Tesi Dottorato Achille Castaldo

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Università degli studi di Roma “Sapienza” Facoltà di Filosofia, Lettere, Scienze umanistiche e Studi orientali Dipartimento di Studi greco-latini, italiani, scenico-musicali

Dottorato di ricerca in Italianistica Ciclo XXIV

Esperienze d'avanguardia nell'Italia tra le due guerre L'espressionismo di Marcello Gallian. L'immaginismo di Umberto Barbaro e Dino Terra

Tutor Prof.ssa Silvana Cirillo

Co-tutor Prof. Francesco Muzzioli Dottorando Achille Castaldo

2008-2011

SOMMARIO ESPERIENZE D'AVANGUARDIA NELL'ITALIA TRA LE DUE GUERRE   L'espressionismo di Marcello Gallian. L'immaginismo di Umberto Barbaro e Dino Terra   INTRODUZIONE .................................................................................................................................. 4  

PARTE PRIMA   LA NARRATIVA ESPRESSIONISTA DI MARCELLO GALLIAN ................11   CAPITOLO 1   Esempio metodologico: analisi di Una vecchia perduta .................................................................... 12   1. Una vecchia perduta, allegoria della “rivoluzione” fascista......................................................... 12   2. Allegorie e simboli ........................................................................................................................ 15   3. Analisi del racconto ...................................................................................................................... 20   4. Interpretare le rovine ..................................................................................................................... 29   5. L’immaginario grottesco ............................................................................................................... 36   6. Leggere l’insopportabile ............................................................................................................... 40   CAPITOLO 2   Costruzione ideologica ed eversione formale .................................................................................... 44   1. Prospettive di analisi: Bassofondo e l’eversione della trama. ....................................................... 44   2. Il personaggio della donna perduta: identificazione e rovesciamento ......................................... 51   3. Tre fantasmi .................................................................................................................................. 63   CAPITOLO 3   Frammentazione stilistica e strutture dell’immaginario .................................................................. 80   1. Riferimenti letterari e cinematografici .......................................................................................... 80   2. La madre e la prostituta: La donna fatale ..................................................................................... 86   3. Ossessione della “carne” e smembramento sintattico. .................................................................. 91   4. Corpo-in-frammenti e scrittura-in-frammenti ............................................................................ 101   CAPITOLO 4   Sviluppo e persistenza di alcuni nuclei narrativi ............................................................................ 105   1. Coesistenza ed evoluzione dei registri narrativi ......................................................................... 105   2. L’albergo dei poveri e la nascita mancata ................................................................................. 108   3. Dai racconti novecentisti alla narrativa degli anni Trenta........................................................... 119  

PARTE SECONDA   L’IMMAGINISMO DI UMBERTO BARBARO E DINO TERRA ..................131   PREMESSA   Cenni storici sul Movimento Immaginista....................................................................................... 132  

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CAPITOLO 1   La narrativa sperimentale di Umberto Barbaro ............................................................................ 138   1. I racconti degli anni Venti: L’essenza del can barbone .............................................................. 138   1.1 Premessa: work while you work, play while you play .......................................................... 138   1.2 Suo padre ............................................................................................................................. 140   1.3 Il banchiere .......................................................................................................................... 150   1.4 Lo spazio «radicalmente immaginativo» ............................................................................. 156   1.5 Esorcismi, calembour, psicanalisi da salotto ........................................................................ 162   1.6 L’impostazione politica del problema arte-vita ................................................................... 167   2. Tra sogno e azione: Luce fredda ................................................................................................. 175   2.1 La narrazione come spazio collettivo ................................................................................... 175   2.2 «L’irrazionalità della vita di tutti» ....................................................................................... 177   2.3 Falsità del mondo e tonalità adolescenziale ........................................................................ 180   2.4 Desiderio, sogno, azione ...................................................................................................... 183   CAPITOLO 2   L’esperienza avanguardista di Dino Terra ..................................................................................... 187   1. Un tema di introduzione: La vita negli abissi e I falsari di Gide ................................................ 187   2. Contraddizioni illusorie: L’amico dell’angelo, Riflessi .............................................................. 195   3. Sperimentazione narrativa e oblio nel quotidiano: Ioni. ............................................................. 206   4. Profonda notte ............................................................................................................................ 215   5. Metamorfosi ................................................................................................................................ 226   Bibliografia ......................................................................................................................................... 249  

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INTRODUZIONE

Nel 1932, a conclusione di un articolo dedicato agli sviluppi del romanzo europeo contemporaneo, Umberto Barbaro scrive: Se le domeniche fossero usate invece che a leggere i libri cosiddetti «divertenti» e a contemplare i films del più cretino sentimentalismo ed ottimismo anglosassone, alla lettura ed alla visione di opere di questo genere ed ispirate a simili criteri, il lunedì, invece di essere la giornata più improduttiva della settimana sarebbe la più produttiva, e il «gioco» degli uomini – l’arte – diventerebbe, come quello dei bambini, il più poderoso mezzo di conoscenza di se stessi e del mondo.1

Queste parole lasciano emergere certamente una grande fiducia nelle potenzialità dell’arte, ma al contempo una lucida disillusione circa i meccanismi che reggono la società contemporanea. Vi è infatti, tra le righe, la consapevolezza che il prodotto artistico sia ormai un genere di consumo destinato ai momenti di sospensione dell’attività quotidiana seria, insomma, un genere domenicale, quale stava sempre più diventando il cinematografo per milioni di persone. È innegabile, però, che al di là del pessimismo implicito, vi si possa trovare anche la convinzione che l’arte, nel suo senso più alto, sia ancora in grado di incidere praticamente sul tessuto della realtà. Questa contraddizione sta a monte delle storie personali e artistiche degli autori di cui mi occuperò nel corso di questa tesi. Se ho definito le loro vicende esperienze d’avanguardia, è proprio perché il significato che essi attribuiscono alla pratica letteraria è la possibilità di impattare sul tessuto della realtà, ovvero, senza mezzi termini, sulla vita reale delle persone: insomma, l’arte come mezzo per agire 1

U. Barbaro, Considerazione sul romanzo, in «Occidente», I, n. 1, dicembre 1932, pp. 18-22; ora in Neorealismo e Realismo, 2 voll., Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 132-138: 138.

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politicamente sulla vita. E non era stato proprio questo il significato delle avanguardie storiche? Ovvero «organizzare», secondo la definizione di Peter Bürger, «una nuova prassi vivente»2 a partire dall’arte? Una prassi con la quale andare a sovvertire in modo radicale quei meccanismi che, nell’epoca contemporanea della società di massa, tendono inevitabilmente a relegare l’arte in una condizione di subalternità, di inutile svago, proprio come i «libri divertenti» di cui parla Barbaro nell’articolo appena citato? Anche nella Teoria dell’avanguardia di Bürger ci troviamo di fronte, dunque, i due poli che sembrano a questo punto racchiudere inevitabilmente la questione: marginalizzazione e commercializzazione della pratica artistica, da un lato, e dall’altro uso eversivo della stessa per combattere le condizioni che producono tale marginalizzazione. Ma nella chiusa dell’articolo di Barbaro è possibile trovare anche altri elementi in grado di farci comprendere subito qualcosa di più sulla produzione dei letterati d’avanguardia di cui si leggerà nelle prossime pagine: innanzitutto l’interesse per il cinema, e non certo quello del «più cretino sentimentalismo ed ottimismo», bensì Ėjzenštejn, Pudovkin e il cinema sovietico (almeno per Barbaro, che ne era uno dei massimi esperti in Italia), così come il cinema espressionista o influenzato dall’espressionismo, che, come avremo modo di verificare, non manca di lasciare numerose tracce nelle opere degli autori presi in esame, che certamente tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta fecero tesoro anche dell’esperienza di quei maestri che avevano sviluppato al massimo grado le potenzialità del mezzo cinematografico, dando così vita a un nuovo e demistificante racconto della realtà contemporanea (si pensi a Murnau, a Pabst, a Lang). Di non minore importanza, tra i molti elementi significativi presenti nelle righe sopraccitate, vi è poi l’attenzione per il “tempo festivo”, lo spazio domenicale degli svaghi durante i quali il lavoratore alienato nella dimensione quotidiana può finalmente dedicarsi a se stesso e ai propri interessi. Naturalmente, quello che emerge dal sarcasmo di Barbaro è la consapevolezza di quanto anche il tempo libero sia un qualcosa di reificante e posticcio, addirittura appositamente “inventato” per impedire ogni presa di coscienza critica della propria reale condizione. Non è un caso che il mondo dei divertimenti a buon mercato, tra cui il circo, il luna park, il tabarin – 2

P. Bürger, Teoria dell’avanguardia (1974), Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. 60.

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che sono, beninteso, anche tra gli scenari prediletti del cinema di area espressionista – ritorni in modo ossessivo nelle opere di questi autori, che sembrano cogliervi, certamente, come si è detto, la valenza alienante e devitalizzante, ma anche la possibilità di una scarica liberatoria che passi proprio attraverso la surrealistica inutilità dei congegni del divertimento, delle giostre, dei numeri da due soldi, al cospetto dei quali la serietà della vita di tutti i giorni svela il volto dell’assurdo e dell’oppressione. Se si volesse trovare, nella Roma della fine degli anni Venti – che è poi il periodo rispetto al quale Barbaro tira le somme nell’articolo da cui siamo partiti – un osservatorio ideale dal quale esaminare tutte le tendenze di cui si è detto, non si potrebbe che scegliere il Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia. Qui, sia le geniali messe in scena di quest’ultimo, che la struttura stessa di molte delle opere appositamente scritte da autori esordienti giovani e giovanissimi, lasciavano trasparire nel modo più chiaro l’assimilazione del punto di vista cinematografico, senza peraltro dimenticare la lezione del teatro di derivazione espressionista e futurista, il tutto inserito in un calendario che prevedeva la rappresentazione di alcuni tra i più importanti autori europei d’avanguardia e dei loro maestri, che in molti casi ebbero qui la loro prima italiana, tra cui, solo per fare qualche esempio, Wedekind, Strindberg, Büchner, Andreev, Marinetti, Maeterlink, Apollinaire, Jarry e perfino Brecht. In questo ambiente (non solo metaforicamente) underground, muovevano i primi passi una serie di artisti e intellettuali che condividevano un sentimento antiborghese e avanguardista (in molti casi orientato più verso le esperienze francesi, tedesche e russe, che verso il futurismo italiano, pure, come abbiamo visto, largamente presente negli stessi spazi). Tra costoro vi sono sia gli animatori del Movimento Immaginista,3 di cui fecero parte Umberto Barbaro e Dino Terra, nati rispettivamente nel 1902 e nel 1903, filosovietici e legati ad ambienti di estrema sinistra, che fascisti della prima ora, ormai spiantati e anarchici, vere e proprie cellule impazzite come quel Marcello Gallian (anch’egli classe 1902), la cui opera espressionista costituirà l’argomento della prima parte di questo lavoro. 3

Per la ricostruzione storica dell’immaginismo e dei suoi protagonisti è fondamentale la monografia di Umberto Carpi, Bolscevico immaginista. Comunismo e avanguardie artistiche nell’Italia degli anni Venti, Napoli, Liguori, 1981, che rimane l’unico studio interamente dedicato al movimento.

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Se c’è un elemento che può accomunare questi autori, pur appartenenti ad aree politiche contrapposte (ma del resto loro stessi si frequentavano e discutevano sulle stesse riviste, uniti contro il comune nemico borghese) è proprio l’estremismo di fondo, inteso come una categoria del pensiero in grado di organizzare tutte le loro riflessioni e, fino a un certo momento della loro storia (ma ci sarà qualcuno che vi resterà legato fino alla fine), la loro produzione artistica. Possiamo del resto provare a immaginare, con una certa plausibilità, un momento che li vide tutti e tre fianco a fianco, a osservare la stessa scena e, probabilmente, a trarne conseguenze simili. Il 13 Febbraio del 1928 viene rappresentato presso il teatro di Bragaglia, per la prima volta i Italia, il Leonce e Lena di Büchner, opera geniale e per molti versi precorritrice del teatro avanguardistico contemporaneo,4 dove l’idea di rivoluzione, già vissuta come cupa tragedia ne La morte di Danton, viene completamente ribaltata in sovversione farsesca: LEONCE: […] Ma io so benissimo cosa vuoi, faremo distruggere tutti gli orologi e proibire tutti i calendari, e conteremo le ore e le lune solo secondo l’orologio dei fiori, secondo il fiorire e il maturare. E poi circonderemo il paesello con specchi ustori, affinché non ci sia l’inverno […]. VALERIO: E io diventerò ministro e farò emanare un decreto in base al quale chi si fa venire i calli alle mani sarà messo sotto tutela, chi si ammala di lavoro sarà perseguibile penalmente e chiunque si vanta di guadagnarsi il pane con il sudore della fronte sarà dichiarato pazzo e pericoloso per la società umana, e poi ci sdraieremo all’ombra e pregheremo Dio che ci conceda maccheroni, meloni e fichi, ugole musicali, corpi classici e una comoda religione!5

Per lo spettatore attento – e i nostri tre giovani avanguardisti certamente lo erano – non vi è traccia, qui, di utopie buffonesche, né alcun cedimento al mito dell’età dell’oro, sebbene declinato in chiave comica. I contorni grossolani della fiaba, tracciati in modo marcato dall’autore proprio perché possano essere percepiti 4

«La fiera letteraria», rivista culturale cui collaboravano tutti e tre i nostri autori, aveva in questa occasione definito Büchner «padre nobile di tutti gli avanguardismi». Da «Lena e Leonce» di Giorgio Büchner agli Indipendenti, in «La fiera letteraria», 19 febbraio 1928. 5 G. Büchner, Leonce e Lena (1836), in Teatro, Milano, Mondadori, 1999, pp. 167-168.

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per quello che sono (non diversamente dalle scenografie dei film espressionisti, né dagli arditi scenari realizzati da Bragaglia proprio in questa occasione6), hanno infatti la funzione di mettere in risalto con ancora maggiore crudezza i tratti più avvilenti della vita degli oppressi, di coloro che, tormentati dalle necessità materiali, devono farsi venire «i calli alle mani» per procurarsi il pane. Non solo, inserendo la dimensione del lavoro all’ombra della figura maligna dell’orologio da distruggere,7 Büchner arriva a delineare le condizioni generali di una società, quella di massa che stava nascendo proprio negli anni intorno alla composizione della commedia, in cui la vita dei singoli, e non solo dei più miseri tra essi, è destinata ad assimilarsi ai meccanismi devitalizzanti dell’esistenza quotidiana regolata dai tempi della produzione e del consumo. Non è certamente un caso che l’orrore della vita quotidiana in tutta la sua estensione, da quella dei più miseri tra i miseri a quella dei borghesi soddisfatti e dimentichi di sé, sarà sempre al centro delle opere dei nostri tre autori, che proveranno a metterne a nudo la natura mortifera e oppressiva proprio con il ricorso agli strumenti del paradosso, dello spaesamento fantastico, del parossismo espressionistico, almeno per un certo periodo della loro produzione (che per la verità era nel 1928 già pienamente impegnata su questo fronte, e dovette trovare nel «padre nobile di tutti gli avanguardismi» un’importante conferma, tanto più che all’epoca della composizione di Leonce e Lena egli era più giovane di ciascuno di loro). Del resto, nessuno di loro tre perse mai di vista il punto nevralgico di tutto il discorso (e anche in questo Büchner poteva far da maestro), ovvero la necessità di considerare sempre l’arte come un mezzo di azione sulla realtà, mirata a un cambiamento concreto del qui ed ora. Naturalmente, non è possibile dimenticare, però, che il tempo in cui Barbaro, Terra e Gallian si trovano ad agire, quell’orologio che Leonce promette di far distruggere, è innanzitutto il tempo del regime fascista, ovvero dell’oppressione del quotidiano tramutatasi in qualcosa di estremamente concreto, proprio come la censura, lo stato di polizia e le persecuzioni politiche. Se per i due immaginisti, legati 6

Cfr. A.C. Alberti, S. Bevere, P. Di Giulio, Il Teatro Sperimentale degli Indipendenti (1923-1936), Roma, Bulzoni, 1984, p. 360-364. 7 Come non ricordare i rivoluzionari che, come scrive Benjamin, alla sera del primo giorno di battaglia della Rivoluzione di Luglio, sparano agli orologi delle torri di Parigi? Cfr. W. Banjamin, Tesi di filosofia della storia (1940), in Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1995, pp. 75-86: 84.

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ad ambienti del sovversivismo di sinistra, si trattò del tempo della sconfitta, per lo stesso Gallian, dopo l’instaurazione di un regime da subito alleatosi con la borghesia e con i vecchi poteri, il tempo che avrebbe dovuto essere del trionfo, non poté che trasformarsi in quello amaro del tradimento, condizione permanente che, come vedremo, l’autore ossessivamente renderà nelle sue opere con l’immagine del non nato, dell’aborto venuto al mondo soltanto per assistere impotente alla propria stessa agonia, «come una medusa capitata dentro un mattatoio».8 Date queste premesse, è ovvio che la dimensione della lotta nella pratica artistica non potrà essere intesa, per questi autori, come un’aperta denuncia degli orrori del presente, ma sempre come un attacco portato a quella zona di indistinzione che i regimi totalitari condividono con tutte le altre società di massa del capitalismo avanzato, ovvero la routine dell’oppressione, che priva gli uomini della libertà e della dignità proprio in quella perenne mutilazione che è la cieca ripetizione del quotidiano. È proprio questo, del resto, uno dei punti in cui il presente lavoro proverà a trovare una quadratura tra queste esperienze d’avanguardia e le più avanzate linee della letteratura europea contemporanea. Inoltre, per quanto riguarda Marcello Gallian, una personalità tra le più complesse ed enigmatiche della letteratura italiana del Novecento, l’analisi critica ha l’opportunità di incontrare costruzioni ideologiche sulle quali verificare il funzionamento dei meccanismi occulti che rendono possibile la fascinazione totalitaria anche in uomini che, proprio come lui, hanno dedicato ogni energia a mettere in luce le ingiustizie, le ipocrisie e, appunto, l’oppressione quotidiana che grava come un giogo sulla vita di tutti. L’interpretazione si fa in questo caso tanto più interessante, quanto più tali nodi ideologici improntano di sé l’opera dell’autore a tutti i livelli, dallo stile alle immagini, dalla costruzione delle trame alle strutture profonde del racconto. Per concludere questa introduzione è infine necessario accennare ad alcune decisioni di fondo che è stato opportuno prendere in via preliminare. Innanzitutto, mi sono trovato di fronte alla necessità di scegliere tra un’analisi il più possibile inclusiva, in cui provare a segnare un profilo esaustivo della produzione di ciascun autore, cercando di dare un resoconto minimo di tutte le opere e delle diverse fasi, e una critica esercitata a partire da un punto di accesso ben preciso (in questo caso 8

M. Gallian, Mutato in cavallo, in Quasi a metà della vita. Molto più che un romanzo, Firenze, Vallecchi, 1937, pp. 195-212: 204.

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l’avanguardismo), che fosse però la base per andare in profondità e tracciare un disegno completo delle personalità di Gallian, Barbaro e Terra. Ritenendo preferibile la seconda opzione, mi sono dunque concentrato su un’analisi il più possibile accurata, a vari livelli, di alcune opere a mio parere in grado di risultare decisive ai fini di questo lavoro. Se per Umberto Barbaro e Dino Terra la scelta è stata relativamente facile, dal momento che la loro avventura avanguardista è ben connotata storicamente e si colloca tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta (per cui le opere di riferimento sono sostanzialmente quelle comprese in questo periodo), per quanto riguarda la produzione di Gallian, sterminata e per molti versi indecifrabile9 pur in una sua riconoscibile evoluzione attraverso il tempo, la costruzione di un percorso è stata più complessa e dunque di necessità più arbitraria, anche se il mio lavoro è stato sempre guidato, credo, dalla volontà di far parlare il più possibile i testi stessi, nella convinzione che, proprio messi in relazione tra di loro possano sprigionare tutto il potenziale di cui sono stati caricati. Ciò è imprescindibile per un autore come Gallian, la cui narrativa, come risulterà evidente dalle prossime pagine, si nutre di nuclei tematici ed anche di singole immagini che tendono a ripetersi in modo ossessivo, senza temere l’assurdo, percorrendone l’intera opera e tornando anche a distanza di molti anni, con caratteri sempre ben riconoscibili pur nella deformazione e nella propensione all’eccesso. Tuttavia credo sia bene riflettere sul fatto che l’assurdo e l’eccesso, tanto spesso presenti nelle esperienze d’avanguardia, non possano essere considerati in nessun caso alla stregua di modi di essere o di attitudini personali (non importa se ascrivibili a determinati autori o magari a una fascia di pubblico). Si tratta, piuttosto, di una prassi militante: «la ragione può resistere solo nella disperazione e nell’eccesso; occorre l’assurdo per non soccombere alla follia oggettiva».10

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Fondamentale in questo senso è certamente l’unica monografia finora dedicata a Gallian, ovvero quella di Paolo Buchignani: Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista anarchico, Roma, Bonacci Editore, 1984, all’interno della quale l’autore compie una ricostruzione storica e critica della produzione letteraria dell’autore in tutta la sua estensione. 10 T.W. Adorno, Minima Moralia (1954), Torino, Einaudi, 1994, p. 241.

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PARTE PRIMA

La narrativa espressionista di Marcello Gallian

Io odio i posteri con tutto il mio sangue: i posteri sono sempre alteri ed esosi, vengono dopo i figli nemici e s’accaparrano il frutto degli altri. I posteri sono morti alla rovescia, morti postumi, di là da venire e li odio.

Gallian

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CAPITOLO 1

Esempio metodologico: analisi di Una vecchia perduta

1. Una vecchia perduta, allegoria della “rivoluzione” fascista

La complessità del mondo narrativo di Marcello Gallian può essere affrontata unicamente con scelte interpretative radicali, a meno che non ci si accontenti di sostare al di sopra della superficie del testo, laddove esso non può che apparire connotato da rimandi oscuri e stranezze gratuite. Tuttavia, per non dare l’impressione che anche la radicalità dell’interpretazione si alimenti in fondo di gratuità e oscurità, si è scelto di cominciare dall’analisi di un testo per molti versi privilegiato, dove lo scrittore ha lasciato particolarmente allo scoperto le sue strategie compositive, i propri riferimenti culturali, nonché la propria visione esistenziale e politica (ma quest’ultima è del resto sempre ben evidente nella sua opera). Ciò è possibile innanzitutto perché questo lungo racconto è stato concepito essenzialmente come un’allegoria. Un’allegoria manifesta di quella che l’autore considerava la “rivoluzione” fascista: una “vecchia” borghese diviene succube del suo giovane amante che, dopo averla salvata dalla morte grazie alla propria forza vitale («Tu sei antica, non conosci i miracoli moderni, le nuove scoperte; il mio sangue entra nel tuo e lo ringiovanisce, sempre. Dunque, ricordati, che non morrai mai, mai, mai. Intesi?»1), finisce per renderla madre nonostante l’età avanzata. La donna, irrimediabilmente legata al passato (come la vecchia borghesia italiana), odia il frutto del proprio grembo, che alla fine viene tuttavia alla luce, forte e sano, per la

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M. Gallian, Una vecchia perduta, Roma, Le Edizioni d’Italia, 1933, p. 15.

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gioia del padre che lo prende con sé, mentre la madre rimane abbandonata al suo triste destino di consunzione e morte. L’allegoria, come abbiamo visto, non è per nulla oscura (il che del resto spiacque ai contemporanei), ma non è essa a risultare essenziale ai fini di questa analisi, quanto il fatto che Gallian l’abbia intessuta di immagini riguardanti l’incesto e la castrazione, in modo talmente esplicito da risultare a tratti persino superficiale. Portare alla luce l’utilizzo di tracce freudiane servirà dunque a spazzare da qui in avanti il campo alle possibili obiezioni contro un metodo interpretativo che farà largo uso di mezzi psicanalitici, non certo per provare a tracciare un “profilo psicologico” dell’autore, ma perché, in questo come in molti altri casi, di “racconto psicanalitico” effettivamente si tratta. Del resto, una conoscenza non superficiale di Freud non può essere negata per uno scrittore che aveva frequentato per anni gli intellettuali legati al Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Bragaglia e in particolare gli appartenenti al gruppo degli immaginisti, che, come risulterà evidente, avevano una consistente familiarità con le teorie freudiane.2 Naturalmente, non sarebbe molto utile – né interessante – limitarsi a raccogliere gli elementi psicanalitici lasciati esplicitamente cadere dall’autore, quanto piuttosto provare a raggiungere un livello di profondità ulteriore, laddove queste tracce rivelano una carica propulsiva in grado di far deflagrare le costruzioni consce, ovvero quell’allegoria per molti versi semplicistica in cui Gallian aveva voluto rivelare la propria lettura della rivoluzione fascista (che in questi termini, nel 1933, pur nell’ottimismo ostentato, non poteva che rendere già evidente un presentimento polemico che verrà sempre più esplicitandosi negli anni successivi). In altri termini, sarà l’allegoria stessa a decostruirsi, quando la spinta interpretativa 2

Cfr. S. Cirillo, Fantastici, surrealisti e realisti magici, in Storia generale della letteratura italiana, XI, a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, Milano, Motta editore, 2000, p. 165, dove l’autrice ricorda l’importanza della presenza del medico ungherese Miklos Sisa, rivoluzionario e allievo di Freud, per la conoscenza delle teorie psicanalitiche da parte degli immaginisti e degli intellettuali a loro vicini, come lo stesso Gallian (si veda la Premessa alla parte seconda di questa tesi); oltretutto, proprio come quest’ultimo, Sisa aveva partecipato all’occupazione dannunziana di Fiume (Umberto Carpi ipotizza che sia stato proprio Gallian ad aver introdotto Sisa nell’ambiente avanguardista romano: cfr. L’estrema avanguardia del Novecento, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 58); la conoscenza di Freud da parte di Gallian è ipotizzata anche P. Buchignani in La rivoluzione in camicia nera, Milano, Mondadori, 2006, p. 416. Ma si veda anche, a titolo di esempio, il racconto di un altro immaginista, Umberto Barbaro, L’essenza del can barbone, tratto dall’omonima raccolta edita in Roma da Le Edizioni d’Italia nel 1931 (cfr. parte seconda, cap. 1, par. 1.5 di questa tesi), nel corso del quale un alter ego dell’autore semina scompiglio in una stazione turistica di montagna diffondendo le teorie freudiane tra le ragazze della buona società.

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lascerà emergere significati inscritti più in profondità, e che finiranno per imporsi sulla pretesa autoriale rivelandoci i suoi presupposti e le sue segrete implicazioni.

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2. Allegorie e simboli

Date queste premesse, è necessario fare chiarezza sull’uso che si è appena fatto del termine allegoria, onde evitare che i propositi appena formulati vengano ascritti alla volontà di bruciare gli intenti allegorici mediante il ricorso alla potenza “incoercibile” e “atemporale” dei simboli. In realtà, le immagini freudiane di cui l’autore si serve verranno sottoposte ad un’ulteriore lettura allegorica. Ma andiamo con ordine: nel suo Teorie del simbolo,3 Tzvetan Todorov ha ricostruito la storia dell’opposizione tra il concetto di simbolo e quello di allegoria nel romanticismo tedesco, inseguendola nelle riflessioni di A.W. Schlegel, Goethe, Schelling, Humboldt e altri. Quanto emerge è l’inesauribilità della potenza evocativa del simbolo, che è innanzitutto portatore di un significato inesausto e soprattutto non compiutamente né razionalmente definibile (questa teoria arriverà, come vedremo, fino al pensiero di Carl Gustav Jung).4 Il simbolo finisce così per coincidere «nella sua estensione con l’arte, o comunque con l’essenza dell’arte»5 (naturalmente con l’arte com’era intesa dalla Frühromantik). Secondo le parole di Goethe, «la simbolica trasforma il fenomeno in idea, l’idea in immagine, e in modo tale che l’idea rimanga sempre infinitamente attiva e inaccessibile nell’immagine e che, pur se detta in tutte le lingue, rimanga indicibile».6 Indicibile dunque, ineffabile, inesauribile, infinito: il potere significante del simbolo si oppone, secondo questa visione, in tutto e per tutto al carattere allegorico, che risulta al contrario essere completamente circoscritto nell’ambito di un’intenzione razionale, cioè pienamente esauribile nell’interpretazione, dicibile, finito: «Come resta indietro, invece, l’allegoria; essa può essere piena di razionalità e nondimeno, nella maggioranza dei casi, retorica e convenzionale».7

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T. Todorov, Teorie del simbolo (1977), Milano, Garzanti, 2008. «Con questo concetto si vuole alludere a un’espressione indeterminata anzi polisensa, che indica qualcosa di difficilmente definibile, cioè non conosciuta a pieno». C.G. Jung, Simboli della trasformazione (1915), Torino, Bollati Boringhieri, 2006, p. 128. 5 T. Todorov, Teorie del simbolo, cit., p. 265; cfr. L. Perrone Capano, Alle Origini dell’allegoria moderna. Testi narrativi di Jean Paul, Novalis, Goehte, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1993, p. 12. 6 J.W. v. Goethe, Goethes sämtliche Werke, XXXV, Stuttgard und Berlin, Jubiläumsausgabe, 1902 – 1907, pp. 325-326, cit. in T. Todorov, Teorie del simbolo, cit., p. 261. 7 J.W. v. Goethe, Goethes sämtliche Werke, XLI, cit., p. 142, cit. in T. Todorov, Teorie del simbolo, cit., p. 258. In realtà, il rapporto dei romantici tedeschi con l’allegoria è più complesso della netta 4

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Tuttavia, provare a risolvere il problema posto da questo racconto facendo semplicemente parlare i suoi simboli in quanto “simboli” in senso romantico, a scapito dell’allegoria, sarebbe un’operazione semplicistica – del tutto speculare a quella compiuta dal suo autore nel costruire una “storia esemplare” – e che mostrerebbe per di più la presunzione di rifarsi a un substrato universale in grado di spezzare le narrazioni individuali in qualsiasi tempo e luogo. In realtà, al concetto di allegoria “classica” (in certo modo qui costruita dai romantici appositamente per meglio definire in negativo il simbolo), è possibile opporre un’altra elaborazione dell’allegoria, intesa sia come prassi produttiva che interpretativa, ovvero quella formulata da Walter Benjamin nel suo studio sul Trauerspiel8 e poi lungamente elaborata in relazione alla figura di Baudelaire, fino al Passagenwerk.9 Secondo Benjamin, l’allegoria risulta dall’accostamento dei frammenti di un’unità organica ormai tramontata, frammenti il cui senso è stato smarrito, e cui l’allegorista trasferisce un significato arbitrario, discendente dalla propria volontà individuale e non dall’ “armonia” di una totalità decaduta, spenta. Questo tipo di costruzione, un vero e proprio montaggio, non può che apparirci melanconica, così come melanconica è l’operazione dell’allegorista e melanconiche sono le rovine, immagini della «storia come declino».10 Naturalmente, come ha messo ben in evidenza Peter Bürger nel suo studio sull’avanguardia,11 la teoria benjaminiana dell’allegoria barocca è stata costruita con palese riferimento alle esperienze avanguardiste novecentesche, e in particolare all’espressionismo: […] è stata l’esperienza che Benjamin aveva acquisito nel trattare con le opere d’arte dell’avanguardia a permettergli sia lo sviluppo della categoria, sia la sua applicazione alla letteratura barocca, e non viceversa. Anche

opposizione qui delineata da Goethe (del resto anche per la sua stessa l’opera). A tal proposito si veda L. Perrone Capano, Alle origini dell’allegoria moderna, cit. 8 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1963), Torino, Einaudi, 1980. 9 W. Benjamin, I «passages» di Parigi (1982), Torino, Einaudi, 2000. 10 P. Bürger, Teoria dell’avanguardia, cit., 1990, p. 80. 11 Ivi, pp. 79-93.

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qui è il dispiegarsi dell’oggetto nell’epoca presente che determina l’interpretazione degli stadi precedenti.12

La potenza delle costruzioni allegoriche deriverebbe per Benjamin dalla possibilità di arrecare uno shock alle abitudini ricettive del fruitore, che sarebbe portato a mettere in discussione la propria visione lineare del mondo, orientandosi verso nuove possibilità di organizzazione della prassi.13 Una delle molte implicazioni dell’allegoria benjaminiana è di fatti proprio il recupero del valore pratico (per “pratico” intendo qui ciò che può influire in modo attivo sul mio modo di rapportarmi al mondo, ovvero alla “prassi vivente” di cui parla Bürger) dell’arte contemporanea alla luce affievolentesi della «decadenza dell’aura» che coinvolge direttamente il depotenziamento del simbolico in senso classico (nel suo saggio su Baudelaire,14 Benjamin costruisce una teoria dell’arte moderna proprio a partire dalla decadenza del simbolico in un contesto di impoverimento esperienziale – la società capitalisticamente avanzata – il che viene esemplificato con il passaggio dall’aura alla traccia). Ma come si rapporta tutto ciò all’allegoria costruita in modo fin troppo semplicistico all’interno del testo in esame? Innanzitutto, è bene notare che lo stesso Marcello Gallian, nella maggior parte delle sue opere narrative, dai racconti più sperimentali fino ai romanzi tardi, fa un largo uso di tecniche avanguardiste come il montaggio di frammenti non legati da una successione razionale, sicché un’interpretazione allegorica nel senso appena tracciato appare del tutto legittima (così come potrebbe esserlo, ad esempio, per un romanzo come Berlin Alexanderplatz di Döblin). In secondo luogo, l’allegoria appare sempre come uno strumento ambivalente, dal momento che in essa risiede una forza interpretativa oltre che compositiva. La sua potenza disgregante e la sua parentela con le rovine non ne fanno un mezzo abbastanza univoco e sicuro da poter custodire una significazione conclusa e rassicurante come quella che avrebbe voluto consegnarci in questo caso Gallian, ovvero una esaltazione della “rivoluzione” fascista (o meglio, una fantasia 12

Ivi, p. 79. È quanto Paul Ricoeur definirebbe come competenza della fase di ricezione dell’opera letteraria, denominata Mimesis III. Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto I (1983), Milano, Jaca Book, 2008, pp. 117-139. 14 W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus (1955), Torino, Einaudi, 1995, pp. 89-130. 13

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tramite la quale egli sperava illudere e rassicurare se stesso, compiendo una sorta di esorcismo). Qualsiasi visione totalizzante, qualsiasi pretesa di organicità non è conciliabile con la costruzione allegorica, che, per definizione, della totalità segna la caduta in frantumi, o, per dirla con Benjamin, lo spegnimento: «Benjamin sostiene che l’allegoria ha la capacità di dare espressione al mondo non nella sua pienezza e nella sua perfezione, ma nel suo andare in rovina e frammentarsi».15 Sta proprio in questo la forza decostruttiva (e auto-decostruttiva), critica, dell’allegoria, ovvero nel «far rovinare la (bella) apparenza e l’illusione di totalità che caratterizzano l’opera d’arte e, in particolare, il simbolo. L’allegoria stessa diviene un’allegoria della critica».16 Del resto, in vari snodi cruciali del Passagenwerk è stato lo stesso Benjamin a confermare queste possibilità corrosive (e dunque progressive) dell’allegoria: D’altra parte l’allegoria ha però a che fare, proprio nel suo furore distruttivo, con l’eliminazione dell’apparenza illusoria che emana da ogni «ordine dato», sia esso quello dell’arte o quello della vita, in quanto sua trasfigurazione della totalità e dell’organico, destinata a trasfigurarlo al fine di farlo apparire sopportabile. È questa la tendenza progressiva dell’allegoria.17

Trasfigurare il reale per renderlo «sopportabile». Non è questo che sta al fondo dell’allegoria di Gallian, antiborghese e ribelle inguaribile, che non voleva smettere di vedere nel fascismo la forza rivoluzionaria che avrebbe liberato l’Italia dalla grettezza e dalla violenza capitalista? Trasfigurare il reale per «farlo apparire sopportabile»: l’allegoria, come vedremo – e come aveva intuito Benjamin – non è mezzo da prestarsi a questo genere di operazioni, dal momento che la sua essenza è la Trauer, il lutto per ciò che si è perduto, per la frantumazione e il declino dell’esistente, per l’impossibilità di recuperare un senso che non sia l’inarrestabile

15

G. Gilloch, Walter Benjamin, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 116. Ivi, p. 119. 17 W. Benjamin, I «Passages» di Parigi, cit., p. 358. Cfr. F. Muzzioli, Interpretazione e presa di posizione nella critica letteraria di Walter Benjamin, in «Allegoria», n. 4, 1990, pp. 7-43. 16

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volgere alla fine di tutte le cose (perché solo a questo livello, al grado zero,18 forse, è possibile ritrovare un collegamento, per quanto negativo, con la significazione). Se dunque Gallian aveva costruito una sua personale storia del fascismo, atta a «farlo apparire sopportabile», «non è in nessun modo stabilito a quale significato lo condurrà l’assorta profondità dell’allegorico. Una volta però che abbia acquistato questo significato, esso può essergli in ogni momento sottratto a favore di un altro».19 È proprio questa l’operazione che è ormai opportuno tentare nei confronti di una simile storia del fascismo;20 veniamo dunque al racconto.

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Adorno aveva ravvisato come peculiarità dell’espressionismo la tendenza a raggiungere il massimo dell’estraniazione, il che ha molto a che fare con il grado zero dell’allegorista che riduce il mondo alla facies hippocratica: «l’unità dell’espressionismo risiede nella presa di coscienza e nell’enunciazione del fatto che gli uomini interamente estraniati gli uni agli altri, in cui si è rifugiata e ritirata la vita, sono diventati, per ciò stesso, dei morti»; Minima Moralia (1951), Torino, Einaudi, 2005, p. 229. 19 W. Benjamin, I «Passages» di Parigi, cit., p. 409. 20 Senza tuttavia dimenticare che «D’altra parte, la coscienza critica non assurge alla dissoluzione indiscriminata delle espressioni ideologiche (questo darebbe alla coscienza il primato sull’essere sociale, rovesciando il fondamento materialistico), ma il suo “guadagno” consiste nel produrre immagini sottratte al monopolio della “trasfigurazione”, “idealizzazione”, “fantasmagoria”. A ciò è spesa l’ “antica e preziosa moneta” dell’allegoria»; F. Muzzioli, Interpretazione e presa di posizione nella critica letteraria di Walter Benjamin, cit., pp. 40-41.

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3. Analisi del racconto Come già accennato, la vicenda21 dovrebbe illustrare la presa del potere da parte del vitalismo fascista, incarnato dal giovane e manesco Giovanni, che dapprima possiede e salva la borghesissima e vecchia Italia (l’attempata Caterina), e poi la lascia morire quando costei si dimostra incapace di accettare il frutto di questa unione, ovvero il neonato emblema dell’ormai avvenuta rivoluzione antiborghese. Tuttavia, Gallian non si accontenta di illustrare il suo apologo in modo “realista” – la vis espressionista trionfa ovunque nella sua opera – e complica da subito il quadro dedicando le prime pagine alla messa in scena di un inquietante personaggio, ovvero un grande albero che cresce nel cortile interno ove si affacciano le finestre dell’appartamento di borgata di Caterina. Una strana vitalità pervade le sue fronde, al punto che il vicinato gli ha dato un nome: Argento: Era nel cortile un albero rigoglioso e beffardo che, quando lei s’affacciava, le inviava sempre o una foglia in bocca, o uno sterpo nei capelli; bastava da solo a far bufera, le piogge trasmigranti e i fulmini esuli lo cercavano per posarsi: allora venivano alla donna i pensieri molesti, i progetti infami,

e lui pronto a far bufera, stormendo,

agitandosi, fischiando, torcendosi tutto. Quasi a dare l’allarme a tutto il vicinato: i palazzi formavano cortili e nel mezzo l’albero. S’affacciò, come il solito e cominciò ad insultarlo: Ladro, urlone, impiccione, ficcanaso, stupido. Lo offese anche e l’altro non se ne dava per inteso: ad ogni grido, ad ogni insulto, frrr, frrr, sccccc: i rami battevano sui vetri delle cucine, i vetri si aprivano, anche di notte, le donnette dicevano: è la Caterina, che ce l’ha con l’albero. Gli avevano messo perfino un nome: Argento: chissà mai perché.22

L’albero è chiaramente un simbolo fallico, e non a caso esercita un’azione perturbante sulla donna, che se ne sente attratta ma anche minacciata. In ogni caso, 21

Come si vedrà in seguito, la storia presenta molti punti in comune con l’argomento del romanzo Bassofondo (1935), del quale mi occuperò diffusamente nel prossimo capito. 22 M. Gallian, Una vecchia perduta, cit., p. 9.

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l’intera vicenda si svolge sotto l’influenza di questa presenza, con la qual cosa Gallian voleva significare la forza sessualmente dirompente del movimento fascista, che è destinata ad avere un influsso vivificante e infine letale per la vecchia borghesia. Che il richiamo al fallo sia palese, è dimostrato dal seguito della descrizione appena citata: La donna, quel che avesse fatto a renderselo grazioso complice, lo sapeva soltanto lei: aveva canticchiato sommesso, un giorno gli aveva fatto vedere persino i seni nudi. L’albero dormiva, prendeva tutto il sole, slargato, aperto, sensuale: metteva le foglie dentro il cielo, il tronco nudo e lungo che finiva a ragione dentro la terra. L’albero faceva all’amore con chissà chi, giù, nel fondo, tutte le radici aperte e arcigne, quasi con le unghie: non s’accorse di nulla: soltanto un cane vide.23

Naturalmente era difficile piegare un simbolo di questo tipo agli intenti di una piatta allegoria; in seguito vedremo come sarà proprio questo uno degli elementi che sfuggiranno di mano all’autore contribuendo alla decostruzione dell’ideologia sottesa al testo. Per ora, continuiamo a seguire il dispiegarsi della vicenda: il cane appena comparso è un’ulteriore figurazione degli istinti erotici, come espressamente indicato dall’autore: Era un cane lungo fulvo, che la gente d’una casa esiliava fuor dei vetri, dietro la ringhiera d’un balconcino fittizio. Volse il muso prigioniero, aprì gli occhi, li aprì straordinariamente,

fissò

quei

due

seni

e

abbaiò

lugubremente scodinzolando. Allora Caterina, colta in flagrante, spaurita, chiuse vetri e scuri e s’accasciò su una sedia spagliata ch’era in cucina. Così rimase qualche tempo.24

Se la borghese Caterina, come tutto il vicinato (il cortile interno del condominio può essere considerato un’immagine dell’Italia prefascista), si rivela 23 24

Ibidem, cors. miei. Ibidem, cors. mio.

21

attratta e allo stesso tempo impaurita dalla carica sessuale dell’albero, quest’ultimo dimostra di essere espressamente alleato del giovane fascista («rivoluzionario» come lo definisce l’autore) Giovanni: «Vecchio albero, Argento, buon giorno: Giovanni ti saluta. L’albero chinava i rami, strusciava le foglie sulla fronte del ragazzo».25 Il ragazzo ama «la vecchia sua» da ormai molti anni, ma quest’ultima ha cominciato a raffreddarsi nei suoi confronti. Si legga: la borghesia ha inizialmente amato il fascismo, ma ben presto è destinata ad avvertirlo come un pericolo, nel momento in cui comprende che esso “fa sul serio”; allo stesso tempo il fascismo ama la vecchia Italia perché è la patria in cui è nato. Ma prima o poi deve farne piazza pulita (per Giovanni ciò avverrà quando si renderà conto che Caterina minaccia di abortirgli il figlio): Lui aveva vent’anni, lei quarantanove suonati. Giovanni amava la vecchia sua pazzamente. Durante anni ed anni l’aveva amata e ancora non l’aveva esaurita. Ogni giorno aveva bisogno di lei, famelico. Lei, silenziosa, lo compiaceva, non osava negare; ma da qualche tempo non provava più né gusto né amore: lui depredava una cosa insensibile, morta, cieca e sorda: non s’accorgeva neppure, infatuato com’era, di quella insensibilità: badava a faticare sopra di lei, con accanimento, su quella vecchiaia aspra, schizzinosa, lamentosa e gradassa.26

Così com’era avvenuto con l’albero, anche il rapporto tra il giovane e la donna è disseminato di “indicatori psicanalitici”. In un caso come questo, che si tratti di un racconto o della vita reale, è logico ravvisare un carattere incestuoso, ma Gallian non si accontenta di adombrare e rende il fatto palese con passaggi come il seguente: «Poi lo asciugava, da cima a fondo, lo cospargeva di talco bianco sul corpo, proprio come un bambino e quella polvere bianca, col tempo, forniva uno strano odore di culla […]».27 La funzione di elemento vivificatore propria del ragazzo, destinato a portare la donna a nuova giovinezza e salvarla dalla morte, si manifesta in prossimità del 25

Ivi, p. 41. Ivi, p. 12. 27 Ivi, p. 13, cors. miei. 26

22

verificarsi di un primo avvenimento critico: il sopraggiungere di una malattia che arriva quasi a ucciderla, una malattia misteriosa contro cui non c’è rimedio e che il medico chiama «amarostenia, malattia dell’amaro» (la consunzione di una borghesia occidentale inevitabilmente avviata al tramonto, secondo la vulgata di destra primo novecentesca – condivisa largamente anche a sinistra). Ma Giovanni non si arrende, sistema un grammofono urlante al capezzale della moribonda e si dà a possederla in piena agonia – e in questo caso le necessità dell’allegoria si sposano alla perfezione con il gusto grottesco e necrofilo di Gallian (si vedrà tuttavia in seguito quanto ciò sia distante dall’espressionismo da morgue di Gottfried Benn, e quanto più si avvicini a quel che Bachtin ha definito «realismo grottesco»28), che già nella Donna fatale aveva rappresentato un simile caso di “nozze infernali”: Groch vedeva chiaramente la scena che avveniva nella camera: Job è sul letto, immobile, e Stella siede discosto, quasi vicino alla parete. Gli sembra di sentire anche parole di Stella, parole che forse sono di Stella: – Così mi piaci, morto, senza un respiro, con gli occhi chiusi, le labbra strette. Io dormo vicino a te, mi spoglierò vicino al tuo corpo, dirò parole che non sentirai mai più. Tutti coloro che non ho amato, sei tu Job, santificato dalla morte, geloso di misteri che posso scoprire facilmente […]. E lo guarda con amore e lo tocca e lo scuote e lo rivolta di qua e di là, lo scopre minuziosamente, gli alza le mani e le gambe e ride pianissimo; lo bagna di lacrime, di saliva che odora; l’anima di Job è lontana e non rimane che il suo corpo d’uomo ucciso; carne vera, carne autentica, senza immagini e senza similitudini; la barbetta sembra posticcia, ma non importa; tutto prende rilievo: il naso e la bocca, le mani e il petto villoso, la palandrana e il clarinetto che non suonerà più.29

Ed ecco la scena descritta in Una vecchia perduta: La “vecchia”, la sua “vecchia” certo agonizzava: il respiro lento, il cuore non aveva più nel petto, gli occhi 28

M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare (1965), Torino, Einaudi, 2009. M. Gallian, La donna fatale, Milano, Edizioni “Corbaccio”, 1929, pp. 125-126. Cfr. parte prima, cap. 3. 29

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pallidi, le mani secche e dure alle quali il sangue non giungeva, le labbra livide […]. Lavorò sulla donna, con premura, con accanimento, come sempre, si sentiva un gigante, le donava tutto quanto aveva, senza cerimonie, sino all’ultimo; sprezzante di ogni pericolo, le donava saliva e sangue. Lei alla fine si addormentò e, al mattino del giorno dopo era guarita.30

A questo punto, prima di arrivare al vero e proprio punto di snodo della vicenda, ovvero il concepimento del figlio e il contemporaneo verificarsi della rivoluzione fascista, l’autore ci presenta un ulteriore personaggio, il reale antagonista di Giovanni, il volgare, avido e violento signor Stefano, proprietario di una trattoria che ha i suoi tavoli all’interno del cortile del condominio, naturalmente immagine paterna destinata a combattere con il figlio per il possesso della madre: era un uomo sulla cinquantina, anche lui, grosso e grigio, musone e solerte, che non pensava se non al denaro e ai guadagni. Aveva un naso a becco d’aquila, un bel vestito nero, una cravatta bianca, gli anelli alle dita, l’orologio d’oro sul panciotto. E nel taschino la penna stilografica, d’oro anche questa.31

La penna stilografica, il becco d’aquila, gli anelli e l’orologio d’oro: il potere e il denaro sono le caratteristiche tipiche del borghese odioso che il fascismo, secondo Gallian, non può non combattere (se ne trovano innumerevoli esempi nelle sue opere). Ma, a differenza di Giovanni, Caterina, la vecchia e incorreggibile Italia che infine dovrà essere spazzata via, non è affatto insensibile al fascino e alle lusinghe di Stefano, che dalla soglia del suo locale continua ad ammiccare alla donna compiacente, che ne accetta la corte: «cercherò di far passare io, il vezzo, alla vecchia. È ancora buona di carne: non è suonata ancora la notte sugli occhi, la bocca va bene ancora: i seni sono un tantino stracotti. Va là che verrà il giorno».32 Tuttavia, la potenza giovanile del ragazzo è destinata a prevalere: ben presto la donna sembra di nuovo ammalata, ma il medico avvisa la coppia dell’avvenuto 30

M. Gallian, Una vecchia perduta, cit. pp. 16-18. Ivi, p. 22. 32 Ivi, p. 29. 31

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concepimento, il che getta lei nello sgomento e lui in una gioia pazza e infantile che lo spinge a saltellare e piroettare in giro come un bimbo contento. Dapprima Caterina rimane calma, non riuscendo a persuadersi che ciò, «alla sua età», possa davvero accadere. Quando infine la cosa diventa evidente, la donna viene colta da una cieca ira contro il ragazzo e la creatura che porta in grembo (la vecchia Italia si rende conto che è troppo tardi, il frutto della rivoluzione è maturo, il processo irreversibile; verrebbe quasi da pensare: il delitto Matteotti); ira che poi finisce per concentrarsi – a dimostrazione dell’intenzionalità della simbologia freudiana – contro l’albero fallico che aveva presieduto allo svolgersi dell’intera vicenda: «Un’ira sorda, un giramento di testa, una nausea di tutto e d’ogni cosa, l’odio contro l’albero – toglietelo dal cortile, gridava – alla fine l’odio più forte e più duro».33 A questo punto il giovane fascista deve cominciare la sua costante azione di vigilanza per impedire alla madre di compiere un aborto che ella desidererebbe più di ogni cosa. La tiene sequestrata in casa, la lega quando è costretto a uscire lasciando un grammofono suonare a tutto volume per coprirne le urla, la veglia durante la notte: di notte, nel colmo della notte, s’alzava nel sonno, con gli occhi chiusi quasi una sonnambula, a piedi scalzi, trovava la porta di casa, apriva, si trovava sul pianerottolo. Giovanni, al rumore della porta, si svegliava, correva, d’un balzo prendeva la donna, la svegliava.34

Tornerò sull’importanza del sonnambulismo a un livello interpretativo più profondo. Per ora è importante notare come in questa “vigilanza” Gallian adombri il periodo di “sacrifici” (e dunque lo stato di polizia) che il giovane regime dovrà imporre alla nazione per poterle impedire di tornare tra le braccia dell’odioso potere borghese prima che la conquista dello stato sia davvero completa e il totalitarismo (il figlio) abbia visto la luce (naturalmente da questa interpretazione dell’ascesa del fascismo è possibile comprendere nel modo più chiaro di che genere di illusione fosse vittima questo ragazzo squadrista che si rifiuterà sempre di crescere – ma che in seguito mostrerà di aver capito bene, pur non accettandolo, contro che genere di 33 34

Ivi, p. 42. Ivi, p. 43.

25

fallimento si fosse schiantata la propria ingenua visione delle cose). In fine, poco prima della tanto attesa nascita, lo scenario “storico” inizia a mutare: grandi sommovimenti sembrano attraversare la città, interi quartieri vengono abbattuti per far posto a grandi opere, nei rioni le donne cominciano a partorire figli a ritmo serrato. I segnali di una grande rivoluzione accompagnano dunque l’avvento del figlio. Anche il signor Stefano, con la sua sordida trattoria dove si intrattengono gli equivoci e decadenti protagonisti di una ricca borghesia morente, è destinato a cedere: il caseggiato verrà abbattuto e gli inquilini subiranno uno sfratto. Ed ecco che le ire del ricco signore vanno a concentrarsi sulla figura dell’albero: «talvolta ruggiva, passeggiando da un muro ad un altro, di quando in quando pugnalando l’albero: ora sulla corteccia, ora cercando il vivo, il succhio, la schiuma vitale dell’albero altissimo».35 Il padre non perdonerà certo il figlio per aver sedotto la madre compiendo l’incesto: Un giorno disse: – l’albero è mio e me lo porto con me. – Chiamò due camerieri in pantaloni neri e giacca di lavoro a righe, armati di coltelli, di accette e di seghe e ordinò di abbattere l’albero. – Posso rovinar quel che mi piace, quand’è mio – bofonchiava, mentre gli altri davano i primi colpi e si mettevano con accanimento. Fu una tortura; i coltelli tagliavan male, le accette eran di brutta lama a denti, le seghe faticavan senza scopo: le ferite dentro il tronco erano orribili a vedersi, indecise, scabre e rovinose.36

Finalmente l’albero crolla rovinando sul palazzo, sventrandone una parete. La castrazione è compiuta. Ma è troppo tardi, il figlio sta per venire alla luce, e quando il parto finalmente avverrà Caterina non mancherà di pensare: «L’albero odioso s’era vendicato».37 Ma è così semplice liquidare in una piatta allegoria un’immagine potente come la vendetta del padre contro il figlio incestuoso? E soprattutto, la

35

Ivi, p. 70. Ivi, p. 72-73. 37 Ivi, p. 82. 36

26

resistenza allegorica non sarà destinata a generare un’ulteriore interpretazione, anch’essa sul piano politico, che adombri una ben diversa evoluzione degli avvenimenti storici legati all’avvento del regime fascista? L’autore sembra ignorare, almeno nel presente racconto, queste domande su cui tra breve mi soffermerò più a lungo. Caterina, finalmente, ha messo al mondo il “figlio della rivoluzione”. È rimasta in una solitudine spettrale: il caseggiato, in cui già gli operai lavorano alla demolizione, è stato abbandonato e soltanto lei, a causa della maternità, ha ottenuto di rimanere ancora per qualche tempo. Così come aveva desiderato abortirlo, adesso si mostra indifferente al neonato, ed è Giovanni a doversene occupare. La donna non tarda a tornare preda della sua vecchia malattia consuntiva, ma stavolta il giovane amante la abbandona al suo destino. Poco prima di morire chiede che un varco le sia aperto tra le pareti, così che possa contemplare la grandiosa città nuova in costruzione, con i suoi spazi oceanici, da cui ella sarà per sempre esclusa (la vecchia Italia non ha il diritto di prendere parte ai grandiosi destini del regime). Perfino dopo la sua morte, una gigantesca folla accorsa per una manifestazione politica impedirà al carro funebre che ne conduce il feretro di addentrarsi tra le vie cittadine. E solo un triste corteo di vecchi e logori parenti, giunti da chissà dove, segue il funerale. Giovanni, lontano da questi relitti del passato, con il proprio figlio tra le braccia, senza soldi in tasca e ricolmo di entusiasmo, si avvia verso piazza Venezia ad acclamare il compimento della rivoluzione: «Giovanni, lontanissimo, gridava tra la folla».38 Così si chiude la vicenda, con un lieto fine che già nel 1933, anno di composizione del romanzo, doveva apparire al suo autore ben lungi dal coincidere con la realtà. Per molti versi dunque Una vecchia perduta è l’ultimo atto di fede incondizionata al regime presente nell’opera di Gallian, che da questo momento in poi si avvierà verso allegorie ben più cupe (ma che pure nella vita pubblica e privata non accetterà mai di piegarsi all’evidenza). Del resto, è opportuno notare come questo finale si opponga in modo quasi speculare a quello de Il soldato postumo

38

Ivi, p. 93. Anche il romanzo di Mario Massa, Uomo solo, Roma, Edizioni di “Circoli”, 1935, si conclude nel mezzo di un’adunata a piazza Venezia, quando il protagonista, un anarchico appena tornato in Italia, finalmente prende coscienza della grandezza della “rivoluzione fascista” e alza al cielo tra le braccia un bimbo desideroso di vedere e acclamare il duce.

27

(pubblicato nel ’35). Anche qui, la vicenda si concluderà nel clamore della folla acclamante il duce. Ma stavolta il giovane protagonista, anch’egli squadrista della prima ora e già passato attraverso gli entusiasmi e le delusioni della “rivoluzione”, proprio nel mezzo dell’adunata oceanica incontrerà una morte ingloriosa e immotivata, una consunzione per molti versi simile a quella di Caterina.39 Forse il “figlio” venuto alla luce era dopotutto un figlio mostruoso. Il frutto dell’incesto in cui prende corpo, ancora e sempre, la vendetta paterna.

39

M. Gallian, Il soldato postumo (1935), Venezia, Marsilio, 1988, p. 218. Cfr. parte prima, cap. 4, par. 3.

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4. Interpretare le rovine

Un figlio mostruoso è venuto al mondo, e la sua comparsa è sinistramente connessa all’emergere di una nuova autorità paterna, quella verso cui Giovanni «urlava nella folla» alla fine del racconto, e di fronte alla quale tutta la sua ansia di ribellione sembra ormai essersi pacata in una fideistica obbedienza. Appare qui logico pensare che i simboli di cui Gallian ha intessuto la sua fiacca allegoria semplicemente non si siano lasciati piegare, dal momento che si tratta di simboli “vivi”, dotati di vita propria; come afferma Jung infatti, «Il simbolo vivo è la formulazione di un aspetto essenziale dell’inconscio, e quanto più universalmente questo aspetto è diffuso, tanto più universale è anche l’azione del simbolo, giacché fa vibrare una corda affine in ciascuno».40 Tuttavia, ciò finirebbe per rendere insensato il ragionamento sull’allegoria svolto nel secondo paragrafo di questo capitolo, e ridurrebbe l’analisi a una semplice operazione di eliminazione del particolare, del contingente, in favore del recupero dell’universale. Ma che guadagno se ne trarrebbe, se non confermare quanto è noto a tutti, senza fare alcun passo avanti nell’interpretazione del testo in esame, di cui ci si sarebbe a questo punto semplicemente disfatti? A ben vedere, questo rischio è superato nel momento in cui non si procede a scindere il contenuto simbolico dell’immagine (quella psicanalitica in questo caso), dall’intenzione allegorica affidatagli dall’autore, che qui garantisce la sua permanente “storicità”. Solo così gli elementi allegorici, frammenti di un “significato” infranto (da cui derivano il proprio residuo simbolico), ci appaiono nel modo più chiaro sotto l’aspetto di “rovine”, elementi cioè, in cui l’operato dell’uomo è stato già per buona parte scardinato dall’azione disgregatrice della natura (è proprio questa azione disgregatrice, questa compresenza della natura, a costituire il simbolico in senso jungiano): le forze puramente naturali cominciano a trionfare sull’opera dell’uomo: l’esatta parità di natura e spirito pende a favore della natura. Questa alterazione si risolve in una tragedia cosmica che, per il nostro sentire, riveste le rovine di un’ombra di malinconia: ora infatti, la rovina appare come 40

C.G. Jung, Tipi psicologici (1921), Torino, Bollati e Boringhieri, 1977, p. 528.

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la vendetta della natura per la violenza che le ha fatto lo spirito, per averla conformata a sua immagine e somiglianza. […] le rovine di un edificio indicano che nelle parti scomparse o distrutte dell’opera d’arte sono ricresciute altre forze ed altre forme, quelle della natura […].41

Le rovine, così intese da Simmel (che è qui uno dei riferimenti per l’allegoria Benjaminiana), sono molto più che semplici frammenti estetici destinati all’ammirazione artistica: il loro potere interpretativo investe la capacità umana di attribuire significati – di dare vita a prodotti culturali – svelando come in tutte queste creazioni la presenza della “natura” (la sussistenza dell’origine), non viene mai meno, anche se rimane occultata fino al momento in cui sopraggiunge la rovina, sicché: «è come se un frammento dell’esistenza dovesse prima andare in rovina per poi sottomettersi a tutte le forze e a tutte le correnti che provengono da ogni angolo della realtà».42 Le rovine, in fin dei conti, sono l’unico contesto in cui è lecito cogliere la natura (nel nostro caso la forza significante dei simboli dell’inconscio) in modo storico, vale a dire nella sua interazione, all’interno di un’opera narrativa, con le forze dell’economia (il trionfo del capitalismo come mandante della violenza fascista), e quelle della politica (il ritorno dell’autorità paterna a cui il giovane aveva creduto ribellarsi, nella figura del duce acclamato a Piazza Venezia). Il che è poi precisamente quanto l’autore aveva inteso occultare nella sua ingenua allegoria. Ciò che aveva voluto rendere «sopportabile». È sufficiente citare i risultati dello studio sulla propensione all’autoritarismo svolto negli anni ’50 da Adorno, Brunswick, Levinson e Sanford, per avere in questo caso un quadro piuttosto elementare della situazione in cui ci troviamo: L’amore per la madre, nella sua forma primaria, cade sotto un severo tabù; l’odio che ne deriva contro il padre viene trasformato, attraverso una formazione reattiva, in amore. Questa trasformazione conduce a una particolare specie di super-ego. La trasformazione dell’odio in amore. La trasformazione dell’odio in amore – il compito più difficile che un individuo debba assolvere nel suo sviluppo 41

G. Simmel, Le rovine, in Saggi di cultura filosofica (1911), Milano, Neri Pozza, 1998, pp. 108-114: 108-109. 42 Ivi, p. 114.

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infantile – non riesce mai completamente. Nella psicodinamica

del

«carattere

autoritario»

una

parte

dell’aggressività precedente viene assorbita e trasformata in masochismo, mentre un’altra parte viene lasciata al sadismo, che cerca uno sfogo in coloro con i quali il soggetto non si identifica – in ultima analisi con il gruppo esterno. […] L’ambivalenza è onni-pervadente, e risulta soprattutto dalla simultaneità della credenza cieca nell’autorità e dalla disposizione ad attaccare coloro che vengono ritenuti deboli e che sono socialmente accettabili come «vittime».43

Questo quadro psicologico è riferito da Adorno ai soggetti caratterizzati da sindrome autoritaria, ovvero a coloro che mostrano una particolare propensione a sottomettersi ciecamente a un’autorità esterna e a esercitare a loro volta in modo spietato il proprio potere su chi sia più debole o comunque identificato come “nemico”. Costoro, naturalmente, sono i più ricettivi nei confronti di un regime fascista e la loro predisposizione deriva in fin dei conti dall’essere stati sottoposti a un’educazione di tipo duramente autoritario, in cui il desiderio di vendetta e ribellione verso il padre castrante, schiacciato dal senso di colpa, sia stato lentamente tramutato in amore per le figure genitoriali e per chiunque tenda a impersonarne il ruolo autoritario. La violenza repressa deve così essere sfogata all’esterno, direzionandosi verso figure giudicate deboli o ostili poiché estranee. È necessario precisare subito che tale quadro psicologico è stato qui richiamato unicamente per fornire un contesto generale – né potrebbe essere altrimenti, dal momento che esso è stato elaborato con riferimento ad un preciso scenario socio-economico, ovvero gli Stati Uniti del secondo dopoguerra44 (ed è comunque possibile metterne in discussione la validità da molti punti di vista). Innanzitutto, nel caso di Una vecchia perduta, la figura del padre non è oggetto di venerazione ma di ostilità (il personaggio del signor Stefano, in cui, come abbiamo visto, Gallian intendeva certamente raffigurare l’autorità paterna). Inoltre, sono assenti componenti sadiche (come si vedrà il trattamento che Giovanni riserva a 43

T. Adorno, E. Frenkel-Brunswick, D. Levinson, R. Sanford, La personalità autoritaria (1950), vol. 2, Milano, Edizioni di Comunità, 1973, p. 369, cors. mio. 44 Lo studio, portato avanti con lunghe indagini fondate su interviste effettuate nella seconda metà degli anni ’40 su soggetti campione, fu commissionato per testare il livello di (o la propensione all’) antisemitismo nei vari strati della società statunitense nel dopoguerra.

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Caterina può essere ascritto ad un altro tipo di imagerie, non sadica ma grottesca). Concentriamoci su questi due punti. Per quanto riguarda la palese ostilità verso la figura paterna, non è necessario vedervi una contraddizione con la «struttura autoritaria del carattere»,45 dal momento che nelle personalità che tendono a sviluppare forme di ribellione verso i genitori è sempre possibile che l’autorità di questi ultimi venga semplicemente sostituita con quella di una figura analoga, che giunge dunque provvidenzialmente a placare un senso di colpa che non trova requie. Nel caso di Una vecchia perduta, Giovanni ritrova questa autorità disconosciuta dapprima nel suo dovere di rivoluzionario e in fine nel duce affacciato ai balconi di Palazzo Venezia. Ciò è in diretto collegamento con il secondo punto messo pocanzi in evidenza, ovvero l’assenza di elementi sadici propriamente detti. Secondo lo studio46 elaborato da Gilles Deleuze sull’opera di Sacher-Masoch e sui rapporti tra masochismo e sadismo in generale, queste due tendenze, solitamente accomunate in quanto speculari e complementari, sarebbero invece profondamente distanti, ed anche i caratteri sadici sviluppati dal masochista non avrebbero nulla a che vedere con l’essenza del sadismo, così come l’apparente masochismo del sadico con l’essenza del masochismo. Nell’opera di Marcello Gallian, la presenza dell’immaginario masochista è costante, e la riproduzione dello specifico fantasma che da esso deriva può essere facilmente riscontrato in un numero notevolissimo di scene sparse tra i romanzi e i racconti.47 Anche se in Una vecchia perduta queste tendenze sono rimaste occultate in quanto estranee agli intenti manifesti dell’allegoria, il loro risultato più precipuo appare evidente, e fornisce una chiave interpretativa determinante. Secondo Deleuze, l’essenza del masochismo consiste nel disconoscimento della figura paterna, nel tentativo di annullarla nell’umiliazione proprio al fine di liberarsene: 45

Ivi, p. 373. G. Deleuze, Il freddo e il crudele (1967), Milano, Se, 2007. 47 Si veda ad esempio, per rimanere a La donna fatale, per molti versi un incubatore della futura produzione di Gallian, la seguente scena: «la fanciulla saltò dal letto, prese una frusta e cominciò a frustare il Grosso che s’era gettato in terra; lo frustava a sangue e l’uomo mugolava e supplicava. – Così, Stella, più forte ancora ogni volta che vedrai i miei occhi rossi. Il Grosso si agitava furiosamente nella sua parte di demonio; riusciva a mandar fuori fiamme e cenere dagli occhi e dal naso e la piccola donna, la fanciulla vestita di garza al modo delle canzonettiste ingenue di prima scena, ridendo a denti stretti di paura, continuava a staffilare l’uomo, senza misericordia; da quell’ammasso di carne uscivano rantoli e polvere, le sue grosse mani lasciavano sul pavimento larghe orme d’acqua sudata». Cit., pp. 35-36. Cfr. parte prima, cap. 3, par. 3. 46

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innanzitutto, chi viene picchiato? Dove si nasconde il padre? Non si nasconde forse in colui che viene picchiato? Il masochista si sente colpevole, si fa picchiare e espia; ma che cosa e perché? Non è forse proprio l’immagine del padre che, in lui, viene sminuita, picchiata, ridicolizzata, umiliata? Ciò che egli espia non è forse la sua somiglianza con il padre, la somiglianza del padre? La formula del masochismo non è forse il padre umiliato?48

Ma come si spiega allora il ritorno del padre nel finale del racconto? Il soggiacere di Giovanni a una nuova, e ben più potente autorità? E cosa rappresenta il figlio? Il figlio dell'incesto frutto dell’umiliazione della figura paterna? «È necessario comprendere che il padre, annullato nell’ordine simbolico, non cessava di agire nell’ordine reale o vissuto. Lacan ha enunciato una legge profonda secondo la quale ciò che viene simbolicamente abolito risorge nel reale in forma allucinatoria».49 Il finale del racconto ha molti tratti che ricordano, appunto, un contesto allucinatorio, così come inevitabilmente allucinatorio è l’offrirsi della figura del duce alla folla oceanica che lo acclama, per cui esso può incarnare quella figura paterna da cui invano ci si è cercato di liberare. Che sia frutto del ritorno del padre all’interno di un meccanismo masochista, o di una proiezione di altro tipo, il “capo” sostituisce il padre autoritario.50 In questo caso, la realtà, resa «sopportabile» dalla costruzione allegorica superficiale, andando in rovina e spaccandosi in mille pezzi, ci mostra nel ritorno prepotente della natura il vero contenuto storico dell’ossessione di Gallian per la forza rivoluzionaria del fascismo e per la figura del duce. Del resto, l’immagine della castrazione citata per esteso nello scorso paragrafo, avrebbe dovuto di per sé rendere manifesta l’impossibilità di un semplice superamento sul piano simbolico dell’immagine del padre. Anche perché, in perfetto accordo con il fantasma masochista, l’albero non è semplicemente un simbolo fallico, ma, allo stesso tempo, un simbolo materno: «L’albero personifica da un lato la madre, dall’altro il fallo del figlio. Il membro virile rappresenta a sua volta la libido del figlio. Il taglio del pino, cioè la castrazione, designa il sacrificio di questa libido che 48

G. Deleuze, Il freddo e il crudele, cit., p. 68. Ivi, pp. 71-71. 50 «Nella misura in cui riesce a destare negli individui che fanno parte della massa i legami familiari sentimentali egli assurge contemporaneamente al ruolo di padre autoritario». W. Reich, Psicologia di massa del fascismo (1933), Torino, Einaudi, 2009, p. 68. 49

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cerca qualcosa di improprio quanto di impossibile».51 In questo caso, siamo ovviamente obbligati a riflettere sul fatto che l’incesto, che è «qualcosa di improprio quanto di impossibile», ci viene qui presentato come riuscito (nel paragrafo precedente è stato messo in evidenza come il rapporto tra Giovanni e Caterina fosse costruito dall’autore come intenzionalmente incestuoso). Nonostante Gallian volesse probabilmente caratterizzare, con ciò, la ribellione fascista come una liberazione dall’autorità paterna (qui identificata con la sottomissione all’ordine borghese), attraverso la riappropriazione della libido ad opera del figlio – libido che verrebbe poi naturalmente diretta verso la figura materna e dunque sublimata nella conquista e nella fecondazione della propria patria (su quanto di mal digerito ci fosse in questa costruzione non è il caso di discutere qui)52 – è impossibile non notare che in presenza di una regressione incestuosa la figura della madre è destinata ad assumere i tratti della madre terribile (la madre fallica), quella che incorpora in sé il senso di colpa, secondo Freud, e il timore di perdersi nelle profondità dell’inconscio indifferenziato (il «regno delle madri») secondo Jung. La presenza della madre terribile53 diventerà evidente quando Caterina, scopertasi incinta, tenterà di abortire il figlio incestuoso, che è poi, naturalmente, il figlio stesso che ha desiderato commettere l’incesto fino a regredire al grembo materno. In questa sua doppia valenza, Caterina si presta in modo mirabile a incarnare la madre al centro del fantasma masochista, che deve sovrapporre all’aspetto buono e protettivo, quello dell’amante e quello della madre terribile: «è necessario che il sistema della crudeltà sia assunto dalla buona madre, e che in tal modo sia profondamente trasformato e posto al servizio dell’ideale masochista di espiazione e di rinascita»54. Il masochismo nasconde dunque un ideale di rinascita: ecco il significato del frutto dell’incesto, del figlio partorito senza l’ausilio della figura paterna, al di fuori della funzione paterna. Alla luce di questa rinascita è inoltre possibile spiegare un 51

C.G. Jung, Simboli della trasformazione, cit., p. 412. Mi sento di escludere la possibilità che le immagini psicanalitiche siano venute fuori in modo involontario (la loro particolare evidenza in questo racconto è stata del resto il motivo, come si è detto, della scelta di porlo al centro del presente capitolo metodologico). 53 Poco prima del parto, Caterina «udì che la casa cominciava a tremare e una tela di ragno, con un ragno attaccato, le cadde sul ventre, dall’alto», cors. mio. Una vecchia perduta, cit., p. 70. Com’è noto, il ragno è una delle figurazioni tipiche della madre fallica. Cfr. K. Abraham, Il ragno come simbolo onirico (1922), in Opere, vol. 2, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, pp. 459-465. 54 G. Deleuze, Il freddo e il crudele, cit., p. 70. 52

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altro elemento estremamente ricorrente nella produzione di Gallian, in misura addirittura maggiore rispetto alle immagini masochiste, ovvero il tema della nascita, ossessivamente richiamato in presenza di situazioni traumatiche, sia palesemente, sia mediante riferimenti lessicali che non lasciano dubbi all’interprete per quantità e frequenza. Questo motivo, la nascita traumatica, con tutte le tematiche che vi sono connesse (l’abbandono coatto di spazi protetti, il sonnambulismo, la narcolessia), verrà indagato più a fondo nel terzo capitolo di questa prima parte,55 avvalendosi dell’opera di Otto Rank dedicata al trauma della nascita56 (di cui pur non condivido molti presupposti e conclusioni, che in questo autore sembrano mirare a soluzioni estremamente riduttive e semplicistiche),57 e soprattutto dello studio giovanile di Jacques Lacan sui complessi familiari.58

55

Cfr. parte prima, cap. 3, par. 4. O. Rank, Il trauma della nascita (1924), Milano, Sugarco Edizioni, 1994. 57 Rank cominciò la propria formazione psicanalitica proprio dall’analisi dei testi letterari e dei materiali mitologici. È sintomatico che il suo metodo sembri adattarsi allo studio delle composizioni narrative più che al trattamento effettivo dei pazienti. 58 J. Lacan, I complessi familiari (1938), Torino, Einaudi, 2005. 56

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5. L’immaginario grottesco Nell’introduzione alla raccolta di racconti Quasi a metà della vita,59 del 1937, nel corso di un excursus onirico sul suo passato, Gallian ricorda: «paesaggi affioravano illuminati a fuoco che credevo sepolti per sempre: la bara nella quale ero rimasto disteso nel monastero di Firenze il giorno della mia vestizione a monaco e dei voti semplici». In questo caso, la permanenza all’interno di un luogo chiuso, una tomba addirittura, precede la fuga dal convento verso il mondo e verso la vita (da qui comincia l’avventura fiumana coi legionari di D’Annunzio). L’uguaglianza della tomba e del ventre materno, tipica di un pensiero ossessionato dalla nascita e dal suo opposto regressivo (i due temi trovano un punto di incontro nella nascita mancata come condizione permanente di vita – è questa in fin dei conti l’essenza del trauma della nascita secondo Rank – condizione che in Gallian, come vedremo, andrà a sovrapporsi all’idea di rivoluzione mancata),60 non è però un’immagine che possiede unicamente riferimenti psicanalitici, ma si lega bensì ad una lunghissima tradizione folclorica e letteraria europea, ovvero quella indagata da Michail Bachtin nel suo celebre libro su Rabelais,61 cui si è già accennato nel terzo paragrafo a proposito di una scena dal gusto necrofilo (Giovanni possiede Caterina agonizzante, e così le restituisce la vita). La definizione di «realismo grottesco» elaborata da Bachtin per designare le manifestazioni letterarie (naturalmente in primis l’opera di Rabelais) che riprendono tematiche e immagini della cultura popolare legata al carnevale, sembra in molti casi fornire una chiave interpretativa eccellente per la narrativa e l’immaginario di Gallian. Basti pensare a quelle che Bachtin indica come figure tipiche di questo stile, ovvero le immagini doppie – quelle in cui gli opposti si toccano e in essi l’origine e la fine della vita: vecchi che sembrano bambini e viceversa, donne decrepite amanti e addirittura pregne, la sovrapposizione tra il grembo che genera e la tomba che assorbe.

