Civilta_medievale_n.1_2020.01.02[1].pdf

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O

CIVILTÀ MEDIEVALE

OV NU

CASTELLI MALEDETTI

Delitti infami e congiure diaboliche

IL RITORNO DEI TEMPLARI TARIFFA R.O.C. POSTE ITALIANE S.P.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE AUT. MBPA/LO-NO/008/A.P./2019 - PERIODICO ROC - S/NA

Distinguere il falso dal vero in film, romanzi e serie tv

LE

7 DONNE

PIÙ POTENTI DEL MEDIOEVO

Più influenti degli uomini, in guerra come in pace

IL SEGRETO DEI VETRAI I loro colori restano ancora un enigma Trova questa rivista e tutte le altre molto prima,ed in più quotidiani,libri,fumetti, audiolibri,e tanto altro,tutto gratis,su:https://marapcana.today

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editoriale

QUEI CAVALIERI IMMAGINARI

N

on c’è libreria in Italia, anzi nel mondo, che non riservi almeno uno scaffale all’infinita serie di titoli che vedono protagonisti i cavalieri dell’Ordine del Tempio. Ovviamente, si possono trovare saggi ineccepibili sull’argomento, ma il loro numero è modesto se confrontato con quello dei romanzi storici e di ricostruzioni sempre più fantasiose: tesori nascosti, segreti inenarrabili, confraternite esoteriche, ricatti, alchimie e profezie che arrivano a coinvolgere Leonardo da Vinci, Cristoforo Colombo e perfino Hitler. Tutti legati all’Ordine del Tempio e al rogo che, nel 1314, mise fine a uno dei più ricchi potentati del Medioevo. Un fenomeno che dura ormai da quarant’anni e che non accenna a diminuire. Anzi, i cavalieri dalla croce scarlatta hanno superato i limiti della pagina scritta per invadere il mondo dei fumetti, dei videogiochi, dei film e delle serie televisive. Il primo dossier di Civiltà medievale indaga su un fenomeno di cultura popolare che si rivela ancora più sorprendente e avvincente degli anacronismi e delle trame che ha generato nel corso degli anni. Guglielmo Duccoli

civiltà medievale

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La storia del West come non l’avete mai letta: attraverso i film

Bianchi e pellerossa, gli uomini che hanno reso immortale il West

Costumi, credenze, speranze e battaglie dei nativi americani

L’epopea della famiglia che riunificò l’Italia 150 anni fa

Tutte le date che hanno fatto la Storia del nostro Paese

Da Cesare a Garibaldi, gli uomini che hanno guidato intere nazioni

Chi era davvero Gesù di Nazareth e quali i suoi insegnamenti?

Come seguire le orme della Storia su un cammino millenario

Il corpo d’élite Usa, i suoi metodi e i suoi innumerevoli successi

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I temi più controversi e dibattuti dall’alba dei tempi a oggi

Saghe, storia, imprese, leggende e scorrerie dei guerrieri del Nord

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sommario

6

COVER STORY

16

PERSONAGGI

22

ARTIGIANATO

28

CUCINA

32

FATTI

Il ritorno dei Templari









Nove donne che fecero l’impresa Il segreto dei vetrai

PROSSIMO NUMER IN EDICOLO IL 28 FEBBRAA IO

Torte e dolcetti, una passione millenaria



I Vichinghi all’assedio di Parigi

38

MISTERI

46

LETTERATURA - CECCO ANGIOLIERI

50

TRASPORTI

54

RITI MISTERIOSI - SEPOLTURE ANOMALE

60

LA DOMANDA

64

LINGUA

70

MODA

74

EVENTI, RIEVOCAZIONI E APPUNTAMENTI

78

LIBRI E FILM

80

SIMBOLI



















Manieri insanguinati Il poeta scapestrato

Carri e carrozze riunirono l’Europa Uccidere i morti

Umanesimo e Rinascimento Come parlava veramente il volgo? La rivoluzione degli orecchini

L’aquila imperiale

QUESTA CARTA RISPETTA L’AMBIENTE civiltà medievale

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cover story: il ritorno dei templari

IL RITORNO DEI TEMPLARI Messi al rogo nel 1314 come eretici, i cavalieri del Tempio non hanno mai smesso, però, di vivere nella mente dei cultori dell’occulto. Soprattutto da quarant’anni a questa parte, diventando protagonisti di romanzi, film, serie tv e perfino fantasiosi videogiochi di Stefano Bandera

N Un ritratto di fantasia, risalente all’Ottocento, di Jacques de Molay, ultimo maestro dei Templari. Nella pagina a fronte, Filippo IV di Francia, detto il Bello, grande nemico dei cavalieri del Tempio, in una miniatura del XVI secolo realizzata da Jean de Tillet. Assieme al suo cancelliere, Guglielmo di Nogaret, Filippo pianificò le mosse che condussero alla rovina del potente ordine cavalleresco.

6

emmeno nei suoi sogni più reconditi Jacques de Molay, ultimo maestro dei Templari, avrebbe immaginato che il suo nome sarebbe stato uno dei più citati dalla letteratura d’intrattenimento del XX e XXI secolo. Eppure è così. Soprattutto a partire dal 1982, anno di uscita di Il santo Graal (Holy Blood, Holy Grail), il fantasioso saggio storico scritto a sei mani dagli inglesi Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln. Creando un affascinante miscuglio di informazioni storiche, eventi incerti e dati inattendibili o falsi (come ammesso dagli stessi creatori delle falsificazioni), i tre autori diedero vita a una “storia parallela” che si sarebbe dipanata nell’ombra per secoli, senza che la storiografia ufficiale se ne accorgesse. La loro indagine prese avvio dalla misteriosa vicenda di un prete francese di fine Ottocento, François Bérenger Saunière, parroco di Rennes-le-

Château, piccolo paese nel Sud della Francia. Questo prete, alle cui vicende si era già interessato lo scrittore francese Gérard de Sède, si sarebbe arricchito in maniera inspiegabile nel giro di una manciata di anni. Non pochi credettero che la sua fortuna fosse legata al ritrovamento di un tesoro templare (in realtà, pare vendesse messe per corrispondenza). Di che tesoro si trattasse, non fu mai chiarito: forse una ricchezza materiale, forse un segreto la cui conoscenza avrebbe permesso a Saunière di arricchirsi mediante una serie di ricatti. Baigent, Leigh e Lincoln, sposarono quest’ultima ipotesi. Secondo loro, Saunière avrebbe scoperto una serie di documenti che celavano una verità sorprendente: Gesù non era morto sulla croce, ma si era sposato con Maria Maddalena e aveva avuto da lei una discendenza. La stirpe divina si sarebbe trasferita nella Francia del Sud (la notizia sarebbe attestata anche ›

civiltà medievale

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cover story: il ritorno dei templari

VITA E MORTE DI UN ORDINE

L’

Ordine dei Templari (Pauperes commilitones Christi templique Salomonis) fu fondato nel 1118 da Ugo de Payns per proteggere i pellegrini in Terrasanta, da poco tornata cristiana. Secondo la tradizione, i cavalieri originari erano nove e ottenero da Baldovino di Gerusalemme il permesso di occupare alcune stanze del palazzo reale. Gli inizi furono piuttosto modesti, ma dieci anni dopo Ugo tornò in Francia per cercare nuovi adepti: in quell’occasione, nel 1129, Bernardo di Chiaravalle scrisse la Regola dell’Ordine e i cavalieri ottennero il riconoscimento papale. Nella doppia veste di monaci e guerrieri, i Templari rappresentavano una novità per il mondo medievale, in cui tali ruoli erano sempre stati divisi. Durante le Crociate, i cavalieri del Tempio si distinsero per valore militare, ma andarono incontro anche a diversi rovesci in battaglia. Dopo la caduta, nel 1291, di San Giovanni d’Acri, ultimo avamposto cristiano d’oltremare, il loro destino pareva segnato, essendosi esaurito il compito di difesa dei pellegrini. Tuttavia, i Templari avevano creato negli anni un’organizzazione ramificata, possedevano terre e denaro e fungevano da tramite per garantire il trasferimento di valuta attraverso i territori cristiani senza che i viaggiatori dovessero portare fisicamente il denaro con sé. A solleticare la cupidigia di Filippo il Bello fu la loro ricchezza: con abile manovra poliziesca, il re francese fece arrestare tutti i Templari in un solo giorno, il 13 ottobre 1307, con le accuse di blasfemia, idolatria e sodomia, che comportavano la scomunica e la condanna capitale. Processati dagli inquisitori, molti cavalieri confessarono (ma tanti ritrattarono). Papa Clemente V sospese l’Ordine nel 1312 e ne trasferì i beni disponibili agli Ospitalieri (futuri Cavalieri di Malta), ma molte ricchezze caddero nelle mani del re. L’ultimo maestro dei Templari, Jacques de Molay, fu arso vivo su un’isoletta della Senna (sotto), assieme a Goffredo de Charney, il 18 marzo 1314.

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dalla Legenda Aurea, la raccolta di biografie di santi scritta nel Duecento da Jacopo da Varazze) e lì aveva prosperato, pur tenendo ben nascosto il proprio lignaggio. Nei primi secoli del Medioevo, la discendenza di Gesù si sarebbe unita in alleanza dinastica con i Merovingi, primi re dei Franchi, fino a quando costoro vennero soppiantati dai Carolingi, che li esautorarono grazie al sostegno papale.

La catena del mistero

La verità riguardo alla discendenza di Gesù e il suo legame con i Merovingi sarebbe stata tramandata, quindi, in modo nascosto. Custodi del mistero sarebbero state varie società segrete, fra cui il fantomatico Priorato di Sion (fondato, in realtà, da un certo Pierre Plantard solo nel 1956, con scopi truffaldini), di cui i Templari avrebbero rappresentato il braccio armato. Al corrente di una verità in grado di sconvolgere la cristianità, i Templari vennero infine eliminati dal re di Francia Filippo il Bello all’inizio del Trecento. Il Priorato, però, sarebbe sopravvissuto, guidato da una serie ininterrotta di gran maestri nelle cui liste (inventate dallo stesso Plantard e ritrovate dagli autori del Santo Graal alla Biblioteca Nazionale di Parigi) figurerebbero personaggi del calibro di Leonardo da Vinci (la cui Ultima Cena sarebbe una sorta di rebus che nasconde il segreto), il fisico Isaac Newton e lo scrittore Victor Hugo. Nella cospirazione (perché di questo si tratta) sarebbero stati coinvolti, nel corso del tempo, anche gli eretici Catari, i Rosa+Croce, la Massoneria e altre conventicole che, essendo al corrente della “verità”, avrebbero professato forme di cristianesimo eterodosse, rinnegando la croce su cui Gesù non era mai morto. Non solo il “segreto” si sarebbe perpetuato, ma anche la stirpe di Gesù. Dati per estinti nell’VIII secolo, i Merovingi sarebbero invece sopravvissuti; anzi, aspirerebbero ancora a salire sul trono francese. Il mistero della discendenza di Cristo trasparirebbe nei romanzi del Graal, che cominciarono a essere diffusi nel XII secolo, all’epoca delle Crociate, quando i Templari stavano acquisendo un crescente potere. Proprio i cavalieri del Tempio sarebbero gli ispiratori di questi scritti e “San Graal” sarebbe da leggere come “Sang Real”, sangue reale, vale a dire il sangue di Gesù. Insomma,

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Sopra, da sinistra a destra, Ian McKellen, Audrey Tautou, Tom Hanks, Paul Bettany e Jean Reno, protagonisti del film Il codice da Vinci, diretto nel 2006 da Ron Howard e tratto dall’omonimo romanzo di Dan Brown. Alle loro spalle, l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, in cui sarebbe racchiusa, come in un rebus, la spiegazione del mistero templare svelato nel libro. A destra, Agrippa di Nettesheim, l’esoterista tedesco il cui De occulta philosophia mise per la prima volta in relazione (in poche righe) i Templari con la stregoneria e i culti pagani della fertilità legati a Pan e al dio fallico Priapo.

secondo Baigent, Leigh e Lincoln, le tracce del segreto di cui i Templari sarebbero stati custodi sono sparpagliate un po’ ovunque; alcune persone ne sarebbero state al corrente, ma ufficialmente nulla sarebbe trapelato fino alla loro sconvolgente scoperta. In tutto questo bailamme, Jacques de Molay svolge la sua parte: prima quando, già sul rogo, maledice i sovrani di Francia fino alla tredicesima generazione; poi quando, dopo la decapitazione di Luigi XVI (nel 1793), qualcuno nascosto tra la folla (o forse il boia, Charles-Henri Sanson) gridò con entusiasmo: «Jacques de Molay, sei vendicato!». Il fantasioso saggio dei tre inglesi ebbe un successo straordinario. Nonostante Umberto Eco abbia scritto che «la loro malafede è così evidente che il lettore vaccinato può divertirsi come se facesse un gioco di ruolo», moltissimi hanno creduto ai loro vaneggiamenti e hanno trattato lo scritto come una fonte affidabile. Sulla loro falsariga, i libri di genere sono proliferati, sempre mettendo in mezzo i Templari e la stirpe di Gesù: si va dalla Linea di sangue del Graal

(1996) di Laurence Gardner (che cerca di ricostruire tutta la storia della stirpe dei discendenti divini) al Codice Arcadia (2001) di Paul S. Blezard e Peter Blake; fino Alla ricerca del sepolcro (1997) di Richard Andrews e Paul Schellenberger, autori che dichiarano di aver ritrovato nel Sud della Francia (ovviamente in un luogo segreto) nientemeno che le tombe di Cristo e di Maria Maddalena. Certo, non sono mancati in questi anni volumi documentati e attendibili dedicati ai celebri cavalieri: fra tutti, citiamo sei volumi dallo stesso titolo, I Templari, scritti da Peter Partner (1982), Georges Bordonove (1993), Alain Demurger, Barbara Frale (2004) e Franco Cardini (2011). Compulsando gli Archivi segreti vaticani, la Frale ha ritrovato documenti da cui risulta che le accuse di eresia rivolte ai cavalieri erano infondate e che Clemente V, papa al momento della loro messa in accusa, aveva concesso il perdono ai condannati. Questi autorevoli saggi storici, tuttavia, si perdono nel mare del “templarismo”, ormai divenuto una sorta di mania per la “cultura pop”, che riempie › civiltà medievale

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cover story: il ritorno dei templari

gli scaffali delle librerie di tutto il pianeta. Quanto agli autori contemporanei dei Templari, essi si limitarono a esprimere un’opinione sulla loro condanna, spesso negativa (nella Commedia, Dante accusa Filippo il Bello di cupidigia per aver distrutto l’Ordine Templare con il preciso intento d’impossessarsi dei suoi beni), ma già nei secoli successivi la fama dei cavalieri del Tempio cominciò a farsi fosca.

Il mare del templarismo

Agrippa di Nettesheim, alchimista ed esoterista tedesco del Cinquecento, scriveva nel De occulta philosophia (libro dedicato alla magia, pubblicato nel 1531): «È ben noto come certe empie e disgustose pratiche permettano di attirare i demoni maligni secondo le arti che Psello attribuisce ai maghi gnostici, i quali solevano espletare abominevoli e immondi rituali, […] né tali pratiche dovevano essere molto diverse dalla detestabile eresia dei Templari. [...] Dello stesso genere dovevano essere anche le trasgressioni a cui si abbandonavano le streghe». Il legame tra eresia, stregoneria e Templari era ormai stato creato e le dicerie secondo cui i cavalieri fossero dediti a rituali magici trovano in Agrippa piena conferma. Circa la presunta stregoneria dei Templari scrisse anche Guillaume Paradin, autore, nel Cinquecento, di una Storia di Savoia che descrive un fantasioso rito templare durante il quale i cavalieri adoravano un idolo ricoperto di pelle umana: essi si sarebbero uniti orgiasticamente con una serie di donne e, non contenti, avrebbero sacrificato i frutti di tali unioni per ricavare un unguento da spalmare sul loro idolo, il malefico Bafometto. Da lì in poi, l’ondata di dicerie e invenzioni dilagò senza tregua. I fratelli Dupuy, storici ufficiali di Francia nel XVII secolo, scrissero che i Templari erano «sprofondati nella depravazione già un secolo prima della loro fine» (avvenuta nel 1314, con la morte di de Molay). Ma fu nel Settecento che il templarismo divenne di moda, quando il tedesco Samuel Rosa e un certo George Fre10

I “TEMPLARI” AMERICANI

E

siste o è mai esistito veramente un tesoro dei Templari? Nel 1999 il ricercatore americano Steven Sora pubblicò The Lost Treasure of the Knights Templar (Il tesoro perduto dei Templari), in cui non solo ipotizza che tale tesoro esista, ma ne indica perfino l’ubicazione. Secondo Sora, che si avventura in una ricostruzione fantasiosa del destino dei Templari dopo la soppressione dell’Ordine (ricostruzione che tra le proprie fonti cita Il Santo Graal di Baigent, Leigh e Lincoln), i cavalieri sopravvissuti alla purga ordita da Filippo il Bello di Francia si sarebbero rifugiati presso Robert Bruce, re di Scozia dal 1306 al 1329. Nel farlo, si sarebbero portati dietro i tesori raccolti nelle loro varie sedi e che Filippo il Bello non sarebbe riuscito a ghermire. Le ricchezze, affidate alla famiglia templare scozzese dei Sinclair, non sarebbero però state al sicuro; tanto che i Sinclair, abili navigatori e conoscitori delle rotte oceaniche, li avrebbero portati in America diversi decenni prima che Colombo scoprisse il Nuovo Mondo. Ancora intoccati, giacerebbero sul fondo di una fossa scavata su un’isola delle Nuova Scozia, Oak Island, dove da anni i cercatori di tesori si affannano in una caccia senza frutti.

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Veduta di Rennes-leChâteau, il paese del meridione francese da cui prende avvio l’indagine narrata nel Santo Graal. Nel tondo, il parroco Saunière, fantomatico scopritore di un tesoro templare. A destra, un’interpretazione del Graal, la coppa di Gesù nell’Ultima Cena, di cui i cavalieri sarebbero stati custodi. Nella pagina a fronte, Umberto Eco: secondo lui, un libro attendibile sui Templari non poteva andare oltre il 1314, anno di soppressione dell’Ordine.

derick Johnson (probabilmente nomi fittizi) elaborarono una mitologia in base alla quale i maestri Templari avrebbero posseduto conoscenze derivanti dalla setta ebraica degli Esseni, contemporanei di Cristo. Ereditati dai canonici del Tempio di Gerusalemme, tali segreti sarebbero poi passati ai Templari. Nella loro fantastica ricostruzione, Jacques de Molay aveva assunto il nome in codice di Hiram, appartenuto al costruttore del tempio di Salomone. Su questa sorta di mitologia sorsero società segrete votate al culto dei Templari e della loro sapienza. Sulla stessa scia s’impose un altro tedesco, Friedrich Nicolai (1733-1811), per il quale i Templari erano eredi di una dottrina eretica ereditata dagli gnostici del primo cristianesimo. A tale idea, il farmacista Luis Cadet de Gassincourt (1731-1799) aggiunse, nel saggio Le tombeau de Jacques Molay ou le secret de conspirateurs, la

teoria secondo cui i cavalieri del Tempio erano entrati in contatto, in Siria, con gli Assassini, appartenenti a una setta integralista islamica guidata dal Vecchio della Montagna. Il gesuita Augustin de Barruel (1741-1820) si rese conto che la porta della fantasia era spalancata, e nel suo libro Mémoires pour servir à l’histoire du Jacobinisme scrisse: «Tutto si collega, dai Catari agli Albigesi, ai Cavalieri del Tempio e, di conseguenza, ai massoni giacobini; tutto indica una comune origine». Dietro a questo insieme di personaggi, secondo Barruel, c’era una cospirazione maligna, idea che si legò ai Templari per lungo tempo. L’orientalista austriaco Joseph Freiherr von Hammer-Purgstall (1774-1856), nel suo Mysterium Baphometis revelatum, arrivò a definire con precisione quali gnostici ed eretici fossero stati antesignani dei Templari: si trattava degli Ofiti, adoratori del serpente e cultori di un rituale fallico legato ›

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GUARDIANI DELL’ARCA

I

l Graal, il sacro calice in cui Gesù avrebbe bevuto durante l’Ultima Cena e che sarebbe stato messo in salvo da Giuseppe d’Arimatea (lo stesso personaggio che, nei Vangeli, provvede a trovare una sepoltura per Cristo), non sarebbe l’unica importante reliquia legata ai Templari. Secondo Graham Hancock, che dedica all’argomento il suo libro del 1992 The Sign and the Seal. A quest of the Lost Ark of the Covenant (tradotto in italiano con il titolo Il mistero del Sacro Graal), l’Ordine del Tempio si sarebbe dedicato anche alla ricerca dell’Arca dell’Alleanza, data per dispersa al tempo della conquista di Israele da parte dei Babilonesi (VI secolo a.C.). Secondo quanto sostenuto da Hancock, che cita alcuni documenti biblici, l’Arca sarebbe stata nascosta in un sotterraneo del primo Tempio di Gerusalemme per salvarla dalla distruzione. Il vero scopo della creazione dell’Ordine, dunque, sarebbe stato quello di ritrovarla, e proprio a tale scopo i primi cavalieri si sarebbero installati nelle scuderie che si trovavano dove un tempo sorgevano i sotterranei del massimo tempio ebraico. L’impresa dei Templari sarebbe fallita perché la preziosa reliqua era già stata trafugata da Menelik, leggendario sovrano etiope figlio di Salomone e della Regina di Saba. Sempre allo scopo di rinvenire l’Arca, i Templari avrebbero stretto alleanza con Lalibela, re etiope del XIIXIII secolo, formando una guardia del corpo al suo servizio, assegnata alla custodia della reliquia, conservata da secoli in una chiesa di Axum. I Templari sarebbero, dunque, gli architetti delle straordinarie chiese rupestri etiopi, completamente scavate nella roccia, tra cui quella di San Giorgio, con la caratteristica pianta a forma di croce (nella foto). In effetti, la Chiesa etiope asserisce di custodire la vera Arca dell’Alleanza.

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a una divinità androgina (il Bafometto, l’idolo a forma di testa barbuta che, secondo le accuse, i Templari avrebbero adorato): a esso si associavano le leggende medievali del Graal, la cui origine era dunque gnostica. Von Hammer-Purgstall affermava che Wolfram von Eschenbach (autore, attorno al 1200, del poema cavalleresco Parzival, in cui si racconta la ricerca del Santo Graal) era stato ben chiaro: secondo lui i cavalieri del Graal erano i “Templeisen”, cioè i Templari.

Invenzioni a cascata

Quando Baigent, Leigh e Lincoln si accinsero a intessere le loro trame pseudostoriche, dunque, non dovettero fare altro che rovistare nella letteratua del passato. Ciò che aggiunsero fu l’idea della discendenza di Gesù, ma nemmeno questa era una loro creazione. Nel 1972 un giornalista australiano, Donovan Joyce, aveva infatti pubblicato il libro The Jesus Scroll (Il rotolo di Gesù), in cui sosteneva di aver avuto fra le mani un’antica pergamena ritrovata fra le rovine di Masada (la fortezza ebraica espugnata dai Romani nel 74 d.C.): in essa Cristo avrebbe scritto di suo pugno di essere sopravvissuto alla crocefissione e di aver avuto una figlia da Maria Maddalena. Una miriade di opere più o meno fantasiose ha fatto seguito a quella dei tre inglesi, tra cui due romanzi di successo: Il pendolo di Foucalt (1988) di Umberto Eco, che però era del tutto ironico rispetto al fenomeno templarista, e Il codice da Vinci (2003) di Dan Brown, che invece dà l’impressione di prendere le cose sul serio, dichiarando fin dal frontespizio che tutti i fatti descritti nel libro sono veri e reali. Il romanzo di Eco, coltissimo e divertente, mette assieme Templari, gnostici, rosacrociani, tesori e cospirazioni, disegnando un grande gioco in cui l’intelligenza dei protagonisti (tre redattori di una casa editrice milanese) costruisce una fantastoria più o meno plausibile (a patto che si sospenda l’incredulità). Al contrario, il thriller di Brown è un guazzabuglio di idee stracotte, molte delle quali facili da smontare se si ha un minimo di conoscenza dei Vangeli, dell’arte e della Storia. Purtroppo, parafrasando Chesterton, «quando non si sa nulla, si crede a tutto», e i lettori di Dan Brown pare non si siano accorti di sviste marchiane, come quella secondo cui i resti dei Templari finiti sul rogo vennero

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Enigmatico Bafometto

Una scena di Knightfall, serie tv sui Templari e sulla ricerca del Graal.

