Dossier Del Medioevo

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ALLE ORIGINI DEL MADE IN ITALY

N°8 Maggio 2015 Rivista Bimestrale

My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

EL M M A N ILA AD AS N E I CI O N TA ITA D LY EL

MEDIOEVO DOSSIER

Dossier

EDIO VO M E

Imprese, bellezza e grandi firme nell ’Italia medievale

€ 7,90

ALLE ORIGINI DEL

MADE IN ITALY

ALLE ORIGINI DEL MADE IN ITALY L’ECONOMIA MILANESE E ITALIANA FRA TRE E QUATTROCENTO

di Maria Paola Zanoboni

6. Presentazione Milano, un paradiso dell’ingegno PRIMA PARTE Mestieri

78. Il vetro Il fascino della trasparenza

12. I battiloro Lo sfarzo corre sul filo

90. La produzione della carta

26. Il ricamo Tesori di stoffa

94. Dove e quando I musei da visitare

42. I fabbricanti di pietre false 48. Gli armaioli Fucine come sartorie

SECONDA PARTE Canali e industrie

60. Gli armaioli-orefici

96. Chiare, dolci, ricche acque

68. L’ottone Un mondo di chose piccole...

112. I mulini Quando girano le ruote...

74. I maestri salariati

124. La pesca

MADE IN ITALY

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ALLE ORIGINI DEL MADE IN ITALY

Presentazione

MILANO

UN PARADISO DELL’INGEGNO

«C

hi faceva una cosa e chi un’altra, tal che chi intrava in quella buttiga vedendo un travaglio di tante persone credo che cosi gli paresse come pareva a me intrare in uno inferno, anzi in contrario in un paradiso, dove era un spechio in che resplendeva tuta la bellezza de lingegno, el poter del arte, et io tal cosa considerando mentre che stei in Milano con grandissimo mio piacere, non fu mai giorno che non vandasse a passarmi il tempo». Con queste estasiate parole il chimico, mineralogista e metallurgista senese Vannoccio Biringuccio (1480-1537) esprimeva al massimo grado la sua ammirazione per la capitale del ducato sforzesco, che aveva visitato all’inizio del Cinquecento, rimanendo affascinato da una bottega per la lavorazione dell’ottone. Le sue frasi manifestano nel modo piú compiuto quel clima, di cui doveva essere intrisa la Milano rinascimentale, improntato all’esaltazione di ogni attività in quanto specchio dello splendore dell’ingegno e del potere dell’arte. Da almeno due secoli, infatti, la città era una sorta di «grande fabbrica», in cui si producevano merci di ogni tipo – spesso di lusso e di altissima qualità –, che fin dal Trecento trovavano sbocco nei principali mercati europei, e, soprattutto, in quello raffinato di Avignone, divenuta sede, nel XIV secolo, della corte papale. La sperimentazione incessante in ogni campo dello scibile umano che aveva dominato l’attività del suo piú illustre «cittadino adottivo», Leonardo da Vinci, caratterizzava a Milano, sul finire del Quattrocento la maggior parte dei settori, favorita dal fervore che la corte rinascimentale degli Sforza promuoveva, soprattutto all’epoca di Galeazzo Maria e di Ludovico il Moro. A dominare la poliedricità delle botteghe milanesi era il concetto di «unità delle arti», attraverso il ruolo fondamentale del disegno, definito da Filarete come «forma sensibile dell’idea», «fondamento e via d’ogni arte

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Miniatura raffigurante i mestieri che si svolgono sotto l’influenza del pianeta Mercurio, dalla prima copia a stampa del Tractatus de sphaera mundi, un compendio di nozioni astronomiche scritto dallo studioso inglese John Holywood (1190 circa-1250 circa). 1472. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

TITOLO

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ALLE ORIGINI DEL MADE IN ITALY

Presentazione

DAL BARBAROSSA A LUDOVICO IL MORO 1311 Matteo Visconti riceve il vicariato imperiale per Milano e il suo territorio.

1162 L’imperatore Federico Barbarossa «distrugge» la città di Milano.

1328 Azzone Visconti prende il potere.

1176 A Legnano i Milanesi, alla testa della Lega Lombarda, sconfiggono gli eserciti imperiali. 1209 Si concludono i lavori per l’apertura del Naviglio Grande, che deriva il corso del Ticino fino al canale circolare di Milano.

1216 Redazione del Liber consuetudinum Mediolani, primo Statuto comunale di Milano. 1183 Pace di Costanza: l’imperatore riconosce la sovranità dei Comuni.

1402 Morte di Gian Galeazzo Visconti.

1330 Redazione degli Statuti urbani milanesi, presto imitati dalle altre città lombarde. 1354 alla morte dell’arcivescovo Giovanni Visconti la signoria si divide tra i suoi nipoti Matteo II, Bernabò e Galeazzo II.

1240 La famiglia Della Torre prende la guida della fazione popolare a Milano e presto impone il suo dominio sulla città (1266-1277). 1277 L’arcivescovo Ottone Visconti caccia i Della Torre e si impadronisce della signoria.

1398 Il duca di Milano firma una tregua con i suoi nemici.

1396 Fondazione della Certosa di Pavia.

1338 Morte di Azzone Visconti. 1372 Si costituisce una lega anti-Visconti.

1302 I Comuni di Novara, Vercelli, Pavia, Como, Cremona si alleano contro i Visconti. Ritorno dei Della Torre a Milano.

1395 L’imperatore riconosce Gian Galeazzo Visconti duca di Milano. 1385 Comincia il cantiere del duomo di Milano. 1378 Gian Galeazzo Visconti succede al padre Galeazzo II.

che di mano si faccia» e indispensabile tanto alla pittura, alla scultura e all’architettura, quanto all’oreficeria, al ricamo, alla realizzazione dei tessuti e a quella delle vetrate. A loro volta, l’oreficeria, l’arte vetraria e la pittura trovavano un punto di contatto nell’arte dello smalto, nella realizzazione di paste vitree a imitazione delle pietre preziose e nella composizione delle vetrate di cui molti pittori importanti non disdegnavano di disegnare i cartoni, come non disdegnavano quelli per il ricamo. D’altra parte, per gli artisti quattrocenteschi, la sperimentazione attraverso molteplici tecniche rappresentava uno strumento d’indagine funzionale alla ricerca espressiva e conferiva dignità intellettuale alla realizzazione pratica, mettendola sullo stesso piano dell’ideazione. Al tempo stesso la pittura e il disegno, che nel XV secolo (al contrario che all’epoca di Dante) erano considerate «arti liberali», in quanto fondate su criteri matematici, elevavano al rango di artista anche l’artigiano dedito alle «arti applicate». In questo clima di sperimentazione incessante si collocava la maggior parte delle arti milanesi, molte delle quali (come la manifattura della seta, l’arte dei battiloro, e la lavorazione del vetro) introdotte nella capitale del ducato sforzesco nel corso del Quattrocento, grazie al patrimonio di conoscenze tecniche portate da maestranze provenienti da tutta la Penisola, e talvolta anche d’Oltralpe. Gli artigiani e gli imprenditori milanesi seppero assimilare e rielaborare questo patrimonio, facendolo proprio e reinterpretando8

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A sinistra Bonifacio Bembo, Ritratto di Francesco Sforza, affresco strappato e trasportato su tela. 1462. Cremona, S. Agostino.

1412 Morte del capitano di ventura Facino Cane. Filippo Maria Visconti prende il potere. 1421 Presa di Genova. 1434 Francesco Sforza passa nel campo dei nemici dei Visconti. 1450 Francesco Sforza. entra a Milano e si fa riconoscere nuovo duca.

1480 Esecuzione di Simonetta. Ludovico il Moro governa in nome del giovane nipote, Gian Galeazzo Sforza, duca di Milano.

1483 Leonardo da Vinci raggiunge la corte di Milano. 1494 Morte di Gian Galeazzo Sforza. Ludovico il Moro diventa duca i Milano. 1495 Ludovico il Moro intraprende una politica sistematica di alienazione dei redditi pubblici. 1499 Luigi XII si impadronisce del Milanese.

1456 Fondazione dell’Ospedale Maggiore di Milano.

1454 Viene firmata la pace di Lodi che stabilisce l’equilibrio delle potenze della Penisola. 1447 Morte di Filippo Maria Visconti. Si instaura il regime della «Repubblica ambrosiana». 1425 Francesco Sforza entra al servizio del duca di Milano.

Benedetto Briosco, medaglione marmoreo con il profilo di Ludovico Sforza. 1490-1494. Washington, National Gallery of Art.

1476 Galeazzo Maria Sforza è assassinato. Cicco Simonetta prende la guida del consiglio della reggenza.

1500 Ludovico il Moro cerca di tornare al potere, ma viene fatto prigioniero ed è esiliato in Francia.

1468 Morte di Bianca Maria Sforza, madre di Galeazzo Maria, che cerca di imporre un governo autoritario. 1466 Morte di Francesco Sforza. Gli succede il figlio Galeazzo Maria Sforza.

lo in modo originale, ottenendo in ogni campo prodotti (dalle armi ai tessuti, agli oggetti metallici, alla gioielleria e alla bigiotteria) apprezzati ovunque in Europa. All’inizio del Cinquecento erano proprio i mercanti milanesi, insieme a quelli fiorentini, a dominare le Fiere internazionali di Lione. Protagoniste di questo processo di assimilazione e di innovazione non furono solo le maestranze, ma anche gli imprenditori, ovvero quei mercanti-imprenditori milanesi, tra i quali figuravano spesso nobili e funzionari dell’entourage ducale, che, godendo di adeguati appoggi a corte e di altrettanto adeguati capitali, riuscivano ad assicurarsi le commesse ducali mettendosi al tempo stesso al riparo dai rischi insiti nel contatto con l’autorità pubblica, che, allora come oggi, era perennemente insolvente. Nella seconda metà del Quattrocento (l’epoca cioè del dominio sforzesco, da Francesco Sforza a Ludovico il Moro) questi mercanti-imprenditoribanchieri furono i primi a buttarsi letteralmente su attività nuove per la città e che si intuivano remunerative – prime fra tutte la produzione dei drappi auroserici e la manifattura del vetro – non solo finanziandole, ma accaparrandosi le maestranze straniere che ne conoscevano i segreti, e assumendole affinché le insegnassero ai loro figli. Tale sinergia di risorse economiche, mezzi tecnici e capitale umano proveniente da tutta la Penisola, e talvolta anche d’Oltralpe, fece della Milano sforzesca uno dei poli produttivi e commerciali piú importanti d’Europa, nonostante la disastrosa politica economica dei suoi ceti dirigenti.

Bottega di Benedetto Briosco, medaglione marmoreo con il profilo di Gian Galeazzo Maria Sforza. 1490-1494. Washington, National Gallery of Art.

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ALLE ORIGINI DEL MADE IN ITALY

Presentazione

LA PIAZZA DEI MERCANTI

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VIA OREFICI

P.ZZA

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In origine la piazza formava un complesso chiuso, al ebbene profondamente e ripetutamente centro del quale campeggiava il Broletto Nuovo: quello rimaneggiato, il complesso di edifici di piazza visibile attualmente è dunque circa la Mercanti costituisce uno dei rarissimi metà dello spazio originario, dopo le e piú antichi esempi di architettura PIAZZA CORDUSIO demolizioni ottocentesche con cui si medievale milanese, e forse l’unico venne a creare un passaggio diretto tra angolo rimasto che conservi ancora piazza del Duomo e piazza Cordusio vestigia risalenti al XIII-XIV secolo. La C . S VIA RITA GHE mediante l’odierna via Mercanti. struttura piú antica (inizi del XIII MAR Nella doppia piazza originaria si aprivano secolo) è il Broletto Nuovo, o Palazzo D sei porte corrispondenti ai sei rioni della Ragione, che campeggia al I B N A E cittadini, facendo cosí di questo spazio il centro della piazza, confinante, sul GO N E M fulcro della vita economica e lato verso il Cordusio, con Casa A VI amministrativa della città. Panigarola/Badía dei mercanti (in A mezzogiorno si trovavano porta buona parte ricostruzione ottoVercellina (o di San Michele al Gallo), novecentesca degli architetti Luca VIA tuttora esistente, incorporata nell’edificio Beltrami e Antonio Cassi-Ramelli, con TORINO delle Scuole Palatine; porta Cumana, l’utilizzo di resti medievali). Di fronte A Palazzo della Ragione verso il Cordusio (etimologicamente curia al Broletto, sulla medesima piazza, si o Broletto Nuovo I N ZI B Palazzo dei Giureconsulti AZ Ducis, «corte del Duca», in cui si svolgeva trovano le seicentesche «Scuole M A C Casa dei Panigarola VI tutta la vita politica e amministrativa di Palatine» e la trecentesca Loggia D Scuole Palatine Milano ai tempi di Alboino, re dei degli Osii. Di fronte all’altra facciata E Loggia degli Osii Longobardi dal 560 al 572, che fece del Broletto, sul lato opposto di via realizzare tale spazio). Mercanti, si erge il cinquecentesco La contrada in corrispondenza di questa porta era detta Palazzo dei Giureconsulti, oggi sede della Camera di anche «dei fustagnari», perché qui gli sbiancatori di Commercio. fustagno potevano lavorare utilizzando l’acqua del fiume Nirone. Porta Nuova, o «dei Fabbri», era rivolta verso la contrada di Santa Margherita, sede degli armaioli; porta Orientale, o di Sant’Ambrogio si apriva sotto l’omonima cappella del Palazzo del Podestà, in corrispondenza della Pescheria, e metteva in comunicazione la piazza dei Mercanti con quella del Duomo; porta Romana, era situata sotto la residenza podestarile in direzione del Duomo; infine, in direzione sud-ovest, vi era porta Ticinese. Occupata al centro dal grande portico giudiziarioamministrativo del Broletto, la piazza era racchiusa da altri portici con sale sovrapposte, da una serie di modesti edifici riservati alla residenza del Podestà, alle carceri, e alle sedi delle corporazioni piú importanti, tra cui quella dei mercanti. Su di essa i trombettieri comunali e poi quelli ducali annunciavano le nuove gride. Nella seconda metà dell’Ottocento, dopo l’apertura della nuova piazza del Duomo e la sistemazione del nucleo urbano formato dal foro Bonaparte, dalla via Dante e da piazza Cordusio, l’antica piazza dei Mercanti venne radicalmente trasformata: furono abbattuti il lato orientale

Uno scorcio della piazza dei Mercanti. In primo piano è il pozzo del XVI sec. (ma la trabeazione è un’aggiunta settecentesca). Sulla destra, si riconosce la facciata in laterizi del Palazzo della Ragione, fatto costruire dal podestà Oldrado Grassi da Tresseno tra il 1228 e il 1233.

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e quello occidentale, in modo da ridurre la parte settentrionale dell’antico centro in un corridoio di transito tra la piazza del Duomo e i nuovi quartieri (via Mercanti). Il livello della piazza venne abbassato di mezzo metro e uniformato a quello di piazza del Duomo e del Cordusio. Da qui la necessità di costruire una serie di gradini per raggiungere il portico del Palazzo della Ragione, quello dei Giureconsulti e le Scuole Palatine, mentre si rese necessario allungare i pilastri della Loggia degli Osii. Costruito tra il 1228 e il 1233, il Broletto Nuovo (o Palazzo della Ragione) costituiva il polo amministrativo, economico e giudiziario di Milano, e tale rimase per molti secoli. Sotto i suoi portici sostavano i mercanti per la compravendita delle merci, si allineavano i banchi dei notai per la stipula di contratti di ogni tipo, molti dei quali riguardanti le mercanzie, e quelli di banchieri e cambiavalute, la cui funzione di prestatori e di trattatari di lettere di cambio era altrettanto essenziale al commercio. Sopra i grandi archi del portico troneggiava la sala delle Adunanze, lunga 50 m e larga 18, sede dei giudici civili e criminali, dei giudici dei dazi, delle vettovaglie e delle strade, nonché sala di riunione per il consiglio generale dei cittadini. Il palazzo consiste sostanzialmente in un unico grande salone di circa 1000 mq, costruito su pilastri che formano un sottostante portico terreno (sopraelevato di alcuni gradini rispetto all’attuale livello della piazza). L’edificio mantenne le sue caratteristiche stilistiche e funzionali, come sede di varie magistrature cittadine, fino al 1771, quando Maria Teresa d’Austria decise di destinarlo ad

La Loggia degli Osii. La prima fondazione dell’edificio risale al 1251, mentre il balcone sporgente da cui si dava pubblica lettura di bandi e sentenze, fu aggiunto nel 1336, da Azzone Visconti. archivio notarile, avviando radicali lavori di trasformazione. Venne cosí costruito il sopralzo visibile tuttora in corrispondenza delle finestre ogivali dell’ultimo piano, rimuovendo la copertura delle gigantesche capriate in legno, e realizzando le volte attuali. L’edificio viene ora utilizzato per conferenze, convegni e mostre. Di fronte al Broletto, sull’altro lato di via Mercanti, si erge il cinquecentesco Palazzo dei Giureconsulti, la cui parte piú antica è costituita dalla torre, fatta costruire da Napo Torriani nel 1272 per contenere una campana che avrebbe annunciato l’ora del coprifuoco o eventi particolarmente gravi, come lo scoppio di un incendio. Il palazzo fu invece iniziato soltanto nel 1561 (su progetto dell’architetto Vincenzo Seregni), per volontà e grazie a una donazione di papa Pio IV, e venne destinato a ospitare il Collegio dei Giureconsulti, dal quale uscivano i membri delle principali magistrature della città e del Ducato. Nel 1601 la torre duecentesca (ancora esistente come nucleo centrale) venne rivestita e inglobata da una torre barocca con orologio, e, nel 1655, i lavori di costruzione furono ripresi fino a comprendere la volta della Pescheria Vecchia. Ulteriori modifiche si ebbero nell’Ottocento e all’inizio del Novecento. Nel 1809 il Demanio cedette l’edificio alla Camera di Commercio, che dapprima vi collocò la Borsa (1809-1901), poi ne fece la propria sede (1911), funzione che il palazzo conserva tuttora.

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Presentazione

Maestri MESTIERI

di bellezza

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Firenze, Palazzo Medici Riccardi, Cappella dei Magi. Particolare del ciclo affrescato da Benozzo Gozzoli (1420-1497) raffigurante Gaspare, il piú giovane dei tre re, in viaggio verso Betlemme. 1459. L’artista ha ambientato la scena in un paesaggio ricco di dettagli e altrettanto ricco è l’abbigliamento dei personaggi, che offre una vivace testimonianza della moda dell’epoca.

Dai battiloro agli armaioli, la produzione manifatturiera conobbe, soprattutto tra il XIV e il XV secolo, una fioritura straordinaria. L’Italia, e Milano in particolare, divenne un centro di riferimento tra i piú importanti, al quale si guardava anche per essere sempre al passo con le ultime mode MADE IN ITALY

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I battiloro

LO SFARZO CORRE SUL FILO I

«battiloro», artigiani specializzati nella realizzazione di lamine di metallo cosí sottili da poter essere avvolte su filo di lino o di seta, giocavano un ruolo di prim’ordine nella creazione dei tessuti preziosi (i drappi auroserici), la cui domanda da parte delle corti rinascimentali conobbe, nel XV secolo, una crescita vertiginosa, sia per l’abbigliamento, sia per l’arredamento. Arte di origine antichissima, conosciuta già nella Magna Grecia, dove giunse dall’Oriente, la battitura dell’oro (della quale fa cenno persino Virgilio nell’Eneide) era praticata durante il Medioevo in molti centri italiani e d’Oltralpe. A Venezia viene menzionata per la prima volta in un documento del IX secolo, a Genova e a Lucca era diffusa fin dal Duecento, mentre a Firenze fu introdotta solo verso il 1420 da maestranze genovesi e veneziane come organizzazione imprenditoriale su larga scala. Oltralpe fiorí a partire dal Trecento, soprattutto a Colonia, e in numerosi centri della Penisola Iberica.

Un’ascesa inarrestabile A Milano, invece, sarebbe stata introdotta solo intorno alla metà del XV secolo, importata contemporaneamente da maestri genovesi, tedeschi e in piccola parte anche spagnoli, raggiungendo in seguito un’importanza tale, che nel 1548, e poi ancora nel 1570, era divenuta – affermavano i mercanti del settore – il principale 14

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Sulle due pagine un’altra scena facente parte del ciclo affrescato da Benozzo Gozzoli nella Cappella dei Magi di Palazzo Medici Riccardi, a Firenze. Si tratta delle pitture che ornano la parete orientale del monumento e che raffiguranto il seguito del magio Gaspare. Nel gruppo sono stati riconosciuti molti celebri personaggi della Firenze quattrocentesce, nonché Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano dal 1466 al 1476.

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I battiloro

e piú redditizio comparto produttivo della città, dando lavoro a oltre 20 000 persone, tra battiloro, filatori di seta, filatrici d’oro, tintori e garzoni, e alimentando esportazioni in Francia, Spagna, Inghilterra, Fiandre, Ungheria, e in «ogni altra regione del mondo». Specializzazione dalle molteplici applicazioni, nella maggior parte delle città italiane e d’Oltralpe, dal Trecento al Seciento almeno, la produzione della foglia d’oro era strettamente collegata soprattutto alla manifattura serica, di cui costituiva una branca importante. L’industria della seta rappresentava a sua volta un caposaldo nell’economia della maggioranza dei centri urbani della Penisola, tanto che i governi locali ne favorivano con ogni mezzo la fioritura: a Bologna nel 1315 le autorità cittadine si rallegravano dell’arrivo dei profughi lucchesi, esperti in questo settore, che avrebbero impiantato la manifattura nella città, offrendo un cespite di guadagno non indifferente a buona parte della popolazione. A Firenze, nel Quattrocento, i governanti, emanando norme volte a favorire la manifattura serica, la consideravano, insieme a quella laniera, il principale caposaldo dell’economia cittadina, in grado di dare lavoro a migliaia di persone. Nel 1529 l’Arte della Seta di Venezia, nel contestare un nuovo dazio sui tessuti, ricordava al Senato cittadino «quante et quante anime viveno sotto questo exercitio», raggiungendo il numero di 25 000 persone e piú. E, nella Genova del Seicento, i setaioli continuavano a ripetere al governo che «il lavorio della seta è tale che vi è un’attività adatta a tutte le età, a tutte le abilità e per tutte le forze, uomini, donne, bambini e vecchi».

