v. 4), ma di fronte a questo scoraggiamento Dio non si arrende, non toglie la fiducia ma la raddoppia: all’incarico di radunare Israele aggiunge l’incarico di portare la salvezza al mondo intero. C’è, infine, un altro elemento da non trascurare, il fatto cioè che quanto accade tra il servo e il Signore non rimane fra loro, ma riguarda Israele e l’intera umanità. Questo sbocco universale (termine obbligato di ogni azione divina) è già racchiuso nel nome che meglio di ogni altro si addice al cristiano: «servo». Vale la pena di insistere sull’universalità del servizio. La fortuna di un’esistenza illuminata dalla fede non può non sospingerti verso l’intera comunità cristiana, così da assumerti la tua parte di responsabilità. Ma questo non è che il primo passo: dalla comunità occorre impegnarsi responsabilmente di fronte al mondo intero. Il tuo compito è di essere una proposta che rischiara e 111

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ridona la speranza (luce delle nazioni), parola che inquieta e denuncia (come una spada), voce che raduna e disperde. Gesù, Agnello di Dio, come si legge nel quarto Vangelo, evoca la figura del servo descritto dal profeta. Giovanni Battista dichiara di aver visto lo Spirito discendere su Gesù e posarsi su di lui (cf. v. 32) richiamando la profezia di Isaia (cf. 42,1). L’Agnello è l’immagine del servo di Dio che prende su di sé – togliendolo – il peccato del popolo. C’è una precisazione da fare: il verbo che Giovanni usa significa «portare», «prendere sulle proprie spalle» e insieme «togliere via». Probabilmente tutti e due i significati sono presenti nel verbo. Il primo significato evidenza che Gesù non prende le distanze dal popolo peccatore, ma si confonde con esso, pur nella consapevolezza della propria innocenza e della propria origine divina. Così l’incarnazione prende tutto il suo rilievo: va intesa non solo come un farsi uomo, ma come piena solidarietà con gli uomini e la loro storia. La seconda possibile traduzione del verbo («togliere via», «far cessare»), che richiama un altro testo giovanneo (cf. 1Gv 3,5-6), lascia trasparire che Cristo toglie i peccati non soltanto perché li ripara, ma perché con la sua venuta cessa, in un certo senso, il tempo del peccato: egli porta la conoscenza di Dio la quale può far nascere una comunità capace di vincere il peccato. L’Agnello è l’immagine di un’obbedienza e di un amore che arrivano fino alla croce.

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Terza domenica del tempo ordinario

Iniziò la vita pubblica scandalizzando i giudei Is 8,23b-9,1-3  ●  1Cor 1,10-13.17  ●  Mt 4,12-23

Il Vangelo di Matteo inizia il racconto della vita pubblica di Gesù (cf. 4,12-23) riportando un fatto in apparenza semplice, ma che in realtà costituì per le attese religiose del tempo una grossa sorpresa, se non uno scandalo: «Gesù si ritirò nella Galilea e andò ad abitare a Cafarnao» (vv. 12-13). Era logico aspettarsi che l’annuncio messianico partisse dal cuore del giudaismo, cioè da Gerusalemme, e invece partì da una regione generalmente disprezzata perché contaminata dal paganesimo («Galilea dei gentili»). Ma proprio ciò che costituisce una sorpresa è per Matteo il compimento di un’antica profezia contenuta nel libro di Isaia (cf. 8,23b-9,1-3). II territorio occupato dalle tribù di Zàbulon e di Nèftali si trovava all’estremo nord della Palestina, presso il lago di Tiberiade: la Galilea, chiamata anche «il distretto dei gentili». Probabilmente l’oracolo di Isaia fu pronunciato poco dopo che il re assiro Tiglat Pileser III nel 732 a.C occupò le regioni settentrionali del regno di Israele. Sono tempi durissimi. Le tenebre e l’oscurità esprimono l’angoscia di un popolo smarrito; il giogo pesante, la verga sopra le spalle e il bastone dell’aguzzino evocano la situazione di un popolo oppresso. È dunque a un popolo smarrito e oppresso che il profeta si rivolge, ricordandogli la certezza della liberazione. Qualsiasi cosa accada c’è sempre, intatta, la certezza che il Signore è con il suo popolo. È in una povertà così assoluta che il profeta parla dell’oppressione 113

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come se si trattasse già di un fatto passato: «Nel passato umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali» (v. 23). Il soggetto è il Signore e l’oppressione un suo castigo, una conseguenza dell’idolatria del popolo. Una situazione, tuttavia, non definitiva, poiché il profeta prosegue annunciando il passaggio dall’umiliazione alla gloria, dalle tenebre alla luce: il contrasto è netto e il passaggio è improvviso, come quando un viandante sperduto nell’oscurità sbocca improvvisamente nella luce. La gioia è incontenibile, tanto che la parola ricorre ben quattro volte in un solo versetto, e l’emozione del profeta si esprime con due immagini, e un ricordo: la gioia di una mietitura abbondante e della spartizione del bottino – una contadina e l’altra guerresca – e l’allusione al «tempo di Madian» che evoca Gedeone che con un pugno di uomini fiaccò la prepotenza dei madianiti (cf. Gdc 6-7). La lezione è chiara: è il Signore che salva il suo popolo, non la forza degli eserciti. L’essenziale è perciò sempre una cosa sola: fidarsi di Dio. Esattamente come al tempo di Madian: «Gli israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore», racconta il libro dei Giudici, «e il Signore li consegnò nelle mani di Madian» (Gdc 6,1). Ma anche la liberazione è nelle sue mani, e le sue mani sono più forti del nostro peccato. Di qui la conversione e la fiducia, come sempre. L’antica profezia di Isaia si compie, dunque, nella scelta di Gesù di iniziare la sua missione partendo dalla periferia geografica e religiosa del giudaismo, rompendo così ogni forma di particolarismo. Il suo annuncio – un annuncio abituale, ripetuto («da allora cominciò a predicare», v. 17) – è riassunto in una formula di estrema concisione: l’arrivo del regno («il regno di Dio è vicino», v. 17) e l’imperativo morale che ne consegue («convertitevi»). L’episodio della chiamata dei primi discepoli è collocato sulla riva del lago, dove Gesù stava camminando e dove gli uomini erano intenti al loro 114

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lavoro. L’appello di Dio raggiunge gli uomini nel loro ambiente ordinario, nel loro posto di lavoro: nessuna cornice sacra, ma lo scenario del lago e lo sfondo della dura vita quotidiana. Proviamo a evidenziare i tratti essenziali di questo racconto, che sono quattro. Primo: la centralità di Gesù. Sua è l’iniziativa («vide […], disse loro […], li chiamò», vv. 18.19.21): non è l’uomo che si auto-genera discepolo, ma è Gesù che trasforma l’uomo in un discepolo. Il discepolo, poi, non è chiamato a impossessarsi di una dottrina, neppure anzitutto a vivere un progetto di esistenza, ma a solidarizzare con una persona («Venite dietro a me», v. 19): al primo posto c’è l’attaccamento alla persona di Gesù. Secondo: la sequela esige un profondo distacco. Giacomo e Giovanni, Pietro e Andrea lasciano le reti, la barca e il padre; lasciano il mestiere e la famiglia. Il mestiere rappresenta la sicurezza e l’identità sociale, il padre rappresenta le proprie radici: si tratta quindi di un distacco radicale. Terzo: a partire dall’appello di Gesù, la sequela si esprime con due movimenti – lasciare e seguire – che indicano uno spostamento del centro della vita. L’appello di Gesù non colloca in uno stato, ma in un cammino. Quarto: le coordinate del discepolo sono due, la comunione con Cristo («seguitemi») e una corsa verso il mondo («vi farò pescatori di uomini»). La seconda nasce dalla prima: Gesù non colloca i suoi discepoli in uno spazio separato, settario, li incammina sulle strade degli uomini.

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Quarta domenica del tempo ordinario

Beati i poveri in spirito! Sof 2,3; 3,12-13  ●  1Cor 1,26-31  ●  Mt 5,1-12

Il brano profetico dell’Antico Testamento ci aiuta a capire il Vangelo delle beatitudini (cf. Mt 5,1-12). Il profeta Sofonia scrive verso il 640-630 a.C. e conosce l’oppressione dell’Assiria che aveva occupato una buona metà del territorio di Giuda. Gerusalemme stessa era scampata per miracolo alla conquista. Città e campagne sono piene di poveri, ma ci sono anche i ricchi e i prepotenti, che approfittano della loro posizione e rendono ancora più difficile la già faticosa condizione del popolo. Appartengono a tutte le categorie (cf. Sof 3,3-4): capi che commettono prepotenze, giudici avidi e corrotti, profeti boriosi e fraudolenti, sacerdoti che profanano le cose sacre. E c’è una cosa che li accomuna tutti: «Non lo cercano [il Signore] né lo consultano» (1,6). Sono uomini che non prendono Dio sul serio, ritenendolo una cosa inutile che neppure vale la pena di mettere in conto: «Il Signore non fa né bene né male» (1,12), pensano. È questa per il profeta la radice di ogni loro corruzione. È a una generazione di uomini siffatti che egli predice la distruzione. Tuttavia non tutto è perduto. C’è ancora una possibilità di rigenerazione, c’è ancora qualcuno sul quale Dio può contare: il piccolo gruppo degli umili che lo cercano. La speranza del mondo è nelle loro mani. Il profeta è convinto (una intuizione valida anche oggi?) che è su di loro che bisogna puntare. La povertà – che appare come il contrario dell’orgoglio, della dismisura, di quell’atteggiamento cioè che ti fa perdere il senso di Dio e degli altri – è per il profeta 116

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un atteggiamento fatto insieme di umiltà e di fiducia. L’umile non è colui che si tira indietro, tanto meno lo sfiduciato, ma colui che conserva, qualsiasi posizione occupi, il senso della misura, e sa di avere doveri da compiere prima che diritti da vantare. Povero è colui che si sottomette interamente a Dio, nell’atteggiamento di chi chiede, non di chi pretende. E così la parola «povertà» oltrepassa il suo significato originario di indigenza, di privazione, per assurgere a un senso più vasto, interiore, spirituale, tanto da esprimere il rapporto ideale fra uomo e Dio e fra uomo e uomo. Senza tuttavia mai perdere del tutto il legame col suo ambiente d’origine: non c’è povertà spirituale, infatti, che non sia insieme accompagnata da spirito di sobrietà, da distacco, da attenta vigilanza nei confronti di un benessere che appare sempre più come ingiusto e ingombrante. Resta sempre vero che la ricchezza facilita l’orgoglio, la dimenticanza di Dio e l’ingiustizia: tutto il contrario della ricerca di Dio come il profeta la intende. Per lui infatti la ricerca di Dio si accompagna, e sembra quasi confondersi, con la ricerca della giustizia e dell’umiltà: «Cercate il Signore […] cercate la giustizia, cercate l’umiltà» (2,3). La pagina del profeta Sofonia mette in primo piano la beatitudine della povertà, come appare anche dal ritornello del salmo responsoriale e dallo stesso passo della prima lettera ai Corinti, dove Paolo dichiara che Dio si serve di quelli che non contano per confondere il mondo. «Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3), come proclama Gesù nel Vangelo, implica certamente un invito a mettere al centro della propria attenzione i poveri, ma a partire da essi occorre risalire direttamente al volto concreto di Gesù. La vita di Gesù fu povera e itinerante, ma nella sua scelta non c’è traccia di una mistica della povertà. Le ragioni di una tale scelta vanno invece cercate in un atteggiamento di incondizionata fiducia 117

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in Dio padre, che veste i gigli e nutre gli uccelli (cf. Mt 6,25-34). Il povero di spirito è, dunque, colui che si fida di Dio, attende da Dio, ripone la sua fiducia unicamente in Dio. La povertà di spirito non è semplicemente riducibile a un astratto e generico distacco dai beni, al contrario, è un atteggiamento concreto e pubblico, il cui contenuto è determinato dalle beatitudini successive: la costruzione della pace, la fame di giustizia, la misericordia, la limpidezza interiore. Tutti atteggiamenti concreti e attivi. La figura del povero del Signore è anche essenzialmente aperta agli altri. Come ricordava il profeta, il povero non commette ingiustizia e non dice menzogne (cf. Sof 3,13), ed è umile; a differenza del ricco, spesso prevaricatore e violento, il povero ha un profondo e alto senso di giustizia e rifiuta ogni prevaricazione e ogni violenza. Soprattutto, il povero in spirito è colui che concepisce se stesso (esistenza, competenza, capacità di ogni genere) in termini di gratuità e non di possesso.

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Quinta domenica del tempo ordinario

Questo è il «digiuno» che piace al Signore Is 58,7-10  ●  1Cor 2,1-5  ●  Mt 5,13-16

La pagina profetica di Isaia (cf. 58,7-10) prende posizione contro una religiosità tutta riti e pratiche e senza alcuna preoccupazione per l’uomo. Lo spunto gli è offerto dalla pratica del digiuno a cui, in determinati giorni e in determinate ricorrenze liturgiche, si era tenuti. Ma Dio vuole ben altro, insiste il profeta, elencando puntigliosamente per ben tre volte i comportamenti che costituiscono il vero digiuno, quello che piace al Signore. Si potrebbe obiettare che la nostra situazione attuale è profondamente mutata rispetto a quella che ha suscitato la polemica del profeta; il nostro non è più il tempo dei molti digiuni, delle molte pratiche rituali e delle frequenti preghiere fatte per ostentazione. Tuttavia, se il quadro polemico del profeta ha perso di attualità, non così invece il nucleo più importante del suo discorso: ciò che piace a Dio è un atteggiamento nei confronti dell’uomo, ecco il centro del discorso del profeta che conserva intatta la sua modernità. Il Dio dei profeti non cessa di sorprenderci: anziché preoccuparsi in primo luogo di quanto i suoi fedeli fanno per lui, questo Dio si preoccupa innanzitutto di quanto i suoi fedeli fanno per gli altri uomini. Fra i modi concreti di aiutare il prossimo, due sono quelli che al profeta stanno maggiormente a cuore. Il primo è «sciogliere le catene», rompere il giogo dell’oppressione, ridare la libertà ai prigionieri, in una parola la liberazione. Certamente il profeta riflette qui l’esperienza d’Israele che in esilio ha capito che cosa signi119

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fichi la mancanza di libertà. Aiutare uomini e popoli a recuperare la libertà è cosa gradita a Dio più delle pratiche di mortificazione personali. Il secondo è dividere il proprio pane con l’affamato. I profeti sanno bene quanto la fame possa umiliare un uomo. Liberare dalla schiavitù e lottare contro la fame, sono le due cose che il Dio dei profeti si aspetta dal suo popolo. È infatti un Dio preoccupato della schiera sempre più numerosa dei diseredati, e di essi parla a chiunque venga al tempio per incontrarlo. Nel Vangelo (cf. Mt 5,13-16) i due paragoni usati da Gesù, il discepolo deve essere come la «luce» e come il «sale», sono limpidi e vanno presi nel loro senso letterale. Il breve discorso è rivolto al gruppo dei discepoli (i verbi sono al plurale), non al singolo. Essere sale, essere luce deve applicarsi al gruppo, alla comunità e non semplicemente ai cristiani singolarmente presi. Il discorso è dunque rivolto alla comunità intera. Le due immagini (sale e luce) sono espresse nella forma indicativa («voi siete»), e questo mostra un fatto, una realtà: Gesù afferma, con molta forza e semplicità, che i discepoli devono cioè essere punto di riferimento, di purificazione, di trasformazione, pena l’inutilità più completa (a cosa servirebbe infatti il sale divenuto insipido, o una luce nascosta?). Se i discepoli perdono la forza di salare sono inutili («gettati fuori») e persino disprezzati («calpestati»). Ma cosa significa allora essere sale, essere luce? E quali sono concretamente le opere buone da mostrare, opere buone capaci di indurre gli uomini a glorificare il Signore? Ci viene in aiuto ancora la lettura profetica, che concorda nella risposta con il Vangelo: spezzare le catene e dividere il pane con l’affamato, ecco quali sono le opere da mostrare al mondo, opere capaci di indurre l’uomo a glorificare il Signore e tali da trasformare chi le compie in luce che illumina e in sale che dà sapore, cioè in un punto di riferimento che attira, stimola e incoraggia. 120

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Sesta domenica del tempo ordinario

Dio rispetta la libertà ma ci vuole responsabili Sir 15,16-21  ●  1Cor 2,6-10  ●  Mt 5,17-37

Il libro del Siracide fu scritto nel 190-180 a.C. da un certo Ben Sira (di qui il nome dato oggi allo scritto: Siracide) e insegna le virtù del suo popolo, il coraggio, la tenacia, il dominio di sé, la liberalità, la rettitudine e la fedeltà, mentre condanna con vigore l’invidia, l’avarizia, il rancore e l’arroganza. Nulla di particolarmente eroico o radicale nell’ideale di vita che egli propone, e tuttavia il suo insegnamento continua a essere importante: saggezza e buon senso, lealtà e senso della misura sono le indispensabili premesse al Vangelo; se manca l’uomo non si fa il cristiano. L’umanesimo di Ben Sira costituisce il buon terreno sul quale il seme del Vangelo ha speranza di germogliare. Tra gli atteggiamenti che secondo il saggio Ben Sira rendono autentico un uomo, c’è la franca ammissione della propria responsabilità (cf. 15,15-20). Per quello che sei e fai non dare la colpa a Dio e a nessun altro. Avere il coraggio di assimilare e rendere operante questa idea (che non è ancora del Vangelo ma semplicemente del buon senso) è il primo passo verso la rigenerazione morale. Certamente non sono molti oggi a dar la colpa a Dio, ma sono moltissimi a dare la colpa al sistema, all’ambiente, ai condizionamenti psicologici, alle spinte sociali e ad altre cose ancora. La saggezza biblica non permette questi comodi e frettolosi disimpegni. La responsabilità è nostra. La breve lettura di Ben Sira ci suggerisce un secondo importante atteggiamento: la necessità che l’uomo im121

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pari a osservare la legge per persuasione, e a cercare il bene spinto da motivazioni interiori e personali. Nessuno ti costringe a fare il male e a essere quello che sei, dunque non dare la colpa a nessuno e assumiti la tua responsabilità. Ma è anche vero che nessuno – neppure Dio – ti costringe a fare il bene, dunque sta a te decidere. Ben Sira è convinto che la ricerca di Dio e del bene debbano nascere dal consenso: si richiedono forti e radicate motivazioni interiori. Dio non vuole la costrizione e non sa che farsene delle prestazioni forzate, vuole la persuasione. La vera obbedienza scaturisce dall’interno, sulla base di una duplice convinzione: che Dio non è un tiranno interessato a se stesso, ma un padre interessato a noi e perciò egli non impone una legge utile a lui, ma a noi. Solo a questo punto l’uomo può dirsi veramente religioso: non quando semplicemente pratica e osserva, ma quando ha capito che la legge del Signore è vita, approfondimento della propria umanità, libertà e non schiavitù. Il discorso di Gesù (cf. Mt 5,17-37) suppone le semplici cose che Ben Sira ci ha fatto capire. Certo, le sue parole sono più dure e radicali: non vuole indicarci delle leggi precise da mutare e non fa correzioni in base a una logica estranea, intende piuttosto offrire un modo diverso di leggere la Scrittura e di scoprire la volontà di Dio. Gesù, col suo ripetuto «ma io vi dico», manifesta una consapevolezza che va oltre quella dei profeti e degli scribi: la sua è l’autorità del messia. Diversamente dagli scribi che interpretavano la legge frantumandola in una miriade di precetti che ne rendevano impossibile l’osservanza e la privavano del suo centro, Gesù si ripropone, come i profeti che l’hanno preceduto, di recuperare il cuore della volontà di Dio, e cioè il primato della carità. Tutto deve essere letto alla luce di questo centro, e tutto deve essere valutato in base a esso. Ecco la ragione per cui si può chiamare «superiore» la giustizia del discepolo: la riduzione dei precetti a un centro 122

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semplice e chiaro e, nel contempo, ricco di movimento. Non si tratta quindi, di essere dispensati dalla legge o di abolirla, quanto di compiere ogni giustizia, non nel senso di fare di più, ma nel senso di andare fino in fondo. Gesù è rispettoso della legge, e proprio per questo l’approfondisce, ne recupera l’intenzione profonda, la purifica e la semplifica, andando dritto all’essenziale: l’eroismo della carità, la purità dei pensieri e non solo delle azioni, il coraggio della franchezza in ogni circostanza. In questo senso si comprendono le affermazioni riguardanti il prossimo, il comportamento sessuale, il matrimonio e il giuramento.

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Settima domenica del tempo ordinario

Il comandamento difficile: «amate i vostri nemici» Lv 19,1-2.17-18  ●  1Cor 3,16-23  ●  Mt 5,38-48

La prima lettura (cf. Lv 19,1-2.17-18) è tratta dalla sezione più importante, e forse anche più antica, del libro del Levitico, comunemente indicata come «Il codice di santità» (cc. 17-26). Ricerca di una dignità che rifletta quella di Dio, imitazione dei suoi comportamenti, sforzo di appartenergli, ecco gli ideali che il Levitico propone al popolo. Ideali che vanno tradotti nel concreto e nel quotidiano, naturalmente nei modi che ogni epoca richiede. «Siate santi, perché io sono santo» (v. 2): che significa? Santità non è una parola facile, ed è usata spesso confusamente. Vista in Dio, essa designa la sua grandezza e la sua distanza dall’uomo, ma una grandezza e una distanza che, paradossalmente, si manifestano nell’avvicinarsi all’uomo. Colui che è infinitamente diverso si avvicina a noi per elevarci e per attirarci a sé. Vista nell’uomo, la santità è la completa appartenenza al Signore. Santo è colui che ha il coraggio di porsi dalla parte di Dio e non dalla parte del mondo. Santo è colui che non ha paura di separarsi, né paura di perdere se stesso (oggi si dice la «propria identità») né quella di tradire il mondo. L’appartenenza a Dio è tutto il contrario di un tradimento del mondo: si ritrova se stessi, il mondo e gli uomini in modo più genuino. Ci si separa dal peccato, dall’egoismo, dai falsi ideali e dalle logiche devianti, questo sì, tutte cose che il mondo considera irrinunciabili, se non addirittura il segno della fedeltà all’uomo. 124

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Ma non ci si separa dalla solidarietà. Anzi, l’appartenenza al Signore e la separazione dal mondo consistono appunto – come la nostra lettura testimonia – nell’amare il prossimo come se stessi. Qui sta il centro dell’obbedienza al Signore e dell’originalità cristiana. Si noti come il comando dell’amore del prossimo termina con l’affermazione «Io sono il Signore» (v. 18). Perché? L’espressione – che nel libro del Levitico ritorna molto spesso – non vuole semplicemente ricordarci che Dio ha tutti i diritti di darci dei comandi e che a noi spetta l’obbedienza; in realtà con questa formula Dio ci invita a imitarlo, a far nostri i suoi pensieri e i suoi ragionamenti. Come se dicesse: «Io, Signore, ragiono così e mi comporto così, ragionate e comportatevi anche voi allo stesso modo; eravate schiavi in Egitto e vi ho liberato, siete peccatori e continuo a perdonarvi, perché non fate altrettanto?». È lo stesso semplice ragionamento che ci propone Gesù: Dio fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sugli onesti e sui disonesti, perciò anche voi «amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,44). Amare (agapan, in greco) significa, qui come altrove, l’amore pieno, attivo, solidale, preoccupato, che non attende di essere ricambiato per donarsi. Non si aspetta il ravvedimento del nemico per poi amarlo, ma lo si ama già prima. Se si desidera il suo ravvedimento – e per questo si prega – è perché già ci si sente responsabile nei suoi confronti. Così inteso, l’amore al nemico è la punta dell’amore del prossimo. L’amore al nemico, infatti, evidenzia – come non accade in nessuna altra forma di amore – le due note profonde di ogni autentico amore evangelico. Anzitutto la tensione all’universalità: nell’amore al nemico la figura del «vicino» si dilata sino a comprendere anche il «più lontano» e chi è più lontano del nostro nemico? E poi la nota della gratuità, che è l’anima di ogni vero amore. Gesù invita a non fermarsi ad amare soltanto 125

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quelli che manifestano un certo interesse e affetto per noi. L’amore del discepolo deve rivolgersi anche a tutti coloro che non l’amano e che giungono persino a fargli personalmente dei torti. L’amore di cui parla Gesù non è fatto di emozioni o di sentimenti. È un atteggiamento di benevolenza, che si traduce in azioni concrete: «pregare» per coloro che ci perseguitano (v. 44b), «salutare» quelli che non sono nostri fratelli (v. 47). Amare i propri nemici significa pregare Dio per loro e salutarli, cioè augurare loro la «pace», augurare loro di essere beneficiari dei beni messianici promessi da Dio. Nel passo parallelo del terzo Vangelo (cf. Lc 6,27-28), il comandamento di amare i propri nemici è precisato da tre imperativi: «fate del bene», «benedite» e «pregate». Per Gesù, «amore» significa quindi benevolenza attiva nei riguardi di tutti gli uomini, ricerca del loro bene, preghiera a Dio in loro favore. Queste cose sono certamente sorprendentemente paradossali, ma si tratta del Vangelo. E poi, guardando più attentamente, si può intuire come anche il perdono sia paradossale, eppure necessario per la convivenza, a ogni livello: nelle relazioni familiari, nelle relazioni amicali, nella società e addirittura nelle relazioni fra i popoli. Senza un minimo di riconciliazione il mondo non sta in piedi. Un vecchio rabbino soleva dire che quando Dio creò il mondo, non riusciva a farlo stare in piedi. Poi creò il perdono, e il mondo stette in piedi.

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Ottava domenica del tempo ordinario

Non un facile ottimismo, ma la gioia di vivere Is 49,14-15  ●  1Cor 4,1-5  ●  Mt 6,24-34

I pochi versetti della lettura profetica (cf. Is 49,1415) appartengono alla mano di un discepolo spirituale dell’antico Isaia, di cui riprende il pensiero adattandolo alla situazione storica del popolo di Israele dopo la distruzione di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia (587 a.C.). Scoraggiamento, ansia per il proprio futuro, dubbi sulla fede sono, in simili situazioni, la tentazione più facile. «Dio ci ha forse abbandonato? Dio non è più fedele alle sue promesse?». È a questa comunità che il profeta si rivolge, riaffermando e ricordando in particolare una verità, la più importante di tutte: l’amore di Dio non abbandona mai! Bisognerebbe leggere alcune sue pagine e osservare le espressioni che egli utilizza per definire l’atteggiamento di Dio. Alcune: ti rinvigorisco, ti aiuto, ti sostengo, ti ho salvato e ti ho chiamato per nome, tu sei mio, sei prezioso ai miei occhi e ti amo, non ricorderò più i tuoi peccati. Il termine più caratteristico è «redentore», in ebraico go’el, parola di difficile traduzione. Go’el è il parente prossimo che interviene in situazioni disperate come, per esempio, quando un uomo cade in schiavitù e non può riscattarsi, quando è costretto ad alienare le sue proprietà familiari, o quando muore senza figli, lasciando la sua donna e il suo patrimonio senza un sostegno. In tutti questi casi il parente prossimo – spinto dal legame di parentela e dalla solidarietà – interviene e risolve la situazione. Così è Dio nei confronti del suo popolo: è il parente prossimo che viene in aiuto. 127

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Anche il termine go’el (redentore e parente) non basta al profeta, che ricorre al paragone dell’amore materno, e addirittura lo supera. A una comunità che pensa: «Dio ci ha abbandonato», il profeta ribatte: Dio vi è più vicino di una madre, il suo amore è ancora più forte, il suo attaccamento è ancora – se così si può dire – più «irrazionale» di quello di una madre. Qualche capitolo prima aveva invitato i suoi uditori scoraggiati a guardare le stelle e a fidarsi della potenza di Dio che le ha create: «Levate in alto i vostri occhi e guardate: chi ha creato tali cose?» (40,26). Qui il profeta invita i medesimi ascoltatori a pensare all’amore di una madre e a ricordarsi che Dio è ancora di più. Non si potrebbero trovare immagini più belle per parlare meglio di Dio: le stelle del cielo e l’amore di una madre per il suo bambino; ecco cosa può farci capire chi è Dio e quanto sia sciocco affannarsi o scoraggiarsi come se egli non ci fosse. Sostenuto da questa convinzione, il discepolo di Gesù non deve lasciarsi prendere dall’affanno e dall’ansia, come se tutto dipendesse da lui stesso. «Non preoccupatevi per la vostra vita», ricorda il Vangelo (Mt 6,25). Il verbo «preoccuparsi» è il verbo principale che attraversa tutto il passo evangelico (cf. Mt 6,24-34). Affannarsi non è semplicemente lavorare, né essere previdente, né affaticarsi; significa essere nell’ansia, nell’angoscia, perennemente col fiato sospeso. Un modo di vivere che rivela un rapporto sbagliato con le cose, con la vita e con Dio. Affannarsi è, in ogni caso, un modo di vivere sbagliato perché lascia intatto il problema di fondo, che è quello di non essere sconfitti dalla morte: «Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?» (v. 27). Per liberare l’uomo dall’ansia e dall’angoscia per il cibo, il vestito e l’accumulo, Gesù fa leva sulla fiducia nel Padre. L’affanno è una modalità di vita che non si addice alla visione cristiana delle cose, tradisce una pro128

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fonda mancanza di fede. Se non ti fidi del Padre, cerchi sicurezza altrove, nell’accumulo, e cadi inevitabilmente nella spirale dell’affanno. Tutte le creature (gli uccelli e i fiori) invece, esistono fidandosi del Padre che le nutre. Un affidamento che anche l’uomo dovrebbe imparare: a una sicurezza affannosamente cercata nel possesso (e dunque in se stessi e nelle cose), la comunità alternativa di Gesù sostituisce una sicurezza cercata nella fiducia nell’amore del Padre. Questo non sottrae all’impegno, che in nessun modo viene privato dalla sua serietà e dalla sua urgenza, anzi lo rende più sereno. La fede in Dio: è questo, in conclusione, il forte richiamo del profeta e della pagina evangelica che deve ridiventare una ragione di serenità, liberandoci dalle preoccupazioni e dall’angoscia del domani, comunque siano le cose! Un modo, oltre tutto, per ritrovare la gioia di vivere.