T

ra le accuse rivolte ai Templari vi era quella di idolatria. Si diceva che, nei loro riti iniziatici, il Maestro chiedesse ai novelli cavalieri di rinnegare Cristo, sputare sulla croce, dare e ricevere baci “osceni” su bocca, ventre e fondoschiena. Tra le accuse, anche quella di adorare un idolo, chiamato Bafometto (Baphomet): si sarebbe trattato di una testa umana barbuta, oppure di una testa con più facce, di un teschio o di una testa di gatto. Cosa fosse effettivamente il Bafometto resta incerto, così come misteriosa è l’origine del nome, forse legata a Mahomet (Maometto). Si pensa potesse trattarsi di un reliquiario a forma di testa o di un volto di Cristo, scolpito o dipinto (come l’icona qui sotto). Certo è che nessun Bafometto è mai stato trovato nelle sedi templari o tramandato fino a noi. Lo scrittore francese Pierre Klossowski (19052001) dedicò al tema il romanzo esoterico Le Baphomet (1965), la cui vicenda si stende dal Medioevo fino ai giorni nostri.

dispersi nel Tevere (cosa impossibile, visto che furono arsi a Parigi, sulle rive della Senna). Sulle orme di Brown sono nati L’ultima cospirazione (2006) di Steve Berry, in cui si cerca la soluzione del mistero di Rennes-le-Chateau (altro argomento che ha prodotto decine di volumi), e Il sigillo maledetto dei Templari, scritto da David Gibbins nel 2006, in cui uno dei tesori perduti dei cavalieri del Tempio è il prezioso candelabro ebraico a sette bracci, la Menorah, alla cui ricerca si mettono l’archeologo Jack Howard e un gruppo di lestofanti nazisti. All’ultimo maestro dei Templari è dedicato Jacques de Molay, cavaliere di Dio di Marco Fosso (2009, che ricostruisce la fine dei tenaci cavalieri e la morte del loro comandante, mentre 999, l’ultimo custode di Carlo Adolfo Martigli (2009) ha per protagonista un discendente di de Molay, tal Guido di Mola, che ha italianizzato il proprio nome per evitare le persecuzioni: dopo aver ereditato un manoscritto del filosofo umanista Pico della Mirandola, di Mola si trova alle prese con un segreto (ambito anche da Hitler) che, se

fosse rivelato, potrebbe mettere in discussione il mondo come lo conosciamo da duemila anni. Ma forse il culmine della fantasia lo tocca La chiave di Hiram (1996) di Christopher Knight e Robert Lomas: tra manoscritti perduti e ritrovati, culti massonici e faraoni egizi, si arriva a sostenere che l’uomo della Sindone di Torino sia Jacques de Molay: il celebre sudario avrebbe avvolto il corpo del maestro dopo la tortura da parte dell’Inquisizione e prima del fatale rogo. Se consideriamo che, secondo qualche teoria anche non astrusa (ne parla Barbara Frale in I Templari e la sindone di Cristo, 2009), il Bafometto adorato dai Templari potrebbe essere un’immagine del volto di Gesù, simile alla Sindone, il cerchio si chiude. Anche se Knight e Lomas dovrebbero spiegare come i Templari potessero adorare la testa di de Molay prima ancora della sua morte...

Dalla pagina allo schermo

Il cinema non ha perso tempo per gettarsi sul filone templarista. Tra il 1971 e il 1975, lo spagnolo Armando de Ossorio ha diretto › civiltà medievale

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cover story: il ritorno dei templari

la saga horror dei Templari resuscitati ciechi, una tetralogia in cui i cavalieri, stregoni e negromanti, escono dai sepolcri come spiriti demoniaci per vendicarsi sui discendenti di coloro che li hanno uccisi. Decisamente meno tenebroso Il mistero dei Templari, diretto da Jon Turteltaub nel 2004: Benjamin Franklin Gates (interpretato da Nicolas Cage), discendente di una famiglia di archeologi, si mette a caccia del tesoro dei cavalieri del Tempio, cercando indizi in luoghi e rituali massonici oltre che nel manoscritto originale della Dichiarazione d’indipendenza americana. L’ultimo dei Templari, diretto da Dominic Sena nel 2011 e interpretato anch’esso da Cage, narra invece di due crociati (a dispetto del titolo, nel film non viene mai detto che siano Templari) che, tornati dalla Terrasanta, si trovano coinvolti in una brutta storia di demoni e streghe in un paese sconvolto dalla peste. In Il sangue dei Templari (2004), film tedesco del regista Florian Baxmeyer, la posta in gioco è il Santo Graal e a contendersene il possesso sono gli eredi di de Molay (la storia si svolge agli inizi degli anni 2000) e quelli del Priorato di Sion: le chiavi per raggiungere il favoloso tesoro sono la Sacra Sindone e la lancia di Longino, servita per trafiggere il costato di Gesù crocifisso; dopo rocambolesche avventure, la vicenda si conclude in una catacomba di Roma, dove il sacro calice è rimasto nascosto per secoli.

Misteri “seriali”

Un po’ più realistica è la pellicola svedese Arn – L’ultimo cavaliere, diretta da Peter Flinth nel 2007, in cui un crociato svedese diventa templare e, durante uno scontro, salva la vita del Saladino, ne diventa amico e condivide con lui molte conoscenze islamiche prima di tornare in patria. Outcast – L’ultimo Templare (2014, regia di Nick Powell) racconta invece la fantasiosa vicenda di Jacob, un cavaliere del Tempio che, arrivato rocambolescamente in Cina, salva il giovane imperatore Zhao dalle grinfie di un perfido fratello che lo vorrebbe morto 14

MUSICA NUOVA PER I CAVALIERI

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ltre che nella letteratura e nel cinema, il mito templare (sopra, un cavaliere in una miniatura medievale) si è riversato anche nella musica. Il gruppo “power metal” tedesco Grave Digger, nato nel 1980, ha dedicato un intero album, intitolato Knights of the Cross (Cavalieri della Croce, del 1998), al mito templare. Fra i brani cantati dal leader del gruppo, Chris Boltendahl, spiccano titoli come Monks of War (Monaci di guerra), The Keeper of the Holy Grail (I custodi del Santo Graal), Baphomet, The Battle of Bannockburn (La battaglia di Bannockburn, dedicata allo scontro del 1314 in cui, secondo la leggenda, un gruppo di Templari fuggiti in Scozia dopo la persecuzione diede manforte al re scozzese Roberto I contro Edoardo II d’Inghilterra) e The Curse of Jacques (La maledizione di Jacques, ossia Jacques de Molay), che rievoca la celebre maledizione che, in punto di morte, egli avrebbe lanciato contro Filippo il Bello, papa Clemente V, i loro sodali e tutti i regnanti di Francia, anche futuri. A Jacques de Molay è dedicata inoltre una canzone del gruppo italiano 270bis, capitanato da Marcello De Angelis, politico, giornalista e cantautore. Il brano si intitola Non nobis Domine (prime parole del motto dell’Ordine, Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam, cioè «Non a noi, o Signore, non a noi, ma al tuo nome da’ gloria») ed è un’elegia dell’ultimo maestro dell’Ordine, in cui spiccano i versi: «Sul trono di Mammona la tiara e la corona / Bruciano sui bracieri i santi cavalieri». Un pezzo con lo stesso titolo è stato inciso anche dal gruppo Non nobis domine, nato a Torino nel 1998 e attivo fino al 2005; anch’esso è dedicato ai cavalieri del Tempio e recita così: «Per il pianto dei nemici, il galoppo lancia in resta / Nella gioia della battaglia, nostra festa, noi Ti lodiamo».

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Sopra, Nicolas Cage (nei panni del crociato e bandito Gallain) e Hayden Christensen (Jacob) in una scena di Outcast - L’ultimo templare, ambientato nella Cina del XII secolo. A destra, riproduzione del sigillo dell’Ordine: i due cavalieri in groppa a un unico destriero simboleggiavano, forse, umiltà e unità d’intenti, ma diedero adito anche alle accuse di sodomia. Nella pagina a fronte, Gérard Depardieu interpreta il maestro Jacques de Molay nella serie televisiva francese La maledizione dei Templari (2006).

(nelle vesti di un templare esperto e cinico compare, ancora una volta, Nicholas Cage). Decisamente sopra le righe Assassin’s Creed (2016, regia di Justin Kurzel), pellicola ispirata all’omonimo videogioco, in cui Templari e Assassini islamici si scontrano in una battaglia secolare (il film è un seguito di salti temporali e mentali, indotti da una macchina che permette di rivivere le “memorie genetiche”) per il possesso della Mela dell’Eden, artefatto di un’antica civiltà che contiene il codice genetico del libero arbitrio: in pratica, una sorta di Santo Graal con un nome diverso. Interpretato da Michael Fassbender, il film è un susseguirsi di colpi di scena fantasmagorici, l’ultimo dei quali permette di ritrovare la Mela dell’Eden nella tomba di Cristoforo Colombo (altro personaggio che una certa saggistica collega ai Templari e alla loro conoscenze). Tra i prodotti legati ai Templari non vanno dimenticate due interessanti serie tv: La maledizione dei Templari e Knightfall. La prima è una

miniserie francese del 2006, in cui si vive la vicenda del processo all’Ordine fino alla sua rovina (Jacques de Molay è interpretato da Gérard Depardieu), per poi seguire le tracce della maledizione lanciata dal maestro sulla famiglia reale dei Capetingi. Anche la serie Knightfall, inaugurata nel 2017, racconta la decadenza e la caduta dei Templari dopo la perdita delle terre d’Oltremare e la fine del loro compito principale, la difesa dei pellegrini in Terrasanta. Ma a questa vicenda si affianca la ricerca affannosa, da parte dei cavalieri crociati, di un nuovo scopo che giustifichi la loro esistenza, e che viene rintracciato proprio nel ritrovamento del Graal. Già appartenuto ai Templari, ma andato perduto durante un naufragio al termine delle Crociate, il calice ricompare, infine, in Francia. Il fenomeno del “templarismo” sembra non avere fine, coinvolgendo anche videogiochi, fumetti, graphic novel e, in particolare, invadendo il web con le sue storie, tanto suggestive quanto improbabili.  civiltà medievale

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personaggi

9 DONNE CHE FECERO L’IMPRESA Ecco le vicende di figure femminili d’eccezione, che spesso partendo dal niente ebbero la capacità, la determinazione e l’astuzia di scalare la società fino a conquistare il potere, religioso o temporale che fosse. Lasciando un segno indelebile nella nostra storia di Anna Lorenzini

L’IMPERATRICE TEODORA

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eodora aveva radici umilissime. Il padre, morto quand’era ancora una bambina, faceva il guardiano di orsi all’Ippodromo di Costantinopoli, la madre era attrice in spettacoli equivoci; e anche lei, con la sorella maggiore Comitò, trascorse infanzia e adolescenza esibendosi in strada come mima e ballerina, spesso seminuda e prostituendosi (la sorella minore, Anastasia, sembra abbia scampato tale sorte). Divenuta cortigiana alla corte di Giustino, alla sua morte, nel 527, Teodora sposò il nuovo imperatore Giustiniano, che fece modificare le leggi dello Stato per nominarla patrizia e poterla prendere in moglie: lui aveva 45 anni, lei 27. Costituirono una delle coppie più controverse di ogni tempo e la storiografia li definì capaci di ogni misfatto e perversione (soprattutto lei); o, viceversa, artefici di un periodo di ottimo governo (soprattutto lui). La verità, come al solito, sta nel mezzo. Certo è che i due rimasero sempre uniti, nella vita privata e pubblica, pur non avendo figli. Anche dopo la morte della moglie, nel 548, l’imperatore le restò fedele per il resto dei suoi giorni.

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le donne e il potere

ILDEGARDA DI BINGEN

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eologa, filosofa, mistica, profetessa, veggente, medico, naturalista, scienziata, pittrice, visionaria, compositrice di musica, fondatrice di due monasteri, consigliera di papi e imperatori (primo fra tutti, Federico Barbarossa). La straordinaria figura di Ildegarda di Bingen (nata nel 1098 a Bermersheim vor der Höhe, in Germania, e morta nel 1179 nella città tedesca che oggi porta il suo nome, Bingen am Rhein) non ha eguali nella storia europea. Questa donna è un faro la cui luce attraversa i secoli, un genio femminile multiforme in un Medioevo dominato dagli uomini, ma dove donne eccezionali riescono a spiccare il volo. Di fronte a tanta sapienza e al favore accordatole da eminenze ecclesiatiche e uomini di potere, non stupisce il titolo di “dottore della Chiesa” conferitole da papa Ratzinger, il 7 ottobre 2012. E nemmeno l’attenzione che la colta badessa continua a suscitare ancora oggi nel vasto pubblico, dimostrata, nel 2009, da Vision, il film che offre un ritratto delicato e intenso della sua vita, girato dalla grande regista berlinese Margarethe von Trotta.

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personaggi

ELEONORA D’AQUITANIA All’origine iglia primogenita del duca d’Aquitania e conte di Poitiers c’è Guglielmo X e di Aénor di Châtellerault, Eleonora nacque FRoma

nel 1122. Venne educata per rivestire un ruolo importante nel panorama nobiliare francese, tanto che nel 1137 il padre, appena prima della sua morte, la diede in sposa al futuro re di Francia Luigi VII. Eleonora era considerata la donna più bella d’Europa, ma certamente parte del suo fascino doveva derivarle dall’intelligenza e da un carattere volitivo e particolarmente ambizioso. Era anche sensuale e focosa, almeno a prestare fede alle cronache dello storico coevo Guglielmo di Newbury, e la sua avvenenza doveva provocare più di qualche fremito all’interno della corte francese: Guglielmo afferma che, in procinto di partire per la Seconda crociata, il re decise di portare con sé la consorte, spinto da una gelosia probabilmente non del tutto immotivata. Quando il matrimonio fu annullato, nel 1152, a Eleonora bastarono sei settimane per farsi sposare dal futuro re Enrico II d’Inghilterra; aveva undici anni meno di lei, ma rimase ammaliato da una donna che, pur avendo ormai trent’anni (non pochi, per i canoni dell’epoca), sapeva esercitare ancora un notevole charme. Dote che non perse nemmeno quando rimase vedova, nel 1189, nonostante avesse vissuto gli ultimi 16 anni in prigionia per aver sobillato i figli contro il padre Enrico.

MATILDE DI CANOSSA

L’

ascesa al potere di Matilde fu imprevista: nel 1076, già trentenne, si ritrovò unica erede della famiglia. Il padre Bonifacio era morto da tempo, così come i fratelli Federico e Beatrice. Vedova del primo marito, il nobile francese Goffredo il Gobbo, le venne a mancare anche la madre, Beatrice di Lorena. Matilde si ritrovò, così, a governare da sola un territorio enorme, esteso su Lombardia, Emilia, Romagna e Toscana, con “capitale” a Canossa, sull’Appennino. Tutto ciò mentre la tensione tra papato e Impero, per la questione delle investiture, sfociava in un duro contrasto. Dotata di un’educazione non comune per le donne della sua epoca, Matilde fu sostenitrice del pontefice e, grazie a innate doti di comando e a una spiccata capacità diplomatica (che toccò l’apice nella pacificazione tra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico VI, della quale fu garante), seppe amministrare ed estendere il proprio dominio. Il tutto in un’epoca in cui il potere era quasi del tutto precluso alle donne.

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le donne e il potere

GIOVANNA D’ARCO

F

iglia di contadini, Giovanna d’Arco (Jeanne d’Arc, nata attorno al 1412) fu l’anima della riscossa francese durante la Guerra dei Cent’anni, che oppose Francia e Inghilterra fra Tre e Quattrocento. Chiamata la Pucelle (“la Vergine”), a 13 anni iniziarono le sue visioni di messaggeri celesti, che la esortavano a liberare il suo Paese dagli invasori. Nel 1429 si presentò al re Carlo VII, il quale le concesse di cavalcare alla testa dell’esercito che marciava su Orléans, occupata dagli inglesi. La presenza della Pulzella galvanizzò le truppe, e la città venne liberata. Carismatica e volitiva, Giovanna diventò un simbolo, tanto che i cavalieri continuarono a seguirla in battaglia nonostante le titubanze del sovrano. Dopo essere stata ferita a Parigi, combatté in difesa di Compiègne, dove fu catturata dagli uomini del borgognone Giovanni di Ligny, che la vendette agli inglesi. Costoro la processarono per eresia e la condannarono al rogo, il 30 maggio 1431. Riabilitata nel 1456 per volere dello stesso Carlo VII, fu santificata nel 1920.

ISABELLA DI CASTIGLIA

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ducata con amore dalla madre nei primi anni di vita e guidata spiritualmente dai francescani, una volta incoronata regina di Castiglia e León, il 13 dicembre 1474 a Segovia, Isabella dimostrò subito un piglio a dir poco autoritario. Passata alla Storia come “la Cattolica”, per prima cosa provvide a consacrare il proprio regno a Dio e alle leggi della Chiesa; non paga, nel 1480 introdusse l’Inquisizione, lo spietato strumento di “polizia politica” (camuffata da indagine di fede) per combattere i sostenitori di teorie eretiche e i nemici del trono: in Spagna, gli inquisitori rispondevano direttamente alla Corona, e non a Roma. Insieme al cattolicissimo marito Ferdinando d’Aragona, sposato contro il volere del fratellastro il 19 ottobre 1469, nel 1492 Isabella firmò il decreto di espulsione di tutti gli ebrei dalla Spagna: un atto destinato a rappresentare un discreto affare per il regno, dal momento che agli oltre 200 mila israeliti presenti sul territorio fu vietato di portare con sé in esilio metalli preziosi e denaro. Intanto, l’Inquisizione di Isabella e Ferdinando, i “Re Cattolici”, bruciava vivi gli eretici e, anche se in misura minore, le streghe: migliaia di persone vennero torturate e avviate al rogo, a volte a seguito di processi intentati per invidie e desideri di vendetta, tanto che è difficile stimare con precisione quanti uomini e donne siano stati uccisi durante il regno dell’implacabile Isabella.

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personaggi

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CATERINA DA SIENA

enultima dei 25 figli del tintore di stoffe Jacopo Benincasa, Caterina nacque a Siena il 25 marzo 1347. Si votò alla vita religiosa fin da adolescente, nonostante i genitori avessero cercato di maritarla già a 12 anni. Quattro anni dopo, entrò nell’ordine delle Sorelle della Penitenza di san Domenico, le cosiddette Mantellate. Quasi analfabeta, Caterina conosceva solo il Paternoster e l’Ave Maria, e si trovò in difficoltà in un ambiente di donne più anziane e colte di lei. Il suo modo di servire Dio, però, era diverso da quello delle altre monache: più che la preghiera, per Caterina contava l’assistenza a poveri e malati, che considerava immagine terrena del Cristo sofferente. All’ospedale di Santa Maria della Scala, uno dei più antichi d’Europa, si dedicò in particolare ad assistere gli indigenti e i contagiosi. La fama della sua carità iniziò presto a diffondersi, e attorno a lei si radunò un gruppo di uomini e donne, detto la “Bella brigata”, che l’aiutava in diversi compiti, oltre che nella corrispondenza, che Caterina iniziò a intrecciare con i grandi sovrani del tempo. Quando la sua notorietà raggiunse Pisa, vi fu invitata da Piero Gambacorti, signore del luogo, e fu lì che, il giorno della Domenica delle Palme del 1375, ricevette le stimmate. L’anno successivo, Firenze chiese la sua intercessione presso il papa, affinché cancellasse l’interdetto che gravava sulla città. Caterina morì il 29 aprile 1380, a Roma, dove aveva seguito il pontefice Gregorio XI di ritorno dalla “cattività” avignonese, che ella si prodigò di far cessare. Si era anche battuta in favore di Urbano VI contro l’antipapa Clemente VII, che venne infine costretto alla fuga. Mistica e visionaria, le sue opere (Lettere, Orazioni, Dialogo della Divina provvidenza), dettate ai discepoli, le valsero la nomina a dottore della Chiesa da parte di Paolo VI nel 1970. Caterina era già stata canonizzata nel 1461, da papa Pio II.

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le donne e il potere

MARGHERITA DI DANIMARCA All’origine c’è Roma iglia minore del sovrano Valdemaro IV e nata nel 1353, Margheri-

F

ta non sembrava destinata al trono, se non come regina consorte; ciò per via della presenza del fratello Kristoffer (1344-1363), della sorella Ingeborg (1347-1370) e, soprattutto, della consuetudine danese, che non vedeva di buon occhio l’accesso al trono alle donne. Ma lei non era tipo da sottostare passivamente alle regole. Così, dopo la morte del padre, nel 1375, Margherita ottenne l’elezione del figlio Olaf a re di Danimarca, nonostante le pretese di Enrico III di Meclemburgo-Schwerin, marito della sorella, e del loro figlio Alberto. Morto Olaf nel 1387, dopo essere succeduto al padre in Norvegia nel 1380 e con ambizioni verso il trono di Svezia, l’anno seguente Margherita, che aveva governato in sua vece su entrambi i regni, fu scelta come reggente di Norvegia e Danimarca. In tale veste diede prova di straordinarie capacità di governo, sedando le rivolte interne della nobiltà danese e appoggiando, per contro, quella svedese per costringere Alberto di Meclemburgo ad abdicare. Divenuta signora di Danimarca, Svezia e Norvegia, nominò sovrano il suo bis-nipote, Eric di Pomerania, riservandosi il ruolo di reggente fino alla sua maggiore età. Anche quando Eric compì i 18 anni, però, di fatto continuò a essere lei la sovrana, illuminata e riformatrice, dei tre Stati scandinavi.

ANNA COMNENA

L

a bizantina Anna Comnena, figlia dell’imperatore Alessio I e moglie di un altro imperatore, Costantino Dukas, rappresenta uno degli esempi più eclatanti di come intelligenza e carattere possano trasformarsi in formidabili armi di seduzione e di potere. Nata nel palazzo imperiale di Costantinopoli nel 1083, fu educata alla poesia, alle scienze e alla filosofia, mostrando un intelletto e una determinazione fuori dal comune per una donna della sua epoca. Ispirata dalla nonna, Anna Dalassena, si rese presto conto di voler aspirare al ruolo d’imperatrice, ma al tempo stesso desiderava continuare gli studi e indagare la “natura delle cose”. Dopo le nozze con il nobile Niceforo Briennio, si rivelò una donna ambiziosa, cospirando per deporre il fratello e far salire al trono il marito. Quando costui si oppose al suo piano, Anna commentò, sprezzante, che la Natura aveva scambiato i loro sessi: era lei quella che avrebbe meritato di nascere uomo.  civiltà medievale

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riti misteriosi

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civiltà medievale

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i vetrai

IL SEGRETO

DEI VETRAI Per avere un’idea delle capacità dei maestri vetrai del Medioevo basta visitare le grandi cattedrali gotiche disseminate in tutta Europa, Italia compresa. La loro luce è frutto di un’arte che esigeva abilità manuale, spirito d’innovazione e straordinario talento di Antonio Ratti

P

Il profeta Daniele in una vetrofania della cattedrale tedesca di Augusta: si tratta di uno dei primi esempi noti di vetrata colorata medievale legata a piombo. Nella pagina a fronte, uno dei rosoni della cattedrale di Chartres, le cui vetrate risalgono al XIII secolo.

ercorrendo la navata della cattedrale di Chartres, riedificata tra il 1194 e il 1240, è facile comprendere il livello raggiunto dai maestri vetrai in epoca medievale. L’interno del maestoso duomo prende luce da 176 vetrate policrome, comprese le rosette, che coprono una superficie complessiva di 2.600 mq. Raffigurano racconti biblici, come la storia di Noè e del Diluvio universale, la parabola del figliol prodigo oppure quella del buon samaritano, ma non mancano episodi tratti dalla popolare Leggenda aurea di Jacopo da Varazze. La maggior parte delle vetrate fu realizzata nel corso del Duecento, anche se alcune risalgono al secolo precedente, essendosi salvate dal furioso incendio che nel 1194 devastò la chiesa romanica preesistente. Tra queste spicca la celebre Nostra Signora della Bella

Vetrata, databile al 1180, che rappresenta la Madonna con il Bambino circondata da una schiera di angeli. A rendere davvero uniche queste opere è l’impiego di un colore blu dalla tonalità particolare e ancora oggi inimitabile, tanto da essere noto come “bleu de Chartres”. Per gli storici dell’arte non ci sono dubbi: è in questo edificio, come nella cattedrale di Notre-Dame (XII secolo) e nella Sainte-Chapelle du Palais (XIII secolo) a Parigi, che la vetrata gotica raggiunse la sua massima espressione. Gli esempi più antichi a noi noti provengono invece dalla monumentale cattedrale tedesca di Augusta: cinque splendide vetrate policrome raffiguranti personaggi dell’Antico Testamento (Mosè, Daniele, Davide, Osea e Giona), realizzate tra la fine del X secolo e il 1130. › civiltà medievale

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artigianato

All’origine c’è Roma

I

più antichi vetri per finestre che si conoscano risalgono al I secolo d.C. e provengono da località dell’Impero Romano (sotto, un bicchiere del III secolo, raffigurante Achille). È probabile che il primo esempio di vetrata sacra sia stato eseguito a Ravenna, dove fu scoperto un tondo di vetro con una raffigurazione del Cristo databile al VI secolo. Altri esempi di vetrate sono venuti alla luce durante gli scavi dell’Abbazia di San Vincenzo al Volturno, presso Isernia (IX secolo), e sono contemporanei ad altri reperti trovati in monasteri dell’Inghilterra del Nord. Il salto di qualità si ebbe però con l’edificazione di chiese e cattedrali dell’XI e XII secolo: da allora la domanda di vetro colorato schizzò alle stelle, per raggiungere il suo apice nel Quattrocento.