I risvolti finanziari La lavorazione della seta, insomma, rappresentò ovunque, e per molti secoli, il cardine fondamentale dell’economia, nonché il principale settore d’impiego per centinaia di individui di ogni estrazione sociale, e un mezzo fondamentale di sussistenza anche per i ceti piú umili. Sorretta, come già detto, dall’ingente domanda delle corti rinascimentali, l’arte dei battiloro consentí e rese necessaria un’evoluzione del settore verso la banca e la finanza internazionale, imposta dagli ingentissimi capitali necessari, a partire dal secondo Quattrocento, all’impianto delle manifatture per la produzione dei drappi auroserici. All’inizio del Cinquecento, banca e finanza, manifattura accentrata e lavorazione a domicilio trovavano il loro fulcro, incentrato proprio sulla produzione e sul commercio dei drappi 16

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Particolare del paliotto d’altare detto «delle colombine» in velluto di seta operato, con disegno per trame in oro e argento filati, rosso di cremisi. 1450-1461 (il velluto). Milano, Museo Poldi Pezzoli.

A sinistra Bonifacio Bembo, Ritratto di Bianca Maria Visconti. Olio su tela, 1460-1470. Milano, Pinacoteca di Brera.

auroserici, nelle fiere di Lione. Intorno a questo prodotto ruotavano tutti gli altri traffici e, in primo luogo, il commercio del denaro, i trasferimenti di capitali, le transazioni finanziarie, perlopiú appannaggio dei mercantibanchieri fiorentini e milanesi. Descrivendo il corteo con cui il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza si recò a Firenze nel 1471 in visita a Lorenzo de’ Medici, il cronista Bernardino Corio, affermava che, a memoria d’uomo, non si ricordava un apparato piú sontuoso. Tutti i consiglieri e i feudatari che lo accompagnavano erano infatti vestiti con abiti tagliati all’ultima moda di panno intessuto d’oro e d’argento, mentre cortigiani adorni di velluto e di altri finissimi drappi di seta, came-

rieri con divise splendenti di ricami, staffieri dalle giubbe di panno d’argento o di seta, cuochi con livree di velluto o raso componevano il seguito. Tessuti di seta e staffe dorate, selle trapunte di ricami d’oro e d’argento, coperte di damasco bianco e bruno recanti le insegne ducali ornavano i 2000 cavalli e i 200 muli con cui Galeazzo attraversò l’Appennino.

Il prezzo (astronomico) della vanità Le finanze dello Stato e quelle dei mercanti (verso i quali lo Sforza aveva accumulato debiti su debiti) risentirono non poco di tutta questa magnificenza: il solo corteo era costato 200 000 ducati, cioè circa 800 000 lire dell’epoca, una somma enorme, se si pensa che con 14 MADE IN ITALY

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I battiloro

PER SOLE DONNE Dai battiloro dipendevano come manifattura esterna le donne, che avevano il compito di avvolgere su filo di seta (o di lino), le foglie d’oro e argento o di oricalco. A Firenze, dove gli artigiani genovesi e veneziani che avevano introdotto l’arte in città, avevano portato con sé anche numerose «maestre» in grado di insegnare la filatura della foglia d’oro, questa attività veniva svolta esclusivamente nei conventi o negli orfanotrofi, primo fra tutti l’Ospedale degli Innocenti, fondato verso la metà del XV secolo proprio grazie ai contributi della potente e ricca corporazione della seta (l’Arte di Por Santa Maria), che ne affidò il progetto al Brunelleschi. A Milano, invece, questo lavoro veniva svolto in piccoli atelier esclusivamente femminili, sul modello di città tedesche come Colonia, da dove erano giunte le filatrici d’oro che avevano insegnato l’attività alle giovani milanesi. Non si trattava di semplici lavoratrici a domicilio ma di veri e propri atelier autonomi (dipendenti dalle commesse dei battiloro) in cui le maestre assumevano apprendiste con contratti del tutto simili a quelli maschili, e che prevedevano, anzi, un tipo di specializzazione ancora maggiore. Quanto fosse diffuso a Milano questo genere di attività è testimoniato da un elenco di ben 198 filatrici che lavoravano per la bottega di un solo battiloro. Il giro d’affari e la manodopera impiegata nel settore dovevano essere notevolissimi se si pensa che verso la metà del Cinquecento furono i mercanti milanesi stessi, che detenevano il controllo del processo di lavorazione, a opporsi all’impiego di una nuova invenzione che avrebbe permesso di diminuire drasticamente il numero delle filatrici d’oro. Una manodopera a basso costo e facilmente controllabile era evidentemente preferibile ad altre situazioni forse poco gestibili. Nella Venezia del Trecento prevaleva invece il sistema dell’azienda familiare in cui il marito battiloro affidava la filatura alla moglie, che a sua volta coordinava un gruppo di lavoranti e apprendiste, secondo un modello organizzativo ancora piú simile di quello milanese alla città tedesca di Colonia. Durante il Quattrocento andarono però affermandosi nella città lagunare vere e proprie «mercantesse pubbliche», ufficialmente riconosciute dal Senato veneziano, che gestivano tutto il processo di produzione della foglia d’oro fino alla vendita.

Incisione del pittore fiammingo Giovanni Stradano (Jan van der Straet) raffigurante la lavorazione dei bozzoli dei bachi da seta e filatura. XVI sec. Si può osservare come l’operazione venga svolta da manodopera esclusivamente femminile, una circostanza attestata anche nel caso delle «maestre» che, per conto dei battiloro, avvolgevano su filo di seta (o di lino), le foglie d’oro e argento o di oricalco.

000 lire si poteva acquistare un castello di dimensioni medie. Le fonti, iconografiche e letterarie, concordano nel celebrare il trionfo degli ornamenti sui tessuti: ricami, chincaglieria metallica, pietre, perle alle quali i personaggi altolocati non sapevano rinunciare neppure sugli abiti da lutto. A differenza di altre città della Penisola (come Lucca, Genova, Bologna e Venezia), la manifattura serica era giunta a Milano soltanto negli anni Quaranta del Quattrocento, quando vi si stabilirono, attirate dalla promessa di sgravi fiscali, maestranze toscane, genovesi, veneziane e bergamasche, che costituirono un primo piccolo nucleo di tessitori-imprenditori destinati a folgoranti carriere, grazie all’associazione e ai finanziamenti del ceto nobiliare-mercantile milanese, che, in un secondo momento, rilevò l’intero processo produttivo. Quasi contemporaneamente, intorno al 1452, due setaioli milanesi riuscirono ad avviare, grazie a MADE IN ITALY

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INVERSIONE DEI RUOLI Nella seconda metà del XV secolo la manifattura milanese dei drappi auroserici fu talvolta caratterizzata dalla presenza di una figura professionale anomala: quella dell’«apprendista-imprenditore», cioè di un rampollo di ceto mercantile, detentore dei capitali, che assumeva un maestro altamente specializzato per farsi insegnare quest’arte nuova, remunerativa e che richiedeva investimenti ingenti. Il contratto di apprendistato si configurava dunque in modo inverso rispetto alla normale prassi, in quanto il discepolo, provvisto di capitali, era compartecipe degli utili del maestro, nonché il suo datore di lavoro e il suo fideiussore. Le parti risultavano cioè rovesciate: un «apprendista-imprenditore» di ceto mercantile, proprietario della materia prima, della bottega e dei mezzi di produzione, assumeva come salariato un maestro che potesse insegnargli i segreti dell’arte che l’apprendista stesso avrebbe poi diretto.

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Nella pagina accanto incisione ottocentesca (basata su un originale del XVI sec.) raffigurante un battiloro intento a battere con il suo martello la materia prima per ricavarne lamine o foglie sottilissime. In basso una scena di filatura della seta inserita a corredo di una pagina dei Precetti dell’Arte della Seta. XV sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

maestranze genovesi e tedesche, anche la produzione del filo d’oro, indispensabile al ricamo e alla tessitura dei drappi auroserici.

Compensi da capogiro Data la novità del settore nel capoluogo lombardo, le botteghe che realizzavano questo tipo di manufatto nacquero dalla conversione produttiva di altre attività. Artigiani già impegnati in settori affini (la produzione di cucchiai di ottone o l’oreficeria) si fecero insegnare le nuove tecniche da artefici già esperti, spesso genovesi o tedeschi, che percepivano retribuzioni altissime. Negli anni Ottanta del Quattrocento, per esempio, un battiloro capo-bottega ottenne il compenso annuo piú alto in assoluto mai riscontrato nel capoluogo lombardo (400 lire), un emolumento, cioè, enormemente superiore a quello del figlio di un mercante incaricato di tenere la contabilità, retribuito con sole 25 lire annue. In questo settore un impiegato in grado di leggere e scrivere e dotato di nozioni contabili non indifferenti, guadagnava dunque molto meno delle maestranze specializzate, anche se membro di una famiglia mercantile importante. Al momento dell’introduzione dell’attività nella

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Sul finire del Quattrocento, l’imprenditoria milanese si era in larga maggioranza convertita alla produzione del filo d’oro 22

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capitale del ducato sforzesco, esisteva una distinzione di tipo imprenditoriale tra le botteghe in cui si batteva la foglia di oricalco (oro falso) e quelle in cui si produceva la foglia d’oro e d’argento. Nelle prime, il maestro era titolare dell’attività e lavorava personalmente la materia prima, coadiuvato da aiutanti assunti a cottimo. Nelle seconde, il proprietario della bottega assumeva a tempo maestri dai quali dipendevano tutte le fasi di lavorazione della foglia d’oro e d’argento, nonché l’istruzione degli apprendisti; l’imprenditore deteneva il capitale iniziale per avviare l’attività, e si occupava di vendere il prodotto finito. In seguito, quando, dagli anni Ottanta del Quattrocento, la manifattura auroserica aveva ormai raggiunto a Milano dimensioni colossali e per avviare l’attività erano necessari capitali molto elevati, si delineò una riorganizzazione nella struttura dei singoli atelier. La loro gestione richiedeva ormai l’intervento di un finanziatore, legato talvolta al settore bancario, che entrava nella produzione attraverso il proprio capitale, affidando l’attività – in genere mediante una società in accomandita – a un socio d’opera, che non partecipava materialmente al processo produttivo, ma lo coordinava, occupandosi di assumere il maestro capo-bottega, i lavoranti e gli apprendisti, di tenere i libri contabili, di procurare la materia prima e di commercializzare al minuto il prodotto finito, che in parte veniva affidato anche al mercante-banchiere socio di capitale, per la vendita sul mercato internazionale.

Un giro d’affari enorme All’inizio del Cinquecento gli imprenditori auroserici milanesi, che, economicamente e politicamente, avevano ormai raggiunto i vertici della società, trovavano a Lione il mercato privilegiato di sbocco dei loro prodotti. Negli ultimi due decenni del XV secolo, il ceto dei grandi mercanti, si era dunque dedicato a questa nuova produzione, intuendone lo sviluppo futuro, e, alla fine del Quattrocento, nel capoluogo lombardo il comparto del filo d’oro e dei drappi auroserici aveva ormai raggiunto un giro d’affari di proporzioni enormi, con la stipula di società per centinaia di migliaia di lire dell’epoca, società finalizzate spesso alle forniture di corte. Dal punto di vista tecnico, le foglie da filare rappresentavano il risultato finale di una serie di battiture che, dal pane di metallo, arrivavano a ottenere una lamina sottilissima, che manodopera femminile avvolgeva poi su filo di seta o di lino. Tra questi due estremi era compreso uno svariato numero di lamine, con spessori inter-

In alto filo d’oro destinato alla produzione di broccati. Età rinascimentale. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto Giovanni Ambrogio Bevilacqua, Madonna con il Bambino. Tela, tempera, oro e argento filati, seta. 1500-1510. Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco.

medi, che si potevano a loro volta impiegare come prodotto finito, per scopi diversi dalla filatura. Si ottenevano cosí fibbie, sonagli, puntali per stringhe, e altri svariati piccoli oggetti. I battiloro utilizzavano due tipi di materiali: metalli preziosi oppure oricalco (cioè ottone). Per evitare frodi, ogni bottega era specializzata in una sola di tali produzioni e, sempre allo scopo di scoraggiare le falsificazioni, gli statuti degli orefici vietavano severamente di avvolgere su filo di seta i materiali non pregiati. A Milano, in particolare, accanto alla domanda di tessuti preziosi realizzati con filo d’oro e d’argento, se ne era, infatti, formata una parallela, di imitazioni «povere» fatte di oro falso, ottenuto appunto dalla foglia di ottone avvolta intorno a un’anima in lino o in cotone, anziché in seta. L’oricalco, termine che attualmente indica una lega di rame e zinco – essendo questo secondo componente sconosciuto nel Medioevo – si produceva aggiungendo al rame un minerale, la giallamina, costituita da carbonato o silicato di zinco. Descrivendo il procedimento, i ricettari dell’epoca ne tessevano le lodi, in quanto dava l’illusione di poter trasformare il rame in oro. La foglia d’oro veniva prodotta col metallo delle monete, in un processo articolato in quattro fasi: la fusione; la «stenditura» in verghe quadrate di misure prestabilite; la battitura fino all’ottenimento di lamine sottilissime; il taglio in foglie quadrate (di 7 centimetri quadrati quelle d’oro, e MADE IN ITALY

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di 8 quelle d’argento o di argento dorato). La foglia d’argento talvolta si realizzava dalle monete, ma, piú spesso, da verghe di metallo già pronte, il cui peso variava dalle 5 alle 17 libbre sottili (cioè da 1,5 a 4,5/5 kg circa). A Milano, dove l’utilizzazione della foglia d’oro riguardava soprattutto i tessuti, si utilizzava abbondantemente l’argento dorato, come recenti analisi sui manufatti hanno dimostrato con certezza. Si trattava di un tipo di foglia che il particolare titolo dell’oro in lega col rame rendeva alquanto resistente, luminosa e di qualità notevolissima, decisamente superiore a quella realizzata in altri centri della Penisola, e nella stessa Firenze. Le lamelle milanesi, infatti, contenevano una percentuale di rame relativamente alta combinata all’argento, al quale veniva saldato uno strato sottilissimo (1-2 micron) di oro quasi puro, applicato a caldo. Le produzioni fiorentine, veneziane, siciliane e francesi, invece erano costituite da una lega d’argento con bassa percentuale di rame, e oro in lega con argento e rame, applicato in strati piú alti (2-3 micron), spesso non a caldo, ma con la tecnica dell’amalgama. Nella combinazione di lega metallica, spessori e tecnica di doratura doveva consistere il segreto della particolare resistenza della lamella milanese.

Nella pagina accanto, in alto disegno di una grande macchina per battiloro, dal Codice Atlantico di Leonardo da Vinci. 1478-1519. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

Un segreto «professionale» Il procedimento con cui la si otteneva è probabilmente quello descritto all’inizio del Cinquecento dal trattatista senese Vannoccio Biringuccio, che aveva visitato la capitale del ducato sforzesco. Il segreto di questa lavorazione – scriveva Biringuccio – consisteva nel formare due verghe sottili delle stesse dimensioni, l’una di argento fatta con 15 libbre sottili (4,5 kg circa) di metallo, e l’altra d’oro, nella proporzione di una moneta da un ducato per ogni libbra di argento. Le due verghe dovevano essere poi sovrapposte e scaldate su di un fornello a carbone, in modo che si saldassero, accompagnando il procedimento di saldatura con l’appiattimento mediante un rullo di ontano. Una volta saldate perfettamente le verghe, si procedeva alla battitura, allungando la lamina e piegandola in modo da lasciare l’argento all’interno e all’esterno soltanto l’oro. Con un martello particolare, levigatissimo, si portava a termine la battitura, ottenendo la lamina sottile che veniva poi tagliata in foglie 24

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Qui sopra l’insegna della bottega di un battiloro. XVIII sec. Londra, Museum of London. Nella pagina accanto, in basso miniatura che raffigura un mercante. XIV sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

quadrate. La manodopera femminile (vedi box a p. 19), che interveniva in un secondo momento, tagliava ulteriormente le foglie in strisce lunghe e sottili, in modo da poterle avvolgere sul filo di seta, di cotone o di lino. La manifattura dei battiloro e la tessitura dei drappi auroserici, entrambe introdotte a Milano verso la metà del XV secolo, avevano dunque riscosso uno straordinario interesse da parte del ceto nobiliare/mercantile, milanese. La domanda di questi prodotti di lusso era incentivata e trovava il suo sbocco nelle forniture alla corte sforzesca, ma, verso la metà degli anni Sessanta del Quattrocento, una serie di fallimenti a catena aveva fatto emergere con chiarezza che non era possibile entrare nel meccanismo delle forniture ducali (che pure davano un impulso fondamentale alla produzione degli articoli di lusso), senza adeguate garanzie, e senza un’adeguata copertura (di carattere politico, come quella di cui godeva il Banco Mediceo, o di carattere patrimoniale, o, meglio ancora, di entrambi i tipi). Quando perciò, tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta del XV secolo, in seguito ai numerosi matrimoni e battesimi di corte, la committenza ducale ricominciò a dare un impulso notevolissimo alla richiesta di generi di lusso, si fecero avanti personaggi che, grazie a ramificazioni clientelari, molteplicità di interessi e di settori in cui erano coinvolti, diversificazione degli investimenti, e, infine, disponibilità di capitali ingentissimi, poterono accaparrarsi le commesse ducali senza rischiare troppo, o facendo ricadere i rischi su produttori di livello piú basso a loro legati da contratti societari. Vanno ora emergendo dalle ricerche d’archivio nuove figure di imprenditori auroserici, che sembrerebbero operare secondo le medesime strategie, pur provenendo da ceti diversi, e compiendo perciò un percorso opposto dal punto di vista della mobilità sociale, ma identico nella sostanza e nelle conclusioni: non soccombere di fronte alle commissioni ducali e anzi utilizzarle per arricchirsi. Tra questi imprenditori «di seconda generazione», che avevano fatto della produzione dell’o-

ro filato e dei drappi auroserici il fulcro dei loro affari nonché il trampolino di lancio delle loro fortune, spiccano un personaggio importante proveniente dall’ambiente di corte (Francesco da Roma), e due fratelli venuti invece dal mondo della produzione.

Da artigiani a prestatori di danaro Dopo un esordio come ricamatori e poi come battiloro, i fratelli Venzago arrivarono ad accumulare, in meno di due decenni, capitali tali da poter prendere in affitto beni vastissimi da esponenti dell’entourage ducale, e attuare, nei confronti di importanti personaggi di corte, strategie per la riscossione dei crediti che consentivano loro di ottenere beni immobili in garanzia dei capitali anticipati, percependo interessi che arrivavano fino al 30% dell’investimento. Si trattò di un’ascesa economica progressiva e prudente, che da inizi modesti e capitali probabilmente esigui, sfruttando l’esplosione di cui avrebbero goduto le manifatture di battiloro milanesi negli ultimi decenni del Quattrocento, era destinata ad assumere proporzioni sempre maggiori, già con Giovanni e poi ancor piú col fratello Gabriele, l’esponente piú in vista della famiglia. Quest’ultimo, insignito del titolo di «nobilis», fu poi sepolto nella cappella dei Venzago in S. Maria delle Grazie. Anche nell’instaurazione dei rapporti di parentela i Venzago miravano a un unico scopo: quello di favorire gli affari e in primo luogo quelli nell’ambito della produzione auroserica. Non per nulla almeno due matrimoni li misero in diretto contatto con gli quegli artigiani toscani che erano i principali conoscitori dell’arte serica: Piero di Bartolo – che, secondo la tradizione, l’avrebbe introdotta a Milano verso la metà del Quattrocento –, e Nicolò Maggiolini, che nell’ultimo scorcio del secolo era unanimemente considerato il miglior produttore di tessuti auroserici presente nella città ambrosiana. Figlio del giurisperito Cedrone, che aveva ricoperto importanti cariche all’epoca di Filippo Maria Visconti e Francesco Sforza, e fratello minore del medico/tipografo Marco, Francesco da

Roma dovette invece trovare proprio in quest’ultimo lo stimolo e l’esempio in base al quale investire i propri capitali nella produzione del filo d’oro.

Impresa a tempo determinato Dopo aver iniziato la sua attività a Venezia come mercante, nel 1480 Francesco decise di investirne gli utili, dando vita a una società per la produzione del filo d’oro della durata di 10 anni: si sarebbe limitato a conferire l’intero capitale (12 000 lire), demandando completamente al socio, anch’egli mercante di oro e argento filati, la direzione e la gestione della società, di cui si riservava il diritto di decidere ogni 6 mesi un eventuale scioglimento e della quale avrebbe percepito i 2/3 dei guadagni, lasciandone 1/3 al socio d’opera. Naturalmente i due dovettero assumere come capo-bottega un maestro esperto nell’attività. Da Roma investí poi gli utili in moltissimi altri affari: dal finanziamento dell’intero ciclo di produzione dei drappi auroserici, al commercio del guado (pianta da cui si ricava una sostanza colorante azzurra, n.d.r.), all’attività bancaria, all’appalto per la gestione della zecca, a quello di amministratore del traffico del sale. La sua strategia sembrerebbe, in sostanza, quella di diversificare il piú possibile gli investimenti, sia in ambito imprenditoriale e commerciale che finanziario, bancario, e immobiliare, senza rinunciare alle lucrose commesse di corte, ma facendo ricadere su terzi (soci d’opera o titolari di appalti)i rischi dei contatti col potere pubblico. MADE IN ITALY

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Il ricamo

TESORI DI STOFFA D

alla fine del Duecento, e ancor piú dagli anni Trenta del Trecento, con la crescita di una domanda di prodotti di lusso che ebbe il suo apogeo nel XV secolo, nacquero in Italia numerosi centri per la produzione di tessuti ricamati di notevolissimo pregio. A Roma, innanzitutto, dove fortissima era la richiesta di paramenti e vesti liturgiche istoriate da parte della corte vaticana, in particolare a partire dal pontificato di Bonifacio VIII (1294-1303). Fu però dalla metà del Quattrocento (grazie anche all’attenuarsi delle leggi suntuarie, provvedimenti volti a limitare le manifestazioni del lusso) che si verificò una vera e propria esplosione del gusto per abiti e ornamenti ricamati, sia nelle corti rinascimentali, sia presso i ceti sociali piú modesti. E Ferrara, Milano e Firenze furono in quest’epoca i centri piú importanti.

Una moda contagiosa A Ferrara utilizzando maestranze prevalentemente milanesi, la corte estense diede uno straordinario impulso alla produzione di «completi da camera» ricamati (vedi box alle pp. 3839), una moda che, attraverso i matrimoni di Isabella e Beatrice d’Este, contagiò le corti di Mantova e di Milano, e quella aragonese, imparentata sia con gli Estensi che con gli Sforza. A Milano, in occasione delle nozze dei duchi Gian Galeazzo Sforza (1489) e Ludovico il Moro (1491), il ricamo raggiunse il suo apogeo. Il matrimonio del primo con Isabella d’Aragona venne celebrato in Duomo, il 2 febbraio 1489: le 26

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Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi. Un gruppo di donne intente a lavori di tessitura, particolare dell’allegoria del mese di Marzo nel Trionfo di Minerva, affrescato da Francesco del Cossa. 1470 circa.