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Nona domenica del tempo ordinario

L’uomo diviso tra dire e fare Dt 11,18.26-28.32  ●  Rm 3,21-25a.28  ●  Mt 7,21-27

Il libro del Deuteronomio si pone come conclusione della vicenda dell’esodo di Israele dall’Egitto: al termine del suo itinerario, Israele si trova alle porte della Terra Promessa e qui Mosè tiene il suo ultimo grande discorso al popolo, che è poi il suo testamento spirituale (questa almeno è l’intenzione dell’autore anonimo di questi testi). Il brano proposto (cf. 11,18.26-28.32) esorta a porre la volontà del Signore («tutte le leggi e le norme», v. 32) al centro della propria vita e della propria preoccupazione. Dall’obbedienza o meno ai comandi del Signore dipende la benedizione o la maledizione, la vita o la morte, come sottolineano le parole di Mosè. Da qui si intuisce che la volontà del Signore richiede di essere compiuta senza riserve e sconti, senza seguire gusti, mode o interessi. Il legame tra ascolto e pratica è infine ben illustrato dalle parole del Signore da custodire nel cuore e da appendere alla mano e in mezzo agli occhi. Un’immagine pittoresca per alludere al nesso stretto tra cuore e anima da un lato e mani e occhi dall’altro, e che serve a mostrare come all’ascolto debba seguire la pratica concreta e senza compromessi. L’esortazione di Mosè si approfondisce alla luce del Vangelo (cf. Mt 7,21-27), che denuncia la dissociazione – purtroppo sempre attuale! – fra il dire e il fare. Ci sono come due anime dentro di noi: l’una che ascolta, riflette discute e programma; l’altra che dimentica di agire, di applicare i programmi, soddisfatta della gioia 130

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dell’ascolto e della discussione. È una dissociazione che il Vangelo non tollera; e neppure la vita. Un’esistenza (ma questo si può dire anche per un’intera società) costruita sulle molte parole porta in se stessa una «maledizione»: è come una casa costruita sulla sabbia, si edifica in fretta ma è destinata a crollare. Quanto mai inquietante, il passo del Vangelo – posto a conclusione dell’intero discorso della montagna – sviluppa una triplice contrapposizione: c’è chi parla continuamente di Dio ma poi dimentica di fare la sua volontà; c’è chi si illude di aver lavorato per un altro; c’è il saggio che costruisce sulla roccia e lo stolto che costruisce sulla sabbia. Matteo ha davanti agli occhi due forme concrete di dissociazione alle quali bisogna aggiungere, sullo sfondo, una terza, che ne è la radice. La prima è l’esperienza della preghiera («Signore, Signore») che non si traduce in vita e in impegno per la giustizia («la volontà di Dio»). La seconda è l’ascolto della Parola, che non diventa mai qualcosa di pratico e di operante («ascolta queste mie parole e non le mette in pratica»). Matteo non condanna la preghiera o l’esperienza carismatica o la gioia di partecipare a un’assemblea liturgica tra fratelli nella fede; condanna la preghiera che si chiude in se stessa, che non dona il desiderio e il coraggio (e dovrebbe invece essere il suo dono!) di operare per la giustizia. E nemmeno sottovaluta l’ascolto della Parola: è anzi una struttura essenziale dell’esperienza religiosa. Preghiera e ascolto della Parola sono la radice della prassi cristiana, ma la radice deve, appunto, germogliare. Non è l’unico caso in cui l’evangelista ricorda che l’essenziale della vita cristiana non è di dire e nemmeno di confessare Cristo a parole, ma di praticare l’amore concreto per i poveri, i forestieri e gli oppressi. Tutti ricordano la grande scena del giudizio: «Venite, prendete possesso del regno, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, sono 131

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stato forestiero e mi avete accolto» (Mt 25,34ss). L’avvertimento è presente anche nella prima lettera di Giovanni: «Chi dice: “Lo conosco”, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo» (2,4). L’apostolo si trova di fronte a persone che vivono una scissione (probabilmente giustificata teoreticamente!) fra una pretesa conoscenza di Dio e la pratica, in particolare la pratica concreta della carità. Ancora più chiara, se possibile, è la lettera di Giacomo: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi» (1,22); «A che serve […] se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? […] La fede senza le opere è morta» (2,14.26). Non possiamo concludere qui le nostre riflessioni. Dobbiamo prima rispondere a una domanda, la più importante: perché alle volte la preghiera si chiude in se stessa e l’ascolto della Parola non si traduce in vita? La risposta si trova in una pagina di Matteo, nel discorso della montagna: «Nessuno può servire due padroni […]; non potete servire Dio e la ricchezza» (6,24). La dissociazione prima descritta è proprio il tentativo disperato di servire due padroni: servire Dio con la preghiera e l’ascolto della parola, servire il mondo (o noi stessi) nelle scelte concrete e quotidiane della vita. Ecco la radice della dissociazione fra il dire e il fare: il tentativo di salvare l’obbedienza a Dio e, nel contempo, di sottrarsi all’esigenza di conversione che essa comporta. Non sentendosi sicuro all’ombra della parola di Dio (una parola che tuttavia ascolta e di cui si compiace!), l’uomo continua a cercare la propria sicurezza in se stesso (che poi significa, in concreto, nel denaro): un compromesso illusorio. Il Signore nel giorno del rendiconto (ma già prima la storia con le sue verifiche impietose e puntuali) mostra che simili costruzioni poggiano sulla sabbia. È dalla prassi, conclude il Vangelo, che si deduce se abbiamo o no un solo padrone, ed è dalla prassi che si comprende quale sia davvero il nostro signore: Dio o il denaro? 132

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Decima domenica del tempo ordinario

Un doppio invito rivolto a tutti Os 6,3-6  ●  Rm 4,18-25  ●  Mt 9,9-13

La breve pagina evangelica (cf. Mt 9,9-13), che è una rivelazione della missione di Gesù – come egli stesso dichiara: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (v. 13) – è allo stesso tempo un discorso sul discepolato, da intendersi semplicemente come l’esistenza cristiana e non in riferimento a vocazioni particolari all’interno del progetto cristiano. Vi si possono individuare con molta facilità alcune strutture fondamentali che si ritrovano come elementi costanti anche in altri racconti di chiamata. L’iniziativa è di Gesù, ecco il primo elemento da sottolineare. Nel suo invito, gratuito e inaspettato, risuona l’appello di Dio di fronte al quale non si può esitare: bisogna decidersi. L’esistenza cristiana non è tanto e anzitutto una personale decisione, quanto una risposta a un appello che viene da Dio. L’appello di Gesù ha una nota di urgenza, occorre rispondere subito: è la grande occasione della quale si deve approfittare, non si può rimandare. È un appello che esige un distacco, una rottura. È un distacco radicale, perché esige una conversione che scende nel profondo e muta alla radice il modo di vivere. Però il distacco non è l’elemento centrale dell’appello di Gesù, l’elemento fondamentale è il seguire. È questa la ragione del distacco: un lasciare per poter condividere un nuovo progetto di esistenza. Matteo è invitato a percorrere la strada del maestro, a compiere i suoi gesti di preferenza: preferire, come Gesù ha già fatto con lui, coloro che gli uomini emarginano e che invece Dio 133

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ama, preferirli non perché soltanto loro contano, ma perché, appunto, gli uomini li hanno emarginati. Oltre all’episodio della chiamata del pubblicano Matteo, nel brano evangelico c’è un duplice invito rivolto alla comunità. La comunità cristiana – se vuole essere fedele al suo maestro – deve continuare a rivolgere l’appello a chiunque, giusto e peccatore, vicino e lontano. Proprio in questa prospettiva Gesù dà una sorprendente definizione della sua missione: «Non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (v. 13), che sintetizza la ragione profonda dell’incarnazione del figlio di Dio, della sua venuta tra gli uomini. Lo scopo del Signore è aprire a ogni uomo, soprattutto a quello peccatore, tutte le possibilità: diventare discepolo, assumere le proprie responsabilità nel regno, essere missionario, annunciatore. L’accoglienza dei peccatori è, dunque, un tratto essenziale della missione di Gesù, non un attributo periferico o opzionale, tanto è vero che proprio su questo punto preciso Gesù ha messo in gioco la sua credibilità, essendo disposto a suscitare e ad affrontare qualsiasi opposizione. Gesù chiama al suo seguito un pubblicano, e poi siede a mensa con pubblicani e peccatori. I pubblicani erano gli esattori delle tasse, a servizio dello straniero e per questo erano disprezzati e ritenuti esclusi dal regno. Gesù non incontra l’uomo (per poi rivolgergli il suo invito) in una sfera particolarmente religiosa o comunque in alcuni luoghi e in altri no, ma incontra l’uomo nella vita di tutti i giorni, in tutte le situazioni, sulla riva del lago, lungo la strada, o seduto al banco della dogana. Non ci sono categorie o situazioni o persone di fronte alle quali il discepolo di Cristo può ritenere che il problema sia chiuso, l’appello inutile, il terreno completamente sterile. E le sorprese, dopotutto, non mancano. Il secondo invito che l’evangelista rivolge alla comunità è ancora più esplicito: «Andate a imparare che cosa 134

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significa “Misericordia io voglio e non sacrifici”» (v. 13). Le parole si riferiscono a Osea, che costituisce la prima lettura, e più in generale, ai profeti: «Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6,6). Gesù ci fa comprendere pienamente il significato dell’oracolo divino nei riguardi dell’uomo, come lo troviamo esplicitato in Osea: Dio non sa che farsene della religiosità esteriore, contesta l’efficacia di apparati esterni che hanno la pretesa di stabilire una relazione: tutto ciò è come neve che si scioglie e come rugiada del mattino che al sorgere del sole scompare. Come i profeti, anche Gesù denuncia le pratiche cultuali dei suoi contemporanei, vuote di autentico spirito religioso e di tensione alla giustizia. Con questo Gesù non sottovaluta l’importanza del culto, ma c’è culto e culto. Anche un’abbondanza di pratiche cultuali può nascondere una profonda incredulità, cioè un’errata concezione di Dio e del suo onore. Il Dio di Gesù Cristo non è come il Dio dei pagani, che gli uomini si illudono di comprare con i loro sacrifici e di piegare ai loro progetti. Il Dio di Gesù Cristo è diverso: è un Dio di amore, da amare. Certo la pioggia e il sole, la fecondità, la salute dipendono da lui, e l’uomo ha il diritto di chiedergliele, ma Dio vuole l’amore e la giustizia, non semplicemente pratiche cultuali. Il Signore non si accontenta di doni, perché non è un Dio interessato a se stesso, vuole che la sua presenza sia riconosciuta nella vita, ed esige la realizzazione incondizionata del diritto e della giustizia. Gesù non è il difensore di una religione spirituale, interiore, senza culto, infatti in tutta la sua vita egli si è rivolto al Padre e ha pregato. Più profondamente e più semplicemente Gesù critica il culto che diventa un atto magico che distrae dalla conversione e dalla giustizia; non nega il culto, ma non sopporta di vederlo profanato.

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Undicesima domenica del tempo ordinario

Non dipende tutto da noi Es 19,2-6a  ●  Rm 5,6-11  ●  Mt 9,36-10,8

Nel breve brano dell’Antico Testamento (cf. Es 19,2-6) è data la chiave per comprendere in profondità l’intero cammino dell’Esodo. Il Signore Dio sta compiendo attraverso questo lungo cammino di liberazione-purificazione il suo progetto, capace di generare un popolo nuovo, redento, dedito al Dio unico, testimone fra tutte le nazioni. Le parole di Mosè rivolte al suo popolo contengono precisamente questa intenzione: colui che propone la sua alleanza è lo stesso Dio che ha dato ascolto al grido del dolore in Egitto, lo ha liberato dimostrandosi potente e soccorritore, gli ha dato la vittoria contro i suoi nemici. L’alleanza mira a fare del popolo di Israele una nazione santa e un regno di sacerdoti. «Santo» è un termine che deriva da una radice che significa «tagliare» ed esprime in maniera compiuta il motivo dell’alleanza: Israele è stato scelto per divenire un popolo separato dall’idolatria, vale a dire da idoli e da un culto non gradito al Signore, da logiche e leggi che generano infelicità e morte, per appartenere al Signore, il solo capace di liberare e di donare vita e benedizione. Una separazione finalizzata alla testimonianza del suo nome, a un culto gradito in mezzo alle nazioni. Ciò è espresso dall’espressione «un regno di sacerdoti». Questa straordinaria e nuova identità del popolo di Israele in vista della sua missione per tutta l’umanità prepara il terreno all’annuncio di Gesù contenuto nel testo evangelico (cf. Mt 9,36-10,8), che apre il suo discorso missionario. 136

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Ma a chi sono rivolte queste parole di Gesù? Ai dodici apostoli? Ai missionari di tutti i tempi? A tutti i credenti? Pensiamo che tutte e tre le categorie citate siano coinvolte, sia pure su piani diversi. Nella situazione storica concreta Gesù parlava ai dodici, ma dietro di essi (diversi indizi del discorso lo lasciano supporre) vedeva tutti i missionari e l’intero popolo di Dio. Sono, dunque, parole rivolte a tutti. I discepoli predicano come Gesù: lo stesso annuncio («il regno è vicino») e allo stesso modo, cioè con parole e miracoli. Il discepolo non è solo l’annunciatore del regno, ma deve anche dare la prova che il regno è arrivato e che il suo messaggio è credibile. Non deve soltanto annunciare il regno ma anche liberare l’uomo dalle schiavitù che lo imprigionano. A questo punto, si pone una domanda (ignorarla significherebbe rimanere nell’astratto): in che modo e a quali condizioni il discepolo può, oggi, farsi concretamente segno e annunciatore del regno di Dio? Il cristiano dovrebbe assumere almeno due atteggiamenti fondamentali; il primo è quello suggerito dalle stesse parole di Gesù rivolte ai missionari: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8), il secondo si trova esposto alcuni capitoli prima (cf. Mt 5-7). Il primo atteggiamento è la radice della missione: il discepolo mette a disposizione tutto se stesso gratuitamente (la sua fede, il suo tempo, la sua amicizia, la sua competenza, la sua esistenza), e lo fa perché è convinto di avere, egli per primo, gratuitamente e abbondantemente ricevuto. È la forma più profonda della povertà di spirito: tutto ciò che è in noi è dono di Dio e degli altri e perciò tutto deve, generosamente e gratuitamente, tornare a Dio e ai fratelli. Queste parole di Gesù ci portano al cuore dell’esistenza, e indicano quel profondo cambiamento di mentalità (la concezione della propria esistenza e il modo di gestirla) che costituisce nel con137

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tempo la condizione per essere annunciatori del regno e il segno che la forza del regno ci ha trasformati. Il secondo atteggiamento, come accennato sopra, è racchiuso nelle parole di Gesù che si trovano all’interno del grande discorso della montagna: «Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Il discepolo non deve cadere nell’ansia e nella tentazione dell’affanno, come se tutto dipendesse da lui: «Non preoccupatevi per la vostra vita» (Mt 6,25). Al discepolo è richiesta la testimonianza della fiducia nell’amore del Padre. Questa fiducia non sottrae all’impegno, che – anzi – in nessun modo viene privato della sua serietà e della sua urgenza: aiuta però ad affrontarlo con più serenità. L’ansia è l’atteggiamento di coloro che non hanno incontrato il regno di Dio («di tutte queste cose vanno in cerca i pagani», Mt 6,32). Il cristiano deve invece essere un uomo libero dall’angoscia del domani, anche se l’assenza di affanno ovviamente non è sufficiente a fare di un uomo il segno del regno di Dio compiuto. Altri aspetti sono essenziali, e senza di essi la serenità sarebbe falsa o impossibile. Il discepolo deve mostrare che i beni del regno sono per lui al primo posto («cercate anzitutto il suo regno e la sua giustizia», Mt 6,33). Ciò significa, ad esempio, che il benessere che andiamo cercando e nel quale poniamo fiducia deve essere un benessere globale, deve comprendere tutte le dimensioni dell’uomo. In altre parole e, ancora più profondamente, equivale a essere consapevoli che il bene che andiamo cercando, e la cui assenza è la ragione della nostra inquietudine, è Dio e il suo amore. Gesù, dunque, non invita soltanto alla serenità, ma anche a cambiare la nostra vita: non più certi beni al primo posto, ma altri. Finché certi beni rappresentano i valori supremi – i nostri idoli – l’ansia è inevitabile. È proprio questo che il mondo vuole per asservirci a se stesso; il mondo in138

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ganna e seduce, ci convince che ciò che conta è il suo benessere, che solo nel possesso c’è sicurezza e gioia. Così ci rende schiavi, disposti a servirlo, spogliandoci della nostra vera umanità e rubandoci lo spazio della libertà. La radice dell’ansia, della ricerca esasperata del possesso e persino della violenza si trova nella stolta convinzione che questi beni siano gli unici importanti e che l’uomo trovi la sicurezza nell’accumulare sempre di più. È una stoltezza che rende ciechi, disorienta e appesantisce il cuore; e soprattutto delude. Il Vangelo parla di beni che vengono distrutti dalle tarme e dalla ruggine, e che i ladri rubano. Più generalmente la Bibbia parla di vanità. Troppo spesso quei beni che l’uomo cerca e nei quali ripone la sua fiducia e ai quali si sacrifica – ne fa dunque degli idoli! – sono inconsistenti come il fumo (tale è il senso della parola vanità): da lontano promettono, ma poi deludono. Sono beni disonesti, non solo perché spesso frutto di ingiustizia o che ancora più spesso creano ingiustizia, ma perché ingannevoli nel profondo: si accaparrano la fiducia dell’uomo e poi la deludono. Il discepolo deve annunciare il regno di Dio e, insieme, liberare l’uomo. Le schiavitù e le alienazioni dell’uomo sono senza dubbio molteplici, ma abbiamo voluto sottolinearne una fra le più importanti: la schiavitù del possesso.

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Dodicesima domenica del tempo ordinario

Pressante invito a non avere paura Ger 20,10-13  ●  Rm 5,12-15  ●  Mt 10,26-33

Il breve passo dell’Antico Testamento (cf. Ger 20,1013) fa parte delle «confessioni» di Geremia che registrano alcune sue confidenze interiori in modo unico in tutta la letteratura profetica. Il profeta interpella Dio e gli grida la sua intima sofferenza per le conseguenze drammatiche della sua vocazione. Avrebbe desiderato rapporti sereni e distesi e un clima di simpatia e accettazione, e invece Dio lo ha chiamato a proclamare una parola di giudizio, che suscita contese e divisioni. Gli avversari di Geremia, infatti, spiano la sua caduta, lo deridono, ritorcendo contro di lui le sue stesse minacce: «Terrore all’intorno!» (v. 10). Umanamente la situazione sembra disperata ma Geremia, da credente quale continua a essere, vede al di là delle apparenze. Egli è consapevole, per fede, che Dio, al quale «ha affidato la sua causa» (cf. v. 12), rimane con lui, e i suoi avversari finiranno col cadere. Più precisamente, in Dio la liberazione è già acquisita, di conseguenza il canto di grazie può essere già intonato: «Cantate inni al Signore» (v. 13). Il tutto a una condizione: che Geremia conservi di fronte a Dio un cuore di povero. I poveri, infatti, quelli che si affidano completamente a lui, sono protetti da Dio. L’esperienza del profeta – in cui la fede si esprime nella sua duplice dimensione di dubbio e di certezza, d’insicurezza e di pace – ci conduce all’invito di Gesù a non temere e a ritrovare coraggio, come egli afferma 140

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ripetutamente nella seconda parte del suo discorso missionario (cf. Mt 10,26-42). Avendo deciso di seguire il maestro, il discepolo non può aspettarsi un destino diverso: «Un discepolo non è più grande del maestro, né un servo è più grande del suo signore» (Mt 10,24). «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20). Il Vangelo attesta che la persecuzione accompagna la missione come un fatto normale. Chi sono questi «loro» di fronte ai quali il discepolo deve bandire ogni paura? Sono – per usare un termine generale – le forze ostili che ostacolano in tutti i modi il messaggio evangelico e che, di conseguenza, perseguitano e minacciano il discepolo che lo annuncia. Si tratta di uomini, gruppi, ideologie, persino del nostro stesso cuore. Secondo il Vangelo dietro tutte queste forze c’è Satana, che non può sopportare la luce della verità. Alle volte le avversità che il discepolo di Gesù è chiamato ad affrontare sono riassunte in un termine che è sempre evangelico: il mondo. Le persecuzioni e le minacce che tentano di paralizzare il discepolo assumono forme diverse, e questo già al tempo dell’evangelista Matteo. Vi è, ad esempio, la persecuzione da parte delle autorità sia giudaiche che pagane: i processi, gli interrogatori, le condanne. Ma vi è pure la persecuzione popolare, l’ostracismo, la derisione, l’emarginazione. Nel mondo giudaico (il Vangelo vive questa situazione) il discepolo di Gesù veniva evitato come un peccatore e un pubblicano e non raramente diventava oggetto di derisione. Questa situazione può suscitare interrogativi e instillare nel discepolo il dubbio. Perché la parola del Vangelo è continuamente rifiutata? Perché il Cristo risorto non vince le forze ostili del male? Quando la persecuzione non è più semplicemente un fatto esteriore ma raggiunge il cuore della fede, il discepolo è invitato a non soccombere davanti alla pau141

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ra, senza dimenticare che la via della croce fu la via del maestro: non un fallimento ma una condizione di verità. Il mondo ha odiato Cristo e continua logicamente a odiarlo nei suoi discepoli. Le ragioni dell’odio sono sempre le medesime, motivi che però il mondo tenta di nascondere dietro pretesti più plausibili. Caifa condannò Gesù per timore che il suo messaggio trascinasse alla rovina l’intera nazione; condannato ufficialmente in nome della ragione di stato e quindi del bene comune, in realtà la ragione era e rimane sempre un’altra: «A causa del mio nome». (Mt 10,22). L’annuncio del discepolo è un giudizio che inquieta il mondo. Il Cristo è venuto, senza tanti riguardi, a fare irruzione nella tranquillità del mondo. E il mondo ama solo ciò che è suo, ciò che non turba la sua pace e non smaschera le sue pretese. Il mondo odia i discepoli di Cristo (quelli veri!) perché con la loro esistenza lo pongono in questione. Si comprende come, così intesa, la persecuzione non sia più una ragione di scandalo e turbamento, ma un segno di verità. È di fronte a tutto questo che il discepolo è invitato al coraggio. L’espressione «non abbiate paura» ricorre tre volte (vv. 26.28bis) e scandisce tutto il nostro brano. Sono indicate alcune forme in cui il coraggio deve manifestarsi: oltre al coraggio nella persecuzione, di cui si è parlato, occorre il coraggio di annunciare chiaramente e a tutti, di gridare sui tetti, il messaggio di Cristo. È il coraggio di non aver mai vergogna di Cristo di fronte agli uomini. Alle forme di coraggio si intrecciano i motivi che devono sostenere tale audacia: la certezza di essere nelle mani del Padre, la certezza che condividere la croce di Cristo significa partecipare alla sua risurrezione, la certezza, infine, che gli uomini nulla possono fare per toglierci la vera vita. È un coraggio – come si vede – che nasce dalla fede e dalla libertà: il discepolo è libero da se stesso, libero persino dalla paura di morire. Non ha nulla da difendere e, quindi, 142

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non è più ricattabile. Soprattutto il discepolo sa che ciò che più conta è al sicuro, nelle mani di Dio. Questo coraggio è importante, e quanto mai attuale, non soltanto perché rende possibile la verità dell’annuncio, ma ancor prima perché è condizione di salvezza. Si noti, infatti, al termine del nostro brano, la contrapposizione tra il discepolo che difende Cristo (che è l’imputato) davanti al tribunale degli uomini e Cristo che, a sua volta, difende il discepolo davanti al tribunale di Dio. Il Signore non riconosce chi si è vergognato di lui.

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Tredicesima domenica del tempo ordinario

Accoglienza e ospitalità sono anche segno di fede 2Re 4,8-11.14-16a  ●  Rm 6,3-4.8-11  ●  Mt 10,37-42

Eliseo è un profeta che non lasciò nulla di scritto, di lui si ricordano i fatti, non le parole. La sua storia è raccolta nel secondo libro dei Re (cc. 2,1-9,10): si tratta per lo più di racconti di prodigi, narrati con grande entusiasmo e con vivacità tutta popolare. Attorno a lui il prodigio fiorisce spontaneamente, quasi con naturalezza, e così il profeta appare come il segno vivente della bontà di Dio, che soccorre il suo popolo e ne premia la fede. Questa è forse la lezione più importante del ciclo narrativo di Eliseo. Il racconto di oggi (cf. 2Re 4,8-11.14-16) racchiude una lezione quanto mai trasparente: l’ospitalità è cara al Signore e attira la sua benedizione, tanto più quando si apre la propria casa a un uomo di Dio. Si intravede fra le righe che l’ospitalità che Dio gradisce e premia è l’ospitalità generosa, disinteressata, senza strumentalizzazioni di sorta. La donna non chiede nulla, né approfitta in alcun modo dell’influenza che il profeta ha presso il re. Alla sua domanda («Che cosa possiamo fare per te?», ella risponde con grande semplicità: «Io vivo tranquilla con il mio popolo» (v. 13). Sappiamo che presso gli antichi l’ospitalità era sacra: accogliere i viandanti era uno dei doveri più raccomandati. Ancor oggi presso i popoli più poveri l’ospite è spesso accolto con gioia e rispettato, ma nel nostro mondo, ricco e organizzato, le cose sono diverse. Senza dubbio alcune forme di ospitalità non sono più necessarie né sarebbero possibili; tuttavia, possono cambiare 144

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i modi e le forme ma non lo spirito, e se una comunità è davvero evangelica non fa fatica ad accorgersi che, se appaiono giustamente superate antiche forme di ospitalità, ne affiorano però altre di nuove: le persone sole, gli anziani, gli immigrati, gli stranieri, e molti altri. Il passo evangelico, tratto dall’ultima parte del discorso missionario (Mt 10,37-42), indica due forme di accoglienza. La prima: «Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta» (v. 41). Qui non si tratta tanto di ospitare il profeta, ma di accoglierne la parola. Non è facile, perché la parola del profeta (la parola del Vangelo) è esigente. È infatti una parola che non tollera compromessi, esige scelte chiare e spesso sembra portare non la pace ma la divisione. Per lo più vorremmo che i profeti ci aiutassero ad aggiustare i nostri compromessi, giustificando i legami nei quali ci siamo rinchiusi. Ma il vero profeta è su questo intollerante: ecco perché accogliere il profeta è difficile come fare il profeta. E giustamente il Vangelo dice che ambedue – il profeta che annuncia il Vangelo e chi lo accoglie – avranno la stessa ricompensa. E la seconda forma di accoglienza: «Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli […] non perderà la sua ricompensa» (v. 42). Qui è in primo piano l’ospitalità, l’aiuto, il servizio. Non si parla di profeti o di missionari, ma di piccoli: i poveri, i bisognosi, gli stranieri, i diversi, chiunque. L’accoglienza è per Gesù tanto importante che egli non esita a stabilire delle equivalenze sorprendenti: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (v. 40). E così non ci sono dubbi: il senso dell’accoglienza resta uno dei segni più importanti per misurare la reale fedeltà al Vangelo delle comunità e delle case cristiane. L’accoglienza (ospitalità) dei profeti e dei piccoli si innesta nel cuore di un annuncio del maestro talmente importante che il Vangelo lo riporta, con qualche 145

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variazione, in più occasioni: «Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 10,39; cf. Mc 8,35; Lc 9,24). Questo detto programmatico e riassuntivo dell’intero progetto cristiano invita il discepolo a progettare la propria vita in termini di donazione, non di possesso: chi è ansioso di conservarsi la vita la perde, chi la mette a disposizione la ritrova. Bisogna evitare nel modo più assoluto, di ridurre queste parole evangeliche alla semplice contrapposizione fra la vita presente (terrena) e la vita futura (celeste), come se Gesù avesse semplicemente detto: sappiate rinunciare alla vita presente (e ai suoi valori) e troverete, dopo la vostra morte, il premio eterno. Certamente esiste una vita futura, che si può perdere o trovare, ma le parole di Gesù si muovono in un orizzonte più ampio. Egli afferma che la vita intera, presente e futura, materiale e spirituale, si possiede unicamente nel dono di sé. Vale la pena di insistere: Gesù non comanda la rinuncia alla vita (a «questa» vita per averne un’altra), ma esige che si cambi il progetto di questa vita: non «sacrificio» di questa vita, ma progettazione di essa nella linea dell’amore. L’opposizione è fra il progetto dell’uomo e il progetto di Dio, fra due modi possibili di condurre l’esistenza. Non è in gioco una vita al posto di un’altra – e la scelta non è semplicemente fra la vita presente e quella futura – ma tutta l’esistenza: la scelta è fra una vita piena e una vita vuota. Puoi vivere l’esistenza puntando sul possesso, nella logica dell’avere sempre di più; oppure puoi vivere l’esistenza puntando sulla solidarietà, secondo la logica del discepolo. La prima scelta, a dispetto del suo fascino iniziale e del suo successo apparente, contiene la negazione della vita, perché nella sua stoffa più profonda l’uomo è fatto per l’amore, non per l’egoismo. La seconda, a dispetto del suo apparente fallimento, contiene la pienezza della vita. A questo pun146

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to si comprende molto bene la risposta data da Gesù a una domanda di Pietro («Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, che cosa dunque ne avremo?», Mt 19,27): «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto («in questa vita, come precisa Marco») e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29).