Anche in questo caso il loro valore è inestimabile, essendo opere che denotano grande maturità tecnica, a dimostrazione del fatto che anche prima del gotico i maestri vetrai sapevano padroneggiare alla perfezione i segreti di un’arte dalle origini antiche.

Testimonianza preziosa

Le fonti dimostrano che la tecnica di realizzare vetrate fu sperimentata per la prima volta nella Roma del I secolo d.C. quando, con la scoperta del processo di soffiatura a stampo (capace di far crollare il prezzo del vetro, rendendolo più economico), si cominciarono a decorare edifici pubblici e ville di ricchi patrizi con vetri colorati montati su telai di legno o metallo. Ne parlano a più riprese Plinio il Giovane e Seneca, sottolineando che si trattava di una vera novità per l’epoca. Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e la crisi del V secolo, tuttavia, la produzione di vetrate cessò in gran parte delle regioni mediterranee, com-

presa l’Italia, mentre continuò a sopravvivere in Medio Oriente e nell’Europa Settentrionale. Una preziosa testimonianza arriva dal vescovo Sidonio Apollinare che, in uno scritto del V secolo, descrive le finestre della Basilica dei Maccabei a Lione. Per ottenere dettagli sul processo di esecuzione dei vetrai è però necessario attendere il De diversis artibus del monaco Teofilo (XII secolo), una vera miniera di informazioni che svela come gli artigiani del tempo fossero in grado di padroneggiare l’arte della pittura su vetro. Scopriamo così che per produrre la materia prima si lavorava una massa grezza costituita da due componenti: un fondente (la cenere, visto che la soda naturale d’Egitto non arrivava più in Europa) e un vetrificante (la sabbia fluviale), di solito in rapporto di tre a uno. La massa ottenuta veniva fusa in forni per dodici ore a una temperatura di 1.200 °C; solamente a quel punto poteva essere colorata, impiegando ossidi metallici (purtroppo, la

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i vetrai

C’È GIALLO E GIALLO

A

partire dal primo Trecento cominciarono ad affermarsi nuovi colori per la pittura dei vetri, oltre alla classica grisaglia. Quello che ebbe maggior successo fu il giallo-argento, scoperto molto probabilmente in maniera casuale nelle botteghe orafe francesi. Era composto, in base ai dati forniti dal cronista Antonio da Pisa, da sfoglie d’argento mescolate a tempera, e aveva la capacità di colorare di giallo il vetro neutro o far virare il vetro blu in un verde intenso. Una delle testimonianze più antiche del suo utilizzo proviene dalla cappella di Santa Maria, nella cattedrale francese di Rouen, e risale al 1310 circa. Il giallo-argento serviva a rendere biondi i capelli delle figure, così come a ravvivare vesti e decorazioni. Al contrario della grisaglia, questo colore non formava una pellicola sul vetro, ma era in grado di penetrarvi, in modo da aderire meglio alla superficie. A differenza delle altre tinte, inoltre, resisteva perfettamente al tempo. Nel corso del XV secolo, in area germanica si fece largo uso del verde e del giallo, anche se fino a oggi non è stato possibile stabilire se si trattasse di grisaglie colorate o di tasselli smaltati.

Nella pagina a fronte: in alto, la vita di Giuseppe, da Chartres; sotto, l’arrivo dell’imperatore Teodosio a Efeso, dalla cattedrale duecentesca di Rouen, in Normandia.

descrizione delle ricette usate per produrre i colori è andata perduta, privandoci di dati essenziali sulle sostanze adoperate). Con la massa vetrosa pronta si procedeva quindi alla soffiatura. Nel Medioevo si conoscevano due procedimenti: la soffiatura a dischi e quella a cilindri. In quest’ultimo caso, il più antico, con l’aiuto di una canna da soffiatura veniva plasmato un cilindro da porre nella camera di cottura per essere poi tagliato in sezioni. Una volta raffreddato, esso veniva ancora una volta riscaldato a

650 °C e lavorato in modo da ottenere una lastra piatta. A partire dal XIV secolo si cominciarono a produrre vetri soffiati a forma discoidale, che potevano variare dai 14 ai 94 cm di diametro. Tuttavia, su questa tecnica innovativa siamo poco informati, visto che i testi non si dilungano nei dettagli.

Artista tuttofare

L’importanza del De diversis artibus dimostra chiaramente come ancora oggi si dipenda quasi esclusivamente dalle fonti antiche per capire la natura dei procedimenti adottati per la realizzazione delle vetrate. Lo stesso si può dire dei maestri vetrai che le producevano: sfortunatamente, i documenti del tempo sono piuttosto avari di notizie, privandoci di importanti informazioni su come avvenisse la loro formazione, sulle caratteristiche delle botteghe, sull’organizzazione delle attività e, in modo particolare, su quale fosse il rapporto con gli altri lavoratori del settore. Tuttavia, siamo in grado di riscostruire alcuni aspetti della loro tecnica in epoca più tarda. Secondo la storica svizzera Brigitte Kurmann-Schwarz, «solo nel tardo Medioevo i maestri vetrai si organizzarono come corporazione o si associarono sul luogo della loro attività a un’altra corporazione di artisti. Dove si prospettavano per decenni grossi lavori di invetriatura (per esempio per le vetrate della cattedrale di Chartres) i cantieri vennero dotati di proprie officine con spazio sufficiente e un forno di cottura. In altri casi si adibì un atelier già in precedenza attivo sul posto permettendo a chi lo conduceva di chiamare, accanto agli impiegati stabili, anche pittori di vetrate o pittori da fuori per poter eseguire la commissione eccezionale entro il termine desiderato». In pratica, il vetraio era artigiano e artista allo stesso tempo, visto che la rappresentazione di un’immagine su vetro non dipendeva solo dalle capacità manuali. Dai rari contratti arrivati fino a noi scopriamo, inoltre, che un maestro vetraio veniva pagato dopo aver eseguito i disegni sulle tavole e la decorazione (come nel caso documentato di John Thornton, che realizzò la finestra orientale della cattedrale inglese di York). Ma il vetraio non era una figura › civiltà medievale

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artigianato

che lavorava in solitario: la sua bottega, al contrario, era composta da diverse maestranze, che interagivano tra loro per dare vita al progetto commissionato. Come spiega ancora la Kurmann-Schwarz, «il progettista disegnava a questo scopo un modello di piccolo formato di ogni finestra che egli, inoltre, sottoponeva al giudizio del committente. Se questi era d’accordo, i pittori preparavano delle tavole lignee rivestite di gesso bianco. Su questi supporti essi riportavano dal progetto di formato ridotto il modello “uno a uno” di ogni antello (così veniva chiamato lo spazio occupato dalla vetrata). Dopo aver schizzato il contorno della lastra e la composizione figurata, il pittore segnava con grossi tratti il percorso della piombatura e definiva con parole o simboli i colori dei singoli vetri».

La vetrata prende forma

Un aspetto molto interessante riguarda il modello definitivo, chiamato “cartone”. Fino al Trecento esso veniva realizzato su tavole, che era abitudine reimpiegare per altri lavori. Per tale ragione, a parte alcuni esemplari custoditi nella cattedrale di Gerona, in Spagna, e in Germania, la loro conservazione è estremamente rara. Successivamente venne impiegata sempre più spesso la carta, secondo una pratica introdotta, a quanto pare, proprio in Italia. Una volta preparato il cartone era possibile tagliare i vetri: il pittore ricalcava il profilo dei pezzi sulle lastre di vetro colorate, dopodiché, con l’ausilio di un ferro divisorio arroventato, detto “grisatoio”, ne ripercorreva i contorni, provocandone la rottura (a partire dal XV secolo si ricorse invece alla più efficiente punta di diamante). A questo punto, per dargli le dimensioni richieste, il pezzo veniva rifinito mediante uno scalpello molto tagliente, chiamato “caprugginatoio”. La fase successiva prevedeva la pitturazione dei vetri al fine di modificare le tonalità dei colori disponibili. Per fare ciò, fino al 26

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NATE NEI MONASTERI?

no degli aspetti più dibattuti tra gli studiosi che si sono confrontati con il De diversis artibus di Teofilo è se i pittori di vetrate degli inizi del XII secolo fossero soliti fabbricarsi da soli i vetri che avrebbero decorato. Per quanto questa sia la posizione più comune, molti storici e ricercatori sono convinti che già all’epoca le due fasi fossero distinte tra loro. A complicare il quadro, Teofilo si qualifica come monaco: ciò ha fatto pensare che le botteghe dei pittori fossero diffuse all’interno dei monasteri, quantunque non vi siano prove certe a riguardo. A rigor di logica, i luoghi più consoni a tali attività, almeno a partire dal XII-XIII secolo, avrebbero dovuto essere i mercati delle grandi e opulente città europee, dove gli artigiani potevano rifornirsi con facilità di tutti i materiali necessari al loro lavoro (ferro, piombo, minerali, legname e non solo). Senza considerare che i grandi committenti per opere di quel genere potevano trovarsi solo dove il denaro scorreva in abbondanza e le attività di edilizia sacra erano molto frequenti, cioè proprio le città più popolate e ricche del continente.

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i vetrai

Sopra, le vetrate della Sainte-Chapelle, risalenti al Duecento. Nella pagina a fronte: nel tondo, il mese di aprile, dalla cattedrale di Chartres, il cui fondo è realizzato con l’inimitabile colore blu; nel riquadro, il laboratorio di un vetraio, dalla classica forma a campana, in una stampa cinquecentesca.

XIII secolo i pittori disponevano della “grisaglia”, una sostanza composta da polvere di vetro e da un additivo colorante (limatura di ferro o rame), che veniva impastata con un legante fino a creare spessori diversi. Solo in un secondo tempo furono inventati nuovi colori, come il giallo-argento (in Francia), il verde e il giallo (Germania).

La messa in opera

Ultimata questa operazione, i vetri venivano accatastati per poi essere cotti in forno. Il procedimento era semplice: dato che la grisaglia fondeva a temperature più basse del vetro, era in grado di fissarsi alla sua superficie, acquisendo una consistenza che gli

avrebbe permesso di resistere per secoli agli agenti atmosferici e all’umidità. Quando i cristalli uscivano dal forno venivano posti nuovamente su una tavola lignea, dopodiché il pittore procedeva a unirli fra loro. Ciò avveniva legandoli mediante righelli di piombo malleabile dalla sezione a forma di “H”, che venivano successivamente saldati fino a ottenere una sorta di reticolo (dalle informazioni in nostro possesso sappiamo che potevano essere fusi solo piombi di circa 60 cm di lunghezza). A questo punto l’opera era finalmente giunta al termine: restava soltanto da montare i pannelli, ormai ben fissati, sulle armature delle finestre e, quindi, provvedere a murarli.  civiltà medievale

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cucina

TORTE E DOLCETTI

UNA PASSIONE MILLENARIA Cuochi di corte, monache, pasticceri specializzati: nel Medioevo, benché procurarsi gli ingredienti fosse costoso e difficile, l’arte dei dolci toccò vertici assoluti. Perché le ricette a base di zucchero non erano solo gustose, ma anche emblemi di ricchezza e potere di Mario Galloni

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ai frugali dolcetti secchi, confezionati dalle monache nei conventi dell’alto Medioevo, al monumentale pasticcio offerto dai Savoia a Carlo di Lussemburgo (il futuro imperatore Carlo IV) a metà del Trecento, recato al desco dall’allora quattordicenne Conte Verde, a cavallo e in abito di gala. 28

Il peccato di gola, nella sua forma più dolce, ha attraversato tutto il Medioevo, dai primi secoli, poveri e timorati di Dio, fino all’edonismo gastronomico delle corti del basso Medioevo. Per scontare l’implicita lussuria insita nella loro cucina, le povere monache dell’Età di Mezzo battezzarono i dolcetti con nomi-

Sopra, un fornaio trecentesco. I grandi cuochi producevano dolci per le corti, mentre fornai e monache si occupavano di quelli per le persone semplici.

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i dolci

gnoli penitenziali (supplicazioni o pazienze), nondimeno, la loro attività quasi clandestina fece sopravvivere in Occidente l’arte della pasticceria, sebbene priva del suo componente principe, lo zucchero, raro e costoso, tanto da essere venduto soltanto dallo speziale.

Sapori dall’Oriente

Per secoli, dopo la caduta dell’Impero Romano, a deliziare il palato dei ghiottoni ci pensò il miele, prodotto in abbondanza dagli alveari vicini ai conventi, dove l’attività delle api sosteneva già la produzione di cera per le candele. Miele e cera presero così ad andare a braccetto, tanto che per tutto il Medioevo i fabbricanti di candele e quelli di dolci appartennero alle stesse corporazioni di mestieri. L’ambrato nettare, farina e frutta secca costituivano la base per la produzione di dolci saporiti e sostanziosi, come il Panforte senese. Tutto questo fino all’arrivo dei musulmani sulle coste siciliane, nell’827, anno che coincise con l’inizio di una lenta rivoluzione nella produzione dolciaria europea. Abilissimi pasticceri, gli arabi introdussero in cucina la canna da zucchero, il gelsomino, lo zafferano, il sesamo, la cannella, l’anice, e presero a creare dolci elaborati e profumati, come cannoli e cassate, grazie all’utilizzo di essenze quali l’acqua di rose e il muschio. Dopo l’anno Mille, in seguito alle Crociate, giunsero anche nei monasteri spezie e zucchero di canna, quest’ultimo destinato progressivamente a sostituire come dolcificante il miele e il mosto d’uva. Ma con moderazione, perché come ebbe a scrivere, già nel Settecento, il padre della moderna gastronomia, il francese Brillant-Savarin, «lo zucchero non fa male se non alla borsa», battuta che testimonia quanto la “polvere di Cipro” (così era chiamato il dolcificante nel Medioevo, perché l’isola ne era la maggiore produttrice) costava uno sproposito e potevano permettersela soltanto i ricchissimi. Ragione in più per farne un uso smodato quando il banchetto, a partire dal Trecento, divenne uno dei simboli dell’affermazione sociale di un casato, riflessa nelle preziose ceramiche sulle quali veniva servito agli ospiti, e riverberata dal numero e dalla raffinatezza delle sontuose portate in menù, preparate da cuochi sempre più specializzati, che poco avevano da invidiare (se non ›

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UN DOLCE PER LE SPOSE

reparata nella “cassa” di pasta tipica dei pasticci e delle torte dolci e salate, la “diriola” era un classico della cucina francese già nel Medioevo, e veniva riempita con un composto di uova e latte che, al termine della cottura, doveva risultare mosso, quasi fosse un formaggio fresco molle. La torta, molto apprezzata come dolce nuziale, ci arriva in versione italiana attraverso il maestro Martino da Como; l’unico, pare, ad aver compreso le complicate istruzioni contenute nella ricetta originale francese. INGREDIENTI Per la pasta brisée: 200 g di farina, 100 g di burro (o di olio), 1/2 tazza di acqua fredda (o acqua e vino bianco), la buccia grattugiata di 1 limone, un pizzico di sale. Per il ripieno: 75 cl di latte fresco, 6 rossi d’uovo, 150 g di zucchero, 1 cucchiaio di cannella in polvere (da macinare), acqua di rose. PREPARAZIONE Preparare la pasta brisée mescolando tutti gli ingredienti fino a ottenere un impasto liscio e lasciarla riposare per qualche ora in frigorifero, coperta con un panno. Stendere la pasta nella teglia e metterla in forno per 20 minuti a 180 °C, avendo cura di riempirla con un peso (vanno bene dei fagioli), per evitare che possa alzarsi. Intanto, montare uova e zucchero fino a ottenere una spuma nella quale incorporare latte e cannella. Versato il tutto nella teglia con la pasta (rimossi i fagioli!), infornare per un’altra ora. La diriola sarà pronta quando l’impasto assumerà la consistenza di un budino. Alcune gocce di acqua di rose serviranno a profumarne la superficie.

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cucina

LA TORTA DI ROSE DI ISABELLA D’ESTE

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olce simbolo di Mantova, Brescia e del Basso Garda, la torta di rose è una ricetta contesa da diversi territori. La leggenda, suffragata da vari scritti, farebbe pendere la bilancia a favore della corte dei Gonzaga, dove l’arrivo di Isabella d’Este, divenuta marchesa sposando Francesco II Gonzaga, portò in cucina gli influssi emiliani del cuoco ferrarese Cristoforo Messisbugo. Costui, per omaggiare la bellezza d’Isabella, creò un lievitato a forma di cesto di boccioli di rose. INGREDIENTI 500 g di farina, 180 g di burro, 25 g di lievito di birra, 200 g di zucchero, 2 uova, 1 bustina di vanillina, 125 g di latte, mezzo limone. PREPARAZIONE Sbattere le uova con 120 g di zucchero finché non diventano spumose, quindi aggiungere 80 g di burro liquefatto, il lievito stemperato in poco latte, la vanillina e il succo del limone. Aggiungere l’impasto alla farina, disposta a fontana, e ottenere una pasta liscia da lasciar riposare per mezz’ora. Formare con la pasta delle losanghe di eguale dimensione, da stendere con il mattarello; spalmare di zucchero e burro ammorbidito, e arrotolarle su se stesse a cannellone. Avvolgere i cannelloni fino a formare i fiori, poi sistemarli nella teglia e spennellarli con altro zucchero e burro. Infornare per 40 minuti a 180 °C.

il conto in banca) agli odierni chef stellati. Maestro Martino da Como era tra questi: a lui si deve la stesura del Libro de arte coquinaria, caposaldo della letteratura gastronomica che accompagnò la cucina dal Medioevo al Rinascimento. Martino servì a Milano sotto Francesco Sforza, per poi spostarsi nelle cucine papali, dove si consacrò fra i migliori chef del XV secolo. Fu cuoco personale del cardinale Ludovico Scarampi, celebre buongustaio, noto per l’opulenza dei suoi banchetti, tanto da essere ribattezzato “cardinal Lucullo”. Per deliziare il proprio palato e quello dei suoi commensali, l’alto prelato aveva stanziato la somma giornaliera di venti ducati destinati alla spesa.

Il trionfo dello zucchero

In una cornice di sfrenata esibizione delle arti culinarie, che cosa più del niveo splendore di elaborate costruzioni di candido zuc30

chero poteva ammaliare gli ospiti di rango? La presentazione di queste opere d’arte gastronomica lasciava senza fiato (bastava saper fare di conto per apprezzarle), come accadde all’apparire del già citato pasticcio dolce, introdotto su un monumentale vassoio d’argento dal Conte Verde: la scultura rappresentava il maniero della famiglia comitale, con intorno le montagne nevose e sopra il diadema imperiale. Il gigantismo dolciario si fece ancor più spiccato a partire dal Quattrocento: fu l’epoca dei trionfi di zucchero, sculture effimere che adornavano tavoli e credenze delle corti durante le grandi occasioni. Nessuna è giunta fino a noi, ma le loro suggestive guarnizioni sono testimoniate da alcuni disegni originali che fecero da progetto per i maestri pasticceri. Ma il primato dello sfarzo in questo campo spetta sicuramente alla Serenissima, che non lesinò risorse per impressionare Enrico III, re di Francia, a cui toccarono il privilegio di visitare l’Arsenale di Venezia e la sorpresa di vedersi servire un sontuoso pranzo nelle sale d’armi: tutto, dai piatti alle posate, fino alle tovaglie, era fatto di zucchero, ma perfettamente simile al vero, al punto che anche il raffinato sovrano rimase ingannato e, preso in mano un tovagliolo, lo osservò stupefatto mentre si

Nel tondo, la preparazione di un piatto secondo i dettami del Libro de arte coquinaria di Maestro Martino da Como, il più importante cuoco europeo del XV secolo. Lavorò a Milano, alla corte di Francesco Sforza, prima di recarsi a Roma, dove si mise a servizio dei papi.

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i dolci

Sotto, una tavolata di corte. I grandi banchetti duravano spesso intere giornate (a volte anche più giorni) e prevedevano la presentazione di un numero spropositato di vivande, spesso preparate in modi che oggi troveremmo bizzarri e poco appetibili.

spezzava in due parti. Per ridurre l’eccessivo spreco di materie prime usate per dolci tanto grandi, in alcune città italiane vennero approvate leggi che ponessero fine allo sperpero compiuto dai signori. Nel 1224, a Bologna, fu emanata una legge che permetteva una qualità stabilita di dolciumi nei banchetti.

Guerre a suon di dolci

L’esibizione di ricchezza, lo spreco e la sfrenatezza alimentare delle classi agiate, nella totale noncuranza della fame patita da gran parte del popolo, attirò anche le reprimende della Chiesa, ma né i sermoni né le norme restrittive furono in grado di arginare lo smisurato edonismo dei ricchi ghiottoni. D’altronde, che credibilità potevano mai avere i moniti ecclesiastici, quando la corte

papale era la prima a organizzare sontuosi banchetti, confezionati dai migliori cuochi e pasticceri dell’epoca? Lo smodato piacere di esibire e assaggiare vide primeggiare anche i Borgia: ventiquattro enormi castelli di zucchero troneggiarono sul banchetto per le nozze di Lucrezia, la figlia di papa Alessandro VI, con Alfonso I d’Este, celebrate nel 1501. Risposero a tambur battente i Gonzaga di Mantova, che in quanto a sfarzo non erano secondi a nessuna corte europea: in occasione dello sposalizio di uno dei principi del casato fecero realizzare tre statue ad altezza d’uomo, tutte in marzapane. Trionfi per occhi e palato, ma veri salassi per le casse di corte: tra importazione e pedaggi, un pane di zucchero poteva arrivare a costare quanto un pane d’argento del medesimo peso. 

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eventi

I VICHINGHI

ALL’ASSEDIO DI PARIGI Pietre, ferro e fuoco: per mesi i guerrieri normanni tentarono di conquistare Parigi tempestandola con una pioggia di proiettili. Ma pochi uomini in armi, decisi a vendere cara la pelle, si resero protagonisti di un’eroica resistenza di Marco Dalla Fiora

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ll’alba del 24 novembre 885, i parigini alzarono lo sguardo lungo il corso della Senna e rimasero sgomenti. Le acque del fiume erano coperte da un tappeto di poderose navi vichinghe intente a risalirlo, seguite da una moltitudine di altri barconi. Sull’Île de la Cité, dove sorgeva la futura capitale francese, erede della Lutezia gallo-romana, si diffuse il panico: i terribili razziatori del Nord tornavano a minacciare la città, come già avevano fatto in precedenza, ma mai mettendo in acqua una simile forza distruttrice.