59

M. Gallian, Quasi a metà della vita, Firenze, Vallecchi, 1937. Cfr. parte prima, cap. 4, par. 3. 61 M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, cit. 60

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Contrariamente alle esigenze dei canoni moderni, l’età di questo corpo è sempre avvicinata il più possibile alla nascita o alla morte: l’infanzia e la vecchiaia, con l’accento messo sulla loro vicinanza al ventre e alla tomba, al grembo che ha generato e che ha inghiottito. Ma tendenzialmente (al limite, per così dire), questi due corpi si riuniscono in uno solo. La loro individualità è qui espressa allo stadio della fusione: è già agonizzante ma ancora incompleta; questo corpo è nello stesso tempo, al limite della tomba e della culla; non è più un corpo solo, ma non sono ancora due corpi; in esso continuano a battere sempre due polsi: uno di essi, quello della madre, sta per fermarsi.62

Il polso della madre «sta per fermarsi». Non è questa esattamente la condizione in cui si trova Caterina, donna già matura (e brutalmente designata come “vecchia” fin dal titolo), quando ancora porta la sua creatura in grembo? Non è la gerontofilia che ossessivamente ritorna nell’opera di Gallian, un’espressione di questa unione dei contrari, del giovane e del vecchio? Nel successivo romanzo Tempo di pace, del 1934, Gallian arriverà ancora più vicino all’identificazione tra il ventre e la tomba («la terra è la culla e la tomba: come un sotterrato vivo il nascituro annaspa per uscire dal ventre materno»63, ha scritto Silvana Cirillo a proposito di Nascita di un figlio,64 con riferimento proprio alla tendenza di Gallian verso il grottesco), quando la giovanissima Margherita, incinta per essere stata sedotta dal suo vecchio tutore e aguzzino Pietro, verrà da costui uccisa e sepolta in una buca col ventre ancora palpitante.65 Una madre bambina, morta, nel buio di una tomba con in grembo un figlio vivo. Naturalmente, nell’orrore di questa immagine è possibile anche misurare tutta la distanza che separa il grottesco di Gallian da quello di cui parlava Bachtin. Per quest’ultimo, al centro della percezione carnevalesca del mondo sta sempre l’idea del tempo ciclico che nello stesso istante genera e annienta e annienta per generare, un tempo che non è mai solo distruttore e che non viene percepito in senso nichilistico ma con un profondo sentimento di gioia e ilarità per la

62

Ivi, p. 32. S. Cirillo, L’espressionismo drammatico di Marcello Gallian, in Nei dintorni del surrealismo, Roma, Editori Riuniti, 2006, pp. 71-85: 82. 64 M. Gallian, Nascita di un figlio, in «A e Z», II, n. 9, 10 gennaio 1929, p. 3. 65 M. Gallian, Tempo di pace, Roma, Edizioni di “Circoli”, 1934, pp. 179-184. 63

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continuazione della vita attraverso il mutare delle forme: «Il principio materiale della vita che cresce inesauribile, indistruttibile, sovrabbondante, principio eternamente ridente, che tutto sconsacra e rinnova […]». Del resto, è lo stesso Bachtin a dirci che nella sua lenta evoluzione l’imagerie grottesca finisce per smarrire i propri legami con questa concezione positiva e gioiosa della vita, per conservarne, nel Novecento, soltanto la terribilità espressa in emblemi luttuosi ormai divenuti estranei. Eppure, e proprio su questo punto insiste Bachtin nel suo confronto con i teorici contemporanei come Kayser,66 le immagini grottesche conservano sempre, anche se criptato, un legame con la loro origine, con uno sfondo senza il quale non possono essere adeguatamente comprese: Tutto il campo della letteratura realistica negli ultimi tre secoli del suo sviluppo è letteralmente disseminato di frammenti del realismo grottesco, che a volte non sembrano solo frammenti, ma si mostrano capaci di esprimere una nuova vitalità. Essi, nella maggior parte dei casi, sono delle immagini grottesche che hanno perduto o hanno indebolito il loro polo positivo, il loro legame con il tutto universale del mondo in divenire. È soltanto sullo sfondo del realismo grottesco che è possibile comprendere il vero valore di questi frammenti o di queste formazioni semivive.67

Chiunque abbia letto anche solo qualche brano della narrativa di Gallian, e in particolare delle sue prime opere, si renderà subito conto della presenza massiccia di questo genere di figure: innanzitutto l’apparire di esseri in cui vecchiaia e giovinezza sono sovrapposti, ad esempio bambini che sembrano vecchi e vecchi che appaiono bambini (come accade in Vita di sconosciuto e nella Donna fatale – che saranno trattati diffusamente nei prossimi capitoli), per non parlare di alcune pantagrueliche (appunto) descrizione di banchetti. In molti casi queste scene non appaiono segnate, come avviene nel finale di Tempo di pace, da un senso irredento di morte e di orrore,

66 67

M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, cit., pp. 54-60. Ivi, p. 30.

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ma sono molto più vicine a quell’impulso di rigenerazione della vita così tipico del carnevalesco medievale.68 Quello che importa qui, non è tanto il discorso stilistico – che verrà preso in considerazione diffusamente nei prossimi capitoli – quanto il riallacciarsi della carica propulsiva delle immagini grottesche all’auto-decostruzione del racconto Una vecchia perduta, le cui rovine ci mostrano un’ulteriore possibilità di lettura, stavolta legata all’emergere di frammenti culturali di una concezione del mondo sottostante da sempre a quella ufficiale, ovvero la visione carnevalesca. In altri termini, l’immagine della donna matura sessualmente congiunta con il ragazzo, il suo rimanere incinta e partorire un figlio, posseggono l’iscrizione di un residuo eversivo, che per sua natura, non diversamente dai frammenti di una lettura psicanalitica, scardina la costruzione ideologica dell’allegoria propostaci a livello superficiale dall’autore. Le immagini doppie, «il basso corporeo», la negazione dell’unità “classica” dell’individuo si oppongono infatti a qualsiasi visione unilaterale del mondo, a qualsiasi forma di autoritarismo, di ordine, di negazione della molteplicità. Come potrebbero queste immagini conciliarsi con l’ascesa al potere del regime fascista? Come potrebbe l’unione di Giovanni e Caterina concludersi con le acclamazioni di Piazza Venezia? Così come il figlio che Giovanni porta con sé al raduno fascista non è il figlio della rivoluzione ma una figura del ritorno fantasmatico del padre, anche le “figure doppie” di cui si è servito l’autore del suo racconto non trovano alcuna conciliazione con la sua ideologia manifesta.69

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«L’anello di congiungimento con la terra, col cosmo e con la vita si stabilisce proprio attraverso il corpo e le continue metamorfosi, che in esso operano». S. Cirillo, L’espressionismo drammatico di Marcello Gallian, cit., p. 83. 69 «È invece proprio nella distruzione di ogni unilateralità, nell’articolazione degli opposti, nello smascheramento degli aspetti consueti del mondo, che si esprime il momento polifonico, gioioso, carnevalesco della cultura popolare», afferma G. Guglielmi a proposito dell’opera di Bachtin; Il romanzo e le categorie del tempo, in La prosa italiana del novecento, vol. 1, Torino, Einaudi, 1986, p. 15.

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6. Leggere l’insopportabile

«Espiazione e rinascita»: non è forse questa una via privilegiata (quanto fantasmatica) di rendere il reale «sopportabile»? Nel 1979 Goffredo Parise scrive L’odore del sangue, poi rimasto nel cassetto fino a poco prima della sua morte (sopraggiunta nel 1986), e in fine pubblicato postumo nel 1996. La trama di questo romanzo, che molti decenni separano dal racconto di Gallian, presenta tuttavia vari elementi in comune con Una vecchia perduta. Innanzitutto la vicenda: Silvia, una donna di cinquant’anni (Caterina ne ha 49), borghese della Roma bene, moglie di uno psicanalista affermato, ha una relazione autodistruttiva con un giovane fascista appartenente agli ambienti del terrorismo nero degli anni Settanta. Com’è chiaro fin dall’inizio del romanzo, il rapporto tra la “vecchia” e il giovane fascista è destinato a condurla sempre più al fondo di un abisso di degrado, soprusi e in fine alla morte. In realtà, per quanto riguarda la superficie del testo, le due opere non potrebbero essere più diverse. Tutto le separa: lo stile, l’ambientazione, i personaggi, nonché un notevole elemento strutturale, visto che ne L’odore del sangue la narrazione è fatta in prima persona dal marito di lei, Filippo. Eppure, c’è qualcosa che sembra legarli, qualcosa che lascia supporre che il loro accostamento possa essere fruttuoso ai fini dell’interpretazione, come se l’uno possedesse importanti tasselli dell’altro. Dirò subito che il terreno su cui è possibile confrontarli è innanzitutto l’immaginazione masochista che li ha generati. Nel romanzo di Parise l’intera vicenda è una costruzione masochista del marito, che alla fine non manca di riconoscere di essere il vero mandante dell’omicidio. Tutto nella sua vita concorre alla costante negazione della figura paterna: l’essere orfano, la mancanza di figli, l’incapacità di instaurare un rapporto maturo con le donne, insomma l’incapacità di smettere di essere soltanto un figlio, un figlio che in se stesso nega l’esistenza del padre. Un figlio che instaura però un gioco perverso: con le sue assenze, i suoi tradimenti, le sue morbose curiosità, si pone come il vero artefice della folle caduta della moglie, delle sevizie cui viene sottoposta nel rapporto incestuoso con il giovane che ella stessa vede costantemente come il figlio che sempre avrebbe voluto. Ancora una volta dunque, il ritorno del figlio mostruoso: il fantasmatico ritorno della 40

terribile e crudele autorità paterna all’interno del figlio. Attraverso la sua ossessione per il tradimento della moglie, attraverso le descrizioni dettagliate che si compiace di ascoltare, Filippo punisce in sé la figura del padre che lo ossessiona. Ma quest’ultimo, il principio dell’autorità e della violenza, non viene annullato, si incarna nel brutale fantasma del “kouros” fascista, in fin dei conti l’unico frutto possibile dell’unione incestuosa con la moglie-madre, in cui è egli stesso a rinascere ma solo come mandante dell’omicidio. Il “kouros” omicida, il figlio mostruoso, il «capo» cui inneggia Giovanni alla fine della sua vicenda non sono che immagini del ritorno di un padre terribile che si era creduto di poter annullare sul piano simbolico (in vano, come ricordava Lacan citato da Deleuze). Nei suoi contorni allucinatori è possibile scorgere il contenuto “storico”, scoperchiato, di queste ossessioni, ovvero il pericolo che i singoli e le masse perennemente corrono di assoggettarsi a un’autorità crudele e violenta, senza riconoscere nelle figure che li dominano le forze dell’economia come mandanti della violenza stessa e quelle della funzione paterna da cui avevano creduto di liberarsi. Completamente ignaro rimarrà di tutto ciò Giovanni, così come ignaro rimane, in fin dei conti, Filippo, capace sì di sentire la propria colpa (ma non è solo l’ennesimo inganno del circolo vizioso del masochismo, che sempre alla fine ripropone il ritorno del rimosso?) per la morte di Silvia, ma non l’origine che essa trae da uno stile di vita completamente arreso all’oblio borghese dei meccanismi economici (è lo stesso establishment da cui Filippo trae il proprio benessere ad armare il terrorismo nero) e delle coazioni psichiche. Detto in altri termini: il borghese che si rifiuta di crescere, che sfrutta il benessere economico per condurre una vita fatua, divisa fra relazioni extraconiugali narcisisticamente esibite e un rapporto unicamente filiale («platonico» lo definisce lui) con la moglie, non è la preda perfetta del maleficio totalitario, così come lo è il ragazzo Giovanni incestuoso e ribelle di Una vecchia perduta (in questo senso davvero controfigura perfettamente coincidente col suo autore)? Anche nel romanzo di Parise ci si ripropone, in modo emblematico, l’immagine della “rovina”: Con difficoltà mi avvicinai e vidi che si trattava di uno dei tanti padiglioni dell’immenso tempio disseminato nella foresta, tralasciato dall’organizzazione turistica forse

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per l’eccessiva difficoltà di raggiungerlo. Si trattava di uno stupa, letteralmente fagocitato dalla vegetazione. Gli alberi, le liane, non stavano soltanto attorno alla costruzione, piena di piccole e grandi figure di Budda, ma in mezzo, dentro le sculture, così che, come la scultura stessa con stagioni, piogge e la forza potente della natura era finita essa stessa per diventare una liana, allo stesso modo la liana per stagioni, piogge la forza potente dell’arte era diventata una scultura,

con

delle

sembianze,

dei

tratti,

insomma

un’espressione modellata, si sarebbe detto, modellata essa stessa dalla mano dell’uomo.70

Filippo, che si è perso nella giungla (siamo agli inizi della vicenda, prima dell’inizio della relazione extraconiugale della moglie), assiste a questa visione come a un’epifania di morte. Completamente sconvolto, credendo di essere ormai perduto, pensa all’unione inestricabile tra sé e Silvia, e si domanda chi dei due sia la liana e chi la statua.71 Eppure, il significato di questa immagine, se traslato a un livello più profondo, non raffigura, nella rovina, il puro solipsismo della mente che si appresta a vivere il fantasma masochista, per la quale “l’altra”, la moglie, è solo uno strumento, un qualcosa di espunto, di già lontano e inafferrabile, così come non c’è mai coppia platonica propriamente detta, ma solo la solitudine dell’amante che deve rimanere non corrisposto per poter progredire verso l’ideale? «L’amante è più divino dell’amato, poiché il suo amore deve rimanere sempre non corrisposto, poiché il suo amore è soltanto una via per l’autoperfezione».72 Il marmo scolpito, l’opera dell’uomo, la forza della sua razionalità e l’emergere incoercibile della potenza della natura, non sono l’immagine stessa di una vicenda, di una narrazione in cui è uno solo a costruire le proprie ragioni, la propria storia, ma nel mentre ce le offre non può evitare che queste continuino a franare, a decostruirsi, a lasciar emergere ciò che sta nel profondo? E non è proprio in questa emersione, nella sua azione sempre contemporanea alla costruzione, che l’interprete può cogliere un contenuto di verità (per tornare al Benjamin da cui sono

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G. Parise, L’odore del sangue, Milano, Bur, 2006, p. 24. «Altrettanto inestricabile, altrettanto unita e mostruosa è la coppia platonica: una sola persona in due, un intreccio di liane e di pietra», commenta Cesare Garboli nella prefazione, ivi, p. X. 72 G. Lukács, L’anima e le forme (1910), Milano, SE, 2002, p. 148. 71

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partito), un elemento che lega la storia alla Storia, la psiche individuale a quella collettiva, la vicenda privata alle forze dell’economia? Per concludere questo ragionamento è però necessario riequilibrare il peso conoscitivo del rapporto che è possibile instaurare con il testo, che a questo punto pare troppo sbilanciato dalla parte dell’interprete, di fronte al quale l’autore sarebbe solo un attore inconsapevole che inconsapevolmente consegna le tracce che egli stesso non è in grado di comprendere. In realtà, la passività che la costruzione narrativa sembra assumere se sottoposta a una simile lettura, è vicina a quella «passività per così dire positiva» degli abitatori delle rovine su cui riflette Simmel nel suo saggio già preso in esame: «le rovine cittadine ancora abitate, che capita di vedere spesso in Italia a fianco delle grandi strade». In questo caso, certo, è comunque la natura a condurre, con forza inesorabile, la distruzione dell’opera dell’uomo, Ma essi [gli abitatori delle rovine] lasciano che la loro opera vada in rovina. Dal punto di vista dell’idea dell’uomo, questo lasciar accadere è comunque una passività per così dire positiva: l’uomo si fa complice della natura, di un suo modo di operare che è direttamente contrapposto all’essenza propria dell’uomo.73

Ecco, se una lettura come quella appena terminata è lecita e possibile, è solo perché sono gli autori stessi che «lasciano che la loro opera vada in rovina», o meglio, è il testo in sé ad andare in rovina per sua forza interna, a rendere giustizia, dunque, anche a quei contenuti – terribili e liberatori a un tempo – rimasti bloccati in profondità.

73

G. Simmel, Le rovine, cit., p. 109.

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CAPITOLO 2

Costruzione ideologica ed eversione formale

1. Prospettive di analisi: Bassofondo e l’eversione della trama.

La ripetizione ossessiva di una ristretta serie di temi e figure è certamente la caratteristica più evidente della narrativa di Marcello Gallian. Il che evidenzia una tendenza ad abbandonarsi, nell’atto della scrittura, ai propri impulsi più intimi, riducendo al massimo lo spazio della programmazione, della costruzione, insomma il controllo razionale sulla materia. Naturalmente, ciò si riflette in un’evidente insofferenza verso l’architettura ben congegnata della trama, e va a ridurre la varietà tematica e formale – che non può che derivare dallo sforzo di confrontarsi con la molteplicità del mondo. Non bisogna d’altra parte cadere nell’errore di dare per scontato che una ripresa ossessiva sia di per sé un difetto, laddove una varietà ben costruita e orchestrata comporterebbe una maggiore qualità artistica. Nel caso di Gallian è necessario tuttavia notare che, proprio nei casi in cui sembra controllare maggiormente la propria scrittura, arginando in qualche modo il suo vulcanico immaginario, riesce a toccare livelli di più alta intensità, comunicando al lettore la profondità di un mondo interiore che altrove appare soffocato dallo straripare della materia. Mi sembra incontestabile che Gallian abbia sempre mostrato una grande abilità nel nascondersi con tanta più foga, quanto più sembra gettare in faccia al lettore tutto se stesso, senza ritegno. Eppure, esistono non pochi luoghi nella sua vasta produzione, in cui ha cercato di dare vita a sequenze narrative più distaccate, più “fredde” verrebbe da dire (e l’aggettivo può essere giustificato per opposizione al “calore” che risulta invece quasi ovunque predominante), il che capita poi con una 44

certa frequenza nei racconti brevi prodotti per la stampa periodica e nei pezzi più dichiaratamente autobiografici e diaristici. Non sembra allora azzardato, volendo qui apprestarsi a un’analisi del modo del tutto peculiare e antirealistico che egli ha di costruire le narrazioni, prendere avvio proprio da uno di quei luoghi cui si è appena fatto cenno, grazie al quale sarà forse possibile ottenere una serie di chiavi di lettura particolarmente efficaci. Non comincerò dunque dal primo romanzo di Gallian, che risale al 1929 ed è intitolato significativamente La donna fatale. In quest’opera, sulla quale mi soffermerò più diffusamente nel prossimo capitolo, viene subito in superficie, con la massima evidenza, un immaginario che weinengerianamente tende a declinare la donna secondo il tipo della prostituta o della madre, arrivando però ad una sovrapposizione pressoché universale delle due figure, il che va in una direzione radicalmente opposta rispetto alla misoginia nichilista del filosofo austriaco. La donna appare allora come un vulcanico ammasso di carne, di parti irrelate tenute insieme da un tessuto di sensualità esasperata; ma allo stesso tempo è sempre pronta a trasformarsi in un essere salvifico in grado di guidare gli uomini alla rivolta contro gli aspetti più gretti e mortiferi dell’esistenza – ed è questo il caso del dramma La scoperta della terra,1 del 1930 (scritto dunque a breve distanza dal romanzo), dove una prostituta/madre che si dona senza chiedere in cambio denaro, spinge i suoi amanti/figli, gli operai di una miniera d’oro del Transvall, a spezzare l’immutabilità della loro misera esistenza per inseguire la rivolta e poi un’impossibile redenzione. Non a caso, anche ne La donna fatale ci imbattiamo in una casa di tolleranza dove le donne esercitano il mestiere per il puro piacere di donare amore a tutti, rifiutando di sottomettersi al meccanismo della merce, anche se nel caso di questo romanzo non si sta parlando di rivoluzioni, ma semmai del modo di ricondurre il caos della femminilità all’ordine della forza e del dominio maschile.2

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M. Gallian, La scoperta della terra, in «Eurostudium», n. 17, ottobre-dicembre 2010, pp. 182-223. Il dramma andò in scena il 27 giugno del 1930; il primo atto fu pubblicato sul numero del 30 giugno della rivista «Oggi e domani» (n. 11, pp. 5-6), ma, in seguito all’intervento della censura, il secondo e il terzo atto sono rimasti inediti fino alla pubblicazione su «Eurostudium», il cui testo è una trascrizione da me condotta a partire dai dattiloscritti originali conservati presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia. 2 Si veda a tal proposito il prossimo capitolo; non si può tuttavia evitare di precisare subito che tale tentativo è destinato a fallire in partenza, già nel corso di questo romanzo, che come tutte le opere di Gallian non riesce a evitare la deflagrazione degli intenti iniziali.

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Volendo dunque scegliere, per avviare la presente analisi, uno di quei momenti di maggiore intensità cui si faceva cenno all’inizio di questo paragrafo, prenderò in esame gli ultimi 4 capitoli del romanzo Bassofondo, la cui pubblicazione, avvenuta nel 1935, fu subito bloccata dalla censura, che ne permise l’uscita solo con un titolo diverso, In fondo al quartiere, e a costo del sacrificio proprio di quei quattro capitoli di cui mi occuperò qui.3 Non è difficile immaginare l’impressione che questi quattro capitoli dovettero fare ai censori. Innanzitutto, appaiono completamente avulsi dal resto del romanzo, al punto da risultare estremamente stranianti per il lettore (e vale la pena ricordare che saranno stati davvero in pochi ad averli letti, da 76 anni ad oggi), che si ritrova a dubitare di aver mancato qualche passaggio capitale, tanto da non riuscire più a capire che stia succedendo e chi siano i personaggi improvvisamente comparsi alla ribalta. Insomma, in questo caso l’operato dei censori paradossalmente appare perfino ragionevole, equiparabile a ciò che avrebbe fatto un qualsiasi editor. In breve, la trama di Bassofondo fino al capitolo diciannovesimo (dove effettivamente finisce la versione censurata), è una rielaborazione più accurata e meno schematica del racconto lungo Una vecchia perduta, del 1933, di cui mi sono occupato nel primo capitolo di questa sezione. Il fulcro della storia è infatti ancora una relazione tra un giovane ragazzo di strada e una donna matura, “una vecchia”, anche se il tutto non è concepito come una piatta allegoria della presa del potere da parte del fascismo, ma viene costruito con maggiore profondità e verosimiglianza dei personaggi. Lisa Matrona è una merciaia di un quartiere popolare della capitale, di cui sappiamo che ha 49 anni, è vedova e ha dei figli grandi chissà dove (non entreranno mai in scena). Del ragazzo, Giovanni Timorato Dio, veniamo a sapere che ha sedici anni ma «ne dimostra venti, tanto è alto e grosso e forte».4 La collusione con la forza vitale del ragazzo rivoluzionario avrà logicamente effetti dirompenti sul mondo fatto di stanche abitudini e giorni sempre uguali della donna. Eppure, stavolta 3

M. Gallian, Bassofondo, Milano, Panorama, 1935. Fortunatamente, alcune copie della versione non censurata fecero in tempo ad arrivare presso gli archivi della Biblioteca Nazionale di Roma e di quella di Firenze, dove sono tuttora reperibili. È da notare che il titolo originariamente prescelto coincide con quello di un dramma di Gor’kij del 1902, noto in Italia come Bassifondi o anche come L’albergo dei poveri (recentemente pubblicato da Barbès Editore, Milano, 2009; a proposito di questo tema cfr. parte prima, cap. 4, par. 3), e con quello di una novella di Andreev – autore allora notissimo in Italia – tradotta con il titolo Bassi fondi e pubblicata dalle Edizioni dell’Avanti! a Milano nel 1922, insieme ad altri due racconti dell’autore. 4 M. Gallian, Bassofondo, cit., p. 51.

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non sarà neppure il ragazzo a uscire vincitore. Propriamente, a vincere non sarà nessuno dei due: Lisa attraverserà un progressivo ringiovanimento e romperà il tessuto monotono della propria vita, ma andando verso un narcisismo e un edonismo senza sbocchi, come in una parvenza affettata di giovinezza; Giovanni, dal canto suo, si farà sempre più risucchiare nell’indolenza dell’esistenza borghese. Entrambi appariranno insomma intraprendere un percorso negativo e frustrante. Sennonché, allo scoccare del capitolo ventesimo, senza alcun apparente motivo, ci ritroviamo proiettati su un piano temporale diverso, in uno scenario improvvisamente mutato. Il capitolo diciannovesimo si era chiuso con la rappresentazione barocca di una scena artificiale e immobile: Clelia, la vanesia moglie del macellaio (uno dei bottegai della strada dove si trova la merceria di Lisa), si sta facendo ritrarre in costume attorniata da oggetti di pessimo gusto e da comparse esotiche, il tutto affastellato in modo caotico. Vale la pena citare per esteso, anche per rendere ancora più evidente lo stacco con il capitolo successivo: C’è odor di lezzo, di divano troppo usato che fa laniccio, di tappeto che svapora, di tutte quelle cose, di legno, di latta, di ferro. Il pavone cade dal ramo e fulminea la serva lo riposa nuovamente, lo lega con le zampe: lui ricade e gira attorno, fa le capriole sul pernio del ramo. Lo fissano con uno stecco, lo punzonano dietro la coda. Odor di stiva, di perdizione, di ridotto di teatro: dal tappeto salta via un cane, sparisce sotto la porta. Ma quella legge è inflessibile: il cinese sta per morire, sereno, con gli occhi aperti; il negro sopporta il peso di tutto il suo corpo, di tutto il suo sangue. Una cupa immobilità; un’aria bassa di fiato circola a stento, tutto invecchia. Il quadro è quasi finito. All’ultimo colpo di pennello, il cinese abbassa il capo, tocca con la fronte i piedi, distende la mano come un giocoliere; il negro si capovolge, affranto; altri sbanda, tutto precipita. Il pittore dorme, ora. Immobile, grossa, larga, giovane, Clelia, la regina, avrebbe voglia di passarsi una mano sugli occhi: ha dormito

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quando ha voluto, ha mangiato, lo stomaco è sazio; fra poco si laverà il viso.5

Questa descrizione appare davvero tipica dello stile di Gallian: paratassi esasperata, costruzioni nominali, aggettivazione per lunghi tratti assente, poi improvvisamente abnorme, il tutto tenuto insieme in modo frammentario, con procedimento prettamente espressionista, se consideriamo come caratteristica fondamentale di questo tipo di scrittura l’accostamento di frammenti con effetto allegorico.6 Più avanti mi occuperò con più attenzione delle particolarità stilistiche. Per ora è importante cogliere lo stacco con la scena immediatamente successiva: «Giovanni se ne stava ora tutto il giorno stravaccato sulla branda che gli era stata concessa, inerme ed immoto: docile per un istintivo bisogno di riposo enorme che gli proibiva la considerazione di ogni movimento e persino di ogni rancore».7 Giovanni, il “ragazzo selvaggio”, il rivoluzionario che avrebbe dovuto ringiovanire e vivificare la vecchia e borghese Italia, lo ritroviamo dunque, improvvisamente, «inerme ed immoto», privo di rancore. Non si è tuttavia risvegliato come era solito fare nel retrobottega di Lisa, bensì nella stanza di una casa di tolleranza della capitale, dove vive da mantenuto della padrona, molti anni dopo. Da giovane rivoluzionario ad amante di una tenutaria di bordello («il ganzo della padrona insaziabile»). Il sonno che lo grava, del resto, non è un elemento di poco conto nell’economia narrativa di Gallian: si tratta di un tema praticamente onnipresente nella sua opera, che va a collegarsi al nodo – cui ho fatto cenno nel precedente capitolo e sul quale ritornerò – del trauma della nascita. Ma non è questo il momento di parlarne, visto che non è Giovanni il protagonista di questo finale di romanzo, e neppure la sua amante, la padrona Enrichetta, che ha ormai preso il posto di Lisa (anche lei è anziana e con grande differenza di età nei confronti di lui; è inoltre la classica borghese attaccata ai soldi e al quieto vivere). La nuova protagonista entra in scena con un annuncio estemporaneo, all’inizio del ventunesimo capitolo, andando a sostituire Giovanni che da questo momento in poi sparirà dall’azione: «Quando arrivò il cambio di Armanda Zanardelli

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Ivi, p. 275. Cfr. cap. precedente. 7 M. Gallian, Bassofondo, cit., p. 279. 6

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che partiva per Palermo, la padrona andò su tutte le furie».8 Il “cambio” è la ragazza nuova destinata a rinnovare i motivi d’interesse tra i frequentatori del bordello, poiché, si sa, anche nella varietà dei rapporti mercenari può dopo un po’ subentrare la noia, e solo l’introduzione continua di novità, di “cambi”, può mantenere sempre vivo il desiderio e tenere alti i ricavi. Del resto, per un’esistenza estremamente monotona come quella della borghesia cittadina quale è descritta da Gallian, la “rotazione” delle ragazze è destinata a essere uno dei pochi fattori di novità.9 È così, dunque, che entra in scena lei: «è arrivato il cambio, – gridò rauca ancora: – mi hanno tradita: va a vedere che razza di donna hanno mandato: un grosso ragno che fa paura. Una mondana della buona morte. […] Si chiama Marga Lupino».10 Perché Gallian affida le ultime battute del romanzo a questa figura che non ha nulla a che fare con quanto precede? Intanto, Giovanni, il personaggio che in modo manifesto fin dall’inizio costituisce il doppio del narratore, sparisce senza lasciare traccia. Entra Marga, e Giovanni si dissolve. Marga. Margal era lo pseudonimo utilizzato da Marcello Gallian per firmare le sue cronache teatrali su «Roma Fascista» nella seconda metà degli anni Venti, composto dalle prime tre lettere del nome e del cognome. Questo non può naturalmente essere un caso, soprattutto se si tiene conto del fatto che Marga non è certo un nome comune, ed è comunque impossibile che il richiamo quasi letterale al vecchio pseudonimo non fosse significativo. Non appare dunque azzardato ipotizzare che la funzione del doppio non vada perduta, ma trapassi semplicemente da Giovanni, il ragazzo selvaggio onnipresente nella narrativa di Gallian, a Marga, la prostituta misteriosa che le ultime pagine di questo romanzo, per altro prive di qualsiasi avvenimento esteriore, tenteranno incessantemente – si direbbe quasi disperatamente – di definire. Il narratore non sembra sapere chi è Marga. Comincia a immaginare i suoi pensieri, a cercare di portare alla luce i segreti della sua anima, le sue aspirazioni, i suoi ricordi, i suoi desideri. Ma ne risulta una descrizione contraddittoria, incerta, che è forse accostabile soltanto a un’altra figura di donna – un’altra prostituta – comparsa in un

8

Ivi, p. 287. Non stupisce che questa “rotazione” possa costituire un perfetto innesco narrativo per un racconto di quegli anni: si pensi a Il garofano rosso di Elio Vittorini. 10 M. Gallian, Bassofondo, cit., p. 292, cors. mio. 9

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altro luogo dell’opera dello scrittore romano, sempre appartenente a questo periodo, la metà degli anni ’30, per molti versi decisivo per la sua vicenda artistica ed esistenziale, decisivo perché portatore di un evento destinato a fare da spartiacque. Una morte simbolica, uno di quei crinali di passaggio che è impossibile non riconoscere come tali quando ci si trova ad affrontarli. Marga è allora non solo un doppio, ma anche una messaggera giunta da lontano per comunicare un «fatto enorme» (espressione usata moltissime volte da Gallian). Un fatto luttuoso, certo, anche perché la prima manifestazione di chi ne reca l’annunzio è «un grosso ragno che fa paura», immagine della madre terribile, della regressione, del pericolo mortale che minaccia tutti i grandi momenti di morte e rinascita.11

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Per la figura onirica del ragno si è già citato nel capitolo precedente Il ragno come simbolo onirico di Karl Abraham. Per la madre come pericolo mortale, incombente su tutti i grandi momenti di passaggio della vita, si veda C.G. Jung, Simboli della trasformazione, parte seconda, cap. 7, La doppia madre, cit., pp. 301-383.

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2. Il personaggio della donna perduta: identificazione e rovesciamento

Su una donna di malaffare, un giro del mondo può non lasciare impressioni, come su certi naviganti e capitani di lungo corso che, scaricati passeggeri o mercanzie, se ne tornano all’ostello natio o alla città di provenienza. In fondo Marga Lupino era una sedentaria che poteva aver girato il mondo in lungo e in largo, da cima a fondo, sbattuta ai quattro cantoni d’una stanza che risultava essere alla fine il pianeta.12

La «donna di malaffare» è una figura che ha polarizzato l’immaginario collettivo fin dalla nascita della cultura di massa – basti pensare ai romanzi d’appendice ottocenteschi.13 Come afferma Benjamin nel Passagenwerk, all’interno della sezione che associa prostituzione e gioco d’azzardo: «L’amore per la prostituta è l’apoteosi dell’immedesimazione nella merce».14 Ma allora la prostituta come personaggio narrativo diventa una delle chiavi d’accesso più significative alla conoscenza della condizione dell’uomo immerso nell’epoca del capitalismo in piena espansione: uomo e merce, donna (corpo) e merce. È logico dunque che questa figura, per quanto usata con intenti moralistici o scandalistici, non possa che essere dotata di una forza demistificante, almeno agli occhi di chi si accinge all’analisi in cerca di elementi sedimentati in profondità. Alla metà degli anni Trenta, le figure di prostitute entrate nell’immaginario di massa grazie all’influsso della letteratura, del teatro e soprattutto del cinema, erano ormai moltissime. L’espressione di largo uso “donna perduta” ad esempio, che a proposito di Marga Gallian usa varie volte in questi brevi capitoli, non poteva che richiamare alla mente uno dei film più celebri di Georg Wilhelm Pabst, ovvero Il diario di una donna perduta del 1929,15 dove il regista austriaco racconta la perdizione di una ragazza ingenua e di buona famiglia che, caduta vittima di uno stupro, non può che precipitare verso il bordello. La società, con le sue inflessibili e 12

M. Gallian, Bassofondo, cit., p. 297. Cfr. P. Brooks, Il marchio della bestia. Prostituzione, narrazione, romanzi a puntate, in Trame, Torino, Einaudi, 2004, pp. 153-181. 14 W. Benjmain, I «passages» di Parigi, cit. p. 572. 15 Das Tagesbuch einer Verlorener fu una autoproduzione di Georg Wilhelm Pabst, ed uscì nelle sale in Germania il 15 ottobre del 1929. 13

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ipocrite regole, non lascia scampo a chi esce fuori dai suoi tracciati, anche contro la propria volontà. Thymian, una Louise Brooks all’apice della carriera, è la figlia di un farmacista vedovo incapace di opporsi alla volontà malvagia della cameriera divenuta sua amante, che ovviamente brama scacciare la propria rivale (è lo schema fiabesco tipico della matrigna e della figlia orfana di madre). Quando quest’ultima, essendo stata violentata, rimane incinta, viene inflessibilmente allontanata dalla casa paterna e rinchiusa in un riformatorio femminile, gestito da due personaggi sadici e grotteschi. Fuggita con l’aiuto di un suo vecchio ammiratore, un conte dissoluto e diseredato, buono a nulla e dunque emarginato dal contesto sociale proprio come lei, Thymian non può che finire in un bordello e cominciare a fare il “mestiere”. Il film ovviamente fece scandalo, ma non per la parabola della corruzione che esso traccia. Il regista si premura infatti di inserire il tutto all’interno di una solida struttura melodrammatica: la “perdizione” della fanciulla non avviene per un gesto volontario o per un cedimento, bensì in seguito a una violenza subita; inoltre, Thymian si dimostra il classico personaggio della “prostituta dal cuore d’oro”,16 perdonando la propria matrigna ormai caduta in miseria e donando alle sue piccole sorellastre la somma che aveva ereditato dal padre. Per finire, ci sarà anche la riabilitazione, in quanto la protagonista verrà adottata dal nobile zio del giovane scapestrato che l’aveva aiutata e persino sposata (e che era poi finito suicida). A fare scandalo, si diceva, non è tuttavia la storia in sé, quanto il fatto che Pabst, come in molti altri suoi film, rappresenti la vita borghese come un incubo insopportabile, un misto di banalità e malvagità, in contrasto con il paradossale vitalismo che caratterizza l’esistenza delle prostitute. Le scene di festa nel bordello catturano l’attenzione dello spettatore come una specie di oasi di salvezza dopo le cupe atmosfere della casa paterna e i sadici (e quasi gotici) interni del riformatorio. Lo stesso avviene in film come Crisi e Lulù,17 sempre di Pabst, in cui i luoghi allegri della vita notturna, per quanto perturbanti e forieri di perdizione, non possono che apparire le uniche vie di fuga da una vita mortificante e senza riscatto. 16

Per un’analisi di questa figura, nonché per una critica del film di Pabst, si vedano i classici volumi di S. Kracauer, Da Caligari a Hitler, una storia psicologica del cinema tedesco (1947), Torino, Lindau, 2007, pp. 223-238, e L. Eisner, Lo schermo demoniaco (1952), Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. 205-210. 17 Crisi, il cui titolo originale è Abwege, è del 1928; Lulù, o Il vaso di Pandora (Die Büchse der Pandora) è del 1929.

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L’immaginario di Marello Gallian si era certamente nutrito di queste pellicole,18 che mostrano una grandissima affinità con il suo ossessivo disprezzo della vita borghese, con l’onnipresenza, nella sua opera, di figure femminili colte come paradossali esplosioni di senso, veri e propri enigmi eversivi. Non a caso si è fatto il nome di Lulù, la protagonista dell’omonimo film di Pabst (sempre interpretata da Louise Brooks19), uscita dalla penna di Frank Wedekind sul finire del diciannovesimo secolo. Condotta per la prima volta in scena nel prologo del Lo spirito della terra, primo dei due capitoli della saga teatrale a lei dedicata, questo personaggio fa la sua apparizione nel 1895, annunciato da un imbonitore da fiera: Ei Aujust! Porta qui il nostro serpente! (Un operaio tarchiato esce dalla tenda e porta l’attrice che interpreta il personaggio di Lulù in costume da Pierrot e la depone ai piedi del domatore). È stata creata per provocare sciagure, per avvincere, per sedurre, per avvelenare, per uccidere, senza che uno se ne renda conto.20

Lulù è la femme fatale per eccellenza, e Gallian se ne ricorderà citando espressamente questo brano proprio nel finale del suo primo romanzo, La donna fatale, appunto, in cui il protagonista, Leone, indossando una livrea rossa da imbonitore (proprio come rosso è il frac del domatore cui è affidato il prologo ne Lo spirito della terra), inviterà il pubblico ad ammirare i personaggi della storia ridotti a freaks e saltimbanchi (compresa, naturalmente, la donna fatale ormai domata). Su questo punto ritornerò in seguito. Adesso importa precisare i significati e le immagini che il personaggio della prostituta reca con sé in questi anni, onde poter tentare un’analisi di quella Marga Lupino che ha fatto improvvisamente la sua entrata in scena nel finale di Bassofondo. Poco fa l’ho definita una messaggera. Ma per

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Soprattutto alla fine degli anni Venti, che è poi il periodo in cui questi film fecero la loro comparsa, Gallian si interessò moltissimo di cinema, scrivendone su riviste specializzate come quelle di Blasetti (ma spazio alla critica cinematografica non era negato neppure sulle riviste che diresse in prima persona, ovvero «Spirito nuovo» e «2000»). 19 Di lei, Lotte Eisner ha scritto: «la sua stessa presenza è sufficiente a dare l’essenza dell’opera d’arte»; e ancora: «l’espressione è così voluttuosa, di una voluttà così animale, da sembrare quasi priva di individualità». Lo schermo demoniaco, cit., pp. 206, 208. 20 F. Wedekind, Lo spirito della Terra (1895), in Teatro, Torino, Utet, 1981, p. 91.

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comprendere fino in fondo il contenuto del suo messaggio non ci si può esimere dal provare a seguire a ritroso il percorso immaginativo che l’ha generata. Lulù è solo una delle molte facce della donna fatale: è, come si diceva, la femmina, colei che perde, che mostra ai borghesi la nullità del proprio mondo e li conduce a dissipare se stessi fino alla rovina (indimenticabile a tal proposito, il percorso autodistruttivo del rispettabile professor Rath ne L’angelo azzurro di von Sternberg21, sedotto da una fatale Marlene Dietrich). Non è dunque la prostituta da bordello, ma piuttosto la cortigiana, la cocotte, la mantenuta, la ballerina da night club – tutte figure della donna libera, comunque considerata all’epoca una prostituta.22 A volte presentata come avida di denaro, a volte come innocente ed estranea alla violenza del meccanismo del profitto, la donna fatale è in ogni caso, come si ricordava a proposito dell’affermazione di Benjamin, un punto privilegiato per l’analisi del mondo contemporaneo, sia che ne rappresenti l’esasperazione (da un punto di vista economico), che la negazione (da un punto di vista etico-morale – ma a ben vedere questa negazione è anch’essa una forma di esasperazione). Identificazione e rovesciamento: un tipico esempio di questo doppio movimento è rappresentato in una delle più celebri commedie sgradevoli di George Bernard Shaw, ovvero La professione della signora Warren del 1898, andata in scena per la prima volta in Italia nel 1909, proprio a Roma, presso il Teatro Argentina, per la direzione di Ettore Paladini. Non vi sono dubbi che un uomo di teatro come Gallian conoscesse molto bene l’opera di Shaw, di cui non poteva non apprezzare questo dramma così violentemente antiborghese. Il meccanismo smascherante non è qui lontano da quello del Diario di una ragazza perduta di Pabst23, poiché viene tracciato con la massima evidenza il percorso obbligato che conduce alla prostituzione una ragazza che si sia venuta a trovare in una determinata situazione; ma i punti di partenza sono molto differenti: nel caso di Thymian, a determinare la “caduta” è l’esclusione dal rispettabile ambiente borghese causata da un episodio di “perdizione”, mentre per la signora Warren di Shaw, nata nel mondo del sottoproletariato, l’alternativa al bordello è una vita disumana di stenti. A 21

Der blaue Engel, 1930. Lulù finirà in ogni caso nel modo più triste, come prostituta da marciapiede, nella Londra vittoriana, dove Wedekind le riserva un fatale incontro con Jack lo squartatore. 23 Nella sua analisi del film Kracauer non manca di sottolinearlo. Storia psicologica del cinema tedesco, cit. p. 236. 22

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differenza di Pabst, che non ha mai osato scendere al di sotto di certe profondità dei meccanismi sociali (l’ha fatto forse soltanto nella Via senza gioia, ma anche lì senza trarne tutte le conseguenze24), Shaw porta la sua analisi fino ai limiti estremi,25 cominciando col mostrare come la prostituzione – al di là dei moralismi da feuilleton che vi scorgono sempre e comunque quello che è uno dei grandi miti della falsa coscienza dell’Occidente, ovvero il vizio – sia una scelta obbligata per una donna nata in un determinato ambiente sociale, e che intenda ribellarsi ad un destino di miseria e sofferenza senza speranza alcuna di riscatto: Loro erano per bene. Ebbene, che cosa hanno ricavato dalla loro rispettabilità? Te lo dico subito. Una di loro lavorava in una fabbrica di biacca di piombo dodici ore al giorno per nove scellini la settimana finché morì avvelenata dal piombo. Si aspettava solo di rimanere con le mani un po’ paralizzate e invece morì. L’altra ci era sempre portata ad esempio perché aveva sposato uno che lavorava nel magazzino di sussistenza di Deptford e teneva la sua stanza e i suoi tre bambini in perfetto ordine con diciotto scellini la settimana, finché lui non cominciò a bere. Valeva la pena essere rispettabile non ti pare?26

È così che la signora Warren cerca di giustificare le scelte della propria vita in un cruciale colloquio con sua figlia Vivie, che ha fatto studiare ed educare lontano da sé, come una vera “donna rispettabile”, senza mai svelarle la sua professione (ormai è una ricca managing director di una “catena” di case di tolleranza sparse per l’Europa). È proprio questo il genere di coraggio che manca a Pabst: La casa di Bruxelles era veramente una cosa di classe: un posto per una donna molto migliore della fabbrica 24

E tuttavia questo film del 1925, Die freudlose Gasse, è comunque un capolavoro e un punto di riferimento per l’immaginario collettivo dell’epoca (è il primo grande successo di Greta Garbo, che recita qui insieme ad Asta Nielsen). In Italia comparve, mutilato dalla censura, solo nel 1931, con il titolo L’ammaliatrice, a dimostrazione di quanto l’accentuazione del fattore “scandalistico” fosse in fondo un modo per disinnescare la carica eversiva dei fatti narrati. 25 È proprio questo spingersi ai limiti ad aver provocato l’ “ovazione” di Brecht: cfr. Ovazione per Shaw, in G.B. Shaw, Teatro 1, commedie sgradevoli e gradevoli, Roma, Newton Compton Editori, 1974, pp. 7-10. 26 G.B. Shaw, La professione della signora Warren (Mrs. Warren’s Profession, 1898), in Teatro 1, cit. p. 208.

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dove Anne Jane era stata avvelenata. Nessuna delle nostre ragazze è mai stata trattata come trattavano me quando facevo la sguattera in quel ristorante vegetariano o nel bar di Waterloo o a casa. Avresti preferito che io rimanessi là e diventassi una vecchia sfiancata dal lavoro prima dei quarant’anni?27

Senza contare il fatto che, non fosse stato per la scelta materna, la stessa Vivie adesso non sarebbe una donna rispettabile e istruita. Ma non è finita. Cosa c’è in fondo di diverso tra la prostituzione e la prassi sociale? «Per che cosa si tira su una ragazza per bene se non perché un ricco se ne incapricci e lei s’avvantaggi dei suoi soldi sposandolo? Come se una cerimonia nuziale potesse fare la differenza in bene o in male sulla sostanza della faccenda! L’ipocrisia del mondo mi rivolta lo stomaco!».28 Prostituzione, educazione, matrimonio, prassi sociale. Ancora una volta la mercificazione del corpo della donna si rivela essere il grimaldello che permette all’analisi di scardinare la superficie liscia e algida delle apparenze della società: «L’amore per la prostituta è l’apoteosi dell’immedesimazione nella merce». La signora Warren ha dato la possibilità a sua figlia di crearsi una propria autonomia intellettuale, caso ancora raro per la fine dell’Ottocento. Forse, grazie al lavoro della madre, Viv non avrà bisogno di vendersi in nessuno dei due sensi. Siamo alla fine del secondo atto, il dramma potrebbe chiudersi così e sembrerebbe già aver di gran lunga assolto la sua funzione: «Be’, naturalmente, tesoro, la buona educazione vuole che si provi vergogna; è doveroso da parte di una donna. Le donne devono fingere di provare molte cose che non provano».29 Certo, nessuna donna farebbe un mestiere del genere per piacere, il vizio qui non c’entra assolutamente nulla: Non è un lavoro che una donna farebbe per suo gusto, lo sa il cielo; anche se a sentire le persone pie, sembrerebbe che fosse un letto di rose. […] È assai meglio di qualsiasi altra occupazione. Ho sempre pensato che non dovrebbe essere così. Non può essere giusto, Vivie, che per

27

Ivi, p. 209. Ibidem. 29 Ivi, p. 211. 28

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le donne non si aprano altre strade. E su questo non ho dubbi: è sbagliato. Ma è così, giusto o sbagliato che sia.30

Ma, come si diceva, siamo solo alla fine del secondo atto. E un lieto fine con riconciliazione tra madre e figlia non può bastare a Shaw, forse perché il limite estremo non è ancora stato raggiunto. E poi, come scriverà alcuni decenni dopo Adorno, «non si dà vera vita nella falsa».31 Pur avendole rivelato la verità, Mrs. Warren non ha rivelato tutta la verità, lasciando intendere a sua figlia che si tratti ormai di acqua passata. In realtà, ella è ancora managing director delle case di tolleranza di cui possiede una quota minoritaria. È divenuta, in altri termini, una vera e propria capitalista, non differente infondo da chi possedeva la fabbrica di biacca di piombo dove Anne Jane, la sua sorellastra, era morta ancora adolescente. Così, l’ingiustizia perpetua se stessa, e la ragazza sfuggita alla miseria tramite la prostituzione, non si è sacrificata per gli altri come nei film di Pabst, non è divenuta un angelo di redenzione con i tratti di Asta Nielsen, né un demone di perdizione con il volto di Luoise Brooks. Dietro la fatua rispettabilità della signora Warren non c’è che il sempre-uguale dello sfruttamento, la brutalità impersonale del profitto: se volessimo rimanere in ambito cinematografico, potremmo allora dire che nello sguardo della madre, Vivie scorgerà qui semmai gli occhi ipnotici di Rudolf KleinRogge, il Dottor Mabuse32 di Fritz Lang, o quelli ottusamente spietati, senza fondo, già in qualche modo nazisti, di Gustav Diessl nei panni di Jack lo squartatore, quando pone fine alla vita di Lulù nel film di Pabst. Venuta a sapere che la madre è una capitalista del sesso, Vivie rinuncia ai suoi soldi e va a guadagnarsi da vivere nella city, entrando come socia in uno studio notarile (gestito da un’altra donna), grazie alla sua grande abilità nel calcolo matematico. La madre cerca di convincerla a tornare sui suoi passi, le promette l’agiatezza, una vita di privilegi grazie alla quale non dovrà neppure mai sporcarsi le mani con il business. Siamo alla fine dell’atto quarto (l’ultimo), ancora una volta un colloquio chiarificatore tra le due donne. Vivie rifiuta. Non per moralismo, ma per la ferma decisione di essere se stessa, una persona autonoma, indipendente. La madre cerca di convincerla: 30

Ivi, p. 210. «Kein wahres Leben im falschen», T.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 35. 32 Dr. Mabuse, der Spieler, 1922. 31

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Tu credi che le persone siano quello che fingono di essere; che ciò che tu credi giusto ed onesto, perché così ti hanno insegnato a scuola e all’università, lo è veramente. Ma le cose non stanno così: è soltanto tutta una finta per tenere a bada la gran massa della gente che è codarda e servile. Vuoi accorgerti di questo, come le altre donne, a quarant’anni, dopo esserti logorata tutta la vita e aver perduto tutte le buone occasioni, o impararlo a tempo da tua madre, che ti vuole bene e ti giura che è la verità sacrosanta? (pressante) Vivie: la gente che conta, la gente intelligente, la gente che comanda, tutti lo sanno. Fanno come faccio io e la pensano come la penso io. Ne conosco tanti. E li conosco tanto da poter parlare loro, da poterti presentare a loro, da farteli diventare amici.33

Il nocciolo di questo discorso è un ideologema che sta alla base, fin dalle origini della nostra società, della retorica autoassolutoria degli sfruttatori, di coloro che detengono la ricchezza a discapito della gran maggioranza dei miseri. Qualsiasi sermone come questo può essere ridotto alla sua unità minima, un ideologema, appunto, nel senso in cui esso è stato definito da Fredric Jameson in The Political Inconscious: «Not as a mere reflex or reduplication of its situational context, but as the imaginary resolution of the objective contradictions to which it thus constitutes an active response».34 In altri termini, non la semplice reazione a un fatto contingente, ma la «risoluzione immaginaria» di una situazione obiettivamente contraddittoria, da cui per calcolo e falsa coscienza non si desidera trarre l’unica conclusione possibile, ovvero che, molto semplicemente, si sta dalla parte del male, si è parte attiva nell’umiliazione della vita umana. Ecco allora la tesi autoassolutaria: non esiste vera morale, il mondo è così e basta, e soprattutto, chiunque al mio posto farebbe la stessa cosa (sorta di massima evangelica rovesciata in senso diabolico). Questo tipo di discorso, per funzionare, ha bisogno di credersi infallibile, ha bisogno di non essere contraddetto (da cui il tipico argomento retorico, ripetuto alla nausea fino ai giorni nostri, dichiarante che, se chi lotta contro gli sfruttatori entrasse in possesso delle loro ricchezze, passerebbe immediatamente dall’altra parte della barricata): 33 34

G.B. Shaw, La professione della signora Warren, cit., p. 236. F. Jameson, The Political Incoscious (1981), London New York, Routledge, 2002, p. 104.

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E qui che cosa sei? Una sgobbona che fatica e si arrovella a tutte le ore per non guadagnarsi che il pane e due vestiti a buon mercato l’anno. Pensaci. (conciliante) Sei scandalizzata, lo so. Posso mettermi al tuo posto; e trovo che i tuoi sentimenti ti fanno onore. Ma credimi, nessuno ti darà torto; puoi credermi. So che cosa sono le ragazze giovani; e so che, quando avrai rigirato la faccenda nel tuo cervello, ci ripenserai.35

Ma è a questo punto che l’intelligenza di Vivie smaschera la struttura di pensiero sottostante gli argomenti della madre, ovvero la pura azione strumentale mirata al profitto (dunque anche la frase «Le donne devono fingere di provare molte cose che non provano» incontra qui il suo rovesciamento con il passaggio del referente dalla parte dei dominatori): «Dunque si fa così, eh? Devi aver detto queste stesse cose a molte donne, mamma, per saperle così bene a memoria».36 Il discorso della madre è esattamente lo stesso che ogni maitresse che si rispetti farebbe ad una giovane donna per convincerla ad intraprendere “il mestiere”. La stessa Mrs Warren l’avrà fatto migliaia di volte. L’ideologema è stato svelato, e il discorso crolla interamente. Adesso la materia sottostante può rivelarsi allo stato puro, e lo fa nelle ultime maledizioni cui infine la madre, accantonando le buone maniere, finisce per abbandonarsi: Sono stata una buona madre; e perché ho fatto di mia figlia una donna onesta, lei mi scaccia come fossi una lebbrosa. Oh, potessi ricominciare a vivere! Ne direi quattro a scuola, a quel bugiardo d’un pastore. Da questo momento in poi, così mi aiuti il cielo nell’ultima ora, farò il male e nient’altro che il male. E ci guadagnerò su.37

Si tratta certamente di una delle maledizioni più dure che una madre possa pronunciare su un palcoscenico. Vivie, con la sua calma lucidità, ha fatto venire alla luce il nocciolo dell’ideologia dell’interlocutrice: si badi bene, l’espressione «da 35

G.B. Shaw, La professione della signora Warren, cit., p. 236. Ibidem. 37 Ivi, p. 239. Vale la pena di riportare la versione originale di quest’ultima espressione: «From this time forth, so help me Heaven in my last hour, I'll do wrong and nothing but wrong. And I'll prosper on it». 36

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questo momento in poi» è puramente retorica. Se escludiamo la condotta che la signora Warren ha tenuto nei confronti di sua figlia (ma lo vediamo con chiarezza, qui, che il tutto era solo uno strumento per tenere a bada la coscienza e nascondersi la realtà dei fatti), ella ha infatti da sempre, o meglio, fin da quando è diventata a sua volta una sfruttatrice, fatto il male guadagnandoci su – che è poi il significato ultimo di ogni tipo di profitto capitalistico, realizzato cioè traendo plusvalore dal lavoro altrui. La signora Warren è sempre stata dalla parte del male e la maledizione che in fine lancia sul suo stesso capo lo testimonia («così mi aiuti il cielo nell’ultima ora»), ma, come tutte le persone mediocri, non ha mai avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà dei fatti, trincerandosi dietro la retorica: «chiunque al mio posto farebbe lo stesso». Anche in questo ormai, Vivie la smaschera: «Fossi stata in te, mamma, avrei forse agito come te; ma non avrei vissuto una vita credendo in un’altra. Nel tuo intimo sei una persona convenzionale. Ecco perché ti dico addio, adesso».38 Certo, nessuno può avere la presunzione di essere estraneo al male. Sono sempre le circostanze della vita a darci la possibilità o meno di compiere determinate scelte, e per questo Vivie confessa alla madre che forse, se fosse nata nelle sue medesime condizioni, avrebbe finito per comportarsi come lei. Eppure, la scelta fra l’ipocrisia e l’accettazione della verità, tra l’abbandono alla stupidità del male e l’accettazione della terribilità del male, è sempre possibile. La più grande colpa della madre era stata insomma essere «una persona convenzionale». L’unica colpa, l’unico vizio, è nella catastrofica banalità della vita quotidiana. A questo punto rimane però una questione che non ha trovato risposta, che l’autore non ci ha chiarito: perché Vivie rifiuta? Perché non accetta i soldi della madre? Perché decide di condannarsi a una vita di stenti? Certo non per moralismo, ma neppure per un alto senso morale. La cosa che più si avvicina a una spiegazione – ma che, naturalmente, non è una spiegazione – è questa: Non credo di essere più prevenuta o pudibonda di te: credo anzi di esserlo meno. Sono certo meno sentimentale. So benissimo che la morale corrente è tutta una finzione, e che se prendessi il tuo denaro e dedicassi il resto della mia 38

Ibidem.

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vita a spenderlo elegantemente, potrei riuscire inutile e viziosa quanto può desiderare di esserlo la donna più stupida del mondo, senza che nessuno mai me lo potesse rimproverare. Ma io non voglio essere inutile.39

È proprio questa assenza di spiegazioni a rendere così vivo e credibile il personaggio di Vivie. Se avesse fornito qualsiasi altra risposta intellettualistica, morale, elegiaca, tutto il discorso avrebbe perso la sua carica eversiva, e forse la madre avrebbe avuto ancora qualche buona chance di convincerla (proprio come aveva detto poco prima, le ragazze sono così, ma tutto cambierà quando avrai rigirato un po’ la questione nella tua testa). E non sarebbe stato inverosimile che al primo rovescio della sorte, la pecorella smarrita facesse ritorno all’ovile della sicurezza economica. Ma noi sappiamo che non è così. Il dramma si chiude con Vivie che riprende a immergersi nei suoi conti (economici anche questi, oltretutto!) come se niente fosse, dopo aver detto addio per sempre a sua madre. «Ma io non voglio essere inutile». È chiaro che qui a essere chiamato in causa è il valore dell’individualità, dell’essere se stessi, o almeno del passare la vita a provarci. Non si può comprendere questo «non voglio essere inutile» se non lo si legge in contrapposizione a «nel tuo intimo sei una persona convenzionale». Solo apparentemente quello che è in gioco è infatti la possibilità o meno di passare una vita agiata. Quello che l’ideologema apologetico del capitalismo nasconde, non è solo lo sfruttamento degli altri, ma l’annullamento di se stessi. Non solo la mera forza lavoro, l’operaio, perde la propria personalità trasformandosi, appunto, in forza lavoro e nient’altro, in merce. Anche il borghese, anche il capitalista perde la propria individualità per essere assorbito nella struttura della merce. Anzi, il fatto di arrivare al grado zero dell’equivalenza con la merce, conferisce all’operaio un fondamentale vantaggio nei confronti del suo padrone, che rimane invece incapace di riconoscere il suo stato, proprio perché trincerato dietro l’ideologia sovrastrutturale al meccanismo del profitto. Tale vantaggio è, se vogliamo, la possibilità di dire «non voglio essere inutile», ovvero di riconoscere la propria condizione e prenderne coscienza. Si tratta naturalmente della reinterpretazione della hegeliana dialettica tra servo e padrone fatta da György Lukács in Storia e coscienza di calsse: 39

Ivi, p. 237.

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Nella società capitalista l’essere sociale è – immediatamente – lo stesso per la borghesia e per il proletariato. Si può aggiungere ora che questo stesso essere, attraverso l’azione motrice degli interessi di classe, tiene prigioniera la borghesia in questa immediatezza mentre sospinge il proletariato al di là di essa. […] la borghesia occulta nella vita quotidiana, con le astratte categorie riflessive della quantificazione, del progresso all’infinito, ecc., la struttura dialettica del processo storico, per vivere poi

come

catastrofi

immediate

i

momenti

della

40

conversione.

Non è infatti come catastrofe nel quotidiano che la signora Warren ha vissuto il momento rivelatore che le è stato offerto dallo scontro con sua figlia? Mentre Vivie è stata in grado di conoscere fino in fondo la sua situazione e di accettarla, accettando però, si badi bene, di cercare all’interno di essa, ovvero nel lavoro, il proprio valore individuale, la madre non è stata all’altezza della verità che le si rivelava: l’ha vissuta come una maledizione della sorte, come ingratitudine, come un gesto di irriconoscenza e insubordinazione filiale; che non la proietta fuori, ma semmai ancora di più la sprofonda nella sua dimensione di banalità quotidiana. La realtà malvagia dello sfruttamento è venuta alla luce, è vero (d’ora in poi farò solo il male e ci prospererò sopra), ma solo per noi spettatori, solo per la figlia Vivie, non per lei che, varcata la porta del mediocre studio notarile, ridiventerà la fatua e affascinante signora Warren. Al termine di questo breve percorso inteso a svelare in parte il potenziale interpretativo racchiuso nella figura della donna perduta, è ora possibile tornare al punto da cui siamo partiti, ovvero quella Marga Lupino che, si è detto, giunge inaspettata a chiudere un romanzo in cui non aveva avuto per altro nessuna parte. Qual è la sua missione, il messaggio che ella reca?

40

G. Lukács, Storia e coscienza di classe, cit., p. 217.

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3. Tre fantasmi

«Capitata a vivere con quell’istinto subitaneo che tutte hanno di progredire, di imbellirsi, di figurare, di procurarsi gloria, Marga Lupino s’era messa a girare il mondo con molta fortuna: ma chi le credeva ora?».41 Marga è una donna di mondo giunta alla fine della sua carriera. Un tempo bella, o almeno dotata di un fascino particolare che le aveva assicurato fortuna internazionale, al suo apparire nella casa di tolleranza romana ha suscitato il disprezzo e addirittura la disperazione della sua maitresse. Ma tutto questo non sembra importare a lei, né tanto meno al narratore. Non vi è alcun dramma della giovinezza perduta, della dissoluzione giunta al suo culmine, della vecchiaia, del destino di povertà o di solitudine. Marga è circondata da un mistero, tanto più fitto quanto più comune e banale ci appare la sua “carriera” internazionale. Le “case” che aveva frequentato sono sempre le stesse, tutte uguali, apparentemente dei luoghi di trasgressione, in realtà fulcri della mercificazione del desiderio, proprio come ci aveva mostrato Shaw: «intorno a queste donne stanno interessi internazionali, grandi come quelli di un impero e circolano banche e si radunano ospedali e case di cura».42 Neppure il suo corpo reca i segni della vita trascorsa: Quali possono essere le caratteristiche visibili di una donna perduta che abbia girato il mondo, nell’esercizio delle sue funzioni donnesche? Gli occhi loschi, e Marga li aveva chiari e retti. Le labbra pendenti e una musoneria cupa: Marga era spesso con le labbra sode e agiata d’anima. Nessun tatuaggio. Non beveva troppo: fumava di solito qualche sigaretta. Sigarette di ogni marca dalla Caporal alle Nazionali, dalle Xantia alle Luky Strike: che conta la marca del fumo?43

Orfana di madre e di padre, senza affetti, senza rimpianti, si direbbe quasi senza ricordi (non ha neppure una marca di sigarette preferita, il che vuol dire 41

M. Gallian, Bassofondo, cit., p. 299. Ivi, p. 298. 43 Ivi, pp. 299-300. 42

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inequivocabilmente che non ha scelto di essere qualcosa, non ha preso su di sé una delle tante identità illusorie e consolatorie che ci propongono i brand che accompagnano la nostra vita quotidiana). Tanto più inaspettata, allora, ci giunge questa informazione: «Il molto denaro messo da parte, non era frutto di risparmio in vista della vecchiaia, ma calcolo preciso e ordinato nella speranza di poter un giorno capitare a Roma e viverci venti giorni a suo beneplacito: e dopo, il diluvio: dopo, la morte: dopo, nulla».44 La reazione che si può avere leggendo questo passo è in fondo la stessa che si è avuta, due capitoli più dietro, scoprendo che il tempo, il luogo e perfino i personaggi della storia sono mutati senza apparente motivo. Allo stesso modo, la prostituta giunta da lontano, così dimessa, così poco chiassosa, priva di ogni caratterizzazione convenzionale, rivela adesso una mania incomprensibile, un desiderio che non può che suonare assurdo. Sappiamo infatti che Marga non è una donna che pratica o desidera gli eccessi: che vorrà dire allora «venti giorni a suo beneplacito» e dopo il diluvio, la morte, il nulla? Più avanti ancora dirà: «a Roma mi butterò allo sbaraglio, e non prima o in altro luogo».45 La spiegazione più plausibile è che quello di Marga sia una sorta di suicidio, un’orgia finale, venti giorni di bagordi, una grande abbuffata. Tra l’altro, da alcuni accenni veniamo a sapere che Roma – o meglio, dati alcuni tratti prettamente agresti, un paese agricolo nelle vicinanze – è il luogo natio della donna, abbandonato molti anni prima. Forse un buon punto di partenza è notare che quest’ansia di dissoluzione, prima che all’interno dei fatti narrati, il lettore può avvertirla qui a livello della costruzione della trama. L’avvento di Marga, la sparizione di Giovanni e con lui di ogni legame che ci teneva avvinti alla storia raccontata nelle centinaia di pagine precedenti, è già di per sé, a livello metanarrativo, una dissoluzione, uno sfacelo, un buttarsi allo sbaraglio e dopo il diluvio, la morte, il nulla. Così è evidente che l’aspirazione segreta della donna perduta è la perdizione stessa della storia di cui si è impadronita, e da cui il nostro tentativo di comprensione è stato per sempre bandito. Ma la donna perduta non è solo dissoluzione, è anche consapevolezza, consapevolezza di un mondo, quello dell’occidente europeo dei commerci internazionali, fatto di un vuoto e violento giro di denaro, in cui gli uomini sono presi 44 45

Ivi, p. 301. Ivi, p. 302.