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Quattordicesima domenica del tempo ordinario

Contrastare con l’amore il mito della violenza Zc 9,9-10  ●  Rm 8,9.11-13  ●  Mt 11,25-30

L’oracolo del profeta Zaccaria, da cui è tratta la prima lettura (cf. 9,9-10), risale probabilmente alla fine del IV secolo a.C., allorché la comunità giudaica ha ormai perso ogni potere politico e la casa di Davide ha perduto il suo ruolo dominante. Ma per questo la speranza non deve venir meno, assicura il profeta, che anzi non esita proprio in tali circostanze a parlare di gioia: «Esulta grandemente, giubila» (v. 9). Il trionfo di Dio non ha bisogno di potere politico né di prestigio internazionale; preferisce altre strade. Si noti come la descrizione tragga la sua efficacia da una tensione che la percorre tutta: si parla di un re umile, però dentro un quadro di rara grandiosità; egli è un re vittorioso e «il suo dominio sarà da mare a mare» (v. 10). Si scorge in questo contrasto un anticipo della novità evangelica. Descrivendo questo re ideale – e assicurando che la sua venuta è vicina – il profeta preannuncia senza dubbio i tratti di Gesù Cristo, ma mostra anche le caratteristiche del disegno di Dio, attributi che gli uomini devono rispettare se davvero vogliono costruire un mondo più giusto e finalmente in pace. Questi i tratti salienti: è un re giusto, e per la Bibbia la giustizia comporta principalmente l’attenzione ai deboli, ai poveri perennemente trascurati, ai senza voce di ogni genere. È un re umile, e questo significa che pone tutta la sua forza e la sua fiducia in Dio e non in altre cose, umilmente. È un re semplice e dimesso, e la sua caval148

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catura è quella dei poveri (un asinello). È un re pacifico che inaugura una politica di disarmo. È un non violento che pone la forza del proprio successo e del proprio dominio non sulla paura, ma sulla forza della verità e della giustizia. È questo il tratto sul quale il profeta si sofferma più a lungo. Giustizia, umiltà e disarmo sono qui presentate come le condizioni della pace. E a ragione, infatti non è possibile la pace senza la giustizia, senza cioè che le cose vengano messe a posto: non è possibile la pace senza una radicale conversione. E neppure è solida una pace costruita sulla paura delle armi. Si dice – illudendosi – di costruire le armi per non usarle ma, quando ci sono, si finisce sempre con il ricorrere a esse. La violenza non crea giustizia né assicura la pace, e soltanto chi è umile – cioè si appoggia a Dio e fa suo il coraggio di Dio – riesce a sottrarsi all’apparente ragionevolezza di chi dice che alla violenza si risponde con la violenza, alla forza con la forza, alle armi con le armi. Il passo evangelico (cf. Mt 11,25‑30), che contiene una breve preghiera di Gesù, ripropone lo stesso significativo contrasto che abbiamo visto nella profezia: nello stesso momento in cui Gesù dichiara «tutto è stato dato a me dal Padre mio» (v. 27) è sorprendente sentirlo dire «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (v. 29). «Umile» indica l’atteggiamento ubbidiente di Gesù, in tutto docile alla volontà del Padre: una docilità interiore, libera e voluta («di cuore»). «Mite» mostra l’atteggiamento di Gesù nei confronti degli uomini: lineare, coraggioso, ma non violento; misericordioso, tollerante, pronto al perdono, ma anche incisivo. Gesù rompe il cerchio ferreo – e secondo il giudizio degli uomini inevitabile – nel quale gli uomini si dibattono: all’amore, essi dicono, si deve rispondere con amore, alla violenza con la violenza. Gesù – mite e umile di cuore – afferma invece l’amore sempre. 149

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La mitezza di Gesù non è il silenzio e la sopportazione rassegnata, ma la coraggiosa denuncia. Per questo Gesù è stato crocifisso. La via della mitezza evangelica, che il discepolo è invitato a percorrere e che i saggi sfuggono, è la via della non violenza coraggiosa. È su questa strada della docile obbedienza al Signore e della coraggiosa non violenza che si trova il riposo. Va anche ricordato che questa scelta di non violenza da parte di Gesù non è semplicemente un rifiuto della violenza, ma una sostituzione della violenza con il coraggio dell’amore, del servizio, della solidarietà attiva. Tutte cose da imparare: «Imparate da me…».

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Quindicesima domenica del tempo ordinario

I miei pensieri non sono i vostri pensieri Is 55,10-11  ●  Rm 8,18-23  ●  Mt 13,1-23

La prima lettura, tratta dal libro di Isaia (cf. 55,1011), si limita al paragone della pioggia e della neve, tuttavia, per cogliere bene il senso di questa breve parabola bisogna allargare lo sguardo al contesto precedente. Tre aspetti della parola di Dio sono messi in luce dal profeta. Anzitutto, la parabola della pioggia e della neve intende illustrare, mediante un paragone molto espressivo tratto dalla natura, l’efficacia della parola di Dio nella storia. La Bibbia attribuisce al termine «parola» un significato molto più ampio di quello attuale, la parola di Dio non è semplicemente uno strumento per far conoscere qualche cosa, ma molto di più: è una forza creatrice, una promessa che vuole giungere al suo compimento. La parola di Dio, insomma, è creatrice, efficace, è forza di vita e guida la storia. La parola di Dio addita sempre un progetto, è fonte di speranza ed è slancio, movimento. Medita sul passato perché qui trova la prova dell’amore incrollabile di Dio e il modello da vivere: vuole che l’uomo si incammini verso un mondo nuovo, e non si ostini a conservare ciò che ha e, peggio ancora, a riprodurre ciò che è stato. Ebbene, sottolinea il profeta con molta vivacità, Israele sappia che la parola di Dio non viene mai meno: produce sempre ciò che ha stabilito, raggiunge sempre lo scopo che si è prefissa. Bisogna però anche ricordare – ed è il secondo aspetto – che questa parola è sovrana e misteriosa: «Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano 151

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le vostre vie» (v. 9). La parola di Dio viene dall’alto, non dal profeta o dall’uomo. Di qui la sua efficacia, ma anche la sua possibilità di percorrere vie che l’uomo neppure può immaginare: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (v. 8), proprio perché la parola di Dio percorre anche strade che all’uomo sembrano a fondo cieco, da cui spesso si ha l’impressione di inefficacia e di fallimento, come accadde di fronte alla croce di Cristo. La parola di Dio ha risorse impensate. È questo, senza dubbio, il messaggio centrale del brano del profeta. C’è però un terzo aspetto da non trascurare: «L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri» (v. 7). La parola di Dio è efficace e ottiene sempre ciò che vuole, come la pioggia e la neve che cadono dal cielo. Tuttavia è necessario che l’uomo si converta, cambi le proprie valutazioni e ritorni al Signore. Solo così infatti la parola di Dio rimane parola di salvezza, altrimenti è sì ancora efficace, ma si tramuta in parola di giudizio. Ciò di cui deve preoccuparsi l’uomo di fronte alle situazioni nelle quali si trova, anche le più disperate, non è l’efficacia della parola di Dio (questa c’è sempre), ma della propria conversione e del ritorno del Signore. Fiducia incrollabile nella parola del Signore e insieme volontà di conversione, ecco il messaggio del profeta. Un messaggio di speranza, di impegno, ma soprattutto di consolazione rivolto a uomini scoraggiati, in esilio. È questo, infatti, il contesto storico del nostro passo. La comunità esiliata rischia di perdere la propria fiducia nell’efficacia della parola di Dio e rischia di subire il fascino delle religioni straniere: perché il Signore tace? perché le sue promesse non si avverano? Isaia ci risponde che la parola di Dio è fedele e che il suo modo di compiersi è diverso dai nostri progetti. Una situazione molto simile è riproposta dal Vangelo di Matteo (cf. 13,1-23). I discepoli di Gesù prima e 152

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le comunità cristiane poi si chiedono perché la rivelazione di Dio, proposta ai giudei e ai pagani, sia rifiutata da molti e accettata da pochi. La parabola del seminatore sembra insistere a lungo sulla sfortuna del contadino: soltanto alla fine una breve annotazione sul seme che dà frutto («dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta»). Probabilmente nella mente di Gesù la parabola non voleva semplicemente ricordarci che i fallimenti di oggi si tramuteranno in premio domani: ora il discepolo sembra affaticarsi inutilmente, la sua fedele osservanza sembra smentita, ma alla fine si accorgerà che nulla è andato perduto e raccoglierà il frutto della sua fatica (il premio eterno). Più verosimilmente Gesù pensava soprattutto al presente: la parola del regno è qui fra smentite e successi, già ora efficace. È come la pioggia e la neve (il paragone è di Isaia): la pioggia scende dall’alto e non vi ritorna senza aver prima fecondato la terra, soltanto che (ed è un primo avvertimento) la parola di Dio – proprio perché di Dio – percorre vie che non sono le nostre. È efficace, ma a modo suo; fruttifica abbondantemente, ma non sempre si vede come e dove. Non resta, di conseguenza, che seminare la parola dovunque, con fiducia e senza risparmio. Con fiducia: troppe volte la fatica di chi semina la verità, l’amore, il Vangelo, appare sterile e sprecata, e invece – la parabola vuole anzitutto essere una parola di consolazione e di speranza – è certo che da qualche parte fruttifica. E con generosità: il seminatore del Vangelo non conosce in anticipo i terreni fertili e i terreni sterili e perciò non ha altra scelta che buttare il seme dovunque, a piene i mani. Sin qui abbiamo letto la parabola insistendo sulla figura del seminatore e ponendoci dalla parte degli annunciatori della Parola. Ma la domanda che i discepoli rivolgono a Gesù e la risposta che ne segue invitano piuttosto a metterci dalla parte di coloro che sono interpellati dalla Parola. 153

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Ogni cristiano è anche il terreno che accoglie la parola, ed è perciò altrettanto importante conoscere le condizioni che permettono alla parola di fruttificare. Di fronte alla constatazione che spesso gli uomini rendono sterile la parola di Dio – è questo appunto il senso della domanda che i discepoli rivolgono al Maestro – Gesù dà una prima risposta prendendo a prestito un oracolo di Isaia: «Il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri d’orecchi e hanno chiuso gli occhi» (v. 15; cf. Is 6,9-10). L’espressione biblica «cuore insensibile» indica l’uomo ripiegato su se stesso, chiuso nel proprio mondo, dal quale non vuole uscire. L’uomo dal cuore indurito rifiuta la parola che disturba, e per parola non intendiamo solo la parola che si ascolta, ma anche la parola della vita, dei fatti. Su molte cose l’esperienza, la storia e i fatti che accadono parlano chiaro, ma gli uomini «dal cuore duro» si ostinano a non vedere o a interpretare in modo distorto. Fin qui il pensiero di Isaia che Gesù cita nella sua risposta ai discepoli. La spiegazione della parabola riprende la risposta in modo più articolato; molte sono le cause che ci rendono incapaci di far tesoro della parola che ci interpella. C’è la superficialità, quasi una vera e propria incapacità di fissare l’attenzione su ciò che è impegnativo o che va appena al di là dei più immediati interessi. È come gettare il seme su una strada: scivola via. C’è l’entusiasmo facile ma privo di costanza; di profonde radici, di forza d’animo e di abitudine alla fatica. La parola è accolta con gioia ma non cresce. L’evangelista annota: giunge una tribolazione o una persecuzione e tutto sparisce. C’è la preoccupazione degli affari, il fascino della ricchezza, le ambizioni: tutte cose che appesantiscono il cuore e lo distraggono; la parola di Dio non trova più spazio e muore. Come si può constatare, il Vangelo è molto lucido nell’analizzare le resistenze del cuore 154

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dell’uomo nei confronti della parola di Dio e delle sue esigenze, ma c’è un aspetto particolarmente attuale: non c’è spazio per l’accoglienza della Parola là dove mancano le virtù «umane» come l’abitudine alla riflessione e l’apertura ai valori dello spirito, la capacità di convinzioni profonde e radicate, la costanza, l’allenamento alla fatica; la giusta misura (una sorta di «sobrietà») nel lavoro e il disincanto di fronte al fascino della ricchezza e del prestigio.

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Sedicesima domenica del tempo ordinario

Servi impazienti che vogliono anticipare il giudizio di Dio Sap 12,13.16-19  ●  Rm 8,26-27  ●  Mt 13,24-43

Il libro della Sapienza è attribuito a Salomone, ma in realtà fu scritto da un ignoto autore nella seconda metà del II secolo a.C. ad Alessandria d’Egitto e si rivolge alla colonia ebraica di quella città. Di questi emigrati ebrei – appassionatamente attaccati alla loro tradizione ma nel contempo continuamente posti a confronto con la filosofia, la religione e i costumi di una società pagana – il libro rispecchia lo spirito, le idee e i problemi. L’autore riflette sulla storia passata e ne ricava spunti di meditazione, lezioni di comportamento e soprattutto risposte per gli interrogativi del suo tempo. Gli ebrei di Alessandria si domandavano perché Dio non intervenisse prontamente a colpire gli idolatri. Ed ecco la risposta: come si è comportato in passato, così Dio si comporta ancora oggi. Riletto in questo contesto il brano liturgico (cf. 12,13.16-19) si rianima. È attraversato – come spesso i passi biblici – da una tensione: giudizio e pazienza, castigo e perdono; la tolleranza è tutte e due le cose insieme. Ciò che qualifica la tolleranza non è l’assenza di giudizio ma il fatto che il giudizio è sempre in funzione dell’uomo per convertirlo. Un giudizio paziente, quindi, graduale; tolleranza è amore alla verità e lotta all’errore ma senza violenza, senza imposizioni. C’è chi ama la verità e non gli uomini: costui è spesso rigido e intollerante. Dio ama gli uomini. La soddisfazione di Dio non sta nel punire, ma nel convertire, e il motivo di ciò è che egli ama davvero tutti, anche chi sbaglia. Questa 156

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è la radice della tolleranza: non il semplice rispetto reciproco, tanto meno l’indifferenza di fronte a qualsiasi cosa succeda, ma l’amore, la solidarietà. L’amore genera la tolleranza e ne determina le caratteristiche, i tempi e le modalità, e se non elimina il giudizio (c’è infatti anche il dovere della verità e della giustizia) però lo realizza sempre in vista della salvezza mai della vendetta, né della pura difesa della verità astratta. Nella cornice del passo evangelico (cf. Mt 13,­24­-43), Gesù è l’esempio vivente della tolleranza di Dio. Una tolleranza che, se nel libro della Sapienza appariva ancora un poco in termini negativi e generali, qui appare in tutto il suo spessore positivo: Gesù va in cerca dei peccatori, è pronto al perdono, muore per tutti, è paziente. Non tutti capiscono questo comportamento di Gesù e se ne scandalizzano. In ogni suo atteggiamento Cristo ha incarnato la pazienza divina, mostrando che nessun peccato può tagliare definitivamente i ponti con la misericordia di Dio. Racconta la parabola del grano e della zizzania (cf. Mt 13,24-30). La parabola insegna che nel campo vi sono i buoni e i cattivi, cosa che sorprende i servi ma non il padrone. I servi della parabola si meravigliano che accanto al buon grano sia cresciuta la zizzania e vorrebbero strapparla. Il padrone invece non si meraviglia e non vuole che venga strappata. Da una parte, la scandalizzata meraviglia dei servi e la loro impazienza: vorrebbero che la separazione avvenisse subito e che bene e male, giusti e peccatori, appartenessero a due campi diversi. Dall’altra, la tranquillità del padrone e la sua inaspettata tolleranza: la separazione avverrà più tardi, al tempo della messe. Tutto il senso della parabola è racchiuso in questo contrasto: un invito a non scandalizzarsi per il fatto che bene e male siano dovunque; un invito a imitare la tolleranza di Dio. La tolleranza evangelica (che in nessun modo va confusa con la bonomia confusionaria, timida e qua157

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lunquista di chi fa di ogni erba un fascio) assume diverse forme e si manifesta concretamente in diversi modi. C’è tolleranza là dove c’è chiarezza nell’affermazione dei principi e nell’opposizione all’errore, ma altrettanta cautela nel giudicare gli uomini e molta esitazione nel condannarli. Il giudizio appartiene a Dio più che agli uomini. C’è persino dell’ironia nelle parole del padrone del campo: «Perché non abbiate a strappare il grano insieme alla zizzania». Lo spirito tollerante (che è sempre frutto di lucidità, di serietà e di ampiezza di vedute) sa che il bene e il male costituiscono un intreccio che a nessuno (se non a Dio) è facile districare. Per lo meno è certo che la separazione non passa fra le pagine dei registri parrocchiali o fra i confini dei partiti. L’uomo tollerante non si scandalizza quando si accorge che la sua comunità è mediocre, peccatrice, compromessa, lontana dalla purezza evangelica. Assume atteggiamenti di critica e di denuncia (la tolleranza infatti non va confusa col silenzio), ma sempre con spirito costruttivo. Non abbandona mai la sua comunità, perché si ispira alla solidarietà di Dio che nessun tradimento e nessuna delusione sono in grado di distruggere. E se anche si è costretti a dichiarare che un fratello è «fuori» della comunità (il Vangelo di Matteo ammette la possibilità di considerare un fratello «pagano e pubblicano»), lo si deve fare – sempre e unicamente – in vista del perdono e della conversione, mai per scrollarsi di dosso un fastidioso fardello o semplicemente per acquistare credibilità o per salvare se stessi. La tolleranza, oltre a una corretta conoscenza di Dio, suppone un autentico amore per gli uomini. C’è gente che ama più le idee che gli uomini, il discepolo di Gesù invece ama soprattutto gli uomini, quegli uomini in carne e ossa che ha di fronte. Sa che Cristo è morto per loro. L’importante per lui non è semplicemente che le idee trionfino a ogni costo, l’essenziale è che gli uomini si aprano a quelle idee. Per questo il discepolo fa largo 158

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spazio alla pazienza, alla tolleranza, alla libertà e rispetta i ritmi della crescita. Dunque un invito alla pazienza, che l’autore della Sapienza ha rivolto ai suoi contemporanei e Gesù a scribi e farisei, e che il Vangelo continua a rivolgere anche a noi. Ma forse giova ripeterlo: non si tratta soltanto di pazienza, o di semplice assenza di giudizio, ma di qualcosa di positivo: la tolleranza di Dio – messa in luce dalla storia di Israele e dal comportamento di Gesù – è solidarietà, coinvolgimento, amore per gli uomini, desiderio di condurli alla verità e al bene, ma anche rispetto della libertà e della coscienza.

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Diciassettesima domenica del tempo ordinario

Quando il Signore ci dona anche quello che non chiediamo 1Re 3,5.7-12  ●  Rm 8,28-30  ●  Mt 13,44-52

Salomone è esaltato dalla Bibbia per la sua sapienza. Il primo libro dei Re, che narra la sua storia, ne parla in termini appassionati: «Dio concesse a Salomone sapienza e intelligenza molto grandi e una mente vasta come la sabbia che sta sulla spiaggia del mare. La sapienza di Salomone superava la sapienza di tutti gli orientali e tutta la sapienza d’Egitto […]. Da tutte le nazioni venivano per ascoltare la sapienza di Salomone» (5,9-10.14). Dio loda Salomone perché ha saputo scegliere saggiamente fra le molte cose che avrebbe potuto chiedere. Dice il Signore al giovane re: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda» (1Re 3,5). E Salomone: «Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo» (3,9). Il giovane re chiede un cuore docile e la sapienza per governare, null’altro. Per la Bibbia il «cuore docile» è l’uomo dalla coscienza disponibile, disinteressata, docile a Dio e alle esigenze di giustizia, l’uomo – in altre parole – dedito al bene di tutti e non interessato al proprio tornaconto. Così il giovane Salomone: non chiese la ricchezza, né una lunga vita, né la morte dei suoi nemici. Naturalmente non si tratta soltanto di preghiera, ma di vita; la preoccupazione della giustizia e del regno deve essere dominante nella vita, non soltanto nella preghiera. E così facendo non è che il resto – la salute, il benessere, il prestigio – vengano a mancare, tutt’altro. Il resto manca piuttosto quando ci si affanna nella vita per valori secondari, capovolgendo 160

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l’ordine delle cose: quando la preoccupazione fondamentale diviene la ricchezza, la lunga vita o il prestigio, allora tutto si corrompe. Al contrario, quando i valori fondamentali sono affermati, allora nulla è veramente perduto, come avvenne per Salomone: «Ti concedo anche quanto non hai domandato, cioè ricchezza e gloria come a nessun altro fra i re» (3,13). Le due piccole parabole del tesoro e della perla – che costituiscono la parte principale del Vangelo di oggi (cf. Mt 13,44-52) – completano il discorso iniziato. Sono tre gli elementi che costituiscono il centro della parabola della perla e del tesoro: l’eccezionale valore del ritrovamento, la pronta e radicale decisione dei due personaggi, la loro gioia. Il contadino che ha trovato il tesoro e il mercante che ha trovato la perla «vende tutti i suoi averi» (vv. 44.46) ma non c’è alcun rimpianto in questo loro vendere tutto: non si sottopongono a un sacrificio, anzi fanno un affare. Un vero e proprio colpo di fortuna che nessuno che abbia appena un po’ di buonsenso si lascerebbe sfuggire. Così è del regno di Dio: ti capita davanti all’improvviso, e la sola cosa intelligente è approfittarne. Le nostre due parabole evangeliche insegnano che la conversione – che pure esige pronto e radicale distacco – nasce dall’aver trovato. È gioiosa. Nasce dall’esperienza di un dono inaspettato e sorprendente, da un incontro che allarga il cuore: appunto la lieta notizia del regno. Per questo il vero convertito non dice «ho lasciato» ma «ho trovato»; non dice «ho venduto il campo» ma «ho trovato un tesoro». Il vero discepolo non parla molto di ciò che ha lasciato, racconta sempre di ciò che ha trovato. E non invidia nessuno, si ritiene fortunato. Certamente per seguire Cristo occorrono decisione, abbandono senza riserve e adesione senza rimpianti; riguardo a questo le due parabole parlano chiaro: vendere tutto. Ma rimane il fatto che questo vendere tutto avviene in un’atmosfera di gioia. Il Vangelo vede il di161

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stacco come un recupero di umanità, giustamente: si lasciano gli idoli falsi e alienanti per seguire Dio e ciò di cui abbiamo veramente bisogno. Il ritorno a Dio è un ritorno a casa, un ritorno alla propria autenticità. Le cose da vendere sono le cose inutili, alienanti, le cose che ci deludono, ci dividono e ci impediscono di godere della libertà e della fraternità. L’importante nella vita è saper scegliere con decisione, costi quello che costi: importante è orientarsi davvero verso qualcosa che valga, come il mercante che ha saputo vendere tutto per acquistarsi il tesoro. Il rischio è sempre quello di orientarsi verso cose che non meritano il nostro sforzo. Certo, orientarsi verso il regno di Dio e i grandi valori che lo costituiscono significa anche rinunciare a molto, si tratta però di una rinuncia che in nessun modo è perdita ma, al contrario, è un affare. Per questo il mercante va e pieno di gioia vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Importante e significativo è quel «pieno di gioia» (v. 44). A questo punto della riflessione si corre sempre un pericolo, quello cioè di pensare frettolosamente che le provocazioni del Vangelo, quelle senza mezzi termini, siano valide semplicemente per alcune vocazioni particolari. La nostra fede, pensiamo, è quella che è (le parabole di Gesù sembrano supporne molta, mentre la nostra è scarsa) e le condizioni nelle quali siamo costretti a vivere sono quelle che sono: come possiamo vendere tutto per il regno? Sembra un ragionamento dettato dal buonsenso, e invece è una tentazione. Le parole del Vangelo, anche là dove sono dure e radicali, sono rivolte a tutti. Sono una sfida al buonsenso di molti, ma sono una sfida da raccogliere: sono parole da coltivare dentro di noi, accettandone l’inquietudine e la forza di consolazione, e non parole da relegare sbrigativamente nella sfera dell’impossibile. Almeno ci resta la possibilità di divenire uomini disponibili, pronti ad approfittare di tutte quelle occasioni che le condizioni 162

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in cui viviamo e la nostra poca fede, nonostante tutto, ci lasciano. L’uomo evangelico è nel contempo coraggioso e realista; punta al massimo, ma accetta di fare un passo dopo l’altro. È proprio questo passo dopo l’altro che non ci decidiamo a fare.

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Diciottesima domenica del tempo ordinario

Alle prese ogni giorno con mille inutili affanni Is 55,1-3  ●  Rm 8,35.37.39  ●  Mt 14,13-21

Il brano profetico di Isaia si colloca nel periodo storico dell’esilio a Babilonia. Il suo messaggio è rivolto agli ebrei deportati i quali, ormai logorati dal lungo esilio, rischiavano di perdere fiducia nella parola di Dio e di affannarsi, di conseguenza, a costruire a modo loro una sistemazione e un benessere in terra straniera. A tutti costoro il profeta ricorda l’efficacia e la solidità della parola di Dio: «Secca l’erba, il fiore appassisce, ma la parola del nostro Dio dura sempre» (40,8). E insieme a questa fondamentale certezza (la parola di Dio merita sempre fiducia!) un avvertimento altrettanto importante: «Cercate il Signore […] invocatelo […]. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri» (55,6-7). È in questo preciso contesto che si inserisce il nostro passo (cf. 55,1-3), un pressante invito alla conversione, a mutare posizione, a porre di nuovo la propria fiducia nel Signore. Agli esiliati delusi e affannosamente impegnati nella ricerca di un benessere inconcludente, il profeta chiede: «Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia» (v. 2)? Un interrogativo che è contemporaneamente constatazione e rimprovero. Stupidamente gli uomini si affannano per cose che non concludono, e consumano tempo e vita in cerca di soluzioni che lasciano intatto il problema. È una fotografia degli ebrei esiliati, ma è anche una descrizione degli uomini di ogni tempo. È appunto questa dimensione universale che rende il passo del profeta attuale ancor oggi. 164

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In questa realistica descrizione di come troppe volte gli uomini impostino male l’esistenza, non si trascuri un’annotazione che il profeta considera importante, tanto da ripeterla: il benessere che l’uomo cerca è legato al denaro, mentre la salvezza di Dio è gratuita («Voi che non avete denaro, venite […] comprate senza denaro, senza pagare […] perché spendete denaro?», vv. 1-2). La ricerca di un senso della vita fondato sul denaro favorisce i più fortunati, i più ricchi, e trasforma l’esistenza in competizione, si finisce col vedere in ogni fratello un concorrente. Non così la salvezza di Dio che invece è gratuita e per tutti, e non divide ma unisce. Con la sua serie di imperativi («Ascoltatemi […]. Porgete l’orecchio […], ascoltate», vv. 2-3), il nostro passo non dice altro che questo: ascoltare Dio significa sottrarsi al fascino di ricerche insignificanti e devianti per orientare con decisione il proprio spirito verso quei valori che davvero contano e che soli sono in grado di dare un senso alla vita; valori quali l’amore, la passione della verità e della giustizia, la fede, la ricerca di Dio, tutti valori che non sono legati al denaro né ad altri criteri competitivi, e la cui ricerca non pone gli uomini l’uno contro l’altro, ma li rende fratelli. Soltanto a un’esistenza così impostata è assicurata la promessa: «Mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti […] vivrete» (vv. 2-3). Dietro i simboli del pane e dell’acqua, del vino e del latte la Bibbia vede i grandi bisogni dell’uomo – la sua vera fame è la sua vera inquietudine! – che nessun affanno e nessuna agitazione riescono a soddisfare ma che solo Dio può placare. La ricerca del benessere si mantenga nelle debite proporzioni, bastano le cose necessarie, il di più appesantisce e anziché risolvere il problema dell’esistenza ne fa svanire il senso. Invece di agitarsi in tentativi affannosi e inconcludenti, il profeta invita gli esiliati a convertirsi e a porre di nuovo la loro fiducia nella promessa di Dio. 165

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E questo insegnamento – l’uomo tormentato da una fame e da una sete che soltanto Dio è in grado di saziare – si ritrova anche nel racconto evangelico (cf. Mt 14,13-21): la folla segue Gesù non per il pane ma per ascoltare la sua parola. Al primo posto, dunque, l’ascolto della Parola! Ma alla folla che lo ha seguito per ascoltarlo, Gesù dona anche il pane, perché «sentì compassione per loro» (v. 14). La compassione di Gesù – trasparenza della compassione di Dio – è un sentimento ricco di sfumature: è l’atteggiamento di chi si sente coinvolto e responsabile, un atteggiamento fatto di simpatia, amore e misericordia. È a partire da questo sentimento che si comprendono tutti i gesti di Gesù che il brano evangelico puntualmente racconta. Gesù dà un ordine ai discepoli, prega e ringrazia, moltiplica i pani, li spezza e li consegna ai discepoli perché li distribuiscano. Gesù «recitò la benedizione» (v. 19): è questo l’atteggiamento più autentico dell’uomo di fronte a Dio, alle cose e ai fratelli. Benedire significa riconoscere che le cose sono un dono di Dio e, quindi, ringraziare: doni di Dio da gustare nella gioia. Ma anche da condividere, perché Dio li ha creati per tutti i suoi figli, non solo per alcuni. I discepoli si preoccupano della folla, ma credono che debba essere la folla stessa a risolvere il problema: «Congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare» (v. 15). Gesù invece coinvolge i discepoli e li impegna. Tocca a loro risolvere il problema: «Voi stessi date loro da mangiare» (v. 16). Un ordine impossibile: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci» (v. 17). Ma nulla è impossibile a Dio. Gesù prende il poco che i discepoli hanno e lo moltiplica: nelle sue mani il poco diventa molto, il pane spezzato diventa abbondante. In sostanza Gesù vuole che il «comprare» venga sostituito con il «condividere», e questo significa che devono cambiare le relazioni fra te e gli altri, fra te e le cose. Tu sei responsabile dell’altro e perciò personal166

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mente coinvolto nel suo bisogno. Il problema del pane per tutti è problema tuo, non soltanto degli affamati, e le cose che possiedi – fossero pure soltanto cinque pani e due pesci – sono beni di Dio da godere con gli altri, non a differenza degli altri. Lo schema del «comprare» crea i fortunati e gli sfortunati, alcuni hanno molto, altri poco, altri nulla. Occorre passare dal comprare al condividere. Se anche – paradossalmente – i discepoli avessero comprato col loro denaro il pane da distribuire, avrebbero compiuto un gesto di carità, non un segno che introduce nei rapporti una logica differente. È Gesù che fa il miracolo, ma non è lui che distribuisce il pane alle folle: «Li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla» (v. 19). È un’immagine della chiesa: è Cristo che dona la Parola e la vita, ma tutto passa fra le mani degli uomini che lo rappresentano.