Stirpe guerriera

Antica stirpe germanica insediata nei fiordi scandinavi e organizzata in élite guerriere, i Vichinghi (dal germanico vik, che significa “baia”), chiamati anche Normanni (“uomini del Nord”), erano da sempre avvezzi a mescolare commercio e pirateria, secondo una formula ben conosciuta anche nel Mediterraneo. A partire dal IX secolo, i clan vichinghi presero a intensificare le loro attività predatorie: si muovevano in piccoli gruppi, imbarcati su veloci vascelli dalla riconoscibile li32

nea arcuata (snekkia) e dalla prua a forma di drago, immagine capace di tenere a bada gli spiriti del mare e, nel contempo, terrorizzare le popolazioni aggredite. Li muovevano la fame di nuove terre e il sogno di favolosi bottini, ma anche la pressione esercitata dal neonato Regno di Danimarca sulla nobiltà di secondo livello, resa orfana del potere locale fino ad allora esercitato e costretta a cercare nuovi orizzonti di conquista. Concorse al loro andar per mare anche l’affinamento delle tecniche di navigazione. Questi popoli non erano nati marinai: erano stati indotti a cercare fortuna sulle acque quando, a partire dal V secolo, i Germani stanziati nelle province romane avevano dato vita alle prime strutture statali di una certa stabilità, impedendo agli abitanti del Nord di penetrare via terra nei loro domini. Rimasti isolati, i Vichinghi avevano adeguato la loro indole bellicosa alle nuove abilità marinare, trasformandosi in una straordinaria macchina da saccheggio. Gli annali dei Franchi datano la loro prima irruzione continentale all’anno 810. I Vichinghi erano sbarcati in Frisia, la parte settentrionale dei Paesi Bassi, con una flotta composta da più di duecento navi, dando vita a una scaramuccia più che a una vera incur- ›

A sinistra, il condottiero vichingo Ragnarr Sigurðsson, detto anche Ragnarr Loðbrók, cioè “Ragnarr Brache di Cuoio”, che guidò l’assalto a Parigi dell’845. Nella pagina a fronte, l’assedio alla capitale franca posto dai guerrieri scandinavi. Degli eventi accaduti fra l’885 e l’886 fu testimone oculare il monaco Abbone il Curvo (Abbo Parisiensis), che li descrisse nel suo poemetto De bellis Parisiacae urbis, scritto in lingua latina per celebrare le gesta di Oddone di Parigi.

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i vichinghi a parigi

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eventi

Sotto, una flotta vichinga: veloci e maneggevoli, i vascelli potevano risalire agevolmente anche i fiumi. Nella pagina a fronte, una drammatica immagine dell’assedio posto a Parigi. Lo squilibrio di forze doveva essere notevole, ma non come affermato da Abbone il Curvo, secondo cui 200 parigini fronteggiarono 30 mila Normanni.

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sione. Questo, però, valse a inaugurare la tradizione di razziare il territorio attraverso sbarchi improvvisti e repentini, per ritirarsi soltanto in seguito al pagamento di un consistente tributo in argento. Il riscatto, in ogni caso, non proteggeva le vittime da ulteriori assalti: dieci anni più tardi, infatti, una nuova flotta era tornata a muoversi in direzione di Parigi. Stavolta i Vichinghi erano stati respinti dalle poderose fortificazioni dei marchesi franchi e bretoni, e si erano convinti a cambiare obiettivo. A Parigi, divenuta nel frattempo la capitale del Regno dei Franchi Occidentali (primo embrione della Francia moderna), i Vichinghi erano ritornati nella primavera dell’845. Lo avevano fatto dopo aver sbaragliato il contingente di difesa approntato dal sovrano Carlo il Calvo, erede di Ludo-

vico il Pio e nipote di Carlo Magno. Durante la risalita del fiume la potente flotta dei predoni (120 imbarcazioni e 5.000 uomini), al comando di un capo chiamato Ragnarr (spesso identificato con Ragnarr Lóðbrok, “Ragnarr Brache di Cuoio”, sovrano leggendario di Svezia e Danimarca), aveva fatto terra bruciata della città di Rouen e la stessa sorte era toccata a Parigi, messa a sacco il 28 marzo, il giorno di Pasqua. Stretto tra la riottosa nobiltà locale, poco propensa a riconoscere il potere della Corona, e le limitate capacità del proprio esercito, il re franco aveva scelto di evitare lo scontro con Ragnarr e i suoi, preferendo versare un pesante tributo purché levassero le ancore. Carlo il Calvo si era attirato così gli strali di chi vedeva nella sua arrendevolezza un pericoloso precedente, un incentivo per i

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i vichinghi a parigi

Le frecce del mare

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olide, leggere e veloci, le navi vichinghe potevano navigare tanto in mare aperto quanto lungo i fiumi. Rappresentarono la massima espressione della tecnologia navale nordeuropea tra IX e XIII secolo, e garantivano velocità e capacità di navigare anche in fondali bassi. Ciò grazie al pescaggio ridotto dello scafo, qualità decisiva per la buona riuscita dell’attività predatoria. La più diffusa di queste navi era la snekkia, lunga circa 17 m, larga dai 2 ai 3 m e con un pescaggio inferiore a 50 cm. Era mossa da 20 rematori e poteva trasportare 40 uomini. Grazie alla prua intagliata a forma di bestie uno feroci, la A Sinistra, degli orecchini nave vichingaappartenuti più famosaa unail dama longobarda è però drakkar (rappreritrovati a Civezzano, sentato sulla moneta sotdi origine to): lungocentro oltre 30 m, traromana sportava fino ain 80provincia uomini. diremi Trento: sono in Mosse dai e dalla vela oro, ametista e perle ae (i Vichinghi riuscivano risalgonol’albero al VII secolo. impiantare in 90 secondi), in condizioni favorevoli queste imbarcazioni agili e leggere erano in grado di sfrecciare sull’acqua a 30 km/h.

Vichinghi a ripetere simili azioni per ottenere altri compensi. Critiche non prive di fondamento, visto che il sovrano e i suoi successori sarebbero stati costretti a cedere e pagare altre tredici volte. Carlo, tuttavia, aveva avuto il merito di trarre insegnamento dallo smacco subìto, facendo il possibile per rinforzare le difese dei suoi territori. Nell’editto di Pistres, emesso nell’864, Carlo aveva ordinato che ogni uomo proprietario di un cavallo si rendesse disponibile a militare tra le fila di un esercito di liberazione dai Vichinghi, nel tentativo di creare una difesa mobile da contrapporre ai predoni prima che potessero saccheggiare le sue terre e poi fuggire per l’ennesima volta. Tale contingente costituì il primo embrione della futura cavalleria francese. Contemporaneamente, il sovrano aveva disposto che ogni città affacciata su un fiume venisse dotata di ponti fortificati dai quali potersi meglio difendere dai pirati. A Parigi erano stati costruiti due di tali ponti, uno in pietra e l’altro in legno, su entrambi i lati dell’Île de la Cité. Fu così che, quel fatidico 24

novembre dell’anno del Signore 885, la popolazione poté disporsi a resistere alla selvaggia furia vichinga con qualche speranza in più rispetto a quarant’anni prima. Si rivelò comunque un’impresa durissima.

La capitale fortificata

Le cronache del tempo forse esagerano nel quantificare i numeri dell’esercito invasore: 30 mila armati sembrano una forza impensabile per il periodo, e ne sarebbero bastati un decimo per spazzare via ogni resistenza. Non bisogna dimenticare che Parigi era tutta compresa negli otto ettari dell’Île de la Cité, una sorta di castrum dove i parigini (non più di 10 mila) si erano rifugiati a partire dal V secolo, in fuga dai saccheggi e dalle distruzioni seguite al collasso dell’Impero Romano. A difendere la città non vi erano che 200 uomini in armi al comando di Oddone, succeduto al padre Roberto il Forte nella carica di duca di Francia, responsabile delle terre tra Senna e Loira. Nel frattempo, la Francia Occidentale aveva patito il succedersi di regni precari, finché la corona non era finita in capo a Carlo il Grosso, già re › civiltà medievale

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eventi

di Germania e d’Italia, a cui giunse il ricatto vichingo: paga e sarai lasciato in pace. Il sovrano rifiutò e i Vichinghi si presentarono in forze a Parigi, decisi a prendersi, armi in pugno, ciò che pretendevano. In città, Oddone aveva proseguito l’opera di fortificazione del padre, munendo i ponti di due torri di guardia: una scelta che si sarebbe rivelata molto assennata. Le opere difensive ressero per tre giorni l’urto selvaggio della furia vichinga. L’impiego di macchine da guerra (baliste, manganelle e catapulte) e la pioggia di frecce e pietre riversata su Parigi non bastarono ai Vichinghi per penetrare in città. Al contrario, essi furono respinti dalle mura e inondati di cera e pece bollenti. Il 27 novembre gli assalitori cambiarono strategia, e attaccarono scavando gallerie e impiegando gli arieti e il fuoco. Tutto inutile: Pa-

rigi resisteva. La città venne allora cinta d’assedio e il territorio circostante razziato. Nel frattempo, da parte vichinga furono scavate trincee e recuperate grandi quantità di terra che, a partire dal gennaio dell’866, vennero scaraventat nel fiume insieme a resti di piante, carogne di animali e corpi di prigionieri trucidati. L’idea era quella di riempire la Senna fino a renderla percorribile a piedi, dando così modo alla fanteria di aggirare i ponti. Ma anche quello stratagemma risultò vano.

L’incertezza del re

Straordinari guerrieri animati da un impeto senza eguali, i Vichinghi non avevano però esperienza nella conduzione di un assedio. Fallirono anche quello portato al monastero di Saint Germain-des-Prés, uno dei luoghi di culto cattolici più antichi della città, dove viveva l’abate benedettino Abbone, che sull’assedio di Parigi ci ha lasciato un poema epico scritto in latino. La situazione appariva senza sbocchi quando, ai primi di novembre, in soccorso degli assedianti sopraggiunse il maltempo. Piogge torrenziali fecero alzare il livello

Nel tondo, Carlo il Grosso, re dei Franchi all’epoca dell’assedio. Chiamato in soccorso dai parigini, il re non attaccò i Vichinghi, ma scese a patti con il loro capo, Sigfried, accettando di pagare un tributo di 700 libbre d’argento purché levassero le vele. Sotto, una mappa di Parigi nel IX secolo: come si vede, a parte alcuni edifici monastici, la città si stendeva entro i limiti dell’Île de la Cité, sulla Senna. Solo più tardi l’abitato cominciò a espandersi lungo le sponde del fiume.

PARIGI NEL IX SECOLO 36

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i vichinghi a parigi

IL BACIO DI ROLLONE

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ra i capi vichinghi che assediarono Parigi c’era Rollone, uno dei tanti esuli scandinavi interdetti dalla loro terra d’origine e obbligato a cercare fortuna altrove. La trovò qualche anno più tardi, sempre in terra di Francia. Nel 911 i Vichinghi norvegesi, ancora pagani e capitanati dallo jarl (conte) Rollone (o meglio, Göngu-Hrólfur, come lo chiamavano nella loro lingua), stavano mettendo a ferro e fuoco le coste settentrionali del Paese. La popolazione chiese l’intervento del re, Carlo il Semplice, che mandò un proprio uomo di fiducia, l’arcivescovo Francone, con una proposta allettante per i predoni del Nord: la conversione al cristianesimo in cambio delle terre costiere tra il fiume Epte e la Bretagna, il tutto suggellato dal matrimonio del loro capo con sua figlia Gisla. Rollone accettò la proposta, il cosiddetto Trattato di SaintClair-sur-Epte (a destra, in una vetrata di Notre-Dame), ma al momento di pronunciare il giuramento il capo vichingo si rifiutò di baciare il piede del re nell’atto di ricevere l’investitura del ducato di Normandia. Non si sarebbe mai umiliato a tal punto e scelse uno dei suoi guerrieri per farlo in sua vece. Costui prese il piede del sovrano e lo sollevò senza curvarsi, il che fece finire Carlo a gambe levate tra le risate dei presenti.

Una spada vichinga del IX-X secolo: queste armi, molto costose da costruire, erano un simbolo di ricchezza. I guerrieri comuni erano di solito dotati, oltre che di elmo e scudo, di lance, alabarde e scuri. Quasi tutti, inoltre, portavano un coltellaccio.

della Senna che, ostruita com’era di rifiuti, esondò e fece crollare uno dei ponti. La torre nordorientale rimase isolata, difesa soltanto da una decina di armati che si rifiutarono di cedere le armi e vennero trucidati. Vinta la resistenza sul fiume, il grosso degli assedianti oltrepassò Parigi e si diede alla razzia di Le Mans e Chartes, mentre a tenere in scacco la città rimase una piccola guarnigione. Ormai allo stremo, i parigini riuscirono a infiltrare degli uomini oltre le linee nemiche e raggiunsero l’Italia per pregare Carlo il Grosso di intervenire e salvare la città. Al sovrano, però, non sorrideva l’idea di uno scontro aperto con i Vichinghi e in soccorso a Parigi arrivò soltanto il suo rappresentante in Germania, Enrico di Sassonia. Gli assediati ottennero provviste e rinforzi, ma la situazione rimase disperata. Nel maggio dell’886, in città scoppiò un’epidemia e la sorte di Parigi sembrava segnata. Fu

Oddone in persona a superare le linee nemiche per chiedere aiuto al sovrano, sordo fino a quel momento ai lamenti di Parigi. Per convincerlo a intervenire servì la ribellione dei grandi dell’Impero che, alla dieta di Metz del luglio 886, pretesero che il re muovesse con l’esercito verso la Francia. Carlo il Grosso accampò il suo esercito ai piedi della collina di Montmartre solo in ottobre. I parigini esultarono: l’assedio stava per terminare e la fine dei Vichinghi era vicina. Rimasero però delusi nel constatare che, seppur in vantaggio numerico, il re evitò lo scontro con i predoni, ai quali invece fu elargito un riscatto in argento e concesso di risalire la Senna fino alla fertile Borgogna (terra ostile al sovrano), offerta alle razzie degli invasori. Indignati dalla viltà di Carlo, i parigini si rifiutarono di permettere che, sulla via del ritorno, i predoni, carichi di bottino, passassero in città, e li obbligarono a tirare in secca le barche e trascinarle con fatica fino alla Marna.  civiltà medievale

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misteri

MANIERI

INSANGUINATI Congiure, delitti, grandi amori e losche trame trovarono scena in molti poderosi castelli medievali: mute sentinelle di pietra, che ancora ospitano i segni degli sciagurati protagonisti di oscure vicende. E in qualche caso, si dice, anche i loro fantasmi... di Mario Galloni

Challant e Verres (Ao) LA BELLA E DISSOLUTA BIANCA MARIA

N

oto per gli affreschi gotici del porticato, che ritraggono scene di vita medievale (nel tondo), il castello di Issogne, in Valle d’Aosta, risale alla fine del Quattrocento, quando Luigi di Challant completò i lavori di trasformazione dell’antica residenza vescovile in elegante dimora cortese. A uno dei loggiati interni del maniero (così si dice), di notte si affaccerebbe lo spettro di una splendida donna: Bianca Maria Gaspardone (o Scapardone).

Una triplice tresca

Vedova di Ermes Visconti, decapitato perché ritenuto complice di una cospirazione, l’ancor giovane e bellissima ragazza andò in sposa a Renato di Challant, ma ben presto si stancò della vita in valle. Così, quando il marito partì per la guerra sotto le insegne di Francesco I di Francia, nel settembre del 1523, ne approfittò per recarsi 38

a Pavia, ospite di parenti. Lì conobbe Ardizzino Valperga e se ne invaghì ma poi, non paga, volle passare nelle braccia del napoletano Roberto Sanseverino, conte di Caiazzo, e dopo ancora del giovane spagnolo Pietro Cardona. Il Valperga, ingelosito, iniziò a far girare maldicenze sul conto della donna, finché Bianca non decise, con la complicità di Cardona, di tappare per sempre la bocca all’ex amante. L’omicidio venne smascherato da Caiazzo, a cui Bianca Maria si era rivolta in prima istanza per liquidare il Valperga: i due amanti finirono nelle grinfie della giustizia e decapitati a Milano. Da allora, si narra che la bella signora abbia preso a mostrarsi nel suo castello di Challant e in quello, vicino, di Verrès (nella pagina a fronte): qui molti giurano che il suo spirito regali baci ai visitatori maschi più attraenti. La drammatica fine di Bianca Maria fu narrata da Matteo Bandello in una novella, secondo la quale la donna sarebbe ritratta, nelle vesti di santa Caterina d’Alessandria, nell’affresco dipinto da Bernardino Luini nella cappella Besozzi della chiesa milanese di San Maurizio. ›

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misteri

LA STRAGE DI MACCASTORNA

S

ui numeri dell’eccidio le versioni degli storici sono contrastanti: si va da otto a undici vittime, ma c’è chi azzarda che furono addirittura settanta. Sul luogo del massacro, invece, sono tutti concordi: la rocca di Maccastorna (in basso), fortilizio sprofondato in quel lembo di pianura lodigiana bagnato dalle ultime propaggini dello scomparso e paludoso lago Gerundo, sulla riva destra dell’Adda, dove il fiume compie un’ansa prima di gettarsi nel Po. Siamo all’inizio del Quattrocento. La rocca e i territori attigui sono di proprietà dell’ambizioso Cabrino Fondulo (a sinistra), capitano di ventura originario di Soncino, che l’ha avuta in premio a seguito dei servigi prestati ai Cavalcabò, signori di Cremona. Costruita per difendere il guado sull’Adda, in posizione strategica tra il Cremonese e il Lodigiano, la rocca di Maccastorna fu testimone involontaria di uno dei più spietati fatti di sangue della lotta per il dominio di quella fetta di territorio visconteo. Dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti, il condottiero che ha portato il Ducato di Milano alla sua massima espansione, l’area diventa zona di contese. Nel 1406, rientrando da Milano, dove ha firmato una tregua con il Ducato, Carlo Cavalcabò fa tappa con la sua scorta di familiari e dignitari proprio nella magione di Cabrino Fondulo. Avido di potere e disposto a percorrere le vie più spicce per conquistarlo, il condottiero di Soncino pensa che Cremona valga un tradimento e un eccidio. La sera del 24 luglio, offre agli ospiti una lauta cena, accompagnata da abbondanti libagioni, infine li fa accomodare nelle loro stanze dove, nottetempo, vengono aggrediti e uccisi dai sicari. Prima che faccia giorno, Fondulo, a capo di un piccolo esercito, cavalca verso Cremona, dove porta a compimento la congiura, eliminando gli ultimi superstiti dei Cavalcabò ed entrando trionfalmente in città.

Trezzo d’Adda (Mi) ZUPPA FATALE

A

rroccato su uno sperone di roccia circondato su tre lati dalle acque dell’Adda, il castello di Trezzo è stato per secoli un avamposto di frontiera sul confine orientale del Ducato di Milano, dove le terre lombarde incontravano quelle venete. La struttura deve gran parte della sua fama alla sinistra figura di Bernabò Visconti (sotto): fu quel violento e sanguinario signore di Milano a trasformarla in fortezza, a partire dal 1365, progettando l’ala occidentale come residenza privata e dotando il complesso di un sistema di gallerie sotterranee che scendevano fino alle acque dell’Adda, 35 m più in basso. La possente struttura venne arricchita da un ponte fortificato a piani sovrapposti, largo più di 8 m, che scavalcava il fiume grazie a un unica campata di 72 m. I resti, visibili ancora oggi (nell’incisione in alto della pagina a fronte), sono quelli della rocca voluta da Bernabò, che vi morì nel 1385, probabilmente avvelenato, dopo un periodo di detenzione seguito alla congiura ordita dal nipote, Gian Galeazzo. Bernabò fu attirato con l’inganno fuori dalla Pusterla di Sant’Ambrogio, a Milano, e arrestato; quindi Gian Galeazzo e i suoi s’impadronirono dei punti chiave della città. In seguito, fecero trasferire lo zio nella lontana Trezzo, dove nessuno avrebbe potuto farlo fuggire. Il 18 dicembre, a Bernabò venne servita una zuppa di fagioli, che lo portò alla morte tra atroci sofferenze.

Spiriti vaganti

Leggenda vuole che nel maniero circolino numerosi fantasmi: forse di una fanciulla che si buttò dalla torre perché impossibilitata a coronare il suo sogno d’amore; forse dello stesso Bernabò o delle pulzelle che sarebbero state gettate nel pozzo dopo aver passato un’ultima notte “d’amore” nel letto del crudele signore. 40

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l’italia dei castelli

a suo figlio Francesco e ai nipoti, eredi del fratello Bonaventura, detto Butirone, i quali vennero, appunto, imprigionati nelle segrete del tetro Castel d’Ario. Ironia della sorte (o legge del contrappasso), in quelle segrete, lo stesso Passerino, solo qualche anno prima, aveva condannato alla medesima triste fine Francesco I Pico (condottiero e antenato del famoso filosofo rinascimentale Pico della Mirandola) e altri tre uomini, i cui scheletri sarebbero stati rinvenuti durante i lavori ottocenteschi. Nella torre, in quegli anni, finirono ai ceppi anche membri del casato dominante, accusati di cospirazione o tradimento. Fu così per il condottiero Evangelista Gonzaga, coinvolto nel 1487 in una presunta congiura ai danni del marchese Francesco II. Non nella torre ma nel castello finì anche Taddea Forlani, moglie del Cardinalino (figlio naturale del cardinale Francesco Gonzaga), da lui accusata di adulterio e reclusa insieme alla figlia. ›

Castel d’Ario (Mn) LA PRIGIONE DEI GONZAGA

L

a Torre della Fame svetta ancora poderosa e sinistra, seppur monca, sulla struttura di Castel d’Ario, baluardo di confine legato a doppio filo al destino dei signori di Mantova. Prima i Bonacolsi, quindi i Gonzaga, la usarono come prigione dove confinare, e talvolta far sparire, personaggi di rango caduti in disgrazia. Queste oscure trame riemersero dall’oblio nel 1851 durante uno scavo nella torre principale, i cui lavori portarono alla scoperta di ben sette scheletri, uno dei quali ancora imprigionato dai ceppi.

La prigione della morte

Quattro di quei cadaveri vennero identificati: erano membri della famiglia Bonacolsi, reclusi nella torre dopo essere stati spodestati e lasciati morire di stenti. Era il 16 agosto 1328 quando Luigi Gonzaga e i figli Guido, Filippo e Feltrino (parenti e, fino a quel giorno, sodali dei Bonacolsi) irruppero in Mantova, incitando il popolo alla rivolta: nella mischia morì l’ultimo dei Bonacolsi, Rinaldo, detto Passerino. Diversa e più atroce la sorte che toccò civiltà medievale

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misteri

Bardi (Pr) LO SPIRITO INQUIETO DI MOROELLO

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all’alto di uno sperone di roccia rossa, da più di mille anni il castello di Bardi (sopra) vigila sul territorio posto alla confluenza dei fiumi Ceno e Noveglia, nel Parmense. Nel Medioevo, sotto le sue mura passava l’importante “via degli Abati”, il cammino che portava da Bobbio a Pavia (già capitale del Regno dei Longobardi), e non lontano scorreva il traffico dei pellegrini lungo la via Francigena. Già nel IX secolo, all’epoca del regno di Berengario del Friuli (a sinistra), il vescovo Everardo di Piacenza fece del castello un rifugio dalle incursioni ungare, ma fu con Ubertino Landi che la rocca, a partire dal Trecento, raggiunse il suo splendore, trasformandosi da imprendibile fortilizio in residenza principesca, impreziosita da una pinacoteca, un archivio di famiglia e una biblioteca. Dall’alto delle sue mura, dotate

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di un camminamento di ronda ancora oggi interamente percorribile, le guardie potevano avvistare con largo anticipo il nemico in avvicinamento. All’interno, la struttura viveva la classica organizzazione di una fortezza militare, con la piazza d’armi, gli alloggi delle milizie, le prigioni e la sala destinata alle torture: tutte collegate da strette e tortuose scale.