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come ingranaggi senz’anima. Marga è anche questo, poiché, pur nella sua mancanza di partecipazione emotiva, trascina con sé uno sguardo a volo d’uccello su un intero mondo, che è poi il mondo di Gallian, il mondo come lo vedeva Gallian, che ormai alla metà degli anni Trenta aveva dovuto abbandonare qualsiasi velleità rivoluzionaria. L’ansia di dissoluzione di un’esistenza personale (che, come abbiamo visto, è anche dissoluzione della trama) si sovrappone qui a un mondo in disgregazione e che tuttavia non accenna a morire, dal momento che quella caotica decomposizione è il suo modo di perpetuarsi, a scapito dei valori umani esiliati in una dimensione totalmente altra. In ormai dieci anni di carriera letteraria Gallian ci aveva raccontato in migliaia di pagine di questo mondo su cui ora si posa per un solo istante il ricordo distratto di Marga. E ancora una volta ritornano le torme dei fenomeni da baraccone, dei miseri, dei freaks che sempre erano stati i protagonisti delle storie di questo scrittore (certamente è possibile cogliere qui l’influsso di uno dei suoi autori più amati, ovvero il Lorenzo Viani46 degli Ubriachi e dei Vageri): Torme di deficienti, una sera, di ebeti, di gozzuti, di cretini congeniti, di malati alla testa, di damerini sozzi e decaduti aveva bussato ad un ospizio raro dove lei risiedeva da pochi giorni: con ululi la chiamavano, supplicavano che si mostrasse una, una donna almeno, una gamba, un braccio, un’ascella, appena un’ascella così, forestale; erano accorsi subito gendarmi con la baionetta in canna e un carro di mitragliatrici. Un sentore di ingiustizia, un accenno di decomposizione e di millanteria rivelavano colpe molto lontano. Tutto quanto vedeva, era ultima conseguenza, caso estremo, sporadica avventura: chissà dove era il nocciolo della questione, il fulcro stesso, l’origine dell’aberrazione dell’inganno continuato. Sembrava quasi che soltanto i ricchi dovessero avere il privilegio di godere, i potenti usurai soltanto il diritto di praticar donne e di far figli: gli altri,

46

In un articolo presente tra le carte conservate presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia, intitolato Lorenzo Viani oggi, Gallian esalta l’artista viareggino come un maestro, un «colosso»: «Viani da respirare, Viani da mangiare». Purtroppo l’articolo è contenuto in un ritaglio di giornale sprovvisto di data (ma è sicuramente posteriore alla morte di Viani, dunque al ’36) e del nome della testata.

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sieno schiavi anche nelle brame prime, nei primi interessi naturali.47

Gli ululati provenienti dalla turba deforme sembrano qui essere quasi le invocazioni dell’umanità schiacciata sotto il tacco di un’oppressione che ha preteso di privarla anche del lato gioioso dei piaceri più naturali («nei primi interessi naturali»), dal momento che ha dato un esatto valore di mercato anche al corpo della donna (non a caso, come abbiamo visto, in vari luoghi dell’opera di Gallian troviamo prostitute che si danno a tutti, senza chiedere in cambio denaro). Forse è da questo che Marga sta scappando per buttarsi allo sbaraglio. Ma Marga non sta scappando, la sua permanenza all’interno di quel mondo non ci appare, in queste pagine, essere stata una comprensione intellettuale, semmai una partecipazione immediata sovrapposta a un altrettanto immediato distacco. Proprio come la Vivie de La professione della signora Warren, Marga sente la propria separatezza con un’intuizione istantanea, senza bisogno di una comprensione teorica. È per questo che il suo occhio può sovrapporsi così bene a quello dello scrittore, nel cogliere «il fulcro stesso, l’origine dell’aberrazione», e diventare il nostro: Aveva visto donne ridotte a risiedere nelle tasche degli uomini, […] donne immote lunghe ore sotto i calci e sotto gli sputi. Donne imbestialite dalle percosse e dal vino, con le labbra sanguinanti, andare a tentoni nella ricerca di una fonte; donne accecate e spinate, prese per i capelli, ricattate anche in quello stato, avere un sospiro di sollievo sol perché capitavano con l’ultimo pensiero quando non avrebbero avuto la forza più nemmeno di alzare un braccio o forse un dito: e poi finire a scarpa in un angolo, massacrate.48

È questa la sintesi pura dello sguardo che ha attraversato tutto il mondo, il nostro mondo, provando a capirne le ragioni, o forse semplicemente cercandovi un posto dove trovare una propria dimensione abitabile. Ma quella dimensione non esiste: da un lato abbiamo l’ultimo sbaraglio, la visione di Roma, la città che qui si fa

47 48

M. Gallian, Bassofondo, cit., p. 306. Ivi, p. 304.

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simbolo di ogni inizio e di ogni fine; dall’altro non rimane che il corpo della donna offeso e umiliato senza scampo. La ripetizione anaforica del sostantivo «donne» pare offrircene una testimonianza: quasi un tentativo di fuga, di sottrazione, ovviamente destinato a fallire, a chiudersi con quel «massacrate» così secco e definitivo. L’anafora è una delle caratteristiche più evidenti dello stile di Gallian, che se ne serve in moltissimi luoghi (lo stesso Bassofondo ne offre svariati esempi). Ma mentre tale figura retorica viene istintivamente indirizzata, solitamente, verso l’accumulo caotico, questo è uno dei rari casi in cui lo scrittore romano realizza una costruzione a climax. Ciò è da evidenziare, poiché dimostra una volta di più che in questo così denso finale del romanzo, lo stacco contenutistico corrisponde in modo netto a uno stacco formale, non solo a livello di costruzione della trama, ma con importanti riflessi anche sullo stile. Come dicevo all’inizio di questo capitolo, sono proprio i momenti in cui l’autore rifiuta di abbandonarsi alla propria ispirazione più immediata, controllando con più rigore la sua materia, a raggiungere maggiore intensità, consentendoci in fin dei conti di andare al di sotto di quella dura scorza che solitamente ne ricopre la scrittura. Finalmente, dunque, il caos delle immagini interiori si dirada e consente a una singola figura di venire alla luce, con un crescendo per una volta perfettamente dominato: è il corpo della donna offeso attraverso infinite vicende, che giace per un attimo massacrato, e subito si rianima, è quello di Marga, che è dunque anche Margal, sull’orlo del precipizio urbano in cui sta per gettarsi. E la climax non è ancora arrivata alla fine: Dovevano esserci martiri ben più forti e ben più sciagurati, sacrifici più feroci, rinunzie ben più disumane: e la commuoveva un bambino scalzo meno di una donna maritata, un negro insanguinato e raggomitolato meno di un banchiere pazzo, che le proponeva una fuga in Olanda e una buona percentuale su utili misteriosi.49

Come avevamo appreso dal finale del dramma di Shaw, un linea rossa e continua unisce gli ultimi della società, le prostitute, i bambini di strada, gli schiavi che pure ancora ovunque subiscono la loro sorte infame, alla vita quotidiana della gente comune, di quella borghesia che Gallian aveva giurato di odiare sempre, fino 49

Ivi, p. 305.

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alla fine dei suoi anni, forse da quel giorno remoto in cui aveva visto sua madre, la signora che aveva frequentato la corte e i teatri, la «collegiale di Oxford», ridotta a fare le pulizie nella squallida casa di gente oscena e mediocre.50 Una donna maritata fa più pena di un bambino scalzo, un banchiere «pazzo» è più misero di un «negro insanguinato» (per comprendere l’uso della parola «pazzo», si rifletta sul fatto che, al culmine di questo discorso, soltanto nella categoria della “follia”, una figura che incarna in sé la disumanità dell’alta finanza può essere ancora concepita come un qualcosa di umano). Ecco, forse adesso, in sovrapposizione al mondo vorticoso della finanza internazionale, dei bordelli delle grandi capitali europee, dei traffici della signora Warren, dei luoghi di dissoluzione e dei riformatori di Pabst, attraverso una lunga carrellata sui corpi offesi delle donne, è possibile comprendere il gesto dissolutorio di Marga, che decide di perdersi in un’ultima fiammata, a Roma. Eppure manca ancora qualcosa. L’ultimo capitolo comincia così: «Scendo dal treno e mi butto nella città: voglio vivere venti giorni». E poi: «E s’era buttata difilato nella casa che le era stata stabilita».51 Forse ancora più brutalmente del mutamento di tempo, luogo e personaggi che avevamo incontrato poco prima, giunge ora inattesa questa prima persona. Paradossalmente, se l’inversione di prospettiva avesse riguardato l’ultimo capitolo nella sua interezza, l’impressione sarebbe stata meno forte, meno perturbante di questa breve frase, questo singolo pensiero non virgolettato. Il termine perturbante risulta quanto mai appropriato: è come se un essere inanimato, un personaggio di romanzo che per tutto il tempo avesse condotto un’esistenza meccanica, artificiale, improvvisamente ci strizzasse l’occhio parendo indubitabilmente vivo. L’automa ambiguamente animato è da Hofmann in poi, del resto, la quintessenza del perturbante (e prima di Freud era stato Ernst Jentsch a darne un’esatta definizione52). Così come lo è il doppio: non è proprio questo il punto della narrazione in cui più forte ci si palesa il legame speculare tra chi scrive, il ragazzo selvaggio, e la donna perduta, Marga?

50

La scena, su cui ritornerò, è raccontata in Primo diario, Roma, Scrittori Contemporanei, 1940, p. 125. 51 M. Gallian, Bassofondo, cit., p. 315. 52 E. Jentsch, Sulla psicologia dell’Unheimliche (1906), in R. Ceserani (a cura di), La narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi, 1983.

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Bassofondo, in questa versione non censurata, reca come data di stampa, in terza di copertina, il 18 dicembre 1935. Pochi giorni dopo, nella vita di Gallian accade qualcosa, quel «fatto enorme» già ricordato in precedenza. Io non ricordo esattamente per certo, ora, che cosa sia accaduto nel mondo nel breve giro di tre ore, dalle otto della sera alle undici della notte del sabato 29 gennaio 1936, anno XIV. Dopo quattordici anni esatti. Una qualche fortuna è scoppiata nella lotteria di Merano. Un russo è stato condannato a morte. Un cinese ha praticato un buco nella Grande Muraglia e vi si è addormentato.53

Quasi a metà della vita, una raccolta di racconti pubblicata nel 1937, si apre con un lungo brano introduttivo autobiografico, in cui per la prima volta lo scrittore parla di un periodo oscuro della sua vita, ovvero quello intercorso tra la partecipazione attiva all’impresa di fiume e poi allo squadrismo, e il suo riemergere come letterato nell’ambiente underground delle riviste d’avanguardia e del Teatro Sperimentale degli Indipendenti nella Roma della metà degli anni Venti. Scrivano nella biblioteca del Ministero delle Finanze, gessatore al Quadraro, manovale negli studios dove si girava, nei pressi di Roma, il Ben-Hur diretto da Fred Niblo (uscito poi nel 1925, uno dei colossal del muto di maggior successo): sono probabilmente gli anni più importanti per il formarsi della personalità di Gallian, che ha per la prima volta modo di vivere davvero a contatto con quella miseria che rimarrà poi sempre il principale oggetto della sua produzione letteraria (quando parlerà di ambienti sociali più elevati, sarà sempre con l’occhio pieno di disprezzo di chi conosce bene i bassifondi). Sono anche gli anni, dunque, in cui si va formando la sua predilezione per le donne autentiche, che portano iscritti sulla pelle tutti i segni della vita: Certo per noi, o se non per noi, per me certo o per qualcun altro, non ci furono né ci saranno mai principesse d’amore, duchesse di lignaggio, aristocratiche levigate o pulzelle di sangue azzurro. […] Facevo una vita remota, affannata, superficialmente supina; in quei giorni rimasi lungo tempo in quella campagna in malore, lavorando il 53

M. Gallian, Quasi a metà della vita. Molto più di un romanzo, Firenze, Vallecchi, 1937, p. 27.

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giorno come uno schiavo e rimanendo molte notti alla luna con i guardiani e con qualche pastore.54

Quei giorni, rievocati qui per la prima volta in modo così diretto, dopo circa quindici anni, i vent’anni di un autore ormai quasi giunto a metà della vita, ai fatidici 35 anni danteschi, hanno però un culmine ben preciso. Un avvenimento forse a lungo dimenticato, e da cui pure tutto ha inizio. «In quei giorni poi, conobbi la donna che rispuntò malamente nel mio sangue dopo quattordici anni».55 Improvvisa, proprio come Marga era giunta a spezzare la trama di Bassofondo, rispunta dopo quattordici anni («sabato 29 gennaio 1936, anno XIV») una donna, questa donna: Era una donna «perduta», trivialmente posseduta da ogni uomo che lasciava su quel corpo segni e sfregi, ghirigori e meandri, tanto che, ogni qualvolta andai a trovarla, la vedevo con gli occhi mutati, con mammelle diverse, con una gamba più lunga e una più corta, firmata e controfirmata fin dove poteva risiedere un barlume di anima, dove poteva esserci uno spiraglio di coscienza, dove, insomma, poteva trapelare un sintomo di vita vera, reale e non fittizia, originale e non comune. Dopo essere stata assieme con parecchi uomini avvinazzati o meno, rosei o pallidi, vecchi o giovani, sposati o no; dopo aver trascorso giornate intere sempre tacendo o dicendo auguri o parlando con i «buonasera» e il «buon giorno»; dopo notti e notti passate

con

uomini

che

facevano

lo

straordinario

avvalorandosi della situazione d’essere amatori, lei, in certi mattini appena nati o in certe sere dove improvvisamente la clientela veniva a mancare, arrivando io, le piaceva stare con me.56

Valeva la pena citare per intero questo brano, poiché è qui, evidentemente, che comincia a prendere forma l’immaginario dello scrittore intorno alla «donna perduta». È qui che nasce la sua visione del mondo, che ha poi plasticamente formato

54

Ivi, p. 16. Ibidem. 56 Ivi, pp. 16-17. 55

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anche la sua fantasia e il suo stile. Ed è da qui, in fine, che è partito quel messaggio che doveva arrivare, inizialmente smarritosi nel tempo, quattordici anni dopo, nella figura di Marga, a spezzare un romanzo, e, nella vita reale, a creare un «fatto enorme», quel 29 gennaio. È impressionante, del resto, anche l’affinità stilistica che lega il brano appena citato, così come tutta l’introduzione diaristica a Quasi a metà della vita, al finale di Bassofondo. Anche qui, l’accumulo dei frammenti, in questo caso le parti del corpo della prostituta posseduta da una folla di uomini, non deborda nell’accumulo irrelato, mantenendosi nell’ambito di una climax che progredisce dall’esterno verso l’interno, dagli sfregi della pelle fino al «barlume dell’anima». A ciò fa poi seguito un’altra climax, ancora più efficace, anch’essa sostenuta da un’anafora – stavolta temporale – in cui la progressione dei rapporti mercenari con uomini diversi ma sempre uguali si manifesta con grande potenza, fino all’ultimo procrastinarsi della proposizione principale, «le piaceva stare con me». Il contatto con la miseria, lo sguardo lucido che si apre sulla realtà sociale. Non può che essere questo il fondamento di una visione del mondo che rifiuterà poi sempre di scendere a patti con le comodità della vita e con le illusioni del progresso. Del resto, per Gallian, tale contatto fu ancora più totale e violento, se si tiene conto del fatto che egli veniva da una famiglia alto borghese poi caduta in miseria all’inizio degli anni dieci, a causa del fallimento della carriera diplomatica del padre. Il declassamento sociale fu dunque un’esperienza indelebile, ma che non si manifestò mai, in seguito, nel desiderio di riconquistare un prestigio sociale un tempo posseduto di diritto; semmai, forse proprio grazie all’intima conoscenza del mondo dei miseri e degli ultimi, tra i quali aveva vissuto in questi anni, a farsi strada in Gallian fu la brama di distruggere ogni prestigio sociale, ogni differenza di classe. Ed era stato questo, in fondo, il sogno della sua “rivoluzione”, quella fascista (la marcia su Roma coincide in termini temporali con l’incontro con la donna di cui si sta parlando: siamo nel 1922), che nei suoi intenti avrebbe dovuto spazzare via per sempre dalla storia una società che permetteva ai padri di fallire e ai figli di assistere alla loro caduta. Sono costretto a parlare di quel tempo e di quella femmina, sia perché tanta acqua è passata sotto i ponti, sia perché quel tempo incantevole e fatale dimostrò a me stesso

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le mie convinzioni inveterate e i miei giudizi ancor oggi insostenibili. Quella donna per me non era una prostituta, né una madre né una sorella né una fidanzata né nulla: o forse tutte queste cose assieme. […] mi sembra ella sia stata non donna formale o comune o in un qualche modo donna semplice, ma piuttosto la quintessenza di donna creata con tutte le sue maledizioni della razza e i favori della sua specie. Donna, che vuol dire? Femmina, che vuol dire? Quando si è giunti alle mie conclusioni, è pacifico avvertire un abisso che esiste ed è sempre esistito tra i miei consigli e quelli degli altri tutti; […] Dirò «femmina» per intenderci, seppure questa parola tanto amata dai medici risulti male e oscena sulla bocca degli uomini.57

La chiamerà «femmina» dunque, ma solo per convenzione. «Femmina», che vuol dire? La parola tanto amata dai medici suona «oscena sulla bocca degli uomini». Non a caso, quando dopo quattordici anni sentirà di nuovo il bisogno di richiamare a sé quella donna, di richiamarla in sé, non la chiamerà «femmina» né «donna», né userà per lei un nome comune. La chiamerà Marga, donandole il suo stesso nome. O forse le cose non stanno neppure così: la prostituta di Quasi a metà della vita ha, infatti, un nome, seppur pronunciato una volta sola e quasi per caso: Marta. Non dobbiamo pensare allora, che lo pseudonimo usato per anni, Margal, fosse a sua volta un prendere in prestito, un iscrivere in se stesso il nome di lei, proprio come un tempo ella era stata «firmata» nelle carni dalla folla degli amanti? Marta, Margal, Marga.58 È necessario a questo punto fare una precisazione. Non si sta cercando qui di tracciare i contorni fantomatici di una presunta storia d’amore, di una storia d’amore e morte, magari. Il legame che unisce questi tre fantasmi è d’altro tipo, né vi è alcun episodio che possa giustificare la prospettiva interpretativa della “storia d’amore” (ammesso che una prospettiva del genere possa in qualche circostanza esistere). Non si tratta neppure di un legame interpersonale vero e proprio, o almeno, non è quello che ci interessa qui. È piuttosto il legame tra l’immaginario dello scrittore e la sua 57

Ivi, pp. 18-19. Cui bisogna aggiungere Magda, figura femminile di Vita di sconosciuto (Roma, Tibur, 1929) e Margherita, la ragazzina protagonista di uno dei romanzi più crudeli di Gallian, il già menzionato Tempo di pace. 58

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visione del mondo, tra lo scrittore e i suoi archetipi, tra il procedimento dello scrivere e le costruzioni formali, tra la scrittura stessa e i suoi significati (non bisogna dimenticare che questo mio discorso prende avvio dall’evento che spezza e sovverte la trama del romanzo Bassofondo, per il quale Marga è essenzialmente una funzione strutturale). Non a caso, nell’ultimo brano citato, l’autore ci dice di essere costretto a riparlare di quel tempo perché è lì, nella vita condotta allora e nell’incontro con quella donna, che si sono formate le sue convinzioni e i suoi giudizi «ancora oggi insostenibili» (quest’ultima affermazione è un palese riconoscimento del fallimento della “rivoluzione” che egli aveva creduto di fare in camicia nera). Una volta di più si dimostra insomma efficace l’assioma da cui sono partito in questo capitolo: «l’amore per la prostituta è l’apoteosi dell’immedesimazione nella merce», ovvero la via d’accesso privilegiata alla comprensione dei meccanismi di questa società. Se amando una prostituta si vive in un certo senso il rapporto di merce nella sua essenza più pura, è solo in questo modo che tale essenza ci si può realmente svelare. Solo stando con Marta, solo trascorrendo il tempo in sua compagnia, solo ascoltando i suoi racconti circa una vita remota che nessuno più ricorda, solo contraendo la sua stessa malattia è possibile entrare a fondo nel meccanismo che regge la nostra società, riconoscerlo, comprenderlo, combatterlo per sempre. Fu allora anzi, fu in quei giorni proprio in cui le feste o le sere dopo il lavoro, bazzicando ben ripulito e bene assestato come un vero operaio certo rione malfamato al di qua del Tevere, presi la malattia che rimane sopita, anzi estranea a me, tutto il tempo quanto bastò che io arrivassi inappuntabilmente all’appuntamento della mezza vita.59

Lo si sarà capito, se in queste pagine tratto espressamente una vicenda privata come l’esplodere dopo quattordici anni di una malattia venerea contratta in gioventù – che è poi probabilmente la sifilide – non è certo per interesse biografico, storico, clinico o aneddotico. È stato l’autore stesso infatti, a quanto credo, a caricare questo evento di una valenza determinante per il suo immaginario e per la sua creazione letteraria. Come il fantasma di Marta/Marga è l’eterno doppio che nell’opera sua si fa motore creante e disfacente le trame, come l’ombra di questo doppio, con la miseria 59

Ivi, p. 15.

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iscritta nelle sue carni, ne plasma per sempre la comprensione del mondo, l’esplosione della malattia, descritta poco dopo in questa stessa introduzione e poi più avanti negli anni in altri racconti autobiografici, diviene l’asse portante, o meglio la voragine intorno alla quale si struttura la materia stessa della creazione artistica di Gallian. In un senso ancora più radicale di quanto si potrebbe pensare: retrospettivamente, a partire da questo vuoto, è anche tutta la produzione precedente a prendere forma, a farsi comprensibile. Quel vuoto, infatti, è il messaggio recato da Marga/Marta, la messaggera che era in viaggio fin dall’inizio, e che attendeva di giungere per mettere in scena, finalmente, il grande diluvio, la morte, il nulla. Tutto era stato nell’attesa di lei, imago materna, naturalmente (lo si potrebbe dimostrare con mille esempi, uno fra molti: «l’effige sua la ricordo come posso ricordare in alcuni istanti mia madre stessa»;60 ma basta in fondo considerare il suono «ma», unico in Marta, Marga, Margal, cui possono aggiungersi, come abbiamo visto, Magda e Margherita), origine, dunque, ma anche meta («una femmina nuova, come di là da venire»61), addirittura immagine della rivoluzione sempre sperata e mai raggiunta. Il regno della madre62 (le madri del Faust di Goethe), come insegna Jung, è la terra sconosciuta (eppure l’unica mai davvero conosciuta) del sommo pericolo,63 che è però l’unico sentiero che porta alla rinascita, al cambiamento. Ma allora in Marta, in Marga, ci imbattiamo anche in quella figura di madre che il diciottenne di ritorno da Fiume ritrova – lei, «collegiale di Oxford» – a fare le pulizie in un appartamento di rozzi borghesi arricchiti. La conoscenza della miseria nel suo livello più elementare, la prostituta, la madre costretta a servire, si fa dunque qui veicolo di un’incancellabile conoscenza di tipo sociale («quel tempo incantevole e fatale 60

Ivi, p. 17. Ibidem. 62 «Questo punto di rottura ha nome “madre” perché da lei ci venne la corrente della vita. Perciò quando vi è da compiere qualche opera, dinanzi alla quale l’uomo indietreggia disperando delle sue forze, la sua libido rifluisce al punto di origine della sorgente e questo è il momento pericoloso nel quale occorre decidere tra l’annientamento e una nuova vita. Se la libido si attarda e rimane impigliata nel regno meraviglioso del mondo interiore, per il mondo superiore l’uomo non è più che un’ombra; è come se fosse morto o gravemente ammalato. Ma se la libido riesce a liberarsi e a farsi strada verso l’alto, si verifica il miracolo: la discesa nel mondo sotterraneo sarà stata un tuffo nella fonte di giovinezza e un nuovo impulso fecondatore risulterà dalla morte apparente». C.G. Jung, Simboli della trasformazione, cit., pp. 288-289 (si tratta del capitolo intitolato «La lotta per la liberazione dalla madre»). 63 Tale pericolo si fa manifesto nelle numerose immagini di ragno che popolano le pagine di Gallian in prossimità dell’apparire di figure materne, e di quelle che ho preso in esame in questo capitolo in particolare. 61

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dimostrò a me stesso le mie convinzioni inveterate e i miei giudizi ancor oggi insostenibili»), ma si trasforma, soprattutto, nell’invio di un messaggio che giungerà a destinazione solo quando la parabola della maturità, la crescita del ragazzo ormai egli stesso padre, si sarà conclusa all’approssimarsi dei trentacinque anni. Nel messaggio era forse iscritta la necessità incrollabile della rivoluzione, così come l’altrettanto incrollabile necessità del suo fallimento. Ed è questo il punto, all’incrociarsi paradossale di due necessità sovrapposte, in cui si situa il cardine dell’opera di Marcello Gallian, il nemico giurato di una società che permetteva ai padri di fallire e ai figli di assistere alla loro caduta, e che fu egli stesso costretto a cadere lasciando che i suoi figli assistessero. È proprio intorno alla metà degli anni Trenta infatti, che comincia l’inesorabile decadenza dello scrittore, che da astro nascente delle patrie lettere, vezzeggiato e temuto da critici e colleghi, si trasforma in lebbroso da evitare, in produttore di risme e risme di storie che nessuno più leggerà. Che Marga recasse quel messaggio, in fine, è cosa di cui non è possibile dubitare. Non si tratta infatti di una lettura arbitraria: nelle ultime pagine di Bassofondo si affaccia in modo sorprendente, emblematica, la scena di un’analisi del sangue cui Marga si è sottoposta (si tratta di uno dei tanti ricordi affioranti in modo sparso alla mente della donna), e che si ricollega in via diretta al già citato passo dell’introduzione a Quasi a metà della vita: «In quei giorni poi, conobbi la donna che rispuntò malamente nel mio sangue dopo quattordici anni»: Le analisi del sangue la estenuavano spesso, ma le sembravano necessarie. – che sangue è? Di che sangue si tratta? – domandava spesso ai dottori che non avevano tempo da perdere. Uno le aveva detto: – Ti riconoscerei da una goccia di sangue sul vetro – e Marga, a malincuore, non gli aveva creduto. Ma, un giorno, al microscopio, nel microscopio s’era vista tutta, mentre il dottore guardava quella minima Marga ridotta a goccia con un occhio solo. […] Il medico badò ai conti, scompose i vari liquidi sotto gli occhi, le dette la lista dei globuli e il prezzo, poi disse: –

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Niente paura: sanissima, ancora parecchi anni di vita: siete davvero una leonessa.64

In realtà, nel corso del romanzo era già stata narrata un’analisi del sangue. Al culmine della loro riconciliazione, allorché il ragazzo è tornato dopo aver trascorso un periodo in galera, Giovanni e Lisa si recano in ospedale affinché quest’ultima possa sottoporsi a un esame sanguigno. Nemmeno qui ci viene fornita una motivazione precisa per l’episodio, semplicemente apprendiamo che il ragazzo ha preteso che la donna facesse le analisi, temendo una non meglio precisata malattia. Anche qui, tuttavia, l’esito è negativo, e Lisa risulta essere sana: Relazione

del

signor

Wasserman,

Vidal

Microdeterminazioni: Sangue puro neppure stanco, nel colmo del suo lavoro. Le vene si mantenevan bene, col dolce sangue che arrivava sino ai piedi appena appena venati e duri al calcagno tanto usato. – E qui, qui, cosa sta scritto? Leggi bene, adagio. Fiorivan le parole, diminutivi e vezzeggiativi, nomignoli, soprannomi di donne: Creatinina, Mucina, Urobilina; ispidi altri e spumosi: fosfato; altri ancora nomi d’uomini, che potevano offendere: Indacano Normale sembrava il nome d’un trovatello. Eppoi una parola terribile, nascosta e leggiadra, – albumina – albumina, tracce, imponderabili…65

È evidente che la scena ripetuta ben due volte dell’esame del sangue, per altro non motivata in alcun modo, ripeto, dallo svolgimento della trama (ma quest’ultimo punto, nella narrativa di Gallian, è un qualcosa di decisamente frequente), non può che apparirci suggestivamente collegata al ritorno fantasmatico di quella figura archetipica che è Marga/Marta, il cui comparire accompagna il riemergere di una malattia sepolta da quattordici anni nei vasi sanguigni e che, come abbiamo visto, viene caricata dall’autore di un significato che va ben al di là del puro dato clinico, assumendo dunque un’importanza esistenziale e immaginativa che si riverbera sulla

64 65

M. Gallian, Bassofondo, cit. pp. 310-311. Ivi, pp. 208-209.

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visione politica e sulla produzione artistica.66 Certo, qui in Bassofondo, apparso pochi mesi prima del riemergere improvviso e brutale della malattia, gli esiti negativi dell’esame possono sembrare un tentativo in extremis di esorcizzare l’evento che avrebbe di lì a poco impattato nel presente (e che, evidentemente, già si annunciava in un oscuro presentimento). Eppure, il fatto stesso che il referto, persino quello di Marga – immagine della donna da cui tutto ciò aveva avuto inizio – risulti negativo, sembra confermare ulteriormente che l’esplodere del male in quanto evento reale, viene caricato simbolicamente fino a divenire il catalizzatore di un altro evento, di un’altra vicenda: ovvero il fallimento artistico ed esistenziale di quella visione del mondo per sempre decisa e irrinunciabile («le mie convinzioni inveterate e i miei giudizi ancor oggi insostenibili») la cui formazione l’autore fa coincidere con l’epoca della permanenza nei bassifondi, ai margini della società, prima dell’inizio della carriera letteraria. Formazione così sinceramente e appassionatamente accettata e vissuta, da divenire irrinunciabile, fino a impedirgli di scendere a quei compromessi che gli avrebbero permesso di condurre una vita più semplice e di continuare la propria carriera letteraria anche oltre i fasti della giovinezza, ovvero oltre il punto in cui, proprio in questi anni, diviene indubitabile il fallimento senza appello di qualsiasi ideale rivoluzionario legato al fascismo. Insomma, l’esplodere della malattia è un evento costellato da un insieme di esperienze pregresse, e funziona così da punto archimedico su cui poggia la “forma esistenziale” di Marcello Gallian, a partire dal quale cioè, si disegnano i tratti del suo destino. Naturalmente, come già accennato, e come non è difficile ipotizzare a partire dagli elementi fin qui esaminati, questa “forma” ricalca uno schema che è inevitabilmente anche quello del dipanarsi dei complessi che fin dall’infanzia hanno caratterizzato la psiche dell’autore, e che è possibile ricostruire attraverso la serie degli scritti autobiografici, oltre che da una mole impressionante di micro e macro strutture ricorrenti nelle restanti opere narrative67. Ma soprattutto – ed è questo che è innanzitutto indispensabile notare, ricollegandosi così alle conclusioni tratte nel capitolo metodologico – la costellazione psicologica che l’autore lega al dato meramente biologico/biografico, passando nell’opera letteraria, che è poi il frame attraverso cui è possibile prenderla 66

Sarebbe interessante e auspicabile allargare quest’analisi anche alla produzione pittorica di Marcello Gallian. 67 Cfr. parte prima, cap. 4.

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in esame in questa sede, finisce per avere il ruolo della natura in quanto disgregatrice delle costruzioni ideologiche/allegoriche (si ricordi qui il testo di Simmel citato in conclusione dello scorso capitolo), laddove, come abbiamo visto, tale natura reca in sé le istanze della realtà storico-politica, poiché permette loro di farsi spazio all’interno della materia cosciente ingabbiata a forza da edifici sghembi e palesemente artificiali come quelli di una scenografia espressionista. La narrazione storica immaginaria di Marcello Gallian insomma, elaborata a partire da una serie di ideologemi (tra cui la gioventù violenta e rigeneratrice, la lotta contro una borghesia senile e meschina, la rivoluzione tradita e l’attesa del suo compimento ad opera dell’infallibilità del capo), diviene significativa e comprensibile precisamente nel momento in cui, a causa del prevalere delle “forze della realtà” (situazione politica, condizioni economiche, malattia biologica), la natura manda in rovina la costruzione cosciente, rendendone evidente il contenuto di verità di cui parlava Benjamin, ovvero il carattere puramente immaginario delle soluzioni da essa prospettate (risoluzione immaginaria di contraddizioni obiettive, così Jameson aveva definito l’ideologema), ma soprattutto facendone un qualcosa di cosciente per l’autore stesso, che solo a partire da questo momento si dimostrerà in parte consapevole della sua collocazione all’interno del quadro storico, delle reali contraddizioni del regime fascista, del suo personale fallimento come artista. E tuttavia, questa consapevolezza non porterà a un’accettazione e a un cambiamento, bensì a una sorta di alienazione sempre più drammatica dalla realtà dei fatti, con riflessi regressivi evidenti anche nella produzione letteraria, sia a livello tematico che stilistico. Non è possibile tuttavia evitare di notare – e spiace qui dover di nuovo invadere il piano della biografia e della clinica – che tale regressione, che sempre più assume l’aspetto di una fissazione, di una mancanza di lucidità e di una difficoltà di concentrazione, potrebbe essere interpretata senza forzature come un riflesso del manifestarsi della sifilide, che, com’è noto, è in grado di intaccare, in questa fase, il sistema nervoso e la sua stabilità. Un percorso simile è del resto tracciato da Alberto Savinio nel ricostruire la vicenda di Guy de Maupassant, la cui esistenza venne segnata proprio dall’irrompere di una sofferenza psichica sempre più totalizzante, anche in quel caso provocata dal ritorno della sifilide latente, che si manifestò con le sembianze de l’altro:

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«quell’inquilino nero, quell’angue vorace che aveva preso dimora nella sua carne e sempre più faceva da padrone…»,68 la cui apparizione segna un passaggio cruciale anche nella produzione letteraria dello scrittore, proprio come l’ingresso in scena di Marga, giunta a disfare un romanzo quasi terminato e ad annunciare l’evento enorme.

68

A. Savinio, Maupassant e l’«altro» (1975), Milano, Adelphi, 1995, p. 63.

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CAPITOLO 3

Frammentazione stilistica e strutture dell’immaginario

1. Riferimenti letterari e cinematografici

Nel 1929, anno in cui viene pubblicato il primo romanzo in volume di Marcello Gallian, la “donna fatale” per antonomasia era la Lulù di Frank Wedekind, che nel medesimo anno venne portata sullo schermo da Georg Wilhelm Pabst in Il vaso di Pandora, con l’interpretazione di Louise Brooks, nel suo ruolo forse più celebre. Ho già avuto modo di notare, nel secondo paragrafo dello scorso capitolo, come il finale de La donna fatale di Gallian si ricolleghi in modo diretto al prologo del dramma di Wedekind,1 nel corso del quale un imbonitore da fiera, in frac rosso da domatore, invita il pubblico ad entrare nel baraccone del circo per ammirare bestie esotiche e selvagge. Come principale attrazione viene portata in scena l’attrice che interpreterà Lulù in abito da Pierrot, presentata come «il nostro serpente». Non è questo il solo punto di contatto fra il dramma di Wedekind e il romanzo di Gallian, che ne riprende un elemento strutturale significativo, ovvero il fatto che la protagonista sia un polo di irresistibile attrazione per una serie di personaggi da circo, di cui lei per altro ama circondarsi, e che la seguono ovunque. Quanto alle concezioni di fondo che stanno alla base delle due opere, è possibile invece ravvisare innegabili divergenze. La Lulù di Wedekind, non a caso divenuta tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del nuovo secolo l’immagine stessa del potere distruttivo della donna perduta che perde e porta alla rovina chi si lascia ammaliare, 1

Si tratta in realtà di un doppio dramma, che si sviluppa in due nuclei successivi, intitolati Lo spirito della terra (Erdgeist, 1895) e Il vaso di Pandora (Die Büchse der Pandora, 1902); in F. Wedekind, Teatro, cit.

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è una figurazione del puro istinto che, represso dalla morale convenzionale e dall’ipocrisia della società, si ribella sprigionando una forza d’attrazione invincibile.2 Ben diversa è Stella, la “donna fatale” al centro del romanzo di Gallian, immagine grottesca di “santa” che esercita suo malgrado un potere di coercizione fatale, appunto, su tutti gli uomini che posino gli occhi su di lei. Tutore e aguzzino della giovane è il Grosso, energumeno inquietante e brutale deciso a impedire che la santa si perda nei vizi del mondo, affinché possa invece adempiere il suo destino di spiritualità ed esser riconosciuta da tutti per quello che è. Non si pensi tuttavia a scenari realistici: Gallian costruisce la sua storia con una tonalità decisamente grottesca e fantastica, dai personaggi fino all’ambientazione – una misteriosa città denominata Augusta, con tanto di re e di regina fiabeschi (certo sono presenti dei riferimenti a Roma, ma il legame con la realtà è talmente labile da renderli praticamente ininfluenti). Insomma, ci troviamo di fronte ad un esempio di creazione letteraria che si pone esattamente agli antipodi di quei rari momenti di maggior controllo e riflessione da cui si è partiti all’inizio dello scorso capitolo. Come ho già avuto modo di affermare, l’autore si abbandona qui alla libertà più totale, con una trama chiaramente costruita per suggestioni, senza un piano preciso, e senza neppure attenersi ai limiti di un’ambientazione verosimile. Ecco come lui stesso descrive la genesi del romanzo in un articolo comparso sulla rivista «’900» di Bontempelli: «La donna fatale» […] è stato scritto nella redazione di un giornale romano ormai defunto, in meno di due mesi. L’autore invero non aveva né una macchina da scrivere né una casa e nella redazione in parola, pavimentata tutta di lucidissime mattonelle di legno, corredata di ampie finestre spalancate sopra una terrazza antica e ricchissima di lampadari che facevano pensare a luminarie prossime a scoppiare, nelle ore deserte che van dal mezzogiorno alla

2

«Lulù, il dramma della grande cortigiana, della mitica ed apocalittica meretrice di Babilonia, una delle donne vampiro più ammirate del fine secolo, è in realtà un dramma squallido fino ai limiti della sopportabilità: Lulù, simbolo del’«innocenza infantile del vizio», è infatti astuta ed ingenua, terribile e meschina ad un tempo: fa sempre, finché può, tutto il male che può fare; quando il male sta per essere fatto a lei, diventa vile, si umilia davanti al suo avversario fino ad annichilire la propria personalità – che è poi inesistente, poiché essa non solo «significa», ma realmente è soltanto l’istinto e non può avere quindi una personalità propria». L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, III Dal realismo alla sperimentazione (1820 -1970), 2 Dal fine secolo alla sperimentazione (1890-1970), tomo primo, Torino, Einaudi, 1978, p. 1035.

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prima Ave Maria (ore che dovrebbero comportare il primo pasto, il simposio sudulante e la passeggiata a piedi) per i giorni feriali, e dal mattino alla sera nei dì di festa, buttò giù i capitoli che formano il romanzo, a rovescioni, a rompicollo, a «al fuoco, al fuoco!», al «si salvi chi può!», al quel «Dio ci liberi tutti!».3

Insomma, si tratta di una storia piovuta («a rovescioni») sulla macchina da scrivere, in cui Gallian dà una sua personalissima interpretazione di quella che era la temperie del “realismo magico” bontempelliano, finendo per perderne entrambi i poli, ovvero annullando nel grottesco e nel parossistico sia il realismo che il “magico”. Riassumere la trama, per quanto in modo sommario, risulta piuttosto complicato: Stella, la “santa”, vive segregata in casa, sotto la sorveglianza del Grosso; gli uomini che riescono a scorgerla attraverso le finestre si innamorano follemente di lei, dando origine ad un epidemia di suicidi che sconvolge la città. I più audaci, quelli che non si rassegnano, vengono fatti prigionieri dal sinistro guardiano, che li rinchiude in un enorme sotterraneo, per poi torturarli e sottoporli a esperimenti magici. Nel frattempo, ci vengono presentati gli altri protagonisti, ovvero una serie di personaggi da circo – veri e propri freaks – tra cui un “fantoccio di carne”, un suonatore di clarinetto che sopporta qualsiasi ferita da taglio, un veggente da strapazzo, un ladro-prestigiatore in grado di far sparire ogni ricchezza, due gemelli albini di pochi anni che sembrano già vecchi, ed altri ancora. Dopo una serie di vicende sconnesse, per mettere alla prova Stella e consentire al mondo di riconoscerla, il Grosso la conduce ad abitare in una casa di tolleranza dove le donne si dedicano al mestiere senza chiedere in cambio denaro, solo per il piacere di fare figli a ripetizione. Quando il re, preoccupato della fama crescente della santa, le impone il matrimonio, il Grosso la costringe a sposare il suonatore di clarinetto, dopo averlo definitivamente ammazzato. Ma il cadavere resuscita nel corso della prima notte di nozze, provocando gli isterismi della folla che finalmente comincia ad adorare Stella come fosse una madonna. E tuttavia, chiusa nel suo isolamento, questa inizia a deperire, innamorata di Leone, un giovanotto violento e sfacciato, l’unico che non si sia mai prostrato ai suoi piedi. Dopo ulteriori avvenimenti convulsi, Leone

3

M. Gallian, Io e la donna fatale, in «900», IV, n. 1, 21 gennaio 1929, pp. 41-42: 41.

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riesce a possedere Stella, che in fine rifiorisce e viene realmente consacrata al culto popolare, con un suo santuario e le sue processioni. Passati alcuni anni tuttavia, anche la santità diventa una routine, la passione popolare si esaurisce, e Leone decide di trasformare il tutto in un baraccone da fiera itinerante, così che la vicenda possa concludersi laddove era cominciata quella della Lulù di Wedekind. Dopo questo breve e tuttavia inevitabilmente caotico sommario, si sarà ormai capito che ci troviamo di fronte a una materia davvero magmatica e incontrollabile. A onor del vero, bisogna anche riconoscere che si tratta di una delle prove meno felici dell’autore romano, qui agli esordi come romanziere, che tuttavia già in tante opere di quel periodo era riuscito a raggiungere risultati di sorprendente qualità. Se ho scelto di prendere in esame proprio questo romanzo, è perché, trattandosi di una materia affiorata pressoché senza controllo, vi sono contenute molte delle strutture immaginative e ideologiche più genuine di Gallian, che è possibile in questo luogo esaminare allo stato puro, quasi come si trattasse di veri e propri materiali onirici (leggendo si ha del resto più volte l’impressione di trovarsi di fronte a immagini tratte da sogni). La prima cosa da notare è che lo scenario è palesemente ispirato all’immaginario cinematografico di derivazione espressionista,4 e in particolare al notissimo Metropolis di Fritz Lang, comparso nelle sale europee tre anni prima: «in alto funicolari e larghe passeggiate di ferro, grandi ripide di acciaio sulle quali strisciano le carrozzette degli impiegati, le vetture padronali costruite a guisa di slitte, automobili che scivolano e si arenano; […] movimento, fragore sopra e sotto», e ancora: e se qualcuno si affaccia ai balconi a quell’ora o alle finestre, vede file di automobili e di carrozze allineate sulle grandi strade di ferro, trams che vanno a furia di spinte elettriche, gambe d’uomini che camminano, bocche che s’aprono, ma nessun rumore, nessuna voce, nessun suono, come in una cinematografia […].5

4

«Ma tutta la città alle sue spalle non era che un meccanismo satanico per gli esperimenti che produceva al pubblico; erano quinte e fondali le case, o scatole misteriose o coni […]». Ivi, p. 133, cors. mio. 5 Ivi, pp. 10-12, cors. mio.

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Ed ecco che in quest’ultimo brano l’autore dichiara espressamente di immaginare la città di Augusta come una proiezione cinematografica (dunque ancora silenziosa, nel 1929). Del resto, in una scena di poco successiva, la ragazza, segregata in casa, osserva il movimento convulso delle strade cittadine nelle luci e nelle ombre che attraverso le finestre si muovono sul soffitto della stanza: Ogni giorno, a quell’ora, gli spiragli della luce che veniva dalla finestra, battevano al soffitto. E sul soffitto cominciavano per la ragazza le apparizioni. La camera si faceva più buia e il soffitto si illuminava di gran luce; passavano ombre ed ombre in una cinematografia triste e lugubre; apparivano uomini, grandi mani spalancate, volti di mostri, trecce di capelli recise, occhi, occhi senza fine.6

Anche qui il riferimento alla «cinematografia» è esplicito, ed è possibile del resto notare che vi viene descritta quasi alla perfezione una delle scene iniziali del celebre film di Karl Grune La strada,7 del 1923, in cui il protagonista, borghese condannato a una vita sempre uguale, osserva il frenetico movimento della via cittadina proiettato sul soffitto del suo soggiorno, mentre la moglie gli serve una triste cena. L’uomo, lasciatosi conquistare dal fascino ammaliante e sinistro di quelle ombre in movimento, abbandona la casa per lanciarsi verso una serie di avventure che si riveleranno sempre più catastrofiche. C’è poi il mondo sotterraneo, regno incontrastato del Grosso, che qui assume i tratti del mago/scienziato, altra figura tipica dell’espressionismo. Non a caso, a dispetto della suggestione di una città al di sotto della città, che potrebbe anch’essa parere derivata dal film di Lang, ci troviamo piuttosto di fronte a una labirintica serie di segrete teatro di torture e crudeltà, come in un altro celebre film, stavolta appartenente all’espressionismo più “ortodosso” – ovvero Il gabinetto delle figure di cera8 di Paul Leni, del 1923, – nel quale uno dei tre episodi ci mostra i sotterranei del palazzo di Ivan il Terribile. Quest’ultimo, sadico e assetato di sangue, condanna le 6

Ivi, pp. 37-38, cors. mio. Die Straße. 8 Wachsfigurenkabinett, in quegli anni noto in Italia con il titolo abbastanza banalizzante (un vizio, quello di massacrare i titoli originali delle pellicole, che dalle nostre parti non cadrà mai più in disuso) di Tre amori fantastici. Cfr. S. Kracauer, Da Caligari a Hitler, cit., pp. 133-136 e L. Eisner, Lo schermo demoniaco, cit., pp. 87-92. 7

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proprie vittime a lente torture, tenendole incatenate alle pareti, come statue, proprio come farà il Grosso con i suoi prigionieri, che per altro verranno sottoposti ad una sorta di imbalsamazione che li trasforma in fantocci,9 il che ci riporta alla cornice iniziale da cui si diramano gli episodi del film di Leni, ovvero un baraccone da fiera all’interno del quale sono sistemate le statue di cera di personaggi storici o fantastici.10

9

«Ora spingeva nel corpo dell’uomo ricco paglia e cenci e tutto plasmava di un unguento che odorava miracolosamente di giglio e di nafta; poi il corpo così conciato introdusse dentro una specie di scatola che faceva da porta-reliquia e i vetri erano così ben congegnati che si vedeva la pancia di carne dell’uomo come fosse falsa e i denti dentro la bocca e gli occhi nei quali era fermo l’ultimo paesaggio. Poi tutta la guaina di legno prezioso rivestì di uno strano costume orientale con turbante, calzari di lana, mantello e fusciacca di colore; alzò in piedi la statua e l’accostò alla parete. […] Le mie statue di carne vera, di carne autentica, di carne che ha amato e che si è arrossata di vergogna prima di morire!». M. Gallian, La donna fatale, cit., pp. 51-52. 10 Il film di Leni si chiude con i due innamorati che fuggono inseguiti da Jack lo squartatore tra i baracconi della fiera. Con la comparsa di Jack lo squartatore si chiude anche Il vaso di pandora di Wedekind, e sarà proprio l’archetipo di tutti i serial killer contemporanei, come già accennato, a porre fine alla vita di Lulù. Ciò sia detto per testimoniare l’intreccio di suggestioni che tiene insieme, in questo romanzo di Gallian, Wedekind e Paul Leni.

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2. La madre e la prostituta: La donna fatale

È ora il momento di affrontare quello che è il nodo concettuale del romanzo. Con tutta probabilità, Gallian aveva inteso raffigurare una sorta di parabola della donna fatale domata dalla sana ed energica virilità; e in fondo neppure questo schema si discosta dall’ossessionante struttura che reggerà tante delle sue opere narrative successive, di cui ho già mostrato alcuni esempi, ovvero l’amore tra il “ragazzo selvaggio” e la donna matura e infiacchita dalle comodità della vita. In questo caso, Stella e Leone sembrano essere coetanei, ma è pur vero che prima che il giovane arrivi a possederla – e dunque a ringiovanirla – la ragazza subisce un invecchiamento precoce che la rende irriconoscibile. Pur tenendo presente la centralità di questo schema, è tuttavia importante notare che a complicare la vicenda intervengono diversi elementi eterogenei al meccanismo base. Innanzitutto, Stella è una donna dotata di straordinaria sensualità, piuttosto che una signora addomesticata dagli anni. In secondo luogo, vi è la questione della “santità”, ovvero del tentativo del Grosso di tenere la ragazza al riparo da qualsiasi tentazione sensuale, fino a che, nel finale, entrambe le dimensioni si saldano facendo di Stella l’amante appassionata di Leone e al contempo una santa venerata dal popolo (prima dell’ultima decadenza verso il baraccone da fiera). Sembra dunque possibile leggere il romanzo come un tentativo di sommare allo schema del giovane che col suo amore ringiovanisce la donna matura, quello della lotta tra l’amore sensuale e la morale sessuofobica e perbenista. Sennonché, il ruolo di Leone non è far trionfare l’amore fisico sulla repressione degli istinti, ma piuttosto sconfiggere entrambe le istanze: da un lato il giovane deve infatti ricondurre la “donna fatale” ad un amore di tipo coniugale, sano, con tanto di figli, lontano dalla dimensione morbosa di follie, suicidi, sacrifici, ecc.; dall’altro, ha il compito di salvare la “santa” dalle privazioni e dall’ascetismo estatico imposti dai deliri mistici del Grosso. Sicché, il tutto è probabilmente da leggersi come la parabola dell’addomesticamento della femminilità, con tutti i suoi eccessi (i suoi sconfinamenti, per così dire, verso l’alto e verso il basso), ad opera di una “schietta virilità”. È questa del resto, grosso modo, la lettura che ne dà lo stesso Gallian all’interno del suo già citato intervento comparso su «900». È bene riportarla 86

brevemente, prima di passare ad uno scandaglio più profondo, anche perché si tratta di un brano dotato di una sua “terribilità”: Il romanzo tratta di una formosissima donna, italiana fin dentro le più riposte viscere, creduta santa per una serie di sortilegi funamboleschi e condannata a rimaner tale per tutta una vita, se un tracotante giovanotto latino, sacrilego e religioso, amatore e cinico, fantasioso e spendereccio, non l’avesse costretta [cors. mio], con l’aiuto della di lei buona grazia, a sconciarsi di due figli masti e gemelli, ovvero a partorire coi fiocchi, secondo i dettami di Mussolini, duce nostro e padrone del mondo.11

È evidente come la fantasia di base sia esattamente la stessa che anima Una vecchia perduta, con il rapporto uomo-donna concepito unicamente attraverso la modalità dello stupro, anche qualora venga immaginato come volontario. Vi ritorna persino l’idea ossessiva della nascita del figlio (sdoppiato in due gemelli), figura, come abbiamo visto, del ritorno del padre mostruoso, qui addirittura adombrato dall’intervento diretto e imperativo di Mussolini, «padrone» – e tanto più padre. Ma Gallian ha davvero detto questo nel suo romanzo? Non si tratta piuttosto di una lettura a posteriori, in un certo qual modo tranquillizzante, mediante la quale egli stesso si preoccupava di riportare nell’alveo dell’ortodossia fascista una materia debordante e che per molti versi gli era sfuggita di mano? Non deve del resto stupire che una scrittura «a rovescioni e a rompicollo» potesse facilmente cadere preda di impulsi difficilmente ingabbiabili all’interno di una costruzione ideologica (com’era invece avvenuto nel caso dell’allegoria manifesta di Una vecchia perduta). In realtà, se guardiamo da vicino il finale del romanzo, non sembra di potervi scorgere nessun tipo di “addomesticamento”. Stella è divenuta, sì, la docile amante di Leone, ma esattamente allo stesso modo in cui era stata l’ubbidiente protetta del Grosso. Per quanto devota a Leone, è ancora “la santa” adorata che dispensa miracoli (anche se, per così dire, passata di moda e caduta nel dimenticatoio), ed è, soprattutto, ancora la “donna fatale”, al punto che il suo amante la piazzerà in un baraccone da fiera come attrazione principale: 11

M. Gallian, Io e la donna fatale, cit., p. 41.

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Vengano,

vengano,

signori!

Lo

spettacolo

straordinario incomincia. […] avrò la fortuna di presentarvi, signori e signore, la donna più bella del mondo, colei che ha procurato stragi e processioni di innamorati, la vera donna fatale, la Regina della ricchezza e dell’amore, la santa dei miracoli, […] Stella! La donna dei vostri sogni, il monumento dei vostri cuori!12

Ma qual è il senso più profondo di questo gioco di sovrapposizioni, che rende apparentemente così complicato comprendere questa confusione di piani (anche interpretativi)? Io credo che il fulcro portante del romanzo, ampiamente riscontrabile anche in varie altre opere dello scrittore, sia proprio il continuo tentativo di far coesistere in una medesima figura la sensualità più sfrenata con la rassicurante dimensione familiare, accogliente e “sana”. Fin dall’inizio della storia infatti, una serie ampissima di immagini legate al campo semantico della “carne”, della sensualità, coesiste con un continuo richiamo alla spiritualità e alla purezza (come ho già notato, l’autore a questo livello concepisce tale spiritualità come un’immagine di insana repressione che deve essere superata, ma la strutturazione binaria dei due poli rimane). In seguito, anche quando Leone avrà salvato Stella riportandola ad una condizione di sensualità “normale”, l’immaginario legato alla “carne” continuerà ad avere un ruolo di primo piano, ma in questo caso non sarà più bilanciato da un’insana religiosità, bensì da una quotidianità familiare. In ogni caso, la figura centrale su cui bisogna concentrare l’attenzione per venire a capo di questo problema, è la prostituta/madre, che incontriamo, proprio a metà del romanzo, incarnata dalle varie ragazze che popolano il bordello, all’interno del quale «non fanno mercato della loro carne», ma dispensano amore a tutti13 per il puro piacere di fare figli: Son dieci donne grasse, cariche di mammelle gonfie, forti come massaie, discinte come se stessero sempre in faccende. Le maniche rimboccate sulle braccia, gli zoccoli ai piedi; son tutte madri di famiglia senza capo di casa; fanno figli senza pensare, figli uno dietro l’altro, figli che imbrattano il pavimento e sporcano i muri con le mani rosse 12

M. Gallian, La donna fatale, cit., pp. 232-234. Lo stesso contesto della prostituta che si dà a tutti per amore e non per lucro, come ho già ricordato, tornerà anche nel dramma La scoperta della terra, cit. Cfr. parte prima, cap. 2, par. 1. 13

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di pomodoro; il latte schizza sui muri e innaffia di odore tutte le camere. Son donne che amano tutti gli uomini per l’amore d’aver figli a iosa, figli a spreco; gli uomini della città vanno in quella casa con la puntualità dei mariti che tornano da lavoro; là si ama e le donne sono rinomate per amar tutti senza distinzione; non fanno mercato della loro carne; amano, non si danno per lucro o per distrazione, per paura o per vizio; si danno per amore di tutti, ché tutti sentono di poter amare con gran cuore, a braccia spalancate, a viso aperto. […] Arrivano gli uomini, e se ne vanno via con loro nella stalla come per un giorno di nozze; si sentono urla feroci, canti, che non sono smodati, ma sereni, come di chi accudisce ai figli o alle faccende di casa. Quando l’uomo se ne va, la donna piange e lo saluta come debba partire per un lungo viaggio.14

I corsivi da me apposti a questo brano, hanno lo scopo di rendere evidente come tutto, all’interno del bordello, vada nella direzione della riproduzione della vita familiare. Le prostitute sono «come massaie», gli uomini si recano a visitarle come tornando da lavoro, si chiudono nella stalla con loro «come per un giorno di nozze», e persino le urla che vengano emesse nella consumazione del rapporto sembrano suoni domestici addirittura legati all’accudire i figli e all’attendere alle «faccende di casa». Probabilmente, Gallian sapeva bene di descrivere un qualcosa di abbastanza ordinario all’interno delle case di tolleranza e in tutti i luoghi ove si eserciti la prostituzione in modo organizzato, ovvero la tendenza a dar vita, in alcune occasioni speciali, a “messe in scena” che riproducano contesti ben noti, usualmente non associati ad una dimensione sessuale (la vita domestica ne è un perfetto esempio: la prostituta travestita da donna di casa; ma ci sono anche il convento e vari altri scenari…). Certamente, nel caso presente non vi erano allusioni che andassero in tale direzione. Piuttosto, bisogna domandarsi da cosa derivi una fantasia di questo genere, e a quale impulso dia seguito. Quel che è certo, è che al medesimo campo semantico è da ricondurre anche la fantasia di stupro sovrapposta al rapporto sessuale

14

M. Gallian, La donna fatale, cit., pp. 101-103, cors. miei.

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consenziente, che si carica a sua volta di caratteri incestuosi: da un lato Stella, quando finalmente sfugge alla sorveglianza del Grosso e si ritrova sola con Leone, «si dibatte, si arruffa, si lascia predare senza rispetto», dall’altro il giovane «si sentiva nelle grazie della santa e fatto bambino, come tutti gli uomini in quelle condizioni, rude e sporco di saliva rossa, sfacciato e robusto, adorava a suo modo la carne della donna e la toccava con quell’ansia e quella curiosità che hanno i ragazzi per le dame ricchissime o per gli idoli esperti di misteri».15

15

Ivi, pp. 203-204, cors. miei.

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3. Ossessione della “carne” e smembramento sintattico.

Sovrapporre la madre alla prostituta: è questa, a quanto pare, la struttura portante dell’insieme di fantasie emerse nel precedente paragrafo, all’interno delle quali rientra anche la tendenza del giovane a farsi sfruttatore, poco dopo, della sua amante. Egli vivrà infatti alle sue spalle, pretendendo in modo triviale e manesco di arricchirsi con i proventi della sua attività, che non sarà esplicitamente la prostituzione, è vero, ma prevedrà comunque un contatto continuo e nauseante con una folla anonima, dal momento che si tratterà dell’operato di “santa miracolante” prima, e di fenomeno da baraccone poi: La folla passava; tutti si trascinavano sino a lei carponi, poi ad uno ad uno, chi le baciava le ginocchia preziose, chi le mani e gli anelli, altri i piedi profumati; dopo qualche ora, ella era divenuta opaca di fiati e di baci. […] Leone era in un angolo e guardava lo spettacolo. […] Bocche che baciavano le grazie della fanciulla, bocche tremule di vecchi, bocche raffinate di gentiluomini eleganti, bocche ingorde di monelli, bocche affamate di operai. […] In ogni modo Leone si sentiva, in favore della fanciulla, proprietario del bel santuario, tesoriere delle cassette votive e delle elemosine, dei doni e delle primizie che arrivavano nel tempio da ogni parte della città.16

Non mi pare possano sussistere dubbi sul fatto che il rapporto instaurato da Leone con la sua donna sia assimilabile allo sfruttamento della prostituzione, in cui, ancora più che altrove, la figura della madre che provvede al sostentamento del figlio e lo tratta con dedizione e tenerezza va a sovrapporsi a quella della prostituta che si dà a tutti: «Era nato per governare le donne e per farsi mantenere coi fiocchi»,17 è detto in precedenza del giovane, ma ancora più esplicitamente: «Era bello il giovanotto, che ai dinieghi della donna, fatto audace e manesco, batteva Stella, la sua

16

Ivi, pp. 214-215. Ivi, p. 150. E ancora, a proposito delle messe in scena da bordello collegate a questo tipo di fantasia, poco dopo, sempre a proposito di Leone: «Nelle tue mani una donna può diventar santa, regina, monaca e prostituta… ti conviene in ogni modo tenertela cara»; p. 151. 17

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santa, la santa di Augusta; lo sfruttatore spavaldo, che batteva per amore e per odio».18 Sovrapporre la madre alla prostituta: ciò ha certamente l’aspetto di una “terapia”, o addirittura di un esorcismo. Ma cos’è che deve essere esorcizzato? Probabilmente quel tipo di fantasia che nel romanzo diviene ossessione della “carne”, parola mantra, continuamente rappresentata con ampio contorno di situazioni e immagini nauseanti. A questo punto dell’analisi è opportuno richiamarne alcuni esempi, anche perché proprio in questo contesto è più semplice verificare come tale impulso, strutturale più che tematico, abbia un riflesso plasmante sull’uso stilistico dell’autore. Proprio nei luoghi in cui si accentua l’emergere di una sensualità potente, la scrittura di Gallian pare maggiormente esasperarsi in senso paratattico, con notevole accumulo di proposizioni e di elementi sostantivali, solitamente ritmati da ripetizioni anaforiche: «non sentirà più gli odori del sonno terribile e vivo dei quattro, le loro voci nel sonno, i loro gesti nel sonno, che formano un solo mistero; grandi mani che frugano, grandi occhi che fra le ciglia, covano la carne, grandi bocche pronte a mordere, come quella dei cani arrabbiati».19 Laddove la paratassi si fa equivalente, sul piano sintattico, delle immagini di smembramento che riguardano i corpi, che paiono a loro volta reagire a una sensualità talmente forte da risultare insopportabile, distruttiva. Ecco un brano esemplare, in cui l’accostamento di elementi paratattici va di pari passo con una vera e propria fantasia di smembramento universale: – Rubare, rubare Stella; portarla in una terra sconosciuta, dove nessuno sia, né occhi né mani né orecchie; torsi d’uomini mutilati. Salire salire a prenderla, nella camera piena di ghirlande e portarla via. O anche… darla in pasto alle belve, buttarla nel fuoco, farla a pezzi affinché ognuno abbia il suo ricordo. A me un piccolo dito da succhiare; o la capigliatura, datemi, ché voglio fare un

18 19

Ivi, p. 226, cors. mio. Ivi, pp. 86-87.

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gomitolo di tutti i fili neri o biondi o verdi o rossi, o una frusta, o una parrucca… fare, fare, salire…20

Dove è da notare la natura prevalentemente infinitiva delle costruzioni verbali, che contribuisce in modo ancora più potente a trasformare il discorso stesso in un puro ammasso di frammenti giustapposti, come le parti del corpo messe in ordine sparso l’una di fronte all’altra, oppure contenute in un organismo di cui non si riconosca però la natura, per così dire, organicizzante, normativa, proprio come avviene nel neonato, che non è ancora in grado di percepire il proprio corpo come unità, ma solo come caos irrelato di componenti inorganiche e sensazioni. Insomma, soprattutto in corrispondenza dei luoghi del romanzo in cui emerge la tematica della “carne” e dunque del desiderio sessuale, immancabilmente assistiamo al manifestarsi di simili fantasie di smembramento, cui corrisponde, sul piano stilistico, la tendenza alla frammentarietà paratattica, all’accumulo anaforico, all’insistenza delle costruzioni nominali (tutti elementi che poi negli anni successivi saranno largamente usati dallo scrittore: diviene allora più chiaro il valore esemplare de La donna fatale, testo per molti versi archetipico per la produzione posteriore). Torniamo ora a quello che ho appena definito un “esorcismo”, ovvero al tentativo di sovrapporre la figura sensuale della prostituta a quella rassicurante della madre (far coincidere la “donna fatale” e la “santa”). È evidente che il fattore che consente la quadratura del cerchio, ovvero il compimento di questa doppia sovrapposizione non può che essere Leone, il “ragazzo selvaggio” che ritroveremo poi anche in Una vecchia perduta, Bassofondo e tanti altri romanzi e racconti. Ma se, come ho già dimostrato (e gli esempi da apportare potrebbero essere ancora moltissimi), si tratta di una figura prettamente filiale, che instaura cioè con la donna un rapporto palesemente incestuoso («si sentiva nelle grazie della santa e fatto bambino»), non è possibile rinunciare a prendere in esame anche l’ovvia controparte del ragazzo, ovvero la figura del padre, che è in questo romanzo, con ogni evidenza, impersonata dal Grosso. Da questo punto di vista, non sarebbe difficile leggere l’intera vicenda come una lotta contro l’autorità paterna culminante con la sconfitta e la neutralizzazione di quest’ultima. Se ripensiamo al fatto che per tutta la prima parte del romanzo è il Grosso a tirare le fila della storia, ponendosi come l’antagonista con 20

Ivi, p. 80.

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cui tutti gli aspiranti amanti di Stella sono chiamati a confrontarsi, per poi soccombere e sopravvivere solamente in una posizione subalterna, di definitiva rinuncia ai propri desideri, appare allora molto significativo che proprio nel momento in cui Leone riesce a possedere Stella, il Grosso perda di colpo tutto il suo potere, si trasformi in un personaggio secondario, uno dei tanti freaks, i fenomeni da baraccone che formeranno il grottesco seguito dei due amanti. Completato lo schema del racconto con la sconfitta del padre, ci accorgiamo di quanto esso vada ancora di più ad avvicinarsi a quello che alcuni anni dopo costituirà la base di Una vecchia perduta, da cui è cominciata la mia analisi dell’opera di Marcello Gallian. Non avevo potuto evitare di ravvisare, in quel racconto, la presenza diffusa di un immaginario definibile come masochista, e avevo citato,21 a confermarne la pervasività in tutta l’opera di questo scrittore, proprio una scena tratta da La donna fatale, in cui il Grosso, gettatosi ai piedi di Stella, si lascia frustare da lei (la riporto ora più estesamente): I figli sono orribili, i figli degli uomini, e nascono dalla fame; gli uomini mangiano e fanno figli; il tuo ventre è sereno e puro, Stella, – mi senti? – e i tuoi seni hanno sempre l’alba, intorno. – Vedo occhi rossi: Grosso, ho paura. – Occhi rossi, santa e di chi? – I tuoi, Grosso, i tuoi… La fanciulla saltò dal letto, prese una frusta e cominciò a frustare il Grosso che s’era gettato in terra; lo frustava a sangue e l’uomo mugolava e supplicava. – Così, Stella, più forte ancora ogni volta che vedrai i miei occhi rossi. Il Grosso si agitava furiosamente nella sua parte di demonio; riusciva a mandar fuori fiamme e cenere dagli occhi e dal naso e la piccola donna, la fanciulla vestita di garza al modo delle canzonettiste ingenue di prima scena, ridendo a denti stretti di paura, continuava a staffilare l’uomo, senza misericordia; da quell’ammasso di carne uscivano rantoli e polvere, le sue grosse mani lasciavano sul pavimento larghe orme d’acqua sudata. […] 21

Vedi parte prima, cap. 1, par. 4.

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E abbaiava lugubremente, a somiglianza di cane e meglio di un cane, girava qua e là per la stanza a quattro zampe e si grattava furiosamente con la lingua rossa i sibili dello staffile.22

Ho già in precedenza citato,23 a proposito del fantasma masochista che qui vediamo così espressamente riprodotto, Il freddo e il crudele, il saggio che Gilles Deleuze ha dedicato all’opera di Sacher-Masoch, nell’ambito del quale afferma che, nella scena tipica del masochismo, a essere punita è proprio l’immagine del padre, la cui sconfitta, come abbiamo visto, è il risultato finale di questo romanzo di Gallian: «Non è forse proprio l’immagine del padre che, in lui, viene sminuita, picchiata, ridicolizzata, umiliata? Ciò che egli espia non è forse la sua somiglianza con il padre, la somiglianza del padre? La formula del masochismo non è forse il padre umiliato?».24 Il ricorso a questo tipo di riferimento consente anche di chiarire quello che ho definito essere il punto centrale di tutto il romanzo, ovvero la quadratura tra la madre e la prostituta, così mirabilmente raggiunta nella coppia costituita dallo sfruttatore e dalla sua amante prostituita. Deleuze stesso non manca di ricordare come nella sua vita privata Sacher-Masoch spingesse la moglie a trovare amanti con inserzioni sui giornali e addirittura a prostituirsi per soldi: «la prostituzione ideale si fonda su un contratto privato con cui l’eroe masochista persuade la propria donna, in quanto madre buona, a darsi agli altri».25 In questo modo, la madre buona assimila in sé, e dunque sublima, le funzioni delle altre figure materne negative (quella «eterica», che precede la nascita, dunque ancora estranea all’istinto materno, e quella «fallica», la cattiva madre divorante del complesso di edipo, che compare ogni volta che la libido entri in fase regressiva), che tenderebbero a rendere insopportabilmente angosciosa la situazione incestuosa, e che vengono così neutralizzate: «Perché nel masochismo l’importante è che la funzione di prostituta venga assunta dalla donna in quanto donna onesta, dalla madre in quanto buona madre (la madre orale)».26

22

Ivi, pp. 35-36. Parte prima, cap. 1, par. 4. 24 G. Deleuze, Il freddo e il crudele, cit., p. 68. 25 Ivi, p. 70. 26 Ivi, p. 69. 23

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Come ricorda Deleuze, il senso più profondo di questo meccanismo non è tuttavia la difesa dalle immagini angosciose della madre, quanto la neutralizzazione della figura paterna, della somiglianza con il padre, che viene punito ed estirpato, grazie alla triplice madre che racchiude in sé l’intero cerchio dell’autorità, potendo così rigenerare il figlio, in modo fantasmatico, senza l’intervento del padre: Ma mia madre rimane e rimarrà sempre il mio segreto, solo il mio segreto, sino al giorno in cui, per magia o per miracolo, tornato bambino e poi nano e quindi embrione, non entrerò nuovamente in lei, sino a diventar germe e lei mi rimetterà al mondo, per bontà e poi morirò e farò la stessa storia sempre, io da lei, lei il mio segreto, io il suo segreto.27

La partenogenesi, il concepimento di un figlio senza l’intervento paterno, è il fulcro del fantasma masochista: entrerò nuovamente in lei e lei mi rimetterà al mondo. In questo brano composto molti anni dopo, Gallian ne darà una rappresentazione quanto mai esplicita. Tanto più che, a ben vedere, questa fantasia di congiunzione e rinascita si manifesta proprio in corrispondenza della più dura accusa che il figlio possa muovere al padre. Il passo si colloca infatti a conclusione di un brano autobiografico che ho già avuto modo di citare brevemente, in cui l’autore racconta di aver trovato la madre, al ritorno dall’impresa di Fiume, spaventosamente decaduta, costretta a fare le pulizie in una sordida casa: Ma quando vidi mia madre, ridotta malamente, che abitava in una stradetta principale e camusa e lorda, allora soltanto decisi di rimanere qualche giorno ancora, per osservarla meglio nella sua nuova posizione strana e pervertita. Mi sembrava mutata radicalmente, ovvero era sparita la collegiale di Oxford, la abitatrice di ville fraterne, la dama di corte, la moglie di console; era caduta, ancora meravigliata, in una condizione assoluta e invendicata, che sciupava magistralmente. La trovai, infatti, in una casa sporca, gravida di gatti, unta di piscio, dove si entrava per una specie di buca decrepita, con grate in fondo e scale che 27

M. Gallian, Primo diario, cit., p. 125.

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sembravano stalattiti di marmo falso; in una tal casa oscura lei faceva pulizie. Portava, la madre mia, un corpetto di merletto bianco ridotto a sfilacce, a fettucce immonde, una vesta tutta strappi rinacciati e leccati, un paio di babbucce tenere e superficiali, dove le calze di seta strappate stavano per ricordo e per esumazione di copertura.28

La descrizione va avanti ancora per alcune pagine, con immutata crudeltà. Non mi pare possa essere messo in dubbio che si tratti di un atto di accusa, di una raccolta di prove onde denunciare la colpa di un qualcuno che ha reso possibile tutto ciò, facendo sì che «la dama di corte» finisse a far le pulizie tra le mura decrepite di «una casa sporca […] unta di piscio». Il colpevole designato è naturalmente il padre, la cui caduta ci è stata raccontata proprio nelle pagine precedenti di questo Primo diario; una caduta sfacciata, prepotente nel trascinare gli altri con sé – quasi autocompiaciuta – in cui l’uomo, nei ricordi del figlio, si era quasi beato di sperperare il patrimonio suo e della moglie, tra alcol, violenza domestica (ma mai verso i figli) e una relazione extraconiugale con la cameriera e istitutrice dei piccoli (come per sommo sfregio della consorte). Naturalmente, Gallian non addossa direttamente al padre la colpa delle sofferenze della madre; è troppo intelligente e consapevole, troppo appassionatamente impegnato nella lotta politica per non rendersi conto che il vero colpevole è da ricercare in quella società che rendeva possibile tutto ciò (la decadenza del padre comincia solo quando egli vede stroncata la propria carriera diplomatica a causa di complicazioni politiche), e contro cui egli credeva di battersi nelle sue fantasie di squadrista (come ho già ricordato in precedenza, una società che consentiva ai padri di fallire e ai figli di assistere alla loro caduta). Ma il fatto è che, inevitabilmente, l’autorità paterna e quella della società non possono che essere sovrapposte, peraltro nella struttura mentale non solo del masochista, dal momento che, come insegnano i rudimenti della psicanalisi, la stessa autorità della società viene inizialmente introiettata tramite la figura del suo primo rappresentate, ovvero il padre (formazione del super-io in corrispondenza del conflitto edipico). Manifestandosi in un contesto in cui a essere sotto accusa è l’autorità paterna, e dunque quella della società, il sogno di rinascita partenogenetica

28

Ivi, pp. 119-120.