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Diciannovesima domenica del tempo ordinario

La forza che nasce dalla fede 1Re 19,9a.11-13a  ●  Rm 9,1-5  ●  Mt 14,22-33

Il profeta Elia compare nella Bibbia all’improvviso. Elia, il Tisbita, disse ad Acab: «Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto» (1Re 17,1). Il grande profeta è già tutto racchiuso in questa semplice battuta introduttiva: egli sta davanti al Signore tutto proteso nell’affermare l’assoluto dominio di Dio su Israele. Dio è l’unico Signore e Israele non può servire due padroni; occorre decidersi, stare da una parte o dall’altra: «Fino a quando saltellerete da una parte all’altra? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui» (1Re 18,21). Questa intransigenza del profeta, che non tollera alcun compromesso fra il vero Dio e gli idoli, fra l’obbedienza al Signore e l’ossequio al mondo, incontra l’incomprensione del popolo (il racconto annota che alla sua domanda «Fino a quando saltellerete da una parte all’altra?» il popolo «non gli rispose nulla»!) e, soprattutto, l’aperta ostilità della corte favorevole invece a una politica religiosa di compromesso. In questo contesto Elia ci viene presentato come uomo impavido e irruente che non esita ad affrontare da solo il re e il popolo: «Io sono rimasto solo come profeta del Signore, mentre i profeti di Baal sono quattrocentocinquanta» (1Re 18,22). E tuttavia questo grande profeta solitario e coraggioso è anche un uomo, e quando la regina Gezabele lo minaccia di morte, fugge «impaurito» nel deserto, si accascia sotto un cespuglio di ginepro dubitando persino della sua missione e del destino di Israele, e 168

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augurandosi la morte. Ma poi fortificato dal cibo di Dio «camminò quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio» (1Re 19,8), ed è qui che il Signore gli apparve nella brezza all’imboccatura della caverna. Dio non si manifesta a Elia nei fenomeni naturali grandiosi e violenti – vento, terremoto, fuoco – ma nel sussurro di una brezza leggera (letteralmente «voce di un sottile silenzio», 1Re 19,12) quasi a significare la dolcezza, l’intimità e la spiritualità della sua presenza. Dio non è nei fenomeni naturali (uragano, terremoto, fulmini) dove volentieri lo ponevano i pagani, Dio non si lascia imprigionare da nessuno degli elementi che ha creato, Dio è nel cuore dell’uomo. Nell’episodio evangelico (cf. Mt 14,22-33) si narra di un’altra manifestazione divina. Gesù ordina ai discepoli di precederlo sull’altra sponda mentre si congeda dalla folla per poter rimaner solo a pregare. Non è certo possibile penetrare tutto il segreto di questa sua preghiera solitaria ma forse si può rilevare come la sua preghiera nascesse come da una triplice esigenza. Gesù sa di essere figlio di Dio e questa sua gioiosa consapevolezza si esprime nel colloquio col Padre: la preghiera è la sua identità più profonda che si traduce in consapevolezza e in colloquio. Gesù uomo si confronta col Padre e con la sua parola per ritrovare costantemente la nitidezza e il coraggio della propria via. E infine Gesù prega il Padre, in solitudine, perché solo il Padre è in grado di comprenderlo e di colmare la sua sete di amore. Gesù ama gli uomini, ha una comunità di discepoli, ma gli uomini e la comunità non gli bastano: egli è figlio di Dio, egli desidera il Padre. Certamente la preghiera di Cristo è una preghiera unica, originale e irripetibile, tuttavia è anche il modello della nostra. Anche per noi la preghiera è, anzitutto, l’affiorare alla coscienza della nostra condizione di «figli» ed è un confronto con una parola che ci indica la strada. È l’espressione della nostra solitudine e della 169

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nostalgia di Dio: c’è al fondo di noi stessi qualcosa che solo Dio può capire e che solo il Padre può soddisfare. La barca sballottata dal mare in tempesta, la paura dei discepoli, le parole di Gesù e il grido di Pietro, tutto questo fa capire che l’episodio vuole essere un simbolo della comunità cristiana alle prese con la persecuzione e con la paura. Ma né l’annotazione iniziale sulla preghiera di Gesù, né la professione finale dei discepoli, né l’evidente coloritura ecclesiale dell’episodio costituiscono il centro del racconto, che si trova invece tutto racchiuso nel gesto di Pietro – quasi un miracolo nel miracolo – e nel dialogo fra lui e il Signore. Pietro cammina sulle acque come Gesù, ma non per potenza propria, la sua possibilità dipende unicamente dalla parola del Signore («Vieni!») e la sua forza sta nella fede. È questa la grande lezione: la forza del discepolo sta tutta nella sua fede in Gesù. Aggrappato a questa fede, il discepolo può ripetere gli stessi miracoli del suo Signore, ma se questa fede si incrina («Uomo di poca fede, perché hai dubitato?», v. 31), il discepolo diventa facile preda delle forze del male e soccombe nella tempesta; senza pensare a situazioni particolarmente eccezionali si può dire, più semplicemente, che senza la fede la parola del discepolo, come la sua vita, diventa sterile e sbiadita. Lo stupore dei discepoli e la loro professione di fede («Davvero tu sei figlio di Dio», v. 33) con cui si chiude l’episodio sono comprensibili. Comandare alla tempesta e alla furia del mare era considerato da tutto l’Antico Testamento come una prerogativa esclusiva di Dio. I discepoli intravedono che la potenza della divinità è nascosta in un uomo «che sta con loro».

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Ventesima domenica del tempo ordinario

Dio è di tutti Is 56,1.6-7  ●  Rm 11,13-15.29-32  ●  Mt 15,21-28

Dio è di tutti e non fa differenze di persone: potrebbe essere questo il titolo delle letture liturgiche. Il profeta Isaia (cf. 56,1.6-7) ricorda a Israele – sempre tentato di contrapporsi agli altri popoli e di dividere il mondo in due, il popolo di Dio e gli stranieri – che Dio guarda alla «pratica della giustizia e del diritto», non all’appartenenza a un popolo o a un altro, a una nazione o a un’altra. Il tempio di Gerusalemme non è il segno che Dio si ricorda di Israele e si dimentica degli altri, al contrario, è il segno che Dio vuole che Israele diventi un punto di convergenza: «La mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli» (v. 7). Il Vangelo (cf. Mt 15,21-28) ribadisce la stessa idea: Gesù compie gesti di salvezza in territorio straniero («la zona di Tiro e di Sidone», v. 21), in favore di una donna pagana. Ai suoi discepoli che lo esortano a esaudire la richiesta della donna straniera, Gesù prima afferma di essere venuto anzitutto per Israele, poi la salva: un gesto prefiguratore. Il Vangelo è aperto anche ai pagani, ma c’è di più: non soltanto è aperto ai pagani, ma alle volte si trova più fede in mezzo a loro che all’interno della comunità ebraica. È un pensiero, questo, che nel Vangelo di Matteo ritorna con sorprendente frequenza: i magi vengono da lontano a cercare Gesù, mentre Erode e gli abitanti di Gerusalemme lo rifiutano (cf. Mt 2,1-12); Dio può far sorgere figli di Abramo anche dalle pietre (cf. Mt 3,9); il centurione pagano ha più fede degli israeliti (cf. Mt 8,10); gli abitanti di Ninive e

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la regina del Sud sono più disponibili di «questa generazione» (cf. Mt 12,38-42). Per quanto riguarda l’episodio evangelico, il gioco delle domande e delle risposte tra Gesù e la donna verte sul posto che i pagani occupano nel disegno di Dio: i figli sono gli ebrei, i cagnolini sono i pagani. Gesù giustifica il suo rifiuto appellandosi al piano di Dio, come se questo piano contemplasse un «prima» (i giudei) e solo eventualmente dopo un «poi» (i pagani). Questo era il modo di pensare corrente, ma la donna riprende l’immagine di Gesù e la sviluppa, capovolgendola. Non rifiuta la priorità di Israele, però ricorda che anche i pagani hanno un posto. C’è modo e modo di intendere la priorità. Anche l’amore di Dio può avere le sue priorità, ma si tratta sempre di priorità che non separano e non escludono. Se i figli sono i primi non è per escludere gli altri, ma per far posto anche agli altri. E così per la parola di una donna pagana la priorità che Israele vantava, viene allargata e purificata. E Gesù lo riconosce e ne dà atto, come se quella donna pagana lo avesse in un certo senso illuminato: anche dai pagani può venire una parola di verità.

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Ventunesima domenica del tempo ordinario

Le chiavi del vero potere Is 22,19-23  ●  Rm 11,33-36  ●  Mt 16,13-20

Il passo del profeta Isaia (cf. 22,19-23) è parte di una serie di oracoli contro personaggi a cui Dio rivolge i suoi rimproveri e annuncia che porrà le chiavi di casa sua (Israele) nelle mani di chi giudicherà degno. Sebna, sovrintendente del palazzo, verrà sostituito da Eliakim servo di Dio, il quale si dimostrerà un servitore perfetto per la casa di Giuda e per gli abitanti di Gerusalemme, quindi degno di portare «sulla spalla la chiave della casa di Davide» (v. 22). Non ci vuole molta fantasia per vedere profilarsi, in questa sostituzione di ruoli, la figura del Cristo, vero servitore della casa di Davide e vera gloria del Padre. Da Dio riceverà ogni potere ma sulla terra questo potere verrà delegato a Pietro il pescatore, come racconta l’episodio evangelico (cf. Mt 16,13-20). È Gesù stesso che prende l’iniziativa di interrogare i discepoli intorno alla propria persona: «La gente, chi dice che sia il figlio dell’uomo? […] E voi, chi dite che io sia?» (vv. 13.15). Per rispondere alla domanda, la gente ricorre a note figure del passato: Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta, così cogliendo in qualche modo la grandezza di Gesù, senza tuttavia scorgerne la profonda originalità. Non si può esprimere il significato di Gesù ricorrendo a schemi interpretativi già conosciuti: qui sta la «grandezza» di Pietro che va oltre la folla ed esprime con assoluta chiarezza la messianicità e la filiazione divina di Gesù. Il Vangelo si premura di annotare che questa fede non viene da «sangue e carne», ma dal Padre. È 173

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dono. È solo la luce che viene da Dio che è in grado di far comprendere il mistero profondo di Gesù. Il brano evangelico non è solo interessato alla figura di Gesù, ma anche alla chiesa. Ci dice anzitutto che la chiesa appartiene a Cristo, «La mia chiesa», e ne sottolinea la perenne stabilità: la chiesa è come una casa costruita sulla roccia, anche se poggia apparentemente sulla fragilità degli uomini – «Le potenze degli inferi non prevarranno su di essa» (v. 18) –. Una stabilità sicura ma tormentata. Viene anche suggerito che all’interno della chiesa si troveranno sempre dei peccatori, per questo la comunità ha bisogno di «legare e sciogliere»: continua il peccato e deve perciò continuare il perdono. Il ruolo di Pietro nella chiesa viene descritto ricorrendo a tre metafore: la roccia, le chiavi, legare e sciogliere. Insieme queste tre metafore illustrano molto bene la funzione di Pietro: lui è la roccia che tiene salda la casa, è il punto attorno al quale si forma l’unità della comunità; egli ha una vera e piena autorità – «a lui sono affidate le chiavi» – e infine può proibire e permettere, separare e perdonare, prerogative che lungo la Bibbia sono attribuite al messia. L’autorità di Pietro, dunque, è vicaria: Pietro è l’immagine di un altro, di Cristo, che è il vero Signore della chiesa, ma proprio perché immagine di Cristo, l’autorità di Pietro è piena e indiscussa, sottratta persino alla sua personale santità.

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Ventiduesima domenica del tempo ordinario

La solitudine del giusto e i silenzi di Dio Ger 20,7-9  ●  Rm 12,1-2  ●  Mt 16,21-27

Geremia fu una figura impopolare, costretto a dire cose che nessuno voleva sentire, contestato da altri profeti (falsi profeti!) che invece dicevano parole più gradite. Geremia ha sempre preso posizione contro tendenze che egli giudicava inconciliabili con la fede in Dio, predicando cose che l’autorità e il popolo giudicavano, a loro volta, incompatibili con la fedeltà della nazione. Per le sue posizioni – che denunziavano popolo e autorità e disapprovavano la politica ufficiale – Geremia ha vissuto una continua persecuzione. In questa dolorosa situazione il profeta ci apre il suo intimo, e così veniamo a conoscere le sofferenze, le delusioni, le crisi di un autentico uomo di fede. Si tratta di preghiera (cf. 20,7-9) non di semplice sfogo. Il profeta sperimenta l’emarginazione da parte degli uomini e, ancora più sconvolgente, il «silenzio» di Dio. Certo, un silenzio apparente, ma ugualmente pesante; una duplice solitudine: di fronte al popolo (che ama profondamente) e di fronte a Dio (per servire il quale ha tutto lasciato). L’emarginazione gli pesa ed è ingiusta. Nessuna meraviglia se sorprendiamo il profeta a interrogarsi sulla sua vocazione e a lamentarsi con il suo Dio: «Mi hai sedotto, Signore, e mi sono lasciato sedurre […]. Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si fa beffa di me» (v. 7). Non che il profeta sia veramente pentito della scelta fatta, i suoi propositi di abbandono sono soltanto il segno di un momentaneo smarrimento. La fedeltà alla sua voca175

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zione e l’attaccamento al proprio Dio non sono veramente in discussione. Più semplicemente, in questi momenti di abbattimento, il profeta desidererebbe un po’ di comprensione almeno da parte del suo Dio, ma anche da lì viene (o sembra venire) la solitudine. È il lamento-preghiera di un uomo che ha messo in gioco tutto se stesso, che paga, che vorrebbe che almeno Dio fosse dalla sua parte (ma alle volte anche Dio sembra da un’altra parte). È una preghiera-discussione. Ma questo non è tutto. Il profeta sperimenta con altrettanta forza la gioia e la sicurezza. Discute con il suo Dio e vorrebbe abbandonare tutto: «Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome» (v. 9); ma poi scopre nel profondo della sua anima una fedeltà che non gli permette di smettere, un amore alla Parola che nessuna smentita riesce a distruggere: «Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente […]; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (v. 9). E riprende di nuovo la sua strada. La vicenda personale di Geremia prefigura direttamente la sorte di Gesù. Il primo annuncio della passione (cf. Mt 16,21-27), seguito poi da altri due, cade nel momento in cui Gesù, a causa dell’incomprensione della folla e dell’opposizione sempre più violenta dell’autorità, si concentra nella formazione dei discepoli (il suo «piccolo gregge») e prosegue, sempre più solo, verso la croce. Egli comprende che il suo cammino deve passare attraverso la solitudine, proprio come Geremia. Gesù è consapevole di andare incontro a una morte violenta, ma sa anche che essa è un fatto salvifico che rientra nel piano di Dio e non semplicemente la conclusione, facile a prevedersi, di una storia di opposizioni e lo dichiara apertamente. Tuttavia, a questo punto del cammino nasce un nuovo tipo di incomprensione, che non è più quello della folla ma dei discepoli. Essi sono pronti a riconoscere la 176

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messianicità e la divinità di Gesù, ma non la via della croce che egli intende percorrere. E così Gesù rimprovera Pietro con gli stessi termini rivolti a Satana nel deserto: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo» (v. 23). In effetti è la stessa tentazione: un’opzione messianica che scarta le vie di Dio ritenute fallimentari, per ripiegarsi su quelle degli uomini considerate efficienti. Nella figura esemplare di Pietro sono presenti le due facce del discepolo, quella che riconosce il figlio di Dio e quella che reagisce di fronte alla croce. È sorprendente che a ognuna delle tre predizioni della passione faccia seguito, in un modo nell’altro, una incomprensione dei discepoli: quella di Pietro, quella dei discepoli che discutono intorno al più grande e infine quella di Giovanni e Giacomo che si contendono il primo posto. La solitudine di Gesù è dunque totale: non solo le folle, ma anche i discepoli non capiscono. Eppure nonostante l’incomprensione dei suoi discepoli e la solitudine cui va incontro, Gesù non cambia una virgola del suo discorso anzi, lo applica senza addolcimenti agli stessi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (v. 24). Per essere discepoli non basta riconoscere che Gesù è messia e figlio di Dio (e… quale Dio?). Occorre accettare e condividere la sua prassi, ecco ciò che fa la vera identità del discepolo. È certamente difficile, ma questo resta il vero spartiacque tra fede e non fede, fra cristiano e no. Il discepolo deve «rinnegare» se stesso (la parola è dura, ma esprime molto bene il pensiero di Gesù), deve cioè accettare, a differenza di quanto ha fatto Pietro, il progetto messianico della croce, capovolgendo in tal modo l’immagine di Dio che si è costruito e convertendo radicalmente le speranze che ha coltivato. A ragione si può dunque parlare di «rinnegamento» o, in altri termini, il discepolo deve progettare l’esistenza nella prospettiva della donazione e della solidarietà, non del possesso: «Chi vuole salvare 177

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la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (v. 25). Pietro e gli altri, dunque, non compresero e successivamente il Vangelo ci dirà che «fuggirono», tuttavia restano il nostro modello. Quando decisero di mettersi alla sequela di Gesù lo immaginavano diverso, avevano altre idee, altre speranze; tutte cose che Cristo ha fatto man mano crollare. Eppure, nonostante le paure, le molte incomprensioni e le esitazioni, hanno continuato a seguirlo! Insieme alle loro speranze e ai loro timori, avevano anche, e con radici più profonde, qualcos’altro, un elemento fermo, irrinunciabile, decisivo: l’attaccamento al loro Signore. È questo attaccamento che fa di un uomo, nonostante tutto, un discepolo, cioè un uomo che segue il suo Signore – in fondo è l’unica cosa che gli importa! – dovunque e comunque.

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Ventitreesima domenica del tempo ordinario

Il coraggio di dire la verità (anche quando fa male) Ez 33,1.7-9  ●  Rm 13,8-10  ●  Mt 18,15-20

Come ogni vero profeta, Ezechiele è un uomo profondamente unificato: tutte le tensioni, le contraddizioni, i molteplici aspetti della sua personalità, tutto trova unità nella indiscussa obbedienza alla sua vocazione. Egli è la «sentinella» d’Israele con l’incarico di vigilare su tutto il popolo: una responsabilità di cui è consapevole e della quale sa di dover rendere conto al Signore. Ma cosa significa essere sentinella d’Israele? Quali le funzioni da svolgere? I compiti sono molti ma il brano (cf. 33,7-9) ne fa emergere in particolare uno: richiamare ciascuno alla propria responsabilità. La tentazione di scaricare sugli altri la responsabilità delle situazioni nelle quali si vive era grande al tempo di Ezechiele, com’è grande anche oggi. La teologia ebraica è sempre stata molto sensibile agli aspetti comunitari della responsabilità, molto meno invece agli aspetti individuali e personali. Al tempo di Ezechiele circolava una specie di proverbio: «I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» (Ez 18,2), in altre parole, i nostri padri hanno sbagliato e noi ne portiamo le conseguenze. Questo proverbio, pur avendo la sua parte di verità, era molto dannoso in quanto in alcuni suscitava ribellione contro l’ingiustizia di Dio: perché dobbiamo soffrire noi per i peccati dei padri? Per tutti diventava una scusa: se la catastrofe arriva, la colpa è dei padri, non nostra, noi non possiamo fare nulla, non dobbiamo cambiare nulla. 179

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Di fronte a questa mentalità il profeta ribatte che ogni generazione è responsabile di se stessa, e così ciascun individuo. Il passato può essere un ostacolo, ma non una prigione. E questo vale anche per la società, per le sue strutture, per tutto. Come nulla è mai definitivamente al sicuro, tanto che il giusto può perdere in ogni istante la sua giustizia, allo stesso modo nulla è mai definitivamente perduto, e il peccatore può sempre convertirsi dal suo peccato. Sussiste la possibilità di modificare le situazioni, l’importante è che l’uomo non si sottragga al dramma della sua responsabilità. Passando al Vangelo (cf. Mt 18,15-20), la prima cosa che ci ricorda è che ciascuno di noi è chiamato a essere «sentinella» nella comunità. Il vero amore non è fatto di silenzio, non lascia le situazioni e le persone così come sono. Amare veramente i fratelli significa aiutarli a crescere. «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te…» (v. 15). Nella comunità sono ancora presenti le rivalità, gli scandali e i peccati. Come comportarsi di fronte a tutto questo? Ci viene detto che nella comunità si deve respirare un’aria di mutua sollecitudine e di fraterna correzione. Gesù sembra ispirarsi a un passo del Levitico: «Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui» (19,17). Una correzione franca ma insieme paziente e discreta, per gradi: a quattr’occhi, dinanzi a uno o due testimoni, dinanzi all’intera comunità riunita. La correzione cristiana è sempre in vista del perdono. È uno sforzo di ricerca degli smarriti per ricondurli al ravvedimento, dunque un modo concreto di mettere in pratica l’insegnamento della parabola della pecora smarrita e del pastore che va alla sua ricerca. Non è possibile un’altra prospettiva, l’amore e il perdono precedono: la correzione nasce dall’amore. Si corregge perché si ama, altrimenti che diritto avremmo di corregge180

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re? L’amore all’interno della comunità deve essere come l’amore del Cristo, e il Cristo ci ha amati per primo, così come siamo, e per questo ci corregge. Ma è altrettanto vero che nel brano evangelico ci sono parole dure: «Se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano» (v. 17). Parole forti, che però non vanno tolte dal contesto dell’intero discorso che è, appunto, di correzione e perdono. La comunità deve mostrarsi attenta – pur accogliendo i peccatori – alla propria purezza: non tutto è accettabile, non tutto è chiesa. La comunità deve prendere le distanze dal peccato, che la ferisce dentro e fuori: all’interno, perché costituisce motivo di scandalo per molti (soprattutto per i piccoli) e indebolisce la vita dell’intera comunità, impedendole di produrre quei frutti a cui è chiamata; e all’esterno, perché non le consente di apparire come un segno innalzato fra le nazioni, di essere cioè l’anticipo del mondo nuovo purificato e fraterno. In questo senso la reazione al peccato fa parte del perdono. Così ha fatto Gesù e così deve fare la comunità. Due sono gli atteggiamenti da assumere: di condanna (il peccato viene denunciato) e di perdono (i peccatori sono accolti). Ma anche in questa prospettiva di denuncia, che può giungere sino alla scomunica, non si dimentichi che lo scopo è sempre quello di aiutare il fratello a prendere coscienza del suo stato perché possa, di conseguenza, ravvedersi. È l’unico scopo possibile. Come potrebbe accadere diversamente nella chiesa che è chiamata a imitare il pastore che va in cerca della pecora smarrita? Il brano si chiude con una solenne parola di Gesù che, nell’economia del discorso, sembra ad alcuni una specie di parentesi, ma non lo è. È invece una parola di grande importanza: «Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà» (v. 19). Queste parole non sono una parentesi ma fanno organicamente 181

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parte del discorso. La preghiera comune, infatti, è frutto ed espressione di fraternità, e al contempo è mezzo che la costruisce. Costruisce la comunità. Ma perché questo avvenga si esige una duplice unità: pregare insieme e formulare la medesima domanda. E non si trascuri che le parole di Gesù (e non tutti sembrano avvertirlo) sono più ampie del caso della preghiera comune: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (v. 20). Non si tratta semplicemente delle riunioni di preghiera, ma di qualsiasi riunione che avvenga nel nome di Cristo. Il testo greco ha una sfumatura di movimento: Cristo è presente là dove gli uomini si incontrano per costruire qualcosa che lo riguarda (la preghiera, la correzione fraterna, la giustizia).

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Ventiquattresima domenica del tempo ordinario

Perché il perdono resta la risposta più giusta Sir 27,33-28,9  ●  Rm 14,7-9  ●  Mt 18,21-35

È ancora diffusa l’opinione che fra la morale dell’Antico Testamento e quella del Nuovo ci sia come un salto netto: nell’Antico la vendetta, nel Nuovo il perdono. È una convinzione sbagliata. Gesù non è venuto ad abolire, ma a portare a compimento, e il suo messaggio morale nasce sulle radici di Israele, di cui abbandona le scorie conservandone però tutta la saggezza. È come quando si osserva un fiore: lo diresti estraneo alle sue radici e invece è il prodigio che quelle radici hanno faticosamente e lentamente costruito. La strada che ha fatto progredire la sapienza di Israele in direzione del Vangelo è la strada della meditazione su Dio, il cui comportamento apparve sempre più come un continuo perdono. E se Dio perdona, come può l’uomo non perdonare a sua volta? È appunto in questa ottica religiosa che il passo del Siracide deve essere letto (cf. 27,33-28,9). Il suo filo conduttore è un continuo parallelo fra il modo con cui Dio si comporta nei nostri confronti e il modo con cui noi dobbiamo, a nostra volta, comportarci verso i nostri fratelli: «Chi si vendica subirà la vendetta del Signore» (28,1); «Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore?» (28,3). Pensieri molto simili sono ripetutamente presenti anche nel Vangelo: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7), «rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). 183

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Ma anche queste affermazioni rischiano di trarci in errore: sembra quasi che il perdono di Dio sia condizionato dalla nostra capacità di perdono. E invece non è così: Dio ci ha già perdonati, lui per primo, ed è per questo che dobbiamo a nostra volta perdonare. È un pensiero che anche il Siracide ha puntualizzato, «Ricordati […] l’Alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui» (28,7) e che possiamo parafrasare così: ricordati dell’amore di Dio, del dono gratuito e immenso di cui sei oggetto, e di fronte a una simile fortuna come puoi ancora dar peso ai piccoli torti che subisci? È il senso della parabola evangelica dei due debitori (cf. Mt 18,21-35): ottenuto il condono di un debito immenso, come ha potuto quel servo essere tanto gretto da non condonare a sua volta un debito insignificante? Tutto è inverosimile in questa parabola, ma proprio per questo essa è chiara nel suo significato. Insegna che il perdono di Dio è il motivo e la misura del perdono fraterno. Dobbiamo perdonare agli altri perché sarebbe inconcepibile tenere per noi un dono immenso gratuitamente ricevuto. Dobbiamo perdonare senza misura, perché Dio ci ha già fatto oggetto di un perdono senza misura: è dalla consapevolezza della gratuità del dono di Dio che nasce il perdono. La parabola è viva e il contrasto fra i due quadri è forte. Ci si aspetterebbe che il servo – soprattutto dalla gioia e dalla gratitudine – ritenesse normale perdonare a sua volta un piccolissimo debito. Ma così non è, non ha capito nulla, il perdono non lo ha rigenerato. C’è gente che crede che il perdono gli sia dovuto e non comprende che accettare di essere perdonati significa entrare in un circolo nuovo di rapporti, nel quale i criteri dello stretto dovuto diventano di colpo inadeguati. La conclusione della parabola («Così anche il Padre mio celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello», v. 35) sembra con184

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siderare l’amore fraterno come una condizione previa per ottenere, a nostra volta, il perdono di Dio; come se fosse il nostro perdono a indurre Dio a perdonarci. Una simile impressione ci viene anche dal Padre nostro, «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12), e ci sembra di ritrovarla anche in un passo di Luca, in cui Gesù dice a proposito della donna peccatrice: «Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato» (7,47). Sembra, dunque, a prima vista, che sia il nostro perdono la misura del perdono di Dio, ma in realtà la prospettiva è da capovolgere: il perdono fraterno è la conseguenza del perdono di Dio. Il contrasto fra i due quadri della parabola, infatti, non ha come scopo principale quello di far vedere la diversità del comportamento divino nei confronti di un uomo che sa perdonare e nei confronti di un uomo incapace di perdonare, quanto piuttosto mostrare come sia degno di condanna il servo che non perdona dal momento che egli fu per primo oggetto del perdono divino. Il servo è condannato perché tiene il perdono per sé e non permette che il perdono ricevuto diventi gioia e perdono anche per il fratello.

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Venticinquesima domenica del tempo ordinario

La giustizia di Dio e il lamento dell’uomo Is 55,6-9  ●  Fil 1,20c-24.27a  ●  Mt 20,1-16

Il passo del profeta (cf. Is 55,6-9) si apre con un imperativo: «Cercate il Signore», e poi subito aggiunge: «mentre si fa trovare» (v. 6). Un’aggiunta importante che sottolinea due cose: la ricerca del Signore è da intraprendere subito, mentre il momento è favorevole, e questa ricerca è possibile unicamente perché il Signore ha deciso di «farsi trovare». L’iniziativa è sempre sua: non è l’uomo che si avvicina al Signore, ma è il Signore che si fa prossimo all’uomo. La Bibbia infatti non usa molto il verbo «cercare» per l’uomo, più spesso lo usa per Dio: è Dio che cerca l’uomo, lo ama, gli parla, gli si avvicina. Tuttavia resta in ogni caso vero che anche l’uomo deve cercare il Signore, ma in che modo? «L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri» (v. 7), ecco il vero modo di cercare il Signore. Ma appena detto questo, il profeta apre alla ricerca di una nuova prospettiva che già prepara all’ascolto della parabola del Vangelo: «Le vostre vie non sono le mie vie […]. Quanto il cielo sovrasta la terra […] tanto i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (vv. 8-9). Ecco il punto: cercare Dio significa entrare in un diverso ordine di pensiero, in una superiore visione delle cose per la quale i criteri comuni non sono più adeguati. La ricerca di Dio esige una rottura, un salto nei confronti degli schemi creati dal comune ragionamento: «Le mie vie non sono le vostre, i miei pensieri non sono i vostri». Una rottura non soltanto nei confronti del ragionamento mondano ma anche, non raramente, verso 186

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una pratica religiosa caduta nella mediocrità del senso comune, prigioniera di abitudini teologiche e morali. Coraggio e decisione non bastano per la ricerca di Dio, occorre ancora prima la conversione della mente e del cuore. Per questo la parabola degli operai chiamati a tutte le ore (cf. Mt 20,1-16) rischia di disorientarci. Siamo molto sensibili (ed è bene) alla giustizia nei rapporti sociali, ed ecco invece una parabola evangelica che ci presenta la figura di Dio impersonata da un datore di lavoro, il padrone della vigna, che sembra comportarsi in modo del tutto arbitrario: paga allo stesso modo chi ha lavorato un’intera giornata e chi ha lavorato un’ora soltanto! Evidentemente la parabola non intende intrattenerci sui rapporti di lavoro e sui criteri di giustizia che li debbono regolare. Per questo semmai abbiamo a disposizione altre pagine bibliche; per esempio un passo forte e chiaro della lettera di Giacomo: «Il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente» (5,4). La parabola mira, invece, a far riflettere sui rapporti religiosi e parla della giustizia di Dio, non della giustizia sociale. Dunque, il proprietario di una vigna ingaggia dei braccianti per una giornata di lavoro. Ne assume alcuni alla prima ora del giorno, e il salario pattuito per un’intera giornata di lavoro è un denaro. Poi chiama anche altri lavoratori, a tutte le ore del giorno, perfino un’ora prima della fine della giornata. Ma con gli operai dell’ultima ora come si comporterà? La risposta è quanto mai inattesa: il padrone dà a tutti la stessa paga, anche agli ultimi. Cosa significa? Gesù vuole forse insegnarci che Dio è al di sopra dei nostri criteri di giustizia, sovranamente libero nel proprio agire? Molti lo pensano: mai l’uomo può chiedere a Dio ragione del suo operato, mai può avere nei suoi 187

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confronti dei diritti. Tuttavia ci sono anche altre interpretazioni (che elenco perché utili) antiche e nuove. Per alcuni antichi interpreti il motivo centrale della parabola è costituito dalla chiamata: Dio chiama a ogni ora, quando crede e come crede. Il momento in cui arriva, se presto o tardi, non ha importanza, importante è invece essere pronti, rispondere alla propria chiamata quando giunge, afferrare la propria unica occasione. Altri preferiscono sottolineare il fatto che il padrone incominciò a pagare gli ultimi anziché i primi, particolare sottolineato anche esplicitamente dalla frase conclusiva: «Gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi» (v. 16). Il regno rovescia le posizioni capovolgendo tutte le gerarchie di valori che l’uomo si è costruito. Dio ha un metro diverso, preferisce i poveri ai ricchi, i peccatori ai farisei, gli umili ai sapienti. E il bene alle volte si trova là dove non te lo aspetti. Altre frasi evangeliche vanno in questa medesima direzione, per esempio: i peccatori, i pagani, le prostitute vi precederanno nel regno di Dio. Rileggendo nuovamente la parabola con attenzione ci si accorge che le spiegazioni finora proposte sono insufficienti: hanno molto di vero, ma ancora non colpiscono il centro della parabola. Il racconto infatti non insiste sulla chiamata a tutte le ore, né, semplicemente, sul fatto che gli ultimi sono stati chiamati per primi, evidenzia invece il fatto che anche gli ultimi furono pagati come i primi. Dobbiamo dunque concentrarci sul vero paradosso della parabola: perché il padrone dà a tutti la stessa paga? Ingiustizia? La risposta: non è ingiustizia, ma proclamazione della misericordia divina, rivelazione della sua grazia. Le sue vie non sono le nostre, e la sua bontà non cessa di sorprenderci. Però con un’aggiunta importante: la proclamazione della grazia non è rivolta ai peccatori (perché si consolino di fronte alla misericordia di Dio), ma ai giusti, agli operai della prima ora, perché non si sentano defraudati di fronte 188

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alla liberalità di Dio, ma al contrario siano stimolati a imitare la generosità di Dio, a farne il criterio dei loro comportamenti. Questi operai della prima ora si possono facilmente comprendere: se si lamentano e ritengono di essere stati trattati ingiustamente, è perché nel loro intimo sono convinti che lavorare nella vigna sia solo una fatica, non una fortuna e una gioia. E così si lamentano. Questo è il senso della parabola. Alla fine di questa lettura, come calare l’insegnamento della parabola nella vita? Ponendo tre interrogativi. Anzitutto, una verifica della propria convinzione cristiana: se si sta vivendo l’esistenza cristiana, e l’innegabile sforzo che essa comporta, come una gioia o come un peso, come una libertà o come una schiavitù. E poi se all’interno della comunità cristiana (ma ce l’abbiamo una nostra comunità cristiana, nella quale viviamo e alla quale diamo tempo e lavoro e passione?) ci si regola secondo le misure della giustizia degli uomini (tanta fatica e tanto premio) o secondo la misura della liberalità di Dio (un servizio senza calcoli e senza rivendicazioni). Infine se nella propria vita quotidiana (compresi i rapporti di lavoro e gli impegni sociali e politici) ci si muove nella direzione della difesa dei propri interessi di parte o invece nella linea di una più ampia comprensione degli interessi di tutti.