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A sinistra Mantova, Palazzo Ducale. Particolare del ciclo pittorico dipinto da Andrea Mantegna per la Camera degli Sposi: la scena ritrae Ludovico II Gonzaga e la moglie Barbara di Brandeburgo attorniati dalla corte, di cui fa parte la giovane donna che indossa un abito riccamente intessuto e ricamato (vedi foto in alto). L’artista realizzò gli affreschi verosimilmente tra il 1465 e il 1474.

strade che dal castello portavano alla Cattedrale erano state addobbate con panno bianco, arazzi, festoni di ginepro e melarance; il duca e la duchessa, vestiti anch’essi di bianco, procedevano a cavallo, sotto un candido baldacchino, preceduti e seguiti da innumerevoli paggi, cortigiani, dignitari di corte e uomini di governo splendidamente abbigliati, tanto che «non si vedeva se non broccati d’oro, d’argento e gioie», come riferiva l’ambasciatore estense. La nobiltà milanese in quella circostanza fece a gara nel procurarsi le vesti piú preziose, al punto che alcuni arrivarono a spendere fino a 7000 ducati per una sola manica. Il «completo da camera» nuziale, costituito dalla coperta, scarlatta, e dal baldacchino («capocielo»), era mirabilmente ricamato con perle, simboli araldici celebrativi del casato e amorini argentei. I festeggiamenti veri e propri per le nozze furono però rimandati di un anno, a causa della MADE IN ITALY

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morte di Ippolita d’Aragona, madre della sposa. Si tennero dunque il 13 gennaio 1490 con la celeberrima «Festa del Paradiso», al cui allestimento prese parte anche Leonardo da Vinci. Isabella indossava un abito «alla spagnola», con un mantello di seta bianca sopra una giubba in broccato d’oro in campo bianco, riccamente ornato di gioie e perle; Gian Galeazzo era vestito di broccato d’oro in campo cremisi e portava al collo un rubino balascio assai grande e un diamante, nonché una grossa perla sul berretto; un abito di velluto scuro foderato di zibellino, con una cappa di panno nero foderata di broccato d’oro in campo bianco era invece indossato da Ludovico il Moro. Abiti di vari colori, in broccato e velluto, o in seta, vestivano il seguito, mentre tappezzerie in broccato d’argento, arazzi e tappeti addobbavano la sala del castello di porta Giovia in cui si teneva la festa. Ugualmente, giubbe in velluto verde con ricami d’oro, sopravvesti in raso turchino istoriate con colombe, simboli araldici o motivi vegetali, vestivano i paggi e i dignitari durante la cerimonia nuziale e i tornei di festeggiamento per il matrimonio di Beatrice d’Este e Ludovico il Moro (gennaio 1491).

Serpenti sull’asta d’argento Anche le celebrazioni per la nascita (1493) di Massimiliano Sforza, primogenito di Beatrice e Ludovico, furono un tripudio di tendaggi, cuscini e coperte ricamati, secondo una passione che la duchessa aveva ereditato dalla corte estense da cui proveniva. Ornava il letto della puerpera un completo in velluto cremisi decorato con due serpenti attorcigliati intorno a un’asta d’argento (simbolo araldico detto del «caduceo»). Addobbi bianchi, rossi e turchini – con falchi ricamati in oro – decoravano la stanza del neonato, avvolto in una coperta di broccato d’oro. Completamente dorata era anche l’elegante culla in cui le frange d’oro si alternavano a cordoncini di seta turchina. Caratteristiche del ricamo milanese erano l’imbottitura, utilizzata per renderlo tridimensionale; l’uso abbondante di filo d’oro o di argento dorato e l’impiego, altrettanto copioso di perle, pietre preziose, smalti; e, soprattutto, l’applicazione di maggette (anellini argentati o dorati cuciti con filo di seta, simile alle moderne paillettes) destinate a creare l’effetto di una luminosità abbagliante, molto superiore a quella ottenibile col filo d’oro. La sua fattura rimase però piú antiquata rispetto a quella dei manufatti fiorentini, nei quali veniva utilizzata la nuova tecnica del «punto serrato», appresa dai Fiam30

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Particolare della decorazione dipinta sul Cassone Adimari (in realtà un pannello da spalliera), attribuita a Giovanni di ser Giovanni, detto lo Scheggia. 1450 circa. Firenze, Galleria dell’Accademia.

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minghi, e consistente nel realizzare le immagini con punti colorati applicati trasversalmente su di un fondo di fili d’oro paralleli. Se ne otteneva l’incredibile risultato di un continuo baluginío dell’oro, totalmente esposto nelle parti piú chiare del disegno e mai del tutto coperto in quelle piú scure. 32

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Ancor piú di quello milanese, il Quattrocento fiorentino dunque, grazie sia all’esecuzione tecnica impareggiabile, sia al contributo creativo di artisti del calibro di Sandro Botticelli e di Antonio del Pollaiolo – autori di molti disegni per ricami –, ha prodotto forse i piú importanti e raffinati paramenti di tutto il Rinascimento

A sinistra una scena di corte (già attribuita a Bonifacio Bembo e interpretata come il corteo di nozze di Beatrice d’Este, andata in sposa a Ludovico Sforza il Moro nel 1491), attribuibile a un maestro di ambito lombardo. 1460 circa. La tavola apparteneva a un cassone nuziale e la composizione allude a tale destinazione. I personaggi, infatti, caratterizzati da costumi magnifci e appartenenti a tutte le categorie sociali e di età (dame, paggi, dignitari, ma anche sacerdoti), hanno le mani legate: si tratta di un riferimento ad Amore, la cui immagine doveva in origine precedere il corteo e caratterizzare cosí un «arredo» che conteneva il corredo della giovane sposa.

italiano, raggiungendo risultati stupefacenti il cui successo travalicò il territorio toscano. Il parato di San Giovanni (eseguito tra il 1466 e il 1480), considerato il ricamo piú importante del Rinascimento italiano, paragonabile per ricchezza inventiva e materiale a una Cappella Sistina in miniatura, si può considerare il capo-

In alto particolare di un paliotto in velluto di seta operato, con disegno per trame in oro filato. Manifattura milanese, 1450-1461. Busto Arsizio (VA), Basilica Minore di S. Giovanni Battista. A sinistra particolare di una pianeta ricamata in velluto di seta operato con disegno per trame in oro filato. Manifattura milanese, 1445-1460. Chiavenna (SO), Museo del Tesoro della Collegiata di S. Lorenzo.

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Fondamentali e continui erano i contatti tra pittori e ricamatori 34

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lunghi e per l’alta specializzazione delle maestranze. Era la sola tecnica in grado di rendere la sottigliezza del modellato pittorico e di tradurre gli intenti di animazione della superficie. Il lavoro dei ricamatori, impegnati in un compito tanto difficile, era seguito assiduamente dallo stesso maestro. La notevole qualità delle maestranze impiegate e lo stesso lungo periodo di esecuzione del parato di San Giovanni (14 anni circa) furono di grande impulso per lo sviluppo del ricamo nella città di Dante: il che non mancò forse di stimolare anche altri pittori a sperimentare tecniche diverse seguendo la via aperta dal Pollaiolo. Continui erano dunque i contatti tra i ricamatori e i pittori che eseguivano per loro disegni estremamente accurati, la cui tecnica viene descritta da Cennino Cennini, egli stesso pittore, originario di Colle di Valdelsa (attivo tra il XIV e il XV secolo). Alla fine del Trecento, il disegno veniva eseguito a carboncino direttamente sulla tela, quindi ripassato a penna con l’inchiosto e ombreggiato col pennello. Per tessuti particolari, come il velluto, era consigliata l’applicazione di un ricamo effettuato su tela o zendado (tessuto leggero di seta). Solo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento si diffuse il metodo di eseguire su carta i disegni per ricami, che risultavano cosí riproducibili piú volte, costituendo un patrimonio notevole per la bottega. Con tecniche sempre piú raffinate, il disegno veniva poi ricalcato dalla carta sul tessuto. A partire dal Cinquecento vennero pubblicati numerosi volumi di modelli per ricami.

Botteghe «polivalenti»

lavoro di Antonio del Pollaiolo (dalla cui bottega uscivano contemporaneamente opere di pittura, oreficeria e ricamo). Tale risultato venne raggiunto mediante la tecnica del punto serrato, che permetteva di non trascurare alcun dettaglio del disegno preparatorio: un metodo di lavorazione costosissimo per via dei tempi molto

Bonifacio Bembo, Regina di bastoni, Cavallo di coppe e Fante di coppe facenti parte dei Tarocchi Brambilla. 1445-1450. Milano, Pinacoteca di Brera.

Se il disegno (in grado, secondo le concezioni dell’epoca, in quanto frutto di un’attività intellettuale, di elevare al rango di artista anche l’artigiano dedito alle arti applicate) e la collaborazione con i pittori erano senz’altro indispensabili ai laboratori dei ricamatori, intervenivano alla realizzazione di questi sofisticati e preziosi tessuti anche molte altre maestranze specializzate, dalle quali il ricamatore (o il committente) si procurava i semilavorati: dai battiloro (vedi il capitolo precedente alle pp. 12-25) e dai setaioli, produttori del filo d’oro, argento o seta indispensabili a questo tipo di lavorazione, agli orafi, che procuravano e adattavano pietre preziose e perle, o realizzavano le maggette, o altri tipi di ornamento. Alcuni di questi laboratori si possono anzi definire «polivalenti», nel senso che creavano in un’unica soluzione capolavori di pittura, oreficeria e ricamo: la bottega dei fratelli Antonio e (segue a p. 40) MADE IN ITALY

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I battiloro A sinistra Piero del Pollaiolo, Ritratto di giovane donna. Tempera e olio su tavola, 1480 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. A destra Flora si trasforma nella Primavera e sparge i fiori sul mondo, particolare della Primavera di Sandro Botticelli. 1477-1482. Firenze, Galleria degli Uffizi. Sia il Pollaiolo che Botticelli furono anche autori di molti disegni per ricami.

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I «COMPLETI DA CAMERA» La moda del ricamo non si limitava agli addobbi liturgici o agli abiti principeschi, ma si estendeva a tutto ciò che poteva essere ornato: borse, cinture, tessuti d’arredamento, e, soprattutto, «completi da camera», l’insieme cioè dei tendaggi posti a protezione del letto che addobbavano lussuosamente con tessuti di seta e d’oro o di arazzo le dimore signorili e principesche, dispiegandosi in abbondanti drappeggi coordinati con le coperte e i cuscini. Celebri sono quelli fatti realizzare nel 1457

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A sinistra Ludovico il Moro a letto invoca la Madonna con il Bambino. Tempera su tavola di scuola lombarda, 1490 circa. Milano, Museo Poldi Pezzoli. Il protagonista della composizione appare disteso su di un letto protetto da un «capocielo» (baldacchino). Manufatti del genere erano compresi nei cosiddetti «completi da camera». Nella pagina accanto Piero del Pollaiolo, Ritratto di Galeazzo Maria Sforza. Olio su tavola, 1471. Firenze, Galleria degli Uffizi. Il duca di Milano, padre di Caterina Sforza, la madre di Giovanni dalle Bande Nere, è rappresentato con espressione fiera e decisa e con indosso una veste di broccato azzurro gigliato; la mano destra, guantata, tiene l’altro guanto.

da Borso d’Este, lavorati da ricamatori per la maggior parte milanesi. L’uno in velluto e l’altro in damasco cremisi, erano composti ciascuno da un cortinaggio drappeggiato con frange pendenti in seta e oro per il baldacchino, da un cortinaggio della stessa misura per la testiera, da una coperta in velluto e da tre cortinaggi di taffetà cremisi per la parte laterale. Ogni pezzo era ornato con ricami in oro e seta raffiguranti le insegne ducali, palme da dattero, unicorni, steccati, motivi vegetali. Addobbi simili decoravano anche le stanze di Beatrice d’Este, moglie di Ludovico il Moro e

quella di Bianca Maria Sforza, moglie dell’imperatore Massimiliano (1493). Quest’ultimo nel 1498 commissionò a sua volta un completo da camera ricamato i cui disegni sarebbero stati eseguiti dal pittore Ambrogio de Predis. Ne fu realizzata soltanto la splendida coperta in raso nero operato con motivi a fogliame, lavorata in oro, argento e seta, bordata da un ricamo a festoni e frutti, e recante al centro lo stemma imperiale. Per pagare i 2000 ducati che gli erano stati richiesti per il manufatto, l’imperatore fu costretto a contrarre un prestito con i banchieri Fugger.

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I battiloro Circoncisione (a sinistra) e Nascita del Battista, due dei magnifci ricami in seta e filo d’oro per il parato di San Giovanni, realizzati su disegno di Antonio del Pollaiolo. 1466-1487. Firenze, Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore.

Piero del Pollaiolo è senza dubbio l’esempio principale di questo fenomeno. Non si utilizzavano necessariamente materiali preziosi: accanto ai prodotti di lusso che avevano come sbocco soltanto le corti e gli enti religiosi, esisteva, infatti, una produzione di minor valore e piú accessibile, anche se ugualmente di pregio, realizzata con filo d’oro e d’argento falsi, con l’anima in cotone o in lino anziché in seta, e con maggette in ottone, gioielli in vetro e finte perle (nella cui produzione si era cimentato lo stesso Leonardo). Anche la sperimentazione incessante di nuove tecniche e nuovi materiali, caratteristica del secondo Quattrocento, costituiva tra l’altro, per il pensiero rinascimentale (e quello di Leo40

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nardo in primo luogo) un momento di indagine conoscitiva e uno strumento di indagine funzionale alla ricerca espressiva, conferendo cosí dignità intellettuale alla realizzazione pratica e mettendola sullo stesso piano dell’ideazione.

Ricamatori ducali Al di là del generico attributo di «ricamatori» con cui vengono designati i personaggi nei documenti d’archivio, rimangono oscuri l’effettiva posizione sociale che ciascuno di essi occupava, la capacità di stabilire contatti o rapporti di patronage, il ruolo svolto dal singolo all’interno del contesto produttivo. Infatti, anche quando, come in questo caso, il «prodotto» confinava con l’ope-

ra d’arte, esso richiedeva ugualmente un notevolissimo apparato organizzativo: la capacità di instaurare contatti con la committenza, di sostenere i costi di approvvigionamento delle preziose materie prime, l’abilità nell’assunzione di apprendisti e lavoranti sufficientemente dotati ai quali affidare parte del lavoro, e, non ultima, la capacità e la forza contrattuale necessari a farsi remunerare in tempi brevi, o anche, semplicemente a farsi remunerare (cosa non del tutto ovvia presso le corti rinascimentali). Sotto l’attributo generico di «ricamatore» si celavano di volta in volta personaggi dai connotati piú diversi: dai semplici lavoranti di un grande atelier, a coloro che, inizialmente dediti di persona all’attività, grazie alle proprie capacità imprenditoriali e all’inserimento in un determinato milieu cittadino erano riusciti a far carriera. Un traguardo raggiunto diversificando enormemente i propri investimenti e giungendo a controllare giri d’affari stratosferici, attraverso una strategia fatta di manovre economiche, ma anche (e forse soprattutto) di contatti sociali che consentivano a simili personaggi di dettare le condizioni di pagamento ai loro principali committenti: i principi e le corti.

Il segreto di Nicolò È il caso di quel Nicolò da Gerenzano (1450/1513) il cui padre aveva ricamato la giubba di raso turchino a gigli d’oro indossata da Galeazzo Maria Sforza durante la celebre visita a Firenze nel 1471, abito con cui il duca di Milano venne immortalato proprio da Piero del Pollaiolo nel ritratto conservato agli Uffizi. Sfruttando al massimo le conoscenze, i contatti e i legami acquisiti a Milano, grazie alla posizione di rilievo ottenuta all’interno della confraternita per la costruzione di S. Satiro, e grazie alla propria capacità di inserimento ai vertici dei principali luoghi pii cittadini, Nicolò riuscí a ottenere nella società, non solo milanese, ma di tutta la Penisola, un peso e una forza contrattuale tali da poter chiedere palazzi e feudi, con le annesse rendite e diritti giurisdizionali, a concreta garanzia delle somme da riscuotere. Probabilmente, proprio la straordinaria capacità di diversificare gli affari e gli impieghi di capitale, assumendo anche in prima persona il controllo della produzione della materia prima, unita al peso e alla forza contrattuale su ogni ceto della società milanese, permisero a Nicolò di non curarsi della perenne insolvenza dei duchi e della corte, che aveva angustiato invece suo padre e che continuava ad angustiare la maggior parte dei ricamatori milanesi. MADE IN ITALY

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I FABBRICANTI DI PIETRE FALSE

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a novità nei prodotti, che caratterizzava tanto la magnificenza pubblica quanto lo splendore privato, con un’ansia di migliorare la forma, l’aspetto e la funzionalità anche degli oggetti piú banali, e di imitare con materiali poveri i prodotti preziosi, è uno dei tratti salienti dell’epoca rinascimentale. Le teorie piú recenti estendono il concetto di Rinascimento all’arco cronologico compreso tra il Trecento e il Seicento e individuano le caratteristiche fondamentali di questo periodo nel cambiamento dei comportamenti e degli atteggiamenti relativi al consumo e nell’aumento della domanda di prodotti di lusso, (sorretta dalla straordinaria capacità delle manifatture italiane di adattarsi rapidamente al mutare delle esigenze dei consumatori). Anche ai livelli piú alti, dalle botteghe polivalenti degli «artisti imprenditori», spesso attenti organizzatori forse prima che artisti – pronti a cogliere le esigenze del mercato e a

Fronte (a destra) e retro di una croce astile in diaspro rosso, oro e gemme, donata da Ottone Visconti all’abate Paolo da Besana, 1296. Chiaravalle, Museo dell’Abbazia.

diversificare la tipologia dei prodotti per poterli piú facilmente smerciare –, potevano uscire articoli di ogni sorta e del piú diverso valore, dall’alta oreficeria alle imitazioni di vetro, in grado di soddisfare la crescente domanda di prodotti di lusso. In tale ottica si inserisce la produzione di gioielli falsi, in vetro o cristallo, montati su materiali non preziosi, diffusa in tutta la Penisola, ma che godeva di una notorietà particolare soprattutto a Milano, dove, nel XV secolo, i fabbricanti di pietre artificiali avevano persino costituito una corporazione. Il 19 novembre 1488 il duca di Milano approvò alcune norme da loro proposte per il buon andamento dell’arte, il cui testo ci è stato tramandato dagli Annali della Fabbrica del Duomo (in quanto alla Fabbrica della Cattedrale appunto venivano destinate le multe comminate dalla corporazione). Non si tratta degli statuti di un organismo corporativo, che sembrerebbe a questa data già costituito, ma semplicemente di una serie di regole finalizzate a evitare frodi, sia con particolari tecnici da adottare nella lavorazione per rendere evidenti i falsi, sia sottoponendo allo stretto controllo dell’arte (e della Fabbrica del Duomo che riscuoteva le multe), tutti coloro che esercitavano l’attività, tanto a Milano quanto fuori dalle mura cittadine. Il duca non tardò ad approvare i capitoli proposti, per l’utilità pecuniaria che ne sarebbe derivata alla Fabbrica della Cattedrale, ma anche, e in primo luogo, perché cosí era stato consigliato dagli orafi stessi che ritenevano di poter porre in questo modo un freno alle falsificazioni. A questo punto appare evidente che la produzione di gemme artificiali, esercitata a Milano da lunga data, non veniva affatto considerata illegale, ma coesisteva, accanto all’arte orafa, rivelandosi anzi talora a essa complementare. E persino Benvenuto Cellini lodava la perfezione delle imitazioni realizzate a Milano, difficilmente riconoscibili anche dai

A destra Milano, basilica di S. Ambrogio. Particolare dell’Altare d’oro, rivestito da formelle istoriate in lamina d’oro e d’argento, con inserti di pietre preziose, realizzato dal magister phaber Vuolvinio. 830 circa.

Ridolfo del Ghirlandaio, Ritratto maschile (L’orefice). 1500-1520. Firenze, Galleria Palatina.

gioiellieri esperti, e metteva in guardia da quegli artefici che cercavano di spacciarle per gemme preziose. Produrre pietre contraffatte era dunque consentito, ma era invece proibito incastonarle in metalli preziosi, anziché nel rame o nell’ottone a cui erano destinate, e su tale divieto indugiano a piú riprese gli statuti degli orafi milanesi del 1396, quelli del 1468, e poi ancora una serie di norme deliberate dalla Scuola di S. Eligio nel 1479 e negli anni successivi. La pratica delle imitazioni appare in ogni caso diffusa in tutta la Penisola a tal punto che anche oggetti di alta oreficeria quali l’altare di Vuolvinio (IX secolo), l’Evangeliario di Ariberto (XI secolo), la Croce processionale di Chiaravalle (XIII secolo), e gli stessi gioielli del duca Gian Galeazzo Visconti contenevano un buon numero di vetri artificiali colorati o frammenti di cristallo di rocca mescolati alle pietre preziose, e un analogo fenomeno è stato recentemente riscontrato a Venezia per il Tesoro di S. Marco. Allo stesso modo, l’inventario dei beni lasciati dal doge Marin Faliero (1351) annoverava una lampada d’argento «con molte gemme di vetro», mentre l’inventario del tesoro della Santa Sede compilato al tempo di Bonifacio VIII e l’elenco degli oggetti appartenuti al vescovo di Orvieto (1365) presentavano molti manufatti di pregio ornati con vetrini colorati mescolati a vere gemme e perle naturali. L’utilizzazione di gemme contraffatte quando fosse mancata la pietra necessaria a completare il gioiello doveva perciò essere abitudine comune anche presso gli orafi, sicché il divieto di realizzare anelli con castone fino a quando non si fosse stati in possesso della pietra preziosa da inserirvi, imposto loro dagli statuti del 1468, doveva essere motivato proprio da tale consuetudine . Se l’abilità dei Milanesi nelle contraffazioni venne dunque illustrata da Benvenuto Cellini, che si sofferma in particolare sulla fabbricazione di «doppiette» (costituite da due frammenti di cristallo, oppure da una parte superiore preziosa e una inferiore di cristallo), l’arte di produrre gemme artificiali era già conosciuta e diffusa nell’antichità: Plinio il Vecchio ne parla in modo accorato asserendo che «non c’è inganno a questo mondo che renda maggior guadagno», e suggerendo alcuni metodi

Gioielli di varia foggia e composizione. Epoca rinascimentale. Sono conservati nel Museo degli Argenti di Firenze (a sinistra, dall’alto in basso) e nel Museo Poldi Pezzoli di Milano.