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si dimostra anche qui al centro di un fantasia masochista (la descrizione delle sofferenze della madre è oscuramente composta per accusare e dunque punire il padre, ma è evidente che si tratti innanzitutto di una sofferenza autoinflitta), in cui a essere castigata è in fondo l’imago paterna, qui però già trasfusa nell’immagine di una società borghese odiosa e crudele, contro cui il reduce di Fiume si apprestava del resto a combattere (nelle sue convinzioni). Sicché, l’elemento più significativo mi sembra essere proprio il sovrapporsi, in questo punto, del sogno della rinascita con quello della rivoluzione, ovvero del rovesciamento dell’autorità (paterna e sociale). Ci troviamo probabilmente di fronte a un punto cardine per l’interpretazione di tutta l’opera di Gallian. La nascita e la rivoluzione sono infatti, senza alcun dubbio, i temi più largamente diffusi in tutti i suoi scritti. Se la “rivoluzione”, quella fascista naturalmente, è l’idea fissa che muove l’opera (e mosse tutta la vita) dello scrittore, la nascita è, più che una figura, un campo semantico davvero onnipresente in tutti i contesti, dai racconti e romanzi più avanguardistici e orientati verso il fantastico (come La donna fatale) fino a quelli più realistici e di ambientazione storica. La sovrapposizione tra questi due “campi di forze” (è forse questa la definizione più appropriata, poiché da essi prendono vita le varie strutture che si ripetono pressoché invariate all’interno delle narrazioni di questo scrittore) trova un riscontro di fondamentale importanza – che conferma ulteriormente questo tipo di lettura – proprio in una delle caratteristiche più importanti del fantasma masochista, ovvero nel fatto che il suo risultato non possa che essere illusorio, concludendosi in fine, immancabilmente, con il ritorno dell’autorità paterna a spezzare ogni incanto. Avevo già avuto modo di accennarvi a proposito del finale di Una vecchia perduta, dove la rinascita illusoria, il parto al di fuori dell’autorità paterna, si concludeva con il riemergere di tale autorità, in forma allucinatoria, dal balcone di Palazzo Venezia. Allo stesso modo, qualsiasi esperienza di rinascita sarà connotata in modo traumatico; e ogni volta che questo “campo di forze” verrà alla luce nell’opera, comparirà sempre come la traccia di un trauma, il trauma della nascita appunto, in corrispondenza del quale, immancabilmente, ancora, assisteremo al ricomparire dell’autorità paterna che si intendeva disconoscere. Lo stesso avverrà, naturalmente, per quella rivoluzione che non potrà che trasformarsi in rivoluzione tradita, sia nelle opere narrative che nella realtà, laddove sarà la società borghese a ripresentarsi con

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tutta la sua crudeltà, nelle forme allucinatorie più varie, al termine di ogni fantasia rivoluzionaria. La forma più mostruosa ed evidente di questo processo sarà ovviamente l’immagine di Mussolini, «padrone del mondo», così spesso inquadrato sospeso al di sopra di una folla urlante, incomprensibile e disumano. Ritornando dopo questo lungo approfondimento a La donna fatale, non si avrà ormai difficoltà a notare come anche qui la figura dell’autorità paterna, sconfitta e umiliata nel Grosso, non manca di ripresentarsi nella mutazione finale del figlio, da ultimo rivestito con il frac rosso dell’imbonitore, mentre consegna i suoi figli e la sua donna al dileggio della folla (proprio come aveva fatto Gallian senior alcuni anni prima). Non è difficile neppure immaginarlo, di lì a poco, brandire una frusta come il suo archetipo nel prologo del dramma di Wedekind, onde completare definitivamente il cerchio tracciato dall’immaginazione masochista. O forse, perché quel cerchio sia davvero completo, c’è bisogno di tornare ancora più indietro: […] quando la porta improvvisamente si apre. Il ragazzo non voleva aprire, proprio non voleva; pure ha aperto; la madre in terra che razzola fra le lacrime, il padre, alto, sconvolto, la barba dispersa sul viso, un colaticcio di saliva sul mento, il frustino in mano, come un domatore padrone di un circo dinanzi alla ballerina svenuta, che si rifiuta di salire nuovamente sul filo. La madre nuda. Rantola: – Ecco quel che mi ha fatto tuo padre! Che cosa orrenda vedere con gli occhi la carne della madre sotto le mani avide del padre! Senza volerlo, proprio senza volerlo, gli occhi del figlio si fanno cattivi, cupidi, disperati come quelli del padre; non si vide mai più vecchio, decrepito fanciullo! Una vergogna smisurata fa sì che la madre non si copra, che il padre continui a fustigare, che il figlio continui a gridare, esterrefatto.29

In questa scena primaria, narrata in un lungo brano (dalla chiara valenza autobiografica) compreso nella raccolta Comando di tappa, del 1934, il domatore di Wedekind e il ragazzo fattosi imbonitore al termine de La donna fatale, ci appaiono 29

M. Gallian, Comando di tappa, Roma, Cabala, 1934, p. 23, cors. miei.

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finalmente saldati nella figura che li racchiude entrambi, svelandone in modo inequivocabile il significato. Il padre armato di frusta, in abito da «domatore padrone di un circo», diviene da questo momento in poi la porzione di sé che il figlio dovrà espiare (non trascuriamo di notare che gli occhi «disperati» di quest’ultimo sono «come quelli del padre»). Ed anche qualcos’altro viene svelato, ovvero il motivo dell’abbondare dei freaks, gli incompiuti, i fenomeni da baraccone che strisciano ai piedi della donna fatale, completamente arresi all’autorità del Grosso prima, e di Leone poi. Figli deformi, uomini mancati relegati al ruolo di eterni subalterni dall’autorità del «padrone del circo».

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4. Corpo-in-frammenti e scrittura-in-frammenti

L’identificazione della struttura masochista non è l’unico vantaggio che si può ricavare dall’analisi appena tentata. La presenza ossessiva delle immagini e dei termini legati alla corporeità vista come un qualcosa di morboso e mostruosamente proliferante, potrebbe infatti spingere verso una lettura più “moderata” e semplicistica, secondo cui il debordare della “carne”30 e delle sinistre fantasie legate ad essa (come accennato, assistiamo addirittura allo sposalizio tra Stella e un cadavere, con tanto di prima notte di nozze durante la quale la donna si diverte a baciare le piaghe e infilare le proprie dita nelle ferite mortali dello “sposo” – che prontamente risuscita) sarebbe indice del ritorno ossessivo di un rimosso, che l’autore si affannerebbe invano a tenere fuori dalla sua concezione schiettamente fascista e “sana” della famiglia coniugale: «…se un tracotante giovanotto latino, sacrilego e religioso, amatore e cinico, fantasioso e spendereccio, non l’avesse costretta, con l’aiuto della di lei buona grazia, a sconciarsi di due figli masti e gemelli, ovvero a partorire coi fiocchi, secondo i dettami di Mussolini».31 Sicché – queste sarebbero le ovvie conclusioni – l’autore che si è premurato di tracciare la parabola della sensualità domata e ricondotta, con virili percosse, all’alveo della famiglia “naturale”, nel mostrarci tale sensualità indulge più del lecito sui particolari meno casti di essa, dimostrandoci così quanto di rimosso e malamente sepolto ancora vi sussista. A parte il fatto che si tratterebbe di uno schema interpretativo palesemente tautologico, da cui non sarebbe possibile ricavare nulla a parte la scoperta non certo originale che la sessualità è un contenuto presente in ogni sistema psichico – e tanto più evidente quanto più rinnegato; nel caso de La donna fatale non si avrà, credo, un valido riscontro sulle strutture giacenti nel profondo, se non si rifletterà sul fatto che l’immaginario legato al debordare della “carne”, con le connesse fantasie di smembramento, non è affatto indice di repressione, ma un risultato inevitabile del congiungimento masochista con la madre, che, investito da una imagerie incestuosa di rinascita, finisce per riattivare tutte le più importanti 30

Continuo a ripetere questa parola perché essa ha davvero centinaia di occorrenze all’interno del romanzo. 31 M. Gallian, Io e la donna fatale, cit., p. 41.

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caratteristiche di quello che Jacques Lacan ha definito il “complesso di svezzamento”. Quest’ultimo riunisce l’insieme delle reazioni che il bambino presenta di fronte al trauma della separazione dal seno materno, e che vengono nuovamente scatenate, anche nella vita adulta, ogni qual volta il fantasma di questa separazione primaria viene riportato in superficie (il che avviene, di fatti, qualora si ripresentino le fantasie incestuose di ricongiungimento con la madre). Tutto ciò è ancora più appropriato alla fantasia masochista, se si tiene presente il fatto che, per Lacan, il trauma della separazione dal seno materno, lo “svezzamento”, è a sua volta solo apparentemente primario, poiché si tratta, in realtà, della prima mentalizzazione possibile di un trauma più profondo – e davvero primario – ovvero la separazione dal grembo materno al momento della nascita: Questo – lo svezzamento nel senso stretto – dà un’espressione psichica, la prima ma anche la più adeguata, all’imago più oscura di uno svezzamento più antico, più penoso e di più grande ampiezza vitale: quello che alla nascita separa il bambino dalla matrice, separazione prematura da cui risulta un malessere che nessuna cura materna riesce a compensare. 32

Secondo Lacan, la più importante manifestazione del complesso di svezzamento è l’angoscia del “corpo-in-frammenti”, ovvero del corpo costituito da un insieme di componenti irrelate e asistematiche, che è poi la percezione dell’organismo propria del neonato nei primi mesi di vita, ancora non in possesso dell’unità del fisico né di quella dell’Io, soggetto completamente esposto all’ostilità di un ambiente esterno dal quale non conosce difese. L’uomo è un’animale dalla nascita prematura, ricorda Lacan, e la sua separazione dal grembo materno segna lo spezzarsi di un’unità paradisiaca verso la quale tenderanno tutte le fantasie incestuose di ricongiungimento con la madre (sarà questa, dunque, l’origine dell’istinto di morte). Non è difficile ravvisare ne La donna fatale il manifestarsi del corpo-in-frammenti, che ricompare, oltre che nei brani già citati più sopra, in molti altri luoghi:

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J. Lacan, I complessi familiari, cit., p. 17.

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Intorno al letto erano grandi vetrine di cuori veri, di carne rossa, da mangiare, sembrava. […] E ancora intorno ai cuori, vene intrecciate a somiglianza di armille, denti bianchissimi di avorio autentico, una mano perfino […]. Sembrava un museo di anatomia, un reliquario di pezzi umani, una vetrina sacra ai ricordi naturali di uomini.33

Per non parlare del fantoccio – uno dei protagonisti del corteggio di Stella, Tom, è un burattino di professione, un «fantoccio di carne» – che, sempre secondo Lacan, è una delle figure tipiche che costellano il complesso di svezzamento, testimoniando dei primi tentativi di formazione proiettiva dell’Io come oggetto esterno a sé.34 Poche pagine dopo il brano appena citato, le immagini di smembramento si presentano proprio all’occhio di Tom, qui penetrato nelle segrete dove il Grosso è intento ad eseguire i suoi sadici esperimenti (in questa scena viene insomma ricreata la prossimità tra il corpo-in-frammenti e i più arcaici tentativi di formazione dell’io): sebbene difeso dal suo mestiere di fantoccio di carne, deforme a furia di busse e di pizzichi, di strappi e di sberleffi sanguinosi, di ritagli sulla carne viva e di intarsi dolorosi, provava una specie di amaro accoramento che non sapeva spiegare. Guardava tutto; insieme, di qua e di là, senza voltare il capo, e leggeva scritte e rilevava membra umane gettate sulla tavola, e pezzi di ghiaccio e di fuoco, e loriche di acciaio e piedistalli con targhette di vetro e negri con le teste lanose e gli occhi spaventosamente bianchi.35

È evidente a questo punto che la più efficace figurazione del corpo-inframmenti sia, in quest’opera di Gallian, la scrittura-in-frammenti, con le sue strutture paratattiche esasperate, i suoi accumuli anaforici, le sue aggettivazioni destabilizzanti. Già nel primo capitolo ho definito espressionista la scrittura di questo 33

M. Gallian, La donna fatale, cit., p. 32. «L’esame di questi fantasmi trovati nei sogni e in certi impulsi permette di affermare che essi non si rapportano a nessun corpo reale, bensì a un manichino eteroclito, a una bambola barocca, a un trofeo di membra in cui bisogna riconoscere l’oggetto narcisistico di cui abbiamo poc’anzi evocato la genesi: condizionata dalla precessione, nell’uomo, di forme immaginarie del corpo sulla padronanza del corpo proprio, dal valore di difesa che il soggetto attribuisce a queste forme contro l’angoscia della lacerazione vitale dovuta alla sua prematurità». J. Lacan, I complessi familiari, cit., p. 41. 35 M. Gallian, La donne fatale, cit., p. 49-50. 34

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autore, definizione che dovrebbe a questo punto essere intesa in modo ancora più radicale, non solo per gli espliciti riferimenti a un immaginario (cinematografico, principalmente) profondamente espressionista, ma anche e soprattutto per il rivelarsi delle radici profonde del ricorso al frammento come elemento base di tutta la composizione letteraria, nelle microstruture (lo stile, di cui abbiamo visto in questo capitolo numerosi esempi), così come nelle macrostrutture (l’intero romanzo, come si è detto, è costruito con l’accostamento di sequenze narrative frammentarie, non legate da alcuna trama definita e neppure da una consequenzialità logica). Il risultato più evidente dell’analisi mi sembra allora essere stato proprio l’aver rintracciato radici comuni all’originarsi dello stile, delle strutture e delle immagini che vanno a dar forma alla produzione letteraria di questo scrittore, nel presente romanzo così come nel resto della sua opera (naturalmente è possibile ravvisare un’evoluzione che porta alla modificazione anche molto profonda, col tempo, di alcuni elementi). Soprattutto, questa radice comune ci aiuta a comprendere come una mente così complessa e tormentata potesse poi trovare un punto d’appoggio – questo sì davvero incrollabile attraverso gli anni – nella più atroce delle semplificazioni, ovvero la fede nel fascismo e nel suo duce. Ma lo abbiamo visto: il ritorno del padre è il fatale destino del fantasma masochista. Così come «l’utopia sociale di una tutela totalitaria», fa parte delle nostalgie irriducibili dell’umanità, derivanti, appunto, da un’incompleta liquidazione del complesso di svezzamento, «nostalgie scaturite tutte dall’idea fissa di un paradiso perduto prima della nascita e dalla più oscura aspirazione alla morte».36

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J. Lacan, I complessi familiari, cit., p. 20.

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CAPITOLO 4

Sviluppo e persistenza di alcuni nuclei narrativi

1. Coesistenza ed evoluzione dei registri narrativi

Nel capitolo precedente ho provato a chiarire come nell’opera di Gallian sussistano dei nuclei narrativi primari da cui tendono a originarsi varie configurazioni micro e macrostrutturali ricorrenti (che riguardano cioè sia lo stile che la trama). Come ho già brevemente accennato, però, tali nuclei non permangono uniformi nel tempo, ma inevitabilmente subiscono un’evoluzione dovuta all’interazione con le forze di ciò che ho definito natura (la storia personale dell’individuo con le sue esperienze quotidiane e intellettuali, nell’attraversare ed essere attraversata dalle forze economiche e sociali, insomma dalla Storia): si tratta del processo che Simmel caratterizzava come l’andare in rovina di tutte le costruzioni umane,1 e da cui in fin dei conti deriva il valore conoscitivo dell’analisi esercitata su di esse. Il manifestarsi di questo processo sembra indicare nell’opera di Gallian un progressivo spostamento da un registro narrativo caratterizzabile come “fantastico”, “novecentista”,2 immaginista3 (si pensi a La donna fatale), ad uno più realista, 1

Cfr. parte prima, cap. 1 par. 4 e 6. È bene richiamare anche qui il testo di Simmel: «le forze puramente naturali cominciano a trionfare sull’opera dell’uomo: l’esatta parità di natura e spirito pende a favore della natura. Questa alterazione si risolve in una tragedia cosmica che, per il nostro sentire, riveste le rovine di un’ombra di malinconia: ora infatti, la rovina appare come la vendetta della natura per la violenza che le ha fatto lo spirito, per averla conformata a sua immagine e somiglianza». G. Simmel, Le rovine, cit., pp. 108-109. 2 È nota la vicinanza di Gallian, nella seconda metà degli anni Venti, al realismo magico di Bontempelli.

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incentrato sulla narrazione di avvenimenti con ambientazione storica riconoscibile (l’immediato presente o i tempi antecedenti all’avvento del fascismo). Sebbene questi due poli stilistico-tematici si trovino spesso inestricabilmente avvinghiati nella stessa opera, è innegabile che essi tendono a caratterizzare rispettivamente due periodi successivi della produzione dell’autore, il cui discrimine coincide grosso modo con l’evento di cui si è parlato nel secondo capitolo (il manifestarsi della malattia e la contemporanea presa di coscienza del fallimento della rivoluzione), che arriva poi a conclusione di un biennio, il 34-35, in cui era avvenuta la pubblicazione dei volumi4 all’interno dei quali tale transizione cominciava a manifestarsi in modo evidente. Da questo momento in poi, in effetti, l’opera dello scrittore romano si distaccherà più raramente dall’ambientazione realista, peraltro ossessivamente richiamata nel tentativo si raccontare quello che è in fin dei conti un unico plot narrativo (pur con numerose varianti), ovvero la vicenda del giovane ribelle (il ragazzo selvaggio) che, una volta fatta la “rivoluzione”, si ritrova ad essere tradito da un regime che finisce per abbandonarlo ed arrendersi alla borghesia. Dalle analisi svolte nei capitoli precedenti su romanzi come Una vecchia perduta, Bassofondo e La donna fatale, era del resto già emersa con insistenza la prima parte di questo schema, ovvero l’operato “rivoluzionario” del ragazzo selvaggio destinato a sconvolgere e allo stesso tempo rivitalizzare la borghesia italiana. Allo stesso tempo però, era apparsa innegabile l’inscrizione, già all’interno di questo nucleo (che ho definito, sulla scorta di Jameson, ideologema), dei germi di un inevitabile fallimento (del suo andare in rovina) ad opera di forze operanti nella storia e nell’esistenza privata. Se è dunque innegabile, come abbiamo visto, la presenza di un giro di boa nella vicenda esistenziale e artistica di Marcello Gallian, di un punto di non ritorno oltre il quale le cose radicalmente cambiano, non è possibile tuttavia formulare una distinzione, per quanto riguarda queste due fasi “evolutive”, in termini di fantastico Vs realistico, né tanto meno di avanguardistico Vs tradizionale. 5 Infatti, nonostante il 3

Sarà possibile in seguito cogliere meglio le affinità dello stile di Gallian con l’avanguardia costituita dal gruppo romano degli immaginisti, di cui mi occuperò nella seconda parte di questo lavoro. 4 Si tratta in particolare di Comando di tappa (cit.), Tempo di pace (cit.), Bassofondo (cit.) e Il soldato postumo (cit.). 5 Nella sua analisi dell’opera di Marcello Gallian, Piero Luxardo Franchi così definisce tale divaricazione stilistica e tematica: «Si tratta di due polarità che racchiudono la banda di oscillazione

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sopraggiungere di ambientazioni storicamente più caratterizzate, non si verificano mutamenti strutturali profondi, per cui, a distanza di anni, troviamo nei romanzi di questo autore schemi scenici pressoché immutati e nuclei narrativi ancora intatti provenienti dagli anni dei primi racconti. Ma, soprattutto, a non divenire mai realistico è proprio lo stile, che anzi tende ad accentuare la sua violenza espressionista, l’aspra frammentarietà, fino ad avvitarsi in una spirale sempre più autistica (frasi sintatticamente scorrette, mancanza di senso compiuto, difetti logici vari, abnormi tic stilistici, ecc.).6 Da questo punto di vista dunque, il realismo di Gallian continuerà sempre a essere espressionista (o “grottesco” nel senso di Bachtin),7 in un modo perfino più radicale rispetto allo stile dei primi anni, ancora disposto ad accogliere soluzioni più leggere e devianti verso il realismo magico. Nel corso di questo capitolo mi occuperò dunque di seguire attraverso gli anni il percorso di alcuni nuclei narrativi esemplari, che, comparsi per la prima volta nei racconti della fine degli anni Venti, finiscono per ritornare all’interno di narrazioni anche di molto posteriori, conservando una propria ben riconoscibile identità. L’analisi della loro evoluzione, con riferimento ai nuovi contesti all’interno dei quali vanno ad inserirsi, consente, credo, di comprendere più a fondo i meccanismi creativi che orientano l’immaginario di Marcello Gallian.

della narrativa di Gallian, dal “realista” e dal “sociale” all’onirico e al visionario». E poi giustamente precisa: «la tentazione di operare una netta separazione fra le due tipologie è forte, ma vale la pena di astenersene perché si tratterebbe di un’operazione delicata, difficile da condurre in porto felicemente»: P. Luxardo Franchi, Marcello Gallian, in «Studi novecenteschi», XVI, n. 38, 1989, pp. 207-264: 238239. 6 Ho già formulato l’ipotesi dell’origine in parte patologica dell’accentuarsi di queste tendenze. 7 Cfr. parte prima, cap.1, par. 5.

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2. L’albergo dei poveri e la nascita mancata

Nel 1929, oltre al già citato La donna fatale, Marcello Gallian pubblica, con le Edizioni Tiber, un altro romanzo, intitolato Vita di sconosciuto. Anche in questo caso si tratta di una narrazione non ascrivibile ai canoni del realismo, sia per l’ambientazione fiabesca (il protagonista è il principe di un non meglio specificato regno dei giorni nostri), che per la costruzione della trama non concatenata in base ad una successione logica di avvenimenti, ma tramite l’accostamento di frammenti narrativi. Ci troviamo insomma, ancora una volta, di fronte a un romanzo definibile come espressionista, in cui la potenza affabulativa non deriva dallo sviluppo di una storia, ma dal senso di cui vengono caricati i diversi frammenti entrando in suggestione reciproca. La frammentarietà può essere individuata sia nelle macrostrutture che nelle microstrutture: la narrazione consiste infatti di tre macro sequenze, ciascuna delle quali riproduce uno schema pressoché invariato: l’allontanamento volontario del principe dalla casa paterna, seguito dal tentativo di costruirsi una propria vita autonoma nel caos del mondo esterno; in fine la sconfitta e il ritorno.8 Ognuna delle tre parti può a sua volta essere scomposta in una serie di episodi frammentari (ovvero non collegati da una consequenzialità logica), anch’essi quasi sempre costruiti sullo schema base di abbandono del luogo protetto, sconfitta, ritorno. Anche i personaggi sono riconducibili a una serie ristretta di figure che riemergono sotto varie sembianze: oltre al principe Carlo, di cui seguiremo le vicende in terza persona nelle prime due parti del romanzo, e in prima persona, attraverso l’espediente di un diario, nell’ultima, compaiono infatti un antagonista (lo «sconosciuto», in seguito il «guardiano»), immagine certamente costruita tenendo presente il campo semantico del “doppio”,9 che ritorna con furia paranoica a 8

Dell’analisi di questo romanzo si è occupato Paolo Buchignani nel suo Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista anarchico, cit., pp. 38-48. 9 Senza ricordare qui i numerosi esempi di questa figura presenti nella letteratura romantica, né gli studi psicanalitici di Freud e Rank (che potevano indirettamente essere noti a Gallian, come abbiamo visto), basta citare, onde tracciare un collegamento con l’immaginario cinematografico, come già fatto negli scorsi paragrafi, un film come Lo studente di praga (Der Student von Prag), di Stellan Rye con Paul Wegener, del 1913, cui era seguita una versione di grande successo nel 1926, diretta da Henrik Galeen. Cfr. S. Kracauer, Da Caligari a Hitler, cit. pp. 75-77, 209. Del resto, anche il più celebre dei film espressionisti, Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari, 1920), è molto addentro alla tematica del doppio. Cfr. P.G. Tone, Espressionismo tedesco, Roma, Dino Audino

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contrastare i piani del principe assumendo diverse identità (peraltro senza che sia mai possibile identificare una motivazione comprensibile per le sue azioni), e una donna, di volta in volta (ma dopo l’analisi svolta nel precedente capitolo questo non dovrebbe più stupire) sposa e madre, giovane e vecchia. La figura femminile, come al solito polo d’attrazione allo stesso tempo contrapposto e coincidente con la casa, il luogo protetto da cui parte ogni fuga, assumerà, nell’ultima parte del romanzo, il nome di Magda, divenendo dunque la prima rappresentante ad inserirsi in quella galleria di fantasmi presi in esame nel secondo capitolo (Marga, Marta, Margal).10 La struttura profonda a partire dalla quale è costruito il romanzo, è dunque certamente da mettere in relazione con quel nucleo originatore dell’immaginario creativo di Gallian già definito come Trauma della nascita, secondo la definizione di Otto Rank, o Complesso di svezzamento, stando alla terminologia di Jacques Lacan, da cui, come abbiamo visto, è possibile risalire anche alla tendenza al frammento nella scrittura e nella costruzione delle micro e macro strutture.11 Anche in questo caso, l’ipotesi interpretativa appena formulata è facilmente dimostrabile sul testo, dal momento che ogni allontanamento dal luogo protetto avviene in modo violento, in presenza dell’imago materna (o di un suo surrogato: il verificarsi di un incendio, ad esempio, come vedremo tra poco) o di un esplicito riferimento alla nascita. Si prenda in considerazione il seguente breve episodio: Ma appena uscito dalla villa, sulla piazza circondata dai cancelli come una pista per animali esotici, quattro uomini sbucarono ad un tratto da chissà dove, lo presero e lo bastonarono a sangue. […] Si sentiva dalle colline d’intorno le partorienti ululare di ribrezzo e di paura alla vista di quel tramonto: c’erano bambini che ruzzolavano dalle rupi spinti innanzi dalla furia caracollante delle balie […];12

o quello in cui il protagonista, dopo essere stato amorevolmente accolto e ospitato dalla figura femminile (qui nelle vesti di vecchia/bambina), si vede scacciare senza motivo, in modo violento, il giorno seguente: «sul mezzogiorno ella lo cacciò Editore, p. 99, e ovviamente S. Kracauer, Da Caligari a Hitler, cit., pp. 99-125 e L. Eisner, Lo schermo demoniaco, cit., pp. 29-35. 10 Cfr. parte prima, cap. 2, par. 3. 11 Cfr. parte prima, cap. 3, par. 4. 12 M. Gallian, Vita di sconosciuto, cit., pp. 48-49, cors. miei.

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come un cane».13 Non è necessario qui richiamare tutti i segnali della presenza dell’immaginario legato alla nascita, tra cui non mancano esempi di quel sonno narcolettico che coglie i personaggi in prossimità di momenti di improvviso pericolo (ho già ricordato che la narcolessia è uno dei più evidenti segni del trauma della nascita secondo Rank, in quanto regresso della libido verso l’interno). Alla luce di quanto appena affermato, risulterà evidente che Vita di sconosciuto rappresenta, insieme a La donna fatale, uno snodo importante per il futuro sviluppo dei temi e delle strutture narrative che andranno a formare la produzione degli anni successivi. Non solo, Vita di sconosciuto costituisce un vero e proprio crocevia, all’interno del quale confluiscono scene provenienti da racconti precedenti, già pubblicati in rivista, e che – la verifica di ciò è l’obiettivo di questo capitolo – si conserveranno intatte negli anni riaffiorando in superficie in opere successive. Appena dopo aver subito il pestaggio citato poco sopra, accompagnato dalle urla delle partorienti, il principe Carlo rientra nella villa da cui era appena uscito (il movimento regressivo di cui si diceva) e si lava nella fontana del parco. Qui, per non rendere sospetta agli occhi di un possibile estraneo la presenza nell’acqua del sangue delle sue ferite, comincia a sgozzare senza pietà (anzi con evidente compiacimento) una serie di bestie da cortile. Con un semplice stacco («e si incamminò verso la città»14) lo vediamo quindi dirigersi al ricovero notturno per senzatetto: Voleva far parte del mondo dei poveri, abitatori di terre inesplorate, rivenditori di cose inutili, tipi strani e orrendi dal volto di Messia, di dottori girovaghi, di esiliati dalle prigioni, di frequentatori straordinari di case, tardi e pazienti nel loro corpo depositato lunghe ore sugli angoli delle piazze.15

Il desiderio di avvicinarsi al mondo dei poveri e degli emarginati, come abbiamo visto nel secondo capitolo di questa prima parte, rimanda alla fase più

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Ivi, p. 33. A titolo di suggestione, mi limito a segnalare l’affinità non certo trascurabile tra alcune immagini di Gallian legate alla nascita e gli attacchi di alcuni racconti di Samuel Beckett degli anni ’40, come Lo sfrattato e La fine. 14 M. Gallian, Vita di sconosciuto, cit., p. 52. 15 Ivi, pp. 53-54.

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importante della formazione di Gallian, e non può dunque stupire che si ripresenti qui in modo così esplicito, così come innumerevoli volte tornerà ancora nel corso della sua opera. Quello che importa, in questo caso, è il manifestarsi, di qui a breve, dell’immagine del «ricovero notturno», l’albergo dei poveri, ovvero un luogo ricorrente nella letteratura italiana di quegli anni, con importanti ascendenti in maestri stranieri come Strindberg16 e Gor’kij. Quest’ultimo era stato autore di un dramma molto apprezzato negli anni Venti, cui ho già brevemente accennato17 – messo in scena nel ’25 da Piscator, a Berlino, poi finito al centro di svariate discussioni e dunque verosimilmente noto a un drammaturgo e critico teatrale come Gallian – conosciuto in Italia sia come Bassifondi, che con il titolo L’albergo dei poveri, appunto. Tornando alla letteratura italiana, è invece doveroso ricordare l’albergo dei poveri dove è ambientata una delle sequenze iniziali dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Pirandello, o l’«ospizio di mendicità», da lui stesso fondato, dove si ritira Vitangelo Moscarda alla fine di Uno nessuno e centomila.18 Ma ecco come viene presentata la scena nel romanzo di Gallian: Era un baraccone gremito di letti: sopra, in alto, fra le travi erano cucce appese e sopra ancora vicino al soffitto, sacchi enormi appesi dove gli uomini si nascondevano per dormire.

16

L’albergo dei poveri costituisce una presenza incombente e minacciosa nella terzo atto della prima parte della trilogia Verso Damasco (1898-1901), nel quadro intitolato Nella stanza rosa (scena terza). Si tratta di «un edificio scuro, terribile, con finestre come buchi e prive di tende» che campeggia sullo sfondo: «no, non posso guardare fuori, quell’ospizio sembra costruito apposta per me». Verso Damasco I-III, Milano, Adelphi, 1974, p. 63-65. Onde testimoniare la vicinanza di Gallian a questo testo (che è peraltro uno degli archetipi per il teatro espressionista), è possibile ricordare che presso il Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Bragaglia era stato rappresentato Il giudizio, frammento tratto dalla terza parte di Verso Damasco, il 27 maggio del 1925, in un periodo in cui il futuro collaboratore di «900» aveva già cominciato a frequentare l’ambiente di via degli Avignonesi. Cfr. A.C. Alberti, S. Bevere, P. Di Giulio, Il Teatro Sperimentale degli Indipendenti, cit., pp. 195-197. Una traduzione completa del dramma di Strindberg era inoltre comparsa nel 1927, presso la milanese Alpes, ad opera di Nino Frank, tra i fondatori e i collaboratori, appunto, della rivista «900». 17 Vedi parte prima, cap. 2, par. 1. Anche Buchignani fa riferimento al dramma di Gor’kij a proposito di questo episodio di Vita di sconosciuto, ricordando come, al di là della grandissima popolarità dell’autore russo nell’Italia del primo Novecento, nel caso di Gallian non poteva non pesare anche la vicinanza a Umberto Barbaro e all’ambiente degli immaginisti, la cui attenzione era da sempre concentrata sulla letteratura russa contemporanea. Al dramma di Gor’kij fa riferimento, sempre in relazione a Gallian (ma a proposito del romanzo Bassofondo), anche Carlo D’Alessio, Marcello Gallian: un espressionista in nero, in «Critica Letteraria», XXII, n. 2, 1994, pp. 377-390: 384. 18 Solo di qualche anno posteriore al romanzo di Gallian, è poi Tre operai (Milano, Rizzoli, 1934) di Carlo Bernari (Carlo Bernard), in cui l’operaia Anna, appena giunta a Roma, finisce per alloggiare proprio in un albergo dei poveri, dover viene derubata dei propri averi.

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Lassù era un mondo favoloso di pipistrelli con ali di stracci. Quel che colpì la fantasia del giovane fu un omino tisico che imperava nel baraccone e sui letti messi in fila, silenzioso e tremendo. […] Ad un certo punto, l’omino tisico cominciò a camminare in su e in giù: poi si fermò nel mezzo dello stanzone e cominciò a guardare di qua e di là: sembrava sorvegliasse i sogni dei ricoverati. Il principe Carlo si era gettato sotto le coperte unte, e non cessava di guardare quell’uomo straordinario: vide chiaramente che quell’uomo sorvegliava i sogni dei ricoverati, ché segnava sopra un registro di cartapecora le parole informi, le esclamazioni, le frasi tronche senza senso che i poveri mormoravano nel sonno passando da un sogno all’altro. Allora per la prima volta il giovane ebbe paura di dormire: spalancava bene gli occhi e fissava l’uomo. «Può darsi che nel sogno io sveli il mio vero essere – pensava. – Ma chi vorrà credere alle mie parole?».19

Vi è dunque un inquietante personaggio, l’omino tisico, che gira tra i dormienti intirizziti cercando di carpire i loro segreti, annotando su un taccuino («un registro di cartapecora») le parole che questi si lasciano sfuggire nel sonno. Poco dopo il principe sente crescere l’odio vero il sinistro sorvegliante: «Quell’omino tisico che scriveva sempre, inflessibile e deciso, possessore di tutti i segreti della gente che vive allucinata e distratta, della gente che vive in un dormiveglia eterno!».20 Allora, cogliendo nei volti degli altri derelitti il proprio stesso sentimento, Carlo dà fuoco al materasso, provocando un incendio liberatorio in cui l’intero edificio rimane distrutto, mentre i poveri possono finalmente riscaldarsi alle fiamme che lo avvolgono. Volendo interpretare questo episodio, che, come tutti gli altri, non è in alcun modo motivato dal procedere della trama, è logico pensare all’albergo dei poveri

19 20

M. Gallian, Vita di sconosciuto, cit., p. 58. Ivi, p. 60.

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come a una figura del luogo protetto (il ventre materno),21 da cui ci si allontana in seguito ad un gesto violento – le fiamme, come ricorda Jung, possono in alcuni casi costituire un surrogato dell’imago materna (il che si incastra alla perfezione all’interno dello schema ciclico di questo romanzo). Quello che importa notare però, ai fini della presente analisi, è il ritornare di questa scena in un luogo successivo dell’opera di Gallian, con caratteri pressoché immutati. Il luogo, che già ci siamo trovati ad affrontare nel corso del secondo capitolo, è l’introduzione diaristica alla raccolta Quasi a metà della vita, laddove ci viene presentata la figura archetipica della prostituta Marta (non a caso, nella terza parte di Vita di sconosciuto, come ricordato, la protagonista femminile assume il nome di Magda). Ed è proprio raccontandoci i bassifondi, le stamberghe in cui era solito incontrarsi con quella donna, che lo scrittore ci descrive un ambiente sorprendentemente simile a quello di cui abbiamo appena letto: Di qua e di là, sopra e sotto, continuavano le stamberghe, gremite anche queste come ospedali, dove vivevano alla rinfusa, continuamente, per quante ore possiedono il giorno e la notte, donne e uomini promiscui […]. Dormivano dentro amache sudice, protratte in alto quasi al soffitto, tra una trave e l’altra […]. Altri stavano qua e là dentro sacchi, alcuni dei quali in bilico, altri in piedi, altri ancora in precipizio da un pavimento fallace […].22

Anche qui, dunque, «cucce appese … al soffitto» («amache sudice protratte in alto quasi al soffitto») e «sacchi enormi appesi» («stavano qua e là dentro sacchi, alcuni dei quali in bilico»). Insomma, non pare dubitabile che ci troviamo di fronte allo stesso scenario, o meglio, che lo scenario ben più realistico narrato nel testo del ’36, abbia costituito la base per la scena del ’29. Tanto più che, anche qui, i dormienti appaiono agitati da sogni inquieti che li spingono a parlare nel sonno e perfino a compiere omicidi gratuiti, ancora insonnoliti, colpendo senza motivo i compagni addormentati – e qui viene recuperata la dimensione fantastica che, come

21

«sembravano neonati enormi abbandonati alla sorveglianza dell’omino, padre uggioso e feroce». Ivi, p. 59. 22 M. Gallian, Quasi a metà della vita, cit., p. 20.

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detto all’inizio di questo capitolo, non si perde del tutto neppure quando l’autore si dedica ad ambientazioni realistiche. Ma questa sarebbe infondo ancora solo un’ambientazione, per la quale non si potrebbe parlare di nucleo narrativo, non si potrebbe cioè fare riferimento a una struttura profonda comune ad entrambi gli episodi. Per imbattersi in qualcosa del genere è però sufficiente arrivare fino alla fine dell’introduzione di Quasi a metà della vita: nella terza parte di questo brano Gallian torna ai toni fiabeschi (ma questa volta con ironia malinconica), immaginando una sua strampalata e fantastica vecchiaia, in cui si vede finalmente sereno e circondato di centinaia di figli. Ed ecco come conclude: A sera, dopo la scarrozzata sulle rotaie, nuovi baci, riverenze alla mamma e poi, ascoltata la radio i più grandi, tutti a letto. Gran parlare nei sonni, voci sommesse, occhi chiusi e deliri e parole ancora. Io e mia moglie Pina andremo pian piano ad ascoltar ogni voce, accanto ai letti, a cogliere e a segnare su un taccuino ogni parola, ogni esclamazione, ogni segreto.23

Non può non sorprendere che ritorni qui, a distanza di 7 anni, la figura sinistra e misteriosa dell’omino tisico, indaffarato ad annotare su un taccuino le parole che i dormienti si lasciano scappare nel sonno, forse con l’intento di carpirne i segreti. Tanto più che, a impersonare l’omino, sono in questo caso l’autore stesso e sua moglie. Chi è l’omino tisico, e chi sono i dormienti di cui egli annota i sussurri? «Gente che bramava di nascere e non era nata»,24 dice Gallian a proposito dei derelitti che popolano le stamberghe ricordate nell’introduzione. È forse allora giunto il momento di svolgere un’ulteriore considerazione sul nucleo immaginativo costituito dal problema della nascita, che abbiamo visto riaffiorare qui con la massima evidenza: non solo esso si pone infatti all’origine della tendenza alla frammentazione, che si presenta, come già ricordato, a livello microstrutturale (stilistico) e macrostrutturale (le sequenze narrative), portando con sé infinite immagini di smembramento, figure materne divoranti, angosciose o 23 24

Ivi, p. 34. Ivi, p. 22.

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salvifiche; non solo investe in termini regressivi le fantasie espresse in innumerevoli luoghi dell’opera, ma si spinge ancora oltre, poiché, fin da Vita di sconosciuto, la tara del non essere completamente nati continuerà a caratterizzare tutti personaggi positivi della narrativa di Gallian (il principe Carlo e i derelitti, il narratore e gli emarginati delle stamberghe trovano un punto di incontro proprio in questa dimensione). Inoltre, se nelle prime opere, non connotate storicamente, la nascita mancata è un generico indice di fallito adattamento esistenziale, di incapacità di rientrare nel mondo delle convenzioni (ed è dunque motore dell’opera – l’abbandono del tetto paterno – e motivo del suo fallimento – ne fanno testo gli attacchi di narcolessia nei punti critici), nelle opere del secondo periodo, a partire da quelle del ’34, essa, la nascita non condotta a termine, sarà una caratteristica inconfondibile dei personaggi rivoluzionari, ovvero dei tanti squadristi immancabilmente destinati a fallire e a essere emarginati dalla società. È opportuno riportare brevemente due esempi, scelti tra gli innumerevoli disponibili, non per pedanteria ma per dimostrare una volta di più che non si tratta di una tesi arbitraria: «Ritornava lui, le sere, appena in tempo per sentire l’odore immenso inequivocabile, strano persino, che’è poi quello antico del parto ed ogni ritorno si riduceva alla commemorazione di quel giorno lontano»;25 si parla qui di Federico Altori, uno degli squadristi falliti de Il soldato postumo. E ancora: Aveva mancato qualcosa: forse non aveva il tempo o il modo di afferrare a volo un’occasione che gli fosse convenuta, la migliore per lui fra tutte le occasioni. Per intenderci, se si fosse trattato di un bimbo soffocato prima di nascere, quell’occasione mancata sarebbe stata la vita.26

Stavolta è il turno di Aristide, altra figura emblematica del fallimento del ragazzo selvaggio e del suo sogno rivoluzionario, in una società che non può che guardare con imbarazzo agli ideali di purezza antiborghese. Non a caso, come abbiamo visto nell’introduzione a Quasi a metà della vita, la nascita mancata continua ad accomunare gli eroi falliti (il narratore in questo caso, che più avanti comincia a descrivere l’esplodere della malattia che lo colpì proprio parlandoci di un 25 26

M. Gallian, Il soldato postumo, cit., p. 109, cors. mio. M. Gallian, Aristide morto, in Quasi a metà della vita, cit., p. 283, cors. mio.

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attacco di narcolessia) con i più miseri tra i derelitti che popolano periferie e luoghi malfamati, stavolta però ben connotati storicamente (una delle fonti di ispirazione più immediate era sicuramente l’opera narrativa di Lorenzo Viani, molto apprezzata da Gallian: in Parigi27 l’artista viareggino ci mostra un affresco impressionante della Ruche, l’albergo degli artisti, che nulla aveva da invidiare quanto a miseria al più sordido ospizio per poveri).28 In un suo saggio incentrato sulle prose brevi di Samuel Beckett (di cui ho già ricordato l’affinità con alcuni testi di Marcello Gallian), Aldo Tagliaferri afferma: L’essere

completamente

nato

implica

una

dimenticanza che appiattisce la vita sul piano dei luoghi comuni e di un’operosità scioccamente paga di sé, mentre la resistenza all’accettazione incondizionata dell’esistenza tiene in vita il ricordo indimenticabile dell’“unico vero paradiso”, il paradiso che abbiamo perduto; e proprio l’aspirazione ad una pienezza paradisiaca rende inaccettabile l’adeguamento ai valori comunemente accettati della crescita “normale” nell’integrazione sociale e delle facoltà di generare scavalcando la colpa della nascita, con affibbiarla a un altro vivente.29

L’impossibilità di adeguarsi ai «valori comunemente accettati della crescita “normale” nell’integrazione sociale», non può che significare la condanna a essere relegati ai margini della società, destino che, appunto, gli eroi di Gallian divideranno con gli emarginati senza volto, scontando la condanna di «quell’occasione mancata» che è la loro vita. Per concludere, è necessario soffermarsi sulla figura dell’omino che nottetempo annota le parole sussurrate dai dormienti, e che da ultimo lascerà il suo ruolo all’autore stesso e a sua moglie. Non credo si possa parlare di una funzione narrativa interpretabile in modo univoco: si tratta di un doppio, certo, così come sempre nelle opere di Gallian l’antagonista assume le caratteristiche dell’ombra (per 27

L. Viani, Parigi, Milano, Treves, 1926. Sulla tematica dei derelitti e degli emarginati, si vedano anche le raccolte di racconti Gli ubriachi (1923) e I vàgeri (1926), in Storie di Vageri, vol.1 Gli ubriachi – I vàgeri, Firenze, Vallecchi, 1988. 28 Cfr. S. Cirillo, I pazzi di Dio. La pietas cristiana in Cesare Zavattini e Lorenzo Viani, in Nei dintorni del surrealismo, cit., pp. 225-241. 29 A. Tagliaferri, La via dell’impossibile, Roma, Edup, 2006, p. 53.

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usare la terminologia junghiana, che forse più si addice a uno scenario onirico di questo tipo). Ma si tratta anche del doppio del narratore, oltre che del protagonista, poiché è colui che accoglie – e annota – i deliri dei non nati, che sono poi i suoi figli, come nel finale dell’introduzione (ma anche in Vita di sconosciuto si era detto dell’omino: «padre uggioso e feroce»30). I deliri dei dormienti, le parole dei derelitti, dunque anche degli “eroi” della rivoluzione che qui già presentivano il proprio fallimento: «può darsi che nel sogno io sveli il mio vero essere – pensava – ma chi vorrà credere alle mie parole?». Sono le stesse parole, le stesse confessioni, infondo, che staranno alla base di tutto l’immaginario narrativo di Gallian che, abbiamo visto, è ossessivamente avvitato attorno a pochi nuclei essenziali. Nella crudele figura dell’omino tisico dobbiamo dunque vedere un’immagine del narratore in quanto doppio del suo personaggio, nonché del se stesso squadrista e rivoluzionario, di cui il letterato era in fondo solo una controfigura nostalgica, una reviviscenza inevitabilmente postuma (il soldato postumo, è bene non dimenticarlo, è la creazione di un narratore postumo, ovvero di un soldato che si era adattato a sopravvivere come narratore)? Certo, se questa lettura è valida diventa però anche evidente il significato della trasformazione dell’omino tisico in narratore (affiancato dalla moglie), nel sereno e malinconico (soprattutto alla luce di quella che veramente è stata la vecchiaia dell’autore) finale dell’introduzione a Quasi a metà della vita: Poi, anche noi, vestiti di bianco, berretti sul capo e calze ai piedi, a letto secchi, distendersi nel sonno per abituarci a morire con onore. Ma lei, Pina, prima di addormentarsi, starebbe a ripetere sotto voce tutti i nomi, i cento nomi dei nostri figli lentamente, disperata alla fine d’averne dimenticato qualcuno.31

Laddove l’esercizio di ricordare i nomi sembra essere l’ultimo ufficio rimasto a una letteratura che, come tutti i suoi protagonisti, ha fallito e sopravvive a se stessa: se la lotta che egli aveva creduto rivoluzionaria si era dimostrata, e non poteva essere altrimenti, un umiliante fallimento, Gallian si era infatti illuso, ancora nei tardi anni 30 31

M. Gallian, Vita di sconosciuto, cit., p. 59. M. Gallian, Quasi a metà della vita, cit. pp. 34-35.

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Venti, di proseguire la rivoluzione abortita con le armi della letteratura. Ora, alla metà degli anni Trenta, anche questa illusione è caduta. Non rimane che ripetere i nomi, ovvero sempre lo stesso nome, poiché di un unico personaggio ormai si tratterà (Giovanni, Federico, Aristide, Gustavo, Maurizio…), così come unico è il nome dell’autore, Marcello Gallian, che egli avrà l’ansia di veder stampato su un numero crescente (atroce ironia) di volumi sempre più ignorati da pubblico e critica, come a voler mantenere vivo l’ultimo frammento di una produzione letteraria sterminata: il suo proprio nome, che era invece destinato, a partire già da questi anni, a un oblio pressoché completo.

Certamente non poteva aver dimenticato

l’esclamazione di uno dei derelitti del già ricordato dramma di Gor’kji: «Qui non ho un nome… Capisci quanto possa essere frustrante perdere il nome? Persino i cani hanno un nomignolo… Se non c’è il nome, non c’è neanche l’uomo…».32

32

M. Gor’kji, Bassifondi, cit., p. 83.

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3. Dai racconti novecentisti alla narrativa degli anni Trenta

Alla completezza dell’analisi condotta nello scorso paragrafo manca ancora un elemento di primaria importanza: la doppia scena da cui sono partito, ovvero l’abbandono della villa, il pestaggio e il successivo approdo all’ospizio dei poveri, costituisce in realtà la rielaborazione di un racconto che l’autore aveva pubblicato nel febbraio del 1928 sulla rivista d’avanguardia «I lupi», col titolo Ultime notizie.33 Può essere importante svolgere una breve lettura comparata tra i due testi, poiché sarà possibile in questo modo verificare come un nucleo narrativo destinato ad arrivare lontano, fosse in realtà nato come un racconto autonomo (anzi, come due spezzoni di racconti autonomi, semplicemente giustapposti nella versione originale). Il che vuol dire, a ben vedere, che lo stesso romanzo Vita di sconosciuto è nato a partire dallo sviluppo di alcuni fulcri narrativi sorti in origine come autonomi.34 Questo indizio, che non rimane peraltro isolato, dal momento che per Gallian era normale pubblicare in forma autonoma, come racconti, brani di prosa poi inseriti nei romanzi (in alcuni casi è giunto a pubblicare all’interno di raccolte di racconti brani estratti da romanzi già editi), può forse facilitare la comprensione della tecnica compositiva dell’autore, che probabilmente non era solito partire dall’elaborazione di una trama, ma piuttosto da una singola micronarrazione, o addirittura da un’immagine, cui poi giustapponeva una serie di ulteriori sequenze concepite a partire da essa (in base a una considerazione come questa, la sua tendenza alla composizione frammentaria può forse risultare più chiara). Certo, resta da dimostrare che i due testi accoppiati su «I Lupi» col titolo Ultime notizie fossero originariamente autonomi e non solo estratti da un romanzo che, uscito nel 1929, poteva nel 1928 essere già in gestazione. Ciò mi sembra improbabile per una serie di motivi: cominciando dal primo dei due brani (quello che va dal pestaggio al massacro degli 33

M. Gallian, Ultime notizie, in «I lupi», n. 3, 29 febbraio 1928, p. 3. «I lupi» era una rivista diretta da Gian Gaspare Napolitano e Aldo Bizzarri, che si dichiarava appartenente al “Novecentismo fascista”, e intendeva dunque porsi come organo dei più giovani (e agguerriti) tra i novecentisti, che desideravano rispondere in modo aggressivo agli attacchi provenienti dal versante strapaesano. A titolo di curiosità, ricordo che nella stessa pagina in cui è stampato il brano di Gallian è presente anche un racconto di Alberto Moravia dal titolo Dialogo tra Amleto e il principe di Danimarca. 34 Non è possibile seguire per intero il dipanarsi di queste trame, che sono pressoché infinite nell’opera di Gallian, ma vi è almeno un'altra sequenza di questo stesso romanzo comparsa come racconto autonomo. Si tratta di Cronaca nera. Gli scomparsi, uscita sulla bontempelliana «900», III, n. 1 (nuova serie), 1 luglio 1928, pp. 42-44.

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animali nella vasca), notiamo che in Vita di sconosciuto compaiono diversi cambiamenti a livello lessicale e di punteggiatura, che sostanzialmente rendono il testo più scorrevole e aulico. In secondo luogo, il tessuto del racconto subisce numerose integrazioni – con l’inserto di brani anche molto lunghi – con l’evidente scopo di creare legami alla trama complessiva del romanzo, che non risulterebbe altrimenti logicamente compatibile. Di fatti, la villa, in origine di proprietà del protagonista senza nome, passando in Vita di sconosciuto si trasforma in una dimora disabitata in cui il principe Carlo è capitato per caso. Persino i quattro sconosciuti assalitori vengono definiti, nella versione del 1929, «anarchici o comunisti. Teppa vile e feroce», con un evidente tentativo di conferire al testo una connotazione politica in senso fascista, prima completamente assente (tra l’altro, che tale connotazione fosse inizialmente estranea al racconto, è dimostrato dal luogo di pubblicazione, una rivista apertamente fascista, che non avrebbe certo disapprovato una simile idea). Inoltre, mentre la versione originale si presenta come la descrizione allucinata di un evento incantato, nel romanzo si riscontrano numerosi interventi volti a migliorarne la sequenzialità logico-narrativa: il narratore sente ad esempio il bisogno di giustificare l’uccisione degli animali nella vasca affermando, alcune pagine dopo,35 di aver agito in quel modo unicamente per non lasciare alle guardie il sospetto di un delitto, che avrebbe potuto sorgere alla vista del molto sangue versato dalle proprie ferite. Di ciò nel racconto si ha appena un accenno, laddove è molto più forte l’impressione che l’assassinio degli animali venga consumato per pura ebbrezza del sangue (qui con tonalità particolarmente sinistre): «Allora servendosi di un largo coltello scannò il cane nella vasca; poi non contento scotennò un porcello smorfioso e lezioso di letame come i bambini che cominciano a sapere di lussuria notturna, e una gallina e una colomba appassionata».36 Completamente soppresso nel romanzo è poi il finale, che per il suo tono fantastico e illogico non avrebbe potuto in nessun modo rientrare all’interno della costruzione della trama: il principe scoperchia a mani nude la villa – rivelatasi dunque l’ennesimo scenario da baraccone da fiera – e vi ripone dentro tutto ciò che si trovava nel parco, come in una cassapanca. 35 36

M. Gallian, Vita di sconosciuto, cit., p. 113. M. Gallian, Ultime notizie, cit., p. 3.

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Veniamo ora alla seconda parte del racconto, che nella versione de «I Lupi» riceve anche un titolo autonomo (ma in corpo minore rispetto a quello principale), ovvero Ricoveri notturni. Innanzitutto, si tratta di un brano in prima persona, e che dovrà dunque essere trasposto in terza per poter passare nel romanzo (il contrario risulterebbe difficilmente spiegabile). Se inoltre per questo testo sono valide tutte le considerazioni già fatte per il precedente (interventi migliorativi a livello lessicale e sintattico), il procedimento di rielaborazione ai fini del riutilizzo è ancora più evidente, poiché, sebbene alcune sequenze e immagini vengano salvate, le integrazioni sono molto cospicue e comprendono intere pagine. Insomma, si tratta di una vera e propria riscrittura (e non poteva essere altrimenti, visto il passaggio dalla prima alla terza persona). Il tessuto originale è modificato, ancora una volta, in funzione della trama del romanzo. Compare il personaggio dello sconosciuto, antagonista del principe Carlo e alleato dell’omino tisico; vengono inseriti numerosi rimandi logici al resto della trama; inoltre, anche qui viene soppresso il finale fiabesco: «da quel giorno i ricoveri notturni scomparvero come baracconi di zingari».37 Ultime notizie non è, come dicevo, l’unico esempio di micronarrazione ad essere passata all’interno di un romanzo successivo. È forse utile richiamare qui un esempio ulteriore, probabilmente ancora più significativo, poiché il passaggio temporale è più ampio e riguarda un romanzo già appartenente a quella che ho definito, con tutte le cautele del caso, la seconda fase della narrativa di Gallian. Si tratta di uno dei racconti più affascinanti e apprezzati del periodo novecentista dell’autore, in questi anni molto influenzato dagli immaginisti, con cui divideva gli spazi culturali underground della Roma fine anni Venti, intitolato Gli abitatori della piazza grande,38 comparso dapprima su «900», sempre nel 1928, in seguito raccolto in volume in Quasi a metà della vita39 (all’interno del quale confluiranno vari racconti comparsi sulla rivista di Bontempelli alla fine degli anni Venti). La trama è in questo caso molte semplice da riassumere: in piena notte un giovane attraversa le vie di una città deserta per recarsi a prendere la sua donna, che abbandonerà la

37

Ibidem. M. Gallian, Gli abitatori della piazza grande, in «900», III, n. 2, 1928, pp. 50-57 (le citazioni saranno tratte da questa versione del racconto). 39 M. Gallian, Gli abitatori della piazza grande, in Quasi a metà della vita, cit., pp. 67-84. 38

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famiglia per lui e, carica di una serie di bagagli casalinghi, lo seguirà alla ventura, su di una carrozza guidata da un vetturino addormentato. In un racconto realistico, la vicenda dovrebbe a questo punto prendere una piega meno poetica, con il subentrare delle preoccupazioni circa il futuro. E infatti ecco i pensieri del giovane: «Che cosa faremo dentro una casa che è nostra? […] Uno spavento orribile mi aveva preso, un’ansia indecisa e colpevole, una tristezza senza confronti».40 Ma per fortuna siamo ancora negli anni Venti, e con piglio elegantemente fantastico è la donna a risolvere la situazione stabilendo la loro dimora in una piazza incantata dall’atmosfera dechirichiana, che con pochi rapidi tocchi si trasforma in una perfetta camera nuziale: tende a coprire lo sbocco dei vicoli, i ganci delle finestre più basse usati come attaccapanni, il letto sistemato sotto un arco a mo’ di baldacchino, il cielo che pare «dipinto dalle mani di un ragazzo a furia di stellucce colorate».41 L’atmosfera sospesa di questo racconto, con la sua soluzione fiabesca, non riesce tuttavia (né certamente mira) a occultare il fondale di gravità da cui la leggerezza stessa si distacca per danzare sulla pagina novecentista. Ciò risulterà del resto evidente quando passerò a esaminare la destinazione finale raggiunta dallo stesso nucleo narrativo alcuni anni dopo. Per ora, è importante notare come la fuga dall’ambiente domestico, e soprattutto il rifiuto di ricrearne un altro, per quanto lontano dalla tutela oppressiva della famiglia, è già testimone di un disagio verso gli istituti della vita borghese così estremo da inficiare qualsiasi ipotesi di ricostruzione armonica nella vita reale. Il che è perfettamente comprensibile, a questo punto del percorso intrapreso nella narrativa di Marcello Gallian: la fuga dalla vita socialmente riconosciuta (l’abbandono della situazione familiare borghese), per chi non intende semplicemente provare a riprodurre quello schema iniziale in modo autonomo, non può che significare l’ingresso in uno stato di indigenza ed emarginazione, qui ancora sublimato nell’incanto della strada trasformata in nido d’amore: «Il grottesco di Gallian riesce a trasformare in dignitosissimi e vaporosi sogni, latamente anarchici e libertari, la pesantezza di una povertà ingiusta e intollerabile»,42 scrive Silvana

40

M. Gallian, Gli abitatori della piazza grande, cit, p. 51. Ivi, p. 55. 42 S. Cirillo, L’espressionismo drammatico di Marcello Gallian, cit., p. 80. 41

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Cirillo a proposito di questo racconto, notandone poi la vicinanza alle atmosfere del realismo magico bontempelliano e allo sperimentalismo teatrale dell’immaginismo.43 Tuttavia, già in questo racconto non manca di manifestarsi quanto diverrà massimamente evidente in seguito, ovvero l’odio per l’oppressione simboleggiata dagli spazi costrittivi della vita quotidiana, anche se qui ancora occultato nella figura del fantoccio, che abbiamo già avuto occasione di incontrare negli scorsi capitoli (ad esempio ne La donna fatale). Sullo sfondo del fiabesco finale, intravediamo infatti inquietanti figure che si affacciano dalle quinte: «avevano abitato le camere buie del sonno, vestiti di fruscii e di ondulamenti, il volto pieno di smorfie, si frantumavano e venivano raccolti negli angoli dei corridoi e gettati poi dalla finestra».44 Il che ci lascia intendere che un malefico incantesimo incombe sulla città, trasformando in fantocci di porcellana tutti coloro che si lasciano irretire dalla malia degli ambienti domestici. Non sembra del resto strano che Gallian ci stia parlando qui della mortifera

capacità

devitalizzante

degli

spazi

casalinghi,

metonimicamente

richiamanti l’istituzione borghese in generale, che hanno inghiottito tutti i loro abitanti facendone delle bambole ormai in frantumi, mentre gli unici esseri vivi in tutta la città sono i due abitatori della piazza grande. Senza voler ripetere le implicazioni psicanalitiche della figura del fantoccio che, come abbiamo visto, compare in prossimità di un moto di frammentazione dell’io, quale surrogato arcaico di quest’ultimo (il che anche qui combacia alla perfezione con l’andare in frantumi dei fantocci stessi «che avevano abitato le camere buie del sonno»), è tuttavia opportuno, come si è fatto nei precedenti paragrafi, segnalare il legame che lega questa tematica al cinema di area espressionista degli anni Venti, dove il fantoccio, l’automa – che si tratti delle statue di cera del già citato Il gabinetto delle figure di cera di Paul Leni, o del sonnambulo Cesare de Il gabinetto del dottor Caligari – ha un ruolo di primo piano, del resto già anticipato da film di grande successo come Il golem del 1915 e Il golem – come

43

«Come non pensare al teatro sperimentale di quegli anni? Come non rivedere gli abiti e i mobili bontempelliani, come non captare le atmosfere allucinate e le assurde situazioni degli spettacoli immaginisti? La personificazione di cose e suppellettili operata umoristicamente da Savinio? Quel sapiente uso della leggerezza miscelata a una pesante e deformante materializzazione di pulsioni e sogni? Quell’ammettere come possibile qualunque insensatezza partorita dall’immaginazione?». Ivi, p. 81. 44 M. Gallian, Gli abitatori della piazza grande, cit., p. 57.

123

venne al mondo del 1920.45 Naturalmente, non è possibile comprendere le implicazioni connesse alla figura dell’automa, senza prendere in considerazione la sua provenienza dal romanticismo tedesco (si pensi a Der Sandmann di Hoffmann e a Titan di Jean Paul), dove esso prefigura l’incubo dell’oppressione dell’individualità a opera delle forze di una società sempre più organizzata in senso moderno, ma anche il sollievo per la liberazione dal peso opprimente della razionalità umana (come nel saggio Sul teatro delle marionette di Kleist).46 Ma non si può neppure dimenticare la presenza della figura dell’automa nella letteratura Italiana (avanguardista) di quegli anni: Minnie la candida di Bontempelli, del 1927, è un dramma interamente incentrato sull’incubo degli automi che hanno sostituito gli esseri umani. E ancora prima, il 7 maggio del 1925, era andato in scena al Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Bragaglia il dramma Fantocci elettrici di Marinetti, alla sua prima apparizione italiana.47 La stratificazione di significati che investe dunque la figura dell’automa, ci mostra con sufficiente chiarezza come all’interno di questa immagine, che vediamo fare capolino sinistramente ne Gli abitatori della piazza grande (già dall’inizio del racconto l’autore ce ne aveva del resto dato un presentimento: «un qualche abitatore, che appariva alla finestra, sembrava mosso da un burattinaio nascosto dentro lo zinale»48), vada a concentrarsi un nodo molto importante per l’ideologia e dunque anche per la narrativa di Gallian, ovvero il senso di oppressione per il dominio degli istituti borghesi, che, come abbiamo visto, trovano un’espressione privilegiata all’interno della casa, il centro del nucleo familiare, con i suoi mobili, i suoi oggetti quotidiani, le sue abitudini. È importante allora cogliere la carica dissolutiva di 45

Il primo, Der Golem, è di Paul Wegener e Henrick Galeen; il secondo, Der Golem – wie er in die Welt kam, è di Paul Wegener e Carl Boese. Cfr. S. Kracauer, Storia psicologica del cinema tedesco, cit., pp. 78-79, 164. 46 H. v. Kleist, Il teatro delle marionette (1810), Genova, Il nuovo melangolo, 2005. 47 Cfr. A.C. Alberti, S. Bevere, P. Di Giulio, Il Teatro Sperimentale degli Indipendenti, cit., pp. 192194. La versione originale francese, Poupées eléctriques, risale al 1909 (l’opera, con il titolo Elettricità sessuale, è ora contenuta in Teatro, vol. 2, Roma, Vito Bianco Editore, 1960, pp. 417-453). La presenza di Marinetti e del futurismo romano di questi anni non è del resto da sottovalutare per quanto riguarda la formazione della personalità di Gallian, né, più in generale, per una lettura degli ambienti avanguardistici romani della fine degli anni Venti. Proprio nel 1929, insieme ad Armando Ghelardini e Alfredo Gaudenzi, Gallian diede vita all’effimera esperienza del Teatro 2000, presso il quale andò in scena per la prima volta in Italia un’altra opera francese del primo Marinetti, ovvero Re baldoria (Le roi Bombance), già rappresentato tra i fischi a Parigi nel 1904 (ora in Teatro, vol. 2, pp. 1-253). 48 M. Gallian, Gli abitatori della piazza grande, cit., p. 50.

124

questo segnale, che, passato attraverso il percorso evolutivo dell’opera di Gallian, ci catapulterà verso scene di questo tipo (a ben riflettere incentrate sulla medesima situazione di partenza del racconto del ’28): Non avete al mondo che questa casa, è vero? Questa casa vale un figlio, è vero? Oltre queste mura, questi mobili e questi gingilli, è la morte, è la fine del mondo, è il disonore, credete voi? Bene. Un calcio al tavolo, con un pugno spezzò il vetro della porta del salotto, non sentì dolore, a furia di spalle trascinò

fin

contro

il

muro

l’armadio

dorato

che

scricchiolava come un gigante di legno avverso. Gli eran rimasti vetri dentro le mani, fra le urla delle donne, che s’eran messe in mezzo, invocando soccorso. La sorella tremava, batteva i piedi, mordeva le unghie; la madre sparuta, curva con le borse agli occhi, con le dita tenere, con i capelli bianchi proteggeva l’arca. – Non abbiamo altro, andremo a dormire all’aperto, a chiedere l’elemosina: avere il mobilio oggi è una fortuna, non si riacquista più… – Non è casa, questa; è un lusso porco che vi imprigiona e vi toglie ogni affetto sincero e ogni comprensione umana: infierite contro di me, anche voi…49

Quella che nel 1928 era una fuga liberatoria dagli ambienti domestici è dunque vissuta qui dalle spaventate donne di casa come un incubo di impoverimento e di emarginazione: «andremo a dormire all’aperto». Ma il figlio, lo squadrista fallito Gustavo (già fallito sebbene sia passato solo pochissimo tempo dalla presa del potere del fascismo), ribadisce le ragioni che erano state in fondo il centro ispiratore de Gli abitatori della piazza grande e dei suoi automi: «un lusso porco che vi imprigiona e vi toglie ogni affetto sincero». Lo squadrista aveva di fatti creduto che la sua rivoluzione fosse un modo per eliminare per sempre dal mondo l’esistenza del lusso porco, di tutto ciò che imprigiona e toglie ogni comprensione umana. Ma, subito dopo la “rivoluzione” delle camicie nere, il ritorno a casa era stato un semplice tornare a chiudersi tra le mura domestiche, o almeno, questo era quanto le gerarchie del regime che spiccava il volo pretendevano dalla propria mano d’opera di ragazzi 49

M. Gallian, Il soldato postumo, cit., pp. 87-88, cors. miei.

125

selvaggi ormai inservibili e “impresentabili”. E il ritorno a casa era stato più duro di qualsiasi sconfitta, se l’unico sfogo possibile era infierire contro i mobili e le robe di casa: «e con un salto cacciò giù dal soffitto la lampadina con il paralume di seta rossa a frange. Razzolava con le mani, con i muscoli dentro le ventraglie, dentro i cuori di legno di ferro e di vetro della casa sopita».50 Ma il combattente sconfitto non può che rassegnarsi al proprio fallimento, rendendosi conto che il potere di cui si era messo a servizio, era poi lo stesso che difendeva l’esistenza degli interni borghesi da cui egli aveva inteso liberare il mondo. Così, quando la madre e la sorella minacciano di rivolgersi alla questura, il cortocircuito non può che divenire evidente: il fascismo ormai vincitore, il fascismo che lo aveva illuso armandogli la mano quando «era entrato durante la notte, armato, nel caldo delle camere a rovistare, nei comò di Pontelungo gravidi di bandiere e di tessere, di manifesti e di fazzoletti d’ogni colore»,51 era lo stesso potere adesso pronto a reprimere i suoi gesti di insofferenza con l’inesorabilità della burocrazia poliziesca: «Ma era umiliato di già, vano ogni sforzo e sbagliato; si rintana nella camera, si getta nuovamente sul letto: ansima, tremando senza sfogo, in una grande pena».52 Non avrei richiamato l’esempio de Il soldato postumo se il legame con il racconto del 1928 si fosse limitato semplicemente a questo evidente nucleo ideologico, qui passato attraverso il riconoscimento del fallimento storico dell’esperienza illusoriamente rivoluzionaria del fascismo. Poche pagine prima, l’autore ci racconta gli inizi della storia d’amore tra Gustavo e sua moglie, una ragazza che per lui aveva abbandonato la famiglia: l’episodio è di fatto un’esposizione del nucleo narrativo de Gli abitatori della piazza grande privato di ogni elemento fantastico, ridotto, per così dire, alla cruda realtà. Ecco come la ragazza abbandona il tetto paterno nel ’28: Arrivai dunque con la berlina sotto la casa; invece di fischiare, soffiai leggermente qualche nota dentro un clarinetto ingenuo e attesi. Ella si affacciò, mi fece cenno col capo, poi si ritrasse. [...] 50

Ibidem. Ivi, p. 89. 52 Ibidem. 51

126

Dopo un tempo indeterminato, scese una cassa verde, poi un'altra, una valigia barocca, intarsiata in argento, tre fagotti di carta velina, un baule vuoto: un materasso infine, avvoltolato dentro una coperta. [...] Finalmente ella scese, inseguita da uno stormo di cattive parole e di vituperii: si proteggeva dai raggi freddi della luna, con un ombrellino di velluto, costellato di gemme false [...].53

Ed ecco Il soldato postumo: «Due anni prima, quando era stata posseduta, lei signorina, non era passata una settimana che s’eran ritrovati di sera sopra una banchina ad aspettare. Padre e madre non avevano voluto ricevere più Irene in casa».54 Laddove lo «stormo di cattive parole e di vituperii» che insegue la giovane che quasi magicamente lascia la casa circondata dai suoi oggetti quotidiani inutili e affascinanti, è divenuto un semplice e brutale esser scacciati di casa; e se nel racconto i due protagonisti, rendendosi conto di non sapere dove dirigersi, cominciano un incantato vagabondare in carrozza per le vie della città («A un tratto ci ricordammo che non sapevamo dove andare. [...] La carrozza continuò ad andare senza il vetturino. In quel momento il cavallo sognava la paglia che esiste nelle culle e nei presepi. Le strade erano lunghe e deserte».55), nel romanzo ciò si tramuta nel ben più serio problema di trovare un posto dove dormire: – Stasera non abbiamo più a disposizione né la stazione dove i ferrovieri mi conoscono né il caffè solito dove il cameriere me la tira alle spalle […]. A pochi passi stava l’ultimo palazzo e poi la campagna nera con lumi vaghi, dispersa, attirava il grande umidore e la vastità delle foglie e delle erbe. “A sedere qui, dunque, Irene, se tanto ci riserbano gli avi”. Gustavo con carta di giornali aveva fatto una specie di cuscino dove adagiò la testa di Irene, nella direzione del vento: si coprirono col soprabito quando il sonno venne, inebetiti. “Ci prenderanno per uccisi”, aveva mormorato Gustavo.