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Ventiseiesima domenica del tempo ordinario

Il cristiano non rinuncia a usare la propria libertà Ez 18,25-28  ●  Fil 2,1-11  ●  Mt 21,28-32

Gli ebrei esiliati a Babilonia – anziché ammettere la propria colpa e riconoscersi responsabili del disastro – accusavano gli altri. C’era chi, per esempio, attribuiva la colpa alle generazioni passate: «I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» (Ez 18,2); e chi addirittura al Signore: «Non è retto il modo di agire del Signore» (Ez 18,25; cf. 33,17-20). Di fronte a un mondo nel quale, allora come oggi, ognuno cercava di scaricare sugli altri la propria responsabilità, Ezechiele si fa paladino della responsabilità individuale (cf. 18,25-28). Che ci siano legami e condizionamenti fra uomo e uomo, individuo e società, uomo e strutture, è fuori dubbio. Ed è anche vero che l’eredità che ciascuno ha alle spalle (familiare, culturale e sociale) pesa fortemente – nessuno è libero al cento per cento –, tuttavia ciascuno ha una propria personale responsabilità. Il profeta ha ragione di sostenere che, in definitiva, la salvezza di ciascuno non dipende dagli antenati (18,2-4) né dalla famiglia (18,5-8), e neppure dalla propria vita passata (18,21-23). Ciò che alla fine conta è sempre il modo con cui tu – qui e ora – prendi in mano il tuo destino, gestisci le situazioni in cui, per colpa o senza colpa, ti trovi. Nella vita di ciascuno ci sono spazi – almeno spazi individuali – in cui la libertà è grande: si può prendere una decisione o un’altra, agire o non agire, agire in un modo o in un altro. Ci sono altre situazioni in cui invece la nostra libertà è meno ampia, situazioni in cui 190

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si ha la sensazione di far parte di un gioco molto più grande e guidato da altri: situazioni sociali, politiche, professionali. Ma anche qui, a ben guardare, la libertà di ciascuno non è completamente assente: si può parlare o tacere, essere passivi o critici, restare nell’ignoranza o prendere coscienza. E persino di fronte a quelle situazioni che diremmo frutto del destino (il vero credente parlerebbe però di «disegno di Dio»), come una disgrazia o una malattia, anche qui resta un margine di libertà: si può reagire con coraggio o con disperazione, perdere la fede o purificarla. La libertà è un grande dono di Dio, ma è un dono impegnativo, ed è per questo che gli uomini alle volte preferiscono relegarla o fingere di non averla. Ma è anche un dono minacciato, e quindi da difendere. In ogni caso è un germe da sviluppare: non si nasce liberi, lo si diventa. Lo spazio della libertà va conquistato, ampliato via via, incominciando dal suo centro, che è la propria coscienza. Solo così si può diventare uomini con un «cuore nuovo e uno spirito nuovo» (Ez 36,26). La breve parabola di questa domenica è costruita molto bene. Gesù espone la storia di un padre e dei suoi due figli, poi provoca il giudizio dei suoi interlocutori e infine, facendone l’applicazione, lo ritorce contro di loro (cf. Mt 21,28-32). Quando Gesù parlava i suoi interlocutori erano i farisei, ma oggi i suoi interlocutori siamo noi. Si può fare della parabola una prima lettura: non chi dice «Signore, Signore», è vero discepolo, ma chi concretamente fa la volontà di Dio. È il fare che conta, non l’obbedienza apparente, l’entusiasmo facile, la disponibilità ipocrita e inconcludente. La verità dell’uomo si scopre dalle sue opere. Discorsi, promesse, belle idee possono essere delle semplici coperture di comodo. Matteo non è nuovo a queste affermazioni (cf. Mt 7,21-23). Lettura interessante e vera, ma non completa. Trascura infatti le parole con le quali Gesù conclude la pa191

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rabola: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (v. 31). Queste parole non esprimono una verità generale, un principio, come se Gesù avesse inteso affermare che tutti i peccatori entreranno nel regno e che, al contrario, nessun fariseo vi potrà entrare. Più semplicemente, le parole di Gesù constatano una situazione di fatto (che però continua a ripetersi: così è stato per il Battista, per Gesù, per la chiesa, e così continua ad accadere) e ne ricava una lezione. Gesù racconta ciò che accadde a Giovanni Battista, ma in realtà sta parlando di se stesso, il Battista gli serve da esempio. Gesù ha incontrato uomini giusti e praticanti, ufficialmente cercatori di Dio, e lo hanno rifiutato; ha incontrato uomini della strada, peccatori e prostitute, e lo hanno accolto. Gli esempi evangelici sono numerosi al punto da costituire una linea costante: da una parte, il pubblicano Matteo, Zaccheo, la donna peccatrice, il buon ladrone; dall’altra, i farisei, i sacerdoti, il giovane ricco (un giusto che si è mostrato incapace di compiere quel passo decisivo che la sequela di Cristo esige). Le parole di Gesù passano al «voi» e coinvolgono direttamente i suoi interlocutori e noi stessi. Eccole: voi, che siete a conoscenza di tutto questo, continuate a non pentirvi e a non credere. In altre parole: noi sappiamo che al tempo di Gesù è accaduto così, che i peccatori si mostrarono più aperti dei praticanti, conosciamo la parola di Gesù che ci costringe a riflettere e tuttavia continuiamo ad appartenere al numero dei giusti che al momento decisivo si tirano indietro. A questo punto è necessario individuare le radici di questa sorprendente cecità. Una prima ragione che può rendere cieco il giusto (e persino intollerante di fronte alle parole di Gesù) è la sua convinzione di essere giusto. Sto pensando alla parabola del fariseo e del pubblicano (cf. Lc 18,9-14): 192

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il primo sta davanti a Dio, sicuro di sé, ed enumera le pratiche di giustizia che egli compie, prendendo le distanze dal peccatore che sta in fondo; il secondo invece chiede perdono, non ha nulla da vantare, può semplicemente affidarsi alla misericordia di Dio. Chi si crede giusto non sente il bisogno della misericordia che perdona (perdonato di che cosa?) né dell’invito al cambiamento (perché cambiare?). Egli prega Dio e lo ringrazia, ma lo prega per essere aiutato a mantenere una situazione in cui già si trova: non chiede la conversione, ma la conservazione. Il Vangelo di Giovanni, constatando il medesimo fatto, fa un’analisi ancor più severa: questi giusti chiusi e intolleranti non conoscono il vero Dio. Rifiutano Gesù (e tutti i profeti) in nome della fedeltà alla legge e del rispetto di Dio (ha violato il sabato, è un bestemmiatore, pensano), ma in realtà lo fanno per difendere se stessi e il proprio prestigio. Così parla Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?» (5,44). Questi uomini non cercano veramente Dio, ma se stessi, e fanno coincidere la volontà di Dio con la loro, le esigenze evangeliche con le loro concezioni. Parlano di Dio, ma nel profondo sono senza fede.

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Ventisettesima domenica del tempo ordinario

Dio è fedele alla sua vigna anche se l’uomo lo delude Is 5,1-7  ●  Fil 4,6-9  ●  Mt 21,33-43

Il breve canto di Isaia (cf. 5,1-7) è un piccolo capolavoro. Servendosi di un’allegoria descrive in profondità la monotona storia del popolo di Dio. Viste in superficie le vicende di Israele sono varie, ma in profondità ripetono costantemente lo stesso motivo: da una parte l’amore di Dio, dall’altra il tradimento del popolo; da una parte la cura di Dio (una cura assidua, amorevole e paziente), dall’altra una ostinata sterilità. Ma è una storia, assicura Isaia, che non può continuare all’infinito. La pazienza di Dio ha un limite e c’è un giudizio (cf. 5,3). Dio si aspettava uva pregiata, e invece ebbe uva scadente, fuori di metafora, si aspettava giustizia ed ecco oppressione, si aspettava rettitudine ed ecco disonestà. Se si vuole conoscere in modo più dettagliato la situazione che il profeta aveva davanti agli occhi – e che meritava, appunto, il castigo – bisogna leggere il seguito del capitolo 5. Vi è raccolta una serie di invettive che denunciano aspramente le diverse categorie di violatori dell’ordine sociale. Ogni invettiva inizia con un minaccioso «guai» e la loro lettura è quanto mai istruttiva e di grande attualità. Il primo «guai» è per coloro che aggiungono «casa a casa e […] campo a campo» (cf. 5,8-10). Sono i ricchi che si accaparrano le case e le terre e ai poveri non rimane più nulla. Il secondo «guai» (cf. 5,11-17) è per gli allegri sfaccendati che pensano soltanto al vino e alle feste. Ricchi 194

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e poveri, nobili e plebei sembrano in questo accomunati: è un popolo distratto, godereccio, che non si preoccupa più di Dio e non ne sente più gli avvertimenti. Il terzo «guai» (cf. 5,18-19) è per coloro che ironizzano sui disegni di Dio e non credono al suo progetto sul mondo. Essi «dicono: “Faccia presto, acceleri pure l’opera sua, perché la vediamo”» (v. 19). Il quarto «guai» (cf. 5,20) è per coloro che pervertono il senso morale chiamando il bene male e il male bene. È il punto più profondo della lontananza da Dio: l’uomo che si fa misura del bene e del male. Il quinto «guai» (cf. 5,21) è una continuazione del quarto, e si scaglia contro la presunzione degli uomini di cultura, gente che crede di vedere le cose meglio di Dio e di avere una sapienza più luminosa della sua Parola. Il sesto «guai» (cf. 5,22‑24) è simile al secondo ed è contro certuni che bevono vino e liquori, ma non si tratta soltanto di ubriachi, sono giudici che assolvono dietro compenso e rifiutano il diritto all’innocente. Dal momento che la situazione è questa, non resta che il castigo: la vigna cadrà in rovina, non sarà più coltivata e vi cresceranno rovi e pruni. Come dar torto al profeta? La parabola di Gesù (cf. Mt 21,33-43) ci fa capire che la malvagità è ancora più grande di quanto pensava il profeta: i contadini maltrattano e uccidono i servi inviati dal padrone, e uccidono persino il figlio, l’erede, rifiutando in tal modo l’ultimo appello. E infatti il rifiuto di Gesù, come prima quello dei profeti, non è un peccato qualsiasi, ma il peccato di chi si erge a padrone e anziché stare in ascolto del Signore, pretende di farsi arbitro e giudice stesso della parola di Dio. E perciò anche Gesù pronuncia parole severe: «Quei malvagi, li farà morire miseramente» (v. 41), e qualche riga più avanti, rivolgendosi in particolare ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «a voi sarà tolto il regno 195

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di Dio» (v. 43). Si tratta di un duro giudizio su Israele, ma se l’evangelista lo riporta è perché costituisce un perenne avvertimento anche per i cristiani. Dio è fedele al suo popolo, alla sua comunità, ma non al punto che il suo disegno di salvezza venga interrotto e che le sue esigenze di verità e giustizia vengano messe da parte. Se i cristiani rifiutano, le sue esigenze di giustizia troveranno altrove il modo di esprimersi. Ciononostante la parabola evangelica si apre anche alla speranza: «darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo» (v. 41) e il regno di Dio «sarà dato a un popolo che ne produca frutti» (v. 43). Nulla, dunque, riesce a scoraggiare l’amore di Dio, nulla può fargli cambiare idea, neppure i ripetuti tradimenti del suo popolo.

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Ventottesima domenica del tempo ordinario

Gli eventi della storia visti dalla parte di Dio Is 25,6-10a  ●  Fil 4,12-14.19-20  ●  Mt 22,1-14

Il libro di Isaia non è opera di una sola mano né di una sola epoca. Il brano liturgico (cf. 25,6-10) fa parte di una collezione di capitoli denominati comunemente l’Apocalisse di Isaia (cf. Is 24-27), scritti da un ignoto autore, un tardivo discepolo e ammiratore del grande Isaia, vissuto probabilmente nell’immediato post-esilio. Sono capitoli nati in tempi di crisi e il loro messaggio vuole essere soprattutto di consolazione: alla fine dei tempi – ecco il loro messaggio – il giudizio di Dio sarà fatto e le situazioni saranno capovolte, come la città orgogliosa che sarà umiliata e gettata nella polvere, che verrà poi calpestata «dai piedi degli oppressi, i passi dei poveri» (26,6). È una consolazione fondata su un’assoluta fiducia nelle possibilità di Dio. Contrariamente alle apparenze, gli eventi della storia sono saldamente nelle mani del Signore, che li guida verso l’avvento del suo regno. Il tema continuamente ribadito è dunque la certezza della salvezza di Dio. Un tema svolto per contrapposizioni, alternando cioè un quadro fosco (il giudizio e il castigo) a uno luminoso (la descrizione del mondo purificato). Il nostro brano è il quadro luminoso. I tratti del mondo nuovo che il profeta sogna – un mondo completamente diverso da quello nel quale è costretto a vivere – sono presto elencati. Anzitutto un’umanità finalmente riunita e fraterna: il banchetto che Dio ha preparato non è soltanto per Israele, ma per «tutti i popoli» (v. 6b). 197

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Non più l’oppressione e l’arroganza, ma la pace e la libertà: «l’inno dei tiranni si spegne» (25,5c). «Il velo posto che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni» (v. 7b.c) cadranno, e tutti riconosceranno di avere Dio come unico Signore e Salvatore. Persino il dolore e la morte saranno vinti: il Signore distruggerà per sempre la morte e asciugherà le lacrime su ogni volto. Questo del profeta non è soltanto un sogno, ma una vera speranza, perché poggia su Dio. È la solidità della sua parola che autorizza a sperare, pensiero questo, che il profeta sottolinea con forza particolare: «Ecco il nostro Dio, in lui abbiamo sperato perché ci salvasse» (v. 9). Tuttavia questa grandiosa visione ha un suo limite, una traccia di particolarismo. Per ben tre volte il profeta ripete che la riunione attorno a Dio di tutti i popoli avverrà «su questo monte», cioè in Israele e attorno a Israele. Il Nuovo Testamento brucerà con decisione anche questo limite: il monte di Dio è il mondo intero, non un popolo particolare. La parabola di Gesù (cf. Mt 22,1-14) introduce nel discorso altri punti di grande interesse, che rendono la riflessione più concreta e più impegnativa. La parabola è pervasa, ad esempio, da un’aria di urgenza: tutto è pronto e non si può differire. Di fronte all’invito del padrone non è permesso essere distratti, non ci sono cose più urgenti da fare. Il banchetto non è nel futuro, ma è una realtà presente: già ora dobbiamo costruire un’umanità riunita, già ora dobbiamo entrare a far parte della famiglia di Dio. E poi si osservi l’ostinazione del padrone: invita tutti e non disarma, al rifiuto dei primi risponde allargando la cerchia degli invitati («Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze», v. 9). I servi invitano al banchetto tutti gli uomini, buoni e cattivi, che incontrano ai crocicchi delle strade. L’appello è rivolto a tutti, la sala deve essere 198

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comunque riempita. Il corrispettivo ecclesiologico di questo universalismo è che la chiesa deve rivolgere a tutti, senza distinzioni, il suo invito alla salvezza. Tutti sono chiamati, ma non tutti sono eletti. L’essere entrati in sala non esaurisce il compito, né è una garanzia, questo è il senso dell’avvertimento che conclude la parabola. Una volta riempita la sala, la storia non è ancora conclusa ma continua con un ultimo colpo di scena: il re entra e scorge un uomo senza la veste bianca, lo rimprovera e lo condanna. Il giudizio accompagna ogni uomo, in qualsiasi situazione, non è concessa alcuna illusione. Aver accolto l’invito ed essere entrati nella sala non è ancora una garanzia, occorre essere continuamente in ordine, convertiti, vigilanti. La veste nuziale significa tutto questo.

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Ventinovesima domenica del tempo ordinario

A Cesare quello che è di Cesare a Dio quello che è di Dio Is 45,1.4-6  ●  1Ts 1,1-5b  ●  Mt 22,15-21

Nel 538 a.C. Ciro, re di Persia e ormai padrone assoluto del Medio Oriente, pubblicò un editto che permetteva agli esuli a Babilonia di ritornare in patria e di ricostruire il tempio. Per gli storici tale editto non ha nulla di sorprendente: un semplice cambiamento di strategia politica. Mentre i re babilonesi strappavano dalle loro terre i conquistati e li disperdevano per meglio dominarli, Ciro pensò, al contrario, che sarebbe stato più facile tenerli soggetti favorendo il loro ritorno in patria. La lettura del profeta è però più profonda di quella dello storico, e con gli occhi della fede Isaia scorge nell’editto di Ciro lo strumento provvidenziale di cui Dio si serve per mantenere le promesse di liberazione (cf. Is 45,1.4-6). Il suo insegnamento offre almeno tre spunti di riflessione, che a dispetto della distanza che separa il tempo del profeta dal nostro, conservano ancora intatta la loro freschezza. Primo: il credente deve imparare a valutare gli avvenimenti con il rigore dello storico ma anche con l’originalità del profeta; gli eventi, infatti, non hanno soltanto il significato immediato che tutti vedono, e gli uomini non sono i soli protagonisti. Dietro gli uomini e le trame c’è sempre la mano ferma di Dio che utilizza per i suoi disegni tutto ciò che accade. Secondo: il profeta non esita ad attribuire al re persiano il titolo di «unto», in ebraico «messia» e in greco «cristo» («Dice il Signore del suo eletto, di Ciro», v. 1). Per noi è un titolo unicamente riservato a Gesù, ma 200

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quando il profeta scriveva, il suo significato non era ancora così definito: «unto» (consacrato) poteva essere detto di un oggetto adibito per il culto, di un sacerdote a servizio di Dio, di un re a servizio del popolo, sempre però, in un modo o nell’altro, di uno strumento di salvezza. E sta proprio qui la sorpresa: unto del Signore, o strumento di salvezza, è un re straniero e pagano, uno che non conosce il Signore, come è ripetuto due volte. Ciro non conosce il Signore, tuttavia è uno strumento di salvezza nelle sue mani, ecco un secondo punto sul quale è importante riflettere. Il popolo dei credenti non è il solo a costruire la storia, né è il solo a collaborare con Dio nella costruzione del suo regno. Terzo: Dio non è interessato alla politica di Ciro come tale, ma si serve di quella politica per liberare gli esuli di Israele: «Per amore di Giacobbe, mio servo, e di Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome» (v. 4). Neppure questo però è il suo scopo ultimo: Dio vuol far capire di essere l’unico Signore, ecco il suo scopo più profondo («Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio», v. 5). E qui si inserisce la vicenda narrata nel brano evangelico (cf. Mt 22,15-21). Farisei ed erodiani sottopongono a Gesù una questione scottante, ma la loro intenzione è ipocrita. Non cercano una risposta, vogliono semplicemente mettere Gesù in imbarazzo, il tranello è palese: rispondendo negativamente Gesù avrebbe suscitato la reazione delle autorità romane; rispondendo positivamente avrebbe perso la simpatia della folla. Intorno alla liceità o meno di pagare le tasse all’imperatore si davano posizioni diverse: gli erodiani erano favorevoli ai romani; gli zeloti, al contrario, predicavano apertamente il rifiuto e la resistenza armata; i farisei rifiutavano l’aperta ribellione e pagavano le tasse per evitare il peggio. La risposta di Gesù è completamente inattesa, e coglie di sorpresa i suoi interlocutori. È una risposta che 201

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si sottrae alla logica dello schieramento. Non è una risposta evasiva, sfugge al dilemma, ma non per paura di compromettersi. Porta il discorso più indietro, là dove si trova il centro ispiratore, cioè la giusta concezione della dipendenza da Dio e, quindi, la giusta libertà di fronte allo stato. Con la sua risposta Gesù non mette Dio e Cesare sullo stesso piano. Nelle parole «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (v. 21), l’accento sembra cadere sulla seconda parte. La preoccupazione di Gesù è anzitutto di salvaguardare, in ogni situazione politica, i diritti di Dio, egli è totalmente preso dalla causa di Dio e dalla difesa dei suoi interessi nel mondo. Ma non c’è da temere in quanto la causa di Dio coincide con la causa dell’uomo, l’affermazione del primato di Dio è la radice della dignità dell’uomo e della libertà di coscienza. Gesù non entra direttamente nella questione della legittimità o meno della dominazione romana, il problema che gli interessa è più ampio e le sue parole, al di là della Giudea del tempo, pongono una questione generale: il comportamento del cristiano di fronte allo stato. Gesù riconosce che lo stato, nel suo ambito, può reclamare ciò che gli spetta, ma subito aggiunge che lo stato non può erigersi a valore assoluto: ogni potere politico – romano o no, di cristiani o non di cristiani – non può arrogarsi diritti che competono soltanto a Dio, non può assorbire tutto il cuore dell’uomo, non può sostituirsi alla coscienza. Per un cristiano è dunque un grave dovere di coscienza servire lo stato, essere un cittadino leale e pagare le tasse. Diversi passi del Nuovo Testamento lo ricordano. San Paolo esorta i suoi cristiani: «Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite […]; è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo infatti voi pagate anche le tasse» (Rm 13,1-7). 202

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Ma il cristiano rifiuta di far coincidere la sua coscienza con gli interessi dello stato. Rifiuta di cadere nella logica della «ragion di stato», ed è sempre – in radice – un possibile «obiettore di coscienza». Ha infatti l’orecchio attento alle esigenze del regno, e da lì derivano i criteri del sì e del no, del consenso e del dissenso. Per l’uomo del Vangelo ci sono valori superiori, più ampi, in base ai quali si decide, in ultima analisi, di obbedire o disobbedire. Sono i valori proclamati da Cristo e racchiusi nella duplice affermazione: «Il figlio dell’uomo è signore anche del sabato» (Mc 2,28), il primato di Dio, e «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27), il primato dell’uomo. Dal primato di Dio deriva, in altre parole, la superiorità dell’uomo su ogni istituzione, compreso lo stato: non è lecito sacrificare l’uomo alla ragion di stato.

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Trentesima domenica del tempo ordinario

Amore di Dio e del prossimo: tutta la Bibbia è qui Es 22,20-26  ●  1Ts 1,5c-10  ●  Mt 22,34-40

Non solo il Vangelo, ma l’intera Bibbia – come testimonia il brano dell’Esodo (cf. 22,20-26) – non ha mai cessato di ricordare che la gloria di Dio si costruisce nel servizio all’uomo. La vita interiore e il raccoglimento sono un valore essenziale e irrinunciabile; nella Bibbia il raccoglimento non è un parlare con se stessi, e neppure un parlare con Dio soltanto: è l’incontro con un Dio che è interessato agli uomini. Collocato in questa prospettiva, il passo dell’Esodo assume tutta la sua profondità: non un semplice elenco moralistico di precetti, ma il tentativo di incarnare nel tessuto dei rapporti sociali un’originalissima visione religiosa, quella appunto di considerare l’amore per Dio e l’amore per l’uomo come strettamente congiunti, l’uno il riflesso dell’altro. Sorprende in questo passo la concretezza dei suggerimenti, indicazioni precise, possibili, quotidiane e importanti: non trattar male gli immigrati, non approfittare di vedove e orfani indifesi, non comportarsi da usurai nei confronti dei poveri. L’attenzione si concentra sugli emarginati: immigrati, orfani e vedove, indigenti; tutte categorie di persone emarginate dalla società. L’amore del prossimo deve estendersi a ogni uomo, ma la parola di Dio si preoccupa anzitutto dei più deboli. E non si trascurino le motivazioni che vengono addotte per giustificare gli avvertimenti: «voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (v. 20). «Io darò ascolto al suo grido» (v. 22). 204

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Tutto questo si illumina ulteriormente se accanto al passo dell’Esodo accostiamo il breve episodio evangelico (cf. Mt 22,34-40), dove uno scriba chiede a Gesù, per metterlo alla prova, quale fosse il comandamento da porre in testa all’elenco. Gesù cita dapprima un passo del libro Deuteronomio: «Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze», (6,4-5), e poi di seguito un testo del Levitico: «Non vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso» (19,18). I due testi dell’Antico Testamento erano al centro della spiritualità di Israele, soprattutto il primo, che veniva recitato mattina e sera, ricamato sulle maniche delle vesti, scritto sugli stipiti delle porte (cf. Dt 6,6-9). Pur riprendendo nella sua risposta testi noti e preesistenti, Gesù si mostra, nei confronti delle opinioni correnti, nuovo e originale. Per lui il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo non è semplicemente il «primo» comandamento e neppure soltanto il comandamento più importante: è il «centro» da cui tutto deriva, e che tutto informa e permea. Ogni altra legge, se vuole presentarsi come volontà divina, deve essere espressione di questo duplice amore. Gesù prende così le distanze dal legalismo. Gli scribi avevano la tendenza a frantumare la volontà di Dio in una casistica e a disperderla in una miriade di precetti, che ne rendevano intollerabile l’osservanza e la privavano del suo centro. Al contrario, Gesù si sforza di ricuperare il centro della volontà di Dio, cioè il primato dell’amore: tutto deve essere letto alla luce di questo centro («Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti», v. 40), e tutto deve essere valutato in base a esso. È questa la prima originalità di Gesù, la riduzione dei precetti a un centro semplice e chiaro e, nel contempo, ricco di movimento. 205

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In secondo luogo, Gesù universalizza il concetto di prossimo. L’ebraismo, specialmente al tempo di Gesù, si dibatteva nel particolarismo (anche se tentativi di universalismo non mancavano): il prossimo era il correligionario, tutt’al più il simpatizzante, non certo lo straniero e il pagano. Per Gesù invece il prossimo è chiunque, anche lo straniero, anche lo sconosciuto. Prossimo è chiunque viene amato da Dio, cioè tutti. È invece perenne la tentazione di delimitare il concetto di prossimo, o comunque di operare una classificazione come se alcuni uomini contassero e altri meno. Ma la novità di Gesù consiste, soprattutto, nell’aver congiunto i due comandamenti. È sulla capacità di tenerli uniti che si misura la vera fede. Osservando il panorama cristiano non è difficile scorgere due fondamentali accentuazioni; sono le due tendenze che si contendono l’anima cristiana: la tendenza che accentua il primato di Dio (e quindi la preghiera, il rapporto con lui, la conversione interiore e personale) e la tendenza che, in nome di Dio, attira l’attenzione sull’uomo (e quindi la giustizia, la lotta per un mondo più giusto, la presa di posizione di fronte alle strutture della nostra società). Si direbbe più religiosa la prima e più politica la seconda, ma tale giudizio è superficiale e sbrigativo, e il «religioso» come il «politico» hanno significati più complessi. Non intendo qui giustificare le due tendenze, che del resto sono ovvie. Intendo, piuttosto, mettere in luce i possibili equivoci che ciascuna nasconde. Gesù ha detto di amare il prossimo come se stessi, e il Vangelo impegna per la liberazione dell’uomo. Tuttavia nella generosa lotta per l’uomo può nascondersi – bisogna ammetterlo – una dimenticanza del primato di Dio, che invece deve essere amato con tutta l’anima e deve occupare il primo posto nel nostro cuore. La fede impone un compito di liberazione per appartenere a Dio, non a se stessi o ai propri progetti. Gesù 206

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sulla croce, prima ancora che per l’uomo, è morto in obbedienza al Padre. E l’uomo è fatto per Dio, ecco ciò che non va dimenticato, neppure messo in secondo piano, neppure dichiarato sottovoce (prudenza che alle volte pretende essere discrezione e rispetto!), ma dichiarato sempre, dovunque e apertamente, sui tetti. Il sospetto che l’impegno per l’uomo metta in ombra il primato di Dio, introducendo quindi un’indebita separazione fra i due comandamenti, sorge là dove la preghiera è divenuta secondaria, la conversione personale trascurata, l’annuncio di Dio un fatto continuamente differito. Ecco allora l’altra posizione: partire da Dio e parlare sempre di Dio. Ma quale Dio? Anche qui l’equivoco è possibile, e può essere assai grave. Non si dimentichi che tutto il Vangelo è un rimprovero ai credenti: i farisei erano credenti, puntigliosi difensori del primato di Dio, e proprio per questo hanno rifiutato Gesù, in nome dell’ortodossia e della gloria di Dio. Ciò significa che parlare di Dio, sempre di Dio e attirare l’attenzione su di lui non è ancora necessariamente religione, fede, fedeltà a Dio. Può nascondere altro, e la storia conferma che la strumentalizzazione di Dio (non importa se in buona o cattiva fede) è assai facile. Gesù ha attirato l’attenzione su Dio, ma su un Dio che si proclama padrone del sabato e che afferma che il sabato è per l’uomo. Dio è per l’uomo, ma ha il sospetto che questa affermazione sia trascurata da molte persone che pure parlano di Dio. Questo sospetto sorge là dove la fede in Dio permette il silenzio, il disimpegno, l’accettazione delle disuguaglianze, la collaborazione con persone e strutture che pongono altri valori al di sopra dell’uomo. Costoro proclamano, forse, che l’uomo è per Dio, ma non che Dio è per l’uomo. Eppure la «novità» cristiana sta nel mantenere unite le due affermazioni: tutti hanno sempre detto che l’uomo è per Dio ma solo in Gesù è apparso che Dio è per l’uomo, solo in lui è apparso un Dio che muore per noi. 207