Tragico equivoco

Ma il castello è celebre soprattutto per le presunte apparizioni del fantasma di Moroello, un cavaliere di umili origini che si tolse la vita al ritorno dalla guerra, dopo aver appreso la notizia del suicidio dell’amata Soleste. La giovane, ignara dell’esito della battaglia, aveva visto avvicinarsi un drappello di soldati recanti le insegne nemiche: credendo che Moroello fosse stato sconfitto e ucciso, si era gettata dal mastio in preda alla disperazione. L’infelice non sapeva, purtroppo, che quelle insegne erano state indossate dall’amato e dai suoi uomini in spregio al nemico vinto. Fu così che la storia finì in tragedia, invece che in un abbraccio.

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Cafaggiolo (Fi) EROS E MORTE

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rima di diventare dimore della potentissima dinastia dei Medici, molti castelli toscani sono appartenuti ad altre famiglie di rango, oppure alla Repubblica di Firenze. È il caso del maniero di Cafaggiolo (nell’ovale), nel Mugello, la cui forma attuale, massiccia e lineare, è frutto del genio architettonico di Michelozzo, che lo progettò per Cosimo il Vecchio prima del 1450. Amato da Lorenzo il Magnifico, che vi trascorse l’adolescenza e vi ospitò spesso la sua corte di filosofi e letterati, nel 1537 il castello passò a Cosimo I, che lo ampliò, annettendovi una riserva di caccia. Il granduca lo donò, insieme all’amato castello di Trebbio di San Piero a Sieve (dove aveva trascorso la giovinezza con il padre, Giovanni dalle Bande Nere), al figlio minore Pietro. Proprio a Cafaggiolo si consumò l’assassinio della giovane e leggiadra Leonora di Toledo, detta Dianora, cugina e moglie di Pietro, che l’aveva sposata su suggerimento di Cosimo, il quale pare se ne fosse poi invaghito.

La bella Dianora

Per consolarsi delle scarse attenzioni del marito, dongiovanni impenitente e frequentatore di donne di malaffare, la bella Leonora si gettò tra le braccia del nobile Bernardino Antinori. Scoperta la tresca grazie all’intercettazione delle loro lettere, Pietro, furibondo, decise di sbarazzarsi della scomoda moglie, ma lontano da occhi indiscreti. Speditala a Cafaggiolo, la aggredì e la strangolò con le sue stesse mani, e l’ausilio di un telo “asciugatoio”. Trascorse poco tempo prima che anche il suo amante, Bernardino Antinori, fosse trascinato con un pretesto in prigione, dove poi trovò la morte. ›

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LA POETESSA TRUCIDATA

sabella Morra sognava la libertà, invece visse (sono parole sue) «in un inferno solitario e strano», prigioniera nel castello di Valsinni (sotto), in Basilicata. Nella rocca di famiglia, la giovane trovò la morte, assassinata dai fratelli che intendevano salvaguardare l’onore del casato, dopo aver scoperto la relazione della sorella con un nobiluomo. Nata nel 1520 dal barone Giovan Michele di Morra e avviata da lui agli studi, Isabella visse la giovinezza reclusa nel maniero avito. Crebbe angariata dalla prepotenza dei fratelli, mentre il padre, accusato di infedeltà dagli spagnoli, era riparato in Francia. Isabella trovò rifugio nella scrittura di versi petrarcheschi, e “galeotta” fu la poesia, che la indusse a intessere una fitta corrispondenza (non puramente letteraria) con il signorotto ispano-napoletano don Diego de Castro, anch’egli poeta e padrone di un feudo vicino a Favale. Benché sposato, de Castro corteggiava fanciulle di buona famiglia, e non è escluso che abbia incontrato davvero Isabella. Sorpresa la sorella con una lettera in mano, i tre fratelli la uccisero a pugnalate nel 1545; stessa fine fece il precettore della giovane, accusato di favorire la tresca. Fuggiti in Francia, ma ancora assetati di vendetta, gli assassini fecero ritorno in Basilicata l’anno dopo, sorpresero don Diego in un bosco e lo ammazzarono a colpi di archibugio. I fratelli non pagarono mai per il triplice omicidio, il cui movente era anche politico: Isabella, infatti, aveva tradito l’onore, ma anche la fede filofrancese del casato, entrando in contatto con uno spagnolo partigiano di Carlo V.

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Fumone (Fr) CELLA PAPALE

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osto a 800 m d’altezza lungo l’antica via Latina, che collegava Roma a Napoli, il castello di Fumone domina la valle del Sacco ed è definito la “Terrazza di Ciociaria”. L’edificio attuale risale al Medioevo e fu modificato tra Sei e Settecento, quando venne ampliato dalla famiglia Longhi, che tuttora ne detiene la proprietà. Il castello ospitò papa Celestino V (nell’ovale), al secolo Piero del Morrone, il pontefice che abdicò al soglio di Pietro per tornare alla vita monastica. Fu imprigionato a Fumone dal suo successore, Bonifacio VIII, membro della potente famiglia dei Caetani, all’epoca padrona del maniero. L’anziano Celestino (nel 1294, aveva quasi novant’anni) fu “ospitato” per quasi un anno in un’angusta cella, oggi visitabile. Si narra che poco prima di morire abbia visto apparire sulla soglia una grande croce splendente. Di questa visione non esistono riscontri storici, ma l’illustre presenza del pontefice sarebbe attestata dai resti mummificati di una parte del suo cuore, conservati nel castello in una teca insieme ad altre reliquie.

I FANTASMI DI MUSSOMELI

A

ssiso su una rupe da cui domina tutto il territorio sottostante, il castello di Mussomeli (sotto), in provincia di Caltanissetta, è simile a un imprendibile nido d’aquila mimetizzato nella roccia calcarea. Un unicum tra le roccaforti di Sicilia, tale da esercitare un forte fascino anche fuori dall’isola; non solo per la posizione solitaria e impervia, ma anche, o soprattutto, per i drammi che la leggenda vuole essersi svolti tra le sue mura. A cominciare dalla storia di tre donne: Clotilde, Margherita e Costanza, splendide fanciulle che il fratello, partendo per la guerra, volle preservare dalle ingiurie e dalle lusinghe del mondo murandole vive tra i bastioni della rocca. Si attardò troppo in battaglia, però, e quando tornò alla sua magione le scorte alimentari lasciate alle povere prigioniere si erano da tempo esaurite: le ritrovò morte, con le scarpe tra i denti, in un disperato e inutile ultimo pasto. Sempre nel castello, passato di mano in mano lungo la sua tormentata storia, trovò rifugio il nobile Cesare Lanza, in fuga dopo aver ucciso la figlia, la Baronessa di Carini, scoperta in flagrante adulterio con l’amante. Lo spettro della ragazza lo avrebbe inseguito anche a Mussomeli, per metterlo ogni giorno di fronte alla sua colpa. L’elegante signora, finemente vestita, continuerebbe anche oggi ad abitare il castello, condividendolo con un’altra anima in pena, quella di don Guiscardo de la Portes. Il fantasma sarebbe comparso, negli anni Settanta, al custode della struttura e a un gruppo di turisti. L’ufficiale, al servizio nel tardo Trecento di re Martino I di Sicilia, rimase vittima di un agguato perpetrato da un rivale in amore: sarebbe morto imprecando contro Dio, che lo avrebbe condannato a vagare mille anni sulla Terra prima di trovare pace.

Spiriti vaganti

Impressionante è un’altra mummia del castello, quella del marchesino Francesco Caetani Longhi, morto a cinque anni nel 1851. Artefici della sua fine furono, si dice, le sorelle, che lo avvelenarono lentamente (o gli fecero ingoiare vetro macinato) per non essere estromesse dalla linea ereditaria. Quando il piccolo spirò, la madre Emilia impazzì di dolore e volle farne imbalsamare il corpo, continuando ad accudirlo e a parlargli come se fosse vivo. La mummia, circondata dai suoi giocattoli, è oggi conservata in una teca di vetro. 44

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Carini (Pa) UN CELEBERRIMO DELITTO D’ONORE

L

a leggenda racconta che ogni anno, nell’anniversario di un delitto perpetrato il 4 dicembre 1563, l’impronta di una mano femminile insanguinata riappaia sul muro della stanza dove si consumò l’assassinio. Apparterrebbe alla povera Baronessa di Carini, uccisa insieme al suo amante proprio nella stanza dove si rinnoverebbe l’apparizione sovrannaturale. Tutto ciò nella cornice favolosa di un maniero arabo-normanno (sopra) a trenta chilometri circa da Palermo, appollaiato su un colle roccioso a guardia del feudo che, ai tempi, apparteneva ai La Grua-Talamanca. La nobildonna Laura Lanza di Trabia (nel tondo, il suo presunto sarcofago) era andata sposa, giovanissima, a un discendente del casato proprietario del castello, don Vincenzo. Poi, però, aveva finito per cedere alle lusinghe di un cugino del marito, il bel Ludovico Vernagallo. La tresca era proseguita per anni, nonostante fosse divenuta di dominio pubblico. Fino a quel fatidico 4 dicembre, quando Cesare Lanza, padre di Laura (divenuta, a seguito del matrimonio, Baronessa di Carini), non rag-

giunse il castello. Vi trovò il genero fuori di sé per aver colto moglie e amante in flagrante adulterio. Le carte del processo raccontano che fu proprio il padre di Laura a mostrarsi il più risoluto nell’impugnare la lama che freddò gli amanti e ripristinò l’onore familiare. Il lignaggio dei due casati consentì a suocero e genero di venire prosciolti da ogni accusa, e sui resoconti ufficiali cadde la sordina della censura.

Storie di strada

Il fattaccio, però, trapelò e rimase impresso nella memoria popolare: la sorte dei poveri amanti divenne così uno dei topos narrativi preferiti dai cantastorie ambulanti, alimentando la memoria collettiva attraverso i secoli. Un racconto a tinte fosche, che nel 1975 divenne noto a tutti gli italiani grazie allo sceneggiato L’amaro caso della baronessa di Carini, prodotto dalla Rai e interpretato da Ugo Pagliai, Janet Agren e Paolo Stoppa.  civiltà medievale

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letteratura

IL POETA

SCAPESTRATO Anarchico ante litteram, polemico, giocatore d’azzardo e crapulone, Cecco Angiolieri fu un personaggio simbolo della Toscana del Duecento. Poeta di razza e grande scialacquatore, trasformò l’odio per il padre taccagno in fonte d’ispirazione per sonetti indimenticabili

di Stefano Bandera 46

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cecco angiolieri

«T

re cose solamente mi so ’n grado… ciò è la donna, la taverna e ’l dado», vale a dire: “Solo tre cose mi sono gradite: le donne, il vino e il gioco d’azzardo”. Sono due versi di una poesia del Trecento composta da Cecco Angiolieri, nato a Siena nel 1260, contemporaneo e amico di Dante, che nacque cinque anni più tardi. Due versi che ben chiariscono il carattere di Cecco (diminutivo di Francesco) e la sua poetica, radicalmente diversa da quella dell’Alighieri e degli altri poeti dello Stil Novo. Costoro erano tutti dediti a glorificare l’aspetto più spirituale e angelicato della donna, vista come una creatura da adorare per poter raggiungere, attraverso il vero amore, una visione più alta e sublime della realtà. Cecco, al contrario, ama la concretezza e spesso nelle sue poesie si diverte a stravolgere gli stereotipi dello stilnovismo, restituendo le donne e l’amore alla loro dimensione più reale, fatta di carnalità, litigi, bugie e quotidiane bassezze.

Una famiglia danarosa

Nel tondo, un ritratto immaginario dell’Angiolieri, di cui non possediamo raffigurazioni. Nella pagina a fronte, la Siena medievale, città natale di Cecco, nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti Allegoria degli effetti del Buon Governo in città. Dipinto fra il 1338 e il 1339, si trova nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena.

Cecco era figlio di Angioliero Angiolieri (registrato anche come Angelieri o Angiulieri), ricco banchiere e maggiorente del Comune, di cui fu per due volte priore; la madre, monna Lisa, faceva parte della casata aristocratica dei Salimbeni, che nella Siena del Duecento si era arricchita commerciando grano e spezie. Il nonno paterno, a sua volta, era stato un uomo d’affari, banchiere di papa Gregorio IX (1170-1241) e ben noto per un’altra particolarità: il soprannome. Veniva chiamato “Solafica”, appellativo chiaramente osceno, che lo storico ottocentesco della letteratura Alessandro D’Ancona definì “nome proibito”. Il nomignolo lascia intuire gli incontenibili appetiti sessuali del nonno di Cecco, peraltro non differenti da quelli si suo padre, dal momento che lo stesso poeta, nel sonetto XXVIII, scrive di lui: «Vive fresco e razza com’un toro / e ha degli anni ottanta». Entrambi, padre e nonno, si davano, dunque, al buon tempo, ma senza mai dimenticare gli affari, che restavano il loro interesse principale. Cecco, al contrario, era un bighellone, un “begolardo”, come si definisce egli stesso in un beffardo sonetto indirizzato a Dante Ali-

ghieri. Amante della bella vita e della prodigalità, l’Angiolieri riceveva dal padre un appannaggio mensile che non bastava mai ad appagare i suoi capricci. Tra bevute, partite a dadi e spese per soddisfare la sua Becchina (diminutivo di Domenica), figlia di un conciatore di pelli e sempre poco disposta a concedere le sue grazie all’amante (salvo fingere di morire per lui quando aveva bisogno di soldi), Cecco si trovava quasi sempre nella condizione di dover richiedere prestiti. Tanto è vero che nel sonetto LXXIII si descrive così: «I’ son si magro, che quasi traluco, / de la persona no, ma de l’avere; / ed abbo tanto più a dar, che avere» (“Sono quasi trasparente, ma non per magrezza, bensì per mancanza di mezzi, tanto che ho più soldi da dare che da ricevere”). Questa sua costante mancanza di denaro, confrontata alla ricchezza del padre (che si dava arie da buon credente, essendo frate della Beata Gloriosa Vergine Maria, ma che, secondo le parole del poeta, «non credette mai di sopra al tetto», cioè non ebbe mai alcuna fede in Dio), portò Cecco a nutrire un odio profondo nei confronti del genitore, ma anche della madre, che non aveva di lui un’opinione migliore, visto che nel sonetto LXXXV gli augura di essere “fenduto”, cioè troncato in due con un taglio netto. Tutti questi, è vero, potrebbero anche essere solo semplici e giocosi motivi letterari, ma le poche notizie sulla vita del poeta paiono confermare in pieno la sua totale assenza di senso di responsabilità, associata a un carattere anarchico e insofferente all’autorità e alle regole. Nel 1281, a 21 anni, partecipò con gli altri senesi guelfi (cioè fedeli al papato) all’assedio dei concittadini ghibellini (partigiani dell’imperatore) che si erano rifugiati in un castello non lontano da Grosseto: ma la sua disciplina militare era tale che fu più volte multato per essersi allontanato dall’accampamento senza autorizzazione. In seguito, › civiltà medievale

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letteratura

LA FINE DEL MONDO IN VERSI S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo; s’i’ fosse vento, lo tempestarei; s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo; s’i’ fosse papa, serei allor giocondo, ché tutti cristïani embrigarei; s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei? a tutti mozzarei lo capo a tondo. S’i’ fosse morte, andarei da mio padre; s’i’ fosse vita, fuggirei da lui: similemente faria da mi’ madre, S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui, torrei le donne giovani e leggiadre: le vecchie e laide lasserei altrui.

In alto, illustrazione della novella di Boccaccio che ha Cecco Angiolieri per protagonista: derubato da un amico, che si finge vittima del furto, il poeta viene picchiato dai contadini perché “restituisca” il maltolto. Sopra, S’i’ fosse foco, il più celebre sonetto di Cecco, musicato, fra gli altri, da Fabrizio De André nel 1968.

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fu sanzionato per aver violato il coprifuoco della città di Siena (cioè l’obbligo di rientrare a casa entro una certa ora della notte) e per aver resistito alla forza pubblica. Fu inoltre coinvolto nel ferimento di un certo Dino di Bernardo, ma solo il calzolaio Biccio di Ranuccio, suo presunto complice, venne condannato, mentre Cecco fu salvato dalla notorietà della famiglia. Nel 1289 prese parte, assieme ai Fiorentini, alla battaglia di Campaldino contro Arezzo, e probabilmente fu in quell’occasione che fece la conoscenza dell’Alighieri, il quale aveva già iniziato a comporre i versi che in seguito sarebbero confluiti nella Vita nova, l’operetta in prosa e poesia in cui Dante celebra l’amore per Beatrice. Attorno al 1296, Cecco lasciò Siena per

recarsi a Roma, probabilmente perché bandito dalla città per ragioni politiche. Fu in quel periodo che suo padre morì e il poeta poté finalmente ereditarne i beni, che cominciò a dissipare senza alcuna misura. L’evento è celebrato nel sonetto XCVI, in cui Cecco scrive: «Non si disperin quelli de lo ’nferno / po’ che n’è uscito un che v’era chiavato / il quale Cecco ch’è così chiamato / che vi credea di stare ’n sempriterno. / Ma in tal guisa è rivolto ’l quaderno / che sempre vivarò glorificato, / po’ che messer Angiolier è scoiato, / che m’afrigiea di state e di verno» (“Io, che credevo di essere stato condannato all’inferno perpetuo, ne sono uscito e mi sento in gloria da quando il quaderno ha voltato pagina e messer Angioliero, che mi opprimeva con la sua tirchieria, ha finalmente tirato le cuoia”).

Nella penna del Boccaccio

Nel 1302, Cecco doveva aver già dato ampio fondo all’eredità se, come risulta da un atto pubblico, vendette una vigna per sole 700 lire fiorentine. Si recò di nuovo a Roma, dove si mise sotto la protezione del cardinale Riccardo Petroni (1250-1314), anch’egli senese. Intanto, si era sposato e aveva avuto sei figli: Tessa, Meo, Deo, Angioliero, Arbolina e Simone. Quando Cecco morì, probabilmente nel 1312 o 1313, i suddetti «filii olim Cecchi domini Angelerii» (“figli del defunto messer Cecco Angiolieri”) rinunciarono all’eredità perché oberata di debiti. Furono, comunque, costretti a pagare al Comune di Siena alcune tasse evase in vita dal padre. Finiva l’avventura terrena di Cecco, ma il suo nome e la sua figura di gaudente dissipatore dovevano già essere proverbiali, se Giovanni Boccaccio, alla metà del Trecento, lo fece protagonista (assieme a Cecco Piccolomini, anch’egli vessato da un padre vecchio e tirchio) di una novella del suo Decameron: il poeta viene beffato dall’amico, che gli sottrae, mediante un sotterfugio, denari, cavallo e vestiti. Ma, come conclude Boccaccio, la malizia del Piccolomini non fu «a luogo e tempo lasciata impunita». Perché così dovevano andare le cose fra quei crapuloni, in un susseguirsi di burle e controburle, degne del più caustico spiritaccio toscano. 

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Guerre e Guerrieri CompieGa/Che Guevara n. 5/2019 - annuaLe

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365 GIORNI ASSIEME A UOMINI E FATTI CHE HANNO

MARCATO PARTE DELLA STORIA RECENTE Trova questa rivista e tutte le altre molto prima,ed in più quotidiani,libri,fumetti, audiolibri,e tanto altro,tutto gratis,su:https://marapcana.today

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civiltà medievale

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carri e carrozze

CARRI E CARROZZE RIUNIRONO L’EUROPA Penalizzato dalle strade dissestate e dalla contrazione dei commerci, per molti secoli il trasporto su ruote ebbe vita difficile. Ma i popoli del Nord lo rivitalizzarono, grazie ad alcune innovazioni fondamentali di Riccardo Larcheri

L

A destra, la ricostruzione di un carro medievale a due assi (quattro ruote), di cui quello anteriore sterzante. Poteva essere trainato da due o più animali (buoi o cavalli) e adibito al trasporto sia di uomini che di merci. Nella pagina a fronte, il carro di un dignitario: è coperto, decorato da fregi e trainato da cavalli bianchi, segno della nobiltà del proprietario.

e efficienti e ramificate vie consolari, battute ai tempi di Roma da una straordinaria moltitudine di carri a due o quattro ruote, dopo la caduta dell’Impero divennero sempre più impraticabili. Abbandonato a se stesso e all’incuria del tempo, orfano della meticolosa manutenzione pubblica, riconquistato dalla natura e depredato dai ladri di pietre, il prodigioso sistema viario dell’Urbe decadde parallelamente al traffico di uomini e merci, entrambi vittime della crisi politica e di quella economica da essa provocata. I carri a quattro ruote scomparvero quasi del tutto: sulle strade non più lastricate, nemmeno la forza dei buoi era in grado di sottrarli al fango e alle buche. Gli uomini dell’alto Medioevo, tuttavia, a differenza di quanto erroneamente si crede, non smisero di viaggiare, ma continuarono a farlo soprattutto a piedi, seguendo quel che restava delle antiche strade oppure, più spesso, camminando faticosamente su percorsi

variamente accidentati. I pochi privilegiati che potevano permettersi una cavalcatura erano gli uomini d’armi e quelli di Chiesa, i primi su cavalli robusti, selezionati per combattere, i secondi a dorso di mulo.

Le fuoriserie medievali

Nei regni romano-barbarici i pochi carri sopravvissuti alla crisi persero l’estetica accattivante che aveva contraddistinto i modelli classici e divennero semplici ma solide vetture da lavoro, impiegate in agricoltura e nel commercio. Tuttavia, furono proprio i cosiddetti “barbari” a salvare dall’oblio le vetture da traino. I re merovingi, per esempio, non rinunciarono a spostarsi sui carri: si limitarono a sostituire i nobili ma bizzosi cavalli con i più miti ma possenti buoi, senza dubbio meno belli a vedersi (e certamente meno eleganti) ma capaci di sopportare ruote massicce e pesanti, e terreni più difficili. Mentre nell’Europa mediterranea il › civiltà medievale

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trasporti

LA RIVOLUZIONE DEL FERRO

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conosciuto nel mondo classico (anche se alcuni ritrovamenti, come quello in una villa romana della fine del III secolo a Neupotz, in Renania, pongono dubbi in merito), il ferro di cavallo risolse il problema del consumo dello zoccolo. Aiutò inoltre a prevenire patologie che insorgevano quando gli animali erano costretti a restare per lunghi periodi nelle stalle, con le estremità indebolite dal continuo contatto con l’ammoniaca contenuta nell’urina. Il collare da spalla, invece, sostituì quello rigido, che premeva troppo sulla trachea dei cavalli usati per il trasporto e diminuiva le loro prestazioni, al punto da costringere spesso a sostituirli con gli asini. Il ritorno al cavallo, capace di sopportare lo stesso carico di lavoro dell’asino ma nella metà del tempo, diede una spinta decisiva all’economia, a cominciare dall’aratura dei campi: il loro impiego favorì raccolti più ricchi e il conseguente accumulo di quelle eccedenze che, dall’XI secolo, consentirono la progressiva uscita dall’agricoltura di sussistenza e la ripresa dei mercati.

traffico su due o quattro ruote languiva, sostituito da quello lungo le relativamente più sicure vie d’acqua (mari, laghi e fiumi), nelle foreste del Nord e nelle steppe orientali, tra l’VIII e il IX secolo furono introdotte due novità rivoluzionarie: la ferratura dei cavalli e il collare da spalla per gli animali da tiro. Soluzioni in grado di rivitalizzare non solo il trasporto su ruota, ma anche i commerci dell’epoca, garantendo al surplus di produzione agricola (che nel frattempo si stava creando, grazie a una maggiore stabilità politica) di raggiungere anche mercati lontani dai luoghi di produzione. A partire dall’anno Mille, la ripresa dei traffici commerciali, il rinnovato fervore religioso e la conseguente esplosione del fenomeno dei pellegrinaggi rimisero in marcia anche i carri, indispensabili al trasporto “celere” di una gran quantità di persone, che per età o per malattie non sempre erano in condizioni fisiche adatte ad affrontare un lungo viaggio a piedi. 52

Dopo secoli di relativo “torpore”, carri, carrozze e carretti ripresero a battere la strada, con forme e fogge diverse a seconda dello status del proprietario. Quando non si spostava a piedi, il popolino viaggiava su semplici “cassoni” di derivazione agricola, a un solo asse (quindi a due ruote), trainati da buoi e ricoperti da una rustica tettoia di pelle o di stoffa, molto semplice, fissata al carro da centine di legno incurvate a semicerchio. I signori, invece, si accomodavano su più confortevoli vetture a due assi (e quattro ruote), talvolta con l’avantreno girevole (per poter curvare più agevolmente), trainate da due o quattro cavalli e con gli interni impreziositi da stoffe pregiate, cuscini e tappezzerie ricamate in oro. Alla fine del Duecento fece scalpore l’entrata trionfale a Napoli di Carlo I d’Angiò, al cui seguito veniva la consorte, Beatrice di Provenza, assisa su un carro tappezzato di velluto blu cielo e decorato, all’interno, di gigli rica-

Nel tondo, Clodoveo I, re dei Franchi dal 481 al 511. Fu uno dei pochi sovrani altomedievali a non rinunciare all’uso del carro per i suoi spostamenti.

civiltà medievale

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carri e carrozze

A destra, una carrozza medievale coperta, disegnata dal pittore fiammingo Jean Le Tavernier attorno al 1455. Sotto, un tipico carro medievale, di derivazione agricola, a un solo asse e trainato da una coppia di asini.

mati a filo d’oro. Nel 1300, a Milano, fu costruita una carrozza chiusa per le nozze di Galeazzo I Visconti e Beatrice d’Este. Da allora l’uso della carrozza divenne comune fra i nobili. Bona di Savoia, moglie di Galeazzo Maria Sforza (1444-1476), aveva a sua disposizione ben dodici carrozze con coperte ricamate, materassi e piumini riccamente decorati, così com’erano preziosamente ricamati e decorati i finimenti che ornavano i cinquanta cavalli adibiti al servizio di traino delle carrozze stesse. Per quanto sfarzose e costosissime, però, queste vetture restavano pur sempre delle semplici “carrette”, con la cassa appoggiata direttamente sugli assi delle ruote, il che rendeva il trasporto disagevole e soggetto a continui

sbalzi e scossoni, per via del fondo stradale sconnesso. Soltanto a partire dal Quattrocento arrivarono i primi cocchi, messi a punto in Ungheria dai mastri artigiani della città di Kocs, dal cui nome (o meglio, dall’ungherese kocsi, che significa “della città di Kocs”) derivano la parola italiana “cocchio”, il termine inglese “coach”, il tedesco “kutsche” e lo spagnolo “coche”. Si trattava di veicoli costituiti da un semplice cassone scoperto, ma dotati di una notevole particolarità: il cassone stesso era sospeso su archi metallici (le cosiddette balestre), fissati ai perni delle ruote. Era il primo abbozzo delle future sospensioni (vero toccasana per le più o meno nobili terga dei passeggeri), che si sarebbero sviluppate in seguito, fino a dare vita ai lussuosi cocchi del Seicento. 