53

M. Gallian, Gli abitatori della piazza grande, cit. p. 52. M. Gallian, Il soldato postumo, cit., p 58. 55 M. Gallian, Gli abitatori della piazza grande, cit., p. 53. 54

127

Poi una guardia li aveva risvegliati, in paura, col piede.

56

La situazione del fiabesco abitare la piazza e dormire per strada, si è dunque mutata in una prosaica avventura da senza fissa dimora, avventura che non può non risultare terribile per Irene, fino a qualche tempo prima «signorina di buona famiglia», ora trascinata senza un soldo a fare la fame per le strade di Roma dal suo non meno ingenuo amante. Ma – ed è stupefacente – nel romanzo del ’35 finisce per conservarsi anche l’immagine più forte del racconto del ’28, quella che più colpisce la fantasia, ovvero la giovane che comincia ad adornare la piazza come fosse una camera nuziale, ostruendo lo sbocco delle strade con tendaggi («due grosse tende di fustagno, una da una parte una dall'altra, ostruirono lo sbocco dei vicoli della piazza»57), appendendo i vestiti agli infissi e alle maniglie dei portoni come fossero attaccapanni («Due tre quattro vestiti, pastrani, cappelli, vestaglie, appese alle maniglie dei portoni, agli infissi delle finestre basse, ai sostegni delle bandiere»58), sistemando il letto nuziale come nella più classica delle camere da letto («il materasso e due cuscini adagiò sotto una specie d'arco, dove ardeva un lumicino della madonna. Così avevamo la Madonna a capo al letto e l'arco faceva da baldacchino e da alcova»59). Anche ne Il soldato postumo infatti, Irene si troverà a ripetere i gesti della suo fiabesco alter ego, ma per ben altri motivi: Quante, quante volte avevano mutato camera, abitazione, fondachi, soffitte? […] Ma godeva di meraviglia quando pensava a certe astuzie disperate, a certe infantili trovate delle quali s’era servita per non portare sempre accanto la valigetta o indosso la roba. Dentro un buco della città i fazzoletti, dentro un altro la camicia e il colletto bianco: colonne dimenticate servivano da attaccapanni, grate da forzieri, finestre rotte di sotterranei dimenticati erano armadi, scansie, casse dove riponeva, qua e là, la sua poca dote gelosa: […] tre chilometri per mutar d’abito e altri

56

M. Gallian, Il soldato postumo, cit., pp. 58-59. M. Gallian, Gli abitatori della piazza grande, cit., p. 54. 58 Ivi, p. 55. 59 Ibidem. 57

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quattro, talvolta, per riporre i fazzoletti sporchi e prendere quei nuovi.60

La trasmigrazione di questi nuclei narrativi dai racconti novecentisti della fine degli anni Venti ai successivi romanzi, soprattutto nel caso di quello che è probabilmente il romanzo più propriamente realista di Gallian, ovvero Il soldato postumo, non solo facilita l’esame dell’evoluzione dell’opera dello scrittore, ma fornisce una via d’accesso privilegiata alla comprensione di quelle strutture profonde, quelle immagini pregnanti, attorno alle quali egli così spesso costruisce le proprie invenzioni. In questo caso, la pubblica piazza vissuta come casa fiabesca, la fuga dalla casa paterna, gli abitanti delle stanze sonnolente visti come automi, svelano tutto il proprio significato solo quando ne Il soldato postumo vengono sottoposti al vaglio della realtà. Ma, sia ben chiaro, il fatto che il vivere per strada si dimostri ben misera cosa, un’avventura per nulla entusiasmante, sarebbe di per sé una banale constatazione: il vero significato di questa analisi, se può averne uno, è semmai mettere a nudo un nucleo ideologico con cui l’autore aveva evidentemente sempre evitato di fare i conti, con l’occultarlo all’interno della propria opera, nel passaggio dalla lotta armata alla militanza letteraria. Le spedizioni fasciste, gli agguati notturni, la distruzione degli interni proletari, tutte azioni ben poco sensate per chi, evidentemente, aspirava alla distruzione dell’ordine borghese («era entrato durante la notte, armato, nel caldo delle camere a rovistare, nei comò di Pontelungo gravidi di bandiere e di tessere, di manifesti e di fazzoletti d’ogni colore»), erano legate, nell’immaginazione di Gallian, al desiderio di liberare se stesso e l’umanità tutta da un altro tipo di violenza, quella oppressiva del quotidiano. Ma i toni della fiaba, della romantica fuga dall’angoscia delle stanze, ritornando a immergersi nella realtà – alla metà degli anni Trenta, quando le illusioni rivoluzionarie erano miseramente crollate – non possono che mettere a nudo l’insensatezza di una ribellione che aveva sfogato la propria rabbia contro i simboli dell’ordinamento sociale, senza metterne in discussione i fondamenti economici (erano semmai le vittime della spedizione punitiva, i comunisti di Pontelungo, che pure dormivano ignari nelle loro borghesi camere da letto, a contestare quei fondamenti economici). Insomma, le speranze della rivoluzione 60

M. Gallian, Il soldato postumo, cit., p. 60.

129

erano state affidate a un potere evocato proprio per soffocare nel sangue ogni speranza di cambiamento, convogliando verso uno sfogo illusorio le ansie ribellistiche di una generazione. Ne prenderanno atto, sulla propria pelle, i vari soldati postumi che affollano i romanzi di Gallian. Lo imparerà persino Gustavo, riconoscendo la vanità di tutti i sacrifici passati, allorquando quello stesso potere che egli aveva contribuito a edificare gli si presenterà davanti col banale aspetto dei questurini, evocati dalle donne di casa a difesa del mobilio, del decoro, dell’inscalfibile dominio della banalità quotidiana.

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PARTE SECONDA

L’immaginismo di Umberto Barbaro e Dino Terra

131

PREMESSA

Cenni storici sul Movimento Immaginista

L’UNIVERSO SULLE BASI DI UNA NUOVA GRAMMATICA IMMAGINISTA. La vita vista attraverso la lente biconvessa dell’immaginismo, unica garantita per l’eternità, si può riassumere nelle formule: 2 = 1; 1 = 2; 1 + 1 = 1.1

È con queste parole che comincia la breve ma intensa stagione dell’immaginismo, un movimento d’avanguardia animato da un gruppo di giovani artisti e scrittori attivi negli ambienti underground della Roma della fine degli anni Venti. L’occasione è la prima uscita del periodico «La ruota dentata», nel febbraio del 1927, che avrebbe dovuto costituire l’organo ufficiale del movimento, e che invece, per mancanza di fondi, non ebbe mai un seguito. Nel testo che apriva il numero, intitolato Prima rivelazione dell’immaginismo, si legge inoltre:

Non confondiamo immaginismo e fantasismo; l’immagine è qualche cosa di più della realtà; il fantasma è l’ossessione del nulla. […] Le

nostre

immagini

sono

nuove,

inedite,

sorprendenti. Noi distruggiamo i culti feticisti, rompiamo tutti gli apparecchi guasti degli pseudo artisti dagli atteggiamenti catatonici.2

1 2

Prima rivelazione dell’immaginismo, in «La ruota dentata», I, n. 1, febbraio 1927, p. 1. Ibidem.

132

La prima impressione è quella del lancio di un ennesimo movimento d’avanguardia, cosa che nel 1927 non può ormai più stupire nessuno. In realtà, al di là del tono sopra le righe di questa prima rivelazione, basta proseguire nella lettura del foglio per rendersi conto che ci troviamo di fronte a un gruppo che sull’idea di avanguardia ha già lungamente meditato. Non solo, dall’analisi delle molteplici personalità che lo animano, emergerà che numerose erano state anche le esperienze dirette e serrato il confronto con la contemporanea cultura avanguardista europea. Innanzitutto, come si pone «La ruota dentata» nei riguardi degli altri movimenti d’avanguardia? Il proclama prosegue così: Le scuole artistiche d’Avanguardia con la loro affannosa ricerca di nuove possibilità creative per mezzo di analisi spaziale e temporale della realtà, ci sembrano individui ostinati a voler uscire da un labirinto di Luna Park attraverso le immagini della uscita che gli specchi sapientemente disposti riflettono. GLI IMMAGINISTI ESCONO DA SOPRA.3

Già qui l’impressione comincia a mutare e il discorso si fa più tecnico, ma, soprattutto, la tematica estetica («le possibilità creative per mezzo di analisi spaziale e temporale») viene innestata all’interno di uno scenario comune nell’immaginario fantastico contemporaneo, ricorrente innumerevoli volte, in questi anni, nel cinema, nella letteratura e nelle arti figurative: il Luna Park. Affiora inoltre l’intento polemico nei confronti degli altri movimenti d’avanguardia, che tuttavia, sempre in questa prima pagina, viene così precisato (incastonato in uno slogan impaginato verticalmente):

«Futuristi,

suprematisti,

cubisti,

espressionisti,

surrealisti,

costruttivisti, realisti, avanguardisti, tutti con il MOVIMENTO IMMAGINISTA!». Non è una polemica dunque, ma un appello. Ma allora l’impressione iniziale, quella di un ennesimo “ismo” che stancamente va a prendere posto in fondo a una coda già troppo affollata, si rivela sbagliata. Gli immaginisti affermano di possedere una ben distinta identità, certo. Eppure invitano le altre avanguardie a unirsi a loro, senza tuttavia pretendere che rinuncino alle proprie caratteristiche individuali (non a caso l’elenco presente 3

Ibidem.

133

nell’appello è molto preciso nel menzionare uno a uno i principali movimenti, a cominciare dal futurismo). Si tratta insomma dell’ambizioso tentativo di sintetizzare una sostanza comune a tutti gli avanguardismi, ovvero di stabilire il significato e il ruolo dell’avanguardia all’interno del tessuto sociale contemporaneo. Impresa non da poco, com’è evidente, soprattutto perché la sua portata viene a essere essenzialmente politica, in un’Italia ormai stabilmente inquadrata nel regime fascista. In ogni caso, se la Prima rivelazione dell’immaginismo assumeva i toni e gli atteggiamenti irriverenti e paradossali tipici di alcuni dei più noti manifesti d’avanguardia (il dada, in primis), «La ruota dentata» proseguiva con un articolo teorico di più vasta portata, Una nuova estetica per un’arte nuova,4 all’interno del quale venivano precisati e argomentati i punti chiave delle idee del gruppo in merito al significato dell’arte e dell’impegno degli artisti. L’autore di questo studio, che lascia intravedere un lungo confronto non solo con la letteratura contemporanea, ma anche con le più attuali questioni estetiche e filosofiche, era il venticinquenne Umberto Barbaro, che sarà, non a caso, uno dei due animatori del movimento su cui si concentrerà la mia attenzione in questa tesi. Siciliano trapiantato a Roma, oggi Barbaro ci è noto principalmente come teorico marxista del cinema neorealista del secondo dopoguerra e per essere stato prima insegnante e poi direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ma in quegli anni, insieme agli altri componenti del gruppo, quasi tutti coetanei, si interessava di arte d’avanguardia ed era vicino ad ambienti di estrema sinistra (aveva pubblicato su fogli anarchici semiclandestini come «Fede» e «Vita»), ed era stato giovanissimo direttore della rivista «La Bilancia», che aveva ospitato, tra gli altri, scritti di De Chirico e Savinio. Barbaro era poliglotta e profondo conoscitore della cultura contemporanea europea: aveva tradotto, ad esempio, il dramma di Wedekind Il marchese di Keith5 e pubblicato, presso la piccola casa editrice collegata alla sua rivista, il dramma di Andreev Anatema;6 nel 1931 pubblicherà invece la traduzione del romanzo di Bulgakov Le uova fatali.7 Naturalmente, già allora si interessava di cinema, 4

Ivi, pp. 2-3, Poi ristampato in U. Barbaro, Neorealismo e realismo, cit., pp. 75-84. Le citazioni saranno tratte da quest’ultima edizione. 5 La traduzione era comparsa dapprima nella rivista «Teatro», IV, n. 3, marzo 1926, e successivamente in volume, presso Alfredo Formica Editore, Torino, 1930. 6 L. Andreev, Anatema, Roma, La Bilancia, 1923. 7 M. Bulgakov, Le uova fatali, Lanciano, Carabba, 1931.

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scrivendo sulle riviste di Blasetti «Cinematografo» e «Lo spettacolo d’Italia», e di teatro. Nel suo periodo immaginista pubblica numerosi racconti8 e compone diversi drammi, quasi tutti rappresentati presso Il Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia. Ma di questo mi occuperò ampiamente nel prossimo capitolo. L’altro autore che tratterò più approfonditamente in questo studio, anch’egli personalità chiave del Movimento Immaginista, è Dino Terra, alias Armando Simonetti, nato nel 1903, figlio di un noto (e facoltoso) pittore e antiquario romano. Cresciuto tra Roma e Parigi, Terra (questo lo pseudonimo da lui scelto all’epoca dell’immaginismo e poi adottato per il resto della vita), aveva studiato dapprima medicina, proprio nella capitale francese, e in fine si era laureato in lettere a Roma (con una tesi in Storia, sulla Rivoluzione Francese9). Da subito attivo come estremista politico, aveva fatto parte, nei primi anni Venti, del movimento pacifista Clarté, diretto dall’intellettuale comunista Henri Barbusse,10 di cui aveva contribuito a fondare la sezione romana. Legato agli ambienti di sinistra della capitale, era entrato nell’orbita del PCd’I e nella sua insospettabile casa aveva ospitato documenti segreti da sottrarre alle perquisizioni fasciste. In due occasioni, nel 1926, incontra Gramsci, poco prima dell’arresto. A partire da questo momento tuttavia, comincia il suo distacco dalla politica attiva e l’avvicinamento alla letteratura, facilitato dalla sua familiarità con gli ambienti intellettuali italiani e parigini (Terra conosceva di persona molti dei protagonisti dell’avanguardia francese, nonché lo scrittore André Gide, che sarà tra i suoi principali modelli). Sebbene, come spiegato nell’introduzione, abbia scelto di occuparmi in questa sede unicamente della produzione letteraria di due degli esponenti del Movimento Immaginista, ovvero quelli le cui opere ne esemplificano in modo più 8

U. Barbaro, L’essenza del can barbone, Roma, Le edizioni d’Italia, 1931. A. Simonetti, Sguardo sul passato (Considerazioni su la rivoluzione francese), in «Rassegna Internazionale», n. 3, marzo 1922, pp. 241-246. 10 Per la corrispondenza intercorsa tra Terra e Barbusse, nonché per una ricostruzione dell’attivismo politico del giovane Dino Terra, vedi U. Carpi, Bolscevico immaginista. Comunismo e avanguardie artistiche nell’Italia degli anni Venti, Napoli, Liguori, 1981, e P. Buchignani, Sovversivismo antiborghese nella Roma anni ’20. Il «clartista» Dino Terra, «Storia contemporanea», n. 3, giugno 1996, pp. 429-445, e La rivoluzione di Simonetti-Terra: dal giacobinismo all’«immaginismo», in D. Marchesci (a cura di), La figura e le opere di Dino Terra nel panorama letterario ed artistico del ’900, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 103-139. 9

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coerente e duraturo i presupposti teorici e politici, non si può evitare, in questa premessa, di citare brevemente alcune delle personalità che fecero parte del gruppo, e in particolare Vinicio Paladini, che ne fu membro fondatore e personalità chiave. Era nato nel 1902 a Mosca, da madre russa e padre italiano, dunque nel 1927 aveva anch’egli solo 25 anni, eppure era già molto noto negli ambienti avanguardisti italiani e non solo. Pittore, designer, architetto, scrittore, drammaturgo, scenografo, Paladini aveva dapprima aderito al futurismo, fino a quando le sue idee di estrema sinistra avevano reso impossibile, dato il sostanziale appiattimento del movimento di Marinetti sul fascismo, la sua permanenza all’interno del movimento. Cresciuto nel mito del bolscevismo, Paladini aveva avuto un accesso diretto alla cultura avanguardista sovietica, e non a caso la sua elaborazione teorica e tecnica dei primi anni Venti va tutta nella direzione di un’auspicata convergenza dell’avanguardismo futurista con l’attivismo politico comunista. Su «Avanguardia», organo ufficiale della Federazione dei Giovani Socialisti – nel 1922 passata quasi completamente al neonato PCd’I – aveva pubblicato due articoli significativamente intitolati la rivolta intellettuale e Arte comunista. Non è questo il luogo adatto per seguire la complessa vicenda del rapporto tra gli avanguardismi italiani e il Partito Socialista prima e quello Comunista poi, vicenda che è stata ricostruita da Umberto Carpi nei suoi due studi L’estrema avanguardia del Novecento11 e Bolscevico Immaginista.12 Come chiarito da Carpi, sarà proprio la miopia delle gerarchie di partito – segno di un vizio di moralismo e di incapacità di mettersi in sintonia con le energie più vive dell’intellettualità giovanile – a causare l’allontanamento dalla lotta politica di personalità come Paladini, o peggio, laddove non fosse presente una già chiara coscienza ideologica, a favorire il loro avvicinamento all’estremismo di desta, che tra futurismo e fascismo canalizzava in quegli anni i sentimenti antiborghesi e ribellistici così universalmente diffusi tra i giovani intellettuali. Non a caso, uno dei pochi a opporsi a questa linea, all’interno del partito, era stato proprio Antonio Gramsci, che aveva al contrario sempre dimostrato interesse per i movimenti d’avanguardia che attraversavano l’Italia di quegli anni e che, come abbiamo visto, si era interessato nel 1926 al giovane Dino Terra. 11

U. Carpi, L’estrema avanguardia del Novecento, cit.. U. Carpi, Bolscevico immaginista. Comunismo e avanguardie artistiche nell’Italia degli anni Venti, cit. 12

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Conviene infine ricordare altre due personalità legate al Movimento Immaginista, il cui apporto umano e culturale fu assolutamente essenziale alla fondazione del gruppo. Il primo è Miklos Sisa, in arte Kosza, in quei mesi funzionario dell’ambasciata sovietica a Roma, ma già commissario del popolo presso il governo rivoluzionario di Béla Kun, e soprattutto allievo di Freud a Vienna, secondo quanto testimoniato dall’epistolario Freud-Ferenczi,13 e il cui contributo letterario al movimento è rimasto inedito. La seconda è Elena Ferrari, poetessa russa impiegata presso l’ambasciata sovietica di Roma, che proprio per le Edizioni della Bilancia di Barbaro aveva pubblicato un libro di poesie,14 e che dovette contribuire in modo determinante al filobolscevismo degli immaginisti, per i quali la cultura sovietica aveva un ruolo centrale per la definizione dell’avanguardia europea.

13

S. Freud, S. Ferenczi, Lettere, volume secondo 1914-1929, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1998; lettere del 1915, 25 nov. e 5 dic. (Ferenczi), 6 dic (Freud). Sisa aveva inoltre partecipato all’occupazione dannunziana di Fiume; ne parla Umberto Carpi in L’estrema avanguardia del Novecento, cit., pp. 57-58, rifacendosi alla testimonianza di Leone Kochnitzky. Come ho già ricordato (vedi parte prima, cap. 1, par. 1), Carpi ipotizza anche che sia stato Gallian, anch’egli veterano di Fiume, a mettere in contatto Sisa con gli avanguardisti romani. 14 E. Ferrari, Prinkipo (trad. di E. Ferrari e U. Barbaro), Roma, La Bilancia, 1925.

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CAPITOLO 1

La narrativa sperimentale di Umberto Barbaro

Barbaro non riuscirà mai ad essere il vostro artista: non riesce ad essere disumano.

Attilio Riccio

1. I racconti degli anni Venti: L’essenza del can barbone

1.1 Premessa: work while you work, play while you play

La contrapposizione tra tempo di lavoro e tempo di svago, tra giorni feriali e giorni festivi, è una delle più caratteristiche della fantasia immaginista, e finisce per ritornare innumerevoli volte nelle opere di coloro che appartenevano o gravitavano attorno al gruppo. Naturalmente, si sta parlando in questo caso di una situazione specifica e storicamente determinata: quella della società industriale tra le due guerre mondiali, con particolare riferimento all’esperienza quotidiana dell’operaio e dell’impiegato, laddove la fabbrica e l’ufficio si oppongono in modo evidente agli scenari tipici dello svago, che in questi anni sono il luna park, il circo, il caffè concerto, il tabarin e il cinematografo (il teatro rientra già in una categoria di

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intrattenimento riservata a una condizione sociale con accesso alla cultura, per quanto in alcune sue manifestazioni potesse risultare eminentemente popolare). Né l’utilizzo di queste immagini può essere considerato una prerogativa dell’immaginismo, che anzi il luna park, il circo e il caffè concerto sono in questi anni tra i temi più sfruttati dalla letteratura europea e in particolare dalle avanguardie, fin dal precursore Wedekind de Lo spirito della terra, del 1895, per giungere, solo per fare un esempio, al Toller de Lo sciancato, del 1923. Entrambe queste opere erano del resto ben presenti a Umberto Barbaro: su Wedekind aveva scritto già nel 1926 un importante articolo1, nel quale si soffermava proprio sulla figura di Lulù, protagonista de Lo spirito della terra (e del sequel Il vaso di pandora, del 1902) 2, che all’inizio del dramma viene presentata al pubblico come una sorta di bestia primordiale dall’inquietante figura dell’imbonitore da fiera,3 personaggio che tornerà spesso nella letteratura dei primi decenni del ’900. Del drammaturgo tedesco, vero anticipatore – insieme a Strindberg – dello spirito e dei modi delle successive avanguardie (e in particolare dell’espressionismo), Barbaro aveva inoltre tradotto, come ho già ricordato, Il marchese di Keith, altra opera in cui lo spettacolo d’intrattenimento aveva un ruolo di primo piano. Anche Ernst Toller aveva sicuramente offerto a Barbaro l’occasione di un serrato confronto, in questo caso soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra esercizio artistico e ruolo dell’intellettuale nell’azione politica rivoluzionaria.4 Chiunque abbia una certa dimestichezza col cinema europeo degli anni Venti e Trenta, non potrà a questo punto mancare di notare come il luna park (inteso in questi anni, in modo generico, come una sovrapposizione tra il circo, la fiera e il parco giochi) e il tabarin siano da considerarsi certamente tra i luoghi di 1

Frank Wedekind, pubblicato dapprima in «Fede», 6 dicembre 1925, poi su «Teatro», IV, n. 3, marzo 1926 (come premessa alla sua traduzione de Il marchese di Keith, cit.). Ora in U. Barbaro, Neorealismo e realismo, cit., pp. 67-74. 2 Solo qualche anno dopo i due drammi di Wedekind verranno trasposti cinematograficamente da Gerog Wilhelm Pabst, nel già citato Lulù del 1929, con Louise Brooks nella parte di Lulù: cfr. parte prima, cap. 2, par. 2. 3 «Nobili signori e gaie signore, entrate nel serraglio! Venite ad ammirare con ardente voluttà e gelido orrore la creatura priva d’anima domata dal genio dell’uomo. Entrate, lo spettacolo sta per cominciare! […] Ehi, Aujust! Porta qui il nostro serpente! (Un operaio tarchiato esce dalla tenda e porta l’attrice che interpreta Lulù in costume da pierrot e la depone ai piedi del domatore) È stata creata per provocare sciagure, per avvincere, per sedurre, per avvelenare, per uccidere, senza che uno se ne renda conto». F. Wedekind, Lo spirito della terra (1895), cit., pp. 89-91. Ho già citato questo brano di Wedekind: cfr. parte prima, cap. 2, par. 2. 4 Cfr. Noi, l’espressionismo e Toller, in «Lo spettacolo d’Italia», I, n. 5, 27 novembre 1927, p. 3.

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ambientazione prediletti, sia per le pellicole di ascendenza espressionista che per quelle da tale temperie ancora in qualche modo influenzate, come quelle di registi come Pabst e Murnau. Basta ricordare di sfuggita i già citati Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene e Il gabinetto delle figure di cera di Paul Leni, ma anche Aurora5 di Friedrich Wilheml Murnau, dove il luna park è protagonista di una delle scene più impressionanti, e il tabarin di Crisi di Georg Pabst. «“Work while you work, play while you play”, è una delle massime fondamentali dell’autodisciplina repressiva»6. Con questa affermazione di Adorno conviene ora riprendere il tema iniziale di questa premessa: la differenza tra tempo dedicato allo svago e tempo di lavoro si rivela essere, infatti, per il lavoratore, un artificio che il genio maligno degli oppressori ha istituito per drenare ogni impulso di rivolta, con l’impedire che la pressione dell’insoddisfazione e dell’infelicità faccia infine scoppiare la camera d’aria della sopportazione individuale. Quello che si cela nello “sfogo” costituito dal “divertimento”, è infatti proprio il mascheramento dell’orrore della vita, l’occultamento di una condizione che, se conosciuta nella propria nuda verità, non può che apparire insopportabile, trasformandosi così in un impulso alla lotta e alla ribellione politica.

1.2 Suo padre

«Ogni svago tollerato da questa società è intollerabile per chi sa qualcosa della libertà»7. Non è un caso che il primo racconto della raccolta L’essenza del can Barbone, intitolato Suo Padre, cominci proprio con un’immagine tipica dello svago dei ceti cittadini, ovvero l’uscita dai locali notturni, nelle prime ore del mattino, in un’atmosfera di stordimento e stanchezza:

5

Sunrise: A Song of Two Humans, 1925. T.W. Adorno, Minima Moralia, cit., p. 151. 7 Ibidem. 6

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Così erano, da tanto tempo ormai, solo le uscite dai ritrovi notturni e rumorosi, alla mattina; con un’aria così leggera e tranquilla e il rimprovero muto dei carretti che già scaricavano le bombole sigillate del buon latte della campagna alle cremerie dei quartieri aristocratici.8

Ma non ci troviamo in città. L’autore ha congegnato l’esordio per disorientare i suoi lettori: questa breve descrizione è infatti preceduta da un’esclamazione inizialmente incomprensibile: «“Su, Gioanna!... Co-o-osa c’è?... co-o-o-sa?... Su bella, su!...». Soltanto dopo poche righe possiamo renderci conto dell’equivoco: siamo in campagna, e queste parole iniziali sono rivolte a una bestia all’abbeveratoio. Quel «Così erano, da tanto tempo ormai» è riferito invece a una ragazza, originaria di questa campagna che ci è ancora ignota, che da lungo tempo si è trasferita in città e che fa ora ritorno a casa. L’ottundimento, la pace mattutina del viottolo che sta percorrendo – insieme ovviamente all’associazione mentale tra le mucche e i carretti che all’alba consegnano in città la panna fresca – ha fatto scattare nella sua mente il ricordo della sensazione provata all’uscita dei locali notturni. Con queste prime righe Barbaro ci dà subito un saggio di quella che sarà, da un punto di vista narrativo, la tecnica del racconto, ovvero un ardito sperimentalismo relativo alla resa dell’esperienza interiore dei personaggi, in linea con i più avanzati risultati della narrativa europea, e una vividezza linguistica che si presta alla mimesi del parlato, sia esso dialetto o lingua straniera (attitudine questa, tipica di un traduttore poliglotta quale lui era). Lola saliva a gran passi, e tutto le sembrava naturale e dolce per quel viottolo che, dopo anni di assenza, turbinosi e movimentati, la riportava a casa, dal padre. Naturale e dolce come l’alba in cui abitualmente e fino a ieri, la scodellavano le vetrate girevoli dopo notti snervanti e brucianti.9

Il piacere della natura è dunque automaticamente associato, dalla ragazza di città, al sollievo provato alla fine delle nottate di svago. Dalla descrizione 8 9

U. Barbaro, L’essenza del can barbone, cit., p. 11. Ivi, p. 12.

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parossistica degli ambienti e dei meccanismi di lavoro, apprenderemo tra breve che la vita lavorativa di un impiegato non può dunque sperare in alcun attimo di requie: non l’attimo che precede la festa è quello del sollievo, ma quello della sua fine, che prelude a un altro ciclo lavorativo in una serie sempre uguale e potenzialmente infinita, attimo conclusivo il cui valore positivo consiste però solo nel prefigurare una possibile conclusione che sia, prima o poi, davvero definitiva. In poche righe l’autore ha dunque messo in chiaro il proprio pensiero circa i meccanismi della società cittadina; resterebbe a questo punto la possibilità che un valore positivo sia da rintracciare nella campagna, nella sua proverbiale sanità, ove tutto è «naturale e dolce». C’è stato chi ha tentato questa lettura,10 che a mio parere dimostra però, ad un più attento esame, il suo carattere irrimediabilmente illusorio. Già il primo personaggio incontrato dalla ragazza, il contadino che abbiamo ascoltato rivolgersi alla mucca nell’avvio del racconto, «fischiava ora, arzillo e sereno con una malizia inafferrabile negli occhi».11 La marcia verso casa continua, l’impressione di pace e serenità richiama adesso, per contrasto, il caos rabbioso dell’ufficio, che subito affolla la memoria di voci, ordini, bollettini commerciali (l’autore rende tutto ciò con evidente sarcasmo). Poi i ricordi cominciano a vagabondare in modo ancora più libero, compare la ex suocera, borghese ipocritamente gentile «in cui vi era pure qualche indulgenza maligna»; apprendiamo inoltre ulteriori particolari sul passato di Lola, che si è separata dal primo marito ed è ora in rotta con Giorgio, l’attuale fiamma, ricco borghese di città, con cui ha deciso di chiudere dopo un violento litigio. La attende ormai un mese intero di vacanza… ma la tranquillità della campagna è continuamente disturbata dall’affiorare dei ricordi, reso da Barbaro con l’esuberanza dell’indiretto libero.

10

«In Suo padre, del 1928, [Barbaro] punta ad evidenziare l’inconsistenza morale della borghesia cittadina, contrapponendo ad essa la sanità e la schiettezza del mondo contadino, secondo moduli di origine veristica, del resto ampiamente diffusi (basti pensare a “Strapaese”) nell’Italia di quegli anni». P. Buchignani, Avanguardie durante il fascismo. Umberto Barbaro, il realismo, l’immaginismo, in «Il Mulino», XXXVI, n. 313, set-ott 1987, pp. 724-749: 733-734. Anche Maria di Giovanna (Teatro e narrativa di Umberto Barbaro, Roma, Bulzoni Editore, 1992, p. 101) e Lea Durante (Umberto Barbaro e il «realismo» della letteratura, saggio posposto all’ultima edizione della raccolta di racconti di Barbaro, L’essenza del can Barbone, Napoli, Liguori, 1996, p. 123) hanno contestato questa lettura, riconoscendo nella campagna di Barbaro forze inquietanti inconciliabili con l’ottica strapaesana. 11 U. Barbaro, L’essenza del can barbone, cit., p. 11.

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La giovane è finalmente giunta a casa: l’incontro con il padre chiarisce immediatamente le dinamiche di cui si nutre il racconto. Innanzitutto, si tratta di un uomo ancora nel pieno del suo vigore fisico, che ci compare davanti reggendo sulle ginocchia il figlioletto appena avuto dalla sua attuale moglie. In secondo luogo, il rapporto con la figlia risulta subito improntato a una immediata e affettuosa comprensione, il che allontana qualsiasi cliché di contrasto tra il padre campagnolo e la figlia cittadina. Eppure, fin dal principio, comincia ad affacciarsi un che di strano, indeterminato, che sembra riempire di tensione questo incontro. Da un punto di vista della tecnica narrativa, tutto ciò è reso con un’intensificazione dell’indiretto libero, che giunge qui fino al monologo interiore: Benedetta ragazza, che le manca sempre la terra sotto i piedi! Con quell’aria da tisicuzza e quei capelli anemici come la barba interna delle pannocchie verdi… che questo boia vento m’ha buttato tutte per terra stanotte, maledetto! Il vecchio sospirò. Pensare ancora a quello stupido marito, si capisce… io non so!... e sì che non le possono mancare i giovanotti ad una ragazza con tanto d’occhi e quelle maniere cittadine che pare una forestiera […]. Con un padre poi, a modino come lui, che non gliene viene niente in tasca a infelicitare le ragazze, e non gliene importa un fico se per il paese si va dicendo che sua figlia fa l’amore con questo e con quello… «Ohi, dico a te… Mi senti?». E la tirava a piccole scosse per quei capelli sottili scoloriti dalle camomille.12

Certo, è possibile interpretare il testo come un indiretto libero che accoglie al proprio interno inserti di discorso diretto non virgolettati13, il che escluderebbe la definizione di monologo interiore, ma la dimestichezza di Barbaro con autori come James Joyce, Virginia Woolf, e Alfred Döblin,14 non può che indurre a pensare che il 12

Ivi, pp. 18-19. Cfr. M. Di Giovanna, Teatro e narrativa di Umberto Barbaro, cit., p. 99. 14 Più volte questi autori vengono citati negli interventi critici che in quegli anni Barbaro andava pubblicando su numerose riviste. Inoltre, brani di Joyce e della Woolf erano stati pubblicati su «900» di Bontempelli, di cui Barbaro era un collaboratore. Per quanto riguarda Döblin, è certa l’ottima conoscenza di tutto il contesto della contemporanea Neue Sachlichkeit da parte dello scrittore 13

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libero gioco con queste strategie testuali sia perfettamente voluto e controllato dall’autore. Il confronto giocoso tra padre e figlia mima sempre di più le movenze di una lotta, fino a che un gesto brusco provoca involontariamente uno squarcio nel vestito di lei. A questo punto la tensione sessuale rimasta sullo sfondo viene fuori, l’idillio si spezza e i due rimangono turbati. Lo sguardo severo della nuova moglie del padre, sopraggiunta ad annunziare la cena, conferma quanto fosse divenuta elettrica quella tensione: «La Betta entrò, con le labbra strette e con lo sguardo un po’ duro».15 Ho già ricordato come la psicanalisi fosse uno strumento familiare alla cerchia degli immaginisti: era naturale che qui Barbaro se ne servisse per neutralizzare in partenza ogni sogno di sanità bucolica, e rendere chiaro fin dall’inizio che anche nel rapporto tra padre e figlia si annida un rimosso il cui emergere non può che essere fonte di perturbamento. Anzi, data l’emersione di queste forze certamente ben presenti fin dai primi anni di infanzia di Lola, è possibile ipotizzare con più sicurezza i dettagli della sua storia personale, il suo abbandono della vita di campagna, il suo senso di indipendenza e ribellione. Non a caso, dopo sole due pagine apprendiamo che Lola, prima di emigrare in città, era stata operaia presso la filanda del paese, dove si era resa protagonista di uno sciopero che si era concluso con il suo licenziamento. La rivolta all’autorità dunque, fa parte dell’indole più intima del personaggio, che, non ci dimentichiamo, ha appena rotto con l’amante, che aveva preteso di trattarla come un oggetto («che lei non s’era sognata mai di far da giocattolo a nessuno… e piuttosto era stato lui un ridicolo fantoccio per lei»),16 ed era stata già protagonista di un divorzio (voluto da lei, per via dell’amante), grazie al quale, sembra di capire, si era liberata dalle pressioni di un ambiente sociale che pretendeva di imporle una condotta di vita che le era estranea (la figura della suocera). Insomma, è sempre da uno scontro sano con la figura paterna, non improntato alla sottomissione e alla rimozione dell’odio in favore di un affetto fittizio, che è

siciliano, che di lì a poco tradurrà un romanzo e un racconto di Hermann Kesten. Nel già citato articolo Una nuova estetica per un’arte nuova, Barbaro aveva inoltre ricordato l’importanza del romanzo di Boine Il peccato, che apriva anche in Italia la via a una resa più dinamica dell’interiorità dei personaggi. 15 U. Barbaro, L’essenza del can barbone, cit., p. 20. 16 Ivi, p. 14.

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possibile il costruirsi di un carattere incline a opporsi all’autorità in tutte le sue forme. Se nel corso di questo breve racconto tale tematica non può che rimanere un accenno non sviluppato, è però importante metterla in evidenza, onde verificare quanto questo genere di meccanismi fossero chiari a Barbaro e come potessero essere da lui utilizzati sia in sede di analisi critica che di produzione letteraria. Compare finalmente Giorgio, il ricco e annoiato ragazzo di città, che assume in paese il classico atteggiamento di superiorità che è così ben noto (e inviso) alle persone di campagna. La sua apparizione nella piccola comunità provinciale fornisce all’autore anche l’occasione per tratteggiare brevemente, con toni beffardi, il cerimoniale e l’immaginario fascista: Aveva risposto togliendosi il cappello di feltro leggero al saluto romano fattogli pomposamente dal proprietario, aveva ceduto gentilmente il passo alla Nena che ora lo guidava al ristorante e la seguiva con un’aria annoiata e stanca, che non pareva nemmeno dovesse esser lui il possessore di quella potente otto cilindri che il segretario del «Gruppo Sportivo Arnaldo Mussolini» si stava ad ammirare a bocca aperta nel cortiletto.17

La presentazione di Giorgio è anche l’occasione per un breve squarcio su un contesto che evidentemente aveva una grande importanza per Barbaro, quello della filanda con le sue lavoratrici18 (il borghese di città comincia ovviamente a ronzare intorno alle giovani operarie), la stessa da cui Lola era stata licenziata per il suo comportamento non incline a subire le ingiustizie imposte dal direttore. Apprendiamo così che è un momento difficile e le operaie possono lavorare soltanto a turno, «una settimana sì e una no». Ed ecco che, con le sue crisi e i suoi drammi, un altro scenario si è frapposto tra la campagna e la città, escludendo dunque qualsiasi tipo di dualismo semplicistico tra valori positivi e valori negativi. A questo punto il racconto stacca e si avvia verso il finale, con una scena costruita in modo complesso, che oltre a risolvere la narrazione costituisce anche il passaggio più ardito da un punto di vista stilistico. «Qualche giorno dopo il padre di 17

Ivi, p. 21. La filanda, con le sue difficoltà, ritornerà anche nel romanzo Luce fredda del ’31: cfr. parte seconda, cap.1, par. 2.2. 18

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Lola era in paese»;19 un conoscente lo invita a bere all’osteria, dove l’uomo, crucciato dagli ultimi avvenimenti, non può fare a meno di vuotare «il sacco delle confidenze».20 Da questa conversazione apprendiamo come sono trascorsi gli ultimi giorni. Lola si è riappacificata con Giorgio, anche se evidentemente la relazione non è ancora del tutto risanata. Il padre è furioso, la vede infelice, sente la sua sofferenza e non sopporta il fatto che nonostante tutto abbia infine ceduto all’amante, «quel brutto muso […] quella faccia da stupido fannullone».21 Il tutto è reso con un indiretto libero inframmezzato con scene e spezzoni di dialogo, a tratti interrotto dalle chiacchiere dell’osteria e da una canzone di argomento fascista (sulle imprese di Umberto Nobile) straziata dalla voce di un mendicante. L’abilità del narratore tratteggia in questo caso un quadro sintetico ed efficace, che si conclude però in modo brusco e inaspettato, su un pensiero omicida: «Io credo che per farla contenta…» S’interruppe. Vuotò ancora il bicchiere di vino guardando stranamente il Giovannino coi suoi occhi grigi.. «uno di questi giorni tu vedrai che cosa faccio io!... – e fece un gesto – Gli do una di quelle stangate sulla testa che gliela spacco in due e fuori mi chiamo22.

Ma a questo punto anche il racconto si chiude bruscamente, con un breve capoverso inaugurato da una clausola tipica della narrativa più tradizionale, che in questo caso assume una nota ironica, come a sottolineare l’estraneità di questo finale alla mimesi interiore portata avanti per tutto il racconto: Avvenne infatti che, tornando a casa un po’ traballante, si trovò ad un tratto innanzi, per qualche complicità delittuosa del destino, Giorgio, e con un colpo solo lo stramazzò sulla siepe immobile. Ma improvvisamente capì: –

«Adesso Lola mi odia…»



Riprese a camminare lentamente respirando forte.23

19

Ivi, p. 23. Ibidem. 21 Ivi, p. 25. 22 Ivi, p. 28. 20

146

Il racconto si chiude dunque con un inaspettato omicidio, il cui accadere è tanto più inverosimile quanto più sembra essere una conseguenza diretta della minaccia (così tipica di un discorso tra ubriachi) pronunciata poco prima all’osteria. Barbaro si avvale probabilmente qui di un tipico aspetto del perturbante secondo la definizione freudiana, la cosiddetta onnipotenza dei pensieri,24 ovvero un residuo inconscio di una credenza ancestrale ereditata dagli strati primitivi della psiche, secondo la quale i pensieri possono avere un effetto diretto sulla realtà (è da qui che, secondo Freud, hanno origine le superstizioni sulla magia e in particolare sul “malocchio”). Naturalmente, in questo caso, è necessario provare a comprendere il senso di questa chiusa all’insegna del perturbante, da cui evidentemente discendono le possibilità di interpretare il racconto nella sua interezza. Il finale è infatti volutamente in contrasto con il precedente sviluppo del romanzo: un incontro casuale, un gesto, un cadere immobili, un’ultima riflessione la cui logica elementare è dettata dal vino. Ora, è possibile leggere qui qualcosa come «la disfatta morale dell’uomo contadino, nella misteriosa, concentrata conclusione di una soluzione individualistica del conflitto»? Così che il padre resti «relegato nell’universo rurale, accettandone definitivamente la separazione da quello urbano […]. Rifiutando cioè di confrontarsi con l’uomo della città, egli si estromette definitivamente dai processi di trasformazione»?25 Mi sembra inverosimile che il senso del racconto vada in questa direzione. E in ogni caso è lecito tentare di darne un’interpretazione che provi a scendere a un livello ulteriore, a partire proprio dalle considerazioni più volte espresse da Barbaro sul valore e il significato della letteratura come strumento di lotta nella vita. Non è certo possibile arrivare a influire sulla percezione del mondo propria del lettore, e dunque sul suo modo di rapportarsi all’esistenza, mediante il semplice illustrargli una tesi, per quanto valida, per la quale la narrazione avrebbe mero valore di exemplum. 23

Ivi, pp. 28-29. S. Freud, Il perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio (1987), Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 267-307. In Teatro e narrativa di Umberto Barbaro, cit., p. 88, Maria Di Giovanna fa riferimento all’onnipotenza dei pensieri e ad altri aspetti del perturbante freudiano impiegati da Barbaro nell’opera teatrale Ancorato al cuore di Maria (cfr. par. 1.6 di questo capitolo), inserita a conclusione de L’essenza del can barbone, ricordando tra l’altro che negli anni Cinquanta Barbaro parlerà di questa teoria nel suo scritto Il Dottor Freud, in «Il Contemporaneo», III, n. 24, 16 giugno 1956; ora in Neorealismo e realismo, cit., pp. 261-267. Ma un riferimento all’onnipotenza dei pensieri, come vedremo, è opportuno anche in un altro luogo di questa raccolta, e vi ritornerò in seguito. 25 L. Durante, Umberto Barbaro e il «realismo» della letteratura, cit., p. 124. 24

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Per farsi davvero «strumento della vita operante dell’uomo»,26 è necessario qualcosa di più, una vera e propria immersione all’interno del qui ed ora della vita quotidiana al culmine della sua problematicità e, sia ben chiaro, non per offrire l’esempio di una soluzione, di una via di fuga possibile, ma per far vivere la necessità di lottare per il cambiamento, secondo le possibilità, per quanto labili e dolorose, che la realtà stessa offre: La vera moralità dell’arte sta nel ricongiungere, ricostringere nelle angustie della quotidianità il lettore, per dargli l’ansia insopprimibile di uscire, di farsi migliore, di trasformare sé stesso e il mondo, con rinnovata e vigile fiducia nelle proprie forze e con ardore sempre più maschio per la propria opera;27

e alcuni anni prima, nel già ricordato testo su Wedekind, Barbaro aveva affermato la necessità di un «teatro che non scarnifichi l’uomo […], ma che, legandolo invece ai suoi limiti, immergendolo sempre più nel particolare chiuso, lo faccia specchio e riflesso della vita universale».28 Immergere l’uomo nel particolare chiuso, nelle angustie della quotidianità. Tutto ciò è il contrario, anche a livello banalmente lessicale, della letteratura intesa come evasione. Ma anche, in fondo, della letteratura come esemplarità e moralità, sebbene più volte Barbaro faccia esplicitamente riferimento alla “moralità dell’arte” e ai “valori universali” cui essa dovrebbe sempre rimandare. Si tratta però, vedremo, di un altro tipo di moralità, e soprattutto di un altro tipo di collegamento all’universo dei “valori”, cui è solo possibile alludere – se si intende sfuggire al moralismo e all’ipocrisia – in negativo, facendo partire il proprio sguardo rivolto in alto dal profondo della vita quotidiana, ovvero dalla dimensione più inautentica e disperante. «La borghesia occulta nella vita quotidiana, con le astratte categorie riflessive della quantificazione, del progresso all’infinito, ecc., la struttura dialettica del processo

26

U. Barbaro, Nuovi occhi per Dostoevskij, in «Il Saggiatore», maggio 1932; ora in Neorealismo e Realismo, cit., pp. 122-127: 125. 27 U. Barbaro, Considerazione sul romanzo, in «Occidente», I, n. 1, dicembre 1932, pp. 18-22; ora in Neorealismo e Realismo, cit., pp. 132-138: 138. 28 U. Barbaro, Frank Wedekind, cit., p. 74.

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storico, per vivere poi come catastrofi immediate i momenti della conversione».29 È la vita quotidiana il luogo dell’occultamento, è l’attimo insignificante, dunque, che deve essere portato alla coscienza se si vuole sperare di recuperare una visione concreta delle condizioni reali dell’esistenza sociale. Ed è proprio nell’attimo insignificante del quotidiano che il narratore deve farci entrare: da qui l’uso degli strumenti stilistici della nuova narrativa europea, che sono stati non a caso descritti da Erich Auerbach come una capacità di immersione all’interno di ciò che riesce a passare al di sotto degli ordinamenti sociali ed esistenziali degli uomini, ovvero l’attimo della vita quotidiana, la pienezza e profondità vitale di ogni attimo, a cui ci si abbandona senza intenzione. Quanto avviene in esso, si tratti

di

vicende

esteriori

o

interiori,

riguarda,

sì,

personalmente le persone che lo vivono, ma proprio perciò riguarda anche quanto negli uomini in genere vi è di elementare e universale.30

La vicenda di Giorgio, di Lola, di suo padre, dei personaggi del piccolo paese e delle operaie della filanda non è dunque una storia esemplare per l’accadere dei fatti di cui è composta. Non è una mappa interpretativa della realtà o della visione del mondo del suo autore. Non cerca di insegnarci la superiorità morale della campagna, dei valori primordiali, sulla città e la sua alienazione, la sua ossessione per il computo economico. Non è neppure lecito sostenere che l’accenno alla fabbrica e alle lotte operarie stia a indicarci che l’unica possibilità di salvezza sia la lotta organizzata del proletariato (sebbene ciò rientrasse, beninteso, nelle idee di Barbaro e degli altri immaginisti), mentre né la semplicità incorrotta né la problematicità cittadina possono salvarci. Quello che conta, qui, e che finisce per avere davvero valore politico, è l’esperienza, l’esperienza della realtà e non del semplice stato d’animo, all’interno della quale sia possibile vivere come un valore positivo, perché propulsivo, l’assenza di soluzioni nelle strettoie della quotidianità. Per questo il

29

G. Lukács, Storia e coscienza di classe, cit., p. 217. Ho già citato questo brano analizzando l’opera di Shaw La professione della signora Warren, cfr. parte prima, cap. 2, par. 2. 30 E. Auerbach, Mimesis (1948), vol. 2, Torino, Einaudi, 2000, p. 337.

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racconto non conclude, non lascia rifluire la tensione, ci abbandona prigionieri del mondo che ha creato, dei contorcimenti interiori di quelle vite all’interno delle quali ci ha fatto entrare. Solo in questo modo, solo a questo prezzo è infatti possibile recuperare un legame con quei valori di cui tanto spesso parla Barbaro («rompersi e ricomporsi di armonia suggestiva di universali valori»).31 Un valore ovviamente negativo e “demonico”, ne senso in cui il termine è usato da Lukács nella Teoria del romanzo. Ma su questo punto tornerò in seguito.32

1.3 Il banchiere

Se da un punto di vista della sperimentazione stilistica Suo padre può essere considerata la novella più interessante della raccolta, quella che maggiormente esemplifica la poetica immaginista e le sue declinazioni narrative è certamente Il banchiere, al cui centro sta, ancora, il rapporto tra un padre e una figlia, anche se in questo caso la figlia è appena nata e l’interazione è dunque tutta mentalizzata, tutta interna alla coscienza del protagonista maschile. La vita di quest’ultimo, prototipo del monolitico alto borghese completamente assorbito nel calcolo economico, viene scalfita per un attimo da un debordare della logica, che si verifica proprio nel momento in cui la ratio spietata che presiede alla conduzione degli affari viene portata alle estreme conseguenze. Il racconto comincia al cancello d’ingresso di una signorile villa romana, dove si è formata una fila di lussuose automobili: è un’occasione importante, è appena nata Faustina, la figlia del banchiere Alessandro Necrofori, cui tutto il mondo della finanza nazionale è ansioso di porgere auguri e regali. Necrofori, come dicevo, è il perfetto esempio del monolito affarista: freddo calcolatore, completamente concentrato sull’idea del profitto. Sa benissimo che la figlia non è sua, ma del 31 32

U. Barbaro, Nuovi occhi per Dostoevskij, cit., p. 125. Cfr. par. 2.3 di questo capitolo.

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«portiere di una eccellente squadra di foot-ball»33 con cui la moglie, anch’essa tipica, algida donna di mondo, intrattiene una relazione ipocritamente tollerata dal marito, a sua volta impegnato in una banale storia extraconiugale. Eppure, proprio al termine della cerimonia degli auguri e dei saluti, c’è in Necrofori qualcosa che comincia a incrinarsi. È come se il meccanismo della storia prendesse a svolgere le operazioni finali di una lunga e complessa equazione, destinata però a risolversi in una formula molto semplice (una di quelle equazioni di cui un matematico potrebbe apprezzare il valore estetico). La crepa, che di lì a poco ci rivelerà il risultato, non può dunque riguardare affatto dubbi morali o esistenziali, né può rappresentare un ritorno del sentimento dell’onore ferito dall’adulterio. No, è un’idea fissa, qualcosa che neppure lui riesce subito a isolare («era un’idea spontanea, nata da associazioni determinate e facili»34). Sceso per strada l’uomo comincia a passeggiare senza meta (cosa insolita per lui). Finalmente l’idea si precisa: L’industria della floricultura andava male, o almeno non secondo le previsioni. In tutta Italia, a inverno quasi finito non c’era stato che il matrimonio di quella baronessa che aveva avuto trentacinque milioni di bouquets e la serata d’onore della Sintassi con venti milioni di corbeilles. Troppo poco; e il mercato normale stagno e pesante. Neanche un buon funerale. […] Inutile; l’idea fissa era questa: se Faustina morisse cinquanta milioni di corone seguirebbero il suo funerale…35

L’equazione si è dunque risolta. «Insomma, lui, Necrofori, desiderava per interesse, la morte della piccola. E questa idea non lo faceva inorridire, non gli dava i brividi; era un’idea spontanea, nata da associazioni determinate e facili».36 L’equazione non era dopotutto così difficile da risolvere. Forse è solo la falsa coscienza in cui siamo immersi, a renderci incomprensibili conclusioni così elementari. Forse, uno degli scopi dell’arte, sembra dirci qui l’autore, è proprio sgombrare la scena dal brulichio di idee e immagini che ci impediscono di trarre conclusioni di questo tipo. Giacché, se la macchina dell’oppressione e dello 33

U. Barbaro, L’essenza del can barbone, cit., pp. 86. Ivi, p. 92. 35 Ivi, pp. 89-90. 36 Ivi, p. 92, cors. mio. 34

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sfruttamento diventa sempre più mostruosamente complessa con il progredire della società, la scintilla che accende il suo movimento non muta attraverso le ere. Cinquanta milioni di corone… Tutte le serre della Riviera si sarebbero vuotate… e il portiere della «Saturno», domenica prossima, si sarebbe fatto entrare sei o sette goals in fila, segno di fischi, pernacchie e bottiglie di gassosa da parte del pubblico inferocito… La sua signora avrebbe tenuto per qualche giorno gli occhi sbarrati perché le lagrime le scorressero sulle ciglia senza impiastricciare di Rimmel il visino angelico.37

Nel più importante saggio presente all’interno di Storia e coscienza di classe, György Lukács ha scritto che «si può scoprire nella struttura del rapporto di merce il modello di tutte le forme di oggettualità e di tutte le forme ad esse corrispondenti della soggettività nella società borghese». E ancora, la struttura della merce «consiste nel fatto che un rapporto, una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi un’“oggettività spettrale” che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini».38 Ora, se l’operaio, in quanto destinato al completo annientamento della propria fisicità umana nella merce-lavoro, può però conservare la propria «essenza spirituale-umana»39 e porsi di fronte al meccanismo che lo opprime in funzione conoscitiva e attiva – con il concretizzare nel partito la propria coscienza di classe – al borghese «reificato nella burocrazia» tutto ciò è precluso. La reificazione nel borghese investe infatti anche quella «essenza spirituale-umana». Ad essere mercificata infatti, è la sua intimità psichica e intellettiva: «reificato, meccanizzato, diventa merce nei suoi stessi organi che sono gli unici veicoli della sua rivolta contro questa reificazione. Anche i suoi pensieri ed i suoi sentimenti vengono reificati nel loro essere quantitativo».40

37

Ivi, p. 91. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, cit., pp. 107-108. 39 Ivi, p. 227. 40 Ibidem, cors. mio. 38

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Non solo, dunque, tutti i rapporti umani nella società del capitalismo avanzato assumono, nella reificazione, la stessa struttura della merce, facendosi prettamente economici; ma chi in questo meccanismo sia inserito anche con la propria «essenza spirituale-umana», sarà destinato a subire la reificazione fin nel più intimo della coscienza: sicché, qualsiasi pensiero, anche quello che un padre prova per la propria figlia, si trasformerà in un calcolo non disposto ad arretrare neppure di fronte alla morte. Né si potrà obiettare, in questo caso, che l’audacia maligna del pensiero di Necrofori tragga origine dalla certezza di non essere il vero padre: come se un simile pensiero fosse più comprensibile, meno grave (già l’arrivare a formulare un’ipotesi del genere testimonia di quanto colga nel segno il meccanismo della novella). Al contrario: in questa circostanza, il pungolo maligno della finta paternità non ha altro scopo che permettere al ragionamento economico puro di venire alla luce, liberatosi finalmente degli ultimi rottami della morale, che sarebbero forse riusciti comunque ad occultare la violenza del calcolo. Fin qui il racconto sembra avere dunque una mera funzione di smascheramento sociale, non diversamente da un testo filosofico o da un’analisi politica, come quella appena richiamata da Storia e coscienza di classe (un libro che per altro fu pubblicato proprio in quegli anni, più precisamente nel 1924). Ma la storia a questo punto prende un’altra direzione. Già da sporadici segni minimi, durante la passeggiata riflessiva del banchiere, ci siamo accorti che alcuni elementi della realtà cominciano a deviare dalla norma, assumendo un contorno irreale, onirico: «prese via Pinciana e si trovò ad imboccare il Corso d’Italia. “Conoscete quel luogo di Kant che si chiama la deduzione delle Categorie?” – gli chiese un mendicante fastidiosissimo. Per levarselo d’attorno gli dette quattro soldi ed affrettò il passo».41 Così come oniriche cominciano ad apparire semplici scene di vita quotidiana, una madre con il figlio, operai seduti a mangiare sulle panchine. La mente di Necrofori prende a vacillare, la crudeltà pare dissolversi «Si sentì a un tratto invadere da una gran dolcezza e provò un gran desiderio di rivedere sua figlia e di riposarsi».42 Il banchiere si ricorda che è orario di borsa, e che a causa della sua flânerie sta perdendo del denaro. «“Quanto denaro perduto!” – pensò

41 42

U. Barbaro, L’essenza del can barbone, cit., p. 90. Ivi, pp. 92-93.

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improvvisamente con un piacere straordinario».43 A questo punto, in cerca di un posto dove sedersi, entra in una chiesa, dove nuove scene irreali lo attendono. Intorno a lui si affollano personaggi delle classi sociali più basse, con cui mai si sarebbe sognato di entrare in contatto. È un improvviso rilassamento nel tessuto della realtà, un cedimento della logica, che, non a caso, anche per Necrofori si trasforma in una possibilità di accesso a una condizione di umanità. Vede una mano di lavoratrice, tozza e consunta dalla varechina, poggiarsi sull’acquasantiera. Non osa alzare gli occhi sulla proprietaria di quella mano e tuttavia, qualcosa è davvero cambiato: la ratio è stata perforata e le maglie della realtà si allargano. Surrealisticamente, tutto sembra farsi più semplice, ma anche molto più complicato, poiché i rapporti umani al di fuori della reificazione non si lasciano ingabbiare in alcuna equazione. Un angelo si ferma di fianco a lui, lo prende per mano e lo conduce tra i mendicanti all’ingresso della chiesa, che assurdamente cominciano a discettare di filosofia. Necrofori si siede in silenzio, chiede l’elemosina ai passanti che non gliela rifiutano. Per la prima volta è leggero, si direbbe che in questo intervallo gli sia concesso di deporre il fardello che perennemente gli grava la schiena, ovvero se stesso come cosa, come mero fattore in un calcolo economico. Necrofori: colui che reca il peso del cadavere, del suo stesso cadavere, così come gli uomini che si sono lasciati completamente assorbire dallo schematismo della società trascinano sulle spalle il relitto del proprio sé, laddove l’io è diventato un riflesso puramente meccanico della merce. Poi l’atmosfera sospesa si rompe, il banchiere si alza, salta su un taxi e si fa ricondurre a casa. Dove un pensiero angoscioso lo attende: Col cuore veramente sospeso entrò e quando richiuse la porta fu sconvolto da un’angoscia terribile: «è morta». La pupa aveva gli occhi chiusi e la governante aveva gli occhi sbarrati.44

Il banchiere si accascia su una sedia, balbettando convulsamente. Ma la governante comincia a ridere. La piccola sta benissimo. Adesso tutto può 43 44

Ibidem. Ivi, p. 99.

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concludersi, anche la “favola di bontà” del freddo capitalista liberato per un attimo dal peso del proprio cadavere interiore. Il giorno dopo il banchiere Necrofori riacquistò completamente il suo abituale sangue freddo e la sua dignità, e da allora in poi tornò ad essere perfettamente uguale a se stesso come si conviene.45

Nella sua postfazione46 all’unica ristampa recente della raccolta di novelle di Barbaro, Lea Durante si domanda, a proposito di questo racconto e in particolare del suo finale: Perché non succede niente sul piano narrativo dopo che Alessandro Necrofori ha vissuto l’esperienza surreale dell’accattonaggio? Perché la conclusione della novella non ne rappresenta un precipitato sorprendente, come di solito nelle novelle e in particolare nelle novelle sperimentali? […] In realtà egli non si è mai mosso dalla propria persona: solo nel sogno di Barbaro egli ha mendicato, un sogno populista e intellettualistico in cui la prova della non subalternità delle classi inferiori non è data dalla trasformazione delle loro condizioni di vita, ma dal possesso della «cultura» […].47

Innanzitutto, è necessario chiedersi se, rappresentando nella conclusione un mutamento nella vita e nel carattere del banchiere, ovvero facendolo agire come se avesse preso atto di una nuova visione del mondo, come se avesse aperto i propri occhi sullo spettacolo della propria spaventosa reificazione, il racconto avrebbe assunto una maggiore efficacia nell’ottica di ciò che Barbaro intendeva come scopo pratico e militante della letteratura. È innegabile che questa chiusa brusca e circolare, come giustamente nota la Durante, si differenzia dai meccanismi del realismo magico bontempelliano, così come dallo schema Pirandelliano della distruzione della maschera, cui non può mai seguire un rientro indolore nella propria vecchia

45

Ivi, p. 100. L. Durante, Umberto Barbaro e il «realismo» della letteratura, cit. 47 Ivi, p. 128. 46

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posizione nell’ordine della realtà. E tuttavia: non ci troviamo infondo, qui, nella stessa circostanza che ha chiuso la novella Il padre, analizzata poco sopra? Non è questa chiusa così brusca, che non permette di rilasciare il respiro, che lascia volontariamente e malignamente deluso il lettore, un modo per impedirgli di sottrarsi al «particolare chiuso», alle «angustie della quotidianità»? Non sarebbe possibile, insomma, ribaltare l’idea (mai del tutto esplicita) cui si rifà inevitabilmente un’obiezione come quella della Durante, ovvero che l’efficacia della narrazione starebbe nell’esemplarità del contenuto come pura e semplice vicenda rappresentata? Se il nostro Necrofori avesse cambiato vita, il racconto sarebbe diventato più efficace? Non sarebbe stato piuttosto consolatorio, ingannevole, illusorio – che è poi quanto innumerevoli volte Barbaro rimprovera alla letteratura d’evasione? Senza una conclusione che ci mostri un “risultato concreto” della “visione” immaginista, il tutto si riduce davvero a un «sogno populista e intellettualistico»? Prima di tornare su questi interrogativi, è ora indispensabile affrontare più da vicino lo scritto in cui Barbaro ha tentato di definire in modo più compiuto la poetica immaginista, che può forse fornirci una chiave di lettura per la novella in esame.

1.4 Lo spazio «radicalmente immaginativo»

Nel saggio programmatico Un’estetica nuova per un’arte nuova, che occupa gran parte del primo numero de «La ruota dentata», Umberto Barbaro definisce la tecnica immaginista come una sintesi tra fantasia e immaginazione. La fantasia è il momento necessario della dispersione, della scomposizione dei piani di realtà abituali con cui il soggetto si confronta nella sua quotidianità. La fantasia è dunque un disordine, un caos creativo, che può essere fecondo, ma anche inconcludente, e che può acquistare un valore soltanto se sopraggiunge l’immaginazione, la capacità costruttiva, razionale, consapevole, della creazione della forma. In polemica esplicita con Croce e con la sua teoria dell’arte come intuizione/espressione (ma l’obiettivo polemico vero, velato, è il crocianesimo occulto delle poetiche primo novecentesche 156

italiane, futurismo compreso, che pur negli infiniti travestimenti all’intuizione lirica rimanevano legate),48 Barbaro propone un’idea dell’arte impegnata a misurarsi con la “prassi vivente”, di cui la capacità di agire sulla sostanza sociale sia la principale caratteristica. Certo, è impossibile non notare che nell’idea di forma compiuta, di unità comprendente la molteplicità, questa concezione si avvicina al romanticismo di Jena e all’estetica di Hegel. Ma bisogna anche riconoscere che lo sforzo teorico di Barbaro porta l’immaginismo al livello delle avanguardie europee più avanzate: il costruttivismo russo, per l’idea della costruzione razionale finalizzata all’impegno, al cambiamento sociale; l’espressionismo tedesco – «urlo e geometria», secondo la definizione di Mittner,49 potrebbero corrispondere perfettamente, in questo senso, a fantasia e immaginazione – nonché il surrealismo francese che, soprattutto in questi anni, andava chiarendo le ragioni del proprio impegno politico, e dalla rivoluzione surrealista sarebbe passato al surrealismo al servizio della rivoluzione – e anche questo potrebbe leggersi come un salto dalla fantasia all’immaginazione nel senso di Barbaro.50 La realtà della vita quotidiana, completamente arresa all’economia, piatta e fredda come l’acciaio, viene così smembrata dalla fantasia (dall’urlo espressionista si potrebbe dire, o dal detour surrealista della mente che si abbandona al sogno): il Necrofori, carico del proprio cadavere, è così proiettato in una dimensione in cui gli elementi compositivi della sua vita vengono disarticolati e resi brutalmente manifesti come in un quadro cubista. La realtà si sfalda, compaiono le figure di sogno. Ma ciò sarebbe ancora improduttivo. Solo la volontà compositiva dell’artista, solo la sua tensione formale, che è qui, di necessità, politica (al servizio della rivoluzione), può 48

«Quell’estetica, ricercatrice nell’opera degli scrittori, dei momenti in cui, per misterioso o quasi mistico dono, l’espressione corrisponde all’intuizione, serve benissimo a comprendere D’Annunzio, i futuristi e i frammentisti; i rappresentanti di queste tendenze, benché strettissimi parenti, si sono sempre guardati in cagnesco, hanno scritto, gli uni degli altri, peste, corna e vituperio, si sono anche, futuristi e idealisti militanti, a Firenze, presi a legnate memorabilmente; ma nati da comuni tradizioni, sono sempre stati sugli stessi piani, hanno sempre creato, pur ignorandosi e non comprendendosi mai, le reciproche giustificazioni e pezze d’appoggio, di cui per altro non si sono serviti e di cui si serviranno gli storici futuri». U. Barbaro, Nuovi occhi per Dostoevskij, cit., p. 122. 49 Cfr. L. Mittner, L’espressionismo, (1965), Roma-Bari, Laterza, 1995. 50 «La sola fantasia è quella che abbandona in seno alla natura e non dà condizioni di possibile ritorno. È quindi un invito alla distrazione passiva del proprio operare, invito ad ampliarlo – ma che solo l’immaginazione può mantenere – uno smarrirsi per non più ritrovarsi. Non la creazione di una nuova realtà e armonia, ma la vuota ossessione dei fantasmi, del nulla. Per esorcizzarli quei fantasmi e far di nuovo risplendere il sole in quella oscura notte, occorre una potenza magica: l’immaginazione», U. Barbaro, Una nuova estetica per un’arte nuova, cit., p. 79.

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indirizzare tutto ciò verso una soluzione che sappia demistificare fino in fondo la struttura reificata della società, metterla sotto gli occhi del lettore. E qui appare evidente anche la distanza delle idee di Barbaro da qualsiasi classicità hegeliana: la ricostruzione della forma avviene attraverso il montaggio, laddove la massima importanza è assunta dalla creazione di nessi e accostamenti, proprio come nel cinema d’avanguardia e nei fotomontaggi realizzati da Paladini. Certo, parlare di “montaggio” per questa novella può sembrare azzardato, dal momento che essa non è costruita con l’accostamento di frammenti narrativi irrelati o comunque non legati da una successione logica coerente, come avviene ad esempio in Punto di frizione51 (altro racconto contenuto nella stessa raccolta), o anche in Suo padre, dove la narrazione risulta, in ogni macrosequenza, dall’accumulo di frammenti narrativi e discorsivi provenienti da piani temporali diversi. Tuttavia, tenendo presente l’importanza che i fotomontaggi di Paladini hanno avuto per la delucidazione teorica dell’immaginismo, è possibile evidenziare come anche la costruzione de Il banchiere possa essere ricondotta alla tecnica del montaggio, in quanto la composizione dei diversi elementi che concorrono alla costruzione della narrazione – ed è precisamente questo che dà un tono surreale e onirico all’insieme – non segue uno schema logico, non è consequenziale. Dal momento in cui il banchiere esce di casa inseguito dalla sua idea, frammenti di un reale impazzito cominciano ad incastrarsi l’uno di fianco all’altro come in un puzzle dai contorni irregolari. Mendicanti filosofi, schegge di vita reale (gli operai sulle panchine), bambini in grado di entrare nei sogni altrui, mani di lavoratrici cui non si osa osservare il viso, angeli, passanti che sembrano usciti da copioni cinematografici. Proprio come in un fotomontaggio di Paladini, appunto. Cosa tiene insieme queste schegge irrelate? Quale «forza» fa si che possano riunirsi nella coerenza incoerente del sogno? Le «forze dell’ebbrezza» vanno messe al servizio della rivoluzione, scriveva Benjamin a proposito del surrealismo. E ancora, sempre a proposito dei surrealisti, si domandava:

51

Vedi prossimo paragrafo.