La Pace di Siena, arredo liturgico in oro, smalti, pietre preziose e perle che raffigura su un lato il Cristo morto sorretto dagli angeli (nella pagina accanto) e sull’altro la Madonna Addolorata. Manifattura francese, inizi del XV sec. Arezzo, Museo Diocesano d’Arte sacra. L’opera fu donata da papa Pio II alla cattedrale di Siena, che, a sua volta, la donò a quella aretina nel 1799, durante i moti antifrancesi del Viva Maria. per distinguere le pietre vere dalle false: il peso, la durezza, l’eventuale presenza di bollicine. Fra Trecento e Quattrocento, numerosi trattati si diffusero ampiamente sulle tecniche di fabbricazione di paste vitree di ogni colore adatte all’imitazione delle gemme. Della fabbricazione di perle e pietre dure artificiali (il calcedonio e il diaspro soprattutto) si interessò anche Leonardo da Vinci, e, ancora sulle contraffazioni, si soffermarono il senese Vannoccio Biringuccio nella prima metà del Cinquecento, Ludovico Dolce (1565), l’anonimo autore di un lapidario del 1587 circa, e Tommaso Garzoni (1549-1589) che divise le gemme in vere, simili e fittizie. Il fiorentino Antonio Neri (1578-1614) dedicò tutto il quarto capitolo dell’Arte vetraria distinta in sette libri (1612) alla realizzazione di paste vitree colorate di durezza tale da poter imitare le pietre preziose. Illustrando le ricette apprese dagli artigiani di Murano, Neri suggeriva di utilizzare cristallo di rocca macinato e mescolato al minio in varie proporzioni, a seconda del colore che si voleva ottenere. Sul finire del Seicento, il ricettario del vetraio muranese Giovanni di Nicolò Darduin (1585-1654) rivolgeva ancora a questo argomento un notevole interesse. Le gemme artificiali potevano essere realizzate con tre diverse tecniche: paste vetrose, cristallo di rocca, e le già citate doppiette. In quest’ultimo ambito fiorivano facilmente le frodi, soprattutto per rubini e smeraldi (assai richiesti tra Quattro e Cinquecento), che, montati in raffinati castoni d’oro, potevano ingannare anche gli orafi piú esperti. La materia prima con cui erano prodotte invece le pietre in vetro usciva probabilmente come semilavorato (pani di smalto) dalle fornaci dei vetrai, per poi essere ulteriormente lavorata, rifinita e tagliata dai fabbricanti di pietre false. Nelle botteghe milanesi nella seconda metà del Quattrocento si producevano imitazioni in vetro, cristallo o doppiette, da montare rigorosamente sul rame o sull’ottone. I fabbricanti di pietre false effettuavano sicuramente il taglio e la colorazione, mentre probabilmente non producevano le paste vitree, acquistate invece presso le fornaci cittadine destinate a tale scopo. Il cristallo di rocca lavorato dagli artigiani milanesi proveniva verosimilmente dalla zona del lago Maggiore, dove si estraevano anche quelle pietre semipreziose, come corniole e granate, che venivano talora trattate nelle medesime botteghe. Prevaleva la produzione di doppie di cristallo tagliate a otto faccette,

con cui venivano imitati zaffiri, granate, rubini, mentre i finti diamanti dovevano probabilmente essere realizzati da un pezzo unico di cristallo, dal momento che venivano tagliati a ottaedro. Per il taglio delle gemme artificiali si utilizzavano mole apposite, di dimensioni variabili, installate all’interno della bottega: dalle piccole mole, a mulini veri e propri destinati a tale scopo. La moda quattro/cinquecentesca imponeva che venissero colorate sia le pietre preziose (persino il diamante), sia quelle semipreziose e artificiali. Per le prime due categorie, la colorazione, o l’esaltazione del colore, si effettuava mediante l’inserimento di uno specchietto nel castone oppure dipingendo la parte inferiore della gemma con una resina, il «sangue di drago». La colorazione delle paste vitree era realizzata invece in modo completamente diverso: il procedimento, consistente nello scaldare la fritta (costituita da cristallo macinato e allume) aggiungendovi manganese (per i granati), o rame (per gli smeraldi), oppure piombo calcinato (per i turchesi), ovvero azzurro «della Magna» (per gli zaffiri), o infine ferro, rame e limatura di ottone (per rubini e balasci), viene descritto dettagliatamente in numerosi trattati. La fase finale della lavorazione consisteva nel montare le gemme artificiali su anelli di ottone: a tale scopo un maestro esperto nel settore poteva assumere a cottimo un artigiano specializzato che completava il lavoro; oppure venivano costituite società tra fabbricanti di anelli e produttori di pietre. Le parti avrebbero diviso a metà la spesa per la materia prima necessaria al lavoro e cosí pure guadagni e perdite.

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Gli armaioli

FUCINE COME SARTORIE S

ia in epoca medievale che nel periodo rinascimentale, armi e armature alimentavano un giro d’affari fiorente, soprattutto nel centri urbani della Penisola, e, in particolare, in alcune città dell’Italia centro-settentrionale, che ne rappresentavano le principali produttrici. La fabbricazione, l’assemblaggio, il trasporto e la compravendita di elmi, corsaletti, archibugi, armature, alabarde, consentivano ai mediatori di arricchirsi, ai produttori di prosperare, agli artigiani di sopravvivere. In Italia, Milano (per le armi difensive e le armi bianche) e il Bresciano (dal secondo Cinquecento, soprattutto per le armi da fuoco), emergevano come centri principali di produzione e commercio, favoriti anche dalla vicinanza delle aree di approvvigionamento della materia prima. Lo stretto collegamento tra le miniere e i centri di lavorazione del ferro necessario alla produzione era infatti un elemento fondamentale per la diminuzione dei costi, almeno nella prima fase di trasformazione.

Un successo internazionale A Milano e a Brescia, vicine ai principali centri estrattivi dell’epoca (le valli del Bergamasco e del Bresciano) si sviluppò dunque, almeno a partire dal XIII secolo, l’industria delle armi offensive e difensive, e l’ottima qualità del materiale ferroso della zona favorí 48

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Firenze, Galleria degli Uffizi. L’officina di un armaiolo raffigurata in uno degli affreschi realizzati da Ludovico Buti per la volta di una delle sale che componevano l’Armeria, una sezione della Galleria voluta dal granduca Ferdinando I alla fine del Cinquecento per esporre le armature di proprietà della famiglia. 1588.

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Allegoria della gloria mondana di Francesco Maria Sforza, miniatura di Giovanni Pietro Birago, 1490-1496. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Il duca di Milano è attorniato dai suoi generali, che l’artista ha identificato con alcuni grandi condottieri del passato, tra cui Scipione, Giulio Cesare, Annibale, Epaminonda, Temistocle.

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(soprattutto a partire dal Trecento) anche l’esportazione di parte del semilavorato verso l’Italia centrale e meridionale, verso la Spagna e verso Avignone, dove la presenza della corte papale (1305-1378) aveva sviluppato una domanda non indifferente. Nonostante la scarsa documentazione relativa al Duecento e al Trecento, sappiamo dal De magnalibus Urbis Mediolani (1288) del frate umiliato e cronista Bonvesin de la Riva (1240 circa-1313/1315) che, già alla fine del XIII secolo, oltre 100 artefici milanesi erano esperti nella «mirabile lavorazione delle maglie metalliche» per la fabbricazione di quelle armature che i mercanti distribuivano poi in svariati centri d’Italia e d’Europa: «nella nostra città e nel suo contado vi è il fior fiore e abbondanza di fabbri che ogni giorno fabbricano armature di ogni tipo, che poi i mercanti vendono in mirabile abbondanza nelle città vicine e lontane. I principali fabbricanti di corazze superano infatti il numero di cento, e ciascuno di loro ha alle sue dipendenze moltissimi operai che si dedicano ogni giorno alla mirabile lavorazione delle maglie me-

talliche. Vi sono anche moltissimi fabbricanti di scudi e di ogni tipo di armi, del cui numero non faccio neppure menzione». Una manifattura, dunque, che, fin dal XIII secolo, era tra le piú famose e rinomate di Milano, in grado di equipaggiare eserciti interi, risplendenti per il luccichio di armi e corazze, elmi ed elmetti, cervelliere, collari, guanti, spade e pugnali.

Da Milano al resto del mondo Quella degli armaioli fu un’arte destinata a durare nel tempo, se, ancora nel 1587, il pittore Giovanni Paolo Lomazzo (1538-1600), celebrando le capacità artistiche e imprenditoriali dei Milanesi, dedicava un elogio particolare proprio agli armaioli, che considerava, piú che artigiani, veri e propri scultori del ferro, contribuendo in modo non trascurabile alla fama della città che – secondo le parole di Paolo Morigia (1525-1604) – «fa stupire il mondo». Nel 1385 esisteva una corporazione degli spadari milanesi che comprendeva un buon numero di specializzazioni diverse: fodratori, limatori, scalpellatori, manichieri, imbornitori, lustra-

Armatura da parata realizzata dall’armaiolo milanese Lucio Piccinino (attivo nella seconda metà del XVI sec.) per Filippo III di Spagna (1578-1621). Madrid, Real Armería.

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FORNITORI DELLA SERENISSIMA Grande rivale di Milano era Brescia, che, inizialmente sotto il dominio visconteo, divenne poi la principale fornitrice di armi destinate alla Repubblica di Venezia. Almeno 167 produttori (di cui sono rimasti i nomi) lavorarono nella città tra il 1388 e il 1486, molti dei quali provenivano da Milano, mentre altri avevano botteghe in entrambe le città. La qualità dei manufatti degli armaioli bresciani risulta evidente dall’importanza della clientela che si rivolgeva a loro nel secondo Quattrocento: il duca di Ferrara Nicolò d’Este, il marchese di Mantova Federico Gonzaga, Guidobaldo da Montefeltro, duca di Urbino, e persino il sultano turco. All’inizio del Cinquecento gli artigiani di Brescia furono in grado di equipaggiare un esercito di 6000 uomini.

A sinistra armatura quattrocentesca di produzione italiana. Brescia, Museo delle Armi «Luigi Marzoli». Nella pagina accanto, in alto armatura composita, con corpetto di stoffa, fabbricata a Milano per un balivo della famiglia dei Matsch nel 1365. Sluderno (Bolzano), Castel Coira. Nella pagina accanto, in basso armatura da cavallo in acciaio decorato con incisioni realizzata a Milano dall’armoraro Pompeo della Cesa.1580-1585. Firenze, Museo Stibbert.

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tori e doratori. In seguito, per l’intero arco del XV secolo, Milano si distinse nella fabbricazione di armature, tanto che i principi stranieri inviavano spesso nella città le loro maestranze perché vi apprendessero tecniche nuove o perfezionassero le loro conoscenze. Le armature lombarde erano assai richieste in tutta Italia ed Europa, in particolare in Inghilterra, Spagna, Francia, e con esse potevano competere solo quelle fabbricate a Norimberga. Colonie di artigiani milanesi erano presenti ad Avignone nella seconda metà del Trecento, a Napoli e a Roma nel Quattrocento.

Gli armaioli milanesi arrivarono a essere considerati come veri e propri scultori del ferro MADE IN ITALY

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A destra il Cassone dei Tre Duchi. Bottega lombarda, 1480-1494 (con integrazioni moderne). Milano, Castello Sforzesco. La tavola rappresenta i duchi di Milano Galeazzo Maria Sforza, suo figlio Gian Galeazzo e il duca di Bari, Ludovico Maria Sforza. Ciascun cavaliere è accompagnato da uno scudiero ed è contrassegnato, oltre che dagli stemmi sulle gualdrappe, dal nome. La scena può essere ritenuta simile alle parate che si tenevano a Milano in occasione della festa di San Giorgio.

LA FESTA DI SAN GIORGIO All’epoca del duca Galeazzo Maria Sforza (1466-1476) in occasione della festa di San Giorgio, che si celebrava a Milano in aprile, venivano organizzate parate sfavillanti per il luccichio di armi e armature, dei colori delle

Nel XV secolo, per salvaguardare l’eccellenza milanese nel settore, i Visconti e gli Sforza emanarono misure severissime, volte a evitare la migrazione delle maestranze e la diffusione delle tecnologie di lavorazione, tanto piú che il commercio di armi e armature rappresentava un importante cespite per le entrate ducali, grazie ai dazi imposti sulle esportazioni. Ciononostante, qualche armaiolo ottenne il consenso ducale a recarsi presso le corti inglese e francese.

Quattro armaioli per un duello Nel 1398, per esempio, il conte di Derby, incaricato da Enrico IV d’Inghilterra, chiese a Gian Galeazzo Visconti un’armatura per un duello. Il duca di Milano gli inviò non soltanto quanto richiesto, ma anche quattro dei suoi migliori armaioli. Viceversa, chi fuggiva senza autorizzazione veniva obbligato a tornare in patria. Nello stesso periodo troviamo maestranze milanesi a Greenwich, Innsbruck, Tours, Parigi, Lione, Bruges. In Italia i produttori milanesi avevano botteghe a Brescia, Ferrara, Modena, Mantova, Venezia, Urbino, Roma, Napoli. La capacità produttiva era tale che, poco prima della battaglia di Maclodio, nel Bresciano (nella 54

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divise, dei pennacchi e delle bordature preziose. Giostre e tornei si avvicendavano con grandi apparati, barde e corazzine da torneo decorate, vesti e ornamenti preziosi. Nella circostanza, i soldati assediavano le botteghe cittadine degli armaioli e dei produttori di oggetti di lusso per acquistare abiti di gala e armi da parata.

Lo storico Paolo Giovio (1483-1552) descrive con abbondanza di particolari la sfilata di San Giorgio: oltre 2000 cavalieri indossavano abiti ricamati ed elmi con pennacchi altissimi, mentre i cavalli erano coperti da barde dorate. L’apparato, la pompa e la solenne coreografia facevano di questa festa uno spettacolo unico.

quale, il 17 ottobre 1427, si fronteggiarono le truppe di Milano e Venezia, n.d.r.), la capitale del ducato visconteo fu in grado di rifornire l’esercito di 4000 armature per la cavalleria e 2000 per la fanteria. L’organizzazione del lavoro della metallurgia medievale comprendeva sia l’artigianato autonomo, ossia quel modo di produzione caratterizzato dalla proprietà di bottega, utensili, e materia prima, sia la manifattura decentrata o accentrata, cioè quel tipo di organizzazione al cui vertice stava il mercante imprenditore, al quale erano sottoposti in varia misura maestri e lavoranti. A Milano, nella seconda metà del Quattrocento, l’artigianato autonomo interessava buona parte dei fabbricanti di minuteria metallica (soprattutto chiodi, fibbie, bottoni, perline e decorazioni) e i produttori di spade, lance e speroni, che erano in grado, partendo dalla materia prima, di arrivare a un prodotto finito facilmente smerciabile. La manifattura, sia accentrata (la produzione si svolgeva cioè soltanto nella bottega dell’imprenditore), sia decentrata (per cui il lavoro veniva svolto nelle botteghe satelliti da lui dipendenti), riguardava invece la fabbricazione delle armature: in questo settore, ciascun artigiano era specializzato nella realiz-

A destra e nella pagina accanto elementi di armature da torneo realizzati dal laboratorio degli armaioli milanesi Missaglia. XV sec. Venezia, Palazzo Ducale.

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I battiloro A sinistra Miniatura raffigurante la dea Minerva, incoronata, che insegna agli uomini l’arte della fabbricazione delle armature, da una traduzione anonima francese del De claris mulieribus di Giovanni Boccaccio. 1440 circa. Londra, British Library. Nella pagina accanto armatura da uomo d’arme. Manifattura dell’Italia settentrionale, 1540-1550. Brescia, Museo delle Armi «Luigi Marzoli».

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zazione di singoli pezzi non vendibili e costretto perciò a dipendere da un imprenditore, l’armaiolo (proprietario di miniere, magli, altiforni, fucine), che gli forniva le materie prime, spesso anche gli utensili, e ne coordinava il lavoro, preoccupandosi poi dell’assemblaggio dei pezzi e della vendita. Questo tipo di organizzazione «capitalistica» del lavoro si era diffusa un po’ ovunque, soprattutto a partire dal Quattrocento, con il definitivo prevalere dell’armatura a piastra su quella di maglia. Mentre in precedenza la produzione era riconducibile a un gran numero di artigiani, piú o meno autonomi nei confronti del capitale mercantile e collegati con la domanda internazionale tramite il mercante – al quale vendevano un prodotto eseguito direttamente con materie prime e strumenti propri –, nella seconda metà del secolo gli armaioli si affermarono anche come operatori mercantili, concentrando nelle proprie mani tutte le fasi della produzione, dall’approvvigionamento delle materie prime allo smercio del prodotto finito sui mercati internazionali.

Una catena operativa articolata La fabbricazione delle singole parti di un’armatura aveva portato infatti a un’estrema divisione del lavoro e a una notevolissima specializzazione, richiedendo contemporaneamente la disponibilità di capitali ingenti, oltre a un coordinamento e a un collegamento diretti con la domanda, costituita spesso da grandi personaggi, principi e sovrani. Gli artigiani del settore, maestri compresi, si erano perciò trasformati in lavoratori dipendenti, normalmente retribuiti a cottimo e spesso indebitati con l’armaiolo fino a ridursi in condizioni miserrime. Praticamente tutti i maestri, i lavoranti e persino gli apprendisti assunti dai principali armaioli milanesi negli anni Sessanta e Settanta del Quattrocento erano legati all’imprenditore da contratti di cottimo, lavoravano nella sua bottega – che si configurava cosí come un grande atelier –, o in botteghe decentrate, sempre di proprietà dell’imprenditore, per le quali i maestri versavano un affitto (che veniva richiesto loro anche quando svolgevano l’attività in una parte della bottega principale). Anche quando il loro livello di specializzazione era elevato, questi lavoratori dipendevano completamente dall’armaiolo per la materia prima, il combustibile e gli utensili. Le assunzioni non prevedevano mai vitto e alloggio (al massimo veniva concesso un letto, magari vicino alla stalla), e anzi alcuni imprenditori, tra cui il prin-

cipale armaiolo milanese, Antonio Missaglia (vedi box a p. 59), invitavano esplicitamente i propri dipendenti a portarsi il pranzo. Conseguenze di questa situazione erano, come poco sopra accennato, l’indebitamento costante, che toccava – fatto del tutto inconsueto – persino gli apprendisti, e le frequenti fughe: nel 1476 Antonio Missaglia lamentava di aver prestato a MADE IN ITALY

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MESTIERI Armatura da uomo d’arme con elmo, realizzata a Milano dall’armoraro Tommaso Missaglia e appartenuta a Gian Galeazzo d’Arco. 1445-1450.

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LA «CASA» DELLE ARMATURE PIÚ BELLE Nella prima metà del XV secolo, i principali fornitori dei duchi di Milano furono i Negroni da Ello, detti Missaglia (Tommaso, nella prima metà del Quattrocento, e il figlio Antonio, tra il 1450 e il 1494-95). I Missaglia si occupavano del ciclo produttivo completo, dalla gestione delle miniere in Valsassina alla prima lavorazione del materiale, alla sbozzatura col maglio del materiale grezzo, alla rifinitura e all’assemblaggio delle singole parti di ogni armatura. Le fasi finali della lavorazione si svolgevano nelle fucine situate nella «casa dei Missaglia», una costruzione che sopravvisse fino al 1901, quando fu sacrificata da un’impietosa speculazione edilizia. Situata nel centro di Milano e costituita da una serie di edifici (alcuni dei quali del XIV secolo) che formavano un complesso molto esteso, fungeva da abitazione e fabbrica contemporaneamente. Le officine piú interne dell’isolato erano adibite alle attività piú rumorose, tanto che il complesso veniva designato come «porta dell’inferno». L’edificio principale e quelli perimetrali erano riservati, invece, alle fasi piú ricercate e «nobili»: in locali ampi e ben illuminati trovavano posto i cesellatori, gli ageminatori e i disegnatori. In un’ala perimetrale si trovava l’abitazione del Missaglia, mentre un’altra zona, sempre perimetrale, era adibita a esposizione e a magazzino. Nelle officine di via Spadari si rifinivano i pezzi di maggior pregio, fatti su misura, mentre in quelle esterne venivano prodotte le armature di secondaria importanza, richieste in grandi partite. Per tutta la seconda metà del Quattrocento, Antonio Missaglia e fratelli rifornirono non solo i duchi di Milano, ma tutte le piú importanti casate cittadine e le principali corti italiane (compresa quella pontificia) e d’Oltralpe (i re di Francia, Inghilterra, Aragona, Danimarca). Furono però afflitti in continuazione dalla cronica insolvenza degli Sforza, che, nel 1466, avevano ormai accumulato un debito di oltre 100 000 lire (una cifra astronomica per l’epoca) nei confronti di Antonio, ignorando le sue ripetute richieste di qualche anticipo per poter pagare almeno i fornitori e gli operai. Ciononostante, alcuni ambasciatori veneti che passarono per Milano nel 1492 descrissero il Missaglia come «homo rico el quale tiene continuo molti huomini che fanno armature in casa sua con grandissima spesa. In casa sua è dapertutto armature de ogni sorta per molte migliaia di ducati». I rapporti produttivi in questo settore sono spesso ricostruibili grazie all’esame dei marchi di fabbrica: le armature, infatti, erano sempre siglate dall’officina che le aveva prodotte; ne veniva firmata ogni singola parte ed erano autorizzati a imprimere il loro simbolo soltanto i maestri. Sormontate da una corona, le sigle appartenevano esclusivamente ai grandi imprenditori come i Missaglia, privilegiati dai duchi e dai fornitori di corte; quelle sormontate da una croce indicavano un piccolo imprenditore. I marchi permettono di ricostruire il percorso di fabbricazione del pezzo su cui venivano apposti e quindi i rapporti tra i maestri e gli imprenditori: la presenza di una sola sigla coronata significava che il pezzo era stato prodotto dal lavorante nell’officina e sotto la diretta sorveglianza dell’imprenditore; due sigle, una delle quali coronata e l’altra no, significavano invece che il pezzo era stato realizzato da un maestro autorizzato alla firma e che lavorava per un grosso imprenditore.

molti «operarii armorum» notevoli somme che non gli erano state restituite per la fuga di chi le aveva ricevute. Ancora piú penosa era la situazione dei bambini che lavoravano nelle botteghe degli armaioli milanesi, cosí evocati in una predica di san Bernardino da Siena (1427): «Io l’ho vedute fare [le «panziere di ferro»] a Milano, e fannole e fanciulli, e piu lavorio fanno, che non farebbe cinque omini; e stanno col capo basso basso, e col dietro stanno alti. Chi fa la maglietta, un altro la búcara, un altro fa il chiovo e mettelo nel buco, e mette questa con quella: l’altro sta con le tanaglie e serra insieme; l’altro la chiova e mazzicale insieme».