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Trentunesima domenica del tempo ordinario

Perché non facciamo come scribi e farisei Ml 1,14b-2,2b.8-10  ●  1Ts 2,7b-9.13  ●  Mt 23,1-12

È necessario porre subito due domande al brano evangelico (cf. Mt 23,1-12), il quale appartiene a un lungo discorso che raccoglie molte parole polemiche del Signore nei confronti dei farisei: quale situazione aveva davanti agli occhi l’evangelista scrivendo questa pagina? A chi intendeva rivolgerla? Dalla risposta a questi due interrogativi dipende la lettura dell’intera pagina, meglio ancora, l’atteggiamento col quale ci poniamo di fronte a essa: un discorso rivolto ad altri o a noi? Al giudaismo o alla comunità cristiana? Non c’è dubbio che questa pagina rimandi al tempo di Gesù: egli si è più volte scontrato, e duramente, con le autorità religiose del suo tempo. Ma è altrettanto vero che il passo riflette la durezza del conflitto tra la chiesa e la sinagoga degli anni 80 d.C. (gli anni in cui l’evangelista scriveva): un ricordo storico che, per l’evangelista, si carica di attualità. E c’è di più: Matteo non intende riferirsi unicamente al giudaismo del suo tempo denunciando le nascoste radici della sua resistenza al Vangelo e della sua accanita opposizione alla chiesa, ma vuole – radunando insieme le parole polemiche del Signore – smascherare atteggiamenti possibili, o reali, della stessa comunità cristiana. Il brano risulta composto da due quadri contrapposti: il fariseo (descritto come la caricatura del discepolo) e il vero discepolo. Già i profeti dell’Antico Testamento avevano più volte rimproverato i cattivi maestri. Si legga nel profeta 208

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Malachia, da cui è tratta la prima lettura: «Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca insegnamento […]. Voi invece avete deviato dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti […]. Perciò anche io vi ho reso spregevoli e abietti davanti a tutto il popolo» (2,7-9). Analoghi rimproveri si possono trovare anche nel mondo greco nei confronti dei maestri di filosofia e di saggezza. Scrive, per esempio, Posidonio: «Sono pochi i filosofi che hanno un carattere, un modo di pensare e una vita tale come richiede la ragione. Ci sono filosofi di tale frivolezza e presunzione che sarebbe stato meglio per loro non aver studiato nulla. Altri sono cupidi di denaro, avidi di celebrità, cosicché la loro predica sta in sorprendente contrasto con il tenore della loro vita». «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei» (v. 2), dice Gesù: si presentano cioè come i continuatori del magistero di Mosè, lo ripetono, lo difendono, lo interpretano autorevolmente, lo attualizzano. Hanno un’autorità che va riconosciuta («osservate tutto ciò che vi dicono!», v. 3). È appunto sulla base di questo riconoscimento che nasce la critica. Proprio perché non sono uomini qualsiasi il loro comportamento è scandaloso. Due sono i rimproveri che muove loro Gesù: l’incoerenza e la ricerca di sé. L’incoerenza: sono doppi e senza dirittura, e stabiliscono due misure. Mentono a Dio e a se stessi, vivono una profonda divisione fra il dire e il fare (peggio: fra l’insegnare e il fare), il sembrare e l’essere, ciò che pretendono dagli altri e ciò che pretendono da sé (severi con gli altri e indulgenti con se stessi). «Dicono e non fanno» (v. 3): nessun evangelista è più attento di Matteo a ripetere che non le parole contano ma i fatti, e che l’albero si riconosce dai frutti. «Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare – prosegue il discorso – e li pongono sulle spalle della gente» (v. 4), e questo è 209

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in perfetta antitesi con la visione delle autorità che ha Matteo il quale, al contrario, ama presentare Gesù come un maestro mansueto e paziente, il cui insegnamento è un giogo dolce e un carico leggero (cf. Mt 11,30). E poi la ricerca di sé: allargano i filatteri, allungano le frange, cercano i posti d’onore. I filatteri erano piccole custodie contenenti frammenti di testi biblici di particolare importanza. I pii ebrei appendevano queste custodie al braccio sinistro e alla fronte, secondo un’interpretazione letterale di Dt 6,6.8: «Le parole che oggi ti ordino siano impresse sul tuo cuore […]. Le legherai quale memoriale alla mano e penderanno dalla fronte fra i tuoi occhi». Le frange svolgevano un’analoga funzione, e ogni pio israelita le legava ai quattro angoli del mantello. Filatteri e frange avevano dunque un alto significato simbolico: conservare sempre presenti allo spirito il ricordo della legge del Signore e l’impegno di osservarla. Ma era proprio questo che scribi e farisei non facevano. Sin qui la descrizione del fariseo. In perfetta antitesi sta il ritratto del vero discepolo. Il fariseo ama farsi chiamare maestro, il discepolo riconosce invece un solo maestro, il Cristo. L’enfasi cade sull’espressione «uno solo è il vostro», ripetuta tre volte. Il discepolo concepisce la propria esistenza come un servizio, si pone in mezzo agli uomini come un fratello, è contento di essere – nel suo insegnamento e nella sua vita – la trasparenza dell’unico maestro e Signore. Nessun discepolo (tanto meno il discepolo rivestito di autorità) deve porsi in modo tale da oscurare il fatto fondamentale che invece deve sempre essere ben visibile di fronte a tutti, e cioè che l’unico Signore è il Cristo, ogni membro della comunità è figlio di Dio e tutti i membri fra di loro sono fratelli. Il discepolo non si innalza sopra gli altri, non dice parole proprie e non ricerca se stesso. Signoria di Dio e fraternità sono le categorie fondamentali della comunità e del Vangelo. 210

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Trentaduesima domenica del tempo ordinario

La sapienza è scoprire Dio nelle cose di ogni giorno Sap 6,12-16  ●  1Ts 4,13-14  ●  Mt 25,1-13

Il libro della Sapienza fu scritto ad Alessandria d’Egitto alla fine del II o all’inizio del I secolo a.C. Alessandria era una città immensa, ricca, famosa per la sua cultura e per le sue scuole di filosofia; in essa viveva una folta colonia di giudei immigrati. Il brano liturgico (cf. 6,12-16) è un invito a non lasciarsi frastornare dalle molte conoscenze e dalle troppe curiosità per concentrarci nella ricerca della sapienza. Ma che cos’è la vera sapienza? A quali condizioni è possibile trovarla? Nella Bibbia la sapienza non è l’erudizione, non è la conoscenza di molte cose, ma la percezione del fondo di tutte le cose. Sapiente è chi cerca il Signore, chi intravede il suo disegno nella creazione, nella storia e nella coscienza, chi distingue i veri e i falsi valori e quindi sa orientarsi nella vita. Ricerca di Dio e ricerca della sapienza coincidono. Stolto non è l’uomo poco istruito, non è l’uomo privo di cultura. Stolto è l’uomo – non importa se colto, competente, abile nel maneggiare cose e parole – che ha smesso di interrogarsi, soddisfatto o rassegnato nelle proprie abitudini, o distratto. Un uomo tutto sommato superficiale, settoriale, che si accontenta facilmente: vede le cose e non si chiede che cosa significano, vive una giornata dopo l’altra senza domandarsi ciò che lo attende alla fine, conosce i frammenti e non si interroga sul centro che li unifica. Una stoltezza, come si vede, che è del cuore prima che dell’intelligenza. 211

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Ed è infatti a tutta la persona, e non solo all’intelligenza, che la lettura dal libro della Sapienza si rivolge. La vera sapienza è dono di Dio e non semplice conquista dell’uomo, ecco una prima convinzione che già trasforma la ricerca in un fatto morale. Dio è desideroso di farcene dono: la sapienza «previene» chi la cerca, si lascia trovare facilmente, è seduta alla porta di casa, la si incontra per le strade. Tuttavia è anche un dono esigente, infatti l’ottiene solo chi ama la verità senza condizioni, chi l’ama con passione («facilmente si lascia vedere da coloro che la amano», v. 12), la desidera e la cerca senza darsi pace («di buon mattino», v. 14). Questa sapienza che viene da Dio richiede, certo, anche curiosità e fatica intellettuale («Suo principio più autentico è il desiderio di istruzione», v. 17a), ma soprattutto richiede amore («l’anelito per l’istruzione è amore», v. 17b) e il coraggio di una vita morale («l’amore per lei è osservanza delle sue leggi», v. 18). E sul modo con cui concretamente si vive, attira a sua volta l’attenzione la parabola evangelica (cf. Mt 25,1-13), costruita sul contrasto fra due gruppi di fanciulle invitate a un corteo di nozze: le prime previdenti presero le lampade e una sufficiente scorta di olio, infatti sono definite «sagge»; le seconde, imprevidenti, presero le lampade ma non l’olio, e per questo considerate «stolte». Le prime, di conseguenza, hanno la possibilità di far fronte alla situazione di emergenza (il ritardo dello sposo), al contrario delle seconde. La parabola non spiega precisamente che cosa significhi essere saggio ed essere stolto. Lo chiarisce però un altro paragone che l’evangelista ha posto alla fine del discorso della montagna: «Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia […]. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto che ha costruito la 212

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sua casa sulla sabbia» (7,24-26). L’insegnamento è chiaro: è saggezza fondare la propria esistenza sull’ascolto e sulla pratica della parola di Dio; è stoltezza ascoltare e non fare. La parabola invita i discepoli a essere previdenti, cioè saggi, pronti ad affrontare ogni emergenza: sia che il Signore venga subito, sia che ritardi, il discepolo deve essere pronto ad accoglierlo. L’evangelista Matteo conosce due falsi atteggiamenti, due modi sbagliati di vivere in «questo tempo presente». L’atteggiamento di chi calcola il ritardo della venuta del Signore e ne approfitta, come il servo della parabola che precede immediatamente la nostra, il quale – visto che il Signore ritarda – maltratta i colleghi e gozzoviglia con gli ubriaconi. È l’atteggiamento di chi non ha la forza e la pazienza di attendere a lungo: come le cinque fanciulle sventate le quali, non avendo calcolato la possibilità del ritardo dello sposo, non sono pronte al suo arrivo. L’attesa del Signore – cioè il modo cristiano di vivere nel tempo presente – esige prontezza e costanza. Prontezza perché il Signore può giungere in ogni momento («Non sapete né il giorno né l’ora», v. 13), costanza perché può tardare a lungo. In fondo, il cristiano deve comprendere che non è questione di oggi o di domani, di ritorno vicino o lontano. Non è la vicinanza o la lontananza del ritorno del Signore che rende importante il tempo nel quale viviamo, ciò che conta non è la brevità o la lunghezza del tempo che ci rimane: il tempo è importante perché ricco, in ogni suo momento, di possibilità di salvezza. La parabola invita dunque a essere pronti in ogni momento, previdenti e vigilanti («vegliate dunque»), ma non indica in che cosa precisamente consistano prontezza, vigilanza e preveggenza. Il fatto è che Matteo ha già risposto alla nostra domanda in brani precedenti, passi che alcune significative parole della parabola 213

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sembrano appunto richiamare. Ad esempio, la risposta dello sposo alle fanciulle stolte («non vi conosco!», v. 12) ricorda le forti parole del Signore ai falsi discepoli («Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità», Mt 7,23). Sono falsi discepoli coloro che nel suo nome hanno profetato, hanno cacciato demoni e hanno fatto miracoli, ma hanno dimenticato di fare la sua volontà. In altre parole, è imprevidente come le fanciulle stolte chi vive una separazione fra il dire e il fare, la preghiera e la vita. Per finire, anche l’imperativo con il quale Matteo conclude la parabola, «Vegliate», è ricco di evocazioni delle quali vale la pena ricordarne due: come al tempo di Noè – annota l’evangelista (cf. 24,38-39) – anche oggi gli uomini trascurano spesso la questione fondamentale, e cioè la loro relazione con Dio, completamente immersi nelle preoccupazioni quotidiane («mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito»): si vive tranquilli e distratti, ignari del giudizio di Dio che incombe. Vigilare è l’atteggiamento contrario, l’atteggiamento di chi, pur impegnandosi nella vita, non dimentica la questione fondamentale. Vigilare – ed è il secondo richiamo (cf. 24,45-51) – è l’atteggiamento di chi amministra saggiamente i beni che il Signore gli ha affidato e «dare loro il cibo a tempo debito» (v. 45); il contrario è l’atteggiamento di chi, facendosi egli stesso padrone, opprime i fratelli e tiene tutto per sé.

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Trentatreesima domenica del tempo ordinario

Dio ci chiede di rischiare Pr 31,10-13.19-20.30-31  ●  1Ts 5,1-6  ●  Mt 25,14-30

Il libro dei Proverbi è un’ampia raccolta di massime e di sentenze, in cui si è per così dire cristallizzata la saggezza di tutte le generazioni israelite. Nulla, o quasi, di particolarmente originale: una saggezza universale, umana, popolare, priva non solo degli slanci e degli ideali evangelici, ma anche della carica di utopia dei profeti anticotestamentari. Non per questo è un libro senza importanza. Il suo intento è fare di ogni israelita un vero uomo: forte, padrone di sé, interiormente libero, lavoratore, abile, leale. Non è ancora il ritratto del discepolo del Vangelo, ma è la premessa indispensabile per poterlo essere: non si diventa cristiani se non si è uomini. Il passo che la liturgia ci propone è la conclusione dell’intero libro (cf. 31,10-13.19-20.30-31): un breve poemetto che tesse il ritratto della donna ideale aprendosi con un elogio: «Ben superiore alle perle è il suo valore» (v. 10b), non senza però un’ironica frecciatina: «Una donna saggia chi è in grado di trovarla?» (v. 10a). La descrizione della donna saggia è sostanzialmente tradizionale: una massaia energica, un po’ borghese e un po’ contadina, tutta casa e lavoro, sposa fedele e madre premurosa, a servizio del marito e dei figli: «In lei confida il cuore del marito, e non verrà a mancargli il profitto. Gli darà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita» (vv. 11-12). Questa è soltanto la prima lettura, ma è possibile farne una seconda più importante. Già la tradizione giudaica e poi quella cristiana hanno giustamente visto 215

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in questa donna un simbolo: il libro dei Proverbi infatti raffigura più volte la saggezza e la stoltezza sotto le sembianze di due donne, la sposa fedele e la prostituta. Letto in questa prospettiva – che sembra la più vera – il passo viene dunque a descrivere la persona saggia, uomo o donna che sia. I suoi tratti essenziali? Il più marcato è forse la laboriosità: si alza prima dell’alba, si cinge i fianchi con energia, non mangia il pane dell’ozio. Questa donna è tutto il contrario della pigrizia, difetto che i Proverbi denunciano con vigore tutto particolare: «Il pigro immerge la mano nel piatto, ma non è capace di riportarla alla bocca (19,24; cf. 26,15). E poi ci sono anche qualità più interiori e profonde: la generosità verso i poveri («Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero», v. 20), la riservatezza nel parlare e la prudenza nel giudicare («Apre la sua bocca con saggezza», v. 26), il timore di Dio. Dall’insieme – ed è forse ciò che più conta – ne risulta una persona che vive per gli altri, nel più completo dono di sé. La parabola dei talenti (cf. Mt 25,14-30) non sembra distanziarsi molto dal ritratto di questa donna. Va subito precisato che i «talenti», contrariamente a quanto spesso si pensa, non sono le «doti» o le «capacità» (di intelligenza o altro) che Dio ha dato a ciascuno, sono piuttosto le occasioni che la vita offre, le responsabilità che siamo chiamati ad assumere, le possibilità che si aprono sul nostro cammino, i compiti che ci vengono affidati. Difatti la parabola racconta che il padrone: «A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno» (v. 15). I primi due servitori (il secondo è una ripetizione del primo) sono l’immagine dell’operosità e dell’intraprendenza: trafficano ciò che è stato loro affidato e consegnano il doppio di quanto hanno ricevuto; sono perciò definiti «buoni e fedeli». Il terzo invece è pigro, passivo: non traffica, non corre rischi, ma si limita a «conservare» e viene perciò definito «malvagio e pigro» 216

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e «buono a nulla». Il contrasto è dunque fra operosità e pigrizia, intraprendenza e passività. La parabola dei talenti – sviluppando il contrasto fra passività e operosità – non intende però essere un’esaltazione di ciò che oggi chiamiamo «efficienza». A scanso di ogni equivoco, non si dimentichi che la prospettiva di Matteo è unicamente religiosa: egli si sta rivolgendo alla comunità cristiana del suo tempo, e intende rimproverarla per la sua poca intraprendenza nella fede. Non c’è posto per comunità intorpidite, rinunciatarie e paurose di fronte a ogni progetto evangelico. Le nostre comunità sono per lo più costituite da persone attive, efficienti, intraprendenti e piene (anche troppo!) di lavoro: però intraprendenti «altrove» (nella professione ad esempio, nella carriera o nella politica), ma timorose e dimissionarie, conservatrici, nei confronti della fede. Il servo «pigro» non è l’uomo che non lavora, ma l’uomo che, nel campo della fede, è ricco di parole e povero di fatti, e pauroso di fronte a ogni rinnovamento dettato dalle esigenze evangeliche. A questo punto, bisogna osservare che nell’economia della parabola i primi due servitori hanno semplicemente la funzione di mettere in risalto, per contrasto, il comportamento del terzo che, a differenza dei primi due, nasconde il suo tesoro in una buca. Anche le prime due scene di rendiconto hanno lo scopo di attirare l’attenzione sulla terza. È perciò chiaro che dobbiamo concentrare l’attenzione sul comportamento del servo cattivo, ed è altrettanto chiaro che la chiave dell’intera parabola è il dialogo fra il servo pigro e il padrone. Il servo ha una sua idea del padrone, e cioè quella di un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso. In una simile concezione di Dio c’è posto soltanto per la paura e la scrupolosa osservanza di ciò che è prescritto. Il servo non intende correre rischi, e mette al sicuro il denaro, credendosi giusto allorché può ridare al padrone quanto ha ricevuto. Si 217

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ritiene sdebitato: «Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (v. 25). Anche l’ascoltatore è tentato di ritenere giusto il ragionamento del servo e ingiusta, invece, la pretesa del padrone, ma è una reazione sbagliata. L’ascoltatore della parabola è invitato a cambiare prospettiva: non l’orizzonte della gretta obbedienza e della paura, ma la prospettiva dell’amore, che è senza calcoli (non si limita a riconsegnare ciò che ha ricevuto), e senza paura. Il servo della parabola è rimasto paralizzato dalla paura del rendiconto: la paura lo ha reso inerte e dimissionario, incapace di correre qualsiasi rischio, e così è divenuto «conservatore», un burocrate pieno di scrupoli e senza alcuna intraprendenza. Non è questo il discepolo di Cristo e non è questa la «vigilanza cristiana». Il discepolo non deve porre limiti al proprio servizio, perché l’amore non ha limiti; e non deve avere paura di correre rischi, perché non c’è paura nell’amore. Chi invece si chiude in se stesso per paura e rifiuta le occasioni, diviene sterile e sempre più inutile. È il senso della frase apparentemente enigmatica «verrà tolto anche quello che ha» (v. 29). La parabola, dunque, ha fondamentalmente lo scopo di far comprendere la vera natura del rapporto che corre fra Dio e l’uomo: è tutto l’opposto della paura e del timore servile. Il discepolo deve, al contrario, muoversi in un rapporto di amore, dal quale soltanto possono scaturire coraggio, generosità e libertà.

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Trentaquattresima domenica del tempo ordinario Solennità di nostro Signore Gesù Cristo re dell’universo

Quello strano re che serve i suoi sudditi Ez 34,11-12.15-17  ●  1Cor 15,20-26.28  ●  Mt 25,31-46

Il brano della prima lettura rientra in un ampio discorso che alterna, come spesso capita nei libri profetici, la polemica alla promessa, la minaccia alla consolazione (cf. Ez 34). La polemica è contro le guide del popolo – sacerdoti e governanti – che non pensano agli interessi del gregge, ma ai loro: «Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! […] Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolare il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme […] non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite» (34,2-4). Nei confronti di simili pastori c’è posto soltanto per un severo giudizio di condanna, che Dio però accompagna con una decisione sorprendente: «Io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna» (34,11). Dio stesso eserciterà il suo ruolo di pastore mediante un inviato, un servo fedele, finalmente conforme alla sua volontà (cf. Ez 34,23-24). Nei pochi versetti suggeriti dalla liturgia (cf. vv. 1112.15-17) troviamo indicati i tratti caratteristici del governo di Dio e del suo rappresentante, il messia. Tratti semplici, tuttavia, tali da distinguere nettamente il governo di Dio da quello dei falsi pastori (di allora e di oggi). Dio opera un giudizio («fra pecora e pecora, fra montoni e capri», v. 17), ma ciò che conta è che il suo giudizio è giusto («Le pascerò con giustizia», v. 219

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16). In altre parole, Dio non fa differenza per nessuno, non insegue interessi personali né di parte, non si lascia corrompere né subisce ricatti di sorta, non trascura i deboli per favorire i potenti, non permette che i ricchi colpiscano i poveri. Se ha una preoccupazione è per i trascurati: va in cerca della pecora perduta e riconduce all’ovile quella smarrita, fascia la pecora ferita e cura quella malata. La sua azione è tutta tesa a liberare e riunire: «le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse […]. Le farò uscire dai popoli e le riunirò da tutte le regioni» (vv. 12-13). Sono tutti temi che il Nuovo Testamento riprende e che Gesù applica a se stesso: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario […] vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge» (Gv 10,11-12). Parole dietro le quali si intravede una polemica simile a quella del profeta Ezechiele. Questo è dunque il re di cui oggi celebriamo il dominio, un re che ha ben poco da spartire con il concetto mondano della regalità, un re che si preoccupa degli umili e il cui dominio si esprime nel dono di sé. E il grande affresco del giudizio finale (cf. Mt 25,31-46) ripropone ancora più chiaramente quel contrasto che ci porta al cuore della regalità di Gesù: il re, assiso nella sua gloria, che giudica l’intera umanità. Quattro sono gli aspetti importanti da mettere in luce. Primo: il giudice è chiamato «figlio dell’uomo» e «re». La presentazione è solenne e gloriosa, ma a nessuno può sfuggire che questo re è Gesù di Nazaret, colui che fu perseguitato e crocifisso, rifiutato, e che nella sua vita condivise in tutto la debolezza della condizione umana: la fame, la nudità, la solitudine. Ed è un re che si identifica con i più umili, i più piccoli. Anche nella sua funzione di giudice universale rimane fedele a quella logica di solidarietà che lo guidò in tutta la sua esistenza terrena. È un re che vive sotto spoglie conosciute 220

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(le spoglie del povero e del bisognoso) e c’è il rischio, anche per i suoi discepoli, di non scorgerlo. Secondo: sarebbe un errore se si vedesse in questa pagina una logica diversa da quella della croce, un contrasto fra il Cristo crocifisso e il giudice della fine dei tempi, come se alla logica dell’amore (croce) venisse alla fine sostituita la logica della potenza e della gloria (giudizio). Nulla di tutto questo: il giudizio si limita a svelare il vero senso dell’amore che apparve nel Crocifisso, e che a molti sembrò inutile e sterile. E nello stesso tempo viene svelata la vera identità dell’uomo: è solo l’amore verso i fratelli che dona all’uomo consistenza e salvezza. Terzo: altrove l’evangelista afferma che gli uomini, al giudizio, dovranno rendere conto di tutte le azioni della loro vita (cf. Mt 16,27), persino di ogni parola (cf. Mt 12,36). Qui ricorda solo l’accoglienza agli esclusi. Un’accoglienza concreta, fattiva: tutto il giudizio, come diverse altre pagine del Vangelo, è costruito attorno alla contrapposizione tra il fare e il non fare. Matteo lo ha già ricordato più volte: l’essenziale della vita cristiana non è dire, e nemmeno confessare Cristo a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri, i forestieri e gli oppressi. Questo è il vero riconoscimento della regalità di Gesù. Quarto: la regalità di Cristo è più ampia dei confini della chiesa, più ampia della cerchia dei credenti «consapevoli». La presenza di Cristo è anche altrove, dovunque si trovi uno dei «suoi piccoli fratelli»: i piccoli fratelli – con i quali il giudice re sembra identificarsi – sono tutti coloro che, in un modo o nell’altro, sono poveri, forestieri, perseguitati e prigionieri. Si identifica con loro non a causa dei loro meriti (di cui il brano evangelico non fa alcuna menzione), ma semplicemente in ragione della loro condizione di esclusi e di perseguitati. E anche la benedizione «Venite, benedetti del Padre mio» (v. 34) è per tutti coloro che – non si 221

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dice se credenti o no – hanno amato e accolto: sia pure inconsapevolmente, tutti costoro hanno servito Cristo, hanno riconosciuto in concreto la sua regalità così diversa da quella del mondo.

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Solennità e feste

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2 febbraio Presentazione del Signore

La luce che illumina le genti Ml 3,1-4  ●  Eb 2,14-18  ● Lc 2,22-40

La festa liturgica della Presentazione di Gesù al tempio di Gerusalemme si apre con la processione delle candele all’altare, segno di quella luce che il vecchio Simeone vide e per la quale ringraziò il suo Signore: «i miei occhi hanno visto la tua salvezza preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele» (Lc 2,30-32). Quella luce evocata nel cantico di Simeone capace di riconoscere la presenza del Signore è introdotta da un’antica profezia di Israele, come si legge nella prima lettura (cf. Ml 3,1-4). Di fronte all’obiezione («Dove è il Dio della giustizia», Ml 2,17), posta dal popolo in una drammatica situazione sociale e religiosa, il profeta risponde con l’annuncio della venuta di un «angelo dell’alleanza» (v. 1c), di un «messaggero» (v. 1a) che avrà il compito di purificare e di ristabilire la possibilità di una nuova e giusta relazione tra Dio e il suo popolo. Ma l’attesa e il desiderio di un intervento di Dio evocati dall’oracolo profetico si compiono in modo sorprendente e paradossale. Difficile, infatti, scorgere nella figura del bambino portato dai genitori al tempio il «fuoco» (v. 2c) e la «lisciva» (v. 2c) mandati dal cielo per purificare Israele, come aveva predetto l’antico profeta! C’è qualcuno, però, che proprio in quel bambino presentato al tempio (cf. Lc 2,22-40), cioè offerto a Dio, intuisce con meraviglia e stupore che il disegno di Dio e della sua salvezza si stanno compiendo. Il Vangelo ricorda innanzitutto la figura del vecchio Simeone, come 225

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già si accennava, che attendeva la venuta del messia. La bellezza di quest’uomo vecchio è proprio la sua speranza; si narra infatti: «aspettava la consolazione di Israele» (v. 25). Di Simeone, uomo giusto e pio, è detto che «lo Spirito Santo era su di lui» (v. 25). È proprio lo Spirito, infatti, che ha suscitato in Simeone l’ardente attesa del messia, mantenendola ferma sino alla fine. Ed è sempre lo Spirito che offre a Simeone la chiaroveggenza necessaria per riconoscere il messia in un bambino. Senza lo Spirito non si riconosce la presenza di Dio. Questo riconoscimento si fa esplicito nel cantico e nelle parole profetiche rivolte alla madre. Il cantico è una preghiera costruita attorno a tre citazioni del profeta Isaia, che parlava di speranza e di consolazione (cf. Is 40,5; 49,6; 62,2). Il vecchio Simeone fa sua la speranza del profeta e il suo universalismo: il bambino che Maria e Giuseppe portano al tempio è la luce di cui tutti i popoli hanno bisogno. Ma non basta questa affermazione a definire il mistero del bambino, Simeone intravede anche un altro aspetto, e lo esprime nelle parole rivolte a Maria. Simeone benedice entrambi i genitori, ma le parole sono soltanto per la madre. Il bambino sarà «segno di contraddizione» (v. 34). È la luce del mondo, ma una luce contraddetta: cercato e rifiutato, amato e crocifisso, sconfitto e vittorioso. Una contraddizione che coinvolgerà la madre, come la spada che la trafigge (cf. v. 35). E dopo l’incontro con Simeone, ecco l’episodio di Anna, che con il primo è strettamente collegato. Anna è una donna molto anziana, vedova, che ha riempito la sua esistenza dedicandosi al servizio del Signore, consacrandosi a Dio. Ha ritrovato, così, una casa che era il tempio, la casa del Signore. La sua vita non è senza significato, poiché serve il tempio; la sua vita non è senza amore, perché essa ama Dio e lo serve giorno e notte. Questa donna è profetessa, cioè sa vedere, sa leggere, sa scorgere ciò che altri non scorgono. Di lei va allora 226

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sottolineata la capacità di leggere la presenza di Dio; è una persona anziana che sa vedere le cose in profondità. Anna guarda e vede nel bambino l’atteso, lo annuncia e lo fa riconoscere (cf. v. 38). È, in un certo senso, il prototipo della missionaria. E la missione della comunità cristiana non può che ripartire dalla convinzione che Cristo è la luce per illuminare le genti.