158

Ma riesce loro di saldare questa esperienza della libertà con l’altra esperienza rivoluzionaria che dobbiamo tuttavia riconoscere, perché l’abbiamo avuta: con l’aspetto costruttivo, dittatoriale della rivoluzione? In breve – di congiungere la rivolta con la rivoluzione?52

Non sembra qui azzardato il parallelismo con la dialettica tra fantasia, immaginazione e creazione artistica proposta da Barbaro, soprattutto tenendo conto del fatto che subito dopo, Benjamin stesso aggiunge – a proposito della necessità espressa da Aragon di distinguere la similitudine, ovvero l’associazione semplice di elementi, dall’immagine – che è necessario «scoprire nello spazio dell’azione politica lo spazio radicalmente, assolutamente immaginativo».53 Tornando a questo punto agli interrogativi sorti dalle affermazioni di Lea Durante a proposito del funzionamento di questo racconto, è forse possibile rispondere che la creazione di nessi nuovi, di prospettive in grado di portare fuori asse la visione comune della realtà, proprio all’interno dell’angustia di quel quotidiano che è il luogo privilegiato ove l’esperienza artistica deve condurre il lettore, costituisce un potenziamento dell’efficacia pratica del racconto stesso, in grado di andare al di là di una mera rappresentazione della vicenda secondo eventuali modelli esemplari. Del resto, il lungo brano posto da Barbaro sul finire del suo articolo programmatico, molto opportunamente citato dalla Durante, può essere interpretato come un’ulteriore conferma di quanto ho appena affermato: Il banchiere, la cui firma vale forse migliaia di lire – denaro – qualche cosa che per la sua mente esaurisce tutti i valori, molla di tutte le azioni umane, se trovasse un proseguimento, – orrore! – d’indole artistica che è quella stessa – alla base – che gli fa leggere la storia poliziesca, se potesse fare un romanzo! In cui l’organizzazione della banca, e i problemi della produzione e della vendita dei prodotti industriali, della concorrenza e della lotta, il gioco di borsa ed il lavoro degli operai, attraverso fasi drammatiche, successo, crack, sciopero, serrata, chiusura di 52

W. Benjamin, Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei (1929), in Avanguardia e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1955, p. 22. 53 Ivi, p. 24.

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mercati di un dato paese, e necessità di protezione del prodotto nel proprio, fino a – che so io? – alla guerra ed il ritrovamento nello strazio delle carni macellate dei valori morali… problemi tecnici che si innestano via via nelle loro relazioni in problemi sociali o morali, nel diritto degli altri, – uomini anche, i concorrenti, gli operai, – e le loro aspirazioni, e il meccanismo dello stato e della legge, su cui è necessità di vita influire, e quindi di politica, e l’ampliarsi via via nella sorpresa della guerra, nell’idea di patria, e di organizzazione della società, e un valutare di valori umani, di patria, famiglia, Stato, umanità e individuo, innanzi alla morte… l’umanità con tutta la sua passione… Cristo. Oh, il banchiere se così fantasticasse ritroverebbe in sé stesso il lunedì seguente alla sua scrivania un più serio e pensoso banchiere ammaestrato dal gioco dell’arte per un’attività più intelligente e migliore.54

La Durante vi legge una fase del pensiero di Barbaro rispetto alla quale la novella, posteriore di due anni, rappresenterebbe uno scarto decisivo: «Così nel 27. Nella novella, solo due anni più tardi, il gioco non può più funzionare: l’escamotage immaginista della fuoriuscita del personaggio da se stesso è l’unica occasione – coatta, fantastica – per il banchiere di essere diverso dalla macchina cinica e solo produttrice di denaro alla quale Barbaro lo ha ridotto».55 Innanzitutto, a me sembra molto più coatta e fantastica l’idea del grande banchiere che decida di dedicarsi al romanzo con grandi aspirazioni artistiche, rispetto a quella dell’uomo d’affari impazzito che si riduce a mendicare (sono propenso a credere che, a farne un’indagine statistica, risulterebbe più frequente quest’ultimo caso). Col che risulta evidente, credo, che l’esempio del banchiere romanziere fosse un’immagine in fondo narrativa, non dissimile da quella propostaci nella novella (sono entrambi, a ben vedere, due casi di deviazione dalla logica economica del quotidiano rispetto a quel determinato ruolo sociale). «Alla capacità di guardare e di raccontare attribuita da Barbaro al banchiere dell’articolo, si sostituisce la cecità insondabile del banchiere della novella».56 Ma la capacità di «guardare e raccontare», non è rivolta proprio alla

54

U. Barbaro, Un’estetica nuova per un’arte nuova, cit., p. 83. L. Durante, Umberto Barbaro e il «realismo» della letteratura, cit., p. 127. 56 Ibidem. 55

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messa a nudo della «cecità insondabile» del banchiere e di chiunque non riesca a porsi di fronte alla propria reificazione prendendone coscienza? Vi è tuttavia un qualcosa di condivisibile, a mio parere, nell’opposizione richiamata dalla Durante tra il brano appena citato e la novella Il banchiere: nel tratteggiare in modo così ispirato il vero e proprio moto creativo da cui dovrebbe essere investito il fantomatico economista-scrittore (ma si tratta in fondo di un modo per dire che il grande scrittore deve conoscere perfettamente la materia di cui tratta e vivere in essa immerso), Barbaro si pone già nell’ottica di un tipo di sperimentazione letteraria differente da quella immaginista, vicina al surrealismo e all’espressionismo sopravvissuto negli sviluppi della neue Sachlichkeit. A leggere con attenzione questo brano, i referenti chiamati in causa sembrano essere i «neorealisti»57 russi (anche se la loro rappresentazione corale e per larghe campate della società era ormai ovviamente oltre la descrizione dei meccanismi dell’economia capitalista), nonché scrittori come Döblin e Dos Passos, in grado di creare affreschi risultanti dall’accostamento (dal montaggio) di vastissime compagini di materiali narrativi o estratti direttamente dalla realtà, come avviene in Berlin Alexanderplatz e in Manhattan Transfer (ma in questi anni, ad avvicinarsi con più forza ad un’idea di narrativa di così ampio respiro era soprattutto il cinema, con la sua rappresentazione della grande metropoli, si pensi soprattutto a Walter Ruttman e a Dziga Vertov; classici della rappresentazione del sommovimento urbano possono essere considerati ovviamente anche Metropolis di Lang, La strada di Carl Grune e Aurora di Murnau). Tutto ciò, dicevo, è già più vicino al romanzo Luce Fredda o alle novelle degli anni Trenta, che agli esperimenti più propriamente immaginisti de L’essenza del can barbone e di alcune opere teatrali. Tornando brevemente alla conclusione del racconto, non si può evitare di notare, infine, come anche qui, proprio come in Suo padre, sia possibile riscontrare un riferimento, stavolta ancora più netto, all’onnipotenza dei pensieri tipica del perturbante secondo la teorizzazione di Freud. In questo caso, l’angoscia del personaggio nasce proprio dalla convinzione irrazionale (dal “presentimento”) della coincidenza del proprio desiderio con la realtà degli avvenimenti, ovvero di aver 57

Trattati diffusamente da Barbaro in diversi articoli di questi anni, ad esempio in Letteratura russa a volo d’uccello, in «L’Italia letteraria», VI, nn. 44-45-47, 2-9-23 novembre 1930; ora in Neorealismo e realismo, cit., pp. 99-118.

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causato la morte della piccola con il solo fatto d’averla desiderata. Il presentimento si rivela tuttavia infondato, così da rendere ancora più evidente il referente teorico psicanalitico, in grado di gettare un’ombra significativa sulla narrazione nella sua interezza, quasi a voler sottolineare che, qualsiasi presa di coscienza liberatoria non può che svolgersi – e questa è una lezione che il surrealismo andava già ripetendo da tempo – in presenza delle forze incoercibili della libido, per cui la lotta alla reificazione passa di necessità dal ritorno del rimosso.

1.5 Esorcismi, calembour, psicanalisi da salotto

Gli altri tre racconti che compongono L’essenza del can Barbone (che si conclude poi con un’opera teatrale, Ancorato al cuore di Maria, rappresentata al Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Bragaglia il 10 maggio del 1929, e di cui tratterò nel prossimo paragrafo) costituiscono altrettanti esperimenti narrativi in cui Barbaro porta alla luce i punti fondamentali della sua visione del mondo e della tecnica compositiva di questo periodo; lo sforzo dell’autore non riesce però in questo caso a raggiungere i livelli delle due novelle di cui mi sono appena occupato, che, al di là dei giudizi di valore, si configurano certamente come esempi pregnanti della poetica immaginista e di un tentativo serio di aggiornare la letteratura italiana coi risultati raggiunti dalla coeva narrativa europea. Esorcismi di Silvana, elaborato come un racconto del mistero, sulla scia di Poe, ma ambientato all’interno del frivolo ambiente della borghesia romana anni Venti, tratta di un giovane intellettuale (ne deduciamo il carattere dalla mania citazionista e poliglotta che gli attribuisce l’autore) impegnato nel corteggiamento di un’esotica ragazza con interessi nel campo dell’occultismo e della magia. Recatosi a casa di lei, vive una situazione surreale che a poco a poco degenera nell’incubo. Dopo aver inseguito Silvana lungo una scala discendente nei sotterranei del palazzo, si ritrova infatti in una cantina buia – senza sapere perché, senza sapere cosa l’aspetta – dove si diffondono echi di spari e risate beffarde, fino a che non viene ferito alla 162

mano e perde i sensi. Si risveglia il mattino dopo, medicato, nel lettino della cameriera, secondo la quale, dopo essersi ubriacato, avrebbe perso il controllo e rotto alcune bottiglie di champagne, fino a ferirsi. La situazione del trovarsi in una cantina buia senza sapere il motivo per il quale vi si è stati attirati, minacciati da forze oscure di cui non si sa nulla e non si conoscono i moventi, deriva probabilmente da Il pozzo e il pendolo di Poe (così come il motivo della discesa per una scala interminabile verso l’ignoto e l’orrore sembra anticipare suggestioni lovecraftiane). Sta di fatto che Barbaro, in questo racconto che è forse l’unico immune da sperimentazioni (se non per la solita esuberanza linguistica, con abbondanza di termini stranieri, giochi di parole e neologismi), ha probabilmente tentato di dare una sua interpretazione delle tematiche gotiche, mettendo in relazione le forze irrazionali di ciò che normalmente viene percepito come inquietante e orrorifico, con la banalità e la frivolezza dell’esistenza borghese, dove così candidamente il meccanismo dello sfruttamento economico si occulta nella spensieratezza del divertimento e dell’ingenuità, di cui le avventure galanti sono un’esemplificazione perfetta. Agli occhi di chi, come Barbaro, era in quegli anni impegnato in un’analisi politica della realtà da una prospettiva di sinistra, era infatti impossibile non divenisse evidente quella contraddizione tra oppressione sociale e forme esistenziali frivole. Questo esempio per altro non molto riuscito di racconto del mistero è probabilmente un tentativo di affrontare un’analisi siffatta. Anche se, naturalmente, una lettura come quella che ho appena accennato rimane perfettamente legittima, credo, anche nella circostanza in cui l’autore avesse come scopo il mero intrattenimento – e non a caso analisi di questo tipo non possono che trarre origine in primo luogo da quelle che erano (e sono) le tendenze della letteratura di consumo. Punto di frizione, costruita pressoché interamente con il montaggio di frammenti di conversazioni e indiretto libero, di cui risulta difficile persino stabilire l’appartenenza a un personaggio specifico, tratta di due coniugi russi in missione diplomatica a Costantinopoli. Il motivo conduttore della storia è la perdita di identità dei due sovietici, formatisi durante il periodo eroico della rivoluzione (all’epoca entrambi avevano ricoperto importanti incarichi militari), che subiscono un lento logoramento a contatto con la vecchia e corrotta cultura europea (i due vivono

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immersi nell’ambiente diplomatico internazionale della capitale turca). La loro caratteristica di “uomini vivi” va dunque progressivamente perdendosi, divorata dal potere distruttivo di quella sostanza borghese devitalizzante che è sempre stata il principale bersaglio polemico di Barbaro. I russi, così come gli americani, appaiono qui portatori di una sorta di giovinezza esistenziale, una apertura alle possibilità di cambiamento che appare invece definitivamente perduta per la vecchia Europa. Questa stessa tematica verrà anni dopo approfondita da Barbaro (dal punto di vista americano) nella novella Acque profonde,58 pubblicata nel 1933. Per quanto riguarda Punto di frizione, l’elemento più interessante, al di là della tipica tematica del tramonto dell’occidente così ovvia in quel periodo, è certamente lo sperimentalismo linguistico, che coglie nel segno soprattutto quando ci presenta un montaggio di slogan pubblicitari la cui assurdità si manifesta con un’evidenza quasi plastica, e che testimoniano di un’estrema chiarezza di analisi, da parte dell’autore, circa i meccanismi di reificazione delle coscienze che la nascente società dello spettacolo andava perfezionando: Tutti possono realizzare il sogno di Faust! Arrestate l’attimo fuggente. Via quel naso lustro! Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Radersi diventa un piacere. O-u. X-Beine ohne Berufstörung. Nur fuer Kenner! Etwas ganz besonders! Ecco le frasi lapidarie e poetiche delle quarte pagine. E qui: Mi piace la danza, ma oh, i poveri miei piedi! Luxusweiber von Pitigrilli, del Boccaccio der Gegenwart! Chez marion Delorme! Tous massages. Se sapete scrivere imparerete anche a disegnare. Lexicon der Erotik. Une visite s’impose! Rélations, femmes de tous le pays, art, letterature! Oppure… questa è buona: Der Deutsche Casanova. Leçons d’anglais avec massage!59

In questo caso, la stessa sequenza sintattica è interamente costruita tramite montaggio, il che ne rende evidente la derivazione dai procedimenti avanguardistici del collage e del fotomontaggio (in questi stessi anni, Vinicio Paladini aveva fatto proprio del fotomontaggio uno dei tratti più caratteristici dell’immaginismo, 58 59

U. Barbaro, Acque profonde, in «Occidente», II, n. 3, aprile-giugno 1933, pp. 114-121. U. Barbaro, L’essenza del can barbone, cit., p. 57.

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realizzando con questa tecnica le copertine di vari volumi pubblicati da personalità riconducibili al gruppo). È possibile inoltre notare l’affinità con un testo emblematico come La passeggiata di Aldo Palazzeschi, i cui versi sono interamente formati dal susseguirsi di insegne e cartelli pubblicitari osservati nel corso di un itinerario stradale.60 La stessa caotica commistione di lingue e piani discorsivi ricompare anche nella novella che dà nome alla raccolta, L’essenza del can barbone, la più esplicitamente umoristica, ambientata nella società fatua e cosmopolita che popola un albergo di lusso di una qualche località sciistica alpina. Il protagonista è un alter ego dell’autore (siciliano, ventisette anni, calvo ma con «dei bellissimi occhi e dei bei denti»), ritiratosi in questo ameno scenario per poter lavorare in tranquillità (anche se la cosa appare evidentemente in contraddizione con le sue possibilità economiche). Naturalmente, per l’intruso che egli rappresenta in mezzo alla ricca borghesia e alla nobiltà di vario grado, è la cultura l’unica arma attraverso cui farsi valere. Sennonché – ed è questo l’innesco della situazione surreale che si viene a creare nell’albergo – l’aggancio attraverso cui riesce a instaurare una conversazione con Livia, una giovane “in età da marito” in vacanza con la mamma, è la psicanalisi freudiana: Lei, dal canto suo, s’interessò moltissimo ad una mia domanda indiscreta – e allora non sapeva quanto indiscreta – circa quello che pensasse della parola «slittino» che aveva erroneamente pronunciato «slettino», e imparò quindi tutto, o quasi, quello che io so di psicopatologia della vita quotidiana, di lapsus, di interpretazione onirica, di transfert e di libido.61

La dirompenza con cui le teorie psicanalitiche fanno a questo punto presa sulla fauna snob e annoiata dell’albergo, ha qualcosa di miracoloso: La rapidità con cui si propagò la moda psicanalitica in quel paese non ha niente a che vedere con quella del 60

La poesia fu inserita nella seconda redazione de L’incendiario, del 1913. Ora in A. Palazzeschi, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2002, pp. 295-298. 61 Ivi, p. 107.

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taglio dei capelli o del ma-jiong; uomini e donne en raffollèrent; la psicanalisi diventò un piacevole gioco di società con le caratteristiche classiche, ed anche potenziate, di tutti gli altri, il cucuzzaro per esempio. Ottimo per rinfocolare le vecchie amicizie, per crearne di nuove, per incoraggiare flirts, eccitare gelosie, placare sdegni, oltreché, come alcuni spezz mi assicurano, può benissimo servire a far dichiarazioni e a fissare appuntamenti sotto gli occhi indagatori e le orecchie attente delle madri e dei mariti.62

L’imperversare del dilettantismo freudiano dà naturalmente avvio a numerose situazioni divertenti, e soprattutto rende il protagonista celebre tra gli altri ospiti, che passando sopra la sua inferiorità sociale gli riconoscono una specie di salvacondotto intellettuale. Ben presto il racconto si trasforma, non diversamente che in Punto di frizione, ma in modo meno estremo, in un collage di frammenti di conversazioni in varie lingue, intessuti di giochi di parole e canzonette, che riproducono mimeticamente l’allegro trascorrere del tempo dei vacanzieri, fino a che si arriva ad un epilogo più o meno romantico, nel corso del quale Livia, di cui il narratore si è evidentemente invaghito («cara Livietta! In quel paese per poco non mi convertivo coi loro modi: ed ora, con Livia, quasi quasi mi compiacevo di quel tanto, e non poco, di borghesina viziosetta che le scoprivo…»63), rompe il fidanzamento con il suo ricco boyfriend usando come scusa proprio la psicanalisi di un sogno: l’espressione faustiana das war also des Pudels Kern! – era questa l’essenza del can barbone! – viene brandita dalla ragazza proprio per indicare la scoperta delle mire (a suo dire) perverse del ragazzo, colpevole di averla sognata intenta ad offrirgli un cesto di cacciagione… Tutto il racconto è insomma un piacevole esempio di come non vi sia idea o teoria che la società borghese contemporanea non possa trasformare in moda e così neutralizzare riducendola a un fatuo gioco di società. Ma in queste pagine gli intenti polemici si placano in favore di una divertita leggerezza, in cui è peraltro possibile leggere l’imbarazzo e la forte impressione che le teorie psicanalitiche dovettero esercitare al loro primo apparire (con effetti in alcuni casi molto godibili: «Ma in 62 63

Ivi, p. 110. Ivi, p. 122.

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compenso a confessar candidamente di aver salito, in sogno, le scale a chiocciola del terrazzo, o di aver battuto la testa contro un lume a petrolio a sospensione c’era da vedersi togliere il saluto»64). Certo, al di là dell’irrisione della psicanalisi da salotto, emerge anche il sospetto che le teorie freudiane siano al loro fondo una costruzione concepita specificamente per il tipo di persone che il narratore incontra nel suo soggiorno in albergo: che si tratti cioè, in fin dei conti, di una teoria elaborata su misura della classe sociale che ne fa qui un uso tanto improprio, dando luogo a quella che non può che apparirci come una sorta di nemesi. Ma c’è di più: l’ostentato plurilinguismo, che va dal latino al russo, dal tedesco al francese, sembra rendere evidente il venirsi a creare di una sorta di dimensione europea della chiacchiera, come se l’evoluzione della borghesia del vecchio continente nel segno dell’universalità delle merci, degli slogan, delle mode, insomma nel segno del dominio assoluto dei mercati, avesse la capacità di neutralizzare persino il multiculturalismo, cui gli intellettuali europei più avanzati, e gli avanguardisti in particolare, avevano guardato come a una via di fuga privilegiata dalle asfissie provinciali delle tradizioni locali.

1.6 L’impostazione politica del problema arte-vita

La raccolta L’essenza del can barbone si conclude poi con un’opera teatrale, divisa in cinque capitoli, intitolata Ancorato al cuore di Maria, che venne rappresentata, come già altri drammi dell’autore, presso il Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Bragaglia, il 10 maggio del 1929,65 a conclusione di una stagione che

64

Ivi, pp. 111-112. A.C. Alberti, S. Bevere, P. Di Giulio, Il Teatro Sperimentale degli Indipendenti (1923-1936), cit., pp. 437-439. 65

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aveva visto in cartellone numerose opere di scrittori romani che frequentavano i medesimi ambienti di Barbaro, tra cui Elio Talarico, Antonio Aniante, Marcello Gallian, Luigi Diemoz, Libero de Libero, Gian Gaspare Napolitano e altri (quasi tutti riconducibili all’area del Novecentismo bontempelliano). La scelta di porre questo dramma a conclusione della raccolta dei suoi racconti immaginisti non può certo essere casuale: di fatti, al momento della messa in scena l’autore lo definì un’«estetica in cinque capitoli», il che rende evidente come vi avesse in qualche modo adombrato una riflessione teorica globale sul suo periodo avanguardista, che proprio in questi mesi si stava compiendo (e concludendo) con la scrittura di Luce fredda, di cui mi occuperò nel prossimo paragrafo. Il tema prescelto per uno scopo così importante è non a caso già dotato di una sua tradizione, che andava dall’Ibsen di Quando noi morti ci destiamo (1899) fino al Pirandello di Diana e la Tuda (1926) – che era andata in scena circa due anni e mezzo prima. Si tratta, insomma, del classico motivo primonovecentesco, già affrontato dalle filosofie delle vita (e in particolare da Georg Simmel) del contrasto tra vita e forma, poi divenuto il perno centrale dell’opera di Luigi Pirandello, che l’aveva infine reso familiare al pubblico italiano. Sennonché, nel caso di Barbaro, la cui riflessione aveva sempre guardato al rapporto tra arte e vita da un punto di vista eminentemente politico, il contrasto essenziale non potrà avere una valenza meramente estetica, ma dovrà in qualche modo riguardare la possibilità di andare ad agire sulla realtà (cioè la possibilità di mutarla) attraverso l’opera artistica. I protagonisti della pièce sono di fatti uno scultore e la sua modella, una prostituta di nome Maria, mentre l’ambientazione dei cinque quadri spazia tra un ospedale dove sono ricoverate alcune donne perdute, lo studio dello scultore, e i bassifondi

romani.

La

vicenda

riprende

figure

e

temi

provenienti

dall’espressionismo, con scenari propri della neue Sachlichkeit, senza ignorare i soliti (per Barbaro) referenti russi – si pensi al già menzionato dramma di Maksim Gor’kij intitolato L’Albergo dei poveri. Lea Durante vi scorge le tracce del romanzo dickensiano Our mutual friend, con i suoi bassifondi londinesi e una figura di giovane prostituta accostabile a Maria,66 ma mi sembra oggettivamente impossibile

66

«Apparentemente vi si respira l’aria dickensiana di Our mutual friend: un ambiente scuro e fumoso, uno strano personaggio di giovane prostituta povera, fragile e malata, ma inopinatamente oggetto di

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individuare, qui, un referente principale per una tematica e un’ambientazione che in questo periodo possono contare su esempi ben numerosi, anche nel campo del cinema, basti pensare al celebre Il giglio infranto67 di D.W. Griffith, dove una storia di miseria e disperazione tra i docks di Londra si concludeva con l’assassinio di una fragile figura di ragazza; la cruenta fine della prostituta Maria non può poi che ricordare anche la morte di Lulù nel Vaso di Pandora di Wedekind – che proprio nel 1929 verrà portato sullo schermo da Pabst, nel film omonimo già ricordato – assassinata (non a caso) nei bassifondi londinesi da Jack lo Squartatore. Considerando inoltre le molte altre figure positive di prostitute che compaiono nel cinema di questo periodo68 – una su tutte la Asta Nielsen del già citato la La via senza gioia di Pabst – non può che apparire riduttivo quanto affermato da Alessandra Briganti, ovvero che in quest’opera riemerge un impianto ispirato a un pesante populismo tardo ottocentesco. Se infatti appare evidente che il modello è questa volta costituito dall’universo del sottoproletariato urbano, con le sue figure di sbandati, prostitute, disoccupati, rappresentato espressionisticamente nei testi della Neue Sachlichkeit, è altrettanto chiaro che la cifra di casuale crudeltà che definisce il referente di quel mondo si traduce, invece, qui nei termini di un acceso e vago umanitarismo, portatore di una nozione di popolo in cui, sull’elemento “necessità”, prevale, veristicamente, il carattere istintivo e prelogico assunto come dato originario.69

Innanzitutto, la “crudeltà” espressa nella letteratura e nel cinema ascrivibile alla nuova oggettività di ascendenza espressionista, non può a mio parere essere definita “casuale”, poiché segna sempre la deflagrazione di conflitti, di tipo sociale o psicologico, che vengono portati al loro punto di massima tensione proprio dal contatto con gli ambienti più miseri, in cui l’oppressione – quella politica e quella psichica, entrambe operate dalle strutture di una società profondamente ingiusta – oscure e mortifere passioni». L. Durante, Umberto Barbaro e il «realismo» della letteratura, cit., p. 103. 67 Broken Blossoms, 1919. 68 Cfr. S. Kracauer, Da Caligari a Hitler, cit., pp. 209-238. 69 A. Briganti, Umberto Barbaro, in AA. VV., Gli eredi di Verga, Atti del convegno nazionale di studi e ricerche, Randazzo, 1983, pp. 31-53: 38-39.

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finisce per abbandonare le apparenze in cui è quotidianamente occultata, provocando, appunto, l’esplosione della violenza. In secondo luogo, non mi sembra vi siano qui tracce di populismo: se è vero che la vicenda principale, ovvero l’assassinio della prostituta Maria, massacrata e fatta a pezzi dal suo innamorato, un misterioso e sinistro marinaio che in segno d’amore si era fatto tatuare sul braccio un cuore trafitto da un’ancora (da cui il titolo dell’opera), non viene spiegata con motivazioni psicologiche o sociali, non si può certo affermare che l’irrompere di una violenza “irrazionale” sia un tema populista (soprattutto se non va ad inserirsi in un contesto “realistico” o “di genere” – non si tratta evidentemente neppure di un “racconto giallo”). Inoltre, proprio la notte dell’assassinio di Maria, lo scultore riceve la visita inaspettata di un demoniaco “uomo dall’ombrello nero”: «La porta si apre di colpo sbattendo violentemente in avanti verso il pubblico. E nel quadro appare un uomo dall’aspetto insignificante e tranquillo, ma spaventevole»,70 che gli comunica di voler acquistare a qualsiasi prezzo la statua Lontananze, per la quale era stata proprio Maria a posare, e che lo scultore ha appena concluso. Sparito lo sconosciuto, l’uomo, già turbato, vede la statua prendere vita con un gesto accusatorio: a quel punto la manda in pezzi con un colpo, esattamente quando – lo apprenderemo nel quadro successivo – il marinaio uccide e fa a pezzi la sua amante, all’interno della cantina di un’osteria di infimo ordine, cui si accede da una botola.71 La vicenda può poi concludersi allorché, una volta catturato l’assassino, lo scultore, la cui salute mentale è ormai fortemente provata, ricompone i pezzi della statua (l’unico frammento mancante, una gamba, viene ritrovato proprio quando un barcaiolo rinviene nel Tevere l’unico membro della donna che non era ancora stato recuperato: si tratta ovviamente della gamba), portando dunque a termine, per la seconda volta, la sua opera, avendo in qualche modo percepito l’oscuro collegamento

70

U. Barbaro, Ancorato al cuore di Maria, in L’essenza del can Barbone, cit., p. 159. In ciò può forse essere scorta una suggestione dal celebre dramma espressionista Der tote Tag (1912) di Ernst Barlach, che era peraltro innanzitutto uno scultore, nel corso del quale il cadavere del cavallo divino che avrebbe dovuto salvare il protagonista viene smembrato dalla madre proprio nella cantina cui si accede da una botola. Cfr. Il giorno morto, in C. Grazioli, Drammi dell’espressionismo, Bari, Costa & Nolan, 1996, pp. 109-191. 71

170

tra i due avvenimenti. «Io, sono io che l’ho fatta a pezzi…»,72 aveva in precedenza affermato per strada, parlando con una “collega” di Maria. Ma, a conclusione del dramma, compare ancora una volta lo sconosciuto, recando in una valigia il corpo vivo della modella, che si rianima pochi istanti, solo per fuggire nuovamente al risuonare della fisarmonica del suo amato marinaio che la chiama a sé. Non è semplice ricostruire la trama di significati che attraversa questa pièce, anche perché, quello che è evidentemente il tema centrale, ovvero, come si diceva all’inizio, la contrapposizione tra arte e vita («Ma tu credi che ancora sia il significato dell’arte quello che mi sfugge… (Pausa. Sembra commuoversi). (Con slancio) Ah, caro amico, quello che mi sfugge è invece il significato della vita, che mi si vuota e svanisce…»),73 viene adombrato in una vicenda irta di figure e avvenimenti dal chiaro valore simbolico, che certamente si prestano a una lettura psicanalitica.74 Tuttavia, sebbene, come abbiamo visto, la dimestichezza di Barbaro con la psicanalisi renda incontrovertibile il fatto che egli fosse pienamente consapevole della presenza di questo genere di implicazioni, mi sembra che ciò dipenda in larga misura dalla scelta di una serie di tematiche e figure che, attraverso il cinema espressionista, risalgono fino al romanticismo di Hoffman. Il riferimento va ovviamente al tema del doppio (qui evidentemente impersonato sia dall’uomo con l’ombrello nero che dal marinaio), così come a tutti gli altri elementi riferibili al perturbante freudiano, che Maria Di Giovanna puntualmente rintraccia ed elenca (l’onnipotenza dei pensieri, lo smembramento, l’animazione di una figura inanimata), ma la cui presenza è spiegabile col fatto che lo stesso Freud era andato ad attingere, nel tracciare il paradigma dell’Unheimlich, al medesimo universo Hoffmaniano qui evidentemente richiamato da Barbaro (che, più probabilmente, ripeto, guardava ai classici dell’espressionismo – o del pre espressionismo – dove abbondano statue animate, automi, sosia e visitatori demoniaci).75

72

U. Barbaro, Ancorato al cuore di Maria, cit., p. 186. Ivi, pp. 190-191. 74 Una lettura di questo tipo è stata condotta da Maria di Giovanna in Teatro e narrativa di Umberto Barbaro, cit., pp. 77-93. 75 Si veda quanto affermato da Lotte Eisner a proposito dei legami tra il cinema pre-espressionista e l’opera di Hoffmann: «il cinema poteva, meglio di qualsiasi altra arte, esprimere il mondo fantastico di E.T.A. Hoffmann, e soprattutto il tema famoso del “doppio”, ombra o riflesso, che, evadendo dallo 73

171

A mio parere, ferma restando la legittimità e l’utilità di una lettura come quella condotta da Maria Di Giovanna, il vero punto focale dell’opera è da ricercare nella particolare declinazione qui assunta dal contrasto tra arte e vita, che non va nella direzione di un estetismo esistenzialista alla Pirandello (sulla scia, come si è detto, delle filosofie della vita), ma si orienta piuttosto verso la riflessione sul significato politico dell’arte. Quando l’amico dello scultore, Rossi, gli ricorda le sue teorie sul senso dell’arte (che coincidono letteralmente con quelle dell’autore): «Rossi – […] Vorrei solo ripeterti i tuoi argomenti: “foggiarsi un ideale di superiori armonie nell’arte e nella vita. Fare della propria arte uno strumento della propria vita operante»76 (nell’articolo programmatico dell’immaginismo Barbaro aveva scritto: «un’arte che sia l’anima stessa della nostra vita operante»77), lo scultore risponde: «(Violentissmo, con voce alta e stridula) Tu… tu… pensi: s’è innamorato di una modelluccia senza fianchi (breve pausa) e questa invece non aveva occhi che per un suo sgangherato marinaio… […] Un giorno questo marinaio gliel’ha uccisa… (con calma terribile) e si capisce che dia in ismanie». La risposta tende evidentemente a rimarcare, con tutta la veemenza del caso, la distanza (e perfino l’impossibilità di accostamento) che separa le teorie sull’arte da un evento brutale come l’omicidio. Ora, il fatto che l’esplodere della violenza e il sopraggiungere degli eventi luttuosi non siano dovuti, come in Pirandello e in Ibsen, all’incapacità dell’artista di riconoscere l’importanza della vita al di fuori dell’ossessione della forma, ovvero indipendentemente dalla dimensione artistica, ma siano piuttosto causati da fatti completamente estranei all’arte e persino alla vita dello scultore (che in fin dei conti vi è coinvolto solo per puro caso), testimonia come qui il problema di fondo sia ben altro, ovvero l’insignificanza dell’arte, la sua totale incapacità di avere effetti concreti sulla realtà. Ma c’è di più: il tema del doppio,78 il senso di colpa dello scultore, che tende a indentificarsi palesemente (lo abbiamo visto) con l’assassino della donna, rendono evidente come vi sia nonostante tutto una complicità tra l’artista e la violenza che ha ucciso la ragazza. Tale complicità non è però da vedersi in qualche ossessione estetico-esistenziale (del tutto fuori luogo mi sembra il specchio, acquista una esistenza propria e si rivolta contro il suo modello». Lo schermo demoniaco, cit., p. 44. 76 U. Barbaro, Ancorato al cuore di Maria, cit., p. 192. 77 U. Barbaro, Un’estetica nuova per un’arte nuova, cit., p. 84. 78 Cfr. parte prima, cap. 2, par. 1 e cap. 4, par. 2.

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riferimento al Ritratto di Dorian Gray),79 quale potrebbe essere il desiderio di fermare nella fissità della morte la mutevolezza inafferrabile della vita, ma semplicemente nell’incapacità di opporsi, da artista, a un reale che sembra completamente negare ogni efficienza fattuale all’opera d’arte. L’identificazione dell’artista con l’omicida sarebbe dunque da leggersi come la visualizzazione di un senso di colpa interpretabile sul piano politico: al culmine di una riflessione che aveva spinto Barbaro a interrogarsi, nel corso della sua esperienza avanguardista, sulla possibilità dell’arte di andare ad agire sulla prassi vivente, è evidentemente impossibile non constatare l’inefficacia di questo tipo di impostazione nel panorama italiano, in cui il regime fascista, saldamente in possesso di tutti gli apparati di potere, non poteva essere minimamente scalfito da una pratica artistica avulsa da una reale e concreta militanza politica (che avrebbe di necessità dovuto assumere l’aspetto della lotta e della propaganda clandestine). Il brutale marinaio, che apparentemente agisce senza alcun motivo concreto, diviene dunque cifra di un’attività intellettuale e artistica che, pur non aderendo mai ufficialmente al fascismo, continuò per lunghi anni a esercitarsi negli spazi concessi dal regime, recando in sé l’ombra della complicità, e di una complicità tanto più mostruosa quanto più “incosciente”, cioè avulsa da coinvolgimenti ideologici.80 Alla luce di questa riflessione si capisce anche il motivo della scarsa chiarezza con cui in questo dramma vengono esposte le questioni teoriche nei dialoghi tra lo scultore e il suo amico (di certo non sarebbe stata la chiarezza nell’esposizione a mancare a Barbaro, qualora avesse voluto impostare una discussione sul conflitto “classico” tra arte e vita), oscurità che fu notata dai

79

Cfr. L. Durante, Umberto Barbaro e il «realismo» della letteratura, cit. p. 105: «Lo studio d’artista e la discussione colta sul significato dell’arte tra lo scultore e l’amico […] sembrano calchi wildiani, per rimanere in ambito inglese, come naturalmente la sconvolgente specularità tra vita e morte tra Maria e la statua. E direi che non a caso Barbaro si serve della nota scena del Portrait of Dorian Gray tentando di rovesciarne il senso, tentando di decretare, proprio nel riprodotto tempio letterario dell’ ‘art for art’s sake’, la morte dell’estetismo e di sostituire anche sul piano teorico, “all’arte per l’arte”, “l’arte per la vita”». Ma qui si tratta, a mio parere, proprio del fallimento dell’arte per la vita, dal momento che l’arte per l’arte era da sempre un qualcosa di estraneo a Barbaro, che aveva dato ciò per scontato fin dai tempi della collaborazione con i fogli anarchici clandestini, e non aveva certo bisogno, nel 1929, di ribadire il concetto. 80 È però necessario ricordare che Barbaro si rifiutò sempre, nonostante tutto, di aderire al fascismo, dovendo anche rinunciare alla direzione della rivista «Quadrivio» proprio per il non essere iscritto al PNF.

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recensori dello spettacolo,81 e che è spiegabile proprio col fatto che non di impasse teorica si trattava, ma della pura e semplice presa d’atto di uno scacco: ovvero della constatazione dell’insufficienza della mera attività artistica nell’opporsi, anche solo sul piano culturale, al regime fascista.

81

«[…] Si può essere moderni quanto si vuole, si possono dir le cose più sottili, ma a condizione di essere chiari». Recensore anonimo, Le novità agli Indipendenti, ne «Il Giornale d’Italia», 12 maggio 1929, cit. in A.C. Alberti, S. Bevere, P. Di Giulio, Il Teatro Sperimentale degli Indipendenti, cit., p. 438.

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2. Tra sogno e azione: Luce fredda

2.1 La narrazione come spazio collettivo

«La vita è come le Montagne Russe!...». Con quest’ultima esclamazione cala il sipario sul Marchese di Keith, protagonista dell’omonimo dramma di Wedekind, composto nel 1901. Nella mano sinistra stringe il revolver, nella destra un mucchio di banconote. In scena, sul divano, è adagiata la sua compagna poco più che adolescente, morta suicida. Il Marchese ha provato a prendersi gioco della società estetizzante e stolidamente borghese di Monaco, portando alle estreme conseguenze quegli stessi assiomi grettamente utilitaristici sui cui quella era fondata. Ma è stato sconfitto: non c’è spazio per chi cerca di porsi al di fuori del sistema, delle convenzioni, delle ipocrisie, anche se il suo scopo è soltanto servirsene senza scrupoli. Keith è pur sempre un immoralista, non riesce a mescolarsi agli uomini di affari di cui vorrebbe approfittare. Dopo un breve quanto effimero momento di trionfo, non può dunque che precipitare verso la sconfitta, anche se la sua ultima parola sarà un sogghigno (in fondo trionfo e fallimento sono soltanto categorie di quella società borghese cui lui è geneticamente estraneo). «La vita è come le Montagne Russe!...»:82 così Umberto Barbaro chiude la propria traduzione dell’opera di Wedekind pubblicata nel 1926. Alcuni anni dopo, nel romanzo Luce fredda83 del 1931, lo scrittore siciliano ci mostrerà il personaggio principale, Sergio, mentre «faceva il gesto espressivo coll’indice alla tempia di chi si fa saltar le cervella, ed era lieto di giocare il tutto per nulla».84 Un revolver in mano, seppur solo metaforico, un sorriso sarcastico sul voltò: un’immagine non lontana da quella del Marchese di Keith, soprattutto se si tiene presente che anche il Sergio di Luce fredda si configurerà sempre come una 82

In verità l’originale tedesco reca «Das Leben ist eine Rutschbahn», ovvero uno scivolo. F. Wedekind, Il marchese di Keith, cit., p. 215. 83 U. Barbaro, Luce Fredda, Lanciano, Carabba, 1931. 84 Ivi, p. 40.

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presenza completamente estranea al mondo grettamente borghese che lo circonda. Ma è impossibile parlare di questo romanzo senza prima precisare nel modo più chiaro che la nozione di protagonista ha qui un significato piuttosto debole. Al centro della narrazione non vi è, infatti, un individuo colto nelle sue relazioni con gli altri, ma un gruppo, qual era di fatti quello in cui Barbaro aveva mosso i suoi primi passi da intellettuale nella capitale, nel corso degli anni Venti. Non a caso, la tecnica narrativa qui in prevalenza usata dall’autore è quella del discorso indiretto libero, che, come abbiamo visto, era stata sperimentata con efficacia nella composizione di alcuni dei racconti de L’essenza del can barbone. Un indiretto libero che non rimane relegato, però, all’interno di episodi limitati, per tratteggiare di volta in volta l’interiorità dei personaggi. Si potrebbe al contrario affermare che esso sia qui la struttura portante, che in alcuni passaggi viene inframmezzata da brani in terza persona (la voce del narratore esterno si affaccia ironicamente soltanto in due brevissime occasioni) e dall’inserzione di lettere e pagine di diario. Insomma, l’indiretto libero è lo spazio dove la narrazione ha luogo – e solo una volta attratti nella sua orbita, i personaggi ci si svelano. Tuttavia, l’originalità del procedimento usato da Barbaro consiste in questo caso nel fatto che, all’interno dello spazio dell’indiretto libero, si ha l’impressione di ascoltare un’entità psichica singola – benché collettiva – che è poi, ovviamente, il gruppo.85 Ed è questo il motivo per cui la nozione di protagonista non può essere usata in modo proficuo: non a caso, il tema di fondo del romanzo sembra essere proprio la sconfitta di ogni approccio alla vita di tipo individualista. Ma non si tratta in realtà di una tesi, bensì di un problema (il romanzo a problema contro il romanzo a tesi era già stato un argomento di riflessione per Barbaro).86

85

Cfr. L. Durante, Umberto Barbaro e il «realismo» della letteratura, cit. pp. 130-131. U. Barbaro, Lidija Seijfullina, in «Rivista di letterature slave», III, fasc. IV-VI, agosto-dicembre 1928, ora in Realismo e neorealismo, cit., pp. 85-91: 88. 86

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2.2 «L’irrazionalità della vita di tutti»

Veniamo ai fatti. In una mattina di inizio agosto dell’anno 1928, il ventottenne Sergio percorre le strade assolate di Roma per recarsi a vedere alcune camere ammobiliate, trovandosi nella necessità di lasciare entro sera i suo attuale alloggio. Durante una sosta al bar, nota una ragazza che gli fa dei gesti incomprensibili. Dapprima pensa a una prostituta; tuttavia, quando ella improvvisamente si dilegua, preso da uno strano bisogno («Un desiderio di avventura e di fuga dal reale quotidiano e mediocre invase Sergio nostalgicamente e lo diresse con velocità imprevedibile»)87 cerca di seguirla, ma la giovane è condotta via in carrozza da un anziano signore. La piega misteriosa presa dalla narrazione a questo punto si arresta e Sergio torna a casa. Ci troviamo così davanti alcuni dei personaggi che avranno un ruolo importante nella storia: l’amico Lorenzo, che come lui sta a pensione presso la giovane coppia di sposi composta da Leone (un altro amico), e Tilde. Da questo momento in poi la vicenda si mette in moto, ma senza rispettare i canoni della narrativa tradizionale: non vi è infatti una trama articolata, né una sequenza ordinata di fatti. Gli avvenimenti, staccati gli uni dagli altri (anche se tutta la prima parte del romanzo si svolge nell’arco di un’unica giornata), vengono accostati con la tipica tecnica del montaggio, anch’essa già largamente sperimentata da Barbaro, e dei cui fondamenti avanguardistici ho già avuto modo di parlare a lungo.88 Nel tessuto del romanzo l’autore inserisce inoltre una serie di lettere, scritte a Sergio da Maria Moroni, la giovane figlia di un industriale, la cui vita ha subito un profondo mutamento proprio a causa dell’influsso dell’amico, che ella ama non corrisposta. Non solo: subito dopo aver appreso di un’avventura extraconiugale di Leone, che sta meditando di divorziare dalla moglie, siamo ammessi a leggere alcuni stralci del diario di lei, in cui la donna riflette sull’esteriorità dei rapporti umani, sul matrimonio, sulla sua infelicità. In serata Sergio entra nel suo nuovo alloggio, ritrovandovi, con grande stupore, la ragazza misteriosa della mattina, Clelia, rivelatisi figlia del padrone di 87 88

U. Barbaro, Luce fredda, cit., p. 15. Cfr. parte prima, cap. 1, par. 2.

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casa, l’usuraio Roggi (l’anziano signore che l’aveva condotta via). La giovane presenta evidenti segni di squilibrio mentale e appare circondata da un incomprensibile ma gaio mistero: tra Sergio e Clelia è immediatamente scattato qualcosa. La mattina successiva vedremo Sergio risvegliarsi per la prima volta nella sua nuova camera: Clelia è appena andata via, tutto è pervaso da un senso di leggerezza e piacevole illogicità. Da questo momento una possibilità nuova comincia ad affacciarsi nel tessuto chiuso e per molti versi asfissiante delineato dalla narrazione: Alla stupidità piatta e diffusa del mondo piccolo borghese e insopportabile nel quale Sergio ha da sempre vissuto oggi Clelia ha sostituito una stupidità effettiva, eccentrica e versatile, che non è certo priva di slanci e di poesia;

l’irrazionalità

della

vita

di

tutti,

affannata

utilitaristica e miserabile, in Clelia si alleggerisce fino al più puro e poetico disinteresse […].89

Naturalmente, quella che viene qui definita «l’irrazionalità della vita di tutti», è in realtà il raziocinio tipico della condotta della vita economica su cui si regge la società borghese. L’utile, il guadagno, la necessità di avere un ruolo, di lavorare, di avere uno scopo. Maria Moroni, la ragazza delle lettere, che nella seconda parte del romanzo torna a Roma per tentare di costruirsi una vita propria, lontana dall’influsso e dalla tutela economica dei genitori, abbandona la villeggiatura dorata non sopportando la vista della valle impoverita dalle speculazioni del padre: Ebbene, la verità è che lei non ha resistito alla vista di tutti quei paesini impoveriti di colpo, per causa di suo padre. Alle notizie disastrose di tutte quelle piccole banche che chiudevano gli sportelli l’una dopo l’altra […] e le filande sono chiuse o tutt’al più fanno lavorare a turno le

89

U. Barbaro, Luce fredda, cit., p. 147, cors. mio.

178

ragazze90… Lei non può pensare che suo padre è la causa di tutto questo con quel maledetto trucco del quarzo nero…91

Certo, Maria torna a Roma anche perché attratta dall’amore per Sergio. Ma Sergio, di fatti, per lei, non è mai stato altro che un rovello interiore che ha minato a poco a poco i fondamenti di una vita da benestante, che non può non nutrirsi di quella spietata razionalità che opera speculazioni, fa chiudere banche, sfrutta la fatica delle operaie e poi le lascia senza lavoro. Sergio le ha mostrato quanto quella razionalità sia illogica, immorale, quanto sia, in fin dei conti, irrazionale («l’irrazionalità della vita di tutti, affannata utilitaristica e miserabile»). Gliene ha mostrata, in altri termini, l’assurdità: «…E sua madre porta la parrucca!… Ed ha un’amante!... E suo padre lo sa e non gliene importa niente!...».92 Il problema centrale del romanzo si precisa dunque come il rifiuto di quella razionalità irrazionale che è il cuore stesso dell’organizzazione della società borghese. Razionale perché improntata al calcolo economico, al massimo profitto; irrazionale perché in essa l’uomo, anche l’uomo di successo, non può che smarrire la propria interiorità, sottomettendo l’«essenza spirituale-umana» di cui parlava Lukács alle leggi matematiche del capitalismo. Ora, a questo problema Sergio e i suoi amici, nei loro interminabili monologhi e negli altrettanto inconcludenti dialoghi, provano a trovare una soluzione, anzi, molte diverse soluzioni. Lo stesso Sergio si rifugia per quasi tutto il romanzo in un mondo fatto di scetticismo e sofismi, che in fondo ne fa un

prototipo

dell’intellettuale 93

“contemplatore”, l’inetto,

primo

novecentesco

incapace

di

agire,

il

di cui la letteratura italiana aveva all’epoca offerto già

innumerevoli esempi, da Svevo a Borgese. Lorenzo, l’amico che credeva nella bontà degli uomini e della vita, dopo un’amara delusione, trova scampo nella fede cattolica. Leone e sua moglie, pur avendo messo in discussione tutto, salvano il proprio matrimonio in nome della morale costituita. La stessa Maria, dopo essersi

90

Se ne ha notizia anche nel racconto Suo padre, dove, non a caso, tra i ricordi di Lola compare anche un signor Moroni – la composizione del romanzo avvenne di fatti in parallelo a quella dei racconti. Cfr. parte seconda, cap. 1, par. 1.2. 91 U. Barbaro, Luce fredda, cit., pp. 165-166. 92 Ivi, p. 166. 93 Cfr. M. Di Giovanna, Teatro e narrativa di Umberto Barbaro, cit., p. 118.

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lasciata “sedurre” dal caposquadra Giovanni, vorrebbe sposarsi per “riparare”,94 contando sulla dote paterna.

2.3 Falsità del mondo e tonalità adolescenziale

«L’irrazionalità della vita di tutti, affannata utilitaristica e miserabile». Nessuna delle soluzioni profilatesi al termine del paragrafo precedente, è chiaro, potrà mai rappresentare un superamento di quel mondo “insopportabile” cui ciascuno di essi tenta di sottrarsi. Eppure i personaggi non fanno altro che parlarne, non fanno che discutere di valori, di morale. Ma i valori appaiono come una meta utopica, il loro significato non riesce a emergere, nemmeno come scopo lontano. Tutto quello che ciascuno di loro potrebbe dire circa il contenuto effettivo dei “valori” è, in fondo, soltanto questo: «autenticità». In questo Luce fredda sembra esemplificare alla perfezione le idee espresse da Györgi Lukács nella sua Teoria del romanzo: il mondo del romanzo è un mondo abbandonato dal senso. Ogni lotta intrapresa dall’eroe per giungere a recuperare un significato autentico è destinata al fallimento: un fallimento necessario, poiché solo al culmine della separazione, nella sconfitta, è possibile il riaffermarsi – in negativo – dei valori autentici, come oggetto del “grande anelito”, del grande desiderio che muove l’eroe così come la penna e la mente del romanziere. Se dunque Luce fredda si lascia interpretare come una ricerca vana del senso in un mondo esploso, abbandonato da qualsiasi significato unificatore, un altro elemento sembra venire però prepotentemente alla luce. Una semplice “impressione di lettura” in verità, ma il cui significato rischia di avere una grande portata interpretativa: esaminando i lunghi ragionamenti svolti dai personaggi del romanzo, si rimane infatti colpiti dall’atmosfera adolescenziale che li pervade. In un suo saggio scritto a proposito del dialogo giovanile di Lukács Sulla povertà di spirito, Furio Jesi

94

«Riparare vuol dire riconoscere un ordine così com’è costituito, riconoscere i suoi pregiudizi per valevoli; riparare significa scrivere al padre, spiegargli, farsi costituire una dote e con quella comprare un marito…». U. Barbaro, Luce frdda, cit., p. 227.

180

ha notato l’atmosfera prettamente adolescenziale di tante riflessioni e dialoghi primo novecenteschi circa il valore e il significato della vita e della morte, che, in fin dei conti, si concentrano poi sempre sull’alternativa tra vita autentica ed esistenza inautentica («una tonalità di discorso, uno stato d’animo, affetti, abitudini di comportamento, per cui l’unico aggettivo appropriato sia: adolescenziale. Non si sa come dire altrimenti; si sa però di dire qualcosa di giusto, ma di dirlo male»).95 Ma che cosa vuol dire in questo caso “adolescenza”? Secondo Jesi, l’adolescenza e la vecchiaia sono le uniche “età” della vita, in contrapposizione agli “anni” dell’infanzia e della maturità. Se negli anni l’uomo possiede il potere, cioè la capacità di porsi in una posizione di dominio di fronte agli elementi del reale, chi si trova nell’adolescenza o nella vecchiaia è invece escluso da questa possibilità. In cambio, ha la facoltà di accedere a una dimensione di presenza a sé stesso, in un certo qual modo protetta dalla violenza esterna: Ma non si contano gli anni dell’adolescenza né quelli della vecchiaia, poiché non si possono contare. Adolescenza e vecchiaia sono conquiste sul tempo, imposizioni sul tempo di tonalità del discorso, stati d’animo, affetti, abitudini di comportamento, che trovano dentro di sé la propria norma atemporale. Questo non significa affatto che essere in un’età anziché avere degli anni, essere un’adolescente o un vecchio anziché un bambino o un uomo “maturo”, sia più piacevole, offra vita più comoda. Si direbbe quasi ovvio il contrario.96

Il discorso impostato qui da Furio Jesi può apparire spiazzante. Eppure, come definire altrimenti la condizione di chi si rifiuta di accettare le regole che determinano il funzionamento della società borghese (in vari punti del suo saggio Jesi precisa che questo discorso vale solo ed esclusivamente per i «rapporti fra uomo, tempo e potere nell’ambito della società borghese»), e si impegna in un continuo ripensamento della propria situazione, chiudendosi così in un limbo che è – di necessità – anche temporale? Si tratta, di fatti, di una «norma atemporale» all’interno della quale non si è costretti a misurarsi con il funzionamento del potere, non si è 95 96

F. Jesi, Su uno scritto giovanile di Lukács, in «Nuova corrente», n. 71, 1976, pp. 225-238: 225. Ivi, p. 232.

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costretti a entrare nella mischia della vita sociale (i campioni della vita economica, come il ricco padre di Maria Moroni, che posseggono il potere, non arrivano neppure a capire le ragioni di un’esistenza estranea al profitto, estranea alla ricerca della ricchezza: di Sergio il signor Moroni non può che limitarsi a notare che non lavora). Ma l’adolescenza non è una condizione salvifica. È un limbo, appunto. È il rifugio dei deboli, in un certo senso, di coloro che hanno preferito rinunciare alla vita, se la vita vuol dire avere i propri anni, avere il potere, giocare alla lotta mortale per il predominio. Colloqui come quello composto nelle pagine di Lukács probabilmente avvennero nella realtà – epistolari e libri di memorie inducono a sospettarlo –, all’inizio del secolo e forse anche dopo, non fra adolescenti, ma fra intellettuali o artisti che potevano aver superato la trentina.97

Intellettuali che potevano aver superato la trentina, proprio come i protagonisti di questo romanzo, che anche nella sua conclusione non ci mostra alcuna possibile uscita in positivo da questa condizione. Forse soltanto Leone e sua moglie, rinunciando ai rovelli morali, all’amore, all’autenticità, salvando il proprio matrimonio, possono finalmente abbandonare quella tonalità adolescenziale che continua a imprigionare tutti gli altri. Ma il loro è un abbandono da sconfitti – laddove la sconfitta è la perdita di ogni possibile contatto con quei valori autentici verso cui è direzionato l’anelito del romanzo. Così, senza aver offerto alcuna via d’uscita, proprio come i due principali racconti de L’essenza del can Barbone, anche Luce fredda si chiude in modo brusco e inaspettato con una morte. Il fratello minore di Clelia, Ruggero, appena giunto a festeggiare la maturità classica, si suicida saltando nel Tevere. Da tempo è oppresso dall’impossibilità di pagare alcune cambiali false, prodotte per procurarsi il denaro per mantenere un’amante e vivere così da uomo di mondo, già alla sua età, in quella stessa sofisticata società frequentata dai protagonisti più anziani del romanzo, che con il giovane liceale avevano sempre intrattenuto un rapporto di permissiva complicità. A questo punto tutto crolla, l’intero mondo di riflessione intellettuale in

97

Ivi, pp. 227-228.

182

cui Sergio e i suoi amici avevano cercato rifugio; e quell’età di solo pensiero, di continua messa in discussione di tutto, quell’età di estraneità e di non compromissione si dimostra così per quello che era: un’accettazione passiva dell’ordinamento stabilito dagli altri, da coloro che, come il padre di Maria, hanno il potere, incassano le cambiali, gestiscono le transazioni economiche cui si riduce in fin dei conti ogni rapporto umano. Non basta escludersi per non essere colpevoli: la lotta può essere intrapresa soltanto accettando i propri anni, solo sporcandosi le mani, solo interagendo con il potere. Il che ci riporta molto indietro nel nostro discorso: la rivolta (perché l’adolescenza lo è, per quanto possa assumere una posizione di passività) deve diventare rivoluzione. Ma fare la rivoluzione significa anche rinunciare alla purezza, usare il potere, accettare i propri anni («l’aspetto costruttivo, dittatoriale della rivoluzione», di cui parlava Benjamin).

2.4 Desiderio, sogno, azione

Se la morte di Ruggero ci dimostra il fallimento dell’adolescenza (della rivolta) come risposta alla brutale inautenticità della vita borghese, vi è anche altro, nel romanzo, che si presta a essere letto come un possibile punto di fuga, come un qualcosa che, pur non eliminando quella qualità essenziale di ogni costruzione romanzesca che è l’insuperabilità della falsità del mondo e la separatezza dei valori autentici, ci mostra come, praticamente, la rivolta possa avviarsi a divenire rivoluzione. Sto parlando ovviamente di Clelia, del personaggio che introduce nella narrazione un elemento prettamente surrealista, proprio come ella stessa può essere considerata un riferimento alla Nadja di Breton, figura centrale dell’omonimo romanzo pubblicato nel 1928 (ovvero a ridosso della composizione di Luce fredda). Soltanto Clelia, di fatti, giunge a spezzare quella dura scorza del reale che Sergio inutilmente ha provato a penetrare con le armi della riflessione. La riflessione razionale, che non sa abbandonarsi a quegli strati della psiche che precedono

183

l’elaborazione cosciente, che non sa abbandonarsi al sogno, non ha alcuna possibilità di andare oltre la superficie maligna della realtà. Clielia instaura con Sergio un vero e proprio rapporto telepatico. Lui sa in anticipo quando lei verrà, e può addirittura chiamarla con la mente per vedersela comparire d’avanti: E colle labbra, come mormorando una preghiera, Sergio disse sottovoce: «Clelia, ti aspetto, vieni… è certo che tu verrai… Clelia!...» E, come volevasi dimostrare, la porta si aprì senza rumore e Clelia apparve simile a un’apparizione…98

Quando Clelia è con lui le leggi del mondo sembrano non valere più, sostituite, surrealisticamente, da una dinamica alla base della quale c’è sempre il desiderio: «Quando mai nella vita di Sergio il desiderare e il porre in atto sono stati così strettamente abbracciati in un mondo così docilmente obbediente malleabile e tenero sotto le sue dita da artista».99 Compaiono così alcuni elementi tipici della poetica (e della pratica) surrealista, come l’atto gratuito: «Vogliamo rompere il boccaletto dell’acqua? Ecco: non è ancora formulato questo desiderio che già la mano ha eseguito e la stanza è mezza allagata: benissimo»,100 o i dispositivi cui è stata sottratta la funzione originale per la quale erano stati costruiti, sostituendola con un uso poetico, irrazionale, o meglio anti-razionale (ovvero dotato di una razionalità di segno opposto a quella di partenza): Sergio possiede un cuscinetto a sfera, di quelli che trovano i più disparati impieghi nel mondo della meccanica. Lo inchioda alla spalliera della sedia, lo fa girare mentre è disteso sul letto: Oggi sì che basta dargli un colpetto perché al ronzio del suo girare vorticoso, tutta la stanza si trasformi in un’altisonante officina: ormai è certissimo che non è una posa dinanzi a se stesso, il nuovo Sergio così ricco di

98

U. Barbaro, Luce fredda, cit., p. 149. Ivi, p. 148, cors. mio. 100 Ibidem. 99

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potenza evocatrice, l’amore per quel ronzio che costituisce davvero la più dolce musica che si possa ascoltare.101

«Il sogno ha debordato nella vita».102 E in questa dimensione intermedia tra sogno e realtà, pare cadere, finalmente, anche la maledizione dell’individualismo, delle soluzioni sempre fallimentari proprio perché individuali: questo spazio è, di fatti, innanzitutto uno spazio di incontro con l’altro. Ma Sergio non coglie questa possibilità, e forse non è possibile coglierla nel romanzo, poiché qualsiasi soluzione prospettata come reale verrebbe assorbita nella falsità del mondo. Solo nella separazione, è lecito tenere aperta quella possibilità. E di fatti, per Sergio e gli altri personaggi di Luce fredda, essa sembra perdersi definitivamente. Ruggero si è suicidato, Clelia, in un accesso di follia, ha provato a uccidere il padre ed è stata rinchiusa in un istituto (questo avvenimento non può che essere significativo: Clielia, il principio dell’antirealtà, si scaglia coltello alla mano contro il padre usuraio e affarista). In tutto ciò, com’era facilmente prevedibile, Sergio crede di ravvisare finalmente la tragedia. «In quel piccolo cerchio, in quel piccolo mondo di miseriole, ecco apparire finalmente la tragedia. La grande ed alta tragedia nel mondo degli adattamenti, degli equivoci, della commedia e della pochade»103 (La tragedia, questa somma aspirazione degli adolescenti, questa unica via per la vita autentica – probabilmente la categoria più abusata nei dialoghi di cui parlava Jesi). «Scostarsi di dosso tutto questo intellettualismo!». L’illusione, il fallimento raggiungono così il culmine; e il romanzo può dirsi concluso: tutti i propositi di Sergio («mi getterò nell’azione, costi quel che costi»)104 non bastano, ovviamente, a far sì che cambi qualcosa. Anche quel suicidio, come tutto il resto, è stato inutile. La storia si chiude con l’addormentarsi del giovane e con la descrizione di un sogno in cui egli si vede precipitare verso acque marine – disturbato dall’emergere inquietante delle figure femminili della sua vita – e si osserva poi puntare il revolver al petto del suicida Ruggero. Ma all’esplodere del colpo è Clelia a cadere morta «mentre il

101

Ivi, pp. 146-147. Ibidem. 103 Ivi, p. 243. 104 Ibidem. 102

185

vecchio Roggi li guardava con occhi perfidi».105 Roggi, l’usuraio, il padre di Clelia: il trionfo del principio di realtà. Come ogni narrazione romanzesca dunque, anche Luce fredda si chiude con un fallimento, reso ancora più amaro dall’emergere dell’illusione della tragedia, che, nel mondo del falso, non può che degenerare in monologo comico (è questo il limite cui finisce per tendere l’indiretto libero di questo romanzo). Ma non vi era forse altra via percorribile per il narratore: se dall’impasse che imprigionava i suoi personaggi non c’era via d’uscita, il romanzo poteva mantenere vivo un legame con l’altrove, con la speranza che la rivolta si trasformi finalmente in rivoluzione, solo dimostrando la deleteria falsità di quella teoria che vede nella tendenza al sogno il principio dell’inazione (è in fondo questa la banale conclusione del ragionamento finale di Sergio). «Ma chi, chi ha potuto andare a ficcarsi nel cranio che il sogno si oppone all’azione? Il sogno si oppone all’assenza di sogno e l’azione alla non azione».106

105 106

Ivi, p. 245. L. Aragon, Trattato dello stile (1928), Firenze, Alinea Editrice, 1993, p. 109.

186

CAPITOLO 2

L’esperienza avanguardista di Dino Terra

Vecchio oceano, gli uomini, malgrado l’eccellenza dei loro metodi e nonostante l’aiuto dei mezzi d’indagine della scienza, non sono ancora riusciti a misurare la vertiginosa profondità dei tuoi abissi; ne possiedi alcuni che le sonde più lunghe, più pesanti, hanno riconosciuto inaccessibili. Ai pesci... è concesso: agli uomini, no.

Lautréamont

1. Un tema di introduzione: La vita negli abissi e I falsari di Gide

Philip posò il volume e prese dal taschino interno il taccuino e la penna stilografica. «Le femmine della rana pescatrice» scrisse «portano attaccati al corpo i maschi nani parassiti. Dedurre l’evidente similitudine con il nostro Walter che insegue la sua Lucy. Immaginare la scena in un acquario: arrivano con un amico zoologo, il quale indica le rane femmine e i loro compagni. Penombra, pesci: sfondo suggestivo». Stava per riporre il taccuino, quando gli venne un’altra idea. Annotò anche quella: «Ambientazione nell’acquario di Montecarlo; descrizione del Principato di Monaco e di tutta la Costa Azzurra in chiave di mostruosità degli abissi».1

1

H. Huxley, Punto contro punto (1928), Milano, Adelphi, 2011, p. 353.

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Continuamente preoccupato di scandagliare la realtà che lo circonda con i gelidi occhi dell’osservatore scientifico, lo scrittore Philip Quarles, uno dei molti protagonisti del romanzo Punto contro punto di Aldous Huxley,2 immagina di utilizzare le mostruosità degli abissi come modello per descrivere un ambiente umano (in questo caso la Costa Azzurra): la vita degli abissi, con le terribili creature di cui è popolata, può rivelarsi molto interessante per chi sia alla ricerca di riferimenti scientifici da applicare alla realtà. Si tratta, infatti, di uno scenario estremamente remoto, precluso all’occhio dell’uomo e per lui pressoché impossibile da raggiungere. Eppure anche lì si trovano forme di vita: le creature dette batipelagiche, che abitano, cioè, al di sotto della soglia di profondità che la luce riesce a raggiungere. Ora, l’interesse del romanziere huxleyano non scaturisce dal fatto che questi esseri presentino forme lontanissime da quelle con cui siamo abituati a confrontarci (frutto di condizioni di esistenza del tutto particolari, con enorme pressione e mancanza completa di luce), quanto dalla possibilità di verificare che la brutalità che sembra pervadere nel profondo tutti i rapporti umani, derivi in modo diretto da una forma di violenza primaria che caratterizza la vita in tutti gli ambienti, da quelli più favorevoli (i salotti piumati dell’alta società), fino ai più remoti abissi marini. Nel 1933, Dino Terra pubblica, presso la casa editrice Ceschina di Milano, il suo primo romanzo davvero maturo, Metamorfosi, ponendovi a mo’ di prologo un capitolo intitolato Tema di introduzione, che comincia così: Anche negli abissi marini, dove l’oscurissima notte non conosce la contaminazione del giorno, migliaia di metri, dunque, sotto la superficie, la vita animale procede secondo il suo destino. In quelle regioni profonde il tempo si avvicina all’essenza sopraterrena, ivi è abbandonato il giuoco dei giorni e delle stagioni, una costanza d’ambiente degna di quella oscura notte che è più antica del primo uomo. Molluschi, echinodermi, crostacei, vermi, pesci, vivono in quelle regioni oceaniche, e sono più lontani dai nostri paesi che noi dalle Pleiadi. A tanta profondità la vita vegetale scompare, quindi gli abitatori sono carnivori o si 2

La prima versione italiana comparve nel 1933, presso l’editore milanese Sonzogno, con la traduzione di Silvio Spaventa Filippi.

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nutrono di detriti. Un mondo di perpetua calma dove la solita guerra per vivere appare più spietata che altrove. I pesci batipelagici delle zone oscure, abituati a una fauna scarsa, possono restare lungo tempo senza cibo, in compenso sanno approfittare pienamente della caccia; e alcune specie fornite di bocca e stomaco straordinariamente dilatabili, inghiottono in un boccone pesci più grandi di loro, magari della stessa famiglia. Fame negra maledetta.3

A questo punto il narratore passa a descrivere le mostruose trasformazioni che le creature degli abissi subiscono qualora trasportate in superficie, laddove l’enorme sbalzo di pressione, «si tratta di migliaia di atmosfere», provoca un istantaneo disfacimento del corpo, che si dilata e si disarticola: «la vescica natatoria esce dalla bocca come un pallone e qualche volta scoppia». La fauna dell’abisso è destinata a rimanere per sempre lontano dalla luce, «poiché ogni cosa è condannata al suo limite». Eppure, forse, una stilla d’acqua respirata da una di queste creature, attraverso una migrazione cominciata in tempi remoti, potrebbe giungere un giorno fino alla battigia di una spiaggia, fino a lambire i nostri piedi. Ed è proprio cogliendo l’approdo di quella stilla, culmine di un viaggio «che potrebbe essere cominciato all’alba del quaternario»,4 che prende dunque avvio il racconto di Terra, con l’apparire di un ragazzo in marcia sul bagnasciuga al tramonto, che poggia il piede, inconsapevole, laddove si è fermata una goccia d’acqua respirata all’inizio di questa era da una creatura abissale. Il romanzo di Aldous Huxley citato all’inizio di questo paragrafo era certamente noto a Dino Terra (anche prima della comparsa della versione italiana) – da sempre attento alla letteratura europea contemporanea – anche perché grande risonanza aveva avuto la sua pubblicazione nell’ambiente immaginista, laddove, solo per fare un esempio, Umberto Barbaro considerava lo scrittore inglese uno dei romanzieri viventi di maggiore rilevanza.5 Tuttavia, l’immagine dei pesci abissali non compare per la prima volta, in questi anni, nel romanzo di Huxley, bensì in un altro dei punti di riferimento della narrativa sperimentale degli anni Venti-Trenta, 3

D. Terra, Metamorfosi, Milano, Ceschina, 1933, pp. 9-10. Ibidem. 5 Si veda l’articolo Nota su Huxley, in «Occidente», II, vol. 5, ottobre-dicembre 1933; pp. 143-144, dove, accanto a Punto contro punto, viene non a caso citato anche I falsari di Gide. 4

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ovvero I falsari di André Gide, opera che aveva avuto un peso fondamentale, del resto, per l’elaborazione di Punto contro punto e, come vedremo, per tutta la produzione letteraria del Dino Terra. Nel romanzo di Gide, pubblicato nel 1925, uno dei personaggi più enigmatici, Vincent Molinier – non a caso destinato a compiere più tardi, in prima persona, una vera e propria discesa negli abissi – affascina durante una cena i suoi fatui interlocutori con discorsi incentrati sulla storia naturale, e in particolare (e qui il tono si fa allucinato) sulla vita degli abissi: La luce del giorno senza dubbio lo sapete, non penetra molto addentro nel mare. Le profondità sono tenebrose… Abissi immensi, che, per lungo tempo, sono stati creduti inabitati, più tardi invece i dragaggi hanno portato alla luce da queste regioni infernali, una massa di animali strani. Animali ciechi, si pensava. Che bisogno c’è del senso della vista, nel buio? Evidentemente essi non avevano occhi; non potevano e non dovevano averne. Eppure ad un esame attento si è constato con stupore che alcuni di essi hanno gli occhi […]. Ed ecco che si scopre finalmente come ognuno di questi animali, che dapprima si pretendevano oscuri, emetta e proietti davanti a sé, intorno a sé una propria luce. Ognuno di essi rischiara, illumina, irradia. Quando nella notte, estratti dal fondo dell’abisso, venivano rovesciati sul ponte della nave, la notte era tutta abbagliata. Fuochi mobili, vibranti, versicolori, fari girevoli, scintillio d’astri, di gemme, di cui, dicono quelli che li hanno visti, niente saprebbe eguagliare lo splendore.6

Questo testo dovette catturare con grande forza l’immaginazione di Dino Terra, che aveva conosciuto André Gide di persona, durante uno dei suoi frequenti soggiorni nella capitale francese, e certamente nel 1933 meditava su I falsari già da alcuni anni – non a caso è possibile riscontrarne l’influenza anche in opere precedenti.7 Come ha scritto François Bouchard, notando la derivazione del Tema di

6

A. Gide, I falsari (1925), Milano, Bompiani, 2010, pp. 143-144. Paolo Buchignani ha messo in risalto l’importanza de I falsari per la composizione del romanzo Ioni, uscito per la casa editrice Alpes di Milano nel 1929, nell’articolo Dino Terra scrittore «immaginista» 7

190

introduzione di Metamorfosi dal capolavoro di Gide, sussiste una sostanziale differenza tra le due “descrizioni abissali”: «al contrasto euforico tra tenebra delle profondità e bagliore del vivente che affascina il giovane medico gidiano, il romanzo di Terra preferisce l’accostamento consequenziale tra oscurità e scarsezza di cibo», che finisce per dare origine a «un mondo in guerra spietata, mossa dalla “fame negra e maledetta”. Questa visione disincantata della vita negli abissi si tramanda più avanti attraverso l’impostazione dei rapporti tra individui».8 Eppure, soffermandosi più a lungo sull’analisi comparata dei due romanzi, senza peraltro accantonare Punto contro punto da cui siamo partiti, è forse possibile mettere in evidenza come non si tratti unicamente della sopravvivenza intertestuale di un’immagine particolarmente affascinante, ma di uno scambio di significati più intenso, in grado di dar luogo a un tessuto interpretativo che arriva fino alla struttura profonda delle opere in questione. Non a caso, prima di ritornare, nel prossimo paragrafo, sugli esordi della carriera letteraria di Dino Terra, è opportuno qui riflettere brevemente sulla struttura semantica cui si è appena fatto cenno. Chiedersi quale sia il tema di fondo di un’opera complessa come I falsari, soprattutto in un contesto come questo, evidentemente non interamente dedicato a tale scopo, potrà giustamente apparire azzardato. Senza pretendere tuttavia di esaurire neppure lontanamente l’argomento, credo sia possibile affermare che il romanzo di Gide si origini dall’incrocio di due nodi concettuali, ovvero, da un lato, la filiazione spirituale come unico rapporto autentico tra gli uomini, visto come un primo livello di cui la scrittura romanzesca sarebbe il secondo, dall’altro la violenza primordiale, la lotta per il dominio concepita come struttura profonda di ogni altro rapporto. Per dare plausibilità a questo discorso, è a questo punto indispensabile mettere in evidenza un’apparente contraddizione, ovvero il fatto che il rapporto di amicizia che si configura come fraterno, non va ad inficiare la presenza di una filiazione spirituale (questa espressione trova ovviamente il suo primo antecedente nel simposio platonico), ma semmai a dimostrare come anche la relazione paternafiliale possa sfuggire alla violenza originaria solo se riesce a traslarsi sul piano della tra le avanguardie nella Roma del ventennio, in «Lingua e Letteratura», n. 26, primavera 1996, pp. 15-49: 44-45. Sull’argomento ritornerò nel terzo paragrafo di questo capitolo. 8 F. Bouchard, «L’acqua oscura delle grotte»: il realismo sperimentale di Dino Terra, in D. Marchesci (a cura di), La figura e le opere di Dino Terra nel panorama letterario ed artistico del ’900, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 39-52: 45.