I traversatori Categoria nettamente separata da quella degli armaioli erano i traversatori, che svolgevano un lavoro estremamente specializzato, consistente nella smerigliatura (cioè nel levigare e lucidare mediante lo smeriglio), nella realizzazione di cerniere per connettere tra loro determinate parti dell’armatura (come la visiera e il coppo), di fori di aerazione, e di forellini per fissare il rivestimento interno in pelle dell’armatura. Tutto questo veniva effettuato mediante appositi mulini ad acqua, i magli. Nella seconda metà del XV secolo a Milano i traversatori formavano una cerchia ristretta di maestri e lavoranti, imparentati tra loro e completamente indipendenti dagli armaioli veri e propri, per i quali lavoravano, ma senza alcun vincolo di subordinazione. La situazione di privilegio di questi artefici era determinata dalle caratteristiche stesse della loro attività che, oltre a configurarsi come fase finale e determinante del processo produttivo – svincolata dalle altre fasi e non dipendente da un’unica tipologia di capitale mercantile (clienti dei traversatori potevano essere infatti i grandi armaioli imprenditori, ma anche artigiani autonomi come gli spadari e i fabbricanti di lance e di coltelli) –, presupponeva sia l’estrema specializzazione tecnica, sia la disponibilità di ingenti capitali per gli affitti elevatissimi degli impianti. Sempre nel capoluogo lombardo, verso il 1470, essi furono in grado di costituire una corporazione autonoma e di imporre le proprie tariffe e condizioni agli armaioli (rifiutavano, per esempio, di lavorare per gli armaioli insolventi). Persino Antonio Missaglia si trovò, in un’occasione a dover scrivere al duca che non poteva consegnare i pezzi commissionatigli, perché il maestro traversatore era ammalato e non se ne trovavano altri. MADE IN ITALY

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GLI ARMAIOLI-OREFICI

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el XIV e ancor piú nel XV secolo, le armature da parata costituivano spesso dei veri e propri capolavori di oreficeria: i bacinetti a protezione del capo erano smaltati o adorni di perle e pietre preziose, e altrettanto accadeva per le altre parti del completo. Pezzi di questo genere vennero commissionati, per esempio, dal duca di Borgogna Carlo il Temerario (1467) e da Enrico VIII d’Inghilterra (1513); armature altrettanto preziose si utilizzavano anche per i cavalli. Questo genere di oggetti raffinatissimi andò arricchendosi e perfezionandosi nel corso del XVI secolo, quando alla crisi del settore, che colpí ovunque e sempre di piú questo articolo – soprattutto a partire dalla seconda metà del Cinquecento –, si cercò di far fronte indirizzandosi verso prodotti di lusso di

Uno scudo da parata (a destra) e una borgognotta (tipo di celata con cresta e visiera saliente, spesso munita anche di guanciali mobili) forgiati da Filippo di Iacopo e Iacopo Filippo Negroli per l’imperatore Carlo V. 1541 e 1533. Madrid, Real Armería. Attivi tra la metà del XV e il XVI sec., i Negroli, dei quali, in quattro generazioni, sono documentati almeno 26 armaioli, misero in mostra notevoli abilità e gusto decorativo, sia nella realizzazione di armature di linea classica, sia in quelle ispirate a modelli ispano-moreschi. altissimo livello, la cui domanda non era toccata dal declino. Si andò cosí progressivamente formando un gruppo ristretto di armaioli-orefici-scultori, che grazie alla loro particolare formazione, fatta di un lungo apprendistato nelle botteghe di ciascuno di questi specialisti,

potevano padroneggiare contemporaneamente tutte le possibili tecniche artistiche indispensabili a fare di un’armatura un’opera d’arte. Un percorso formativo che dunque collimava perfettamente con la polivalenza delle botteghe rinascimentali. Un iter del genere fu quello intrapreso, per esempio, dal milanese Giovan Battista Panzeri, importantissimo produttore e mercante di armature di lusso, che fu apprendista come armaiolo presso il celebre Giovan Paolo Negroli, negli anni Quaranta del Cinquecento. Divenne poi allievo dello scultore Agostino Busti detto il Bambaia (suo parente), e quindi collaborò per tre anni in una bottega di oreficeria. Qui, oltre a imparare il mestiere, aveva l’obbligo di mettere a profitto le altre arti che già conosceva, impegnandosi a disegnare, a lavorare l’argilla o la cera, e a elaborare i disegni e i modelli necessari per la realizzazione degli oggetti in oro e argento. La maggior parte di questi artefici erano italiani (e soprattutto milanesi o lombardi), anche se non mancavano i Tedeschi, i Fiamminghi, i Francesi, specializzati nella realizzazione di opere-gioiello, con caratteristiche del tutto differenti da quelle delle armature comuni. Si trattava di veri e propri scultori specializzati in questo particolare genere di articolo. Uno dei piú importanti fu Leone Leoni (1509-1590), originario di Menaggio, sul lago di Como, famoso soprattutto per le opere in bronzo realizzate per Carlo V e per il duca di Parma e Piacenza, per il quale confezionò una celata cosí bella da fargli ottenere l’incarico di «maestro delle stampe della zecca». Quella dei Negroli fu la principale bottega milanese cinquecentesca per la produzione di armature. Filippo Negroli (1531-1561), molto elogiato dal Vasari e dal Lomazzo, lavorò sempre insieme al fratello Francesco, orefice e doratore di Carlo V. A differenza dei grandi armaioli quattrocenteschi, come i Missaglia, che erano mercanti e imprenditori «puri», al vertice del processo produttivo, i fratelli Negroli – titolari di una bottega a conduzione familiare in cui l’aspetto artisitico era sicuramente prevalente – lavoravano di persona, rendendosi

Nella pagina accanto armatura da parata in acciaio, oro, lega di rame, argento, cuoio e velluto realizzata da Lucio Piccinino. 1576-1590. Londra, Wallace Collection. Pezzo di fattura spettacolare, presenta una ricca decorazione a rilievo, con soggetti tipici del gusto neoclassico dell’epoca, quali Ercole e il leone nemeo, soldati romani, figure allegoriche e mostri mitologici.

materialmente autori soprattutto delle operazioni artisticamente piú rilevanti: Francesco come ageminatore, e Filippo come disegnatore, cesellatore e realizzatore di opere a sbalzo. Al terzo fratello, Giovan Battista, venivano affidate invece mansioni di minore impegno artistico (anche se di non minore perizia tecnica), come la foratura dei pezzi per inserirvi le viti, o la rifinitura. Proprio per garantire l’elevatissima qualità artistica dei prodotti di un atelier che aveva già come cliente Francesco della Rovere, e che avrebbe fornito di lí a poco Carlo V, Francesco Negroli era stato mandato come apprendista nel 1533 dal padre (che dirigeva la bottega prima che subentrassero i tre fratelli), presso i Figini, proprio in quegli anni «inventori» (ovvero i

In basso pettorale di armatura di Filippo Negroli (attivo tra il 1532 e il 1551). Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

A sinistra elmo forgiato dall’armaiolo milanese Lucio Piccinino. 1565. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Rüstkammer.

riscopritori e introduttori a Milano) dell’antica e complessa arte dell’agemina (consistente nell’ornare con incisioni in metallo prezioso manufatti in ferro o bronzo). Secondo una consuetudine tipica degli imprenditori milanesi rinascimentali, dunque, Gian Giacomo Negroli aveva mandato il figlio a imparare un’arte appena introdotta in città e dalle straordinarie potenzialità artistiche (ed economiche), in un momento in cui la domanda di prodotti di lusso sempre piú sofisticati sviluppava le tecniche e incentivava le nuove «invenzioni» o la riscoperta di quelle dell’antichità classica. Ancora un Milanese, Lucio Marliani, detto il Piccinino (1570-1589), fu uno dei piú importanti artisti della città, conosciuto soprattutto grazie alle notizie forniteci dallo storico Paolo Morigia: a lui si deve la magnifica armatura da parata (1578) di Alessandro Farnese, duca di Parma e Piacenza (vedi foto alla pagina accanto). Stilisticamente, la maggior parte di queste opere riprende motivi tratti dall’antichità

A destra l’elsa con decorazioni in oro, rubini e cristallo di rocca dello stocco realizzato da Federico Piccinino per il principe Cristiano II di Sassonia. 1605. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Rüstkammer.

Armatura di gala realizzata dalla bottega dell’armaiolo Lucio Piccinino per il generale italiano Alessandro Farnese (1545-1592). 1578-1579. Vienna, Kunsthistorisches Museum. La corazza è riccamente decorata con composizioni allegoriche.

Scudo da parata in acciaio azzurrato e damascato in oro e argento realizzato da un armaiolo vicino alla bottega dei Piccinino. 1550 circa. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. Il rilievo che orna il manufatto ha come tema le storie delle Vestali.

classica: bassorilievi con maschere, festoni, cornucopie, amorini, personaggi mitologici, figure allegoriche, riproduzioni di battaglie dell’epoca greca e romana. Altre volte, soprattutto armature complete come quella di Alessandro Farnese, riproducevano a sbalzo i tessuti auroserici damascati. Nella seconda metà del Cinquecento, infatti, sotto l’influenza del manierismo la decorazione delle armature si era indirizzata verso temi ricercati ed eruditi. Fungeva da ispirazione un immaginario tendente al fantastico, in cui la profusione decorativa lasciava spazio anche a scene tratte dalla mitologia, dalla Bibbia, dalla storia antica e contemporanea. Modelli per questi artisti, oltre all’arte classica, erano i disegni, e soprattutto le incisioni (che avevano larga circolazione), dei discepoli dei maggiori pittori contemporanei (come Raffaello e Giulio Romano), da cui gli armaioli-artisti cinquecenteschi traevano ispirazione, rielaborandoli con raffinatezza e creatività. E se ricorrevano in genere a stampe italiane, piú prossime alla loro sensibilità artistica, gli armaioli milanesi non disdegnavano di ispirarsi a opere di artisti del Nord Europa. Le figure venivano di solito lavorate a bassorilievo, e i dettagli dello sfondo incisi e ageminati: questo sistema decorativo trova il suo culmine nella già citata armatura del duca di Parma Alessandro Farnese, realizzata verso il 1576-80, interamente brunita in blu scuro e ricoperta da una ricchissima decorazione a sbalzo, cesellata e ageminata in oro e argento. Molti di questi pezzi di oreficeria sono giunti fino ai nostri giorni: tra i piú famosi, lo «scudo della Medusa», appartenuto a Carlo V e opera di Francesco Negroli (1541), oltre a numerosi altri elmi, scudi gambali, balestre in avorio o metallo istoriato, e a qualche armatura intera. Le principali raccolte di questo genere si trovano all’Armeria Reale di Torino (forse la piú ricca del mondo), e nel Palazzo Reale di Madrid, ma pezzi di questo tipo si trovano anche al Museo del Bargello di Firenze, al British Museum di Londra, al Kunsthistorisches Museum di Vienna, a Praga. Negli ultimi due decenni del Cinquecento l’armatura italiana decorata conobbe ancora qualche momento di splendore, prima di spegnersi definitivamente: questi equipaggiamenti difensivi, sempre piú pesanti per tentare di resistere alla crescente potenza delle armi da fuoco, finirono per scomparire dai campi di battaglia con lo scoppio della guerra dei Trent’anni (1618-1648).

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L’ottone

UN MONDO DI CHOSE PICCOLE... S

e quello delle armature costituiva senz’altro uno dei principali settori di eccellenza delle manifatture milanesi (vedi il capitolo alle pp. 48-67), la lavorazione dei metalli in genere per la produzione degli articoli piú svariati (dagli aghi di ogni forma e dimensione, alle «maggette» – sorta di paillettes per il ricamo –, alle chiavi e alle serrature, alle suppellettili in stagno di ogni tipo), rappresentava uno dei rami principali dell’economia cittadina. E proprio dalla strabiliante varietà produttiva di una di queste botteghe (in cui si lavorava l’ottone), rimase affascinato il senese Vannoccio Biringuccio (1480-1537), il quale ce ne ha lasciato la dettagliata descrizione nel trattato De la pirotechnia: «Hor per concludere fassi di questo infiniti lavori, et tegnese in vari luochi, come in Fiandra, in Colonia, in Parigi et in piu altri paesi, et ancho in Italia, in la citta di Milano, la dove n’ho veduto lavorare et tegnere gran quantita, et tegnesi in questo modo. Havevano quei maestri ch’io vidi in una gran stanza fatto una fornace longa piu che larga assai, et murata di certe sorte di pietre che per lor natura resistevano a longhi fuochi senza fondere ne ancho mai incenerarsi. (…) Et appresso a questo viddi anchora nella medesima buttiga in servitio di tal lavoro diversi esercitii et maestri, infra quali era chi batteva di detto ottone per far oro pello, et chi ne laminava per far quello che si fanno li pontali per le stringhe, et di quelli anchor verano che il limava68

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Capolettera miniato raffigurante un artigiano del metallo al lavoro, da un’edizione della Storia Naturale di Plinio il Vecchio. XV sec. Venezia, Biblioteca Marciana.

Il tono quasi idilliaco di Biringuccio è frutto dell’entusiasmo per la scoperta di tecniche nuove

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Vestito da fonditore (qui accanto) e Vestito da fabbro ferraio, rappresentazioni allegoriche degli abiti e degli attributi professionali di vari mestieri realizzate da Nicolas de Larmessin per la serie Les Costumes Grotesques: Habits des Métiers et Professions, pubblicata a Parigi nel 1695. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

no redutto in anella da sarti, et chi in fibie et altri simili lavori fatti di gitto, et alcuni altri vera che il lavoravano a martello facendone sonagli, et chi cucchiari et chi baccini, et chi el tornegiava in candelieri o altri vasi, et per concludere chi faceva una cosa e chi unaltra, tal che chi intrava in quella buttiga vedendo un travaglio di tante persone credo che cosi gli paresse come pareva a me intrare in uno 70

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inferno, anzi in contrario in un paradiso, dove era un spechio in che resplendeva tuta la bellezza de lingegno, el poter del arte, et io tal cosa considerando mentre che stei in Milano con grandissimo mio piacere, non fu mai giorno che non vandasse a passarmi il tempo». Nella stessa bottega, prosegue Biringuccio, si fabbricavano le forme di creta in cui fondere gli

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oggetti: «Erano otto maestri appresso a piu altri in una stanza quali adaltro non attendevano che a formare in luto, et a condure una infinita di forme di tutte quelle cose picchole che si consumano, o si possan col gitto far dottone ... cioe borchie da cavalli, coppe, fibie, dogni sorte maglie campanelli, anella da cucire, et di quel laltre che vi si lega li vetri [cioé anelli su cui montare pietre false] et altre simel cose».

Un’esclusiva milanese L’autore conclude commentando: «Andai infra me albitrando che sol quella buttiga era bastante non solo a fornir Milano, ma a condir tutta Italia, et certo mi parse grande et bella impressa a un mercante solo, et che li bisognasse haver gran polso a mantenere vivi et continuar in tanti belli esercitii quanti in quel luocho io vidi (...) Il che altrimenti non credo che faccino ne la Fiandra, o altri luochi de Alemagna, dove fan candelieri, mescirobbe, et tanti altri lavori». Una bottega in cui lavoravano dunque molti maestri, ciascuno guidato dal «fulgore dell’ingegno» e dal «potere dell’arte» – almeno secondo l’ottimistica visione di Biringuccio, animato dal sacro entusiasmo della scoperta di un mondo di tecniche nuove –, ma dediti anche alla produzione in serie delle matrici di creta per la realizzazione su larga scala di «tutte quelle chose piccole che si consumano». Non sapremo mai quanto questa bottega somigliasse «ad un inferno» o piuttosto «ad un Paradiso», quanto vi potesse «risplendere la bellezza dell’ingegno e il potere dell’arte», o quanto non ricordasse piuttosto una catena di montaggio. Certo è singolare la differenza con la descrizione che Bernardino da Siena, solo pochi Qui accanto candeliere in ottone. Manifattura italiana, XVI sec. Firenze, Museo Bardini. 72

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In alto, sulle due pagine cromolitografia ottocentesca nella quale è illustrato un campionario di vari oggetti e utensili metallici di piccola taglia utilizzati tra il XIV e il XVI sec.

Nella pagina accanto, in alto coltello milanese e forchetta veneziana, e (qui sotto) coltello fiorentino. Età rinascimentale. Milano, Museo Poldi Pezzoli.

anni prima, faceva di un’altra manifattura milanese, quella delle armi, dove tanti bambini intenti per ore a un lavoro estenuante perdevano con la salute gli anni migliori della vita (vedi a p. 59). Ci si è chiesti se la sofferenza degli uomini sia mai stata oggetto della storia: forse dipende soltanto dalla sensibilità di coloro che l’hanno raccontata. MADE IN ITALY

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I MAESTRI SALARIATI

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ome già accennato, le botteghe degli armaioli milanesi (vedi il capitolo alle pp. 48-67) – per la struttura stessa di un settore di antica tradizione che aveva ormai assunto connotazioni «capitalistiche» –, erano caratterizzate dalla presenza di maestrisalariati, spesso in una precaria situazione economica, vittime dell’indebitamento e della facilità a scivolare nell’indigenza. Una circostanza che poteva determinare la perdita dei mezzi di produzione, e la trasformazione dell’artigiano in lavoratore dipendente, ridotto in condizioni miserrime. Ma non era sempre cosí: in altri settori i maestri-salariati percepivano compensi elevatissimi, soprattutto se si trattava di arti nuove per una determinata area geografica e tali da richiedere una notevole specializzazione, nonché la padronanza di tecnologie sconosciute nel luogo in cui venivano introdotte. In queste situazioni, naturalmente, la forza contrattuale delle maestranze straniere a conoscenza dei segreti dell’arte era elevatissima, tanto che principi, duchi e autorità cittadine cercavano di attirare con ogni mezzo e con tutti i possibili privilegi e sgravi fiscali gli artigiani competenti, che riuscivano anche a ottenere remunerazioni particolarmente elevate. È il caso dei battiloro (a Milano ma anche a Firenze nella prima metà del XV secolo; vedi anche il capitolo alle pp. 12-25), o degli esperti nella lavorazione del vetro (vedi anche il capitolo alle pp. 78-89). Per quel che concerne i primi, sebbene la loro arte fosse ampiamente praticata Oltralpe dal XIV secolo almeno, in Italia era conosciuta quasi soltanto a Venezia (forse fin dal IX secolo), a Genova e a Lucca (dal Duecento). Quando, all’inizio del XV secolo, in seguito all’aumento della domanda di tessuti serici particolarmente sofisticati, tale manifattura cominciò a diffondersi in molte altre città della Penisola, i battiloro vennero contesi con salari elevatissimi. A Firenze, le maestranze genovesi e veneziane – la cui presenza è documentata a partire dal 1420 circa – percepivano i compensi piú alti in assoluto mai pagati nella città durante il XV secolo (da 150 a 187

fiorini annui); gli imprenditori tendevano inoltre a legarle stabilmente alle aziende con contratti almeno biennali (se non quadriennali rinnovabili), formalizzati davanti al notaio (cosa che raramente avveniva nelle aziende tessili fiorentine). Un sensibile calo delle remunerazioni verso la fine del secolo indica che domanda e offerta dovevano aver trovato un maggior equilibrio anche per il formarsi di una manodopera locale. Identica, anche se spostata solo di pochi decenni, è la situazione dei battiloro a Milano, dove la manifattura venne introdotta negli anni Cinquanta del Quattrocento contemporaneamente da maestri genovesi e

tedeschi, che le manifatture accentrate impiantate a tamburo battente tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del Quattrocento da mercanti in passato interessati ad altri settori, talvolta affini (come l’oreficeria o l’arte della stampa), si contendevano con remunerazioni che potevano arrivare a 24 lire al mese. Nell’arco di pochi mesi, numerosi maestri, passando da un’azienda all’altra, poterono aumentare anche del 50% compensi già stratosferici. Un fenomeno simile si rileva in alcune città per la manifattura del vetro. Quando, nella seconda metà del XV secolo, a Milano venne incrementata e incentivata l’arte vetraria, i maestri provenienti da Altare (nei pressi di

A destra un artigiano specializzato nella produzione di oggetti in metallo in una tavola realizzata dall’incisore svizzero Jost Amman, per l’opera Eygentliche Beschreibung aller Stände auff Erden..., un trattato sulle arti e i mestieri pubblicato per la prima volta a Francoforte nel 1568.

Qui sopra muratori al lavoro, particolare degli Effetti del Buon Governo in città e in campagna, dal ciclo affrescato dell’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti. 1337-1339. Siena, Palazzo Pubblico, Sala dei Nove.

Un’altra incisione di Jost Amman, raffigurante un laboratorio per la produzione di catini in metallo, da Eygentliche Beschreibung aller Stände auff Erden..., Francoforte, 1568.

Savona) venivano contesi dagli imprenditori (locali e toscani) attivi in città con compensi elevatissimi, qualche volta superiori persino a quelli dei battiloro. La presenza di questi maestri con il loro patrimonio di conoscenze tecniche (e di particolari segreti per i prodotti piú sofisticati), doveva risultare infatti essenziale per l’esistenza stessa delle manifatture vetrarie milanesi: gli imprenditori che, disponendo dei capitali necessari, riuscivano ad assicurarsi il lavoro degli Altaresi, prosperavano. Quelli che invece non erano in grado di assumerli talora perdevano la bottega e i mezzi di produzione, riducendosi a loro volta nella condizione di lavoratori dipendenti. Anche nell’ambito dell’edilizia, sempre per quel che concerne i maestri, è stata rilevata una notevole varietà di situazioni, non solo in rapporto alle diverse specializzazioni di ciascuno, ma anche all’interno di una medesima attività, tanto da far parlare, anche in questo caso, di «gradi di imprenditorialità». In base all’abilità, alle conoscenze tecniche e alle capacità lavorative, emergevano nei cantieri capomastri con funzioni organizzative e direttive, incaricati di programmare i lavori, di scegliere i materiali, di determinare i compensi per le forniture. Ciò si rifletteva in una gamma estremamente vasta di salari, che si possono considerare praticamente personalizzati. I libri contabili dei cantieri delle principali città italiane tra il XIII e il XV secolo lasciano intuire che, sul mercato del lavoro, ogni maestro doveva avere una sua valutazione, a cui corrispondevano un determinato salario e maggiori o minori possibilità di occupazione. Sempre nei cantieri la situazione si complicava ancor di piú se il maestro salariato era un artista dotato di una propria spiccata personalità: nel 1501, quando lo scultore Cristoforo Solari fu assunto dalla Fabbrica del Duomo di Milano, impose agli amministratori clausole tutte sue, volte non tanto a determinare il proprio compenso, quanto a evitare la disciplina nella scansione della giornata lavorativa imposta ai normali salariati, una disciplina decisamente in contrasto con le esigenze dell’ispirazione artistica. Solari chiese perciò di non dover dipendere dal responsabile del cantiere; di poter pranzare quando avesse voluto, senza essere tenuto agli orari dei lapicidi; di poter scegliere il marmo a suo piacimento, senza renderne conto all’ingegnere della Fabbrica; di non dover continuamente rispondere del proprio operato, perché avrebbe lavorato sicuramente di piú e meglio senza questi vincoli.