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riti misteriosi

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sepolture anomale

UCCIDERE

I MORTI La paura dei trapassati risale alla notte dei tempi. Nel Medioevo, i suicidi, coloro che morivano in circostanze sospette o erano affetti da strane malattie a volte venivano sepolti con rituali macabri. Per evitare che tornassero a “tormentare” i vivi di Elena Percivaldi

L’

A destra, un revenant (“redivivo”, un morto che ritorna dall’aldilà in forma corporea) in una stampa del XVI secolo. Nella pagina a fronte, un funerale quattrocentesco.

archeologia ci ha restituito una casistica assai numerosa di defunti che, all’atto della deposizione nel sepolcro, erano stati legati con corde, stoffe o cinghie di cuoio. Nonostante i lacci non si siano conservati, essendo stati realizzati con materiali deperibili, hanno comunque lasciato tracce permanenti sullo scheletro e ne hanno determinato la posizione nella tomba, che risulta piegata o contratta in modo innaturale. In altri casi i cadaveri erano stati sottoposti a mutilazione post mortem (amputazione degli arti, decapitazione), oppure giacevano appesantiti da pietre o accompagnati da oggetti come chiodi, spine, paletti acuminati e amuleti, dall’evidente valore apotropaico. Ma quali erano le ragioni di pratiche tanto macabre?

Gli antropologi hanno documentato, in tutte le culture e le epoche, l’esistenza di radicate credenze secondo cui i defunti, in situazioni particolari, potevano rappresentare, anche dopo la loro inumazione, un pericolo per la società, tornando a tormentare i vivi. Testimonianza di queste convinzioni si ritrovano sia nella pratica funeraria che nel folclore. Esempio tipico è la credenza nel vampirismo, divenuto popolare nell’Inghilterra vittoriana e destinato al successo planetario dopo la pubblicazione, nel 1897, del romanzo epistolare Dracula. La trama del libro di Bram Stoker (1847-1912) echeggia remoti fatti storici (l’epopea del principe quattrocentesco Vlad III di Valacchia, detto l’Impalatore, baluardo contro l’espansione dei Turchi nei Balca- › civiltà medievale

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riti misteriosi

LE “STREGHE BAMBINE”

A

d Albenga, nei pressi di Savona, il complesso archeologico di San Calocero, antica area sacra di epoca romana successivamente divenuta monastero e abbandonata definitivamente nel 1593, ha resituito due sepolture anomale risalenti alla fine del Quattrocento. Il primo dei due scheletri rinvenuti, appartenente a una ragazzina di circa 13 anni, si presentava sepolto a faccia in giù; il secondo, quello di una fanciulla di età compresa tra i 15 e i 17 anni, era addirittura stato bruciato e poi ricoperto con un metro cubo di lastre di pietra. Entrambe le ragazze, secondo le analisi eseguite, erano anemiche e affette da metopismo (la permanenza della sutura frontale del cranio, che di solito si salda intorno ai 6 anni). La prima era anche malata di scorbuto, patologia legata alla carenza di vitamina C, che si manifesta con frequenti emorragie, soprattutto gengivali, e petecchie agli arti: segni interpretati, all’epoca, come prove di vampirismo o possessione diabolica. L’ipotesi è che furono considerate, per le loro peculiarità, streghe bambine.

Sopra, lo scheletro di una delle “streghe bambine” di Albenga. Nella pagina a fronte: sopra, in una stampa cinquecentesca, il defunto è inumato con il sudario legato da una corda, per impedirgli qualsiasi movimento. Nell’ovale, il diavolo cerca di accaparrarsi le anime di bambini morti da poco.

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ni e nel resto d’Europa), incrociati a una serie di leggende popolari romene, che Stoker aveva fatto sue grazie a un’approfondita ricerca storica e folcloristica.

Chi torna dalle tenebre

Le radici del terrore per i revenants, cioè per “coloro che ritornano”, sono complesse e affondano nell’antichità più remota. A destare preoccupazione erano gli individui per i quali l’inevitabile passaggio dalla vita alla morte non si era svolto in maniera serena e naturale. I primi a preoccupare erano i cosiddetti casi di “malamorte”, ovvero quando il decesso avveniva all’improvviso sia per malattia (per esempio un

colpo apoplettico), sia per incidente od omicidio (nel caso delle donne, anche durante il parto). Altri indiziati di una possibile trasformazione in “ritornanti” erano i suicidi e i delinquenti che avevano subìto la pena capitale: entrambi, infatti, avevano violato la legge sia umana che divina, e su chi si era tolto la vita pendeva anche l’aggravante di aver interrotto deliberatamente il corso della propria esistenza, compiendo un peccato mortale. C’era poi chi era deceduto in stato di scomunica, come gli eretici e le presunte streghe, i cui corpi non potevano essere seppelliti in terra consacrata, ma venivano deposti in un luogo appartato dal resto della comunità, in “terra maledetta”. Il sospetto vigeva anche nei confronti di chi apparteneva a fedi religiose diverse da quella cristiana oppure si presentava con qualche caratteristica fisica particolare, rara e considerata “anomala”: chi aveva i capelli rossi, per esempio, era ritenuto vicino al demonio, mentre chi aveva difetti e malformazioni evidenti appariva agli occhi degli altri come un “diverso”. Il terrore che tutti costoro, una volta defunti, potessero tornare dalla tomba era presente e vivo, e rendeva necessario procedere a una serie di azioni mirate a evitarlo. Che cosa si poteva fare per scongiurare il rischio di questi inopportuni, spaventevoli e poco auspicabili ritorni? La necropoli di Casalecchio di Reno, a 6 km da Bologna, utilizzata in varie epoche e da popolazioni diverse come area cimiteriale, ci regala alcune risposte. Nella porzione di necropoli che si può far risalire alla tribù celtica dei Boi (siamo verso la metà del IV secolo a.C.), ben 37 delle 97 sepolture presentano scheletri caratterizzati da nette tracce bruno-nerastre in determinati punti delle ossa. Secondo gli archeologi, questi segni non sono che i resti di legature realizzate con fasce di cuoio della larghezza di diversi centimetri, poste attorno ai corpi dei defunti per assicurarsi che questi individui non potessero più camminare. Gli scavi relativi alla parte di necropoli di epoca romana (databile tra il II e il IV secolo d.C.), invece, hanno rivelato che nelle sepolture a inumazione (il 76% su un totale

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sepolture anomale

Morti senza battesimo

I

bambini morti senza battesimo erano sospettati di incarnarsi in spiriti o folletti maligni, che potevano aggredire altri neonati oppure manifestarsi ai vivi per tormentarli. Per evitarlo si cercava di “rianimarli”, portandoli in appositi santuari (detti à répit o “della doppia morte”, diffusi soprattutto lungo l’arco alpino) per battezzarli, oppure si infieriva sul corpicino con mutilazioni (decapitazione, taglio dei piedi, ecc.) o altre forme di esorcismo. Un esempio è dato dai resti di un neonato sepolto con alcuni rospi decapitati, deposti con lui a scopo apotropaico; le spoglie appartengono alla necropoli di Baggiovara, presso Modena, databile tra il VI e il VII secolo d.C. Queste pratiche non erano benviste dalla Chiesa: il Penitenziale (1008-1012) di Burcardo di Worms condanna apertamente la pratica di impalare i cadaveri dei bambini, infliggendo ben due anni di penitenza a pane e acqua a chiunque la mettesse in pratica.

di 238) erano assenti le calzature, presenti invece nelle tombe a cremazione: anche in questo caso si voleva evitare che i morti tornassero a camminare, problema che ovviamente non si poneva nel caso dei defunti la cui salma era stata ridotta in cenere.

Impalare, gravare, mutilare

La pratica apotropaica (tesa ad allontanare i morti e le loro influenze o azioni maligne) continua, sempre a Casalecchio di Reno, anche nei settori frequentati più tardi, dove sono presenti deposizioni con scheletri mutilati. Nella Tomba 2, un cane giaceva in corrispondenza del cranio del defunto, decapitato e deposto in posizione fetale (l’animale aveva, presumibilmente, la funzione di guardia). Il corpo della Tomba 3 ave-

va subìto il taglio non solo della testa ma anche di entrambi i piedi. In quest’ultimo caso, le parti mutilate erano state “rimescolate” in maniera alquanto singolare: il piede sinistro collocato sopra la spalla destra, il destro vicino al femore, il cranio accanto alle tibie, in maniera da creare un puzzle inestricabile anche per il morto più tenace. Altri casi si riscontrano nella necropoli tardoantica di Baggiovara (Modena), dove gli inumati delle Tombe 11 e 13 erano stati oggetto l’uno della mutilazione della parte inferiore della gamba sinistra e l’altra, una donna, quella del braccio destro, di entrambi i piedi e del cranio. Nel 2011, una necropoli bulgara ha restituito due scheletri risalenti al Trecento a cui erano stati rimossi i denti, forse per precauzione; a breve distanza giaceva una › civiltà medievale

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riti misteriosi

sbarra di ferro con la quale i cadaveri erano stati percossi sul petto fino a sfondarne la cassa toracica. Tutte le mutilazioni avvenivano poco dopo il decesso. Un altro trattamento riservato ai defunti sospetti era poi quello della legatura o del fissaggio al terreno mediante sistemi diversi.

Inchiodati al terreno

Nel luglio del 2018, nel distretto ucraino di Talnovsky sono stati ritrovati i resti di una donna di circa 25 anni che giaceva prona, con le mani legate dietro la schiena: un chiaro segno che, in vita, doveva essere stata, o aver fatto, qualcosa di “speciale”. La tomba appartiene alla Cultura di Cernjachov, fiorita tra il II e il V secolo d.C. tra le odierne Ucraina, Bielorussia e Romania. L’area è anche la “culla” delle popolazioni di stirpe gota. I resti giacevano isolati e privi di un qualsiasi corredo funebre, costituito da monili e ceramiche, normalmente presente nelle deposizioni di quella civiltà. Si tratta di una circostanza che conforta la tesi secondo cui la defunta era una donna particolare, forse per via dello status sociale (si trattava di una straniera o di una mendicante?), del mestiere che faceva (una prostituta?) o del suo legame con il mondo soprannaturale (una “strega”?). In Cornovaglia i corpi dei suicidi, di prassi, venivano infilzati a terra con una lancia, in modo che non potessero rialzarsi. Qualora, malauguratamente, ci fossero riusciti lo stesso, il pericolo del loro ritorno era scongiurato dal luogo scelto per la sepoltura: si optava infatti per i crocicchi dove, confusi dall’incrociarsi delle vie, i non-morti avrebbero preso a vagare inutilmente nelle campagne, incapaci di ritrovare la strada per il loro villaggio. Per evitarli 58

bisognava restare lontani da questi luoghi dopo il calare delle tenebre (e per la stessa ragione “protettiva”, in molti incroci venivano piantate alte croci di legno). A Bologna, in occasione dell’apertura del cantiere per la realizzazione della nuova stazione ferroviaria, è stato trovato uno scheletro deposto a pancia in giù. Il defunto rinvenuto in un’altra tomba aveva invece un grosso chiodo conficcato alla sommità del cranio, proprio come due teschi del XII secolo ritrovati nella cattedrale di San Pietro, sempre nella città emiliana. In quest’ultimo caso, si era supposto che il foro fosse stato causato dal “colpo di grazia” inferto durante un’esecuzione, ma è più probabile che si trattasse di un rituale apotropaico: sin dall’antichità, il chiodo era considerato un oggetto magico associato alle Parche (le tre divinità che “tessevano” il destino degli uomini) ed era utilizzato, assieme ad altri oggetti appuntiti o affilati (paletti, coltelli, spade, spine), per trafiggere parti “sensibili” del corpo del morto (il rituale era chiamato defixio). Oppure, in alcuni casi, veniva collocato sopra o accanto alla salma. Inchiodare il cranio di

A sinistra, il teschio del bambino di Lugnano in Teverina, sepolto con un sasso in bocca per timore che tornasse a trasmettere la malaria che lo aveva ucciso. Sotto, come si vede in questa miniatura del XV secolo, le sepolture usuali avvenivano in terra consacrata, mentre agli individui dai comportamenti considerati “anomali” spettavano terreni non benedetti, lontani dai centri abitati. Nel riquadro della pagina a fronte, Amleto e lo spettro di suo padre in una stampa ottocentesca.

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sepolture anomale

un trapassato equivaleva a fissare per sempre le sue spoglie al luogo della sepoltura, impedendogli di rialzarsi e destinandolo così a una “fissità” eterna. La stessa funzione avevano le pietre, che venivano deposte sul corpo oppure inserite in bocca: è il caso eclatante, reso noto nell’autunno del 2018, del cosiddetto “bambino vampiro”, emerso dal cimitero degli infanti nella villa di Poggio Gramignano a Lugnano in Teverina, cittadina in provincia di Terni. Il bimbo, che al momento del decesso aveva circa 10 anni, fu sepolto nel V secolo d.C. con un grosso sasso in bocca, per impedire che tornasse nel mondo dei vivi e diffondesse la malattia che lo aveva ucciso, la malaria.

Caccia alle reliquie

SPETTRI CHE SPAVENTANO

N

ei primi secoli del Medioevo era diffusa la superstizione che gli spiriti dimorassero nei boschi e nelle brughiere, accanto alle rovine di chiese e di sepolcri inghiottiti dalla vegetazione. Le cronache dell’epoca pullulano di processioni di spettri e fuochi fatui che compaiono all’alba lungo i crocicchi, ritenuti maledetti. Rodolfo il Glabro, vissuto a cavallo del Mille, descrive al monaco Wulferio di Langres l’apparizione di un corteo di uomini biancovestiti e coperti di stole color porpora, i quali dichiaravano di essere cristiani uccisi dai Saraceni. Sempre Rodolfo racconta l’inquietante apparizione di alcuni cavalieri al prete Frotterio, che ne fu così spaventato da morire entro l’anno. La Cronaca, opera redatta nei primi anni del secondo millennio da Ditmaro di Merseburgo, documenta l’avvistamento di piccole luci che brillano nei cimiteri e di voci misteriose di uomini intenti a cantare il Mattutino e le Laudi. Quando i custodi del camposanto si avvicinano, però, tutto tace. La scena si ripete nei giorni successivi, finché non viene ordinato un digiuno collettivo di tre giorni a pane e acqua. Questi episodi mostrano la diffusione della credenza che i morti apparissero per annunciare l’imminenza di un trapasso e incombessero sui vivi per appropriarsi dei luoghi lasciati in stato di abbandono. Ecco perché i sacerdoti presero l’abitudine di dividere gli spazi per i vivi da quelli per i morti tramite l’aspersione di acqua benedetta.

Gli interventi sulle salme potevano avvenire contestualmente alla sepoltura oppure parecchio tempo dopo la morte, in particolare in concomitanza di catastrofi naturali o epidemie, quando la mentalità dell’epoca riteneva indispensabile individuarne il colpevole e renderlo inoffensivo una volta per tutte, anche con pratiche inusuali. Si procedeva quindi all’apertura dei sepolcri degli individui sospetti, che erano additati come responsabili delle disgrazie, e i loro corpi venivano mutilati, decapitati e trafitti in modo da non poter più nuocere. Una testimonianza eloquente è fornita dal cronista Saxo Grammaticus (1150-1220), che narra come, per liberarsi della peste «causata per vendetta» da un uomo ucciso durante un tumulto, gli abitanti «riesumarono il cadavere, lo decapitarono e gli trafissero il petto con un bastone acuminato; così la gente risolse il problema». Va però tenuto presente che l’asportazione di elementi anatomici poteva anche avvenire per ragioni diverse, soprattutto per mettere in atto pratiche di negromanzia: già Plinio il Vecchio testimonia che parti di cadaveri, in particolare i teschi, erano ricercati dagli stregoni per preparare intrugli e filtri magici. E non neppure va sottovalutato il prelievo di particolari ossa per ricavarne reliquie fasulle da vendere ai tanti creduloni che nel Medioevo alimentavano un mercato quanto mai florido.  civiltà medievale

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la domanda

UMANESIMO E RINASCIMENTO: QUALI SONO LE DIFFERENZE PIÙ IMPORTANTI? Fra Trecento e Cinquecento, grazie a illustri poeti e letterati come Francesco Petrarca, il pensiero, l’austerità, lo stile e il gusto del mondo classico prendono nuova vita. Per traghettare l’Europa intera, guidata dall’Italia, dal Medioevo verso la modernità di Luigi Lo Forti

L’

Europa di fine Trecento non era nelle condizioni di arretratezza sociale e culturale che le vengono spesso attribuite. Il XIV secolo era stato caratterizzato da una profonda crisi economica, oltre che dal flagello della Peste Nera, e ciò aveva radicalmente cambiato la società. In Italia, i Comuni si erano evoluti in società complesse o erano stati sostituiti dalle signorie, mentre le grandi città europee erano centri di scambi commerciali e culturali intensi e fecondi. Una nuova energia attraversava il continente, gettando le fondamenta per una rivoluzione culturale e filosofica, quindi estetica e artistica. Le premesse per il cambiamento dello scenario si concretarono a metà del XV secolo, quando la fine della Guerra dei Cent’Anni, nel 1453, regalò all’Europa un relativo periodo di pace. Le grandi banche e le potenze continentali si trovavano nelle condizioni di finanziare imprese ambiziose e potenzialmente redditizie, promuovendo così spedizioni ed esplorazioni che avrebbero ampliato (letteralmente) i confini del mondo conosciuto e aperto la strada a nuovi mercati. Non andavano ridisegnate soltanto le mappe geografiche, ma anche quelle delle élite politiche e culturali. Questo nuovo slancio metteva l’uomo al centro di tutto: le sue capacità intellettuali e la sua intraprendenza diventavano valori fondamentali; al contempo, entrava in crisi la religiosità dei secoli passati, che si esprimeva soprattutto nell’osservanza dei precetti e nell’omaggio acritico all’autorità ›

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umanesimo e rinascimento

Sopra, Lorenzo il Magnifico, circondato dagli artisti nel giardino delle sculture, incontra Michelangelo che gli mostra la testa di un fauno, dipinto di Ottavio Vannini del 1638-1642. All’epoca del fatto Michelangelo aveva circa 15 anni e il Magnifico fu talmente colpito dalla bellezza dell’opera che decise di ospitare il ragazzo in casa propria. Nella pagina a fronte, Francesco Petrarca (1304-1374), il grande letterato medievale il cui amore per gli autori classici diede inizio al movimento umanistico.

della Chiesa. Questa visione rinnovata dell’uomo e delle sue capacità fu alimentata anche dallo sguardo alla classicità, ovvero all’ideale di uomo che era stato elaborato da Greci e Romani e che, attraverso lo studio delle loro opere, tornava in auge, grazie a un movimento intellettuale chiamato Umanesimo.

La riscoperta dei classici

Se l’atmosfera politica, sociale e culturale dell’Europa del XIV secolo rappresentò il terreno di coltura per lo sviluppo del nuovo ideale umanistico, il luogo in cui esso si manifestò compiutamente, originando poi il Rinascimento, fu la quattrocentesca Firenze dei Medici. La fondazione dell’Accademia Platonica, nel 1462, da parte del filosofo Marsilio Ficino, su incarico di Cosimo il Vecchio, rappresentò un momento decisivo e dimostrò l’importanza che la corrente del neoplatonismo aveva assunto all’interno del nuovo panorama filosofico e culturale. La riscoperta dell’opera di Platone (che proprio Ficino tradusse integralmente) si dimostrò il punto di arrivo di un percorso iniziato circa

un secolo prima grazie a Francesco Petrarca, poeta e filosofo che contribuì in maniera decisiva alla riscoperta dei valori della classicità. Non si trattava più di recuperare la saggezza degli antichi in modo acritico: i neoplatonici intendevano riprendere i fili di un discorso filosofico antico, ma che si stava rivelando più che mai attuale. Esso esprimeva la centralità dello studio dell’anima umana, della sua complessità e unicità, approdando a un antropocentrismo che ben si sposava con l’individualismo delle nuove personalità che si stavano affacciando all’orizzonte politico e sociale. Già il Petrarca aveva dato lo sprone a leggere e studiare i testi dei grandi autori classici. Ora si trattava di proseguirne il pensiero. All’Umanesimo si dovette lo sviluppo della filologia come disciplina, e fu proprio grazie agli studi umanistici che il paziente e secolare lavoro di raccolta, copiatura e conservazione dei manoscritti da parte di monaci e amanuensi condusse alla definizione della moderna cultura occidentale. La centralità delle opere classiche, insieme al rispetto e all’autorità conferita ai loro autori, portò › civiltà medievale

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la domanda

Lo sposalizio della Vergine, dipinto da Raffaello nel 1504. L’opera, una grande tavola a olio, riassume in sé tutti gli elementi caratteristici della cultura rinascimentale: l’attenzione all’uomo nella sua dimensione sia carnale (espressa dalla perfezione dei gesti e delle anatomie) sia spirituale (simboleggiata dalla luce dei volti); la precisione geometrica nella definizione dello spazio; l’attenzione a uno stile architettonico che si rifacesse a quello dell’epoca classica; la precisione dei dettagli.