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fratellanza (il che riguarda in primo luogo il rapporto tra amanti). Rimando l’approfondimento di questa riflessione al quinto paragrafo di questo capitolo, anche perché, come già accennato, è impossibile separarla da quella riguardante la costruzione del romanzo sperimentale gidiano, metaromanzo, come è stato definito, che accoglie in appendice, per altro, con Il diario dei falsari, la storia in presa diretta del proprio stesso farsi (ma il farsi del romanzo è presente anche all’interno del corpo principale dell’opera, che in gran parte si compone dei diari preparatori tenuti dallo scrittore Edouard, funzionali alla composizione del suo romanzo intitolato, anch’esso, I falsari). Filiazione spirituale dunque, come unico antidoto alla violenza primaria che pare minacciare dall’interno, come un fluido ribollente, tutti i rapporti umani. Se l’idea di questa violenza non pare affacciarsi nell’immagine dei pesci batipelagici di cui racconta affascinato Vincent Molinier (e che viene invece recuperata da Huxley e da Terra), sarà però proprio questo personaggio a dover ascoltare (e poi a dover vivere in prima persona, sul finire del romanzo, in modo atroce) un racconto in grado di esemplificare la violenza nel suo stato più puro. Si tratta di una storia narrata da lady Lilian Griffith, da poco divenuta sua amante, risalente all’epoca della sua adolescenza. La giovane aristocratica, allora diciassettenne, aveva vissuto la terribile esperienza di un naufragio, ed era stata tratta in salvo su una scialuppa: Il ricordo più vivo che è restato in me, un ricordo che niente potrà cancellarmi dalla mente e dal cuore: nella nostra imbarcazione eravamo, premuti uno sull’altro, una quarantina di persone; vari disperati erano stati raccolti dall’acqua così come ero stata raccolta io. L’acqua arrivava quasi all’orlo della barca. Io stavo a poppa e tenevo stretta contro di me la bimba che avevo salvata, perché si riscaldasse; e anche perché non vedesse lo spettacolo cui io era obbligata ad assistere: due marinai armati uno di ascia e uno di coltello, un coltello da cucina; e sai cosa facevano?... Tagliavano le dita, i polsi di quei nuotatori che, con l’aiuto delle corde, si sforzavano di entrare nella nostra barca. Uno di quei marinai (l’altro era un negro) si è rivolto a me che battevo i denti per il freddo, lo spavento e l’orrore: “Se ne sale ancora uno siamo tutti fottuti. La barca è troppo carica.”

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Aggiunse poi che in tutti i naufragi si è costretti a fare così ma che poi, naturalmente, non se ne parla.9

Il motivo per cui Lilian fa partecipe Vincent di questo orribile ricordo, è il tentativo di convincerlo a recedere dai suoi scrupoli: egli ha infatti appena abbandonato una donna che aspetta un figlio da lui, e che ora, senza mezzi economici e lontana dalla famiglia, versa nelle condizioni più disperate. Vincent è da poco diventato medico, ma sogna una carriera nelle scienze naturali e in particolare nella zoologia marina, per intraprendere la quale ha bisogno di denaro (pur venendo da una famiglia benestante infatti, non è ricco). Si dà il caso, però, che abbia appena vinto un’ingente somma al gioco. Tuttavia, i suoi scrupoli morali gli imporrebbero di donare quel denaro all’infelice amante abbandonata, quel medesimo denaro che potrebbe costituire l’avvio di una promettente carriera. Ma la nuova amante, l’aristocratica che ha guardato diciassettenne nel cuore di tenebra della vita, lo convince a desistere. A pensare a sé, a non andare a fondo per sentimentalismo: E quando a bordo dell’X, che ci raccolse, ripresi i sensi, compresi che non ero più la stessa, che non avrei più potuto essere come prima una ragazza sentimentale; compresi che avevo lasciato affondare una parte di me stessa colla Bourgogne, che ormai avrei mozzato le dita e i polsi a tanti sentimenti delicati per impedire ad essi di salire e di sommergere il mio cuore.10

Chi è nella barca, al sicuro, non può farsi impietosire dalle mani dei disperati che tentano di trovare un appiglio che li salvi da una morte certa. Non solo, è suo dovere adoperarsi per favorire quella morte, poiché anche una sola persona in più può voler dire la fine dell’imbarcazione di salvataggio e di tutti coloro che vi si trovano a bordo. Questo è l’insegnamento che ha tratto Lilian dalla terribile avvenuta del naufragio, un insegnamento che probabilmente sono in molti a conoscere, ma di cui non si parla (proprio come di Kurtz e dell’orrore non potrà raccontare il Marlowe di Cuore di tenebra, nei tranquilli salotti che accoglieranno il suo ritorno in Europa):

9

A. Gide, I falsari, cit., pp. 60-61. Ibidem.

10

193

«Aggiunse poi che in tutti i naufragi si è costretti a fare così ma che poi, naturalmente, non se ne parla». La terribile lotta per la vita, che Dino Terra richiama nel proprio tema di introduzione, ambientandola tra le creature degli abissi, non è dunque un nodo concettuale estraneo al romanzo di Gide, ma ne costituisce semmai, come abbiamo visto, uno dei fondamenti.11 Allo stesso modo, quella che ho definito filiazione spirituale, ovvero lo speciale rapporto pedagogico scevro però da ogni autoritarismo di tipo paterno, fatto di libera elezione, di amore che è amore di amanti e allo stesso tempo di fratelli (e che in Gide viene naturalmente declinato secondo la figura della relazione omosessuale), e che tende al miglioramento di entrambi nella reciproca liberazione dalla violenza primaria di cui tutti sono originariamente pervasi, non manca di comparire e di giocare un ruolo determinante all’interno di Metamorfosi. A questo punto mi sembra però opportuno sospendere momentaneamente la linea di questo ragionamento e fare un passo indietro fino agli esordi letterari di Dino Terra, così da potervi ritornare nel finale in modo più esaustivo.

11

Quanto all’immagine della luce emanata dalle creature abissali, ve ne è un ricordo anche nel brano di Metamorfosi citato sopra, qualche riga più avanti: «Nelle profondità del mare un pesce insegue un altro pesce fosforescente, ma dopo lungo tratto lo perde e rimane a stomaco vuoto». Ivi, p. 16.

194

2. Contraddizioni illusorie: L’amico dell’angelo, Riflessi

Nel 1927, anno di fondazione ufficiale, come abbiamo visto, del Movimento Immaginista, tramite l’uscita del primo (poi rimasto unico) numero de «La ruota dentata», le neonate omonime Edizioni fanno in tempo a pubblicare due opere di Dino Terra12 – del resto il finanziatore dell’impresa immaginista – che rappresentano il suo esordio letterario: L’amico dell’angelo e Riflessi. In entrambi i casi si tratta di testi teatrali, anche se evidentemente destinati alla lettura.13 La tematica che li caratterizza è palesemente freudiana, con la contrapposizione tra conscio e inconscio letta attraverso Nietzsche, e dunque sovrapposta a quella tra apollineo e dionisiaco (il che vira inevitabilmente il discorso verso la stilizzazione filosofico-letteraria). Nietzsche era del resto uno degli autori centrali nella formazione di Dino Terra, che aveva letto Così parlò Zarathustra già nella prima adolescenza,14 e, sebbene avesse esordito nel mondo della critica già alcuni anni prima (era il 1919, l’autore era sedicenne) con uno scritto antidannunziano, intitolato D’Annunzio e il caso Fiume, orientato verso un moralismo di ascendenza vociana,15 non era affatto alieno da un nietzscheanesimo piuttosto semplificato e filtrato attraverso l’estetismo del Vate,16 nonché, come era accaduto per molti della sua generazione (e di quella precedente), attraverso il culto degli uomini grandi catalizzato da Carlyle. Per quanto riguarda la conoscenza approfondita del pensiero di Freud, ho già messo in evidenza, nella Premessa a questa seconda parte, come essa fosse dovuta (oltre che ad una frequenza diretta, nel caso di Terra, degli ambienti avanguardistici parigini) alla presenza, all’interno del gruppo immaginista, del medico Ungherese 12

I volumi pubblicati dalle edizioni de La Ruota Dentata furono in tutto tre: ai due di Terra va infatti ad aggiungersi Inferno, esordio teatrale del duo Umberto Barbaro – Bonaventura Grassi (Roma, La Ruota Dentata, 1927), che venne rappresentato lo stesso anno (il 21 marzo) presso il Teatro Sperimentale degli Indipendenti di Bragaglia; cfr. A.C. Alberti, S. Bevere, P. Di Giulio, Il Teatro Sperimentale degli Indipendenti, cit., pp. 296-299. 13 I due drammi non vennero mai rappresentati, ma, data la grande vicinanza dell’autore a Bragaglia e al suo teatro, ciò non sarebbe stato certo difficile, qualora ci fosse stata da parte sua un’aspirazione in tal senso. 14 D. Terra, Fantasmi veri, Pisa, ETS, 2004, p. 19. 15 Cfr. D. Marcheschi, La figura e le opere di Dino Terra: originalità e complessità di un protagonista del Novecento letterario, in La figura e le opere di Dino Terra, cit., pp.7-38: 14-19; P. Buchignani, La rivoluzione di Simonetti-Terra: dal giacobinismo all’«immaginismo», ivi, pp: 103-139: 108-112. 16 Secondo quanto riportato da Buchignani, ivi, p. 112, che si basa su una dichiarazione resagli oralmente da Terra, quando lo scrittore pochi anni dopo entrò nell’orbita del partito comunista, provvide a distruggere questo scritto (una copia è stata tuttavia rinvenuta tra le sue carte), che evidentemente era ideologicamente in contraddizione con la radicalizzazione delle sue posizioni.

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Miklos Sisa,17 funzionario dell’ambasciata sovietica, che era stato ammesso a frequentare le lezioni di Freud a Vienna, su diretta raccomandazione di Ferenczi.18 A differenza della tematica Nietzscheana, evidentemente più legata ad una passione adolescenziale e destinata ad affievolirsi con il passare degli anni (soprattutto per quanto riguarda il versante superomistico), le idee freudiane continueranno a permanere e a essere approfondite nell’opera di Terra: è del resto evidente che la più tarda immagine delle creature che nuotano nell’abisso, da cui prende avvio questo capitolo, è anche una rappresentazione dell’inconscio e dei suoi contenuti profondi (non è irrilevante ricordare questa persistenza, soprattutto perché essa testimonia che già all’altezza di queste prime opere, per quanto diluita di superomismo ed estetismo, la tendenza psicanalitica di Terra fosse nutrita di un interesse serio e profondo). Ma veniamo alle opere. L’amico dell’angelo comincia all’interno di una casa di tolleranza, dove la protagonista femminile, La Bella ed Elegante Giovane, è in procinto di vendere la propria verginità di fanciulla onesta in cambio del denaro necessario al mantenimento di una famiglia disagiata. La tristissima condizione della ragazza viene del resto presentata dalla padrona di casa come un articolo raro e particolarmente apprezzabile per i clienti, che sarebbero disposti a pagare un alto prezzo per cogliere un fiore tanto inusuale per un bordello. Ad accettare subito la proposta della maitresse è il protagonista maschile, L’Amico dell’Angelo, cui dunque la giovane si concede all’inizio del dramma. L’intimità dei due è tuttavia turbata (ma la deflorazione si è già consumata) dal sopraggiungere dal terzo protagonista, Il Vecchio Distinto, un anziano signore di buoni principi, costretto, da quello che lui definisce il diavolo, a recarsi in quel luogo per compiere le azioni più turpi (come spiare o interrompere due amanti, oltre a frequentare le ragazze, ovviamente). Per difendersi dall’indignazione dell’Amico dell’Angelo, il Vecchio Distinto narra ai due giovani i suoi tormenti, la sua sofferenza per l’essere costretto a seguire i comandi dell’entità malvagia che lo guida. Al che il giovane risponde:

17 18

Sisa figura come dedicatario del romanzo Metamorfosi. Cfr. Premessa alla parte seconda.

196

Sciocchezze. Niente di anormale nella sua vita. Anzi, caso mai, avendo lasciato libero corso al «misterioso impulso», vita eccezionalmente normale. Invece colui che crede di essere creato per altro, per le «vette altissime» è l’anormale,

che

ripudia

e

non

riconosce

la

vita

semplicemente qual è. E la sforza, la calpesta per ricercare quello che essa non ha, e finisce creando delle fantasticherie e barocche costruzioni, assolutamente irreali, di nessuna utilità, fuori della realtà, nel nulla.19

È già subito evidente, dunque, la raffigurazione degli impulsi sessuali inconsci nell’immagine del diavolo che perseguita il Vecchio Distinto (e che gli fa compiere dei veri e propri acting out: all’inizio del dramma viene addirittura sorpreso a scarabocchiare sulle pareti del bordello). Sennonché, come appare evidente dal nome scelto dell’autore, anche il giovane che ha appena irriso il vecchio risulta essere vessato da una serie di impulsi inconsci, anche se si tratta di quelli propri del super-io, l’ “angelo”, che come egli stesso ci dice, fino a poco tempo prima lo costringeva a comportarsi secondo i virtuosi dettami di un’austera moralità: Io gli credevo, aveva saputo così bene impinzarmi delle sue frottole, che ne diventai non solo il seguace, ma lo studioso, ma il paladino. Ridete pure di me. «Purezza, il Bene

contro

il

Male,

Spirito,

Puro

Ideale,

Dio,

Perfezionamento, Creato, Sacro Amore» e cent’altre buaggini ridevolissime. E del tutto fuori della realtà, la vita. Guai ad accostarcisi, addio «Purezza», Guai ad entrarci, addio «Divinità». Tutto composto nell’aria e perciò costruito con aria, soltanto aria. «Puro Ideale, Perfezionamento, Spirito, Divinità» e via d seguito. Un’ossessione. Basta!20

La contrapposizione tra “angelo” e “diavolo” è tuttavia destinata a risolversi in una superiore sintesi proposta dalla Bella ed Elegante Giovane, che a sorpresa si rivela essere ben superiore al misero dramma all’ombra del quale ci era stata presentata. Non per bisogno né per denaro è infatti divenuta vittima del bordello, anzi, non è affatto una vittima. Di sua spontanea volontà si è offerta al rapporto 19 20

D. Terra, L’amico dell’angelo, Roma, La Ruota Dentata, 1927, p. 36. Ivi, p. 37.

197

mercenario per poter inaugurare una nuova forma di moralità, verso la quale il «diventare una donna» era una tappa obbligata. La nuova forma di moralità, palesemente ispirata a una lettura piuttosto superficiale di Nietzsche (il riferimento è del resto esplicito e più di una volta è nominato un fantomatico «nuovo dionisismo»), è definita dalla giovane come «morale splendente». Si tratta di un’esaltazione della vitalità a tutto campo, di cui la sessualità libera e gioiosa è ovviamente il nodo centrale: «Moralità dell’istinto, dell’appetito e del piacere dei sensi. Celebrazione massima della esistenza umana nella Divina Lussuria. Dioniso accendi il mondo, Menadi conquistatelo. Lussuria purificatrice, perché tra le sue fiamme si distruggono tutte le cose false, inutili e cattive». E ancora: la morale splendente non si cura né della politica, né dell’economia, né tanto meno bandisce il così detto ritorno alla natura: “comunismo utopistico” “neonaturien”, ecc. La Morale Splendente insegna: devi morire. Che vale la ricchezza, che vale la gloria, che vale l’amore, che vale infine la stessa felicità se devi morire?21

Insomma, la «morale splendente» è un vitalismo intriso di estetismo dannunziano, che si richiama a Nietzsche nel nome di Dioniso, a Freud per il riconoscimento della centralità del sesso, ma rimane sostanzialmente confinato in una sorta di carpe diem estraneo a qualsiasi proposito “politico”, neppure di tipo utopistico («né tanto meno bandisce il così detto ritorno alla natura: “comunismo utopistico”…»): insomma, è un individualismo che trascende ogni concreto piano di intervento sulla realtà. Di lì a poco ritroviamo La Bella ed Elegante Giovane e L’Amico dell’Angelo innamorati, ed è proprio sulla quotidianità della loro relazione che finisce per infrangersi la «morale splendente», che naturalmente non può che mancare la prova del confronto con la vita reale, con la realtà di una relazione amorosa. Così, il breve equilibrio raggiunto torna a disfarsi e ciascuno ridiviene preda dei suoi demoni: L’Amico dell’Angelo ritorna sotto l’influsso del suo antico mentore e si trasforma in una sorta di monaco asceta, il Vecchio Distinto si abbandona al suo demonio, e La Bella ed Elegante Giovane – lo scopriremo in conclusione del dramma – dopo aver 21

Ivi, pp. 46-47.

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superato il dolore per l’abbandono dell’amato, si dedica definitivamente al “mestiere” (il finale ci riserva inoltre un’ulteriore sorpresa: L’Amico dell’Angelo, inseguito dai suoi discepoli, finisce per pentirsi nuovamente della propria rinuncia alla vita, quando è ormai troppo tardi). Che considerazioni si possono trarre da quest’opera? Certamente, la pura constatazione dei riferimenti freudiani, dell’opposizione tra es e super-io, nonché l’individuazione di aspirazioni riconducibili al vitalismo estetizzante, non può in nessun caso essere vantata come un guadagno, dal momento che si tratta evidentemente di un punto di partenza, di un qualcosa che l’autore aveva voluto mettere in scena.

22

Forse, tenendo presente che la citazione posta in epigrafe del

dramma, estratta da una lettera di Leopardi a Jacopssen, fa riferimento a un pessimismo di tipo materialistico, sarebbe possibile dedurre che Terra intendesse mostrare come ogni aspirazione umana di riscatto personale dall’infelicità (la morale splendente) non possa che schiantarsi contro il destino materiale di sofferenza cui è condannata la condizione umana: «pendant un certain temps j'ai senti le vide de l'existence comme si ç'avait été une chose réelle qui pesât rudement sur mon âme. Le néant des choses était pour moi la seule chose qui existait. Il m'était toujours présent comme un fantôme affreux».23 Eppure, anche in questo caso, più che di un’interpretazione si tratterebbe di una constatazione preliminare. A mio parere, quello che è davvero importante, è che a essere sparita completamente dallo scacchiere delle possibilità esistenziali sia la dimensione politica. Ciò, trattandosi di un intellettuale come Dino Terra, che, come abbiamo visto nella premessa, aveva cominciato la propria carriera proprio impegnandosi nell’attivismo politico, sul versante della sinistra internazionalista di Barbousse e poi addirittura avvicinandosi a Gramsci e al clandestino Partito Comunista d’Italia (il suo incontro con il leader comunista risaliva ad appena un anno prima), non può che risultare estremamente significativo. Naturalmente, tenendo conto del fatto che in un’opera pubblicata in Italia nel 1927, non ci si può 22

Paolo Buchignani vi legge giustamente anche «la lezione di Pirandello ben nota a Terra: l’alienazione che affligge l’uomo moderno, prigioniero della forma, l’incomunicabilità e la dissonanza tra gli individui, una visione nichilistica e disperata della realtà riconducibile ad un materialismo pirandelliano sì, ma anche leopardiano». In Dino Terra scrittore «immaginista» tra le avanguardie nella Roma del ventennio, cit., p. 30. 23 Si tratta della lettera di Leopardi a Jacopssen del 23 giugno 1923.

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aspettare di trovare un riferimento politico esplicito a livello tematico (a meno che non si tratti di una presa di posizione in favore del regime, o quanto meno, come in Gallian, del fascismo delle origini), quella che ho definito dimensione politica va intesa nel senso in cui vi ho fatto riferimento a proposito delle novelle di Umberto Barbaro (di cui proprio in questi anni cominciava la stesura – e di cui certamente l’amico Terra era tra i primi lettori), ovvero di una consapevolezza e di una sfida all’inautenticità dell’esistenza quotidiana come occultamento dell’oppressione e della reificazione cui sono sottoposti gli esseri umani (e che è sempre, a ben vedere, il fondamento della possibilità di ogni tipo di oppressione politica). Insomma, la morale splendente che pare assurgere, in quest’opera, a unica possibile conciliazione dell’opposizione tra libero corso delle pulsioni sessuali e tirannia del super-io, tra l’angelo e il diavolo che dominano i due protagonisti maschili, può acquistare un valore reale solo se letta come controparte utopistica della realtà quotidiana degli uomini, ovvero di quella dimensione inautentica che cela ogni oppressione (psichica e politica). Certo, l’autore non manca di mostrare come l’iniziale entusiasmo dimostrato dai due amanti verso la morale splendente, finisca per naufragare proprio di fronte alla vita quotidiana, ma tale intuizione non può che andare perduta, se lo sfaldamento stesso non fa che riportare ognuno dei personaggi verso la propria schematica e (del tutto formale) ossessione. Del resto, già il fatto che la donna si fosse premurata di escludere a priori ogni valenza “politica” in senso stretto della propria idea («non bandisce alcun comunismo utopistico»), quasi a voler fugare ogni eventuale preoccupazione censoria, doveva lasciar immaginare che lo scrittore non fosse giunto, a questa altezza, a un livello di lucidità sufficiente per inquadrare a fondo i termini della questione. Il ragionamento rimane valido, a mio parere, anche se si prende in considerazione l’opera successiva, pubblicata dall’autore sempre nel 1927, ovvero il dramma riflessi (non credo che l’affinità con il romanzo di Palazzeschi vada oltre la suggestione del titolo, anche se il protagonista della vicenda di superficie potrebbe essere un Valentino uscito indenne dal crepuscolarismo). Il racconto, anch’esso in forma drammatica, è di fatti suddiviso in due piani narrativi paralleli. Il primo è denominato Frammenti di un racconto, e narra una vicenda ambientata nel mondo

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reale, che vede un giovane gaudente attraversare un breve periodo di pentimento e di esaltazione spirituale in convento, cui segue un repentino ritorno alla bella vita in società. Ognuna delle brevissime sequenze di cui si compone tale racconto, è alternata con un Riflesso interno,24 l’insieme dei quali va a costituire il secondo piano narrativo. Secondo le intenzioni dell’autore, ciascun riflesso è inteso essere, evidentemente,

la

rappresentazione

fantastica

degli

avvenimenti

interiori,

drammatizzati in una bizzarra vicenda ambientata in un reame di fantasia dove regnano Re Vita e la Regina Bella, dedicandosi al puro e genuino godimento dei sensi, fino a che non sopraggiunge un colpo di stato operato da un austero principe asceta, intenzionato a costringere l’intero regno alla mortificazione della carne, e che viene in fine sconfitto (come ho ricordato, la vicenda allegorica segue passo a passo i movimenti interiori propri delle diverse fasi della vicenda reale del giovane protagonista e della sua momentanea conversione). Probabilmente, l’idea centrale dell’opera proviene da un’espressione di uso comune che non è difficile sentir ripetere da chi parla di comportamenti apparentemente inspiegabili (soprattutto quando si tratta di rinunce e condotte masochiste) assunti da qualche conoscente, ovvero «Poveretto! Chissà quale dramma interno sarà avvenuto. Non per scherzare ci si castiga in quel modo»,25 affermazione che puntualmente ritorna nell’epilogo di Riflessi, pronunciata da un signore che commenta quanto avvenuto. Anche qui dunque, il riferimento alla psicanalisi risulta palese, anche perché il Principe asceta, dapprima vittorioso dittatore, risulta sconfitto proprio perché non riesce a resistere alla seduzione carnale della Regina Bella, dimostrando così che i propri impulsi di mortificazione e la propria granitica fede non erano che sublimazioni del desiderio sessuale represso. La particolarità dell’opera è certamente da riscontrarsi nel fatto che gli avvenimenti interni drammatizzano in modo preciso quelli esterni, al punto che, quando il protagonista ormai monaco, non essendo riuscito a resistere alla seduzione di una fanciulla, prende atto del proprio fallimento (il che corrisponde, come abbiamo visto, alla sconfitta del Principe ad opera della Regina Bella) e in un improvviso accesso di senso di colpa tenta il suicidio, 24

Nel complesso sono presenti 19 sezioni dedicate ai Frammenti di un racconto, 19 Riflessi interni e un epilogo (ricadente nell’ambito del racconto ambientato nel mondo reale). 25 D. Terra, Riflessi, Roma, La Ruota Dentata, 1927, p. 178.

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all’interno, il Principe sconfitto prova con un ordigno a far saltare in aria l’intero palazzo. Inutile dire che alla fine lo spodestato Re Vita può tornare a regnare: «All’amatissima Madre faccio voto di regnare nel maggior spasso che mi sia dato fare, per gustare sino al limite estremo delle nostre possibilità le sue infinite bontà. – questa è la mia religiosa preghiera».26 Anche qui dunque, la constatazione dello schema freudiano su cui si regge l’intera opera non può che rappresentare un punto di partenza per l’analisi, anziché un punto d’arrivo. C’è stato chi27 ha letto nella vicenda del Putsch ad opera del principe, con il suo seguito di scherani armati, un’allegoria (dunque una condanna) del fascismo, anche perché nel dramma il colpo di stato è appoggiato da personalità in vista del regno, desiderose di rovesciare il lascivo regime di Re Vita (proprio come il fascismo era stato appoggiato dalla borghesia industriale italiana). Ma vi sono troppe incongruenze e poi, anche se una velata allusione alla situazione reale era stata messa in conto dall’autore, si trattava da un qualcosa di talmente blando da sfuggire persino alle maglie dell’attenta censura di regime, sicché, essa perderebbe di base ogni valore ermeneutico per l’interpretazione dell’opera. Quello che più importa è semmai constatare come anche qui la polarizzazione della situazione esistenziale tra due estremi illusori, ovvero, da una parte la vita spensierata e gaudente della buona società, e dall’altra il fanatico ascetismo di chi rinuncia a ogni richiamo della “carne”, serve a occultare un piano di riflessione con cui evidentemente l’autore si rifiutava in questi anni di fare i conti (come vedremo, in seguito le cose cambieranno). Insomma, i termini della questione non possono in nessun caso essere libera sensualità e ascetica rinuncia, il cui punto mediano sarebbe a questo punto la noia del libertino – e il giovane Terra aveva già dimostrato di comprenderlo a fondo, non solo, come ho accennato più sopra, per via della sua recente militanza, ma anche per le riflessioni che avevano accompagnato i suoi studi sulla rivoluzione francese (argomento sul quale aveva composto la tesi di laurea), che aveva provato a interpretare come una rivolta genuinamente proletaria, stroncata

26

Ivi, p. 157. Cfr. P. Buchignani, Dino Terra scrittore «immaginista» tra le avanguardie nella Roma del ventennio, cit., p. 35; F. Finotti, Dino Terra, ultimo e primo, in La figura e le opere di Dino Terra, cit., p. 86. 27

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dall’opportunismo politico e dalla rapacità della borghesia. Non a caso, in un articolo pubblicato sulla «Rassegna Internazionale», organo del movimento clartista di Barbousse (Terra ne era stato ancora diciannovenne uno dei dirigenti per la sezione romana), in cui riassumeva le tesi del proprio saggio, aveva riportato la seguente citazione di Carlyle: Non è il morire e tanto meno morire di fame ciò che rende infelice un uomo; molti sono morti, tutti gli uomini morranno, il nostro ultimo destino essendo il carro di fuoco del dolore. Ma è il vivere miserabilmente, senza conoscerne il perché, lavorare rudemente e guadagnare nulla: avere il cuore a brandelli, essere stanco, e tuttavia sentirsi isolato, senza legame, chiusi nel cerchio di un freddo e universale laissez-faire, è il morire lentamente tutto il periodo della vita, imprigionati in una ingiustizia infinita, sorda, morta, come nei fianchi maledetti di un toro di Falaride! Ecco ciò che è, ciò che sarà sempre intollerabile per tutti gli uomini che Dio ha creato».28

Ecco, è precisamente «il vivere miserabilmente, senza conoscerne il perché», «il morire lentamente tutto il periodo della vita, imprigionati in una ingiustizia infinita», a situarsi agli antipodi della vita futile e spensierata che ci viene presentata nei Frammenti d’un racconto che costituiscono il piano di superficie di Riflessi, e non certamente l’improbabile conversione e il conseguente ascetismo. Quanto alla vicenda interna, vi è forse possibile scorgere un riferimento al dramma di Büchner La morte di Danton, plausibilmente noto a Terra, dal momento che un germanista vicino all’ambiente degli immaginisti e al teatro di Bragaglia come Alberto Spaini ne aveva da poco pubblicato una traduzione29 (che sarebbe comparsa in volume30 nel 1929), e la figura dello stesso Büchner doveva certamente trovarsi, proprio nel 1927, al centro dell’attenzione dei collaboratori del Teatro Sperimentale degli Indipendenti, 28

La citazione è riportata da P. Buchignani, La rivoluzione di Simonetti-Terra: dal giacobinismo all’«immaginismo», cit., p. 120. L’articolo sopracitato, intitolato Sguardo sul passato (Considerazioni su la rivoluzione francese) fu invece pubblicato dall’autore con il uso vero nome, Armando Simonetti (all’epoca non aveva ancora adottato lo pseudonimo), su «Rassegna Internazionale», n. 3, marzo 1922, pp. 241-246. 29 «Sulle colonne di una rassegna torinese», secondo quanto riportato da A.C. Alberti, S. Bevere, P. Di Giulio, Il Teatro Sperimentale degli Indipendenti, cit., pp. 360-361. 30 G. Büchner, La morte di Danton (1835), Lanciano, Carabba, 1929.

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dove, nel febbraio del 1928, sarebbe andato in scena il Leonce e Lena. Nella febbre ascetica del Principe-dittatore è infatti lecito scorgere i tratti sfuggenti del sinistro Robespierre tratteggiato dal drammaturgo tedesco, ossessionato dalla virtù, laddove questa non è però un’antitesi repressiva del desiderio sessuale, bensì una negazione assoluta e senza compromessi dell’inautenticità dell’esistenza quotidiana in una società che si avviava a essere contemporanea. Ma su questo problema tornerò nel finale del capitolo. Per ora, prima di abbandonare Riflessi e procedere con l’analisi delle opere successive di Dino Terra, è forse opportuno notare un altro riferimento a un celebre dramma caro alle avanguardie europee e certamente anche allo scrittore romano, che aveva fatto della liberazione sessuale, come abbiamo visto, uno dei suoi temi principali.31 Si tratta del Risveglio di primavera (1891) di Wedekind, in cui la scoperta della sensualità da parte di un gruppo di adolescenti viene stroncata dall’educazione repressiva, finendo per deviare verso la tragedia. Nell’ultima pagina di Riflessi, il protagonista, ormai tornato alla vita gaudente, compare un ultima volta in scena, nel palco di teatro ove alcuni sconosciuti stavano sparlando di lui: UNA SIGNORA Oh che combinazione, parlavamo di voi. UN SIGNORE (gioviale) Male s’intende. S’avvicina un uomo con la maschera nera. S’inchina.

La maschera che il protagonista indossa nell’epilogo, non può non far pensare al misterioso Signore Mascherato che appare in scena nel finale del dramma di Wedekind, «indubbiamente la prima figura espressionistica del teatro tedesco»32 secondo Ladislao Mittner, rappresentante della vita finalmente accettata nella sua ambivalenza mai del tutto comprensibile, fatta di bene e di male, verso la quale non si possono porre condizioni preliminari: «Non mi conoscerai, se non ti affiderai me»,

33

e che il quattordicenne Melchior sceglierà in fine di seguire, rinunciando ad

accompagnare nella morte il fantasma dell’amico suicida Moritz. Così, anche il 31

Cfr. F. Finotti, Dino Terra, ultimo e primo, cit., pp. 93-96. L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., p. 1036. 33 F. Wedekind, Il risveglio di primavera, in Teatro, cit., p. 82. 32

204

racconto di Terra si conclude con un invito a rinunciare ai dualismi e alle scelte illusorie tra vizio e virtù, segnando già la strada che lo condurrà verso la composizione di opere in grado di porre i termini della questione in modo più maturo.

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3. Sperimentazione narrativa e oblio nel quotidiano: Ioni.

Il 1929 è l’anno in cui Dino Terra compie il suo esordio come romanziere, pubblicando per la casa editrice Alpes (che nello stesso anno dà alle stampe anche Gli indifferenti di Alberto Moravia) un romanzo avanguardistico molto ambizioso, intitolato Ioni, recante in copertina (su cui campeggia un disegno di Vinicio Paladini34) il sottotitolo Qualche tempo di due umani e d’un demone. Storia con avvenimenti rari normali curiosi e straordinari – Più delle considerazioni e altre cose interessanti. Innanzitutto, a colpire immediatamente l’attenzione del lettore è la costruzione a incastro in cui è articolata la storia. Il primo narratore racconta infatti del suo incontro, avvenuto casualmente in una strada di Londra, con un demone nudo e verde che lo bacia sul collo scambiandolo per un'altra persona. Da qui in poi è il demone stesso che prende a raccontare la storia dell’uomo che aveva creduto di intravvedere nel primo narratore, e della relazione amorosa di costui, Ramik, con una donna di nome Jone: «Una cosa tanto banale, ma pure… Una storia comune, normale come la morte. Qualche tempo fra una donna qualunque e un uomo un po’ speciale, ma fatto come gli altri. E forse per questa profonda naturalezza acquista il suo significato universale».35 L’espediente più originale attraverso cui è dispiegata la narrazione, non è in ogni caso la cornice, per quanto grottesca, quanto il fatto che il punto di vista del narratore, ovvero il demone, risulti mobile sia a livello spaziale che, per così dire, mentale. Egli ha infatti la capacità di possedere Ramik, ovvero di vivere al suo interno, adottandone la visuale e sentendone i pensieri, ma, e questo è importante, solo quelli consci: non può cioè avventurarsi nelle profondità del suo inconscio (così che il narratore, pur evidentemente esperto di psicanalisi, sarà dispensato dal darci a tal proposito riferimenti troppo palesi, che finirebbero per appesantire la resa del racconto). Allo stesso tempo, il demone ha sempre la possibilità di uscire dal corpo dell’uomo, regalandoci panoramiche e visioni esterne all’azione. In realtà, non è difficile rendersi conto che già in quest’opera pesa in modo determinante la lettura de I falsari di Gide, e che l’espediente del demone può essere stato suggerito all’autore 34

Un bellissimo fotomontaggio di Paladini aveva fatto da copertina anche a L’amico dell’angelo. D.Terra, Ioni. Qualche tempo di due umani e d’un demone. Storia con avvenimenti rari normali curiosi e straordinari – Più delle considerazioni e altre cose interessanti, Milano, Alpes, 1929, p. 5. 35

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dalle svariate apparizioni di questa figura all’interno di tale romanzo, che proprio alla presenza ironica del diavolo affida il verificarsi di piccoli eventi o di rivolgimenti interiori che fanno precipitare i personaggi verso il proprio destino.36 In ogni caso, a essere determinante non è di per sé la figura del demone, quanto il fatto che Terra se ne serva per riprodurre lo status del tutto particolare della voce narrante gidiana, che costituisce uno dei non pochi motivi di fascino de I falsari, e che pare descrivere lo svolgimento dell’azione da un punto di vista mobile, ora da conoscitore interno dei personaggi, ora da vero e proprio spettatore esterno (a volte dà addirittura l’impressione di osservare la vicenda su uno schermo cinematografico), in grado anche di esprimere opinioni come questa: «Lilian mi infastidisce abbastanza quando fa così la bimba»,37 subito dopo aver descritto la gioia della donna all’apprendere della vincita al gioco del (futuro) amante Vincent. Insomma, il demonio verde è un modo di rendere tematico un aspetto formale del romanzo di Gide,38 potendo così evitare di riprodurne pedissequamente (anche perché non sarebbe stato certamente facile!) la tecnica narrativa. Inoltre, l’inserimento all’interno della narrazione di lettere scritte dai due protagonisti, rende ancora più evidente la volontà di andare nella direzione del romanzo sperimentale frutto di un vero e proprio montaggio di materiali come I falsari, ma che rimane in questo caso troppo timidamente abbozzato (Terra riproverà con più successo questa strada in Metamorfosi). Ma in cosa consiste questa vicenda annunciata già dalla copertina del volume come rara, normale, curiosa, straordinaria? Ramik è diretto a Roma per portare a compimento un’opera non meglio specificata ed egli stesso è uno straniero le cui origini non ci vengono chiarite. Decide tuttavia di fermarsi in una prestigiosa località 36

Lo ha notato Paolo Buchignani, che tuttavia fa riferimento ad un unico passo de I falsari, mentre le apparizioni del diavolo risultano essere molteplici (Dino Terra scrittore «immaginista», cit., p. 45); basti ricordare un episodio come questo: «Ma il demonio non permetterà che egli si perda; fa scivolare sotto le dita ansiose di Bernard che frugano di tasca in tasca un abbozzo di disperata ricerca, una monetina da dieci soldi, chissà da quanto tempo dimenticata nel taschino del gilè». A. Gide, I falsari, cit., p. 79; ma si confronti anche il seguente passo del Diario dei falsari: «desidero crearne uno (il diavolo) che circola, in incognito, attraverso l’intero libro. La sua realtà dovrebbe tanto più affermarsi quanto meno si crede in lui. Questa è proprio una particolarità del diavolo, il suo modo di accostarsi a noi è: “Perché mi dovresti temere? Sai bene che non esisto”»; ivi, p. 386. 37 Ivi, p. 50. 38 «Il diavolo narratore di Terra, così come il narratore del testo gidiano, è un osservatore distaccato, che commenta ciò che va narrando, che riflette sui meccanismi e sui limiti della narrazione, sul rapporto tra letteratura e vita; è un narratore consapevole della parzialità del suo punto di vista e non ne fa mistero al lettore; egli sovente si interroga sugli avvenimenti e sui personaggi del romanzo che sta costruendo, si rammarica di non poter sapere tutto, dice che vorrebbe saperne di più». P. Buchignani, Dino Terra scrittore «immaginista», cit., pp. 44-45.

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di villeggiatura in riviera (presumibilmente si tratta della Versilia), dove prende alloggio in un albergo di lusso e comincia a frequentare la società elegante che vi soggiorna. Qui incontra Jone, una donna sposata (anche lei straniera) in vacanza insieme al figlio piccolo. Tra i due comincia una storia d’amore estremamente passionale, che fino alla fine della vicenda non lascerà nemmeno per un attimo l’ambientazione aristocratica, alto borghese, fatta di grandi alberghi, ristoranti, vetture con autisti, gite in campagna, ecc. Ma perché il demone ha scelto Ramik? Perché un essere che millanta di annoiarsi da millenni, si è finalmente sentito attratto da questo umano, perché l’ha trovato diverso da tutti gli altri? Il primo impatto soddisfacente che il demone ha con il protagonista maschile (poco dopo apprenderemo che egli non ha il potere di entrare all’interno delle donne, che vengono possedute da demoni di altro tipo a lui sconosciuti – la donna potrà essere percepita dunque sempre soltanto da un punto di vista esterno), avviene in prossimità di una visita all’acquario (prima che egli sia giunto nel luogo di vacanza ove incontrerà Jone): E sembrava che nulla potesse interessarlo. A torto però, che un giorno entrò in un acquarium. Oh caro il mio uomo! Come osservava le vetrine di quell’esposizione zoologica! La corrente sanguigna gli si accelerava; fin la colonna spinale riceveva gli effetti della visita; e si formavano certe immagini! Ripensò alla dilettevole società Pagarus e delle Attinie dell’Acquarium di Napoli, poi cercò l’octapus vulgaris (non mi ricordo il nome corrente) gioì trovandolo in movimento, poi tornò indietro per rivedere… e ancora. E quanto si trasmutava, cosa vedeva, che architettava! Che accelerazione nei motori cerebrali. Saltai fuori, avevo pensato che irraggiasse, che attorno al suo capo si vedesse l’aureola… ma no, affatto, era stata una mia supposizione sbagliata.39

A dire il vero non appare perfettamente chiara l’origine della carica di entusiasmo che spinge il demone a saltare fuori dal suo uomo, colpito da tanta intensità. Allo stesso modo, mi sembra che la caratteristica principale dell’intero 39

D. Terra, Ioni, cit., pp. 13-14

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romanzo sia la costante delusione delle attese del lettore, cui era stata prefigurata all’inizio una storia almeno per qualche verso straordinaria, così come un uomo fuori dall’ordinario doveva essere Ramik. In realtà, al di là della incidentale contemplazione degli animali marini in prossimità dell’acquario – che non può non farci pensare, anche se qui ancora piuttosto alla lontana, al tema di introduzione gidiano che aprirà Metamorfosi (ma anche Punto contro punto era già stato pubblicato, nel 1928), e che ci fa intuire una qualche profondità riflessiva passibile di essere ulteriormente sviluppata – per tutto il prosieguo della narrazione Ramik non potrà che deluderci, dimostrandosi soltanto l’ennesimo esteta annoiato, o tutt’al più un uomo del sottosuolo (ma ben al riparo da ogni miseria materiale), un inetto primonovecentesco ammalatosi di troppa riflessione: sapeva bene che era circondato dalla società e dunque doveva viverci il meglio possibile, nascondendole quanto la disprezzasse. E vi era abituato, sapeva sorvegliarsi tutto il tempo che voleva, senza mai sgarrare e senza neppure affaticarsi. Riusciva a sembrare uno qualsiasi. E poteva divertirsi, divertirsi, divertirsi; pur rimanendo sempre stanco. Mi trovavo in una macchina abbastanza curiosa.40

Logico che in questo caso l’unico antidoto alla noia e all’infelicità perenne non possa che essere la passione amorosa vissuta come totalizzante abbandono all’istintualità,

il

che

non

vuol

dire

però

rifiuto

del

romanticismo

e

dell’idealizzazione dei minimi dati della coscienza. Con queste premesse, è inevitabile che Ramik si imbatta nella propria controparte femminile, Jone, la Femmina allo stato puro (ovviamente imparentata con la Lulù di Wedekind), il principio femminile originario (in ambito induista “Joni” è il nome della simbolo della femminilità41), con la quale instaura da subito un rapporto totalizzante, che assorbe entrambi completamente: era sempre eccitato, e ancora non riuscivo a comprenderne la ragione, tanto più che adesso non era più specificamente un avvivamento di tipo sessuale. E allora da 40 41

Ivi, pp. 22-23. Cfr. P. Buchignani, Dino Terra scrittore «immaginista», cit., pp. 40.

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dove nasceva?... Forse… nell’eredità lontanissime, indietro di centinaia di secoli, nelle incoscienti esperimentazioni d’umanizzamento… la donna primordiale, il passaggio dalla bestia alla donna, i residui della bestia nella donna. Eppoi forse ancora risaliva indietro centinaia e milioni di migliaia d’anni, oltre i semplici vertebrati, fino alla cytula; per intravedere in una buia vertigine la schiacciante eredità che li incombe e li avvolge.42

Del resto, oltre al riferimento al principio femminile induista, il titolo Ioni allude agli atomi instabili per mancanza o sovrabbondanza di elettroni, e che tendono perciò inevitabilmente a essere attratti e ad attrarre altri atomi, riunendosi all’interno di legami molecolari. Quello che stupisce però, è che il demone, dapprima dichiaratosi annoiato del mondo degli uomini, vada in visibilio per la passione di Ramik e Jone: «Li avrei portati nella nostra società sovrumana, ne erano degni. Assicuro che se tutti gli umani rassomigliassero a loro, tutti noi potremmo riabituare la terra, e palesemente».43 Insomma, l’origine dei mali dell’umanità sembra qui ridursi all’inibizione sessuale, che impedisce agli uomini di divenire sovrumani, semplicemente abbandonandosi ai loro istinti. È necessaria a questo punto una precisazione. Per un romanzo comparso alla fine degli anni Venti, la tematica della liberazione sessuale (peraltro al centro dell’opera di Dino Terra, come abbiamo visto, fin da L’amico dell’angelo) poteva essere certamente un elemento dirompente, così come lo sarà ancora nei decenni successivi, e in misura ancora maggiore nel secondo dopoguerra (e fino ai giorni nostri). Se ho definito deludente lo sviluppo del romanzo, è perché tale tematica non viene portata avanti in modo trasgressivo, cioè non assume in nessun caso una carica eversiva nei confronti dell’ordine costituito della società in cui due protagonisti vivono. Si tratta di un comune adulterio (per Jone), perfettamente accettato nell’alta società, purché mantenuto nei limiti del rispetto formale del decoro (come i due puntualmente fanno, premurandosi di non dare scandalo e di nascondersi sempre agli occhi indiscreti, sebbene, naturalmente, tutti sappiano). Il fatto che venga descritto in modo piuttosto audace (ma in misura minore rispetto a quanto ci si potrebbe 42 43

D. Terra, Ioni, cit., pp. 22-23. Ivi, p. 167.

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attendere dall’enfasi con cui il demone accenna ai rapporti fisici tra i due), non costituisce di per sé un fattore di trasgressione, poiché, appunto, il tutto avviene all’interno dei codici tramite i quali la società rendeva accettabili situazioni “scabrose” di questo genere, un po’ come il cinema contemporaneo poteva affrontare il tema del sesso al di fuori del matrimonio unicamente codificandolo all’interno della prostituzione o dello stupro, e in modo non diverso da come i rapporti “scabrosi” venivano incessantemente messi in scena dalla letteratura di consumo, che quasi sempre li ambientava, proprio come Terra, in uno scenario aristocratico o alto borghese. Insomma, all’interno di un simile contesto, mi sembra che una scena come questa non appaia immoralista né abbia la forza di scandalizzare chicchessia: «Le baciava il seno. Se non fossi stato prigioniero, avrei danzato attorno a loro magicamente. Santi erano diventati. Si, veramente consacrati alla Divinità, veramente Santi. Jone trasfigurata, in estasi, nella visione dell’immortale Eros dell’unico Dio».44 Nella seconda parte il romanzo devia verso un crinale ancora meno interessante. I due si trasferiscono a Roma, e le giornate trascorse ad amoreggiare tra i più celebri monumenti della capitale e tra gli ameni paesaggi del circondario, diventano l’occasione per un’improbabile rinascita dello spirito del paganesimo antico finalmente libero di ritornare ad abitare i vetusti colonnati. In fine, come già sappiamo dal fatto che il demone narratore non è più in compagnia del suo uomo, la vicenda non può che deviare verso la catastrofe, e lo fa nel modo più brusco, ma anche meno credibile: Jone manifesta il desiderio di maggiore indipendenza; i due si separano, si ritrovano, infine lei, improvvisamente, afferma di non amarlo più (adesso si è invaghita di uno studente) e lo abbandona nella più nera disperazione (fino a pochi giorni prima lo amava alla follia). Insomma, la grande passione di Ramik e Jone si rivela essere nient’altro che l’ennesima mascherata messa in piedi per qualche tempo, onde combattere la noia. Eppure, anche in questo romanzo sono presenti dei segni, dei brevi inserti che testimoniano di come il narratore non abbia perso di vista quel fattore invisibile che già si era rivelato determinante, come abbiamo visto, per comprendere la natura delle 44

Ivi, pp. 178-179.

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operazioni narrative svolte nelle precedenti opere. Ancora prima che Ramik giunga nella località di villeggiatura dove incontrerà Jone, il demone ci informa in modo vago di una certa cosa che egli ha da fare nella capitale, di un compito che dovrebbe portare a termine, e cui poi rinuncerà per vivere con piena dedizione la sua nuova avventura amorosa. Paolo Buchignani, nella sua già più volte citata analisi dedicata all’opera di Terra, ipotizza possa trattarsi di «un attentato, che il protagonista Ramik, decadente, raffinatissimo esteta afflitto dalla solitudine e dallo spleen, ha intenzione di attuare a Roma, in nome, sembra di capire, di un aristocratico anarchismo antiborghese, alimentato da vaghi ideali positivisti e da un non meno vago desiderio di “difesa degli oppressi”».45 Il passo cui Buchigani fa riferimento è il seguente: Stava sano. I salubri effetti della cura cariogamica! Tutto si velava, si addolciva; diventava un altro più semplice. Non combatteva più umani (hanno avuto il coraggio di ritenerli «homo sapiens»!) feroci, vili, corrotti, meschini. Non protestava più contro le ingiustizie e le falsità. Non lavorava più per un’esistenza razionale, in difesa degli oppressi. Si riposava nell’amore. E perfino il disgusto che gli produceva la sordidezza, l’imbecillità, si era affievolito.46

Certo, non vi è alcun riferimento esplicito che possa far pensare a uno scopo politico che Ramik si fosse prefisso prima di obliare tutto in Jone. Eppure una lettura di questo tipo sembra avvalorata non solo dai trascorsi di Terra, la cui iniziale militanza non lasciava certo presagire una fine da scrittore di letteratura erotica di consumo, ma anche dal fatto che il momentaneo oblio di Ramik, la sua resa agli agi della vita in alta società, lontano da ogni preoccupazione sociale, recano in sé il segno di ciò che, ad un livello superiore, la scrittura del romanzo Ioni rappresenta nell’ambito dell’opera di Dino Terra. Se Ramik dimentica la sua lotta in favore degli oppressi per la sua Jone, adagiata tra cuscini in camere a cinque stelle, Armando Simonetti, alias Dino Terra, dimentica i suoi trascorsi “carbonari” per la scrittura di Ioni, anch’egli, non bisogna dimenticarlo, appartenente ad una ricca famiglia borghese che gli consente di vivere negli agi lontano da ogni preoccupazione di 45 46

P. Buchignani, Dino Terra scrittore «immaginista», cit., p 39. D. Terra, Ioni, cit., p. 183.

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ordine materiale. Certo, lo scrittore non ha abbandonato, lo abbiamo visto, la sua passione avanguardistica, ma questa si è ridotta a un esercizio puramente formale, che pur dimostrando la sua attenzione ai più avanzati sviluppi della narrativa europea, non può che rivelarsi lo sterile contenitore di una vicenda ben poco eversiva e tanto meno “avanguardistica”. Lo abbiamo visto nel capitolo dedicato a Umberto Barbaro: l’immaginismo è, sì, avanguardia letteraria e non attivismo politico (non poteva essere altrimenti per un movimento tollerato alla luce del sole da un regime totalitario come quello fascista), ma allo stesso tempo avanguardia che considera come proprio scopo l’andare a incidere sulla prassi vivente, la capacità cioè di avere un effetto destabilizzante sulla percezione del mondo dei fruitori delle sue opere (letterarie o figurative). In altri termini, doveva dunque esserci, certo, l’esplosione spaesante della fantasia, ma anche la rigorosa ricostruzione dell’immaginazione,47 che attraverso la forza del montaggio doveva creare nuovi insiemi non classicamente organici, ma dotati della pretesa di dar luogo a un nuovo ordine connotato in modo politico: «La vera moralità dell’arte sta nel ricongiungere, ricostringere nelle angustie della quotidianità il lettore, per dargli l’ansia insopprimibile di uscire, di farsi migliore, di trasformare se stesso e il mondo».48 Di tutto ciò, all’interno di Ioni è rimasto solo l’inserto di alcuni frammenti di mondo non omogeneamente legati al resto della costruzione romanzesca, e che possono non a caso essere ricondotti alla presenza del fattore politico che rimane qui sempre al di sotto della superficie: Al Duomo e nella lavanderia pubblica. In una mezza cantina circa venti donne di ogni età davanti alla vasche torbide. Nonostante, cantavano. Se avessero sentito la miseria! Non volle lasciarsi sopraffare dal senso di contrasto; la vita fra lui e Jone e la vita di quelle. L’aiutai a nascondere quel contrasto guastafeste.49

O ancora:

47

Cfr. parte seconda, cap. 1, par 1.4. U. Barbaro, Considerazioni sul romanzo, cit., p. 138. 49 D. Terra, Ioni, cit., p. 178. 48

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Acquistarono il vino in un’osteria, osservò tre operai e una donna attorno a un tavolo. Abbrutiti, sporchi, brutti, orribili a vedersi. Che era la loro esistenza? Eppure non sembravano affatto angosciati, anzi se mai soddisfatti. Rabbrividì pensando che poteva essere simile a quei disgraziati rovinati dalla degerescenza dalla miseria. Vedeva in un modo speciale. Le cose acquistavano un significato, pervaso di gravità.50

«Quel contrasto guastafeste» è tuttavia un qualcosa di cui il «clartista» Dino Terra non poteva liberarsi. Questi frammenti, giunti da lontano a rovinare l’uniformità aristocratica, dannunziana, dello sfondo, appartengono a un sottotesto dotato di grande potenza nell’immaginario dello scrittore, se è vero che essi riescono a viaggiare dai suoi esordi fino alle opere posteriori, dove li ritroveremo. Gli studiosi che si sono occupati di Dino Terra considerano abitualmente conclusa la sua fase immaginista con il romanzo Ioni. Eppure, non diversamente da come è avvenuto nel caso di Umberto Barbaro per il romanzo Luce fredda, solitamente letto come l’inizio della sua svolta realista, credo che anche Metamorfosi, certo lontano dalle atmosfere fantastiche che pervadono le prime opere dello scrittore romano, sia in realtà il vero compimento della sua ricerca immaginista. Certo, in questo romanzo verranno a mancare gli elementi antirealistici, non vi saranno riflessi interni, angeli o demoni, eppure, come cercherò di mettere in evidenza nel finale del capitolo, a conservarsi saranno proprio gli elementi più schiettamente avanguardistici. Non basta: a venire in superficie in modo netto sarà proprio quel sottotesto politico che è stato possibile osservare – pur nell’occultamento – anche nelle opere prese in esame finora. Tuttavia, prima di giungere a Metamorfosi (che peraltro costituisce il primo tassello di una trilogia che l’autore svilupperà fino alla metà degli anni Quaranta51), è necessario soffermarsi su un’opera pubblicata nel 1932, con il titolo leopardiano Profonda notte, che costituisce per molti versi un luogo interlocutorio e sospensivo nell’evoluzione della narrativa di Terra, ma che pure merita di essere analizzato con attenzione. 50

Ivi, pp. 203-204. I due capitoli successivi saranno Anima e corpo, o il libro di Elena, Milano, Bompiani, 1934, e La pietra di David, Milano, Garzanti, 1946. L’autore ripubblicherà la trilogia in un unico volume (e dopo un intervento di riscrittura molto consistente) nel 1967, con il titolo L’ombrellino di carta colorata, Milano, Ceschina. 51

214

4. Profonda notte

Pubblicato nel 1932, presso l’editore Carabba di Lanciano, Profonda notte è il secondo romanzo di Dino Terra. Si tratta per molti versi di una sorta di summa di quanto egli aveva finora prodotto, dove tornano in superficie tutti i problemi di cui era stata intessuta la sua opera, e vengono passati in rassegna i nodi che l’avevano attraversata dalla seconda metà degli anni Venti fino al momento presente, in vista di uno scioglimento che sarebbe stato tentato, però, solo con il romanzo seguente, ovvero Metamorfosi, che apparirà un anno dopo, nel 1933. Il titolo inequivocabilmente leopardiano – si tratta, com’è noto, di una citazione tratta da coro dei morti che apre l’operetta morale Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie52 – fa qui riferimento alla cornice narrativa, la cui funzione è subito chiarita da un testo posto come prologo: Il tribunale dei morti giudicava il violento contro se stesso. Dalla sua anima perduta nel sonno della morte, il giudice estraeva i commenti che man mano si erano formati nei vari periodi della sua esistenza. Sceglieva nella frana del suo passato guardandolo nel presente di una volta. Ritornavano i pensieri e i sentimenti e le situazioni che l’anima aveva scritto nella coscienza come in un giornale morale, senza sapere quello che sarebbe venuto appresso, ignorandone i latenti significati. Con i frammenti raccolti attraverso le stratificazioni della sua storia il tribunale componeva in un quadro le ragioni della colpa, della lotta e della fine miseranda.53

Insomma, se in Ioni era il punto di vista del diavolo, il suo racconto reso a un interlocutore, a giustificare la costruzione frammentaria della trama, derivante dall’accostamento di singoli episodi (anche se poi questi andavano a ricreare il 52

Tre versi del coro compaiono in epigrafe sul frontespizio dell’opera: «Profonda notte/ Nella confusa mente/ Il pensier grave oscura» (il primo dei tre è in realtà il secondo emistichio del v. 6 del coro leopardiano). 53 D. Terra, Profonda notte, Lanciano, Carabba, 1932, p. 1.

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dipanarsi di una singola vicenda narrata con sostanziale completezza), in Profonda notte, il fatto che il romanzo risulti dall’accostamento di fatti narrati in prima persona in una sorta di monologo teatrale (molto debitore delle Memorie dal sottosuolo dostoevskiane e dei narratori pirandelliani),

è giustificato dalla presenza del

«tribunale dei morti» che estrae «i commenti che man mano si erano formati nei vari periodi della sua esistenza». In realtà, se la scelta del demone narratore aveva un senso, non era tanto perché rendeva plausibile la selezione frammentaria degli episodi, quanto perché tematizzava, come abbiamo visto, un punto di vista non convenzionale. In questo caso, dove il punto di vista è fisso e coincide con il protagonista monologante, l’espediente del tribunale dei morti finisce per apparire superfluo, dal momento che la scelta di determinati episodi piuttosto che di altri non ha, in fin dei conti, bisogno di alcuna giustificazione, né, a dire il vero, la frammentarietà ci appare qui così marcata ed estrema, come poteva avvenire, per limitarci ad un discorso già svolto in questo lavoro, in un romanzo di Gallian (in Profonda notte, proprio come in Ioni, ad essere raccontato è sostanzialmente un singolo episodio amoroso della vita del protagonista). Si potrebbe inoltre aggiungere che, guardare al passato «nel presente di una volta», ovvero adottare in toto il punto di vista del passato, è completamente all’opposto dell’intento che anima il coro dei morti leopardiano, laddove l’occhio dello spettatore viene straniato proprio dal trovarsi a guardare alla vita da una dimensione completamente estranea ad essa (Cosa arcana e stupenda / Oggi è la vita al pensier nostro, e tale / Qual de' vivi al pensiero / L'ignota morte appar). Naturalmente, non avrebbe senso da un punto di vista critico limitarsi a constatare questa contraddizione, senza provare a comprendere il significato che essa va ad assumere nel complesso del romanzo. Per ora mi limito a rilevare che anche quest’opera, proprio come Metamorfosi, si apre con un tema di introduzione: il primo capitolo, Uno scorpione, che ci introdurrà nel mezzo dello sviluppo della vicenda amorosa su cui è incentrato Profonda notte, inizia infatti con un paragrafo apparentemente fuori contesto (ma che verrà ripreso nel finale, come vedremo), nel quale ci viene offerta l’immagine di un uccello che si dibatte nell’aria invernale, colpito da una forte raffica di vento: Nella stagione fredda, quando il vento nordico percuote il paese e l’uomo, assalito dalla violenta sferza,

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cerca di rintanarsi più che può nei panni, quasi timoroso di una scudisciata mortale, capita qualche volta di vedere un uccelletto sorpreso da una forte raffica a pochi metri dal suolo.

Il

miserello

sembra

sostare

nello

spazio,

immobilizzato dall’invisibile nemico, poi si abbassa, torna in alto, sbandato da una parte, dall’altra: è la lotta fra la sua forza e quella del ciclone. Si vedono le misere alucce dibattersi, dibattersi, dibattersi, come le braccia di uno che non vuole affogare.54

Il paragrafo si conclude paventando i pericoli che l’inverno arreca alla salute dell’uomo, implacabile proprio come il vento che fiacca le misere forze dell’«uccelletto». Immediatamente dopo ha inizio la vicenda vera e propria. Non è difficile riassumerla, sebbene il protagonista, Glico, un ricco borghese senza occupazione (ma evidentemente in grado di vivere di una cospicua rendita che gli consente di alloggiare in alberghi di lusso, viaggiare a piacimento e affrontare spese improvvise di qualsiasi tipo), faccia di tutto per complicarla con un’analisi minuziosa di ogni minimo movimento della sua anima, con scandaglio che vorrebbe essere spietato e finisce per risultare (lui stesso se ne accorgerà) vacuo e narcisista. Ma lascio a lui la parola: Riassumo in un tentativo di chiarificazione: conosco e faccio amicizia con una donna, durante il breve periodo di un’amicizia ho per lei la simpatia che si ha per tutte le donne giovani, piacenti e non stupide. Mi accorgo che sto per innamorarmene. E invece di gioirne, mi ribello alla legge, rifiuto opponendomi orgogliosamente alla natura. E per provare il mio trionfo cerco a lei un amico. Viene il terzo. Vedendola intrattenersi piacevolmente con lui ne soffro. Il dolore mi fa sapere che ne sono ormai irrimediabilmente innamorato. La constatazione accende i desideri. L’invito ad amarmi e mi respinge, rimango disturbato. Nell’insieme, pare abbastanza semplice; già.55

54 55

Ivi, p. 5. Ivi, pp. 74-75.

217

Proprio come l’uomo del sottosuolo dostoevskiano, anche Glico vive la grande contraddizione della compresenza di un enorme complesso di superiorità e di un altrettanto enorme – e speculare – complesso di inferiorità. Se non accetta di abbandonarsi al normale decorso di una storia d’amore potenzialmente ordinaria, è perché teme, infatti, che l’accettazione della normalità della vita possa abbassarlo al rango degli uomini comuni – e qui si richiama a improbabili ideali di superomismo nietzscheano (Nietzsche è in più luoghi esplicitamente citato). È tuttavia evidente che un simile rifiuto è anche il prodotto della paura di non essere all’altezza di un’ordinaria relazione umana. Insomma, un’affermazione come questa: «Il mio “Io” si era ingigantito mostruosamente, e dell’altra parte della “corda” nicciana, solidamente appoggiato alla montagna, ridevo sui poveri umani che precipitavano miseramente, schiavi delle loro leggi»,56 finisce per rendere evidente una constatazione molto semplice, e cioè che l’inetto è sempre al di sopra o al di sotto della soglia della normalità, e che la vera impresa impossibile per lui (dunque quello che è il suo segreto e sofferto scopo), e raggiungere il punto intermedio della corda rimanendovi in equilibrio, senza precipitare verso la scimmia o verso il superuomo. Del resto, che si tratti di una fiaba monomaniaca, è reso evidente dal fatto che la protagonista femminile, Helai,57 non riesca mai a prendere vita sulla pagina, e neppure per un istante il monologo di Glico le conferisca un po’ di vero respiro. La storia arriva a un punto di svolta solo quando, passati alcuni anni tra viaggi e comodi soggiorni in località amene, Glico ed Helai finiscono per rincontrarsi. Finalmente l’amore è libero di “sbocciare”, anche perché il giovane si è ormai stancato del ruolo di intellettuale tormentato dal proprio occhio interiore, di superuomo proteso verso il superamento della morale corrente, di immoralista alla ricerca di una propria dimensione autentica.58 Neanche a dirlo, i due sono pronti per la svolta mistica: La legge è di Dio. Cosa sarebbe di noi, della vita, del mondo, dell’universo, se non ci fosse una legge? Senza l’ordine che costituisce e mantiene: Caos, vuoto, tenebre. […] 56

Ivi, p. 129. Impossibile non notare la passione per i nomi esotici nutrita dall’autore. 58 E’ innegabile che sussista anche un riferimento a L’immoralista di Gide. 57

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Il maligno si divertì. Ora ce ne siamo liberati, e col nostro arbitrio abbiamo trovato la Grande Strada. E siamo nella legge perché siamo veramente liberi, disciolti dalle catene

delle

infinite

falsità

demoniache,

libertarie,

antiumane. […] Fra giorni sposeremo. Qui, nel paesetto dietro il crestone, fra i sani montanari. E l’atto che redigerà il signor sindaco, quella formalità tanto derisa dall’inumana anarchia di quei meschini «spiriti superiori» diventa, appunto per la sua elementarità, simbolo dell’ordine, che è la Sua espressione.59

Già dal prologo siamo stati informati, tuttavia, che questo stato di grazia non potrà durare, e che il nostro Glico è destinato a finire violento contro se stesso, cioè suicida nelle braccia del tribunale dei morti che, non ci dimentichiamo, sta leggendo insieme a noi il romanzo della sua vita onde emettere un giudizio. Del resto, la natura troppo totalizzante di questa conversione, il suo essere troppo esattamente speculare alla precedente vita satanica del protagonista, non può che metterla fin dall’inizio in una luce sospetta. Di fatti, i piani dei due futuri sposini, che addirittura vivono in castità attendendo il momento della sanzione ufficiale del loro legame, mentre soggiornano in un ameno borgo alpino e si apprestano a finanziare un’opera filantropica (la costruzione di una scuola), vengono presto rovinati dall’inevitabile sopraggiungere della tragedia. Anche in questo caso i fatti sono del resto molto semplici: un giovane, in precedenza amante di Helai e poi da lei abbandonato, si fa vivo, sconvolge la vita dei due, infine uccide lei e si suicida con un colpo di pistola alla testa. Che ne sarà a questo punto della vita di Glico? Lo scenario cambia completamente, e solo ora ci diviene comprensibile il tema di introduzione che ci aveva mostrato l’«uccelletto» sospeso nel vento gelido dell’inverno; ma soprattutto, ci troviamo improvvisamente già proiettati verso un altro tema di introduzione, quello di Metamorfosi, da cui ha preso avvio questo capitolo: La maggior parte degli uomini abituati alle zone temperate, alle accoglienti contrade native, all’urbanesimo, 59

D. Terra, Profonda notte, cit., pp. 163-164.

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non può sapere l’inospitalità di buona parte del nostro mondo. Oceani corrucciati, massime montagne, zone torride, regioni artiche. (E accenno soltanto alla superficie, che la natura li scampi dall’entrarci dentro, in men che non si dica sarebbero cangiati in chimo e digeriti dallo stomaco di fuoco). Non c’è fotografia o relazione che valga a far conoscere – veramente – il vero volto del mondo. Ci si deve trovare sul traboccolo afferrato dalla tempesta notturna per conoscere il Suo carattere, bisogna unghiare le pareti del Cervino per sentire la Sua indifferenza, occorre smarrirsi nei deserti equatoriali per sapere il Suo delirio, è necessario marciare pei nebbiosi piani dell’Artide per accorgersi della Sua ostilità.60

Il primo riferimento è però certamente da farsi al leopardiano Dialogo della natura e di un islandese, che sembrerebbe dunque chiudere in modo circolare un romanzo già nato sotto il segno del poeta di Recanati. Ma la vicenda non è ancora conclusa. Glico ha intrapreso un viaggio fino ai limiti estremi delle zone abitabili dall’uomo, e vive ora in Siberia, oltre la linea del circolo polare artico: Mangio, dormo e lavoro. Non sarebbe stato meglio se? Ecco è ancora apparsa la morte, una specie di nuova mamma che mette a letto le creature stanche delle fatiche del giorno.61 Ma se io mi fossi ucciso, avrei riconosciuto la demenza dell’universo, ed essa sarebbe morta veramente. Il suicida non crede più, è uno stupido anarchico, un ateo meschino. Io credo, io credo, credo. Nonostante le ingiustizie, le incongruenze, l’impossibile noncuranza. Credo nonostante la sua morte.62

Glico vive in una capanna tra i ghiacci, con una muta di cani da slitta, va a caccia, trascorre in meditazione le proprie giornate, le uniche presenze umane con cui intesse rapporti sono un gruppo di cacciatori siberiani. Cosa è successo dunque? Da inetto aristocratico, da intellettuale nietzscheano dedito a una vita di piaceri, è 60

Ivi, p. 187. È qui possibile scorgere l’eco del già più volte citato dramma di M. Gor’kij, Bassifondi: «Ti dico che la morte è come una madre per i suoi bambini piccoli», p. 68. 62 D. Terra, Profonda notte, cit., p. 188. 61

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divenuto un uomo che vive a contatto con le più estreme condizioni della natura. Ma non si tratta, forse, di un modo per evitare di affrontare quello che era il problema centrale posto dal romanzo? Può davvero dirsi risolta la vicenda esistenziale di Glico? Proprio quando la mente dell’uomo comincia ad acquietarsi nella fede, sopraggiunge però un altro elemento, una presenza demoniaca: «lo vidi, accoccolato dall’altra parte del fuoco, intento a scaldarsi le mani. Quando s’accorse di me, ch’ero immobilizzato dalla sorpresa, mi sorrise in un certo modo mite e bonario».63 Glico ha la febbre, delira, comincia a ricevere visite dal diavolo. Ma non è più il simpatico demone di Ioni, né una manierata rappresentazione dell’istinto sessuale che non si assopisce neppure tra i ghiacci. Forse stavolta il riferimento più immediato è il diavolo che tormenta Ivan Karamazov nel grande romanzo di Dostoevskij, il sospetto satanico che va a incrinare la fede nel bene, che riporta, anche nella calma pacificata dei manti nevosi, il dubbio sull’insensatezza della vita. Di fatti, la fiducia di Glico nel bene nonostante tutto, viene irrimediabilmente corrosa, e l’apparizione stessa, che finalmente dirada, viene compresa per quello che è: «magari ci fosse il demonio. La vita non finirebbe qui». E ancora: «io non so più nulla. Non mi riconosco più, non mi riconosco neppure. Non so più nulla. Sono un pozzo senz’acqua; non c’è più ragione d’essere. L’incendio delle incongruenze. Perdono».64 Non rimane che l’epilogo, intitolato – si direbbe ironicamente – soluzione. Glico fa un bilancio della sua vita, un bilancio inconcludente, e si avvia alla morte (che sappiamo dovrà essere un suicido), senza alcuna soluzione. Il finale del romanzo ci appare così perfettamente speculare a quella che può a questo punto essere considerata una lunga introduzione alla breve sequenza tra i ghiacci. Neppure il contatto con la vita allo stato puro, nemmeno l’esperienza del love of life, di cui certamente Terra aveva già letto nei romanzi di Jack London (Love of life è il significativo titolo di uno dei più impressionanti racconti dello scrittore americano, pubblicato nel 1907, che narra proprio la vicenda di un essere umano alle prese con la natura più estrema), ha potuto fornire una risposta alla domanda fondamentale sul significato di un’esistenza, quella del Glico immerso nella sua noiosa vita quotidiana, che non sembra in nessun caso poter approdare a una dimensione di autenticità. 63 64

Ivi, p. 195. Ivi, p. 201.