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24 giugno Natività di san Giovanni Battista (Messa vespertina nella vigilia)

Non vi è alcuno più grande di Giovanni Ger 1,4-10  ●  1Pt 1,8-12  ● Lc 1,5-17

Gesù ha avuto per Giovanni Battista parole di grandissima stima: «Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni» (Lc 7,28). Tutto in Giovanni Battista – la nascita, la vita, la morte – è nella linea dei grandi profeti; in un certo senso li ricapitola. La sua nascita è attribuita a un intervento particolare di Dio e suscita stupore, come la nascita di Samuele. Vive nel deserto, si nutre di «locuste e miele selvatico», e indossa un «mantello di pelo», e una «cintura di cuoio», come Elia. Si oppone al peccato del popolo e dei potenti, e questo coraggio gli procura la prigione e il martirio, com’è accaduto ai veri profeti. Il passo evangelico racconta la sua nascita. Una scelta ovvia: la nascita di Giovanni è immersa in un’atmosfera di gioia e di «stupore», e la notizia si diffonde in tutta la regione montuosa della Giudea. Con questo l’evangelista vuol farci capire che la nascita di Giovanni è la «prova» che Dio è ancora in mezzo al suo popolo, che le sue promesse non sono state dimenticate e che i tempi della salvezza stanno per compiersi. Tutta questa grande ricchezza di significato è già racchiusa nel nome che Zaccaria ed Elisabetta – rompendo un costume consolidato – vogliono per il bambino. Per essere fedeli all’intenzione del Vangelo non dobbiamo leggere il racconto della nascita come un episodio a sé stante, e concluso, bensì come l’inizio di una 228

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vicenda che va considerata in tutto il suo sviluppo. Solo così possiamo intravedere l’eccezionalità della figura di Giovanni e i suoi molti risvolti attuali. Anzitutto Giovanni è presentato come un predicatore; egli stesso si definisce «voce di uno che grida» (Lc 3,4, cf. Is 40,3). Con voce alta e chiara, con coraggio e franchezza, pubblicamente, annuncia il «giudizio di Dio» («già la scure è posta alla radice degli alberi», Lc 3,9) e denuncia l’ipocrisia religiosa del suo popolo e l’immoralità di Erode. Ai figli di Israele, orgogliosi di essere discendenti di Abramo, ricorda che «da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo» (Lc 3,8): non è nell’appartenenza a una razza o a una struttura religiosa che sta la salvezza, ma nella fede e nella vita. E a Erode rimprovera la sua convivenza con la moglie del fratello e molte altre malefatte. Andò come si poteva prevedere: Erode lo fece arrestare e lo rinchiuse in carcere. È la sorte dei profeti ed è il segno della loro verità. I falsi profeti – che la Bibbia conosce e di cui parla in diverse occasioni – contrabbandano le loro parole di adulazione come parola di Dio e cercano l’approvazione degli uomini. Il vero profeta dice parole di denuncia, di opposizione, parole che scuotono e infastidiscono, parole vere, senza guardare in faccia nessuno. In secondo luogo, Giovanni è presentato dal Vangelo come il testimone di Gesù. È forse la sua caratteristica più importante. Ecco il cuore della sua predicazione: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più grande di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali» (Lc 3,16). Questa funzione di Giovanni è particolarmente sottolineata dal quarto Vangelo: egli è venuto «per dare testimonianza alla luce» (Gv 1,7). Tutto qui: Giovanni è una voce che ha unicamente il compito di far conoscere Cristo. Egli lo indica ai suoi discepoli: «Ecco l’Agnello di Dio» (Gv 1,36), e lo indica a tutti: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete» (Gv 1,26). È questa la testimonianza (della chiesa e di 229

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ogni discepolo): aiutare gli uomini ad accorgersi che in mezzo a loro c’è Cristo. Non tocca al discepolo portare Cristo, egli c’è già; il suo compito è aiutare gli uomini ad aprire gli occhi perché lo scorgano. Giovanni – ed è la terza caratteristica, che ci porta al cuore della sua spiritualità – è coraggioso fino al martirio e insieme umile fino a sapersi mettere in disparte, e questo richiede non meno coraggio del martirio. Non approfitta della simpatia delle folle, non si mette a capo del movimento che la sua parola ha suscitato, non concentra l’attenzione su di sé. Egli vuole unicamente che al centro dell’attenzione sia il Cristo. Egli è contento che i suoi discepoli lo abbandonino per seguire Gesù: «lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena» (Gv 3,29). Così il Battista diventa il modello dell’atteggiamento che il mondo e ogni uomo dovrebbero assumere di fronte alla luce di Cristo: accettare gioiosamente la sua novità, superando i propri schemi culturali e i propri progetti, le proprie attese: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,30). Infine un tratto sorprendente e importante: Giovanni sa unire alla forza della denuncia e all’austerità della propria vita, una meravigliosa capacità di concretezza e moderazione. Ci sono uomini (e movimenti) che vorrebbero imporre a tutti la loro austerità, le loro scelte radicali, insofferenti di soluzioni più normali che definiscono inesorabilmente come compromessi e patteggiamenti. Costoro non sono profeti, ma fanatici. L’austero Giovanni è diverso, vive nel deserto ma non dice a nessuno di fare altrettanto; si nutre di cavallette ma non rimprovera Erode o le folle perché prendono cibo. Accoglie quel bisogno di religiosità e di cambiamento che sale dalle folle – un bisogno autentico ma che, come spesso accade, è ancora confuso e generico –, lo purifica, lo indirizza verso la conversione interiore e 230

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verso scelte pratiche alla portata di chiunque. Alle folle raccomanda l’amore fraterno: chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha. Agli esattori delle tasse che operavano per conto del dominatore straniero (molti avrebbero detto loro di cambiare lavoro!) dice semplicemente di non essere esosi ma giusti. Ai soldati raccomanda di non abusare della loro posizione e della loro forza, di non fare prepotenze, ma di accontentarsi della paga. Quello che conta è dunque il mutamento nella vita quotidiana, nella vita normale.

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29 giugno Santi Pietro e Paolo apostoli

Hanno combattuto la buona battaglia At 12,1-11  ●  2Tm 4,6-8.17-18  ●  Mt 16,13-19

Pietro e Paolo sono le due figure dominanti del Nuovo Testamento: essi rappresentano la tradizione apostolica più autorevole, alla quale la chiesa deve sempre rimanere fedele. La liturgia li unisce in una stessa festa, riprendendo una tradizione molta antica. I Vangeli sono unanimi nel riconoscere che Pietro non è semplicemente un apostolo come gli altri: è la roccia della comunità, gli viene detto di confermare nella fede i suoi fratelli (parola che nel contesto non significa semplicemente i fedeli, ma anche il gruppo degli apostoli), riceve l’incarico di pascere il gregge. Nel passo evangelico (cf. Mt 16,13-19) la posizione di Pietro è indicata da tre paragoni: la roccia, le chiavi, legare e sciogliere. Sono tre paragoni che non dobbiamo intendere, ovviamente, a modo nostro, ma secondo quel senso che abitualmente essi hanno nel linguaggio biblico. Per comprendere il primo («tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa», v. 18) penso sia opportuno ricorrere a un altro passo del Vangelo di Matteo, nel quale troviamo la stessa immagine. A conclusione del discorso della montagna, Gesù racconta la parabola della casa costruita sulla sabbia e della casa costruita sulla roccia: «Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia» (7,25). Pietro è la roccia che tiene salda la comunità, 232

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fuori metafora, Pietro è il punto di coesione attorno al quale si fa l’unità della chiesa. Per comprendere il secondo paragone («A te darò le chiavi del regno dei cieli», v. 19) possiamo invece ricorrere a un passo del profeta Isaia. Raccontando di un primo ministro, Sebna, spodestato e sostituito da un altro, Eliakim, il profeta così si esprime: «Lo rivestirò con la tua tunica, lo cingerò della tua cintura e metterò il tuo potere nelle sue mani […]. Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire» (22,2122). Avere le chiavi significa essere il primo ministro o il maggiordomo della casa reale. Ecco che anche il secondo paragone diventa chiaro: Pietro è la prima autorità della chiesa. Il terzo paragone infine («tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli», v. 19) riprende un detto ben conosciuto nella tradizione giudaica. Indica l’autorità di proibire e permettere, di separare e perdonare, di interpretare autenticamente e autorevolmente la tradizione; nel nostro caso l’insegnamento di Gesù. Di conseguenza la nostra posizione davanti a Dio è legata al nostro accordo o disaccordo, con Pietro: questo è il senso dell’espressione «sarà legato nei cieli, sarà sciolto nei cieli». A questo punto sono importanti due precisazioni, una più generale, che rimanda al contesto dell’intera Bibbia, e una più particolare legata al contesto immediato in cui si trova il nostro passo. Le prerogative che Gesù attribuisce a Pietro (essere roccia, avere le chiavi, legare e sciogliere), sono prerogative che la Bibbia attribuisce abitualmente al messia. È come dire che la posizione di Pietro è vicaria: egli è l’immagine, o il portavoce, di un altro, di Cristo, che rimane il vero e unico Signore della comunità. E non è certo casuale il fatto che nel medesimo passo (basta leggere qualche 233

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riga oltre la lettura liturgica per accorgersene), Pietro sia contemporaneamente beatificato e rimproverato: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo» (v. 23). Pietro è il portavoce della fede dei discepoli («Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente», v. 16), ma è anche il portavoce del loro rifiuto della croce («Signore, questo non ti accadrà mai!», v. 22). E come se questo non fosse già chiaro, ecco che il contrasto fra l’autorità di Pietro e la sua debolezza d’uomo è sottolineato anche da altri passi, come attesta l’affermazione di Gesù nell’ultima cena: «Una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,32), o la stessa triplice domanda di Gesù che evoca il triplice rinnegamento di Pietro (cf. Gv 21,15-18). L’insegnamento è chiaro: Pietro è roccia per grazia, per volontà di Cristo, non per doti personali. E questo è per noi consolante e impegnativo insieme. Consolante perché l’obbedienza a Pietro non è a un uomo, ma a Cristo, e impegnativo perché bisogna andare oltre l’uomo – il suo fascino o i suoi limiti – per scorgere con occhi di fede la presenza del Signore. Il passo della seconda lettera a Timoteo (cf. 4,68.17-18) è una specie di testamento di Paolo: «è giunto il momento che io lasci questa vita» (v. 6). Poche parole, scarne, sufficienti però per farci intravedere qualcosa della grandezza dell’Apostolo delle genti. Una figura davvero eccezionale, che non cessa di stupirci: la sua attività missionaria, la sua predicazione, la sua robusta riflessione teologica e la sua ricchissima esperienza spirituale continuano a sorprenderci. La prima cosa che colpisce leggendo tutte le sue lettere è che egli parla continuamente di Cristo e soltanto di Cristo. Non ha altri interessi. Morte e vita, prigionia e libertà, tutto è considerato in rapporto a Cristo e a vantaggio del Vangelo, e l’unico oggetto della sua speranza è di essere sempre col Signore. Dicendo di aver «combattuto la buona battaglia» (v. 7), Paolo pensa ap234

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punto a questo: al suo amore a Cristo senza distrazioni e al suo sforzo di essergli fedele senza alcun tentennamento. Ed è questa, anche, la corsa che egli dice di aver portato a termine. Si legga, in proposito, il bellissimo passo della lettera ai Filippesi: «Mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (3,12-14). Afferrato da Cristo, Paolo abbandona tutto ciò che ha alle spalle; ciò che prima gli interessava ora non gli interessa più. Vede il mondo con occhi nuovi, i suoi criteri valutativi sono radicalmente cambiati. È cambiato, in primo luogo, il modo di comprendere la parola della croce: afferrato dal Cristo risorto lungo la via di Damasco, Paolo ha capito che colui che egli riteneva morto e abbandonato da Dio, è invece vivo e risorto. La croce dunque è la via di Dio. Ecco perché Paolo affronta la persecuzione e le sofferenze (e non tutte provenienti dall’esterno!) con gioia e fiducia: anche questo fa parte della buona battaglia e della corsa. La persecuzione non lo ha mai meravigliato, né lo ha fermato: non è altro che la via del maestro che continua nei discepoli. E come il maestro fu abbandonato nel momento della passione dai discepoli, così anche Paolo è abbandonato da tutti: «Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito, tutti mi hanno abbandonato» (v. 16). Ma che importa? La cosa importante è la fiducia nel Signore: «Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza» (v. 17). Il secondo cambiamento avvenuto, e che ha capovolto la sua precedente concezione religiosa, fu la chiara percezione che la salvezza è grazia. Afferrato da quel medesimo Gesù che egli si accingeva a perseguitare, Paolo si rese conto che la salvezza viene dalla misericordia 235

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di Dio, dal suo amore gratuito e preveniente, non da altro. E sulla base di questa salvezza gratuita sorse in lui l’esigenza della missione universale, la sua vocazione di missionario dei gentili: fu nel momento stesso in cui divenne cristiano che egli avvertì di essere uno strumento scelto «perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero» (v. 17). E a ragione. Se la salvezza viene dall’amore di Dio e Dio ama tutti, come non sentire l’ansia di correre subito fra i pagani? È per questo che Paolo sentì il bisogno di rompere – anche polemicamente – ogni forma di particolarismo: il suo vanto è di essere il missionario dell’universalità. La corsa che egli dice di aver portato a termine si precisa così in due direzioni: una corsa verso Cristo e una corsa verso il mondo. Sono le due direzioni di ogni autentico cammino cristiano.

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6 agosto Trasfigurazione del Signore

Saper ascoltare la parola di Dio Dn 7,9-10.13-14  ●  2Pt 1,16-19  ●  Mt 17,1-9

L’episodio della trasfigurazione si trova in un contesto in cui Gesù predice ripetutamente la sua passione e quella dei suoi discepoli. I discepoli hanno compreso che Gesù è il messia, hanno capito che in lui è presente e operante la salvezza, ma con tutto ciò non riescono ancora a comprendere la parte più intima e più nuova del suo animo e della sua missione: non vedono come l’amore di Dio possa nascondersi dietro la croce e come la sua fedeltà vittoriosa possa trovarsi alla fine di una strada che sembra smentirla. È in questo contesto che si può comprendere il vero significato della trasfigurazione. Il racconto evangelico (cf. Mt 17,1-9) è molto ricco e gli elementi da comprendere sono numerosi, ma noi ci limitiamo ai principali. Alcuni tratti, come la nube luminosa, il monte, la voce celeste e la presenza di Mosè e di Elia, evocano l’Antico Testamento, in particolare il cammino del popolo nel deserto, l’apparizione di Dio sul monte Sinai e il profetismo. E il significato è trasparente. Si vuole affermare che Gesù è il nuovo Mosè e che in lui giungono a compimento le attese e le speranze di Israele. E tutto questo senza dimenticare una precisazione importante suggerita dal contesto: è proprio in questo Gesù incamminato verso la croce che troviamo il compimento delle attese! Gli uomini lo rifiutano, ma le Scritture, Mosè e i profeti lo accolgono. Altri tratti, come il trasfigurarsi della persona di Gesù e le vesti candide, evocano il figlio dell’uomo, 237

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glorioso e vincitore, della grande visione di Daniele, e anticipano la risurrezione. Il racconto intende infatti rivelare il significato nascosto del cammino di Cristo, il suo personale destino: Gesù, incamminato verso la croce, è in realtà il signore glorioso. I tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni – chiamati a vedere la gloria segreta del Cristo – sono i medesimi che più tardi, nel Getsemani, saranno chiamati a vedere la sua debolezza. Il mistero dell’esistenza del Cristo – come dell’esistenza dell’uomo – ha due volti: la croce e la gloria, la forza e la debolezza. Nell’intenzione dell’evangelista l’episodio della tra­ sfigurazione non ha soltanto il compito di svelare l’identità di Gesù, ma anche quella del discepolo. Come abbiamo già detto, i discepoli hanno capito che Gesù è il messia e si sono ormai persuasi che la sua strada conduce alla croce, ma non riescono a capire come la sua croce (e la loro) possa nascondere la gloria. In proposito hanno bisogno di una esperienza, sia pure fugace e provvisoria: hanno bisogno che il velo si sollevi. È questo il significato della trasfigurazione nell’itinerario di fede del discepolo: è una verifica. Dio concede, per un istante, di anticipare la Pasqua. Non soltanto Gesù, ma anche il discepolo è ugualmente incamminato verso la croce, come pure verso la risurrezione, ugualmente in possesso – al di là della realtà che spesso delude – della presenza vittoriosa di Dio. Ma tutto questo è nascosto, e per accorgersene occorrono dei segni e delle verifiche, momenti chiari che alle volte si incontrano nel viaggio della fede, momenti gioiosi all’interno della fatica cristiana. Non sono momenti che automaticamente e dovunque si incontrano: occorre crearne le premesse e saperli scorgere. Senza dimenticare che la loro presenza è fugace e provvisoria, il discepolo deve sapersi accontentare. Pietro desidera rendere eterna quella sua improvvisa e chiara visione, ma non è possibile, Dio ha fatto dono ai di238

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scepoli prediletti di intravedere, solo per un istante, la gloria del figlio. Sulla strada dell’esistenza (spesso segnata dalla fatica di vivere e dall’oscurità) Dio ci fa dono di spiragli di luce, che non significano che la strada della croce sia finita, al contrario, ci incoraggiano a percorrerla. Nonostante i numerosi insegnamenti che il racconto ci ha già dato, la componente più significativa è un’altra, e cioè l’affermazione della voce celeste: «Questi è il figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo!» (v. 5). Tutto il resto serve in qualche modo da cornice. È infatti l’ascolto ciò che definisce il discepolo. L’ambizione del discepolo è di essere servo della verità, in perenne posizione di ascolto. Ma che cosa ascoltare? La parola di Dio, che si è fatta chiara nella persona, nelle parole e nella esistenza di Gesù di Nazaret. Non è una parola che trasmette nozioni qualsiasi, racconta chi è Dio, chi siamo noi, qual è il senso della storia nella quale viviamo. Dunque è una Parola che indica ciò che dobbiamo fare, la regola da seguire, il punto di vista da assumere. Richiede ascolto attento, obbedienza e conversione. Non solo intelligenza per comprendere, ma coraggio per decidersi, e soprattutto molta fiducia. Quella che il Cristo rivela è infatti una parola che ci coinvolge e ci strappa a noi stessi.

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15 agosto Assunzione della beata vergine Maria

Festa dell’umanità Ap 11,19a; 12,1-6a.10a-b  ●  1Cor 15,20-27a Lc 1,39-56

La liturgia suggerisce come prima lettura la grandiosa visione della donna e del dragone (cf. Ap 11,19; 12,1-6a.10a-b), che è il cuore del libro dell’Apocalisse; i personaggi principali della visione apocalittica sono due: la donna e il dragone. Giovanni li chiama «segni», vale a dire simboli di una realtà della nostra storia, una realtà profonda che molti, distratti dalle apparenze, non sanno scorgere; per vederla occorrono gli occhi della fede. Il primo segno è una donna che sta partorendo un figlio maschio, il messia. Giovanni ama sovrapporre immagini e significati includendoli uno nell’altro. La donna è Israele – l’Israele ideale dei profeti – che genera il messia. Ma la donna è anche la chiesa, in balia della persecuzione e tuttavia protetta. E infine la donna è Maria, madre del messia e immagine della chiesa. Il secondo segno è il dragone, che Giovanni stesso identifica con il serpente antico, con Satana, il seduttore del mondo intero. Il mostro è davanti alla donna pronto a divorarle il bambino appena nato. Si direbbe che nessuno possa impedirglielo. E invece no: il bambino gli sfugge e sale verso il cielo, e la donna fugge nel deserto. A dispetto delle apparenze il dragone è dunque impotente! Questa appunto è la realtà profonda della storia di Dio, di cui la Vergine assunta in cielo è come lo specchio: la potenza del male non sconfigge l’amore di Dio, la morte non sconfigge la vita, la menzogna non sconfigge la verità. 240

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L’apostolo Paolo si rivolge a un gruppo di cristiani di Corinto che dubitavano della concreta realtà della nostra risurrezione: ammettevano l’immortalità dello spirito, ma avevano difficoltà ad accettare la risurrezione dell’uomo intero, anima e corpo; Paolo li fa riflettere sulla risurrezione di Gesù, sottolineando due aspetti. Il primo: Gesù è entrato nella gloria con tutta la sua realtà umana, spirito e carne. Il secondo: Gesù è solidale con l’intera umanità, nella sua risurrezione c’è la ragione che garantisce la nostra. A questo punto non è difficile capire perché la liturgia ha scelto per oggi questo brano di Paolo: solidale col figlio, la madre è entrata nella gloria con tutta la sua realtà umana – assunta in cielo anima e corpo –, segno e garanzia di quella speranza verso cui noi pure siamo incamminati. L’assunzione di Maria è la festa dell’umanità: festeggiamo la certezza che l’intero spessore della nostra realtà di uomini, non solo i valori spirituali ma anche i valori terreni – i valori del corpo – non sono destinati alla distruzione ma alla gloria. Il Vangelo ci riporta agli aspetti umili e quotidiani della vita di Maria, la preghiera e il servizio. Sta appunto qui l’essenziale: alla gloria di Dio si giunge attraverso un percorso che sembra non avere nulla di glorioso. Dell’incontro di Maria con Elisabetta, ci sembra significativo sottolineare anzitutto il particolare del «saluto», che mette in primo piano questa nota di umanità e di «normalità» che sole conducono alla meta a cui ognuno è chiamato. Maria porge il saluto per prima, in qualche modo l’iniziativa è dunque sua. Si tratta di un saluto importante, ricordato nella narrazione ben tre volte. È attorno a questo saluto che si sviluppano gli aspetti narrativi più importanti dell’episodio: il sussulto del bimbo, la venuta dello Spirito, il riconoscimento di Elisabetta. Il saluto è l’inizio della comunicazione tra le persone, non si inizia un incontro senza un saluto col quale si dimostra che la situazione è aperta e le persone sono 241

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pronte ad accogliersi; il saluto non è mai cosa banale. Ma qui il saluto di Maria, diversamente dal saluto/ risposta di Elisabetta, è senza parole. Anche questo è un tratto da rispettare nel suo silenzio. Proprio perché senza parole, il saluto di Maria pone in primo piano la sua persona, non ciò che eventualmente ella ha detto. In primo piano è la voce (cf. 1,44): non le parole di Maria hanno fatto sussultare il bambino, ma la sua voce. È nella voce di Maria che il bambino percepisce la presenza del messia atteso. Le parole di Maria sono invece raccolte nella bellissima preghiera del Magnificat, un mosaico di testi tratti dall’Antico Testamento; quasi nessuna espressione è originale. Lo è però l’insieme che ne risulta: le pietre sono antiche ma la costruzione è nuova. E infatti la presenza di riferimenti molteplici e disparati non impedisce che ci siano, e ben visibili, una scelta e una direzione. Maria non ha scelto i riferimenti anticotestamentari a caso, ma li ha selezionati, e così ci ritroviamo di fronte a una vera e propria rilettura dell’Antico Testamento, una rilettura intelligente sulla base di due scelte precise. Sono le due leggi che guidano la storia della salvezza. La prima «legge» sancisce che la salvezza dipende dalla gratuita iniziativa di Dio. Il Signore è il protagonista e i suoi interventi nascono tutti dalla sua fedeltà misericordiosa: «Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri […] per sempre» (1,54-55). La seconda «legge» proclama che la salvezza si attua nella storia degli umili (a loro è rivolta e loro sono i protagonisti) e Dio conduce la storia rovesciando le parti: ha confuso i sapienti con tutte le loro macchinazioni, ha rovesciato i potenti, riempie di beni gli affamati e manda i ricchi a mani vuote. Le due grandi leggi in base alle quali Maria ha costruito la sua preghiera, indicano già quella «logica di Dio» che Gesù avrebbe rivelato nella sua esistenza terrena. 242

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14 settembre Esaltazione della santa croce

La vita del cristiano come dono e servizio Nm 21,4-9  ●  Fil 2,6-11  ●  Gv 3,13-17

Della festa dell’Esaltazione della croce, scegliamo di porre la nostra attenzione sulla seconda lettura, un antichissimo inno a Cristo sorto nelle primitive comunità e usato nella liturgia, inno che l’apostolo Paolo si è limitato a citare e a trascrivere. Il fatto che questo brano (cf. Fil 2,6-11) trovi la sua origine nella liturgia lo rende importante: affonda le sue radici nell’anonimato della comunità e celebra la fede comune, non la teologia di un singolo o di un gruppo. Il centro del suo interesse è la persona e l’opera di Cristo, il suo significato salvifico. L’inno si lascia facilmente distinguere in due strofe: nella prima è dominante il movimento di discesa, l’abbassamento della croce: dalla condizione di Dio alla condizione di servo, dalla condizione di servo alla morte di croce. Nella seconda è dominante il movimento di salita, la glorificazione: Dio lo ha esaltato, gli ha dato un nome al di sopra di ogni nome; dalla croce alla signoria su tutte le cose. I due movimenti non sono staccati: il secondo è originato dal primo («Per questo», v. 9). L’esaltazione è il frutto dell’abbassamento e dell’obbedienza, la gloria è frutto della croce. Nel primo movimento Gesù è il soggetto dei verbi, è il protagonista: non tenne gelosamente per sé, spogliò se stesso, umiliò se stesso, si fece obbediente. Gesù è dunque presentato come soggetto attivo, non strumento passivo nelle mani del Padre, e la storia che egli ha vissuto, una storia 243

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di abbassamento che trova il suo momento culminante nella croce, è dono e obbedienza, dono e obbedienza compiuti nella libertà. Il secondo movimento narra invece l’azione del Padre in favore di Gesù. Dio è il soggetto e il Cristo l’oggetto. Nell’inno non viene in primo luogo descritta la persona di Gesù, ma piuttosto la via che egli ha percorso. L’arco è completo: la sua condizione presso Dio, la sua venuta fra gli uomini, la vita obbediente, la croce, l’esaltazione. È unicamente all’interno di questa storia – da leggere in tutta la sua ampiezza – che si può capire chi è Cristo e si può cogliere nel giusto senso la struttura della sua persona. Egli è nella condizione di Dio e nel contempo si è fatto in tutto simile agli uomini, è servo e Signore. In questa duplice coppia di antitesi è racchiuso tutto il mistero di Gesù, e anche tutto il paradosso dell’esistenza cristiana. Ma la cosa forse più importante è che l’inno ci invita a intendere i titoli che noi riferiamo a Cristo (Dio e uomo, servo e Signore) non a modo nostro ma secondo quel senso che apparve concretamente dalla storia che egli ha vissuto. Alla domanda «chi è Gesù?», i primi cristiani non rispondevano mediante una formula, ma raccontando una storia. È unicamente a partire dalla storia di Gesù che si comprende appieno la sua personalità, la sua divinità e la sua umanità, il suo significato per noi. Della storia di Gesù, che l’inno racconta dall’inizio alla fine, quale è il centro? Due espressioni lo indicano chiaramente: assunse la «condizione di servo» (v. 7) e si fece «obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (v. 8). La prima espressione si contrappone alla condizione iniziale (era nella situazione di Dio) e alla condizione finale (siede presso il Padre in qualità di Signore di tutta la creazione). All’inizio e alla fine il Cristo è in posizione di Dio e Signore, ma nella sua vita terrena percorse la via del servizio. E la seconda espressione ripete il concetto della prima, ma condotto al punto in cui il servizio di 244

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Gesù apparve con la maggior chiarezza possibile. La croce è il vertice dell’abbassamento di Gesù, il punto più alto del suo servizio e del suo dono: ma è anche, come abbiamo già visto, il punto di partenza e la ragione del suo innalzamento: «Per questo Dio lo esaltò» (v. 9). Sembra proprio che l’inno intenda attirare l’attenzione non semplicemente su Dio che ha deciso di divenire uomo ma sul fatto che, avendo deciso di farsi uomo, anziché prendere una condizione umana a livello della sua condizione divina (quindi un’umanità al di fuori della nostra storia, sottratta alla caducità, ai bisogni e alla morte) il figlio di Dio ha preferito una condizione umana in tutto e per tutto simile alla nostra: una condizione umana vissuta nel servizio, nell’obbedienza, crocifissa. È questa la meraviglia che l’inno intende suscitare nella comunità cristiana che festeggia la croce. Finora abbiamo esaminato l’inno in se stesso, prescindendo dal contesto in cui l’apostolo, citandolo, lo ha collocato. Ma è anche interessante vedere come Paolo lo ha letto e utilizzato. Egli si accorge che nella comunità di Filippi ci sono tensioni e contrapposizioni, rivalità e vanagloria, ricerca di sé e spirito di parte; come dappertutto. E allora l’apostolo ricorda alla sua comunità l’antico inno che tutti conoscevano e che quasi certamente utilizzavano nella liturgia, inno che mette in luce molto bene quel centro della vita di Gesù che deve costituire il punto di riferimento dell’esistenza cristiana, la croce: non la ricerca di sé ma il servizio, non l’esaltazione ma l’abbassamento, non la contrapposizione ma il dono. In una parola, la comunità cristiana deve regolarsi secondo la logica della croce, che è logica di grazia e di dono, come appunto la vita del Cristo ha manifestato: «Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,3-4). Ecco come si vive, concretamente, la croce. 245

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1 novembre Tutti i Santi

Chi è veramente beato? Ap 7,2-4.9-14  ●  1Gv 3,1-3  ●  Mt 5,1-12

Ci sono santi famosi, conosciuti e venerati (i santi della liturgia, della devozione e del calendario) e ci sono i santi sconosciuti. Oggi festeggiamo soprattutto questi ultimi. Il libro dell’Apocalisse, nella prima lettura (cf. 7,2-4.9-14), ci assicura che il loro numero è incalcolabile: «Vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (7,9). Se l’Apocalisse ci dice che il loro numero è immenso, il Vangelo ci indica la strada che tutti, senza eccezioni, hanno percorso: è la strada delle beatitudini. Non ci è possibile commentare qui le singole beatitudini, del resto basta una semplice lettura per intuirne la sostanza del loro significato. Sappiamo tutti che cosa significa essere umili, non violenti, operatori di pace, uomini di giustizia, ricercatori di Dio, solidali, perseguitati. Meglio allora alcune osservazioni generali, utili per comprendere il loro spirito. Anzitutto, Matteo elenca otto beatitudini (cf. Mt 5,1-12), ma non si tratta di otto cose diverse, bensì di un unico disegno: linee differenti che tratteggiano un’unica personalità, quella di Gesù Cristo, che non soltanto ha pronunciato le beatitudini, ma ancor prima le ha vissute. Vivere le beatitudini significa imitare Gesù Cristo, ispirarsi ai suoi comportamenti. Per molti – anche cristiani – le beatitudini sono qualcosa di esagerato, di impossibile, tutt’al più un programma per uomini eccezionali e per vocazioni speciali. 246

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In realtà sono una proposta per il cristiano qualunque, anche se, certo, esprimono un salto nei confronti degli schemi del comune ragionamento. Le beatitudini sono tutte percorse da una persuasione, e cioè che Dio è venuto fra noi: sta qui tutta la loro forza. Senza questa convinzione fondamentale diverrebbero di colpo incomprensibili e sarebbero prive di ogni giustificazione. Le beatitudini suppongono che siano entrati nel mondo dei valori nuovi (il regno di Dio), i quali hanno fatto impallidire quei valori che prima si ritenevano assoluti (il benessere, il denaro, il successo). Suppongono che sia entrata nel mondo una forza capace di far vivere in modo nuovo. In secondo luogo, nella formulazione di ciascuna beatitudine è visibile una tensione fra la prima e la seconda parte, tra la situazione presente e il futuro. La prima parte è caratterizzata da situazioni negative (povertà, sofferenza, persecuzione), la seconda da situazioni positive (possesso del regno, consolazione, visione di Dio). Questa tensione fra la prima e la seconda parte mostra che le beatitudini non promettono interventi miracolosi che capovolgono le situazioni, le situazioni restano quelle che sono: ancora la povertà, la sofferenza e la persecuzione. Le beatitudini offrono piuttosto un modo nuovo di affrontarle: non più la disperazione, ma la speranza; non più l’abbattimento, ma la serenità. La certezza di un futuro positivo trasforma la visione delle cose: nuovo e diverso diventa il modo di affrontare la povertà, la sofferenza, la persecuzione e ogni altra cosa. Infine, c’è una sfida da raccogliere nelle beatitudini, una nota costante e caratteristica. Se mancasse, potremmo parlare di ideali, di capovolgimento di mentalità, di conversione, ma non di beatitudini: è la nota della gioia, «beati»! Ma quale gioia? Fondata su quali radici? C’è infatti gioia e gioia. La gioia delle beatitudini trova il suo fondamento nella certezza di un futuro felice, in comunione con Dio e dono di Dio, e insieme nel247

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la gioiosa scoperta che già ora è possibile pregustare il modo nuovo di vivere. La gioia evangelica è completamente diversa dalla gioia del mondo. Il mondo pone il fondamento della propria gioia nel possesso dei beni e nel successo, tutti fondamenti fragili. Il Vangelo invita invece a porre le basi della propria gioia nella fedeltà di Dio, le cui promesse sono incrollabili e vittoriose. Le beatitudini proclamano la gioia della fiducia in Dio, e insieme la gioia del servizio, del dono di sé. Difatti non soltanto indicano che l’uomo trova unicamente in Dio la propria speranza, ma rivelano anche la convinzione che l’uomo è fatto per donarsi, non per disperatamente conservare se stesso. La gioia che le beatitudini promettono è la medesima gioia di Cristo: gioia cercata e trovata nell’obbedienza al Padre e nel dono di sé ai fratelli. Una conclusione: il numero incalcolabile di giusti che oggi festeggiamo (uomini di ogni tempo e di ogni razza) ha percorso – chi in un modo e chi in un altro – la strada delle beatitudini. Una strada con la quale ogni generazione cristiana è chiamata a confrontarsi. C’è un presupposto, però, mancando il quale tutto verrebbe a cadere e qualsiasi sforzo verrebbe annullato in partenza: la forza che rende possibili le beatitudini – che permette cioè di tradurle nel concreto della propria vita – è la parola rassicurante e impegnativa di Gesù ai discepoli: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio» (Mc 10,27). Dunque, fede e preghiera. Senza di queste tutto sembrerà difficile, impossibile, inattuabile.