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Il vetro

IL FASCINO DELLA TRASPARENZA L

a notorietà raggiunta dalla produzione vetraria veneziana del primo Rinascimento ha contribuito in larga misura a offuscare quella degli altri centri della Penisola, falsandone la realtà, tanto che l’esistenza di altre manifatture autonome rispetto a quella della Serenissima è stata riconosciuta soltanto in tempi recenti. Accanto a Murano, la cui produzione è attestata ininterrottamente almeno a partire dal XIII secolo, altre due aree si distinguevano in questo settore da un’epoca ancora piú antica: la Valdelsa, con i centri di Gambassi e Montaione soprattutto, e Altare, nei pressi di Savona, la cui produzione di bicchieri e bottiglie era nota in tutta la Penisola fin dai secoli XI-XII, e i cui maestri costituivano una corporazione per cosí dire «itinerante», che organizzava e governava non solo i vetrai residenti in patria, ma anche quelli attivi in luoghi lontani (maestri altaresi sono documentati persino nelle Fiandre).

Un primato per due L’emigrazione continua dal centro di origine rappresentava appunto una caratteristica costante degli artigiani altaresi, i quali, tuttavia, mantenevano legami assai stretti con la madrepatria. Fra il Trecento e il Quattrocento, Altaresi e Toscani erano ormai in costante contatto e sparsi in numerose tra le principali 78

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Qui accanto e nella pagina accanto, a destra coppia di brocche in vetro cristallino con decorazione floreale a smalto policromo. Manifattura italiana, XV sec. Murano, Museo del Vetro.

A sinistra vaso in cristallo di rocca a forma di uccello, probabilmente eseguito dalla bottega dei Sarachi, famiglia di orafi e incisori di gemme, attivi a Milano. Seconda metà del XVI sec. Firenze, Museo degli Argenti.

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Piatto da parata detto «Barbarigo». 1500 circa. Murano, Museo del Vetro. Il pregiato manufatto prende nome dalla presenza dello stemma della famiglia veneziana dei Barbarigo, che annoverò tra i suoi membri dogi, diplomatici e illustri uomini di Chiesa.

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città dell’Italia centro-settentrionale, dove il loro contributo alla nascita dell’arte vetraria fu determinante: sono documentati già nel Trecento a Bologna, Modena, Ferrara, Ravenna, Genova, Firenze, Arezzo, e, nel Quattrocento, anche a Milano. Liguri e Toscani ebbero appunto un ruolo determinante nell’introduzione dell’arte vetraria nel capoluogo lombardo. Durante la seconda metà del Quattrocento, proprio le maestranze altaresi, al servizio di un imprenditore di origine toscana, Giovanni da Montaione, risultano infatti

presenti in modo massiccio nella capitale del ducato sforzesco. Se per le produzioni di lusso le corti dell’Italia settentrionale si rivolgevano in ogni caso a Murano, per gli oggetti di minor pregio non disdegnavano le manifatture locali gestite da Liguri e Toscani. Nel Quattrocento, l’organizzazione della manifattura vetraria nell’Italia centro-settentrionale vedeva in genere ai vertici gli imprenditori valdelsani, provvisti dei capitali, oltre che delle conoscenze tecniche indispensabili ad avviare l’attività, coadiuvati, nell’esecuzione

SOFFI D’ARTISTA Questa miniatura (tratta da un’edizione quattrocentesca del Tractatus de herbis di Discoride conservata presso la Biblioteca Estense Universitaria di Modena) documenta la soffiatura a bocca del vetro. Si tratta di una tecnica attuata fin da tempi remoti (ma oggi limitata alla creazione di pezzi d’arte o dalla geometria speciale), che si effettua prelevando una certa massa di fuso con una lunga canna metallica, ruotando e spostando la quale (mentre vi si soffia dentro), si costringe il fuso ad assumere la forma voluta; l’operazione richiede notevole abilità ed esperienza. E non è dunque un caso che nel Medioevo e nel Rinascimento, tra le varie categorie di artigiani, i maestri vetrai fossero una di quelle che percepiva gli stipendi piú elevati.

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IlI battiloro vetro materiale del lavoro alla fornace, da maestranze specializzate provenienti dal centro ligure di Altare. Queste ultime, nel capoluogo lombardo, erano contese dagli imprenditori toscani e da quelli locali con i salari piú alti in assoluto riscontrati per l’epoca. Il sapere degli Altaresi era cosí importante che a Milano prosperavano quegli imprenditori che, disponendo di capitali adeguati – come i da Montaione –, riuscivano ad assicurarsene i servigi. Chi, invece, poteva investire

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capitali piú modesti spesso non riusciva ad assumerli e finiva talora per perdere la bottega e i mezzi di produzione. Giovanni da Montaione venne favorito sicuramente anche dall’interesse della corte sforzesca, sviluppatosi a partire dagli anni Cinquanta del Quattrocento, grazie alla duchessa Bianca Maria Visconti, moglie di Francesco Sforza, e del figlio Galeazzo Maria, e in seguito grazie a Beatrice d’Este, moglie di Ludovico il Moro.

Del resto già l’architetto e scultore Antonio Averlino, detto il Filarete (1400 circa-dopo il 1465), anch’egli toscano, durante il suo soggiorno milanese si era interessato molto alla produzione vetraria, affermando che avrebbe fatto realizzare le finestre della chiesa dell’Ospedale Maggiore e del Duomo al piú esperto artista di Murano, il suo amico Angelo Barovier, che soggiornò effettivamente a Milano nel 1455. Il Filarete aveva anche alcune cognizioni in proposito che si ripro-

mise di indicare in un trattatello non pervenutoci. Pare anzi che avesse tentato di introdurre l’arte vetraria nella capitale sforzesca chiamando il maestro veneziano Antonio del Bello. Almeno a partire dai primi decenni del XV secolo, esistevano a Milano, per la produzione di oggetti di uso comune (boccali, bicchieri, alambicchi da farmacia), due fornaci: una accanto al Duomo, gestita appunto dai valdelsani Montaione, e l’altra da un vetraio

Calici cinquecenteschi in vetro cristallino. Milano, Museo Poldi Pezzoli. La collezione milanese possiede vari esemplari di questi manufatti, realizzati non con un semplice vetro incolore, ma con una varietà di particolare purezza e trasparenza, ottenute grazie all’impiego di una migliore materia vetrificante (ciottoli quarzosi) e a ripetuti trattamenti. La messa a punto di questi complessi procedimenti è attribuita ad Angelo Barovier e viene fatta risalire al 1450 circa.

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Per molto tempo, la tecnica necessaria per la produzione del vetro cristallino rimase un vero e proprio segreto professionale, gelosamente custodito dagli artigiani veneziani

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A destra coppa emisferica con piede svasato a tromba, decorata da un fregio con motivo a squamette dorate, punteggiate a smalti e oro. Manifattura veneziana di derivazione medio-orientale, XV-XVI sec. Murano, Museo del Vetro. Sulle due pagine reliquiario (a sinistra) e coppa su piede in vetro e smalti. Manifattura veneziana, 1500-1525. Milano, Museo Poldi Pezzoli.

di origine muranese, con cui i da Montaione si imparentarono. A questi impianti se ne aggiunsero altri durante la seconda metà del Quattrocento, fino a giungere a un totale di almeno cinque. Attraverso l’instaurarsi di legami di parentela tra questi produttori e un’importante famiglia mercantile milanese, la mercatura del capoluogo lombardo, scarsamente a conoscenza dell’arte vetraria, accoglieva i rappresentanti dei due principali centri produttivi dell’epoca: la Valdelsa, le cui località di Montaione e Gambassi erano specializzate in oggetti di uso «comune» (vasi, caraffe, bicchieri), e Murano. Giovanni da Montaione ricoprí, dunque, a partire dalla metà del XV secolo, un ruolo chiave per la diffusione dell’arte vetraria a Milano, divenendo rapidamente il fulcro di una rete di reclutamento delle maestranze estesa a tutti principali centri vetrari dell’epoca, e rifornendo i duchi e la cattedrale che gli commissionava le lampade (ma non le lastre per le vetrate che sembra venissero importate dalla Germania).

Il segreto del «cristallino» L’instaurarsi di questi legami di parentela tra maestranze di diverse provenienze ebbe effetti determinanti per la diffusione e il perfezionamento delle tecniche produttive nel capoluogo lombardo, tanto che, verso il 1450, si giunse

persino alla realizzazione del «vetro cristallino», una pasta vitrea di particolare purezza e trasparenza, il cui procedimento era custodito gelosamente dagli artigiani della Laguna. Esso doveva essere noto a Murano fin dall’inizio del XV secolo, anche se la sua invenzione è stata a lungo fatta risalire al 1450-52 e attribuita a un maestro veneziano, il quale, probabilmente, si limitò a perfezionarne un procedimento frutto di molteplici e continue sperimentazioni da parte di maestranze diverse. Già nel 1451, del resto, nonostante i severi divieti della Repubblica di Venezia, era stata costituita una società tra un maestro vetraio muranese e due cittadini di Ferrara per la produzione di questo nuovo e prezioso materiale la cui realizzazione era stata favorita dalla corte Estense. Proprio attraverso il tramite della città emiliana, dove fin dalla metà del Trecento i vetrai della Valdelsa (quelli di Montaione e Gambassi soprattutto) avevano impiantato numerose botteghe, gli artigiani toscani entrarono in contatto col cristallino, e cominciarono a fabbricare bicchieri che rivelano un’assoluta omogeneità formale con quelli muranesi. Come accennato, una famiglia di imprenditori vetrari toscani appunto, il cui capostipite rappresentava il fulcro di una rete produttiva e commerciale vastissima, estesa a tutti principali MADE IN ITALY

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Dio Padre crea gli Astri (a sinistra) e Dio Padre crea gli animali e le piante, pannelli superstiti del trittico della Creazione eseguiti da Maffiolo da Cremona per la vetrata del Vecchio Testamento del Duomo di Milano. 1416-24.

centri vetrari dell’epoca, operava a Milano e in molte delle principali città del ducato sforzesco almeno dalla metà del Quattrocento. Non stupisce, dunque, che bicchieri in vetro cristallino fossero prodotti in questo periodo anche a Milano e in Lombardia, tanto piú che la corte ducale apprezzava moltissimo quegli oggetti. Una vera e propria passione per i manufatti in vetro divorava Beatrice d’Este, sposa di Ludovico il Moro: durante un viaggio a Venezia, nel 1493, la duchessa scrisse al marito dell’entusiasmo suscitato in lei dalla vista del Tesoro di San Marco, nel quale aveva potuto ammirare «infinite et belle gioye cum alcuni dignissimi vasi», ma dicendosi estasiata anche dalla miriade di bottegucce che esponevano vetri di ogni tipo, e dalle quali aveva fatto fatica a staccarsi. Accanto agli oggetti di lusso e ai materiali pregiati, vastissima per il resto era la tipologia produttiva delle botteghe milanesi: boccali, ampolle, bicchieri, calici, fiaschi, bottiglie di varia capacità, saliere, fruttiere, alambicchi da farmacia, e persino biglie di vetro per i bambini. A Milano, nell’ambito dell’arte vetraria, la concentrazione di maestranze provenienti dai principali centri italiani aveva dunque consentito un miglioramento delle tecniche e la realizzazione di nuovi materiali.

Aziende autosufficienti Se scarse e frammentarie sono le notizie sugli imprenditori vetrari, ancor piú sporadiche sono quelle sull’organizzazione del lavoro nelle fornaci. Le officine vetrarie costituivano unità produttive autosufficienti in cui, accanto ai maestri vetrai, operava un certo numero di lavoratori dipendenti: gli addetti all’accensione e al mantenimento del fuoco, gli incaricati di tagliare la legna a misura dei condotti ignei, quelli deputati alla realizzazione dei crogioli e alla triturazione delle materie prime e del vetro da riciclare. La gestione degli impianti era spesso in mano a piccole compagnie a conduzione familiare. Nella seconda metà del Trecento cominciò a delinearsi un sostanziale cambiamento, col subentrare della figura dell’imprenditore, in genere estraneo alla pratica del mestiere, che poteva formare col maestro vetraio società in cui il primo immetteva il capitale, mentre il secondo, depositario dei segreti dell’arte, metteva a disposizione la sua esperienza, il suo lavoro e i suoi attrezzi, assumendo dipendenti che lo aiutassero. In altri casi, i vetrai prendevano semplicemente in affitto la fornace da proprietari appartenenti alla nobiltà. MADE IN ITALY

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Disegno del Pisanello (al secolo Antonio di Puccio Pisano, ante 1395-1455) raffigurante tre teste maschili, tra cui quella di un personaggio che indossa un paio di occhiali. Parigi, Museo del Louvre.

L’INVENZIONE DEGLI OCCHIALI

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nche gli occhiali, invenzione destinata a cambiare la storia dell’umanità, e le cui origini sono rimaste fino ad anni recentissimi quasi sconosciute (solo nel 2007, infatti, sono state pubblicate le ricerche complete dell’insigne studioso italo-americano Vincent Ilardi, da poco scomparso) rappresentarono un’acquisizione importantissima dell’ingegno italiano, e toscano in particolare. Furono inventati a Pisa nel 1286 – come testimonia esplicitamente un frate domenicano in un suo sermone –, e la loro tecnica di fabbricazione, che sarebbe dovuta rimanere segreta, venne immediatamente imitata e acquisita dai Domenicani di un monastero fiorentino, i quali, particolarmente interessati all’invenzione, cominciarono a produrli in gran quantità all’interno del loro convento, durante il primo decennio del Trecento. Si trattò, inizialmente, di lenti da presbite (per quelle da miope occorrerà attendere la metà del XV secolo). Nella stessa epoca si era sicuramente giunti allo stesso risultato anche a Venezia, come testimoniano alla fine del Duecento i capitolari dei «cristalleri», e nella città lagunare si era appunto rifornito il mercante pratese Francesco Datini, alla fine del Trecento, in un momento in cui a Firenze infuriava la peste. Ma la produzione veneziana di questo articolo non era destinata a decollare, o almeno dovette rimanere ferma a livelli qualitativi piuttosto modesti, dal momento che, verso la metà del XV secolo, Firenze veniva universalmente riconosciuta, dai potentati e dai ceti dirigenti di tutta la Penisola, nonché d’Oltralpe, come la capitale indiscussa di questo articolo indispensabile. Tra il 1462 e il 1463 Francesco Sforza ordinò a Firenze almeno 100 paia di occhiali per sé e per il suo entourage, e suo figlio Galeazzo Maria ne richiese 200 paia con un solo ordine, specificando che fossero sia da miope (in 2 diverse gradazioni), sia da presbite (in uno svariato numero di gradazioni a seconda dell’età, partendo dai 30 fino ai 70 anni), e che venissero riposti in scatole divisi per tipo, con relative diciture per poterli facilmente distinguere. Entrambe le commissioni vennero evase nel giro di due settimane. Le lettere degli Sforza sono fondamentali, sia perché rappresentano le prime attestazioni dell’esistenza di occhiali da miope e di una conoscenza approfondita delle gradazioni di presbiopia in base all’età, sia perché rivelano senza ombra di dubbio il ruolo di Firenze, nel XV secolo, come «capitale degli occhiali». La velocità con cui le richieste vennero evase lascia intuire, tra l’altro, la probabile esistenza, nella città di Dante, di botteghe specializzate che disponevano di articoli già pronti, soprattutto del tipo piú comune – per basse gradazioni di presbiopia e per almeno due gradazioni di miopia –, indice significativo del sofisticato livello di organizzazione degli atelier fiorentini attivi nel settore. Esistevano due diversi modelli di occhiali: quelli di uso comune, con lenti in vetro e montature in legno o in osso, dal costo molto modesto e accessibili a tutti, e quelli di lusso, con lenti in cristallo e montature in avorio, o metalli preziosi, dal costo molto elevato, e commissionati principalmente da vescovi e alti prelati. L’ordine degli Sforza riguardava occhiali del primo tipo, con lenti in vetro e montature in osso, la cui qualità evidentemente doveva essere comunque notevole. Negli ultimi anni del Cinquecento, la combinazione tra lenti concave e convesse sfociò, ancora a Firenze, nell’invenzione del telescopio.

LA PRODUZIONE DELLA CARTA

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iunta in Europa dalla Cina fra l’XI e il XII secolo attraverso la mediazione araba, la manifattura della carta si insediò dapprima a Toledo (1085), per poi passare a Genova (1235), a Fabriano (1264), Amalfi (1268), quindi in Friuli, e in seguito a Colle di Val d’Elsa, a Pescia e nella Lucchesia. Ciononostante, non attecchí ovunque: la Spagna, da esportatrice della nuova tecnologia, divenne, alla fine del Trecento, il punto di smercio dei prodotti marchigiani. Fabriano ebbe il merito di perfezionare il metodo di lavorazione arabo, mettendo a punto, alla fine del XIII secolo, quelle strutture e quelle tecniche che differenziano la carta europea da quella araba:

l’introduzione del mulino idraulico (la «folla») a magli chiodati nella fase di lavorazione degli stracci, col risultato di una maggiore finezza e omogeneità; e – novità non meno importante – l’utilizzazione della gelatina animale al posto della colla d’amido usata dagli Arabi, principale responsabile del rapido deterioramento del prodotto, e della conseguente diffusa diffidenza europea per il nuovo materiale scrittorio. I Fabrianesi inventarono infine la filigrana (1280), che doveva servire a riconoscere la bottega in cui l’articolo era stato realizzato. Dal centro d’eccellenza di Fabriano l’attività si diffuse rapidamente in tutta la Penisola, e poi in Europa (dalla seconda metà del

Una cartiera di Fabriano, particolare della pianta della cittadina marchigiana disegnata per il Civitates orbis terrarum, raccolta di mappe delle città di tutto il mondo curata da Franz Hogenberg e Georg Braun e pubblicata, in sei volumi, tra il 1572 e il 1616.

Trecento), ovunque esistessero corsi d’acqua in grado di alimentare le folle, parallelamente all’incremento della domanda, man mano che il nuovo e piú economico materiale andava sostituendo la costosissima ed elaboratissima pergamena, la cui realizzazione comportava invece il sacrificio di intere greggi e un complesso procedimento di lavorazione delle pelli fino a ottenere il supporto scrittorio. Il trionfo della produzione conobbe il suo apogeo nella seconda metà del Quattrocento e nel primo Cinquecento, quando, in seguito alla nascita della stampa, se ne moltiplicò il consumo e sorsero imprese editoriali importanti a Venezia, Milano e Lione. La folla da carta era ampiamente diffusa anche nei suburbi di Milano, almeno a partire dal Trecento, inizialmente con un modello produttivo che vedeva il maestro cartaio occuparsi direttamente del ciclo di

lavorazione completo, dall’acquisto della materia prima alla vendita; poi, dalla seconda metà del Quattrocento in modo crescente, con la scissione della produzione (sempre in mano al maestro cartaio) dal rifornimento di materia prima e dal commercio, dominati invece dall’imprenditore. Questa figura sociale, che poteva a sua volta provenire dal ceto dei maestri cartai arricchitisi e magari imparentatisi con grandi famiglie nobiliari o mercantili, domina sicuramente a Milano l’ultimo scorcio del secolo XV e i primi decenni del XVI, cioè l’epoca in cui la diffusione sempre maggiore dell’arte della stampa nel capoluogo lombardo aveva aumentato enormemente la richiesta di carta, sollecitandone, al tempo stesso, il miglioramento qualitativo, e offrendo agli imprenditori nuove possibilità di impiego dei capitali. Molti di loro entrarono in società con tipografi o editori, fornendo i

Sulle due pagine pila a magli multipli per triturare gli stracci destinati alla produzione della carta. Fabriano, Museo della Carta e della Filigrana. A destra fogli di carta stesi ad asciugare. Fabriano, Museo della Carta e della Filigrana.

finanziamenti o la materia prima; altri divennero tipografi o editori in prima persona. Dal mondo dei mercanti di carta proveniva anche quel Giovanni da Legnano, che, per l’ampiezza e la varietà della sua opera, è considerato uno dei principali editori milanesi all’epoca degli esordi della stampa. Alla metà del Cinquecento, quando l’arte della stampa era ormai ben avviata a Milano, tipografi ed editori cercavano di assicurarsi la produzione della materia prima, entrando a loro volta direttamente nel settore, oppure attraverso alleanze matrimoniali con mercanti di carta, o, ancora, anticipando al maestro follatore il denaro per assicurarsene in esclusiva la produzione. Alla fine del XVI

secolo molti degli impiegati nel settore si erano ormai arricchiti. La produzione milanese, insufficiente a soddisfare la domanda, era integrata da quella di Como, Mendrisio, Torino, oltre che da quella dei due principali centri cartari cinquecenteschi: Genova (Voltri in particolare) e la riviera del Garda. Va sottolineata la grande differenza tra Milano, dove, come a Venezia, l’arte della stampa ebbe immediatamente una diffusione enorme, e Firenze, dove, al contrario, quest’attività riscosse inizialmente scarso successo e prevalse ancora a lungo il libro manoscritto in raffinatissimi e decorati esemplari. Ancora negli anni Ottanta del Quattrocento perciò il cartolaio fiorentino poteva essere contemporaneamente anche miniatore. Una situazione quindi nettamente diversa da quella del cartaio milanese, dotato di una mentalità imprenditoriale e ormai avviato a programmare una produzione su larga scala come gli imponevano le esigenze del mercato.

MESTIERI

I battiloro

DOVE E QUANDO Ecco, qui di seguito, una lista dei musei italiani le cui raccolte documentano in maniera significativa le produzioni manifatturiere descritte in questo Dossier.