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Forse, proprio come era avvenuto per la sua prima opera letteraria, l’ormai lontano L’amico dell’angelo, l’errore fondamentale era stato il voler contrapporre due speculari ricerche dell’autenticità, entrambe inevitabilmente destinate al fallimento. Da un lato, abbiamo visto, c’è «la morale splendente», la fede che siano le pulsioni istintuali, libere di fluire, a poter condurre alla gioia, alla serenità: che cos’era stata la prima esistenza di Glico, se non un tentativo di applicare alla vita questo genere di ideale superomistico? La vita dell’uomo superiore che non accetta la morale corrente e – senza tuttavia mai infrangerne le forme e le convenzioni – si dedica alla ricerca di se stesso vivendo in libertà i propri desideri. Ma poi, in apparente contrapposizione a tutto ciò, ecco l’ascesi, il rifiuto del mondo, la morale dell’angelo, il candore delle vette, la purezza cristallina della fede. Il demonio contro l’angelo, il bianco contro il nero, il libertino con la maschera nera di Riflessi e il principe dittatore che vuole spazzare via dalla terra ogni abbandono al piacere. Naturalmente, come già ne L’amico dell’angelo, non c’è via d’uscita da questa contraddizione, per il semplice motivo che non si tratta affatto di una contraddizione. Quando è già definitivamente approdato tra i ghiacci, nel gelo della sua capanna, Glico pensa: «Il pluralismo della vita. In questo momento c’è della gente pei grands boulevards, nei Palaces elle Haway, su la terrazza del Pincio. Mentre il pubblico ride nei cinema di Broadway, il veliero affonda nel gorgonesco tifone, banalità quotidiana».65 A quanto pare Glico crede di essere finalmente giunto agli antipodi di quell’esistenza dei grands boulevards, dei Palace, della terrazza del Pincio, che era stata fino a poco prima la sua vita. Ma è davvero così? La vita selvaggia, la vita allo stato puro, che è poi sia quella dei ghiacciai che quella degli oscuri abissi del mare, è davvero il contrario, il punto più lontano dalla comoda vita che era stata la quotidianità di Glico? L’interrogativo è tanto più pregnante, in quanto l’ambiente in cui si era svolta fino a quel momento l’esistenza del protagonista era, in fondo, lo stesso in cui aveva sempre vissuto l’autore, uomo d’arte e di cultura, che mai aveva dovuto abbandonare i comfort che gli erano stati garantita dalla rendita di famiglia. Ma se dunque nemmeno nei luoghi estremi è possibile trovare l’autenticità che costituisca una risposta credibile alla domanda implicita in ogni esistenza che si 65

Ivi, p. 192.

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percepisce come inautentica (peraltro esplicitamente posta in questo romanzo), non può che risultare evidente che è la domanda stessa a essere mal posta. Il contrario della vita agiata di quegli esseri fortunati che possono mettere da parte ogni preoccupazione per il sostentamento quotidiano, e dedicare tutte le energie fisiche e mentali alla coltivazione dei propri stati d’animo, non è il love of life portato alle estreme conseguenze, ma piuttosto la vita degli «oppressi», schiavi delle «ingiustizie e delle falsità», di cui si era per un attimo ricordato Ramik prima di abbandonarsi alla storia con Jone. È questo che sfugge a Glico. Le contrapposizioni non dialettiche che hanno fin qui animato le opere di Dino Terra non hanno mai potuto trovare una conciliazione proprio perché mai sono riuscite a porre il problema. Il diavolo e l’angelo sono due doppi speculari, lo sono Re Vita e il Principe dittatore, lo sono il Glico dannunziano e quello londoniano. Del resto, anche con l’epilogo di cui si è detto, Profonda notte non è davvero finito: È lecito a uno scrittore, per giustificare il suo nome sulla copertina, formare se non altro delle lettere apocrife, perché almeno non si possa dire che egli si è limitato a suddividere e intitolare i capitoli. Può essere curioso immaginare la mentalità della madre di Helai; ecco perciò tre lettere, che potrebbero essere state scritte durante il distacco dei due appassionati, le quali rischiarano per luce riflessa il volto dell’infelice Helai.66

Così si apre la Nota che chiude il romanzo; fanno seguito tre lettere, scritte dalla madre Helai, evidentemente ricca signora del bel mondo, che cerca di richiamare la figlia infelice (è da poco rimasta vedova) al decoro di una vita serena condotta placidamente negli argini stabiliti dalle convenzioni della società (a suo parere è solo qui che può trovarsi la felicità). Ecco che allora il quadro pare chiarirsi, con l’apertura di uno squarcio sulla sostanza reale di quella vita che Glico aveva occultato sotto infiniti strati di riflessione. I dati che ne emergono sono semplici (e ridicoli: non possono ormai che apparire tali) come questi: «fra quindici giorni ci sarà una grande caccia al daino organizzata dagli amici di Tim […] ci sarebbe da 66

Ivi, p. 217.

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parlare di una certa crociera specialissima […] Annetta ha portato Mumi in Riviera». E si potrebbe continuare. Ecco dunque il vero mondo di Glico, il mondo di Helai, il mondo di Ramik e Jone. Il love of life, la vita degli abissi e dei ghiacciai, non ne costituisce il contrario, ma semmai il fondamento, la sostanza ribollente che tiene a galla quelle barche dorate, la cui vera natura può forse essere esperita, come ci ha insegnato Lady Lilian, soltanto in occasione di un naufragio. «Ma poi, naturalmente, non se ne parlava». Dino Terra non è giunto, fino a Metamorfosi, a una chiara intuizione di questo dato, che pure risulta implicito in tutte le sue opere (costituendone a mio avviso il valore). Se, come abbiamo visto nello scorso capitolo, la narrativa di Umberto Barbaro riusciva a farci sentire la costrizione senza soluzioni della vita quotidiana, fino al punto limite della sopportazione, fino al confine oltre il quale la rivolta deve trasformarsi in rivoluzione e il pensiero deve passare all’azione, il merito delle opere immaginiste di Dino Terra è portare ad estrema evidenza la falsità del mondo, lasciando trasparire solo da un’estrema lontananza, per contrasto, l’autenticità che ne è stata bandita (e non era questa la struttura del romanzo secondo la Teoria del romanzo di Lukács?). Che questa lettura sia plausibile, come mi sembra, risulta evidente dalla presenza di precisi richiami alle condizioni di inumana oppressione che costituiscono le fondamenta del mondo in cui si muovono i protagonisti dei suoi romanzi. Ho già citato alcuni esempi di tali richiami all’interno di Ioni (dove essi sono peraltro ridotti ai minimi termini). Ma vi è un luogo ancora più evidente e significativo, proprio nel mezzo di Profonda notte. Si tratta del capitolo intitolato Il serraglio, in cui Glico, forse per sfuggire alla nausea della propria condizione, si reca in un bordello. La descrizione dell’ambiente basta da sola a sgretolare tutte le atmosfere eleganti in cui si sono mossi e ancora si muoveranno i personaggi: Vicino a me, una serva montanara aspetta placida, e, forse, inebetita. Le mani conserte, guardando senza guardare. È giovane, ma il viso è inciso da tante rughe; tutto il suo aspetto mi rivela una bestia da fatica, che appena ha potuto è scappata nella città; e che dopo qualche tempo di servizio nelle schifosissime «onorate buone famiglie», per

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tante ragioni superiori, è venuta, s’è trovata, a fare questo nuovo servizio. […] Le stava sopra, attaccato alla parete, un grande cartello, in cornice benché scritto con mano impratica, indicante il prezzo, una somma incredibile per l’esiguità. Il calcolo m’insegnò che era la trentesima parte del prezzo delle scarpe che calzavo.67

Certo, Glico non sembra comprendere il significato di quello che vede, e non a caso la sua vicenda finirà tra i ghiacci della siberia, senza risposte: qui nel bordello non può fare a meno di dirsi che ciò che ve l’ha trascinato è il desiderio di vedere «l’Imperatore della vita: libido».68 Ma il romanzo non può che accogliere dentro di sé questo capitolo come un buco nero, attraverso il quale tutta la sua materia viene inevitabilmente risucchiata verso altri luoghi, nuove regioni, nuove sperimentazioni. Non solo, questo luogo viene ad assumere un ruolo centrale in tutta l’opera di Terra: non era qui, in un bordello come questo, forse solo di livello un po’ superiore (prezzi più alti, ragazze più raffinate e meglio vestite), che era cominciata l’avventura de L’amico dell’angelo?

67 68

Ivi, pp. 110-111, cors. mio. Ivi, p. 112.

225

5. Metamorfosi

Come abbiamo visto nel primo paragrafo di questo capitolo, il romanzo Metamorfosi che Dino Terra pubblica nel 1933, dunque a solo un anno di distanza da Profonda notte, comincia con un Tema di introduzione ambientato tra gli abissi marini, la cui dipendenza da I falsari di Gide è quanto mai evidente.69 Quello che è necessario ora portare in luce, è come anche le strutture più profonde del romanzo gidiano siano state assimilate da Terra per la costruzione di questa sua opera, e come egli se ne sia servito per venire a capo dei problemi che abbiamo visto emergere nei paragrafi precedenti. Innanzitutto, cominciando ad addentrarsi in Metamorfosi si viene colpiti dalla complessità della costruzione, finalmente non affidata ad artificiose cornici (i riflessi interni, il racconto del demone, il tribunale dei morti), ma lasciata vivere nel modo più semplice, con il montaggio di sequenze narrative appartenenti a vicende forse destinate ad intrecciarsi, forse del tutto autonome (inizialmente il lettore non può averne la certezza). Dopo la suggestiva immersione nelle oscure profondità del mare, la storia comincia seguendo il ragazzo incamminato sul bagnasciuga, che lascia la spiaggia per addentrarsi nelle vie del paese (forse la stilla ancestrale, respirata dall’abisso, è rimasta legata al suo piede insieme alla sabbia umida). Ecco comparire un uomo alla guida di un calesse, l’occhio del narratore percorre con lui un pezzo di strada, lasciando che i pensieri emergano nell’indiretto libero: è stanco, contento di tornare a casa per mettersi a letto. Seduta di fianco, tormentata dagli scossoni del trabiccolo, una donna anziana sogna di mangiare i gelati che vede spesso tra le mani dei villeggianti, e che ormai si vergogna di comprare. Il calesse passa ora di fianco a una casa colonica che pare abbandonata. Sull’uscio, in penombra, siede un vecchio già in agonia, i cui pensieri confusi annaspano per trattenere quel che rimane dei ricordi, nell’imminenza della rovina. Stacco: ci troviamo in una grande città, Guido, un impiegato, si appresta a cominciare una delle sue noiose giornate tutte uguali. Non ha sentito la sveglia, si affretta dunque a raggiungere l’ufficio senza neanche il tempo di andare in bagno, timoroso di essere scoperto dai superiori. Stacco: un uomo stanco e

69

Cfr. F. Bouchard, «L’acqua oscura delle grotte»: il realismo sperimentale di Dino Terra, cit., pp. 44-45.

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affamato marcia solitario attraverso un desolato paesaggio montano al confine tra Austria e Svizzera. Sono ore che la sua fuga va avanti, ed egli dispera ormai di orientarsi. Un gruppo di militari gli è alle calcagna, il freddo di una notte all’addiaccio minaccia di sopraffarlo. Gli inseguitori sono sempre più vicini: ma, quando si vede già perduto, da un nascondiglio improvvisato assiste alla morte del suo ex compagno di fuga (si erano separati per avere più possibilità di farcela). È salvo per ora, ma proprio perché i soldati che gli stavano alle costole sono stati distratti in extremis dalla comparsa dell’altro. L’uomo in fuga, un italiano di nome Mario, può così riprendere la sua marcia verso la salvezza. Stacco: in un podere della campagna italiana, i braccianti si godono la pausa pranzo dalle fatiche della vendemmia. Una ragazza di quindici anni, Consolina, si addormenta accarezzando un adolescente di poco più giovane, che non ha il coraggio di guardarla. Stacco: Mario si disseta con una manciata di neve, cammina ormai alla cieca, disperando di trovare il confine. Scopre infine una capanna abbandonata dove può passare la notte in sicurezza; da una cartina geografica affissa alla parete apprende con sollievo di essere già in Svizzera, salvo. Stacco: Guido esce dall’ufficio, torna a casa e legge il giornale: un articolo, riportato per intero, ci informa sul primo congresso mondiale dedicato alla nuovissima branca della chirurgia estetica, che si svolge peraltro in contemporanea al primo congresso dedicato ai direttori degli Istituti di Bellezza, in grande espansione negli Stati Uniti. Comincia un nuovo capitolo: in una bella casa di Losanna, Titus Sapiro cerca di concentrarsi sulla correzione delle bozze di un suo breve studio. Ma è distratto dal pensiero della morte di un collega, deceduto improvvisamente per setticemia. È impossibile lavorare per stasera. Si alza, si reca nel suo laboratorio, guarda dalla finestra il gelo della notte. Ho riportato per esteso la struttura dell’avvio del romanzo per poter dare subito un’idea della sua complessità, che evidentemente si richiama non solo a Gide, ma anche al già citato Huxley di Punto contro punto, al Manhattan Transfer di John Dos Passos,70 al Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin,71 tutti realizzati con

70

Uscito nel 1925, il romanzo di Dos Passos era stato pubblicato in Italia con il titolo Nuova York, Milano, Corbaccio, 1932, traduzione di Alessandra Scalero. 71 La prima edizione italiana di Berlin Alexanderplatz esce nel 1930, Milano, Modernissima, ad opera del germanista Alberto Spaini, che, come abbiamo visto, era molto vicino all’ambiente

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l’accostamento di sequenze narrative frammentarie, in alcuni casi (ad esempio gli ultimi due romanzi citati), inframmezzate anche con materiali non convenzionali, come articoli di giornale, manifesti, notiziari, ecc. Si tratta del resto di opere che avevano suscitato in modo massiccio l’interesse degli intellettuali italiani più attenti alle nuove tendenze culturali internazionali (basta sfogliare i numeri della rivista «Occidente», diretta da Armando Ghelardini,72 di cui Umberto Barbaro fu un assiduo collaboratore, e su cui anche Terra pubblicherà un racconto73). Era naturale, dunque, che Dino Terra avesse cercato proprio in questi capolavori della letteratura europea e americana una soluzione per le contraddizioni entro cui si erano dibattute le sue opere precedenti. Da questo punto di vista Metamorfosi può essere considerato un successo e, al contempo, un fallimento, anche perché, com’è noto, il romanzo non può mai essere il luogo per la risoluzione delle contraddizioni, limitandosi semmai a porre queste ultime a un livello di complessità maggiore, che possa svelarne i luoghi occulti, i nodi non affrontati. In ogni caso, lo shock provocato dall’estrema frammentazione delle sequenze narrative iniziali è destinato in parte ad attenuarsi con il procedere della storia, che vede (almeno momentaneamente) saldarsi le vicende del fuggiasco Mario e quelle di Titus Sapiro, l’uomo di scienza, il filosofo che abbiamo osservato riflettere sulla morte nella sua stanza di Losanna. Mario è un rivoluzionario comunista in fuga dal fallimento di un tentativo di sollevazione cui aveva lavorato a Vienna (si tratta degli ultimi sussulti del comunismo in quel paese, che sta per entrare definitivamente nell’orbita del nascente Reich tedesco). Sapiro è invece un intellettuale cosmopolita di ricca famiglia ebrea: il fratello dirige a Londra una banca, la sorella è sposata con un ricchissimo uomo d’affari della city, mentre egli, dopo la morte della figlia ancora bambina e la separazione dalla moglie, si è ritirato a Losanna, dedicandosi unicamente agli studi. Mario ha raggiunto Böningen, una località turistica sulle pendici della Jungfrau, dove ha trovato momentaneamente rifugio presso una famiglia di compagni. Attraverso gli occhi del misero fuggiasco, il lettore di Terra osserverà per avanguardistico romano (aveva realizzato la traduzione del Lena e Leonce di Büchner per la messa in scena da Bragaglia nel 1928). 72 A. Briganti, «Occidente» e la capitale delle avanguardie, in «Letteratura italiana contemporanea», a. IX, n. 25, settembre – dicembre 1988, pp. 1-23. 73 D. Terra, Il toscano, in «Occidente», IV, n. 10-11, gennaio-marzo 1935, pp. 99-104.

228

la prima volta dall’esterno i grandi alberghi e la vita elegante rappresentata sempre dall’interno nei precedenti romanzi: passa davanti a un grande albergo, bello e superbo come una principessa, incontra gente a spasso, poca, due o tre coppie, qualche bambino con la governante; si ferma a guardare attraverso un’alta rete un campo da tennis: alcune fanciulle assai carine, invece di giocare stanno a parlottare vicino alla rete di gioco, c’è fra loro un giovanotto con un maglione zafferano, beato lui. […] Mario si allontana masticando rabbia, non son pane per i suoi denti. […] deve andarsene come un qualunque straccione, senza che loro si siano accorte di lui.74

Il giovane rivoluzionario non può rimanere a lungo dai compagni di Böningen, che versano in gravi ristrettezze; decide quindi di cercare aiuto presso Titus Sapiro, di cui gli ha parlato più volte un compagno di lotta, Zapirovich, descrivendolo come uomo di grande brillantezza e generosità. Con i soldi ricavati dalla vendita del suo orologio, Mario raggiunge Losanna e si reca da Titus, che, distratto dai suoi pensieri, poco propenso in questo momento ad ascoltare le esigenze dell’altro, si comporta però in modo freddo, tanto che il giovane decide di andar via senza nemmeno provare a chiedere aiuto. Vaga per la città, infreddolito, con pochi spiccioli in tasca. Finalmente individua un compagno (lo riconosce per via dell’acquisto di una pubblicazione sovversiva), e costui lo aiuta a sistemarsi e a trovare un duro lavoro da operaio e spalatore. Titus, nel frattempo pentito, avendo immaginato in fine le esigenze del giovane che gli aveva fatto visita (si è anche ricordato delle parole di Zapirovich, che gli aveva parlato di quel suo caro compagno italiano), lo cerca senza successo. Dopo breve tempo i due si ritrovano e stavolta una simpatia naturale li lega immediatamente, non tardando a trasformarsi in un’amicizia sempre più salda. Mario diviene bibliotecario personale di Titus, che lo sistema in un albergo di lusso, provvedendo completamente al suo sostentamento. Ha dunque inizio una strana parentesi nella vita del giovane, che per la prima volta può abbandonarsi a quell’esistenza agiata che aveva sempre disprezzato, ma

74

D. Terra, Metamorfosi, cit., pp. 52-53.

229

che ora si concede come una specie di vacanza. L’amicizia tra i due uomini diventa più stretta, passano giornate intere a discutere di tutto, ma Mario cerca inutilmente di convertire Titus ai suoi ideali rivoluzionari. Infine, quest’ultimo scopre con terrore dentro di sé nuove sensazioni, e comincia a domandarsi se quello che prova per Mario non sia un qualcosa di più che semplice amicizia: In un sussulto si trasse indietro, s’allontanò spaventato dalla finestra. Appena uscito Mario, che si era trattenuto nella sera inoltrata, lui era andato distrattamente alla finestra per vedere il tempo; e stava a guardare attraverso i vetri la chiara notte, quando Mario dal viale si era voltato e gli aveva fatto un cenno amichevole. Si buttò all’indietro, – troppo tardi –, tirato di dispiacere d’essere stato veduto. Che era successo? Non poteva guardare il panorama

notturno?

Perché

quella

vergogna,

quella

vergogna paurosa? […] E se vi era quella «paura», Titus sapeva che doveva esservi un che di temibile; e ne dubitava il penoso significato. Per un momento chiuse gli occhi, questo era diventato? Sedette continuando la spietata analisi, doveva sapere, conoscere clinicamente, senza inutili tumulti. […] Volle fare la controprova empirica: pensò di baciarlo. No, proprio un senso di ripugnanza, non avrebbe potuto. Se ne sentì sollevato, ma per un momento solo. Non era tanto semplice, una semplice reazione non ha sempre il significato apparente; sapeva di certi disgusti di salvezza, tanto più forti quanto più c’è pericolo.75

Palesemente gidiano il tema dell’omosessualità, che per la prima volta appare qui nell’opera di Terra, non mi sembra tuttavia essere un semplice cedimento all’influsso del maestro. Riflettendo sulle modalità in cui i rapporti amorosi si erano finora manifestati nell’immaginario dello scrittore romano, non si può fare a meno di notare che è la prima volta, questa, in cui la passionalità non assume una valenza distruttiva o autodistruttiva. All’inizio del capitolo ho parlato di filiazione spirituale: se l’amore tra Ramik e Jone era stato un gioco al massacro, se quello tra Glico ed Helai un giocare al gatto col topo, oscillante tra sadismo e ascesi, il legame tra Titus

75

Ivi, pp. 153-154.

230

e Mario assume indubbiamente l’aspetto di un rapporto pedagogico, tra un maestro e un allievo, come quello tra Edouard e Olivier ne I falsari; rapporto che viene salvato dal precipitare nell’autoritarismo della relazione padre-figlio proprio dalla presenza del sentimento amoroso, che esclude la violenza gerarchica e trasforma gli amanti in fratelli. Non può essere un caso che la sequenza narrativa che immediatamente precede l’agnizione di Titus appena citata, ci mostri, nell’accostamento ravvicinato di due scene ancora irrelate alla trama principale del romanzo, due differenti declinazioni dell’amore. Nel primo frammento riappare Consolina, già incontrata nelle prime pagine. Stavolta il ragazzino di allora entra nella stalla interrompendo l’amplesso della giovane: Nella stalla bassa, dall’ombra densa, greve di odori, due animali stanno attaccati e si dimenano sulla paglia pulita; entra il ragazzo guanciuto; la coppia si stacca. Consolina – ha il viso paonazzo, sudato – va minacciosa contro l’inopportuno spettatore che alza il gomito a difesa della faccia mentre l’uomo indifferente raccatta il forcone e ricomincia a stendere la paglia; schiocca uno schiaffo seguito da minacce e singhiozzi.76

A ben vedere, in questa breve sequenza è riconoscibile l’intero sistema dei rapporti amorosi finora descritto nelle opere di Terra: la passione come sensualità che riavvicina l’uomo all’istinto animale, la donna che promette qualcosa che non mantiene e finisce per distruggere i sogni dell’amante con uno shock improvviso e doloroso: il ragazzino, che nella precedente apparizione era stato sedotto dalla potente sensualità di Consolina, viene ora brutalmente deluso, in modo del tutto simile a quanto era accaduto a Ramik con la spietata ed enigmatica Jone. Certo, inedito è lo scenario umile, agreste, stridente con i salotti piumati e le vetture con autista che avevano accompagnato le precedenti narrazioni. Ma non a caso, senza soluzione di continuità, all’interno dello stesso frammento narrativo (solitamente i cambi di sequenza sono evidenziati con uno spazio bianco e un segno tipografico), il narratore passa ad Ebba (personaggio già brevemente comparso in precedenza), ricca ereditiera americana che trascorre la vita tra gli agi degli alberghi extralusso europei: 76

Ivi, pp. 152.

231

Ebba e gli amici, sei fra tutti, provarono il calvà al pistacchio, un dolce orientale che uno dei sei, ufficiale di marina, aveva portato direttamente dalla Turchia. […] Inoltre

Ebba,

che

conosceva

la

delicata

simpatia

dell’ufficiale di marina, beveva i suoi sguardi e se ne inebbriava insieme al vino. Ballarono con la musica meccanica. Quando nel mezzo della festa privata lui la raggiunse in una stanza dove essa era andata a rassettarsi, Ebba non potè avere la forza di rifiutare il suo bacio prepotente, e sentì di amarlo.77

E anche qui riconosciamo componenti essenziali di quello scenario cui ho appena

fatto

riferimento:

la

luccicante

fatuità

degli

ambienti

mondani,

l’inconsistenza di una passione amorosa che sembra dettata più dall’influsso di determinati schemi situazionali che dalla spontaneità di sentimenti generatisi nello scambio interpersonale. Entrambe queste figure femminili avranno ancora un ruolo nella storia: Consolina sparirà da Metamorfosi, ma ritornerà brevemente in un capitolo successivo della trilogia, e sarà vittima di un efferato omicidio (verrà assistita nell’agonia proprio da Titus); Ebba entrerà definitivamente in scena, invece, di lì a poco, e intreccerà una relazione amorosa con Mario, che a causa sua sarà sul punto di rinnegare i propri ideali rivoluzionari. L’accostamento di questi due frammenti con la scena dell’agnizione dell’omosessualità di Titus,78 finisce per rendere evidente in cosa il sentimento che lega l’intellettuale ebreo al rivoluzionario italiano si differenzi dal genere di relazioni amorose che erano state finora al centro dell’indagine di Dino Terra: ovvero l’estraneità all’istintualità violenta e indifferente alla cura dell’altro, che è poi l’altra faccia della medaglia di una vita agiata dimentica dei rapporti sociali che la rendono possibile, vissuta come un continuo tentativo di sfuggire alla noia e alla mediocrità, che finisce poi per sfociare, non a caso, in quella stessa violenza istintuale che periodicamente ha il ruolo di scaricarne l’eccessiva tensione (e che se a lungo repressa la porterebbe all’autoannientamento).

77

Ibidem. Su quest’accostamento si sofferma, con finalità diverse, anche F. Bouchard, «L’acqua oscura delle grotte», cit., p. 42. 78

232

Le riflessioni scaturite da questo passaggio particolarmente intenso del romanzo verranno del resto confermate con il procedere della narrazione: nell’amore per Ebba, Mario rischierà di perdere quella che era stata fino a quel momento la sua ragione di esistenza, ovvero la lotta per la giustizia e per il riscatto degli oppressi: Mario sapeva d’essersi perduto. Non si lamentava: il naufrago non si salva lamentandosi. La sua vita di soldato gliel’aveva mitragliata quella donna. Aveva bell’e capito, non sarebbe stato più il forte guerriero. Come avrebbe potuto resistere all’appello di una donna simile? […] Chi glielo avrebbe detto pochi mesi prima che sarebbe diventato un cultore amatorio, che si sarebbe adattato – e bene adattato – dall’altra parte, fra i ricchi, che si sarebbe tolta la divisa? […] Caschi pure il mondo, tanto essa è mia. Non dovevano crepare tutti? Ebbene almeno aveva fatto all’amore. E in quanto alle ingiustizie, ai poveri, ai soprusi, non c’era la morte che si occupa di mettere le cose a posto?79

Ed ecco quello che il demone narratore aveva detto di Ramik, quando cedendo alla passione per Jone aveva dimenticato la propria missione nella capitale: «Non combatteva più umani (hanno avuto il coraggio di ritenerli “homo sapiens”!) feroci, vili, corrotti, meschini. Non protestava più contro le ingiustizie e le falsità. Non lavorava più per un’esistenza razionale, in difesa degli oppressi. Si riposava nell’amore».80 Ma questa non è la sorte di Mario, che di lì a breve tornerà in sé e partirà incontro al proprio destino. Dopo aver trascorso per la prima volta la notte insieme a Ebba, Mario si abbandona ai pensieri di soddisfazione e oblio che ho appena riportato. Subito dopo però, prima di rientrare in camera e godere del meritato riposo (l’albergo è ancora immerso nel silenzio, gli ospiti riposano nella prima mattina, tra le morbide coperte), fa un incontro destinato a cambiare il suo destino. Giunto alla porta, si accorge di una luce proveniente da un ripostiglio poco discosto. Vi sta lavorando un lustrascarpe, infimo tra i dipendenti del grande albergo, che ha l’infame compito di trascorrere la notte a lustrare le centinaia di paia di scarpe che i clienti indosseranno al mattino: «Il 79 80

Ivi, pp. 209-211. D. Terra, Ioni, cit., p. 183; vedi il par. 3 di questo capitolo.

233

facchino, vedendo quel signore soffermarsi sulla soglia, smise il lavoro domandandogli se voleva qualche cosa. “No, grazie. Come va il lavoro?” Che domanda come voleva che andasse? Hum, al solito, gli rispose il pulitore di scarpe».81 Mario ascolta la storia del facchino. Una storia di miseria, come tante altre, di sofferenze quotidiane protratte negli anni, ormai accettate come un qualcosa di perfettamente normale. Non rivedrà mai più Ebba. Presi i suoi bagagli, rinuncia al riposo, deciso a partire subito. Non prima, però, di aver provato un’ultima volta a convincere l’amico a rinunciare alla vita contemplativa da ricco intellettuale e a seguirlo nella lotta. Ma l’incontro non va a buon fine: Titus lo tratta con sufficienza, come un bambino, non prende sul serio i suoi argomenti, lo irride, non diversamente da come le persone che si ritengono ragionevoli sono solite comportarsi con i giovani “idealisti” che vogliono cambiare il mondo. Mario non accetta, ovviamente, questa ennesima posa (in fondo, pochi mesi prima, aveva rischiato di morire nel gelo dei passi alpini, per dimostrare la realtà del proprio idealismo, mentre nella sua “praticità” l’amico si era limitato a meditare sulla morte nella propria camera riscaldata); e parte. Lo ritroveremo più avanti, impegnato nei moti di piazza spagnoli. Se l’amicizia tra Titus e Mario è dunque destinata a infrangersi proprio a causa del rifiuto del primo di abbracciare il credo rivoluzionario, nel corso della sua battaglia il giovane italiano tenderà fondamentalmente a replicare, come vedremo, lo stesso schema di rapporto che li aveva legati durante il soggiorno a Losanna. Al contrario, Titus, dopo aver cercato di inseguire il fantasma di Mario, nel capitolo successivo della trilogia si abbandonerà a una relazione amorosa con una donna di società, finendo vittima dello sprigionarsi di quella violenza primaria che ha sempre caratterizzato simili scenari nell’immaginario di Terra. Del resto, questo destino è in un certo qual modo prefigurato già in Metamorfosi, dalla relazione che l’uomo instaura, subito dopo la partenza dell’amico, con l’amante abbandonata di lui, Ebba. Relazione peraltro lucidamente riconosciuta per quello che è: un tentativo di aggirare l’ostacolo dell’omosessualità:

81

D. Terra, Metamorfosi, cit., p. 211.

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Titus era riuscito a sapere il significato dello strano desiderio, formula che felicemente risolveva il contrasto fra l’amore per l’amico e la ripulsa all’omosessualità. Amando Ebba avrebbe amato l’amore di Mario. Ebba era la coppa alla quale Mario aveva bevuto: il desiderio di bere nello stesso bicchiere. Le labbra di Ebba erano diventate quelle di Mario date in una donna. Aveva conosciuto il significato dello strano desiderio, ma non per questo gli scemava, tutt’altro, rimaneva fortemente agitato, e doveva sforzarsi per mantenersi dove voleva rimanere.82

Siamo palesemente nel campo del desiderio mimetico, i cui contorni sono stati tratteggiati da René Girard.83 Attraverso la donna che era stata di Mario, Titus cerca un possesso fantasmatico dell’amico. Ma proprio il fatto che lo schema sia così evidente, ne impedisce il funzionamento: la relazione tra i due non avrà seguito, e anche quando Ebba avrà raggiunto Titus a Parigi, questi non cederà alle lusinghe di lei. Solo più avanti, come ho accennato, nel capitolo successivo della trilogia, Anima e corpo, o il libro di Elena, Titus, lontano ormai da Mario, potrà abbandonarsi pienamente al fantasma. E sarà ovviamente un fantasma di annientamento, visto che in esso trovava finalmente soddisfazione proprio l’impulso distruttivo di dominio che la filiazione spirituale ha il potere di tenere imbrigliato nel rapporto pedagogico che è anche amore tra fratelli, e che aveva legato per breve tempo i due uomini. La seconda parte del romanzo potrebbe essere interamente letta come la storia degli sviluppi di ciò che questo rapporto troncato aveva lasciato germogliare dentro di loro. Non è un caso che Mario, che a quel tipo di fratellanza-filiazione (l’essere fratello e allievo, ovvero allievo/figlio al di fuori di un rapporto di sottomissione all’autorità paterna) si era prestato in modo naturale e senza resistenze, abbia da questo momento in poi uno spazio minore. Lo vedremo ancora in situazioni di estremo pericolo, partecipare ai moti di piazza spagnoli che inaugurano la travagliata stagione delle lotte politiche degli anni Trenta nella penisola iberica, che di lì a poco sfoceranno nella guerra civile. Lo vedremo, in particolare, rifugiarsi in casa di due compagni spagnoli, i coniugi Ortega, che gli offrono protezione. Qui resisterà alla seduzione della padrona di casa, Carmen, per non tradire l’amicizia e la fiducia di chi 82 83

Ivi, p. 248. R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano, Bompiani, 2002.

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lo ha salvato da un probabile arresto: «fu contento di levarsi dal letto e di uscire perché la moglie del professore lo eccitava; badava a curarlo con troppe premure, troppo intimamente, e poi per casa girava troppo poco vestita, e lui che non voleva far torto all’ospite amico pativa per lo sforzo onesto».84 Ed anche qui è possibile leggere la traccia di quel rifiuto che il giovane rivoluzionario ha interiorizzato, verso ogni tipo di rapporto che segua la traccia dell’autoritarismo, che sarebbe ovviamente implicito in una relazione edipica con la donna di colui che paternamente lo sta proteggendo. L’ultima apparizione di Mario ci mostrerà infine l’incontro con un capo rivoluzionario spagnolo, che lo affilierà a una società segreta le cui regole sembrano disegnate apposta per sfuggire ad ogni forma di autoritarismo gerarchico: «E dunque lei, caro Mario, è regolarizzato. Non vi è bisogno di carta, di giuramenti, di firme, di tessere. So chi è lei, e basta; peccato che non sia abbastanza furbo, ma ha molte altre qualità». La descrizione di questo colloquio assume un’importanza di non poco conto per la comprensione della vicenda personale di Dino Terra (e di questo suo romanzo): molti anni dopo, in un libro di memorie rimasto in parte inedito, Cari fantasmi amici,85 lo scrittore dichiarerà di aver adombrato in questa scena i suoi due incontri con Antonio Gramsci, avvenuti nel 1926. La cosa più interessante è che l’esito dell’incontro romanzato e di quelli avvenuti nella realtà sia stato diametralmente opposto. Nell’abitazione del segretario del PCd’I, il giovane Simonetti, che pure si sente affascinato dalla figura carismatica del leader comunista, e che ne condivide sostanzialmente gli ideali, è però colto dal timore di legarsi in modo formale alle sorti del partito. Nei brani di memorie inediti citati da Paolo Buchignani si può leggere: Però, tutto al contrario di quanto è stampato nel romanzo, ero scrupolosamente in allarme che mi ritenesse già tranquillamente nei ranghi del Partito. Sapevo di non essere adatto alla pur necessaria disciplina della tessera, specie in quei frangenti. La mia vocazione di studioso, gli 84

D. Terra, Metamorfosi, cit., pp. 345-346. La versione pubblicata di questo testo (Fantasmi veri, cit.) è priva proprio della parte relativa all’incontro con Gramsci. Ne parla Paolo Buchignani in La rivoluzione di Simonetti-Terra: dal giacobinismo all’«immaginismo», cit., p. 136, che riporta alcune citazioni tratte direttamente dall’originale inedito. 85

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dicevo, mi portava, non dirò affatto al di sopra della mischia, bensì ai lati della mischia, su la collina di fianco e panoramica. Tuttavia, aggiungevo, ero sempre legato sentimentalmente agli ideali del comunismo, e dunque di Tolstoi, della Russia Sovietica e dell’uomo in genere: da coltivare come il giardiniere cura una pianta.86

Se ho scelto di citare alcuni particolari della vicenda personale dell’autore, non è per limitarmi alla pura constatazione del fatto che egli, come è evidente da queste parole, al momento di trasformare il suo impegno politico in una militanza concreta, preferì tirarsi indietro, riparandosi dietro la “vocazione di studioso”,87 ma perché quest’attimo, evidentemente uno di quei pochi che in una vita hanno davvero il potere di decidere e tracciare il destino, segna anche il discrimine, la spaccatura incolmabile che separa la via di Mario da quella di Titus (e dunque ci aiuta a comprenderla). Il narratore ha infatti portato entrambi di fronte a quel bivio dove egli stesso alcuni anni prima aveva compiuto la sua scelta. Mario, come abbiamo visto, non ha esitazioni; e se a far esitare il giovane Terra fu in fin dei conti la paura della repressione, il personaggio romanzesco si sentirà dire dall’interlocutore: «Avevamo bisogno di lei, per lei non occorrono troppi consigli e suggerimenti. E poi lei non ha paura; non immagina quant’è difficile trovare uomini che non abbiano paura. Io contavo su quattro persone in tutta questa repubblica, ed io mi numeravo fra queste».88 Appare allora evidente che uno dei nodi centrali di questo romanzo è il rapporto dell’uomo con la paura (un genere ben specifico di paura, come vedremo), e un’interrogazione sulla possibilità di liberarsi da essa, per poter finalmente essere liberi di agire nel mondo, provando a modificarlo secondo i propri ideali. L’itinerario seguito da Titus dal momento della sua separazione da Mario è tutto segnato dal porsi incessante di questo interrogativo. La partenza per Parigi, ovvero l’abbandono di quel limbo ideale che è la Svizzera per l’Europa del tempo, è anche un viaggio verso l’intimità di se stesso, verso i propri fantasmi, verso quei luoghi oscuri 86

D. Terra, Cari fantasmi amici, inedito, cit. ivi, p. 124. Secondo Buchignani «è assolutamente verosimile (e l’espressione “specie in quei frangenti” sembra lasciarlo trapelare) che egli temesse anche, come militante comunista, di incappare nei rigori repressivi della dittatura mussoliniana, ormai saldamente al potere». Ivi, p. 125. 88 D. Terra, Metamorfosi, cit., p. 377, cors. mio. 87

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insomma, in cui è necessario recarsi ogni qual volta ci si avvicini alle grandi svolte che segnano l’esistenza dell’individuo. Avevamo già appreso che Titus era stato sposato, e che il suo matrimonio era finito in seguito alla perdita della figlia di sei anni. A Parigi aveva vissuto i suoi anni sereni, da padre e marito. Nessuno c’era più ad attenderlo sulla banchina nerastra, come una volta. E rivedeva, sei anni erano già passati, rivedeva Silvia (il cuore venne agguantato da una mano viscida) corrergli addosso, starnazzare di contentezza pel suo papaino, seguita da Anna che sembrava una luce. Baci, strette, sguardi: «siamo noi, la nostra buona vita, la famiglia».89

Per comprendere le motivazioni profonde di questo viaggio, del bisogno di confrontarsi con i fantasmi del passato, è necessario tenere presente il fatto che esso viene intrapreso, come abbiamo visto, in corrispondenza alla rottura con Mario, che segna la rinuncia dell’uomo alla possibilità di instaurare un rapporto di tipo non autoritario, e tramite esso di dedicarsi alla lotta contro l’esistente, per la realizzazione di quegli ideali che egli pure in teoria aveva riconosciuto. Devono essere dunque i fantasmi che lo accolgono sulla banchina deserta della Gare de Lyon, a custodire la ragione profonda del suo rifiuto, e in particolare la piccola Silvia, la bimba morta sei anni prima: Una volta, ormai erano passati degli anni, si era smarrito col cadavere della sua Silvia; e tanta durissima fatica gli era occorsa per ritrovare la via della vita, per mantenere un’esistenza passabile. No. Si era vietato le dolcezze del cuore: non doveva ammorbidirsi nei sentimenti. È ridicolo il dolore dell’omuncolo per l’irrazionalità delle cose. Ridicolo.90

Ecco, forse è proprio questo il punto: l’irrazionalità delle cose, o meglio, l’impossibilità di accettarla. È il non senso dell’esistenza, spettralmente incarnato dal cadavere della figlioletta, a costituire la parete impenetrabile che lo esclude dalla 89 90

Ivi, p. 251. Ivi, p. 252.

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possibilità di agire nel mondo, di liberarsi dall’ossessione della teoria, dalla paura. Non è certamente un caso, che subito dopo le righe appena citate, il pensiero di Titus vada a Mario e alla sua scelta rivoluzionaria: «L’orizzonte della suprema inutilità. Beato Mario, quello stupido almeno credeva a qualche cosa, si preoccupava, si faceva un modo di vivere».91 Quello che Titus qui non dice, ma infondo intuisce, è che quella “stupidità” che consente all’uomo di agire, di credere in qualche cosa, di farsi un modo di vivere, implica innanzitutto il coraggio di accettare quell’«orizzonte della suprema inutilità», che per lui, segnato da un lutto così atroce, vorrebbe dire innanzitutto, lasciar andare «il cadavere della sua Silvia», con il quale «si era smarrito» alcuni anni prima. Del resto, appena giunto a Parigi, immerso in queste riflessioni, egli se lo dice apertamente: «Si raddrizzò sul sedile: non valeva la pena di soffrire per Silvia (respirava a fatica). Addio, la morte è quanto di più naturale ci possa essere, lo sappiamo da migliaia di anni, addio bambina mia, sei andata via in anticipo…». Ma la comprensione non basta, e subito dopo il padre riafferra il cadavere della figlia e se lo stringe al petto; i ricordi ricominciano ad avvolgerlo nella spirale: «giocava a fare la mammina, giocavano insieme, e lui faceva da bebè (un metro e settantasei): “Mammina mi porti a spasso”. Come le piaceva quel rovesciamento di situazione».92 Mi sembra evidente che il viaggio di Titus, intrapreso per andare al fondo delle motivazioni che avevano portato alla sua rinuncia a Mario e alle nuove possibilità che questi aveva rappresentato, si configuri a questo punto come un itinerario nella depressione, quella melanconia con cui fin dalle prime pagine il narratore aveva voluto caratterizzarlo. Non si tratta dunque, e ora possiamo comprenderlo fino in fondo, di un atteggiamento, di una posa mirata a identificare il tipico intellettuale mitteleuropeo espressione del crollo di un mondo, ma di una situazione legata a condizioni reali, nella misura in cui al cuore dell’atteggiamento depressivo sta sempre anche un’incapacità di accettare l’insensatezza dell’esistente, una volta che questa si sia manifestata attraverso un evento particolarmente significativo della vita (la perdita di un figlio piccolo ne è un esempio perfetto). Secondo Jung, il depresso ritrae il proprio investimento libidico dal mondo, per introvertirlo sul proprio io. Da qui deriva l’impossibilità di impegnarsi nella lotta, ma 91 92

Ivi, pp. 252-253. Ibidem.

239

soprattutto, è qui che ha origine la riattivazione (proprio ad opera della libido introvertita) di quei fantasmi veri, cioè ricreati sulle fattezze della realtà, all’interno dei quali «l’irrazionalità delle cose» prende dimora stabile acquistando a sua volta un peso reale. Che fosse sempre stato questo l’orizzonte del personaggio di Titus, risulta del resto evidente da una serie di passaggi che a questo punto possono essere riletti ad una nuova luce: Alla scienza preferisco le favole di Andersen, che serve conoscere? Un magro profitto che costa un’importante perdita. Sotto la pelle c’è il corpo atroce, non è divertente vederne l’interno. La realtà è pesante, perché non cercare di renderla diversa? Viva il surrealismo, dunque. Io potrei dire di essere surrealista da qualche anno prima di quei curiosi ragazzi di Parigi. Il mio desiderio vivissimo sarebbe di poter uscire fuori dall’ossessionante reale. La crudele apparenza di ciò che è, l’intima e chiara conoscenza della nostra vita, può diventare facilmente un’ossessione malamente sopportabile, la noia un paesaggio troppo netto, senza ombre.93

In questo ragionamento Titus cerca di assumere il ruolo di colui che disprezza la conoscenza della realtà delle cose, accontentandosi di vivere in una surrealtà che è però quanto di più lontano si possa concepire da quella dei surrealisti, cui pure egli fa diretto riferimento, dal momento che l’interrogativo «la realtà è pesante, perché non cercare di renderla diversa?» viene da lui inteso come un’esortazione alla pura evasione, al puro e semplice rifiuto della realtà, laddove, è noto, per i surrealisti il fine ultimo del detour della mente nella surrealtà non poteva che essere la base per una lotta contro questa realtà, mirata ad un mutamento delle sue condizioni materiali. Insomma, il desiderio di evasione dalla realtà, l’apparente disprezzo per essa, non è che un’ammissione dell’impossibilità di accettarne la pura e semplice consistenza. Se con queste parole Titus velatamente accusa Mario di non saper riconoscere che la realtà sia insensata, perché troppo preso nella sua ossessione per la lotta mirata al rivolgimento rivoluzionario delle cose, è in realtà egli stesso a non potersi rassegnare a questo puro e semplice dato di fatto («Il mio desiderio vivissimo 93

Ivi, p. 145.

240

sarebbe di poter uscire fuori dall’ossessionante reale»), mentre alla base della scelta politica dell’amico sta proprio l’assenso verso il dato di fatto, il riconoscimento che le cose, effettivamente, stanno così, e nessuna evasione potrà liberarcene, nessun surrealismo male interpretato. Mario sembra del resto comprendere la contraddizione in cui si dibatte l’amico, e al contempo offrirgli, con la sua presenza, un’ancora di salvezza. Ecco come Mario lo ascolta pronunciare le parole riportate sopra: «smise il gioco di ripicca e rimase a guardarlo con simpatia. Le vene delle tempie si disegnarono gonfie di sangue. Titus senza accorgersi del suo sguardo amoroso gli rispose dopo qualche momento».94 Quello sguardo amoroso è l’ancora di salvezza che Mario porge all’amico, in cui andava ad annidarsi una verità terribile ma anche liberatoria: l’accettazione del non senso della realtà, il riconoscimento di questo dato di fatto come base per l’azione anziché come rifiuto ed eterno itinerario all’indietro nella depressione, non può che passare attraverso l’instaurazione di un rapporto con l’altro vissuto al di fuori di ogni autoritarismo, ovvero attraverso la rinuncia all’autorità dell’altro o di se stessi vero l’altro, che è poi il fondamento di ogni legame di dominio/sottomissione, psichicamente figurato nella reciprocità della relazione tra padre e figlio: la rinuncia all’autorità del padre è infatti rinuncia al fondamento della realtà, rinuncia al riconoscimento di un senso certo, che possa proteggere dall’irrazionalità delle cose. È allora evidente che proprio nel rapporto con Mario, Titus avrebbe potuto trovare la salvezza dai fantasmi della propria depressione, e, forse, un suo ruolo nel mondo. Naturalmente, perché ciò potesse avverarsi, avrebbe dovuto lasciar andare per sempre il cadavere di Silvia, e ritrovarsi così, senza alcun riparo, in un mondo vuoto di significato e privo di ogni autorità, di ogni ordine protettivo. Ma non era proprio questo il mondo in cui viveva Mario? Un mondo in cui il rivoluzionario non riconosce come giusta alcuna autorità costituita, ma percepisce il potere sempre come minaccia (ed infatti il contatto con esso vuol dire per lui prigionia, tortura, morte), proprio come l’uomo primitivo in mezzo alla natura selvaggia deve difendersi dalle belve? Eppure Mario non dispera, e non si sente solo. Non vi è alcuna autorità a proteggerlo, alcun ordine. Eppure, incrollabile, pieno di fede, è il 94

Ibidem, cors. mio.

241

rapporto con i fratelli: figli, padri o amanti, in questa dimensione, scomparsa l’autorità, è ogni rapporto umano ad assumere le caratteristiche della libera fratellanza. Ecco cosa avrebbe potuto sperare Titus dall’amico: «un’estrema vicinanza, una contiguità assoluta; non una filiazione naturale, ma un’alleanza contro natura».95 Così nel suo saggio dedicato all’universo narrativo di Melville, Gilles Deleuze parla della comunità dei fratelli liberi dalla funzione paterna: «una funzione di fratellanza universale che non passa più attraverso il padre, si costruisce sulle rovine della funzione paterna, suppone la dissoluzione di ogni immagine del padre»,96 ed è una «passione bruciante più profonda dell’amore, poiché non ha più né sostanza né qualità, ma traccia una zona di indiscernibilità nella quale percorre tutte le intensità in tutti i sensi, si estende fino al rapporto omosessuale tra fratelli e passa attraverso il rapporto incestuoso tra fratello e sorella».97 Naturalmente, qui, «l’alleanza contro natura» è quella che i rivoluzionari instaurano contro quel dato di fatto, il dolore del mondo, l’insensatezza delle cose, la sofferenza degli oppressi, che il punto di vista della razionalità (se vogliamo, di quella lega degli adulti, dei padri, che è il potere costituito) considera come immutabile, pur segretamente, come abbiamo visto, rifiutandosi di accettarne tutte le conseguenze. A mio parere, il punto di maggior interesse di Metamorfosi sta nella possibilità di seguire questi nodi concettuali nella struttura stessa del romanzo, al punto che essi non potrebbero farsi comprensibili se non fossero divenuti formali, prima ancora che tematici. Fino a quando al centro della storia vi è il personaggio di Mario, l’autore costruisce il plot come una libera associazione di piani contigui, di sequenze narrative il cui significato, in modo del tutto conforme alla concezione avanguardistica del montaggio (che era, non ci dimentichiamo, il fondamento dell’espressionismo e poi anche di quell’immaginismo da cui la vicenda intellettuale di

Dino

Terra

aveva

preso

avvio

alcuni

anni

prima),

deriva

proprio

dall’accostamento, dal contrappunto, grazie al quale i significati in essi latenti vengono liberati e potenziati. La «filiazione non naturale» dunque, la filiazione spirituale che è sempre contro natura in quanto libera associazione dei fratelli, trapassa sul piano formale (anzi, ha essa stessa un’origine dapprima formale) nella 95

G. Deleuze, Bartleby o la formula, in Critica e clinica, Milano, Cortina, 1996, pp. 93-118: 104. Ivi, p. 105. 97 Ivi, p. 112. 96

242

costruzione della trama come montaggio. Era questa la lezione che Terra aveva tratto da Gide, che a sua volta aveva trasposto in modo geniale, sul piano del romanzo, le intuizioni delle avanguardie. Naturalmente, si tratta di una genealogia letteraria che non può che risalire fino a Dostoevskij, dal momento che è stato proprio quest’ultimo, autore amato sia da Terra che da Gide, ad aver costruito quella narrazione di idee in cui ciascun personaggio è la viva incarnazione di una visione del mondo, che viene lasciata libera di vivere di vita di propria, e dunque anche, in prospettiva, di dar vita a un segmento narrativo autonomo, che poi andrà insieme a tutti gli altri a formare quella costruzione non organica che è il romanzo polifonico, polistrutturale, non monolitico. Un romanzo, a questo punto è facile trarre anche questa conseguenza, che si pone innanzitutto come non autoritario, nel doppio senso della rinuncia dell’autore al suo dominio completo sulla materia – l’autore lascia vivere i personaggi e le loro vicende – e del rifiuto dell’adozione di un’idea che possa rivelarsi come verità e fondamento. A proposito del primo punto Gide scriverà nel Diario dei falsari: «Il cattivo romanziere costruisce i suoi personaggi: li dirige e li fa parlare. Il vero romanziere li ascolta e li guarda agire, li sente parlare prima di conoscerli ed è dopo di averli ascoltati che capisce a poco a poco chi siano».98 Ma risulta altresì chiaro come questa affermazione si ricolleghi in modo diretto al secondo punto, ovvero alla rinuncia, da parte dell’autore, alla propria autorità, ovvero alla propria parola di verità sulla comprensione del reale: Conviene, proprio al contrario di Meredith e di James, lasciare che il lettore prenda il sopravvento, adoperarsi perché il lettore creda di essere più intelligente dell’autore, più morale, più perspicace e perché scopra nei personaggi molte cose e, nel corso della narrazione, molte verità, per così dire, a sua insaputa.99

Probabilmente la più completa espressione letteraria del romanzo realizzato secondo questa modalità è quel Punto contro punto di Aldous Huxley, con il quale ho aperto questo capitolo, poiché il romanziere inglese aveva costruito l’intera opera tentando di seguire, in modo ancora più rigoroso di Gide, le idee che questi aveva 98 99

A. Gide, Il diario dei falsari, in I falsari, cit., p. 408. Ivi, p. 401.

243

sviluppato nel Diario dei falsari, ovvero la tecnica contrappuntistica applicata alla narrativa. Ma è innegabile che solo Gide sia riuscito a portare direttamente in primo piano anche quei due nodi fondamentali da cui questo genere di contrappunto trae la propria ragione d’essere, ovvero la filiazione spirituale sottratta all’autoritarismo (e dunque, come abbiamo visto, la scomparsa dell’autorità autoriale dalla narrazione), e la violenza primaria contro cui la costruzione romanzesca tenta di reagire. Non è certamente un caso, del resto, che il romanzo di Terra, fino a quando tiene aperta la possibilità rivoluzionaria incarnata da Mario, si sviluppa su una struttura aperta, moltiplicando la pluralità delle trame, e nel momento in cui lascia andare Mario anziché i fantasmi depressivi di Titus, comincia un percorso regressivo, nel corso del quale la parte dedicata a quest’ultimo prende decisamente il sopravvento, fino a lasciare soltanto dei ritagli alle vicende dello stesso Mario, e a quelle degli altri personaggi. La vita di Titus a Parigi è il perfetto specchio di questa situazione formale: un viaggio disilluso attraverso ambienti intellettuali fatui e privi di senso, che si conclude nel momento in cui egli viene richiamato a Londra dal fratello banchiere, a causa del disastro che incombe sulla banca di famiglia divorata dalle speculazioni succedutesi alla grande crisi economica del ’29. Titus si recherà dunque a Londra, ma solo per assistere all’indifferenza della sorella, che rifiuta di aiutare i fratelli con le proprie ingenti risorse e le proprie influenti relazioni, e, in fine, al suicidio di Alexander, il fratello autoritario in cui la figura paterna aveva continuato a proiettare la propria ombra anche oltre la morte. Ma ancora più sinistra è la conclusione del romanzo: Titus, ormai privo di prospettive, riceve come ancora di salvezza, le lettere di un suo ex compagno di studi, un professore italiano di nome Zanelli, che gli scrive dall’Italia fascista: Dopo

le

effusioni

dell’inizio,

il

professore

cominciava scusandosi di aver letto solo in quegli ultimi mesi le pubblicazioni del suo caro Titus; […] Però lo rimproverava di alcune gravi lacune – che falsavano e sminuivano l’importanza dei suoi scritti – fra le quali non gli perdonava l’oblio del senso romano e altre cose che gli

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stavano a cuore. Concludeva invitandolo a Roma, nel paese della chiara concretezza.100

Ma è la seconda lettera a convincere Titus: otto pagine fitte che illustravano il significato di un neo

romanismo

e parlavano

con

passionali accenti

dell’uomo eroico e dei grandi ideali della vita. (Dietro le frasi facili e magari ingenue, si leggeva una passione chiara e solida; del resto conosceva abbastanza lo Zanelli – un uomo onesto e riflessivo – per essere interessato alle sue parole). Quindi invitava di nuovo l’amico a raggiungerlo a Roma, dicendosi sicuro di fargli riconoscere quella realtà vitale che non aveva saputo scoprire. E Titus decise di andare a Roma […].101

Se aveva lasciato cadere l’ancora di salvezza che gli era stata a suo tempo lanciata da Mario, Titus decide ora di afferrare quella del professore italiano, profeta di quella realtà vitale che sarebbe poi il fascismo. Così, con l’ombra nera di un ritorno sotto l’egida dell’autorità nella sua forma più violentemente compiuta, il totalitarismo, si conclude per questo romanzo la vicenda di Titus Sapiro. E non a caso l’autore vi pone a conclusione questa nota: Qui

finisce

questo

volume

che

vorrebbe

rappresentare alcuni stati d’animo della nostra epoca: «specchio dei giorni». L’apparente mancanza di conclusione è secondo l’autore la vera conclusione: si tratta di anni critici incerti malati. Conoscere le relazioni di Titus con Roma, le sue nuove amicizie, i rapporti col fascismo, le conseguenze della pericolosa strada in cui si è avviato Mario, le avventure di Ebba, la fine di Guido, è il complesso che formerà la continuazione alle nuove metamorfosi – la trasformazione di una civiltà – un libro che forse avrà titolo: Roma. Vi troverà Titus quel porto di cui non può più fare a meno? Ma la critica situazione dipende, poi, dalla nave o dallo stato del

100 101

D. Terra, Metamorfosi, cit., pp. 384-385, Ibidem.

245

mare? È quello che si vedrà fra qualche anno quando pubblicheremo il nuovo romanzo.102

Certo non si può ignorare che un romanzo incentrato in larga parte sulle avventure di un rivoluzionario comunista non avrebbe mai potuto passare attraverso le maglie della censura di regime nell’Italia nel 1933, se non avesse offerto una possibile lettura del fascismo stesso come soluzione dei problemi posti nel corso della narrazione. Sta di fatto che al culmine di questo racconto, che, come abbiamo visto, già a partire dall’abbandono della possibilità rivoluzionaria rappresentata da Mario, cominciava a rifluire verso una narrazione sempre più compatta e monocolore, l’opzione verso il fascismo non può che figurare come un pieno ritorno alla casa paterna, un cedimento su tutti i fronti verso il ripristino dell’autorità, in grado di offrire un porto sicuro, una conversione accomodante, una chiusura dei problemi rimasti aperti. Una resa, vera e propria: Il conflitto fra l’individuo e il corso del mondo doveva pervenire così, passando attraverso le forche caudine del disincanto e della depressione soggettiva, ad un epilogo positivo, al riconoscimento di una totalità sociale in cui integrarsi e alla consapevole accettazione del duro prezzo – l’esautoramento dell’individuo – che il progresso storico esige.103

Era questa l’idea che Hegel aveva del romanzo moderno come epopea borghese. Giustamente Claudio Magris nota che l’unico esempio realizzato di questo genere di “epopea” sarà «il romanzo realista-socialista o staliniano, che rappresenterà l’edificazione di un mondo epico, collettivo – la rivoluzione, la società comunista, i piani quinquennali – capace di conferire significato alla vita degli individui che vi si sottomettono, anche venendone stritolati».104 Non è certamente un caso, dunque, che la vicenda di Titus Sapiro, passata attraverso il «disincanto» e la «depressione soggettiva», trovi una sua conclusione pacificante, proprio nella risoluzione-

102

Ivi, p. 387. C. Magris, Grande stile e totalità, in L’anello di Clarisse, Torino, Einaudi, 1999, pp. 3-31: 17. 104 Ibidem. 103

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dissoluzione di tutte le contraddizioni nell’abbandono a un’autorità superiore, ovvero il totalitarismo fascista, che vuol dire poi, appunto, «l’esautoramento dell’individuo». Metamorfosi si pone dunque realmente come la conclusione della fase immaginista del suo autore, arrivando a chiudere le ragioni stesse dell’esistenza dell’avanguardismo con l’abbandono – anche se qui solo accennato, promesso – all’autorità totalitaria. Eppure, vi è ancora qualcosa che sfugge a questo schema, qualcosa che lascia dopotutto ancora la possibilità al lettore, secondo le prescrizioni di Gide, di prendere il sopravvento. L’unica linea narrativa che non si era diradata col debordare dello spazio dedicato a Titus, era la banale e quotidiana vicenda di Guido, cui ho fatto cenno all’inizio, un mediocre impiegato alle prese con la vita di tutti i giorni, e soprattutto con la lettura dei giornali, attraverso la quale il romanzo veniva suggestivamente inframmezzato con fatti vari, per la maggior parte crudi avvenimenti di cronaca nera. Ora, è proprio a Guido che viene affidata la chiusura: è domenica, ed egli assiste ad una gara ciclistica, sulla quale ha posto, pare, una puntata vincente: «Guido era diventato allegro, la gioia lo faceva ridere; “vedrete, vedrete, adesso si stacca e prende la fuga”; la sua voce era quella dei profeti».105 Questo gretto personaggio, le cui misere vicende mai riescono a incrinare la soddisfazione di attraversare incolume la vita di tutti i giorni, getta così un’ombra profetica su tutto il romanzo. Ho scelto in questo studio di non occuparmi della trilogia – di cui Metamorfosi è il primo capitolo – nella sua interezza, poiché il suo prosieguo esula ormai dalla fase avanguardista dell’autore, per proiettarsi verso la sua narrativa degli anni successivi. È però d’obbligo ricordare, qui, che Guido comparirà in tutti e tre i romanzi senza mai incrociare le vicende degli altri personaggi, almeno fino alle pagine conclusive, in cui finalmente il significato della sua presenza diverrà chiaro. Ormai al culmine della carriera, divenuto cancelliere, sarà proprio lui a lavorare per la condanna di Mario al plotone d’esecuzione, dopo il fallimento dell’attentato a Mussolini, per compiere il quale egli aveva fatto ritorno in Italia (l’ultimo capitolo della trilogia, La pietra di David, venne pubblicato solo nel 1946, al riparo ormai dalla censura del regime). Ecco che allora le miserie di tutti i giorni, emerse nella narrazione proprio attraverso la storia di Guido, tornano in primo piano con una violenta inversione delle prospettive: non sono i dilemmi morali e le 105

D. Terra, Metamorfosi, cit., p 386.

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tragedie personali a determinare le catastrofi della storia, ma quello sfondo davvero immutabile che è la vita quotidiana, il baratro alla fine destinato a inghiottire ogni cosa, proprio perché, annientando nell’abitudine la voglia di vivere e il desiderio di combattere, fa sì che gli uomini tornino sempre a lasciarsi travolgere e sedurre dalla violenza primaria che regna negli abissi marini così come nelle strade e nei salotti. È proprio dall’abisso del quotidiano infatti, che emerge quell’amore per la distruzione che ogni volta torna ad annientare le società dei fratelli, i tentativi di costruire una comunità umana libera dall’ansia di dominio e sopraffazione: un’unica violenza anima la macchina dello stato fascista che stritola Mario e, in fondo, l’autodistruttività di Titus; la stessa che arma la pistola con cui il giovane Boris pone fine alla sua vita di fronte ai compagni di classe, nel finale de I falsari, proprio per far sopravvivere nonostante tutto un’aspirazione disperata al legame fraterno. La stessa, infine, che balena negli occhi di Claggart, e da lì ritorna alle creature degli abissi da cui siamo partiti: «Quelle luci di intelligenza umana, perdendo ogni umana espressione, sporgevano gelidamente come gli occhi alieni di certe creature non classificate degli abissi marini. La prima ipnotica occhiata aveva una malia serpentina; l’ultima era come lo scatto paralizzante della torpedine».106 Il termine metamorfosi, che dà il titolo al romanzo, avrebbe dovuto indicare, nelle intenzioni dell’autore, l’inafferrabile mutevolezza delle forme della vita contemporanea. Più significativamente, appare ormai riferirsi alle incessanti trasformazioni della violenza, da cui prende avvio ogni trama narrativa.

106

H. Melville, Billy Budd, marinaio (1924), Roma, Newton Compton, 2011, p. 149, cors. mio.

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Bibliografia

Le opere di Gallian, Barbaro e Terra inserite in bibliografia sono quelle cui si è fatto riferimento per l’elaborazione di questa tesi. Le opere di altri autori sono state citate nell’edizione consultata; dopo il titolo, tra parentesi, è indicato l’anno della prima edizione in lingua originale.

Testi di Marcello Gallian

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Le due stagioni del varietà, in «L’Italia letteraria» (rubrica Luna Park), III, n. 44, 1 novembre 1931, p. 5. Bixio Ribechi, in «L’Italia letteraria» (rubrica Luna Park), III, n. 46, 15 novembre 1931, p. 5. Circo Zavatta, in «L’Italia letteraria» (rubrica Luna Park), IV, n. 5, 31 gennaio 1932, p. 5. Una vecchia perduta, Roma, Le Edizioni d’Italia, 1933. Colpo alla borghesia, in «Quaderni di segnalazione», I, n. 1, luglio 1933. Comando di Tappa, Roma, Cabala, 1934. Tempo di pace, Roma, Edizioni di “Circoli”, 1934. I tre atti, in «Quadrivio», n. 23, 7 aprile 1935 – n. 25, 21 aprile 1935. Il soldato postumo, Milano, Bompiani, 1935 (poi Venezia, Marsilio, 1988). Bassofondo, Milano, Panorama, 1935. In fondo al quartiere, Milano, Panorama, 1936. Tre generazioni, Milano, Panorama, 1936. Racconti per la gente, Cassino, Le Fonti, 1936. America, in «Quadrivio», n. 12, 19 gennaio 1936 – n. 14, 2 febbraio 1936.

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I tre mesi, in «Quadrivio», n. 34, 21 giugno 1936 – n. 44, 30 agosto 1936. L’ospite quasi solo, in «Quadrivio», n. 50, 11 ottobre 1936 – n. 54, 8 novembre 1936. Mezzaterra, in «Quadrivio», n. 20, 14 marzo 1937 – n. 23, 4 aprile 1937. Quasi a metà della vita, Firenze, Vallecchi, 1937. Dopoguerra, Cassino, Le Fonti, 1937. Il monumento personale, Roma, Edizioni d’arte e di critica, 1937. Racconti fascisti, Milano, Panorama, 1937. Nostro impero quotidiano, in «Quadrivio», n. 50, 10 ottobre 1937 – n. 24, 10 aprile 1938. Combatteva un uomo, Firenze, Vallecchi, 1939. Tenebra solare, Catania, Editrice Jonica, 1939. Primo diario, Roma, Scrittori Contemporanei, 1940. Gente di squadra, Firenze, Vallecchi, 1941. Alba senza denaro, Roma, Azione Letteraria Italiana, 1943. La miseria, in «La fiera letteraria», n. 18, 8 agosto 1946 – n. 27, 10 ottobre 1946. La scoperta della terra, in «Eurostudium», n. 17, ottobre-dicembre 2010, pp. 182223.

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Testi di Dino Terra

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Ioni. Qualche tempo di due umani e d’un demone. Storia con avvenimenti rari normali curiosi e straordinari – Più delle considerazioni e altre cose interessanti, Milano, Alpes, 1929. Buster Keaton in Io e l’amore. Il diavolo bianco. Orchidea selvaggia, «Il Tevere», 1 aprile 1930. Charlie Chaplin e Le luci della città, in «Il Tevere», 3 aprile 1931. Profonda notte, Lanciano, Carabba, 1932. Metamorfosi, Milano, Ceschina, 1933. Anima e corpo o il libro di Elena, Milano, Bompiani, 1934. Il toscano, in «Occidente», IV, n. 10-11, gennaio-marzo 1935, pp. 99-104. Qualcuno si diverte, Milano, Ceschina, 1937. Fuori tempo, Firenze, F.lli Parenti, 1938. La grazia, Milano, Garzanti, 1941. Le ricerche amorose, Milano, Ceschina, 1942. La pietra di David, Garzanti, Milano, 1946. Una storia meravigliosa, Milano, Ceschina, 1964. L’ombrellino di carta colorata, Milano, Ceschina, 1967. L’inatteso, Ceschina, Milano, 1974.

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Studi su Marcello Gallian, Umberto Barbaro e Dino Terra

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Testi di altri autori

AA.VV. Gli automi sono tra noi. Storie di bambole, marionette e meraviglie intelligenti, Milano, Medusa, 2011. Abraham K., Il ragno come simbolo onirico (1922), in Opere, Torino, Bollati Boringhieri, vol. 2, 1997, pp. 459-465. Adorno T.W., Frenkel-Brunswick E., Levinson D., Sanford R., La personalità autoritaria (1950), 2 voll., Milano, Edizioni di Comunità, 1973.

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Adorno, T.W., Minima Moralia (1951), Torino, Einaudi, 2005. Alberti A.C., Bevere S., Di Giulio P., Il Teatro Sperimentale degli Indipendenti (1923 – 1936), Bulzoni, Roma 1984. Alquié F., Filosofia del surrealismo (1955), Salerno, Rumma, 1970. Alvaro C., Opere. Romanzi e racconti, Milano, Bompiani, 2003. Andreev L., Anatema (1909), Roma, La Bilancia, 1923. Andreev L., Padre Vassili, Bassi fondi, La Marsigliese, Milano, Edizioni dell’Avanti!, 1922. Angelini F., Teatro e spettacolo nel primo Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1988. Aragon L., Trattato dello stile (1928), Firenze, Alinea Editrice, 1993. Auerbach E., Mimesis (1946), 2 voll., Torino, Einaudi, 2000. Bachtin M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare (1965), Torino, Einaudi, 2009. Bachtin M., Dostoevskij. Poetica e stilistica (1968), Torino, Einaudi, 2000. Bachtin M., Estetica e romanzo (1975), Torino, Einaudi, 2001. Beckett S., Racconti e prose brevi, Torino, Einaudi, 2010. Benjamin W., Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei (1929), in Avanguardia e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1955.

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Ringraziamenti Ringrazio la professoressa Silvana Cirillo, per avermi fatto scoprire nuovi territori della letteratura: quelli cui è dedicata questa tesi. La ringrazio anche per tutto il resto: per i consigli, per il sostegno, insomma per il dialogo su cui è cresciuto il mio lavoro di questi anni. Ringrazio il professor Francesco Muzzioli, per i suggerimenti e per le attente letture, che mi hanno aiutato a orientarmi soprattutto nella fase più complessa del lavoro. Ringrazio Giulio Aloi e tutta Key-One srl per avermi consentito di lavorare in modo compatibile con lo studio universitario: un privilegio raro. Ringrazio il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia, per la disponibilità dimostratami durante il periodo di studio presso l’archivio. Ringrazio gli amici vicini e quelli oltreoceano, con cui ho condiviso discussioni e letture senza limiti d’orario, che mi hanno letto e corretto, e senza i quali non ne varrebbe la pena. Ringrazio Ilaria: quem o escreveu não importa / que eu andei de porta em porta / para ver se te encontrava.

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