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2 novembre Commemorazione di tutti i fedeli defunti

Credere nella vita oltre l’angoscia della morte Gb 19,1.23-27a  ●  Is 25, 6a.7-9  ●  Sap 3,1-9 Rm 5,5-11  ●  Rm 8,14-23  ●  Ap 21,1-5a.6b-7 Gv 6,37-40  ●  Mt 25,31-46  ●  Mt 5,1-12a

Nel grande discorso sul pane di vita, nel quale Gesù afferma di essere la risposta alla ricerca dell’uomo, colui che dà senso alla fatica di vivere, troviamo alcune affermazioni sulla risurrezione, dense e lapidarie (cf. Gv 6,37-40). Gesù dichiara polemicamente che senza di lui la vita resta un enigma e le risposte che provengono da altre parti sono, nel migliore dei casi, parziali e insufficienti: «I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti» (Gv 6,49). Le affermazioni di Cristo si pongono come una risposta e per apprezzarla occorre, sia pure a grandi linee, ricostruire la domanda e farla propria. È una domanda che nella Bibbia affiora numerosissime volte perché l’uomo biblico è pieno della gioia di vivere (ama la vita e sa che la vita è un dono), ma è anche un uomo profondamente consapevole della propria caducità. La Bibbia conosce la morte: «Noi dobbiamo morire e siamo come acqua versata per terra, che non si può più raccogliere» (2Sam 14,14). Da una parte la certezza di un Dio che è buono, che ama la vita, che ha creato l’uomo per la vita, e dentro di noi una grande voglia di vivere; dall’altra un’esistenza breve, faticosa, contraddittoria, e – alla fine – la morte. La morte sembra togliere ogni senso alla vita: l’uomo si affatica costruisce e lavora ma poi deve morire. E così l’uomo appare come 249

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un capolavoro sciupato e il dono della vita come una promessa non mantenuta. È a questo punto che si apprezza fino in fondo l’affermazione di Cristo: «Io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,40). È solo dopo aver assaporato la vanità dell’esistenza e aver provato l’angoscia di morire – sentimenti che sono nel profondo di noi stessi, ma che troppe volte fingiamo di non sentire – che la parola di Gesù si presenta a noi come luce e consolazione. Certo non dissipa tutta l’oscurità della morte (la nostra fede resta debole e la nostra paura grande), come non ha fatto neppure per lo stesso Gesù nel Getsemani: però è una parola capace di offrirci, accanto al turbamento, la serenità. Le affermazioni di Gesù non si limitano ad affermare la vittoria sulla morte, ma indicano le modalità della vita che ci viene offerta e indicano inoltre, le condizioni richieste perché il dono della vita ci raggiunga. La vittoria sulla morte è un dono di Dio, ecco una prima caratteristica. Non è l’uomo che si conquista l’immortalità, ma è Dio che gliela dona. E questa è una consolazione perché l’amore di Dio non viene mai meno e non abbandona nessuno. L’uomo minacciato dalla morte deve abbandonarsi a Dio, fidarsi del suo amore: è infatti il suo amore (il suo amore per la vita) il vero fondamento della nostra speranza. Inoltre, la vita che ci viene donata non è una riproduzione della vita precedente, è una vita nuova e diversa, una vita con Dio. Dio ci chiama a far parte della sua stessa vita. Ed è, infine, una vita che afferra l’uomo intero, corpo e spirito, individuo e comunità. Tutta la persona dell’uomo è chiamata a vivere, non solo una sua parte. Per questo si parla di «risurrezione», un dono che esige una condizione cioè la comunione con Cristo («Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno», Gv 6,54). Una comunione con Cristo che si vive nella fede, nel sacramento e nel condurre un’esistenza simile alla sua. Per vincere 250

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la morte bisogna vivere come lui ha vissuto: è infatti la via della croce che porta alla risurrezione. Se comprendiamo queste cose, allora la morte non è più uno scandalo che mette in discussione il senso della vita: è un «sonno» o, meglio ancora un «passaggio», immagini assai care alle prime comunità cristiane. Per il credente l’esperienza della morte non porta più a concludere che la vita è priva di significato, ma al contrario, apre a una speranza. Tutto questo è molto importante, tuttavia, ci sembra che la liturgia di oggi intenda anche invitarci a riflettere in un’altra direzione: la morte deve insegnarci a vivere. Credo che la morte sia in grado di offrirci almeno tre lezioni importanti. Primo: l’uomo lavora, si affatica, cerca e si affanna, ma tutto questo sforzo è sprecato, a meno che l’esistenza non si prolunghi, a meno che alla fine della propria giornata l’uomo non incontri il Signore. Il pensiero della morte, in altre parole, ci fa capire che la vita non avrebbe senso senza Dio e che l’uomo non trova in se stesso la propria spiegazione, ma soltanto una radicale e insolubile contraddizione. Secondo: la meditazione della morte deve aiutarci a comprendere la profonda insensatezza di troppi nostri modi di vivere: la stupidità dell’ansia dell’accumulo, del tempo perso alla ricerca di ambizioni, le rivalità. Tutte cose prive di ogni vero significato, che ci rubano tempo e vita a scapito delle cose che contano. Gli uomini dovrebbero visitare una volta alla settimana un ospedale o un cimitero: molte cose cambierebbero, ritroveremmo le nostre proporzioni. Terzo: la meditazione sulla morte deve indurci a concentrare la vita sulle cose che rimangono, perché non tutto rimane. Rimane l’amore, la fraternità, la povertà per il regno, in una parola rimangono le beatitudini. È un pensiero a cui già abbiamo accennato e che è veramente conclusivo: se si vuole vincere la morte occorre vivere come Cristo ha vissuto. 251

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9 novembre Dedicazione della Basilica Lateranense

L’incontro con Dio che guarisce e rinnova Ez 47,1-2.8-9.12  ●  1 Cor 3,9c-11.16-17  ●  Gv 2,13-22

Il 9 novembre si celebra – pare sin dal XII secolo – l’anniversario della dedicazione della Basilica del Laterano in Roma, una ricorrenza che la liturgia considera importante al punto da preferirla al corso ordinario delle domeniche. È una festa antica, in un primo tempo celebrata soltanto a Roma, ma poi estesa a tutte le chiese del mondo. Il motivo è presto detto: la Basilica del Laterano, che è la cattedrale del vescovo di Roma, è considerata la chiesa madre di tutte le chiese, e il ricordo annuale della sua dedicazione assume perciò il valore di un gesto di comunione con la cattedra di Pietro. Le letture bibliche di questa liturgia si sviluppano attorno al luogo santo per eccellenza del popolo ebraico, il tempio, che nel Nuovo Testamento diventa immagine prima di Gesù risorto, poi della stessa comunità cristiana. La pagina dell’Antico Testamento contiene una profezia di Ezechiele, che svolse il suo ministero profetico tra gli esiliati, a Babilonia, dal 592 al 570 a.C. circa. Il contesto in cui si trova, dunque, è carico di problemi come, per esempio, il fatto che gli esiliati mantenevano un’inalterabile fiducia nei destini gloriosi del popolo eletto: Gerusalemme non sarà distrutta – pensavano –, l’esilio terminerà e si potrà tornare di nuovo nella terra promessa; Dio castiga, ma è fedele, ha sempre fatto così. Potrebbe sembrare un atteggiamento di fede, e invece era un attaccamento al passato e un’illusione. Quando 252

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Gerusalemme e il tempio furono distrutti, tutti capirono che la speranza di un rapido ritorno era illusione. A questo punto subentrò un altro pericolo: lo scoraggiamento e la sfiducia nelle promesse di Dio. Il Signore si ricorda ancora del suo popolo? È ancora possibile sperare? E ancora, gli ebrei, nella loro terra, erano abituati a manifestare la loro vita religiosa offrendo sacrifici al tempio e celebrando la liturgia, mentre ora, a Babilonia, si trovavano privati di tutte queste possibilità. In questa situazione, Ezechiele si assunse come primo compito quello di orientare definitivamente gli spiriti dei deportati verso l’avvenire, liberandoli dalla tentazione di voltarsi indietro, perché la vera speranza poggia su Dio, non sulle illusioni e sulle nostalgie del passato. Quando le fiducie dell’uomo sono crollate, è proprio allora che la fedeltà di Dio si mostra incrollabile. In questa prospettiva si inserisce la visione descritta (cf. Ez 47,1-2.8-9.12), nella quale il futuro della salvezza è immaginato nella forma di un nuovo tempio. Per gli israeliti il tempio è il segno dell’alleanza di Dio con Israele, segno della elezione di Dio e della storicità della rivelazione: in esso Dio pone il suo nome. In particolare, il tempio non è soltanto il luogo dove Dio abita, ma piuttosto lo spazio dove egli si avvicina all’uomo che viene a cercarlo, il luogo dove si manifesta e salva, ascolta e perdona: nel tempio Dio incontra il suo popolo e il popolo può incontrare il suo Dio. Non si tratta però di un incontro magico ma personale: l’uomo incontra Dio se sale al tempio con cuore disponibile, per un colloquio sincero. E così il tempio assume una duplice dimensione: è la casa di Dio ed è la casa di tutto il popolo; si va al tempio per incontrare il Signore e per ricostruire la nostra fraternità. Nulla di magico e di superstizioso, e nulla che allontani l’uomo dalla vita. Al contrario, Israele ha sempre capito (e i profeti lo hanno sempre richiamato) che nel tempio abita un Dio interessato alla vita che si svolge fuori. Il dio pagano è 253

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interessato unicamente ai sacrifici e alle offerte che i fedeli gli portano, il Dio d’Israele no: le domande che egli pone al popolo che lo visita riguardano i poveri, gli orfani e le vedove. Da questo «nuovo tempio» il profeta vede sgorgare un’acqua che ha il potere di risanare e vivificare dove passa. Si narra, addirittura, come quest’acqua che esce dal tempio diventi, a un certo punto, un fiume capace di rendere abbondanti i pesci, là dove prima non c’era vita, e gli alberi costantemente carichi di frutti (cf. vv. 8-9). Immagini forti e suggestive che si rivolgono agli israeliti senza speranza, come le ossa aride del deserto (cf. Ez 37); Dio, per bocca del suo profeta, annuncia di voler compiere un’opera vivificatrice, una sorta di nuova creazione, simboleggiata da quest’acqua «miracolosa». Un’acqua di vita che sgorga dal tempio, dimora di Dio, un’annotazione importante. Fondamentale, infatti, è la sorgente: non è un’acqua che l’uomo si dà da se stesso o trova con le sue mani, è, al contrario, dono di Dio. La vita che Dio promette al suo popolo è un dono che proviene da lui; un dono, in particolare, che esce per Israele dal tempio, cioè dal luogo dove si vive l’incontro con Dio e si pratica la giustizia: da lì escono la benedizione e la vita. Così il tempio da cui esce il fiume d’acqua che espandendosi risana e guarisce diventa l’immagine di una relazione vera e autentica con il Signore, in grado di suscitare purificazione e vita del popolo. Sulla scia di Ezechiele, e più in generale dei profeti – critici attenti nel denunciare da una parte la degenerazione del culto praticato nel tempio e dall’altra nell’annunciarne la trasformazione – si pone il gesto di Gesù nel luogo santo, come racconta l’episodio evangelico (cf. Gv 2,13-22). Gesù scaccia tutti, in primo luogo le persone e quindi anche le vittime pronte per il sacrificio pasquale, «le pecore e i buoi» (v. 15). Egli non intende «semplicemente» purificare il tempio o rinno254

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varlo, ma vuole dichiarare abolito l’antico culto. E alla richiesta di spiegazione da parte dei suoi interlocutori, con parole velate ed enigmatiche accenna loro il segno tra tutti i segni, l’ultima e decisiva conferma della sua opera: la sua morte e risurrezione. Nella sua risposta, Gesù annuncia infatti due eventi: una distruzione operata dai giudei, a cui si riconosce la responsabilità storica della morte di Gesù («distruggete», v. 19), e nel contempo una risurrezione operata da Gesù stesso (si osservi che non si usa il verbo «ricostruire», ma il verbo della risurrezione, «far risorgere», v. 19). Traducendo le parole di Gesù, è come se si annunciasse che per mezzo della distruzione (la sua morte), causata dall’ostilità dei giudei, sarà innalzato il nuovo tempio (la sua risurrezione). Gli uomini disfano ciò che Dio ha fatto, perciò occorre rifarlo definitivamente. Cristo risorto è il «luogo» definitivo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo; è la perfetta «casa del Padre». D’ora in avanti ogni preghiera e offerta a Dio può essere fatta solo in «Cristo Gesù». È lui il luogo in cui Dio si rende presente, entra nella storia, ci parla, si rivela, ci perdona, ci ama, ci fa figli suoi; è lui il luogo in cui noi possiamo lodare il Padre, diventiamo popolo suo. È lui il luogo in cui riceviamo gratuitamente la salvezza. Gesù diventa il santuario della nuova alleanza specialmente con la sua morte, che sarà il massimo servizio di amore all’umanità e la massima manifestazione dell’amore del Padre. Il tempio di pietra è figura di questa presenza di Dio.

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8 dicembre Immacolata Concezione della beata vergine Maria

Capolavoro dell’amore gratuito di Dio Gen 3,9-15.20  ●  Ef 1,3-6.11-12  ● Lc 1,26-38

Per cogliere il senso profondo del mistero dell’Immacolata Concezione iniziamo dal grande inno che l’apostolo Paolo premette alla sua lettera agli Efesini (cf. 1,3-6.11-12). Si tratta di una grande benedizione che celebra il progetto segreto (mysterion in greco) che Dio padre custodiva sull’umanità fin dall’eternità (cf. v. 9). L’itinerario di questo disegno del Padre è scandito nell’inno dalle diverse azioni salvifiche, tra le quali la lettura liturgica ricorda innanzitutto che Dio ci sceglie perché camminiamo santi e immacolati nell’amore (cf. v. 4), ci predestina a essere suoi figli (cf. vv. 5-6) e infine ci dona l’eredità eterna (cf. vv. 11-12). Sorprende e affascina che la tappa iniziale di questo meraviglioso progetto di Dio consista nella scelta dell’umanità chiamata a essere «santa e immacolata», una vocazione che trova nella figura di Maria il suo modello e la sua conferma unica particolare. Il progetto di Dio, tuttavia, non incontra la pronta e immediata adesione dell’uomo. La pagina del libro della Genesi, che narra la vicenda drammatica del rifiuto di Dio da parte dell’uomo (cf. 3,9-15.20), riflette l’esperienza umana concretamente segnata dal peccato e dalla contraddizione. Nell’uomo c’è il progetto di Dio e la possibilità della sua smentita. Il serpente suggerisce che Dio ha intenzioni di gelosia: il peccato consiste, appunto, nel pensare Dio invidioso (dà un ordine per salvare il suo dominio sull’uomo anziché liberare l’uo256

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mo) e, di conseguenza, nel sottrarsi al suo progetto e farsi misura del bene e del male; decidere da sé, non in obbedienza. Ma è proprio questo «farsi Dio» che crea nell’uomo il disordine e la contraddizione. Allontanandosi da un progetto per il quale fu pensato e volendo fare da sé, l’uomo si aliena: «ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (v. 10). L’autore sacro sperimenta la radicalità del peccato e si accorge che il male corrode l’essere umano nelle sue più intime relazioni, come attestano le parole dell’uomo: «la donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato» (v. 12). Ma se l’umanità sembra caratterizzarsi per una ostinata volontà di peccato, e la storia degli uomini sembra un continuo rifiuto di Dio, tuttavia l’amore di Dio – ancora più ostinato del peccato degli uomini – è riuscito a costruire in seno all’umanità peccatrice un punto luminoso, completamente sottratto al peccato, che ha permesso al figlio di Dio di approdare sulla nostra terra. La Vergine immacolata può essere considerata come il capolavoro dell’amore gratuito di Dio, e nel contempo, come il frutto migliore che l’umanità ha saputo esprimere. Ce lo conferma il racconto dell’annunciazione (cf. Lc 1,26-37), che è come uno specchio nel quale si possono scorgere i tratti essenziali della chiamata di Dio e della risposta dell’uomo. Possiamo leggervi ciò che Dio fa per noi e come noi dobbiamo accogliere il suo dono. «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio» (v. 26): Dio prende l’iniziativa, senza alcuna premessa, né merito, né invocazione. È lui che sceglie Maria fra tutte le fanciulle di Israele, è lui che le invia il suo messaggero. Ogni chiamata è sempre frutto dell’amore libero, gratuito e preveniente di Dio: così fu la chiamata di Abramo, di Mosè, di tutti i profeti; è una legge costante nell’agire di Dio. Alle volte abbiamo l’impressione di essere noi a porci in ricerca di Dio, ma non è mai così: è sempre Dio che fa il primo passo. Se noi lo cerchiamo è perché 257

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lui, per primo, suscita in noi il desiderio di incontrarlo. Di fronte a un Dio che si comporta così, che mantiene l’iniziativa nelle proprie mani, c’è posto soltanto per la disponibilità, l’accoglienza e il ringraziamento. L’angelo chiama Maria «piena di grazia», che si può tradurre più precisamente con «amata gratuitamente e per sempre da Dio». In primo piano risalta ancora una volta il primato di Dio, il suo amore gratuito e fin dall’inizio verso la donna chiamata a diventare la madre del messia. Maria – preservata dal peccato e salvata fin dal primo istante del suo concepimento – è una lezione di grazia, è la dimostrazione più convincente che la salvezza è un puro dono dell’iniziativa divina. In questo senso, la Vergine immacolata è uno specchio nel quale cogliere una legge del comportamento di Dio che ci riguarda tutti: la salvezza è grazia, dono gratuito. Infine Maria risponde all’angelo che l’ha interpellata chiamando se stessa «serva» (v. 38). Piena di grazia e serva: in questi due nomi è racchiuso tutto il progetto di Dio, tutta l’esistenza cristiana, tutta l’identità di Maria. La chiamata di Dio è stata da Maria accolta e vissuta dentro questo schema semplicissimo: l’espressione «avvenga per me secondo la tua parola» (v. 38) contiene una sfumatura di gioia e di desiderio. È la gioia per il Signore e per il compimento del suo progetto di salvezza. Qui sta la nostra speranza e il senso della nostra festa.

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Sigle bibliche Ab Abd Ag Am Ap At Bar Ct Col 1Cor 2Cor 1Cr 2Cr Dn Dt Eb Ef Esd Es Est Ez Fm Fil Gal Gen Ger Gc Gb Gl Gio Gs Gv 1Gv 2Gv 3Gv Gd

Abacuc Abdia Aggeo Amos Apocalisse Atti degli Apostoli Baruc Cantico dei cantici Colossesi Corinzi (I Lettera) Corinzi (II Lettera) Cronache (I Libro) Cronache (II Libro) Daniele Deuteronomio Ebrei Efesini Esdra Esodo Ester Ezechiele Filemone Filippesi Galati Genesi Geremia Giacomo Giobbe Gioele Giona Giosuè Giovanni (Vangelo) Giovanni (I Lettera) Giovanni (II Lettera) Giovanni (III Lettera) Giuda

Gdc Giudici Gdt Giuditta Is Isaia Lam Lamentazioni Lv Levitico Lc Luca 1Mac Maccabei (I Libro) 2Mac Maccabei (II Libro) Ml Malachia Mc Marco Mt Matteo Mi Michea Na Nahum Ne Neemia Nm Numeri Os Osea 1Pt Pietro (I Lettera) 2Pt Pietro (II Lettera) Pr Proverbi Qo Qohèlet = Ecclesiaste 1Re Re (I Libro) 2Re Re (II Libro) Rm Romani Rut Rut Sal Salmi 1Sam Samuele (I Libro) 2Sam Samuele (II Libro) Sap Sapienza Sir Siràcide = Ecclesiastico Sof Sofonia 1Ts Tessalonicesi (I Lettera) 2Ts Tessalonicesi (II Lettera) 1Tm Timoteo (I Lettera) 2Tm Timoteo (II Lettera) Tt Tito Tb Tobia Zc Zaccaria

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Indice

TEMPO DI AVVENTO Introduzione al tempo di avvento . . . . . . . . . . . . . . . . . Prima domenica di avvento

L’attesa del Cristo che è venuto e che verrà . . . . .

7 8

Seconda domenica di avvento

I tempi lunghi di Dio, la speranza del profeta e la conversione del cuore . . . . . . . . . . . . . . . . . 10

Terza domenica di avvento

I segni di Dio che infondono coraggio . . . . . . . . 13

Quarta domenica di avvento

Natale: il «Dio-con-noi».Tra credenti e increduli . 16

Tempo di Natale Introduzione al tempo di Natale . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25 dicembre: Natale del Signore (Messa della notte)

21

Evento da annunciare e condividere . . . . . . . . . 22

Santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

Una parola che scende alle radici . . . . . . . . . . . 25

Solennità di Maria santissima madre di Dio

Meditare e custodire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28

Seconda domenica dopo Natale

Comprendere a quale speranza Dio ci ha chiamato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30

Epifania del Signore

Anche i lontani attorno al presepe . . . . . . . . . . . 33

Battesimo del Signore

Il figlio «prediletto» che dev’essere ascoltato . . . . . 36

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Tempo di quaresima Introduzione al tempo di quaresima . . . . . . . . . . . . . . . Prima domenica di quaresima

41

Ripudiato Dio, ecco subito gli idoli . . . . . . . . . . 42

Seconda domenica di quaresima

Abramo: il coraggio di cambiare vita . . . . . . . . 45

Terza domenica di quaresima

Un popolo tra libertà e nostalgie di schiavitù . . . 48

Quarta domenica di quaresima

Dio guarda al cuore, non alle apparenze . . . . . . 51

Quinta domenica di quaresima

Quando sembra inutile continuare a sperare . . . 54

Domenica delle Palme: passione del Signore

Dall’«osanna» al «crucifige» la serenità del credente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57

Triduo pasquale, tempo di Pasqua e solennità del Signore nel tempo ordinario Giovedì santo

Li amò fino alla fine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63

Venerdì santo

Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto . 66

Veglia pasquale nella risurrezione del Signore

Gesù, il Crocifisso, è risorto . . . . . . . . . . . . . . . . 70

Domenica di Pasqua

La lezione di Pasqua: un Dio imparziale . . . . . 73 76

Introduzione al tempo di Pasqua . . . . . . . . . . . . . . . . . . Seconda domenica di Pasqua

Essere cristiani oggi senza vergogna o paura . . . . 77

Terza domenica di Pasqua

E la luce venne verso Emmaus . . . . . . . . . . . . . 80

Quarta domenica di Pasqua

Credere a Cristo è anche credere alla chiesa . . . . 84

Quinta domenica di Pasqua

Spontaneismo e comunità: la scelta degli apostoli . 88

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Sesta domenica di Pasqua

Il tempo della chiesa: tempo di prove e conflitti . 91

Ascensione del Signore

La parola ora passa al credente . . . . . . . . . . . . . 94

Domenica di Pentecoste

Ricevete lo Spirito Santo . . . . . . . . . . . . . . . . . 97

Solennità della Santissima Trinità

La vita dell’uomo è fatta di dialogo . . . . . . . . . . 99

Solennità del Santissimo corpo e sangue di Cristo

Non di solo pane vive l’uomo . . . . . . . . . . . . . . 103

Tempo ordinario Introduzione al tempo ordinario . . . . . . . . . . . . . . . . . . Seconda domenica del tempo ordinario

109

Il cristiano ideale è colui che serve . . . . . . . . . . . 110

Terza domenica del tempo ordinario

Iniziò la vita pubblica scandalizzando i giudei . 113

Quarta domenica del tempo ordinario

Beati i poveri in spirito! . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116

Quinta domenica del tempo ordinario

Questo è il «digiuno» che piace al Signore . . . . . 119

Sesta domenica del tempo ordinario

Dio rispetta la libertà ma ci vuole responsabili . 121

Settima domenica del tempo ordinario

Il comandamento difficile: «amate i vostri nemici» . . . . . . . . . . . . . . . . . . 124

Ottava domenica del tempo ordinario

Non un facile ottimismo, ma la gioia di vivere . 127

Nona domenica del tempo ordinario

L’uomo diviso tra dire e fare . . . . . . . . . . . . . . . 130

Decima domenica del tempo ordinario

Un doppio invito rivolto a tutti . . . . . . . . . . . . 133

Undicesima domenica del tempo ordinario

Non dipende tutto da noi . . . . . . . . . . . . . . . . . 136

Dodicesima domenica del tempo ordinario

Pressante invito a non avere paura . . . . . . . . . . 140 263

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Tredicesima domenica del tempo ordinario

Accoglienza e ospitalità sono anche segno di fede . 144

Quattordicesima domenica del tempo ordinario

Contrastare con l’amore il mito della violenza . . 148

Quindicesima domenica del tempo ordinario

I miei pensieri non sono i vostri pensieri . . . . . . 151

Sedicesima domenica del tempo ordinario

Servi impazienti che vogliono anticipare il giudizio di Dio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 156

Diciassettesima domenica del tempo ordinario

Quando il Signore ci dona anche quello che non chiediamo . . . . . . . . . . . . . . . . . 160

Diciottesima domenica del tempo ordinario

Alle prese ogni giorno con mille inutili affanni . . 164

Diciannovesima domenica del tempo ordinario

La forza che nasce dalla fede . . . . . . . . . . . . . . 168

Ventesima domenica del tempo ordinario

Dio è di tutti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 171

Ventunesima domenica del tempo ordinario

Le chiavi del vero potere . . . . . . . . . . . . . . . . . . 173

Ventiduesima domenica del tempo ordinario

La solitudine del giusto e i silenzi di Dio . . . . . . 175

Ventitreesima domenica del tempo ordinario

Il coraggio di dire la verità (anche quando fa male) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179

Ventiquattresima domenica del tempo ordinario

Perché il perdono resta la risposta più giusta . . . 183

Venticinquesima domenica del tempo ordinario

La giustizia di Dio e il lamento dell’uomo . . . . . 186

Ventiseiesima domenica del tempo ordinario

Il cristiano non rinuncia a usare la propria libertà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 190

Ventisettesima domenica del tempo ordinario

Dio è fedele alla sua vigna anche se l’uomo lo delude . . . . . . . . . . . . . . . . . 194

Ventottesima domenica del tempo ordinario

Gli eventi della storia visti dalla parte di Dio . . 197

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Ventinovesima domenica del tempo ordinario

A Cesare quello che è di Cesare a Dio quello che è di Dio . . . . . . . . . . . . . . . . . 200

Trentesima domenica del tempo ordinario

Amore di Dio e del prossimo: tutta la Bibbia è qui . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 204

Trentunesima domenica del tempo ordinario

Perché non facciamo come scribi e farisei . . . . . . 208

Trentaduesima domenica del tempo ordinario

La sapienza è scoprire Dio nelle cose di ogni giorno . . . . . . . . . . . . . . . . . . 211

Trentatreesima domenica del tempo ordinario

Dio ci chiede di rischiare . . . . . . . . . . . . . . . . . 215

Trentaquattresima domenica del tempo ordinario Solennità di nostro Signore Gesù Cristo re dell’universo

Quello strano re che serve i suoi sudditi . . . . . . . 219

Solennità e feste 2 febbraio - Presentazione del Signore

La luce che illumina le genti . . . . . . . . . . . . . . 225

24 giugno - Natività di san Giovanni Battista (Messa vespertina nella vigilia)

Non vi è alcuno più grande di Giovanni . . . . . . 228

29 giugno - Santi Pietro e Paolo apostoli

Hanno combattuto la buona battaglia . . . . . . . 232

6 agosto - Trasfigurazione del Signore

Saper ascoltare la parola di Dio . . . . . . . . . . . . 237

15 agosto - Assunzione della beata vergine Maria

Festa dell’umanità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 240

14 settembre - Esaltazione della santa croce

La vita del cristiano come dono e servizio . . . . . 243

1 novembre - Tutti i Santi

Chi è veramente beato? . . . . . . . . . . . . . . . . . . 246

2 novembre - Commemorazione di tutti i fedeli defunti

Credere nella vita oltre l’angoscia della morte . . 249

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9 novembre - Dedicazione della Basilica Lateranense

L’incontro con Dio che guarisce e rinnova . . . . . 252

8 dicembre - Immacolata Concezione della beata vergine Maria

Capolavoro dell’amore gratuito di Dio . . . . . . . 256

Sigle bibliche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259

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__________________________________________ Finito di stampare nel mese di ottobre 2013 Villaggio Grafica – Noventa Padovana, Padova

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