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come conseguenza il confronto critico con i maestri: fino a che punto era doveroso rifarsi integralmente alla loro opera e quando, invece, era opportuno criticarli o addirittura contestarli? Tale discussione portò a sviluppare un approccio inedito nei confronti dei testi: il loro studio si fece più critico, teso alla conferma dell’autenticità delle fonti e a una corretta interpretazione degli stessi. In un secondo tempo, l’esigenza di leggere e conoscere le opere originali condusse, oltre alla ripresa dello studio della lingua greca (che nei secoli precedenti conoscevano in pochi, anche fra gli eruditi), a una conseguenza destinata ad avere enormi ripercussioni sulla storia culturale e politica europea: la traduzione dei testi nelle lingue volgari nazionali, che portò nel tempo alla definitiva affermazione di queste ultime a discapito del latino, anche all’interno delle élite culturali. L’attitudine critica dell’Umanesimo e la disponibilità di testi e manuali nelle diverse lingue fece da incubatrice alla formazione di un metodo “scientifico” che sarebbe stato definito compiutamente, all’inizio del Seicento, da Galileo Galilei. La diffusione di testi nei principali idiomi europei, amplificata dall’invenzione della stampa, permise la nascita e l’affermazione di una comunità intellettuale internazionale, alimentata dal mecenatismo dei nuovi signori delle corti. Molti di loro erano animati anche da un sincero slancio intellettuale, che contribuiva ad accrescerne il prestigio. Esemplare, a questo proposito, è la figura di Lorenzo de’ Medici, poeta e mecenate illuminato, animatore di un’epoca breve ma

incredibilmente intensa e feconda, durante la quale Firenze assurse al ruolo di capitale artistica della cristianità. Attorno a lui si raccolsero i principali campioni della filosofia e di tutte le arti del Rinascimento, discendente diretto dello slancio intellettuale umanistico.

Firenze, la nuova Atene

Se l’Umanesimo può essere considerato un movimento prevalentemente letterario, il Rinascimento ne rappresenta l’evoluzione in ambito artistico. Anche in questo caso è evidente il ritorno ai modelli classici in pittura, scultura e oreficeria, che procede parallelamente alla riscoperta dei grandi autori greci e latini. Per rendersene conto è sufficiente mettere a confronto un’opera esemplare del periodo, il David di Donatello (scolpito nei primissimi anni del Cinquecento), con una qualsiasi scultura medievale. Sia l’Umanesimo che il Rinascimento non potevano che affermarsi in un contesto politico e sociale dove i signori e i ricchi mercanti traevano lustro e riconoscimento circondandosi di grandi artisti. A costoro venivano commissionate opere importanti, destinate a essere riconosciute come vette artistiche dall’intera umanità. Quale altra epoca può vantare così tanti geni? Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Paolo Uccello, Masaccio, Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Bramante, Cellini, Botticelli: nati tutti nelle stesse terre nell’arco di un secolo, e nutriti degli stessi ideali. Punto di snodo può essere considerato Botticelli, le cui opere sono spesso una summa del neoplatonismo, la filosofia del circolo fiorentino di Marsilio Ficino e dei suoi

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umanesimo e rinascimento

sodali: Lorenzo de’ Medici, Angelo Poliziano e Pico della Mirandola prima di tutti gli altri. Il Rinascimento, quindi, in un certo senso, non è che una costola dell’Umanesimo. Il famoso storico Jacob Burckhardt mette in evidenza come entrambi i movimenti nascano da una discontinuità rispetto alla precedente epoca medievale, prendendo avvio da una ripresa dei modelli e degli ideali classici. In particolare, Burckhardt si sofferma sull’antropocentrismo e l’universalismo dell’approccio rinascimentale, opposto a quello teocentrico del Medioevo. Tuttavia, una diversa lettura è stata data nel Novecento da altri studiosi, come il tedesco Burdach, il quale non vede discontinuità tra Medioevo e Umanesimo, considerando entrambi come parte di un’unica, sfaccettata epoca improntata agli ideali classici.

Una trasformazione sociale

IL FRUTTO DELLE RIFORME

L’

Umanesimo può essere considerato l’antefatto culturale decisivo per la Riforma protestante di Martin Lutero. Solo in un contesto umanista, infatti, potevano svilupparsi le premesse per la rivoluzione luterana, a partire dall’inedita possibilità di accedere al testo biblico personalmente, grazie all’opera di traduzione di cui si fece carico Lutero in persona (nell’immagine sopra). Tra il 1522 e il 1534, egli redasse una versione tedesca della Bibbia, consentendone l’accesso diretto ai suoi conterranei che non conoscevano il latino. All’epoca, in realtà, esistevano già 18 fra traduzioni integrali o parziali della Bibbia in lingua tedesca, oltre a versioni francesi e inglesi. Si trattava della conseguenza del nuovo approccio culturale che aveva portato a un grande impulso dell’attività di “localizzazione” dei testi canonici, fino a quel momento disponibili esclusivamente in latino. Anche lo spirito polemico nei confronti dell’autorità papale e dell’approccio dogmatico, che animava Lutero, derivava dall’attitudine critica degli umanisti: molti di essi, fra cui il grande Erasmo da Rotterdam, erano convinti che la religione dei loro contemporanei avesse ormai poco a che vedere con il cristianesimo delle origini, che poteva essere recuperato solo studiando personalmente la Bibbia. L’anima più spiccatamente umanista della Riforma fu Melantone, collaboratore di Lutero, ma anche Calvino può essere considerato un prodotto di quell’ambiente culturale: amico di esponenti del movimento, come Guillaume Budé e soprattutto Teodoro di Beza, Calvino frequentò il collegio Montague dell’università parigina, in cui gli ideali culturali dell’Umanesimo si erano affermati in maniera decisiva.

Il periodo rinascimentale può essere considerato in gran parte sovrapponibile a quello tardo umanistico ma, proprio per la sua dimensione eminentemente estetica, sembra influenzare la società in maniera più ampia e diffusa. Per esempio, viene considerata “rinascimentale” anche la ricerca dell’eleganza nell’abbigliamento, che si riscontra soprattutto nelle città italiane e spagnole. Lo stesso discorso vale per alcune mode: in quell’epoca, le donne presero a tingersi i capelli di biondo, ricorrendo sempre più spesso alla cosmesi per meglio aderire ai modelli estetici dell’epoca. In questo senso, dunque, si può parlare anche di “rinascita” dei costumi, che non si limitò solamente ai ceti più alti, colti e abbienti: secondo Burckhart, infatti, il desiderio di apparire belle ed eleganti si diffuse in modo capillare, fino a contagiare le popolane e le contadine, che cominciarono a truccarsi e a profumarsi, e le cortigiane, che iniziarono a imitare l’abbigliamento ricercato delle donne nobili e altolocate. Al punto che, per poterle distinguere dalle vere signore, a Firenze le prostitute d’alto bordo furono obbligate a indossare un nastro giallo. Nel nuovo mondo umanistico e rinascimentale, anche l’eros era uscito dalla clandestinità per recuperare il posto di rilievo che aveva avuto nel mondo classico.  civiltà medievale

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costume riti misteriosi

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la lingua del popolo

COME PARLAVA VERAMENTE IL VOLGO?

Sappiamo che furono Dante, Petrarca e Boccaccio, i padri dell’italiano, ad abbandonare il latino per scrivere in “volgare”. Ma la lingua parlata dalla gente comune era ben diversa da quella di poeti e letterati, e variava in maniera sensibile da una regione all’altra di Alessandra Colla

P A destra, l’imperatore Federico II di Svevia. Nonostante l’origine tedesca, scriveva in volgare italiano, celebrando la sua amata con questi versi: «Null’uom potria vostro pregio cantare / di tanto bella siete». Nella pagina a fronte, un calendario del IX secolo con scene di vita quotidiana. I costumi sono quelli del popolo, con i suoi abiti e i suoi strumenti. Anche la lingua di questi personaggi doveva essere differente da quella aulica parlata dall’imperatore.

er molti italiani, l’immagine più evocativa del Medioevo è quella veicolata dal film L’armata Brancaleone, il capolavoro che Mario Monicelli girò nel 1966. Lontanissimo dalle fantasiose ricostruzioni romantiche e da quelle più rigorose e severe della storiografia accademica, il bizzarro Medioevo ritratto da Monicelli è privo di riscontri scientifici, ma ha il merito di richiamare l’attenzione su un aspetto fondamentale per ogni civiltà: la capacità di esprimersi in modo comprensibile. Nel film, ciascuno degli sgangherati compagni d’avventura messi assieme da Brancaleone parla un italiano tutto suo, approssimativo, infarcito di termini dialettali e punteggiato di latino decisamente maccheronico, eppure tutti riescono a intendersi. Paradossalmente, è forse questo l’elemento più autentico di tutta la pellicola.

Una lingua per tutti

Il lento disgregarsi dell’Impero Romano ebbe tra le sue conseguenze il drammatico interrompersi delle vie di comunicazione: le strade, meno sicure, rendevano gli spostamenti difficoltosi, impedendo gli scambi commerciali con i grandi centri e condannando intere regioni a

un crescente isolamento. In parallelo, l’arrivo di nuovi popoli nelle terre non più controllate dall’Urbe introdusse nuovi idiomi che andarono prima ad affiancarsi e poi a sovrapporsi al latino classico, dando origine a sacche linguistiche in cui la lingua ufficiale dell’Impero venne a poco a poco dimenticata. Per secoli, nello sconfinato territorio dominato da Roma il latino era stato la lingua che aveva permesso a popoli lontanissimi tra loro di trovare un linguaggio comune, un po’ come accade oggi con l’inglese. Tuttavia, era sempre esistita una certa differenza tra il latino scritto della giurisprudenza, della retorica ciceroniana, della diplomazia e della letteratura e il latino parlato (non solo dal popolo minuto), soprattutto al di fuori dell’Urbe, dove la lingua era contaminata dagli antichi idiomi italici, sopravvissuti all’imporsi di Roma. Così, con il passare del tempo e in seguito agli sconvolgimenti seguiti al 476 (anno della caduta dell’Impero Romano d’Occidente), il latino rimase appannaggio dei dotti. Tutti gli altri, invece, indipendentemente dal ceto sociale, cominciarono a esprimersi in un latino alterato dai dialetti regionali e dal contatto con parlate diverse, dando vita in questo modo a una lingua nuova, informale › civiltà medievale

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costume

UN FUMETTO SBOCCATO

L

a basilica romana di San Clemente al Laterano (risalente nella sua parte più antica al III-IV secolo e in quella più moderna al XII) ospita quello che viene considerato uno dei primi fumetti della Storia (caratteristiche simili hanno anche alcuni graffiti di epoca romana). Si tratta di iscrizioni in volgare italiano realizzate a cavallo fra XI e XII secolo, poste a commento di un affresco che illustra un episodio della Passione di san Clemente. La moglie del ricco pagano Sisinnio era stata convertita al cristianesimo da Clemente, ma il marito era convinto che la donna gli fosse stata sottratta con arti magiche. Per questo ordinò ai suoi servi di catturare Clemente per condurlo al martirio, ma miracolosamente al posto del prigioniero comparve una colonna pesantissima, mentre Clemente tornava libero. L’iscrizione riporta le parole di Sisinnio e dei suoi servi, che si esprimono in volgare, e la risposta di Clemente, che invece parla in latino. Nell’immagine, una parte dell’affresco, in cui si vede Albertello (sulla sinistra) che tira la pesante colonna di pietra. Qui sotto, le frasi pronunciate dai personaggi e la traduzione in italiano. Da notare le espressioni “de le” (delle) e “co lo” (con il), preposizioni articolate tipiche della lingua italiana, ma che non esistevano in latino.

Sisinnio: «Fili de le pute, traite!» (Tirate, figli di puttana!) Gosmario: «Albertel, trai!» (Tira, Albertello!) Albertello: «Falite dereto co lo palo, Carvoncelle!» (Spingi da dietro con il palo, Carboncello!) San Clemente: «Duritia cordis vestri, saxa traere meruistis» (Per la durezza del vostro cuore, avete meritato di trascinare pietre).

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e alla portata di tutti, cioè popolare. Ma in latino “popolo” si dice vulgus, e così la nuova lingua prese il nome di volgare. Il volgare assunse nel tempo forme diverse da paese a paese, dando origine alle lingue cosiddette neolatine, alcune delle quali divennero l’idioma ufficiale di uno Stato, come nel caso di italiano, francese, spagnolo, portoghese e romeno. Le lingue neolatine vengono chiamate anche “romanze”: il termine deriva dall’espressione romanice loqui, che significa “parlare al modo dei Romani”, e indicava il linguaggio di coloro che, dopo il disfacimento dell’Impero, parlavano appunto quel latino “volgare” e non gli idiomi germanici dei barbari conquistatori.

Le radici delle lingue moderne

Naturalmente, è impossibile fissare una data precisa per la nascita della lingua volgare italiana, in quanto il passaggio dal latino a questo nuovo modo di esprimersi fu lento e graduale. Le prime tracce sembrano affiorare già negli anni fra il III e il IV secolo, ma bisognerà aspettare l’VIII secolo per assistere, pressoché ovunque, all’affermarsi di un linguaggio sempre più distante dal latino classico e sempre più simile alle lingue moderne. L’ufficializzazione di questo fenomeno fu sancita nell’813 dal Concilio di Tours, voluto da Carlo Magno (il fondatore del Sacro Romano Impero), sempre più preoccupato di consolidare l’ordine politico e religioso che aveva imposto nei suoi domini, spesso evangelizzati con la forza. Così, in obbedienza alle disposizioni imperiali, i vescovi riuniti in concilio nella città francese giunsero a una fondamentale conclusione: «All’unanimità abbiamo deliberato che ogni vescovo tenga omelie, contenenti le ammonizioni necessarie a istruire i sudditi circa la fede cattolica, secondo le loro capacità di comprensione, sull’eterno premio per i buoni e sull’eterna dannazione per i malvagi, ed anche sulla futura resurrezione e il giudizio finale, e con quali opere si possa meritare la beatitudine, con quali perdersi. E che si studi per tradurre in modo comprensibile le medesime omelie nella lingua romana rustica o nella ›

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la lingua del popolo

DOVE NACQUE L’ITALIANO Alcune celebri testimonianze del passaggio dal latino al “volgare”

BELLUNO (1196) Nel 1196 gli abitanti di Belluno e Feltre si allearono contro Treviso, e rasero al suolo Castel d’Ardo. L’impresa venne immortalata nel cosiddetto Ritmo bellunese:

VERONA (800 ca.) Ritrovato su un codice nel 1924, l’Indovinello veronese è il primo esempio di lingua intermedia tra latino e volgare.

De Castel d’Ard havi li nostri bona part; i lo zettà tutto intro lo flumo d’Ard e sex cavaler de Tarvis li plui fer con se duse li nostre cavaler.

Se pareba boves alba pratalia araba et albo versorio teneba et negro semen seminaba. Teneva davanti a sé i buoi [le dita]) arava bianchi prati [la pagina bianca] e aveva un bianco aratro [la penna] e un nero seme seminava [l’inchiostro].

Di Castel d’Ardo ebbero i nostri ragione; lo gettarono tutto dentro il fiume d’Ardo, e sei cavalieri di Treviso, i più fieri, con sé li condussero i nostri cavalieri.

Belluno

Verona ROMA (IX secolo) Nelle catacombe di Commodilla figura un’iscrizione che testimonia il passaggio dal latino al volgare.

Travale

Roma

Non dicere ille secrita a bboce. Non dire le cose segrete ad alta voce.

Capua TRAVALE (1158) Parole di Malfredo di Casamagi, rinvenute su una pergamena. Per essersi lamentato dello scarso cibo ricevuto quando era di guardia, fu sospeso dal servizio. Guaita guaita male Non mangiai ma mezo pane. Guardia, maledetta guardia! Non ho mangiato neanche mezzo pane.

CAPUA (960 ca.) Il Placito capuano testimonia l’appartenenza di alcune terre ai Benedettini di Capua e fu redatto per dirimere una lite tra i monaci e il feudatario Rodelgrimo d’Aquino. Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti. So che quelle terre, entro quei confini di cui qui si parla, per trent’anni le possedette l’abbazia di San Benedetto.

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Dante in un affresco di Domenico di Michelino (1417-1491): la parola “romanzo” compare per la prima volta nel Purgatorio, nella lode al provenzale Arnaldo de Mareuil, autore di «versi d’amore e prose di romanzi». Nella pagina a fronte, una pagina del De vulgari eloquentia, l’opera dantesca dedicata alle lingue volgari.

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tedesca, affinché più facilmente tutti possano intendere quel che viene detto». Carlo Magno sarebbe morto l’anno seguente, dopo essere riuscito nel suo intento e senza sapere che quel concilio aveva rappresentato il solenne atto di nascita delle lingue romanze: quelle “lingue romane rustiche” che venivano parlate nelle varie regioni dell’Impero. .

Dal volgare all’italiano

L’esistenza di una lingua autonoma e alternativa al latino era ormai evidente, e ovunque in Europa il volgare riuscì a imporsi con forza crescente fino a soppiantare

il latino, almeno nella vita di tutti i giorni. In Italia, per esempio, agli inizi del X secolo prese a circolare il cosiddetto Glossario di Monza: una sorta di manuale di conversazione pensato per viaggiatori e mercanti, che riporta un elenco di 65 voci del volgare lombardo tradotte in greco. Dall’XI secolo, infine, in tutta la penisola italiana il volgare cominciò a essere utilizzato abitualmente nei documenti giuridici, mercantili ed ecclesiastici; lentamente, crebbe in dignità e autorevolezza fino a diventare una vera lingua letteraria, diversa da regione a regione. Nel Duecento, furono Francesco d’Assisi e Jacopone

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la lingua del popolo

da Todi a utilizzarlo per i loro componimenti poetici di carattere sacro, mentre nel Mezzogiorno d’Italia furono Giacomo da Lentini, Cielo (o Ciullo) d’Alcamo e Stefano Protonotaro a nobilitare il volgare, dando vita alla scuola poetica siciliana, riconosciuta come una delle più illustri del tempo. Il Trecento vide poi l’affermarsi del volgare toscano e soprattutto fiorentino, con Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, che riuscirono nella difficile impresa di codificare una lingua che risultasse comprensibile in ogni regione della penisola.

Un breve ritorno al latino

PRONTUARIO PER I COPISTI

R

itrovata nell’abbazia di Bobbio (Piacenza) sulle ultime pagine di un manoscritto dell’VIII secolo, l’Appendix Probi è un promemoria per la corretta grafia di alcune parole in latino classico. Riporta, accanto alle forme corrette, quelle della lingua parlata, che evidentemente erano ormai usate dai copisti anche in quella scritta, ma che secondo il compilatore del promemoria non dovevano essere utilizzate nei codici. Molte di queste parole sono simili o identiche a quelle di oggi. Qui sotto alcuni esempi. Nell’immagine, Maria di Francia, poetessa del XII secolo.

LATINO VOLGARE ITALIANO aqua acqua acqua angulus anglus angolo auctor autor autore auctoritas autoritas autorità calida calda calda columna colomna colonna februarius febrarius febbraio masculus masclus maschio oculus oclus occhio auris oricla orecchia pavor paor paura rabidosus rabiosus rabbioso speculum speclum specchio tæter tetrus tetro vetulus veclus vecchio vinea vinia vigna viridis virdis verde

Dopo di loro, mentre già il Medioevo scivolava verso il Rinascimento, l’ascesa del volgare si fece irresistibile. Soltanto nel Quattrocento ci fu una momentanea inversione di tendenza, quando, con l’affermarsi del movimento umanistico, il ritorno ai valori etici ed estetici della classicità romana recuperò anche l’uso della lingua latina quale mezzo espressivo privilegiato dall’élite dei nuovi intellettuali. Ben presto, però, le due lingue tornarono a spartirsi in modo equo il “mercato”: il latino rimase la lingua degli eruditi, degli specialisti e degli scienziati, mentre il volgare si affermò soprattutto presso il popolo, ma anche tra i maggiori scrittori (come l’Ariosto e il Tasso), acquistando un peso sempre maggiore finché, nell’Ottocento, divenne espressione concreta dell’idea di una sospirata unità nazionale italiana. Se si considera la questione da questa prospettiva, il testo che segna un passaggio fondamentale nella storia dell’Italia e della sua lingua è sicuramente il romanzo storico I promessi sposi, pubblicato da Alessandro Manzoni nel 1827. Dopo mille anni, il lungo cammino di una lingua del popolo e per il popolo si era finalmente compiuto.  civiltà medievale

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moda

LA RIVOLUZIONE DEGLI

ORECCHINI Amati tanto dalle sofisticate bizantine quanto dalle energiche donne “barbare”, gli orecchini si diffondono nonostante la condanna degli scrittori cristiani, che li considerano un vezzo peccaminoso. Nel Rinascimento saranno irrinunciabili di Elena Percivaldi

S

foggiati fin dall’antichità (le più ricche donne celtiche, romane, greche ed etrusche li ritenevano un complemento indispensabile per esaltare la loro bellezza), gli orecchini continuano a ingentilire l’ovale del volto femminile anche nei secoli successivi. Ma non sempre hanno vita facile. Se ancora in età tardoantica e durante il primissimo Medioevo questi ornamenti compaiono spesso nelle tombe delle signore facoltose, con il passare del tempo e fino alle porte del Rinascimento vi si trovano molto più di rado, fin quasi a scomparire del tutto, tanto da risultare assenti nei ritratti di gentildonne del tardo Medioevo. La ragione è semplice: nei secoli centrali dell’Età di Mezzo, complice il continuo richiamo dei predicatori alla morigeratezza dei costumi, su cui vigilavano apposite leggi, i gioielli in genere e gli orecchini in particolare vennero indossati molto meno di frequente. La loro rivincita si ebbe dal Quattrocento in poi, quando le dame rinascimentali 70

facevano a gara nello sfoggiare parure di gioielli sempre più preziosi e raffinati. Di conseguenza, anche gli orecchini divennero un accessorio emblematico del variare del gusto e della moda.

Trionfi barbarici

Grandi appassionati di gioielli e ornamenti come status symbol e ostentazione di potere e ricchezza, i “barbari” esaltarono la loro creatività ed eccellenza nell’oreficeria producendo orecchini di grande gusto e raffinatezza. Il modello era fornito, per ragioni sia estetiche che di prestigio, dai preziosi diademi in voga a Costantinopoli e nel resto dell’Impero Bizantino, ma in molti esemplari si ritrova anche il retaggio di simboli e intrecci tipici del mondo germanico. Le forme del monile variavano dal cerchio all’anello allungato, con o senza pendenti, a gancio o a cestello. Tra il IV e il VII secolo, gli orecchini venivano indossati comunemente, a dispetto degli strali lanciati dagli scrittori cristiani, che invitavano le fanciulle ad abbandonare i gioielli vistosi, evitando anche di forarsi i lobi. Del ›

A sinistra, un orecchino del VII secolo ritrovato a Senise (Potenza) e conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli: è del tipo “a tamburo” e reca al centro un volto femminile lavorato a cloisonné. Nella pagina a fronte, il ritratto dell’imperatrice Teodora nella basilica di San Vitale, a Ravenna. Realizzato nel VI secolo, raffigura un vistoso paio di orecchini pendenti in oro, perle e smeraldi.

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gli orecchini

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moda

Sotto, un ritratto del Moroni (1522-1579). Abbandonata ogni remora, la giovane mostra orgogliosa i suoi orecchini.

resto, come è scritto nella Prima lettera di San Paolo a Timoteo: «Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese. Alla stessa maniera facciano le donne, con abiti decenti, adornandosi di pudore e riservatezza, non di trecce e

ornamenti d’oro, di perle o di vesti sontuose, ma di opere buone, come conviene a donne che fanno professione di pietà». Un esempio significativo del grado di raffinatezza raggiunto dagli artigiani orafi di quel periodo è dato da una coppia di orecchini appartenuti a una dama ostrogota (probabilmente una ricca aristocratica legata alla corte ravennate di Teodorico il Grande), ritrovati nel 1893 nei dintorni del castello di Domagnano, non lontano da San Marino. Della parure facevano parte anche due spille (fibule) a forma di aquila, nove pendenti da collana, uno spillone per capelli, un anello, tre borchie, due puntali per foderi di coltellini e una fibula a forma di cicala. I due orecchini con pendenti, in oro come tutto il resto, erano stati realizzati a cloisonné, o lustro di Bisanzio: una tecnica molto in voga all’epoca, che consisteva nel colare smalto colorato in piccole celle metalliche in modo da ottenere una sorta di mosaico. Gli orecchini, a base poligonale, sono completati da tre pendenti che hanno la foggia di un insetto alato, forse una cicala. Altri orecchini in stile policromo realizzati nella stessa epoca sono invece a forma di aquila: un noto esempio è conservato al Metropolitan Museum di New York.