ARMATURE/ARMI

2 Musei del Castello Sforzesco Milano, Piazza Castello Info tel. 02 88463700; www.milanocastello.it 2 Museo Bagatti Valsecchi Milano, via Gesú 5 Info tel. 02 76006132; didattica@museobagattivalsecchi. org; http://museobagattivalsecchi. org 2 Museo Poldi Pezzoli Milano, via Manzoni 12 Info tel. 02 794889; [email protected]; www.museopoldipezzoli.it 2 Museo delle Armi Gardone Val Trompia (BS), via XX Settembre Info tel. 030 831574; [email protected]; www.museodellearmi.net 2 Museo delle Armi «Luigi Marzoli» Brescia, via Castello 9 Info tel. 030 2977833; [email protected]; www.bresciamusei.com 2 Museo Diocesano Francesco Gonzaga Mantova, piazza Virgiliana 55 Info tel. 0376 320602; info@ museodiocesanomantova.it; www.museodiocesanomantova.it 2 Armeria Reale Torino, piazza Castello 191 Info tel. 011 543889; www.artito.arti.beniculturali.it 2 Museo Civico Medievale Bologna, via Manzoni 4 Info tel. 051 2193930; museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it 2 Museo Stibbert Firenze, via Federigo Stibbert 26 Info tel. 055 475520; [email protected]; www.museostibbert.it

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MADE IN ITALY

2 Museo Nazionale

del Bargello Firenze, via del Proconsolo 4 Info tel. 055 2388606; museobargello@polomuseale. firenze.it; www.polomuseale.firenze.it 2 Museo Stefano Bardini Ponte alle Grazie (FI), via dei Renai 37 Info tel. 055 2342427; http://museicivicifiorentini. comune.fi.it 2 Museo Nazionale di Palazzo Reale Pisa, lungarno Pacinotti 46 Info tel. 050 926539; sbapsae-pi.museopalazzoreale@ beniculturali.it; www.sbappsae-pi.beniculturali.it

2 Museo Nazionale del Bargello Firenze, via del Proconsolo 4 Info tel. 055 2388606; museobargello@polomuseale. firenze.it; www.polomuseale.firenze.it

CARTA

2 Museo della Carta

e della Filigrana Fabriano (AN), largo Fratelli Spacca 2 Info tel. 0732 22334; [email protected]; www.museodellacarta.com 2 Museo della Carta Loc. Pietrabuona, Pescia (PT), piazza della Croce 1 Info tel. 0572 408020; [email protected]; www.museodellacarta.org

OCCHIALI

2 Fondazione Museo

dell’Occhiale Pieve di Cadore (BL), via Arsenale 15 Info tel. 0435 32953; [email protected]; www.museodellocchiale.it 2 Museo dell’Occhiale Agordo (BL), corso Patrioti 3 Info tel. 0437 62926; [email protected]; www.luxottica.com

BATTILORO

2 Museo Poldi Pezzoli Milano, via Manzoni 12 Info tel. 02 794889; [email protected]; www.museopoldipezzoli.it 2 Museo del Tessuto Prato, via Puccetti 3 Info tel. 0574 611503; [email protected]; www.museodeltessuto.it

VETRO

2 Museo del Vetro Murano (VE), fondamenta Giustinian 8 Info tel. 041 5274718; [email protected]; http://museovetro.visitmuve.it 2 Museo del Cristallo Colle di Val d’Elsa (SI), via dei Fossi 8/A Info tel. 0577 924135; [email protected]; www.cristallo.org 2 Museo dell’Arte Vetraria Altarese Altare (SV), piazza del Consolato 4 Info tel. 019 584734; [email protected]; www.museodelvetro.org 2 Museo del Vetro di Piegaro Piegaro (PG), via Garibaldi 20 Info tel. 075 8358525, cell. 3337907764; [email protected]; www.visitpiegaro.com

MADE IN ITALY

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CANALI E INDUSTRIE

ALLE ORIGINI DEL MADE IN ITALY

Presentazione

Chiare, dolci,

ricche acque Milano e il suo territorio poterono avvalersi di una rete idrografica, naturale e artificiale, straordinariamente ampia e capillare. Una risorsa decisiva per lo sviluppo di un distretto industriale fiorentissimo

Il Naviglio presso San Marco, Olio su tela di Angelo Inganni (1807-1880). 1830. Milano, Museo Civico. Pittore bresciano, Inganni fu, tra i vedutisti lombardi, quello che meglio rappresentò il fascino dei navigli milanesi agli inizi del XIX sec.

MADE INTITOLO ITALY

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MESTIERI

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I battiloro

in da epoche remote, l’acqua dei fiumi che giungevano ai margini di Milano (Seveso, Nirone, Lambro, Vepra) era stata convogliata in canali inizialmente concepiti soprattutto a scopo difensivo: il primo fossato di cui si abbia notizia risale all’epoca massimianea e ricalcava la cinta muraria romana. A partire dall’età comunale, e poi ancor piú nel periodo visconteo e sforzesco, la rete idrografica della città aumentò a dismisura, sia per esigenze difensive, sia, e soprattutto, per le necessità derivanti dal commercio e dal fiorire delle manifatture. Al fossato romano si aggiunsero dunque un secondo e poi un terzo anello, chiamati rispettivamente «fossato interno» e «Redefosso». Il fossato interno, cioè il tracciato che si usa designare attualmente come «cerchia dei navigli», scavato tra il 1155 e il 1157 per esigenze difensive, riempito due volte da Fe-

derico Barbarossa e ripristinato nel 1167, era probabilmente soltanto la prosecuzione di un canale che già includeva porta Vercellina e porta Ticinese, cominciato dal vescovo Ansperto nel IX secolo. Il Redefosso che cingeva la città su tre lati (esclusa la zona ovest) e il cui scavo fu intrapreso da Galeazzo I Visconti verso il 1323 e terminato verso il 1366, era destinato a inglobare i sobborghi ormai sviluppatisi ampiamente al di fuori del fossato medievale, dal quale distava 700 m circa; fu poi ricalcato dai bastioni cinquecenteschi (1548-60). Nel 1388, per consentire la comunicazione tra fossato interno e Redefosso era stato scavato il Navigium Novum, in funzione della costruzione del Duomo, i cui materiali, fino al 1387, venivano scaricati molto lontano dal cantiere – a porta Ticinese, presso il ponte delle Catene – e poi trasportati via terra su carri. Ai fossati si congiungevano i navigli, che

A sinistra la chiesa di S. Cristoforo sul Naviglio, che sorge lungo il percorso del Naviglio Grande, sulla via omonima. Le notizie sul tempio sono scarse, ma si sa con certezza che nel XIII sec. fu restaurato un precedente edificio romanico.

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MADE IN ITALY

In alto pianta prospettica della città di Milano tratta dal Civitates Orbis Terrarum, atlante in sei volumi, pubblicato a Colonia, tra il 1572 e il 1616, da Georg Braun e Frans Hogenberg.

consentivano i collegamenti con il Ticino e con l’Adda. Il Naviglio Grande metteva in comunicazione Milano e il Ticino, ed era innestato sul Redefosso, presso la darsena di porta Ticinese. Le notizie sulla sua origine sono controverse. Si sa comunque che nel 1157 fu costruito un canale lungo il confine milanese-pavese, tra Abbiategrasso e Landriano, che prese poi il nome di Naviglio di Gaggiano o Ticinello; si ignora se provenisse effettivamente dal Ticino, e anche se una parte di esso abbia costituito realmente il primo tratto del Naviglio Grande. Arrivava comunque in prossimità della chiesetta di S. Cristoforo, alla Barona. Nel 1239 fu scavata una derivazione verso il Ticino, all’al-

tezza di Turbigo, destinata a essere il ramo principale del Naviglio Grande, divenuto navigabile solo dal 1270.

La conca di Viarenna Nel 1439, ad aumentare le possibilità di navigazione all’interno della città, fu costruita a porta Ticinese la conca di Viarenna, che, situata sul Redefosso, serviva a superare piú velocemente il dislivello di 2,5 m circa esistente fra il Naviglio Grande – che giungeva fino al laghetto e darsena di S. Eustorgio – e il fossato interno, collegati fra loro dal Navigium Novum. La conca era costituita da due chiuse, poste a una certa distanza fra loro, le cui saracinesche, da sollevare MADE IN ITALY

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MESTIERIE INDUSTRIE CANALI I battiloro

Le vie d’acqua

DAL FOSSATO AI NAVIGLI

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Carta idrografica del territorio milanese, con il corso dei canali nel XII (1) e nel XIII sec. (2). Grazie alla ricchezza delle falde acquifere, già in età romana furono realizzati un fossato intorno alla città e un canale-acquedotto, la Vettabia, che sfociava nel Lambro. Dalla metà del XII sec., il fossato, ampliato e trasformato in un canale interno, divenne il raccoglitore di tutti i corsi d’acqua della zona. In seguito, a scopo difensivo e per portare in città l’acqua del Ticino, il Comune fece costruire altri canali. Il primo fu il Ticinello realizzato dal 1157, prolungato nel 1239 fino a Turbigo e, piú tardi, sino alla città di Milano, con il nome di Naviglio Grande.

Lodi

3. Il corso dei navigli nel 1457, anno in cui iniziarono i lavori per la realizzazione del Naviglio Martesana, alimentato con le acque dell’Adda sul tracciato del precedente canale del Castello di Milano. Durante il XV sec. divenne navigabile, grazie all’invenzione delle conche, anche il Bereguardo. 4. I navigli lombardi nel XVIII sec. In giallo il corso del futuro Naviglio Pavese, che univa Milano al Ticino attraverso Pavia. Completato solo agli inizi del XIX sec., fu realizzato sull’antico tracciato del canale del Castello Pavese (XIV sec.), noto come Navigliaccio e utilizzato come canale irriguo. 5. Tra il XIX e il XX sec., per motivi igienici, i tratti cittadini dei navigli vennero coperti. Nel 1860, per primo, venne prosciugato il laghetto di S. Stefano, il piú antico della città, situato nei pressi della cattedrale di Milano. L’opera fu completata piú tardi, tra il 1929 e il 1935.

a fasi alterne, permettevano di variare il livello dell’acqua nel bacino da esse racchiuso; fu realizzata per trasportare piú rapidamente il marmo di Candoglia, proveniente per via fluviale dal lago Maggiore, fino al laghetto di Santo Stefano, sul fossato interno, dove veniva scaricato. Nel 1448 si istituí un dazio per la manutenzione della Conca, concesso poi (1469) alla Fabbrica del Duomo, alla quale fu donato definitivamente da Ludovico il Moro.

Il collegamento con Pavia

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Intorno alla metà del Trecento, dopo che il Pavese era entrato a far parte dei loro domini, i Visconti cominciarono a nutrire interesse per una via d’acqua in grado di collegare Milano a Pavia: nel 1365 Bernabò Visconti fece scavare un primitivo fossato tra Milano e Binasco, che Gian Galeazzo, succedutogli, riuscí a trasformare in un approssimativo canale. L’idea di unire Milano a Pavia per via fluviale fu ripresa però in considerazione solo nella seconda metà del Quattrocento, dal figlio di Francesco Sforza, Galeazzo Maria, e dopo la morte di quest’ultimo, se ne occupò attivamente la sua consorte, Bona di Savoia. Alla metà del Cinquecento gli Spagnoli riuscirono a perfezionarne il primo tronco, che da porta Ticinese giungeva al Lambro meridionale: in questa occasione venne Lago di Como fatto erigere il «Trofeo» all’inizio del canale, poi demolito nel 1865. Nel 1773 Maria Teresa ordinò la prosecuzione del Naviglio Pavese, terminato poi solo nel 1818. Paderno L’ultimo naviglio, detto «della Martesana», destinato a colTrezzo legare Milano all’Adda nei sull’Adda Milano pressi del castello di Trezzo, Naviglio Martesana venne progettato già al tempo di Filippo Maria Visconti, ma fu iniziato solo nel 1460, sotto la direzione dell’ingegnere ducale Bertola da NoLodi vate. In città si gettava nel a Pavia Redefosso e quindi nel fossato interno, mettendo cosí in comunicazione fra loro quePo ste vie d’acqua anche nella zona nord della città. Quando, verso la fine del XV secolo, anche quest’ultimo canale fu terminato e reso navigabile, Milano era ormai diventata il fulcro di una rete fluviale che dall’Adda giungeva al Ticino e quindi al Po.

Almeno dal XIV secolo, dunque, Milano si trovava al centro di uno dei piú imponenti sistemi di vie d’acqua d’Europa, in grado di controllare nella sua totalità un’economia regionale. Tale risultato scaturiva da tre secoli durante i quali sia l’autorità comunale, sia i privati (laici ed ecclesiastici) si erano impegnati nello scavo di canali e nella deviazione del corso dei fiumi, integrando progressivamente un’ampia rete idrografica, che metteva in comunicazione tra loro, attraverso i navigli e i canali a essi collegati, l’Adda, il Lambro, il Ticino e il Po, consentendo cosí la navigazione fino all’Adriatico. Per un centro manifatturiero come Milano, l’acqua costituiva sicuramente l’elemento vitale dell’economia urbana, rappresentandone al tempo stesso però anche un «materiale politico». La gestione delle diverse utilizzazioni dell’acqua costrinse infatti l’autorità comunale, e poi quella signorile, a mettere in atto sistemi istituzionali di regolamentazione e di controllo. E il controllo dell’acqua fu senza dubbio uno dei fattori essenziali nella costruzione dello Stato regionale. La gestione delle reti di canali, alla quale venne associata quella delle strade e dei ponti, rappresentò un elemento fondamentale nelle storia della creazione delle magistrature deputate all’edilizia. Una storia animata da un doppio gioco di potere: l’estensione del controllo delle istituzioni comunali milanesi al resto del territorio, da un lato, e la sovrapposizione dell’autorità dello Stato signorile su tali istituzioni, dall’altro.

Strutture polivalenti Le vie d’acqua milanesi erano deputate a tre funzioni principali: la navigazione a fini commerciali, e in particolare il trasporto delle merci ingombranti e pesanti come i materiali da costruzione, il vino, i cereali, il materiale conciante; l’irrigazione di prati, frutteti e orti cittadini; l’alimentazione degli impianti industriali. A parte la molitura del grano, infatti, i mulini idraulici venivano utilizzati per gli scopi piú diversi: la lavorazione degli stracci da cui si otteneva la carta, la follatura dei panni di lana, la frantumazione dei ciottoli quarziferi da cui ottenere il vetro, la molatura e rifinitura delle armi, la lavorazione della polvere da sparo, la filatura della seta. Si trattava spesso di strutture polivalenti (in grado di svolgere magari con alcune mole la macinazione del grano, e con altre quella del vetro), o comunque facilmente adattabili e trasformabili a seconda della necessità e delle richieste del mercato. Una quarta funzione, marginale ma non del MADE IN ITALY

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MESTIERI

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D Per migliorare le possibilità di navigazione, i canali vennero disseminati di conche, come quella raffigurata nel disegno, che permettevano di superare i dislivelli nei corsi d’acqua. Nel XV sec. Ludovico il Moro, per potenziare la funzionalità della rete, impegnò anche il genio di Leonardo da Vinci. In quegli anni la rete raggiunse la sua estensione maggiore, superando i 150 km. 102

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Dida da scrivere, rinvenuto nel 1877 a 4 Decima di Gossolengo, nei pressi 1della città emiliana. Databile tra la seconda metà del II e gli inizi del I sec. a.C., è un modello in bronzo del fegato di una pecora sul quale sono definite caselle recanti i nomi delle5 divinità del pantheon etrusco. Simili modelli.

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Difesa e irrigazione 2

In epoca medievale, a Milano, il reticolo dei canali e dei navigli costituiva un elemento caratterizzante della forma urbana. Scavati con la doppia funzione di difesa e di irrigazione, i canali (1) che circondavano la città divennero, con la costruzione dei navigli di collegamento (2. Nirone; 3. Sevesotto; 4. Acqualonga; 5. Naviglietto di Porta Tosa; 6. Vettabia-Naviglio Grande; 7. Olona ai grandi fiumi), le principali vie di comunicazione per le merci in arrivo e in partenza da Milano.

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Nella foto in alto, a destra la prima conca di Milano, inizialmente detta «della Fabbrica» – in seguito «di Viarenna» –, realizzata fra il 1438 e il 1439 presso il laghetto di S. Eustorgio. A sinistra ricostruzione di una conca e del suo funzionamento. A. La conca era un bacino in muratura che permetteva ai natanti di passare da un tronco del canale a un altro posto a una differente altitudine. B. Le chiatte venivano trainate in genere da animali, ma non era raro vedere tirare questi battelli da uomini. C. Le porte della chiusa venivano aperte per permettere alle chiatte di entrare nella chiusa stessa e attendere il travaso dell’acqua. D. Per controllare il deflusso delle acque, le porte della chiusa erano dotate di paratoie, che potevano essere alzate con un meccanismo fisso o semplicemente sganciate con un uncino.

tutto trascurabile, era la pesca, il cui esercizio dava origine, tra l’altro, a un indotto di piccole attività che costellavano le rive, vivacizzandole (vedi alle pp. 124-127). Queste molteplici utilizzazioni scatenavano continui conflitti per i diritti d’uso dell’acqua, la cui regolamentazione rivestiva un’importanza fondamentale, sia per l’approvvigionamento della città, sia per l’alimentazione dei suoi impianti industriali.

Il commercio lungo i navigli «Sapendo vuy il nostro grande desiderio essere che omnino presto se adapta dicto navilio in modo chel sia navigabile per lo grande benefitio de questa nostra inclita cita de Mediolano, pertanto vogliamo che posponendo ogni altra cosa ve trasferati sul dicto navilio» effettuando i debiti controlli, in modo che «comodamente se possi navegar dicto navilio quale e facto principaliter a questo effecto»: cosí, nel 1492, il duca di Milano Ludovico il Moro si rivolgeva ai maestri delle entrate (la magistratura preposta alle questioni di carattere finanziario) per ordinare loro un controllo e una revisione delle derivazioni di acqua dal Naviglio Grande (assai spesso abusive). Il problema era infatti alquanto grave e antico: già nel 1427 Filippo Maria Visconti aveva potuto constatare di persona la difficile navigabilità del canale per la mancanza d’acqua, e aveva incaricato gli ufficiali preposti al settore di verificarne tutte le derivazioni e denunciare gli abusi. Anche Francesco Sforza, nel 1458, aveva indicato come fondamentale la funzione svolta dal Naviglio Grande nel trasporto in città del mateMADE IN ITALY

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riale da costruzione necessario al castello, ritenendo perciò indispensabile la sua buona manutenzione, e il cronista Bernardino Corio sosteneva che i primi canali urbani scavati nel XII secolo erano finalizzati ad agevolare la navigazione (sebbene la loro funzione originaria dovesse essere in realtà quella difensiva, sopravanzata però, già nel XIII secolo, dall’utilizzazione mercantile). Il commercio costituiva dunque senz’altro uno degli scopi principali dello scavo dei navigli, il cui tracciato, proprio nel Quattrocento, fu esteso con l’intento di collegare tra loro le principali vie d’acqua lombarde, facendole convergere sul fulcro radiocentrico di Milano, i cui fossati interni cittadini avrebbero a loro volta consentito il collegamento completo di un sistema di vie

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A destra lapide commemorativa dell’inizio dei lavori per la costruzione del Duomo. 1386. Il marmo utilizzato giunse in città attraverso il Ticinello, su enormi barconi provenienti da Candoglia, sulle sponde del lago Maggiore.

A sinistra la facciata del Duomo di Milano. La sua costruzione ebbe inizio nel 1386, per volere di Gian Galeazzo Visconti. Il duca intendeva cosí rinnovare, con un imponente piano edilizio, i siti di culto nel cuore di Milano e celebrare la signoria viscontea e la sua ambiziosa politica espansionistica.

d’acqua che, dal lago Maggiore, attraverso il Ticino e il naviglio Grande, giungeva a Milano e da qui si spingeva fino all’Adda attraverso il Naviglio della Martesana. Nel XV secolo anche i fossati interni cittadini, venuta ormai meno la loro primitiva funzione di barriera difensiva, si trasformarono definitivamente in spazi economici funzionali a una domanda di materiali da costruzione, che, iniziata alla fine del Trecento con l’allestimento del cantiere del Duomo, era cresciuta in misura esponenziale verso la metà del secolo successivo per l’inizio della costruzione del castello e dell’Ospedale Maggiore (1456), e, in seguito, anche di numerose importanti chiese (S. Satiro, S. Maria delle Grazie, S. Maria Incoronata, S. Celso).

Gli interventi della Fabbrica La fornitura dei materiali da costruzione ai cantieri cittadini imponeva un controllo territoriale su larga scala, che esigeva innanzitutto la gestione dei canali urbani ed extraurbani, gestione di cui si rese protagonista in primo luogo la Fabbrica del Duomo, che, sin dalla fine del Trecento, aveva avviato interventi considerevoli per mantenere stabile il livello dell’acqua e consentire la navigazione. A tale scopo, in accordo con il duca e con la collaborazione forzata delle comunità rivierasche, aveva intrapreso la sistemazione del Ticino e del Naviglio Grande, con la creazione di chiuse, l’eliminazione delle rocce pericolose, il drenaggio sistematico del fango apportato dai torrenti alpini. Nel 1388 ancora la Fabbrica della MADE IN ITALY

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Cattedrale aveva fatto scavare a proprie spese il già citato Navigium Novum, e, nel 1438, si fece anche carico della costruzione della Conca di Viarenna, che avrebbe permesso di stabilizzare il livello dell’acqua del Navigium Novum. A partire dalla fine del Trecento, dunque, il cantiere della cattedrale fu sicuramente il maggiore utilizzatore delle vie d’acqua urbane ed extraurbane e il principale artefice della manutenzione dei canali cittadini, tanto che, nei primi anni del Quattrocento, la Fabbrica veniva considerata alla stregua di un’autorità pubblica garante della buona gestione delle acque, e, nel 1408, il duca le affidò l’incarico delle riparazioni e della manutenzione del Naviglio, in quanto l’incuria dell’appaltatore ne aveva provocato il deterioramento in piú punti, rendendo difficile la navigazione. In seguito, per tutto il Quattrocento, la Fabbrica – divenuta potenza economica di primaria importanza, e detentrice del controllo di un sistema produttivo che oltrepassava ormai le necessità della Cattedrale, nonché dell’utilizzazione pressoché esclusiva delle vie d’acqua e delle infrastrutture che permettevano il trasporto fino a Milano – rimase la principale fornitrice di marmo ai piú importanti edifici religiosi e civili cittadini, e si rese costantemente protagonista di molteplici controversie dovute al continuo timore di non riuscire ad approvvigionare i cantieri. Le liti vennero spesso risolte con un’utilizzazione alternata delle acque: nelle vigilie e nei giorni festivi per l’irrigazione e durante la settimana per la navigazione e gli impianti «industriali», come prescritto dagli Statuti di Milano. Nella seconda metà del Quattrocento, quando il fervore edi-

lizio promosso dalla dinastia sforzesca diede vita alle principali opere pubbliche cittadine (furono iniziati in questo periodo il Castello Sforzesco [1450], l’Ospedale Maggiore [1456], S. Maria delle Grazie [1463]), la navigabilità dei canali urbani ed extraurbani rappresentò una preoccupazione costante per gli ufficiali preposti all’organizzazione dei cantieri.