Un’eccellenza italiana

La fattura di questi gioielli è caratteristica dell’artigianato tardoantico e rispondeva al gusto allora in voga a Bisanzio: gioielli con pendenti anche molto pesanti e ricchi di gemme e pietre preziose (come gli smeraldi) sono visibili, per esempio, ai lobi dell’imperatrice Teodora nel famoso mosaico della Basilica di San Vitale, a Ravenna. L’impiego massiccio del

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gli orecchini

PRESENTE E PASSATO

M

olto amate dalle signore per la loro raffinatezza, le perle sono impiegate spesso nell’ornamento dei gioielli. Nell’antichità, quando si ignorava la loro vera origine, si credeva che fossero gemme prodotte spontaneamente dal mare: per questa ragione furono sempre considerate un simbolo di purezza e quindi tradizionalmente associate alla Vergine. Se per le matrone sfoggiare gioielli con perle incastonate equivaleva a manifestare pubblicamente la propria onestà morale, regalarli alle spose rappresentava un perfetto dono nuziale, soprattutto se la fanciulla in questione si chiamava Margherita: in latino, infatti, margarita (parola derivata dal greco) significa proprio “perla” e come nome femminile è attestato in alcune iscrizioni risalenti ai primi secoli del cristianesimo. Il nome si diffuse poi nel Medioevo assieme al culto per santa Margherita di Antiochia, martirizzata all’epoca dell’Impero Romano e patrona delle partorienti. A destra, la celebre Ragazza con l’orecchino di perla (nota anche come Ragazza con il turbante), dipinta dall’olandese Jan Vermeer nel 1665-1666 circa.

A destra, uno degli orecchini ritrovati a Civezzano, centro di origine romana in provincia di Trento: appartenuti a una dama longobarda e databili al VII secolo, sono in oro, ametista e perle.

motivo animale nell’oreficeria è invece una novità di origine germanica: alcuni simboli, come quello dell’aquila, potrebbero derivare dalla contaminazione con altre tradizioni presenti sia nel mondo classico che tra le genti delle steppe asiatiche, con le quali i barbari vennero in contatto durante le loro migrazioni. Anche le donne dei Longobardi amavano molto gli orecchini: quasi assenti nelle necropoli di questo popolo prima del suo arrivo in Italia, compaiono invece a partire dall’epoca in cui si insediarono nella penisola, su influenza del mondo mediterraneo, originando esemplari di splendida e pregiata fattura, come i pendenti ritrovati a Civezzano (Trento), Castel Trosino (Ascoli Piceno) o a Senise (Potenza). Dopo secoli di relativo oblio (gli esemplari risalenti al periodo fra il X e il XIII secolo sono

molto pochi), gli orecchini tornarono in auge nel tardo Medioevo, quando rientrarono da protagonisti nel raffinato bagaglio delle cortigiane: apparsi dapprima timidamente ai lobi di alcune dame raffigurate nelle scene cortesi, care all’arte gotica internazionale, si fecero poi più spavaldi nei ritratti femminili realizzati durante il Rinascimento. A imporne il gusto e la moda furono proprio gli orefici italiani, che spesso era considerati veri e propri artisti: creando elaborati modelli a forma di uccelli o di fiori, e giocando sia con la policromia degli smalti sia con il candore simbolico delle perle, riuscirono a dare vita a gioielli squisiti e largamente imitati, destinati a “fare tendenza” nelle corti di tutta Europa.  civiltà medievale

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A BEVAGNA IL MERCATO DELLE GAITE Una manifestazione realistica e suggestiva, al cui centro, in uno spettacolare panorama di gare, giochi e feste, sta la ricostruzione, filologica e rigorosa, di una vera comunità medievale: tra donne, artigiani, uomini d’arme e tiratori d’arco di Elena Percivaldi

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a quinta naturale del centro storico di Bevagna, borgo medievale in provincia di Perugia, è protagonista, ogni anno, del tradizionale Mercato delle gaite, evento che nel 2019 ha compiuto trent’anni. Un traguardo raggiunto grazie alla qualità della proposta, che la nota guida Lonely Planet dedicata all’Umbria ha definito «la più importante e attendibile rievocazione medievale nel panorama europeo». La ricetta del successo? Sicuramente l’efficacia e la credibilità con cui l’evento ripropone uno spaccato di vita reale di un Comune del 74

Due-Trecento, attraverso tre sfide fra quartieri (le “gaite”, appunto). La prima prevede la ricostruzione di due mestieri con i rispettivi cicli produttivi; la seconda è conviviale, con il servizio di cibi e bevande dell’epoca; la terza è una giornata di mercato. A queste gare se ne aggiunge una quarta, di tiro con l’arco. Se le competizioni sono riservate alle giurie (i membri vengono scelti tra i più noti nomi della medievistica e della divulgazione storica), i visitatori possono entrare nelle botteghe e assistere alle prove in costume. I mestieri rievocati oggi sono: Ars

Sopra, un momento della gara del mercato, durante la manifestazione di giugno. Al centro, il volto di una figurante e, nella pagina a fronte, uno dei telai del setificio. Il termine “gaita”, che distingue i quattro quartieri di Bevagna, deriva dal longobardo watha, che significa “guardia”.

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eventi, rievocazioni e appuntamenti

Tinctoria-Scriptorium (Gaita San Pietro), Ars Chartaria-Magistri Portarum (Gaita San Giovanni), Ars Sete-Magistri Lignaminis (Gaita Santa Maria) e Zeccherius-Ars Canepis (Gaita San Giorgio). Ma la visita continua tra spettacoli itineranti ed esibizioni di musici e giullari. E si possono degustare, nelle locande e taverne allestite in ogni gaita, i piatti della cucina medievale: gusti genuini, provati e riprovati a partire dai ricettari d’epoca. Lo spettacolo offerto è di altissimo livello, grazie alla guida scientifica di Franco Franceschi, docente dell’Università di Siena. Il Circuito dei Mestieri tocca l’apice a giugno, ma rimane sempre aperto su prenotazione, con tutte le sue attrazioni.

La Storia dal vero

Si possono così ammirare la cartiera di Mastro Cecco, con la grande macchina azionata ad acqua e i suggestivi e angusti spazi, odorosi di colla animale; la cereria, dove si producono ceri e candele; il setificio, con il torcitoio e i telai mossi dalle donne; infine, la bottega del “dipintore”, dov’è possibile sperimentare le varie fasi della tempera su tavola e dove si svelano i segreti dell’arte pittorica medievale. Immortalato dal celebre fotografo Steve McCurry, il “popolo delle gaite” è finito sui set cinematografici della serie tv Il nome della rosa (2019), di Giacomo Battiato, e del film Blessed Virgin, di Paul Verhoven, in uscita nel 2020. Un importante riconoscimento per chi si impegna a far rivivere in maniera scrupolosa ma sempre coinvolgente un autentico giorno medievale. E non è tutto: la festa si è rivelata un volano fondamentale per lo sviluppo economico di Bevagna e del suo territorio che, anche grazie alle gaite, oggi propone una serie di tappe divenute ormai irrinunciabili per i percorsi turistici che attraversano la Valle Umbra. 

LA LUCE DEL PRESEPE VIVENTE

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n occasione del Santo Natale 2019, a Bevagna va in scena la seconda edizione di “Stella nova ’n fra la gente”, rappresentazione scenica vivente del Presepe, ambientata negli anni Trenta del Trecento. Ispirati dalle sacre rappresentazioni medievali, centinaia di figuranti, grandi e piccini, animeranno piazza Silvestri (dominata dal cammello, dalla Stella e dal Monte Persiano), con il mercato e le botteghe artigiane delle quattro gaite rallegrati da suoni e colori di musici e giullari. Fra canti e letture sacre, nella chiesa di S. Silvestro (che rappresenta Gerusalemme) i Re Magi incontreranno Erode nella sua reggia, mentre a S. Michele (Betlemme) parlerà l’Angelo dell’Annunciazione. Dopo la sosta in una taverna medievale, i visitatori entreranno nei giardini parrocchiali, dove l’Angelo visiterà i Pastori e i Magi renderanno omaggio al Bambino nella grotta. Nel borgo si rivivranno scene di vita trecentesca: gli artigiani, il mercato, la taverna, le musiche e i profumi dell’epoca nella ricostruzione del grande mistero della manifestazione dell’Umanità di Cristo.

Informazioni: tel 0742 361847 - 335 597 762 e-mail: [email protected]

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LE MERAVIGLIE DI COSIMO I - Firenze Firenze festeggia i granduchi Cosimo I e Caterina de’ Medici, entrambi nati nel 1519, con una serie di iniziative ed eventi che continueranno fino al 25 marzo 2020, quando sarà presentato, nella cornice di uno spettacolo pubblico, il restauro della Fontana del Nettuno in Piazza della Signoria. Nell’attesa, si possono visitare le mostre Cosimo I de’ Medici e l’invenzione del Granducato (allestita presso l’Archivio di Stato e aperta fino al 12 gennaio) e Sguardi globali. Mappe olandesi, spagnole e portoghesi nelle collezioni del granduca Cosimo III de’ Medici (visitabile fino al 29 maggio nella Biblioteca Medicea Laurenziana). Nella prima mostra, la vicenda umana e politica del capostipite dei granduchi di Toscana viene illustrata attraverso una scelta tra i molti documenti conservati nell’Archivio di Stato di Firenze, accompagnati da un ricco apparato iconografico. La seconda mostra è invece dedicata al collezionismo mediceo di mappe provenienti da tutta Europa e dedicate ai nuovi mondi: l’Africa, le Americhe, l’Oceano Indiano, i mari del Sudest Asiatico e le terre che si estendevano nel remotissimo Pacifico, dal Capo di Buona Speranza allo stretto di Malacca. INFORMAZIONI: www.500cosimocaterina.it

IMAGO SPLENDIDA - Bologna Allestita a Bologna negli ambienti del Museo medievale, la rassegna permette d’indagare l’affascinante (e ancora poco studiata) produzione scultorea bolognese tra XII e XIII secolo; il periodo in cui la città si affermò come centro culturale d’eccellenza, prima con la fondazione dello Studium, poi grazie alla presenza degli ordini mendicanti. La mostra, visitabile fino all’8 marzo 2020, presenta, per la prima volta riuniti insieme, alcuni rarissimi capolavori lignei prodotti nella città felsinea e restaurati di recente, attribuiti dagli studiosi a uno stesso maestro, operante in città per alcuni decenni. È il caso del bellissimo Crocefisso proveniente dalla basilica di Santa Maria Maggiore a Bologna, e del Crocefisso della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, due dei (purtroppo) rarissimi esemplari sopravvissuti all’inesorabile trascorrere dei secoli. Stravolte e modificate nel corso del tempo per essere adattate al gusto delle varie epoche, spesso dimenticate o relegate in piccole chiese dopo il loro primo splendore, queste opere restituiscono la spiritualità di un’epoca e di un ambiente artistico straordinariamentre vivaci. INFORMAZIONI: www.museibologna.it/arteantica/eventi

L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO IN UMBRIA - Perugia Si chiuderà il 6 gennaio 2020, alla Galleria Nazionale dell’Umbria, a Perugia, la mostra L’autunno del Medioevo in Umbria. Cofani nuziali in gesso dorato e una bottega perugina dimenticata, curata da Andrea De Marchi e Matteo Mazzalupi. L’allestimento raccoglie cassoni (o cofani) nuziali, raffinati elementi di arredo in uso nelle dimore rinascimentali italiane: rari frammenti della vita privata delle ricche famiglie che li avevano commissionati. Solo pochi esemplari sono giunti fino ai giorni nostri, e proprio per questo la mostra diviene un’occasione unica per radunare e mettere a confronto i preziosi pezzi d’arte, facendo conoscere un aspetto inedito dell’arredo domestico in pieno Quattrocento. I cassoni nuziali venivano costruiti sempre in coppia ed erano destinati a contenere il corredo delle spose di famiglie nobili e borghesi. Vari i temi raffigurati: dai semplici motivi animali o floreali a vere narrazioni di cortei e feste nuziali; ma anche episodi tratti dalla mitologia, dalla Bibbia o dai romanzi cortesi. Orari: lunedì 12-19,30; martedì-domenica 8,30-19,30. Biglietto: € 8, ridotto € 4 INFORMAZIONI: www.gallerianazionaledellumbria.it 76

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proposte

NELLA BOTTEGA

DI MERLINO La magia di un laboratorio artigiano dove il Medioevo rivive in tutta la sua bellezza

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Fossato di Vico, in provincia di Perugia, incontriamo Fabio, che nel suo laboratorio artigiano vende abbigliamento e produce accessori storici per rievocazioni e giochi di ruolo, attrezzature per arcieri e armigeri; ma anche articoli da regalo originali, in stile gotico e contemporaneo, con la possibilità di effettuare ricami unici e personalizzati. Siamo qui per conoscerlo meglio e farci raccontare da lui il suo lavoro, che è prima di tutto una grande passione.

N Perché hai scelto proprio Merlino per rappresentare la tua bottega artigiana? Quand’ero piccolo tenevo sul comodino una lampada di Merlino, a cui ero molto affezionato, e che continua a farmi compagnia nella vetrina del negozio. Pur passando gli anni, questo personaggio non ha mai smesso di rappresentare, per me, la perfetta sintesi del Medioevo, fatto di Storia ma anche di magia.

N Cosa ti rende fiero del tuo lavoro? Alla Bottega di Merlino si trovano moltissimi prodotti fatti a mano e curati nei minimi dettagli, come dimostra il fatto che spesso io e mia moglie siamo invitati dalle associazioni di rievocatori per partecipare a eventi in costume. La cosa di cui vado più fiero sono i miei articoli in pelle, che produco personalmente in bottega. N Quali sono i tuoi clienti più affezionati? Pur vendendo anche prodotti destinati al grande pubblico, la mia clientela più fidata è rappresentata dai rievocatori, che apprezzano la cura e la fedeltà filologica dei prodotti, e i molti utenti che acquistano nel mio store online. 

In alto, il banchetto allestito dalla Bottega di Merlino in occasione di una delle molte rievocazioni storiche a cui partecipa con i suoi prodotti artigianali. Nel tondo, Fabio e sua moglie Monica durante una sfilata in costume.

LA BOTTEGA DI MERLINO

Via Flaminia, 20 - 06022 Fossato di Vico (Pg) Aperto da lunedì a sabato 10,15-12,15 / 15,45-19,30 Tel. 340 973 6761 www.bottegadimerlino.com

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libri e film

LIBRI | LA CROCIATA INFINITA All’inizio ci sono i pellegrini, i “crucesignati” che recano cucita o ricamata, sulla veste o sulla bisaccia, una croce. La Crociata, che in principio non si chiamava così (il termine fu coniato solo nel Seicento dal francese Archange de Clermont), era iter, peregrinatio, passagium: spedizione militare, viaggio religioso, itinerario marittimo. Se ai tempi della prima spedizione (1096-1099) la volontà di liberare dai musulmani le terre in cui era vissuto Gesù si accompagnò a grande fervore religioso, in seguito altri fattori motivarono le campagne in Terrasanta: per le Repubbliche marinare, la possibilità di ottenere il controllo di rotte e porti mediterranei; per il papato, aumentare il proprio prestigio; per i sovrani, liberarsi di folle insofferenti e aristocratici riottosi. Fede, interesse economico, attrazione per l’ignoto, dunque, spinsero l’Europa cristiana in Oltremare. Più tardi, la Crociata divenne lotta all’eresia, strumento di controllo politico, difesa contro le offensive ottomane o le incursioni dei pirati barbareschi. Di tutto questo, il libro dipinge un grande affresco, colto e documentato, che invita a riflettere. Cardini F., Musarra A. - Il grande racconto delle Crociate - Il Mulino, pp. 524, € 48

LIBRI | L’AVVENTURA DI UNA SETTA LEGGENDARIA Noti come una cerchia di fanatici sicari musulmani, gli Assassini furono responsabili, secondo la leggenda più conosciuta in Occidente, di un numero enorme di efferati delitti e azioni suicide, compiute dopo essersi storditi con l’hashish (da cui deriverebbe il loro nome), nella convinzione di guadagnarsi il Paradiso. In realtà, la vera storia dei Nizariti (questo il vero nome della setta) è ben più affascinante. Sorti nel 1094, ai tempi della Prima crociata, i Nizariti conquistarono in breve tempo una serie di fortezze tra Siria, Iraq e Iran. Da lì lanciarono una sfida al mondo islamico, che li considerava eretici. Per quasi due secoli seppero elaborare una versione dell’assetto sociale, politico e religioso dell’Islam radicalmente opposta a quella sunnita, che si andava affermando quasi ovunque. Il coronamento di tale visione fu, nel 1164, la proclamazione della “Resurrezione”, cioè l’abrogazione dei vincoli della legge religiosa e l’istituzione del Paradiso in Terra. In questo libro, Hodgson non solo traccia la complessa storia dei Nizariti, ma ne ricostruisce la raffinata e stupefacente dottrina, a partire dai testi sacri della setta e dai dotti scritti dei loro più tenaci oppositori. Marshall G.S. Hodgson - L’ordine degli Assassini - Adelphi, pp. 522, € 32

LIBRI | MISTERI E BUGIE SULLA SACRA COPPA Fin dalla sua apparizione sulla scena letteraria, nel XII secolo, per opera di Chrétien de Troyes, il Graal si presenta come un oggetto in continua trasformazione: i romanzi cortesi lo descrivono, di volta in volta, come un piatto contenente un’ostia, il vaso in cui Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue di Cristo, una pietra preziosa discesa dal cielo. Dopo una lunga eclisse, il mito viene recuperato nell’Ottocento, in particolare dal suo “inventore” moderno, Richard Wagner: il Parsifal è all’origine di un nuovo “ciclo del Graal”, che comprende opere teatrali, narrative, storiche (o pseudostoriche) e cinematografiche. Un ciclo a cui appartengono anche recenti successi, come Il Codice da Vinci. Sintesi di un ventennio di ricerche effettuate sull’amplissima letteratura cortese e cavalleresca, il volume offre una panoramica sull’evoluzione del mito del Graal nel Medioevo e sul suo contesto letterario e religioso, proponendo anche un’indagine critica circa le sue riscritture e interpretazioni moderne. E demolendo troppi luoghi comuni che circolano al suo riguardo. Francesco Zambon - Metamorfosi del Graal - Carocci, pp. 416, € 19 78

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L’AQUILA DEGLI IMPERATORI Simbolo di Giove e usata dai Romani come insegna delle legioni, l’aquila fu recuperata dai sovrani carolingi quale emblema del nuovo impero, percepito come discendente di quello dei Cesari. Un emblema che resiste al passare dei secoli, anche in versione a due teste di Maddalena Freddi

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otata di vista acuta e volo altissimo, all’aquila vennero attribuiti, in tutti i tempi e tutte le culture, molti significati simbolici, tanto da imporsi, anche nel Medioevo, come uno degli emblemi più popolari. Tradizionalmente associata agli dei, di cui è messaggera, nella cultura greca l’aquila è un attributo di Zeus, nonché uno dei tanti animali in cui il dio s’incarna, come dimostra il mito di Ganimede: trasformatosi in aquila, Zeus si presentò al bellissimo giovane mortale, di cui si era invaghito, per rapirlo e condurlo con sé 80

sull’Olimpo facendone il coppiere degli dei. Dal mondo greco a quello latino, passando da Zeus a Giove, l’aquila si conferma uccello divino per eccellenza e finisce per assumere i connotati regali del padre degli dei. Con molta probabilità, l’origine della fortuna simbolica del rapace è asiatica: in veste regale, l’aquila si ritrova già tra i Babilonesi e i Persiani, per giungere nel bacino mediterraneo e in Europa attraverso le conquiste di Alessandro Magno, che la adotta quale simbolo del suo potere universale accanto al tradizionale leone macedo-

Militi di Federico II di Svevia, da un manoscritto della Nova cronica di Giovanni Villani (1280-1348): come si nota, portano l’insegna dell’aquila imperiale (nera, in capo d’oro) su scudi, gualdrappe e vessilli.

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simboli

Enrico VI (11651197), sovrano del Sacro Romano Impero, in un ritratto dal Codex Manesse, canzoniere medievale in lingua tedesca, arricchito da preziose miniature. Tra le insegne di sovranità, oltre a scettro e corona, spicca l’aquila, riportata anche sul cimiero dell’elmo. Fu Federico Barbarossa a introdurre l’aquila nera su fondo oro: al nipote, il dotto Federico II, si deve invece quella a due teste, anch’essa su fondo oro, tratta dalla tradizione bizantina.

ne. Proprio per imitare il grande conquistatore l’aquila passò agli imperatori di Roma. Del resto, l’Urbe ne adottava già l’emblema, munito di folgore (che è anche uno degli attributi di Giove), sulle insegne delle sue legioni.

Il vanto di Federico

Come scrive lo storico Franco Cardini, «l’aquila è simbolo di potere regale e al tempo stesso di divinazione. Il grande volatile sottolinea non solo l’ascensione, ma anche il rinnovamento della vita simboleggiato dall’esperienza eterna e divina». Non stupisce che, con il passaggio al cristianesimo, il volatile diventasse attributo di Cristo, imperatore dei cieli e della Terra oltre che giudice supremo. Non a caso, la Commedia di Dante raffigura gli Spiriti giudicanti mentre compongono in cielo la frase “Diligite iustitiam qui iudicatis terram” (“Amate la giustizia, voi che siete giudici in terra”, tratta dal libro biblico della Sapienza), per poi raccogliersi in una grande «M», che infine si trasforma in un’aqui-

la, simbolo di sapienza per via della sua vista, in grado di sopportare la luce diretta del Sole. Nel XII secolo l’aquila divenne simbolo imperiale del sovrano Federico Barbarossa (ca. 1122-1190), il quale attinse sia alla tradizione carolingia (Carlo Magno aveva decorato con un’aquila romana la sommità della sua dimora ad Aquisgrana), sia a quella romana. L’aquila di colore nero divenne, di conseguenza, anche distintiva degli Hohenstaufen, il suo casato, e dei ghibellini, ai quali si contrappose, sul fronte avverso, l’aquila rossa della dinastia dei Welfen, eponimi del partito guelfo: aquila, in questo caso, raffigurata mentre artiglia il drago, simbolo dei ghibellini ritenuti “eretici” e lontani dalla dottrina papale. L’aquila è stata adottata anche da molti casati nobiliari, contendendo il primato ad altri “re degli animali”, l’orso e il leone: il primo di ascendenza celtico-germanica, l’altro romano-mediterranea. In questo modo è divenuta parte integrante e imprescindibile dell’araldica europea fino ai giorni nostri. 

UN SIMBOLO DUPLICE

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ell’iconografia, l’aquila appare spesso a due teste, come il dio Giano bifronte. Le ragioni sono molteplici, e forse alludono all’Impero Romano d’Oriente e d’Occidente. Inoltre, la duplicità rimanda all’onniscenza divina, che in quanto tale può creare e distruggere, salvare o dannare: come il Cristo del Giudizio Universale, che con la destra indica ai buoni la salvezza e con la sinistra avvia i peccatori al fuoco della dannazione eterna. Una versione quattrocentesca e tripite dell’aquila (per simboleggiare Roma, Costantinopoli e Gerusalemme) non ebbe fortuna. A lato, un’aquila bicipite bizantina: incastonata nel pavimento, indica il punto della chiesa di San Demetrio a Mistra (nel Peloponneso meridionale, vicino all’antica Sparta) dove Costantino XI Paleologo fu incoronato imperatore (basileus), il 6 gennaio 1449.

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NEL PROSSIMO NUMERO in edicola il 28 febbraio

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Amministrazione: Erika Colombo (responsabile), Irene Citino, Sara Palestra, Danilo Chiesa, Dèsirèe Conti - [email protected] Civiltà Medievale, pubblicazione registrata al Tribunale di Milano il 22.01.2007 con il numero 44. ISSN: 2704-7733 Direttore responsabile: Luca Sprea Distributore per l’Italia: Press-Di Distribuzione stampa e multimedia s.r.l. - 20090 Segrate Distributore per l’Estero : SO.DI.P S.p.A. Via Bettola, 18 - 20092 Cinisello Balsamo (MI) Tel. +390266030400 - Fax +390266030269 - [email protected] - www.sodip.it Stampa: Arti Grafiche Boccia S.p.A.- Salerno Copyright : Sprea S.p.A. Informativa su diritti e privacy

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