Provvedimenti d’urgenza Infatti, la contemporanea esplosione delle attività manifatturiere, che trovavano nell’energia idraulica il loro punto di forza, con la conseguente tendenza da parte di molteplici utilizzatori a deviare le acque dei canali soprattutto cittadini per gli scopi piú vari (l’alimentazione dei mulini innanzitutto, ma anche l’irrigazione dei prati e dei frutteti), ostacolava non poco i trasporti per via fluviale, soprattutto nei periodi di siccità. Era talvolta necessario ricorrere a veri e propri atti di forza, come quello effettuato dal commissario ai lavori du-

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cali Bartolomeo Gadio che, nell’agosto 1460, dopo aver ordinato la chiusura di tutte le bocche di derivazione dal Naviglio, in modo da ottenere il volume d’acqua sufficiente al trasporto dei materiali per il castello, fu costretto a disporre una speciale sorveglianza e ad arrestare alcuni contravventori. La fornitura dei materiali da costruzione destinati alle grandi opere pubbliche cittadine (in primo luogo il castello e l’Ospedale Maggiore) era demandata a un’organizzazione verticistica di mercanti che aveva

il suo fulcro nell’appaltatore, il quale, dopo aver ottenuto l’incarico in esclusiva dalla camera ducale, entrava in società con numerosi altri imprenditori specializzati, capaci di controllare tutto il processo produttivo, dalla gestione della fornace (tramite dipendenti o mediante la commissione del lavoro ad artigiani autonomi) al trasporto dei materiali in città. Almeno cinque diverse categorie di persone erano impegnate nel settore: i mercanti di laterizi, i gestori e i salariati delle fornaci, i mercanti di legname (che provvedevano al taglio del

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Un nosocomio «moderno» 2

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L’Ospedale Maggiore (o Ca’ Granda), costruito nel 1456 su progetto del Filarete (al secolo Antonio Averlino) e ultimato nel Settecento, è una struttura a quattro bracci, che formano una crociera (1), al centro della quale era collocato un altare per la messa (2): tre bracci ospitavano gli uomini e il quarto le donne. Nel sottocrociera si trovavano i magazzini (canove), le stalle e altre pertinenze, come lavanderie, macello 5 e panetteria. Alla facciata principale si accedeva dall’ampia scala «del mercato vecchio» (3). I portici (4) – in seguito tamponati da muri, per ricavare altre corsie – cingevano la struttura, tranne che per il lato sul naviglio. Nell’alto basamento (5) trovavano posto botteghe e magazzini. Porticati erano anche i cortili (6), tutti forniti di pozzi. Sul lato est dell’ospedale c’era il «laghetto» (7), dove approdavano i barconi che, dal lago Maggiore, portavano i blocchi per la costruzione del Duomo. Tra ospedale e laghetto sono qui ricostruiti solo alcuni edifici (8), sulla base di mappe realizzate tra il XVI e il XVII sec., ma, in realtà, la distanza era maggiore.

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I battiloro bosco e al trasporto), i navaroli (addetti al trasporto), e gli scaricatori, che potevano fungere anche da mediatori. Il mercante di laterizi era la figura chiave dell’intero sistema: fungeva infatti da coordinatore e da tramite tra la domanda di materiale da costruzione, costituita in modo massiccio dalle commissioni ducali, e la produzione. Era lui a occuparsi, in primo luogo, di ottenere dall’autorità pubblica l’appalto per la fornitura dei mattoni necessari alla costruzione di un determinato edificio; quindi di procurarsi i soci, d’opera e di capitale, con i quali dividere sia l’organizzazione del lavoro, sia l’anticipo del denaro con cui pagare i fornaciari, i navaroli, e soprattutto il legname; in terzo luogo, di prendere in affitto una o piú fornaci, assumendo lavoranti a cottimo, oppure di commissionare la produzione a gestori autonomi; poi di procurare la legna da ardere agli impianti che controllava direttamente; infine, di provvedere alla stipula di accordi con i navaroli per il trasporto della legna alle fornaci e per quello dei laterizi dal luogo di produzione a quello di utilizzazione.

L’organizzazione delle fornaci Due modelli diversi regolavano il lavoro nelle fornaci: la gestione diretta attraverso un imprenditore autonomo, oppure la produzione programmata dal mercante proprietario mediante la stipula di patti con lavoranti, spesso indebitati con lui, ai quali sarebbero stati forniti gli utensili, l’argilla (raccolta nei terreni circostanti), e, soprattutto, la legna per la cottura del materiale edilizio. A questi salariati, solitamente incaricati di fabbricare un numero di pezzi ben determinato, veniva corrisposta una somma diversa per ogni tipo di laterizio, equivalente alla retribuzione a cottimo della sola manodopera, in quanto utensili, materia prima e legname venivano forniti dal mercante. I gestori autonomi, invece, prendevano personalmente in affitto l’impianto e acquistavano gli utensili e la legna. Ancora una volta, il collegamento con la domanda era costituito dal mercante che comperava dai fornaciai parte del materiale destinato alle opere pubbliche; il compenso corrisposto in questo caso al conduttore della fornace equivaleva al costo reale dei laterizi (manodopera + costo legna + ammortamento dei costi di affitto) escluso il trasporto, che veniva effettuato dai navaroli pagati dal mercante. Talvolta i gestori autonomi effettuavano anche il commercio della legna rivendendo quella acquistata in sovrappiú. La condizione di chi aveva in gestione una for108

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nace era dunque molto diversa da un caso all’altro, a seconda della maggiore o minore dipendenza dal mercante, un rapporto a sua volta strettamente collegato alla disponibilità di capitale proveniente da altre attività connesse alla produzione di laterizi, e, soprattutto, da quella del trasporto per via fluviale. Tra i proprietari e conduttori di molti impianti figuravano, per esempio, trasportatori e mercanti di legname Gli impianti erano ubicati lontano dai centri abitati e in prossimità di importanti vie fluviali: quelli per la calce, che necessitava di un tipo di terra particolare, reperibile in Lombardia prevalentemente nella zona del lago Maggiore e lungo il corso del fiume Adda, erano disseminati lungo le rive del lago Maggiore, a Pallanza, Angera e Arona, mentre le fornaci per la cottura dei mattoni si trovavano lungo il Naviglio Grande (soprattutto nei pressi di Cusago, Vermezzo e Abbiategrasso), e a Vigevano, lungo il corso del Ticino, in prossimità dei boschi dai quali proveniva in buona parte la legna da ardere, che la produzione edilizia avviatasi nella seconda metà del XV secolo divorava in quantitativi enormi. L’accordo del 1464 tra la Camera ducale e il mercante che aveva ottenuto l’appalto per la fornitura del materiale da costruzione per il Castello Sforzesco, prevedeva che per i quattro milioni di laterizi a esso destinati fossero utilizzate dodici delle fornaci situate lungo il Naviglio Grande. E ancora negli impianti lungo il Naviglio Grande, in particolare nel territorio di Abbiategrasso e di Vermezzo, in prossimità dei boschi della Valle del Ticino, facevano cuocere il materiale da costruzione i principali imprenditori del settore.

Le «soste» Tutti i principali edifici pubblici cittadini in costruzione disponevano di una loro «sosta» lungo il naviglio o uno dei fossati interni, dove venivano scaricati e custoditi il materiale edilizio, il legname e tutto ciò che necessitava al cantiere. Si trattava di stabilimenti commerciali composti da magazzini e portici, affacciati sul canale, con una banchina privata. Disponevano di una sosta il castello e l’Ospe-

Nella pagina accanto uno scorcio del cortile porticato della Ca’ Granda (già Ospedale Maggiore), oggi sede dell’Università di Milano. In basso uno dei busti ad altorilievo che ornano il cortile della Ca’ Granda, scolpito da Giovanni Antonio Amadeo. 1485.

dale Maggiore, per la cui costruzione erano state allestite anche tre fornaci in loco, mentre i principali mercanti di legname e laterizi, gestivano numerose soste di loro proprietà. I documenti sembrerebbero fare una distinzione tra le soste vere e proprie e gli spazi per il deposito della legna, anch’essi situati accanto al naviglio o a un corso d’acqua, ma destinati allo scopo specifico di immagazzinare e soprattutto di custodire il legname, fatto di non poca importanza in anni in cui la domanda di questo materiale era fortissima, sia per l’edilizia, sia per il riscaldamento domestico e per le fornaci, che in un momento di intenso fervore edilizio come il secondo Quattrocento ne consumavano quantitativi enormi. A differenza delle soste «normali», i depositi per la legna erano piú estesi e dotati talora di strutture (cassine) in cui mettere sotto chiave il materiale, o comunque ubicati in posizioni particolarmente protette in quanto circondate da depositi o soste di altri mercanti, o confinanti con le mura cittadine, e naturalmente con l’acqua del Naviglio o della Darsena. In questi spazi poteva svolgersi anche la vendita diretta del legname o dei laterizi. Se il legname era prezioso, lo era ancor di piú la galla, materiale largamente utilizzato dai conciapelle che, dato il suo valore, veniva scaricata presso un magazzino apposito, del quale solo gli abati della corporazione dei confettori avevano le chiavi. L’autorizzazione a realizzare soste lungo i corsi d’acqua era di competenza del duca, sia in quanto proprietario degli spazi che davano sui fossati, sia perché spesso queste strutture confinavano con le mura cittadine che potevano essere danneggiate da eventuali lavori per consentire l’accesso. Ciononostante, l’apertura di passaggi (pusterle) nella cinta muraria per le necessità delle soste, divenne pratica comune e sempre piú diffusa negli ultimi decenni del Quattrocento, tanto da provocarne un progressivo logorio e da accelerarne il degrado. Completavano il paesaggio degli impianti comMADE IN ITALY

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Pavia, S. Teodoro. L’affresco di Bernardino Lanzani che raffigura la città lombarda in età medievale. XVI sec. Sulla sinistra, si riconosce il ponte coperto sul Ticino, a sei arcate.

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merciali lungo i navigli nel tratto cittadino le alzaie, larghi moli sui quali potevano approdare le mercanzie; le ripe, perpendicolari ai moli, che scendevano tramite scalini a pelo d’acqua, consentendo l’accesso alle alzaie; e i terraggi, che completavano il collegamento tra il canale munito di banchine e il tessuto urbano.

Navi e «navaroli» Già nell’ultimo decennio del Trecento la Fabbrica del Duomo aveva organizzato il trasporto del marmo dalle cave di Candoglia, sul lago Mag110

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giore, attraverso il Ticino e il Naviglio Grande, affidandosi a battellieri specializzati che caricavano i blocchi già squadrati su chiatte, servendosi di pulegge messe a disposizione dalla Fabbrica stessa. I responsabili del cantiere della Cattedrale si rivolsero inizialmente a fornitori occasionali, mentre, dal novembre del 1391, affidarono in esclusiva il trasporto a Pietro Polli, proprietario di una flottiglia di chiatte e in grado di farle caricare e scaricare a proprie spese e di garantire col proprio patrimonio i rischi dovuti a eventuali naufragi.

Anche nel XV secolo il trasporto per via fluviale veniva effettuato da operatori specializzati, i «navaroli», che lavoravano su commissione dei mercanti, coadiuvati da dipendenti, e servendosi di barconi di varia lunghezza, che avevano spesso acquistato per somme considerevoli, di solito senza contrarre debiti. La grandezza e il valore della navis variavano a seconda del percorso a cui era destinata: le «naves magne apte pro navigando in Ticino» erano le piú resistenti, lunghe e costose, e dovevano compiere tutto il tragitto che dal lago Maggiore, attraverso il Ticino e il Naviglio Grande, giungeva a Milano. Per le navete e le naves comuni, invece, la navigazione, esplicitamente vietata nel Ticino, veniva concessa solo nel Naviglio Grande e in quello di Pavia. I navaroli di solito acquistavano il barcone, o lo prendevano in affitto, impegnandosi talvolta a pagarne una parte trasportando merce per il venditore. In qualche caso, però, quando avevano la necessità di utilizzare due barconi contemporaneamente, si associavano fra loro, o prendevano le naves a nolo, pagando per ogni viaggio una tariffa variabile a seconda del percorso.

Un investimento comune e redditizio Il fatto che un buon numero di questi operatori fosse in grado di impegnare somme comprese fra le 60 e le 220 lire per l’acquisto dei barconi ne lascia intuire un’ottima condizione economica, derivante dalla possibilità di ottenere guadagni elevati. Molti di loro, probabilmente proprietari di piú chiatte, davano in locazione quelle che non utilizzavano direttamente. L’acquisto di un barcone per affittarlo doveva essere, del resto, un investimento piuttosto comune e redditizio anche per chi aveva a disposizione capitali derivanti da altre attività: tra i locatori figuravano infatti, accanto ai navaroli stessi e ai mercanti di legname e laterizi, anche notai, armaioli e confettori. Un’ulteriore conferma dell’ottima posizione raggiunta da molti di coloro che effettuavano il trasporto del materiale da costruzione per via fluviale è un documento riguardante l’accordo, in forma privata, tra venti navaroli della parrocchia di S. Lorenzo Maggiore a porta Ticinese (il principale quartiere lungo il Naviglio), che, nel 1453, si impegnarono a non trasportare legname e laterizi per alcun mercante a prezzi inferiori a quelli da loro stabiliti con l’accordo in questione, e a non lavorare per alcun mercante che avesse debiti con uno qualsiasi di loro. Nei documenti notarili mila-

nesi della seconda metà del Quattrocento, patti di questo genere, che contrappongono al ceto mercantile determinati gruppi di lavoratori, ricorrono per quegli artigiani che, per la disponibilità di capitali, l’esiguità numerica, o il notevole grado di specializzazione, erano dotati di una forza contrattuale sufficiente a imporre le proprie condizioni ai mercanti. È probabile, dunque, che molti dei navaroli di porta Ticinese avessero raggiunto uno status sociale elevato e cercassero perciò di consolidare la propria posizione sia nei confronti dei mercanti di legname tradizionali, sia nei confronti dei mercanti di laterizi. Non sembra però che le tariffe per il trasporto, imposte con l’accordo del 1453, siano state poi effettivamente praticate neppure dai navaroli che vi avevano aderito. I trasportatori per via fluviale non si occupavano soltanto dei materiali da costruzione, sebbene questa fosse sicuramente la loro attività principale, ma effettuavano anche carichi di fieno, di vino, e di galla. Il carico e lo scarico dei barconi era di competenza del mercante che, a tale scopo, assumeva, con accordi orali, lavoranti a giornata che trovava nel luogo di produzione del materiale e in città. A questa categoria di scaricatori, le cui tracce sono pressoché inesistenti, fa riferimento soltanto una società costituita nel 1468 tra sette individui che si impegnarono per due anni a proporsi per lo scarico dei barconi, o come mediatori per la vendita della legna, dividendo guadagni e perdite. I soci avrebbero nominato uno di loro priore, con la facoltà di impartire ordini agli altri per un mese. In caso di infermità superiore a una settimana, il socio ammalato non avrebbe partecipato alla divisione dei guadagni. Ciascuno degli aderenti all’accordo, infine, era tenuto a presentarsi ogni giorno davanti al priore, presso il ponte di porta Ticinese o quello di Viarenna, per poter essere ingaggiato. Chi non si fosse presentato non avrebbe percepito alcun compenso per quel giorno. Si trattava dunque di un primo tentativo di organizzazione di un gruppo di braccianti giornalieri che sostavano ordinariamente nei due punti principali del Naviglio Grande in città (il ponte di porta Ticinese e la conca di Viarenna), aspettando di essere reclutati da qualche mercante per lo scarico di un barcone e per fare da mediatori per lo smercio del legname con gli acquirenti. Nel 1477 una società formata in parte dalle medesime persone, designate questa volta soltanto come mediatori, ottenne il riconoscimento ducale. MADE IN ITALY

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QUANDO GIRANO LE RUOTE... G

ualchiere, cartiere, mulini per la rifinitura delle armi e la lavorazione delle pietre dure, seghe e mulini da seta idraulici in cui potessero lavorare per «far bindelli» fino a 100 donne: questo era il paesaggio industriale che Leonardo vagheggiava per l’Arno nell’ultimo decennio del Quattrocento, nel concepire un grandioso progetto per la risistemazione dell’alveo del fiume, la cui conformazione geologica causava costantemente piene e alluvioni. È probabile, come suggerirebbe l’espressione tipicamente lombarda utilizzata per designare i nastri (bindelli), che avesse in mente proprio il paesaggio dei navigli di Milano, città nella quale doveva aver elaborato la prima parte del progetto e messo a punto il sistema delle conche «doppie», di fondamentale importanza per il superamento di dislivelli particolarmente accentuati e, di conseguenza, per la navigazione. Questo appunto era il paesaggio industriale di Milano, quale emerge dai documenti notarili quattrocenteschi e da un inventario dei mulini sul Naviglio Grande, Ticino e Ticinello redatto nel 1561, che, elencando i 198 impianti presenti allora su tali corsi d’acqua, rivela chiaramente come i complessi di maggior valore produttivo, cioè traversere (per la rifinitura delle armi), gualchiere, peste da vetro, e un buon numero di cartiere, fossero situati in città o nelle immediate adiacenze. In ambito extraurbano si trovava112

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Xilografia settecentesca raffigurante l’interno di una cartiera. L’ampia disponibilità di corsi d’acqua favorí la diffusione di questo genere di impianti produttivi nell’area milanese e, piú in generale, lombarda.

no invece la maggior parte dei mulini da grano, molte peste da riso e qualche cartiera. Ancora in città erano concentrate le concerie, quasi esclusivamente a porta Ticinese lungo il fiume Vetra, e le tintorie. Sempre in città, infine, ben protetto in una delle torri della cinta muraria, era collocato l’unico mulino da seta a energia idraulica esistente a Milano nel XV secolo, costruito dall’ingegnere ducale Antonio Brivio (che ne era anche il proprietario e, per un certo periodo, il gestore) sul fossato nelle vicinanze di porta Nuova, e che funzionò mosso dalla corrente del Redefosso soltanto tra il 1462 e il 1473.

Un assetto di antica data La sistemazione in ambito cittadino degli impianti che richiedevano elevati investimenti di capitali (non solo mulini, ma anche concerie e soprattutto tintorie), rilevabile dall’inventario del 1561, era in realtà di antica data: già nella prima metà del Trecento, i complessi industriali si susseguivano fittissimi nelle medesime zone, e in particolare a sud della città, nell’area di porta Ticinese (dove il Naviglio Grande, mediante la Darsena, confluiva nel Redefosso), al punto che Azzone Visconti, proprio con l’intento di proteggere fisicamente e amministrativamente i mulini, aveva provveduto ad allargare la cinta difensiva fino a comprendervi il borgo di Sant’Eustorgio. Un’idea dell’entità dei capitali che ruotavano intorno ai complessi industriali situati in ambito cittadino può essere fornita dal giro d’affari che interessò, per tutta la seconda metà del Quattrocento almeno, una tintoria sul fossato di porta Cumana, accanto alla chiesa di S. Marco. Si trattava di un grande edificio, con svariate camere e portici, alcuni dei quali affrescati, due magazzini (di cui uno per il guado) e un grande locale per la tintoria. Gli imprenditori che gestivano l’impianto – il principale dei quali si era assunto l’incarico di tingere i drappi di lana destinati al duca e ai dignitari di corte in occasione della visita a Firenze del 1471, per un importo di ben 250 000 £, utilizzando tinture del valore di 125 000 £ – avevano diviso l’immobile in ben 90 quote, ripartite tra numerosi soci. Naturalmente esistevano anche complessi molto piú modesti, privi di grandi costruzioni e il cui valore era costituito soprattutto dalle materie prime. Di questo genere era l’impianto per la tintura in nero del fustagno, situato nel 1477 sul fossato di porta Vercellina, e che non disponeva di alcuna struttura, salvo un deposito coperto lungo il fossato, in cui il proprietario svolgeva anche il commercio della legna, destinandone MADE IN ITALY

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parte alle esigenze della tintoria. Ai due soci d’opera veniva consentito di utilizzare l’acqua del fossato cittadino per svolgere l’attività e di stendere nello spazio adiacente il deposito le pezze di fustagno ad asciugare. Di dimensioni modeste, sebbene destinato alla tintura della seta, era anche l’impianto situato nella parrocchia di S. Pietro in Caminadella a porta Ticinese, per il quale, nel 1483, venne stipulata una società con un investimento contante di appena 350 £. Il capitale maggiore in questo caso doveva essere costituito dall’insegnamento della tintura serica (e in particolare di quella col «violetto», il cui procedimento era tenuto segreto), impartito dal socio d’opera (proveniente da Arquata Scrivia dove la filatura serica e la tintura erano fiorenti) al figlio del socio di capitale.

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Un mulino per lavorare i metalli 2

Nel tardo Medioevo, lungo la rete dei canali milanesi, sorgevano diversi mulini per la lavorazione dei metalli, nell’area in cui dove ancora oggi esiste una via che ne ricorda la presenza (via Molino delle Armi). Il disegno mostra le varie parti di questi impianti: 1. presa: sorta di diga in muratura che alimenta le canalette di trasporto dell’acqua verso le ruote; 2. paratoie in legno; 3. canaletta o roggia, per la caduta dell’acqua; 4. ruota, detta «a palette per di sotto»; 5. albero di trazione, che trasmette il movimento agli ingranaggi; 6. corone: innestate nell’albero, sono la base di appoggio delle pale; 7. magli: grossi martelli con il manico formato da una trave di legno e la testa in ferro, venivano sollevati da una canna dell’albero motore ed erano utilizzati per modellare, punzonare o tagliare le lastre di metallo. Il movimento rotatorio (8) impresso dalla ruota del mulino serviva anche per muovere grandi mole su cui venivano affilate le armi o smerigliati i metalli.

Un giro vorticoso di capitali Un fitto susseguirsi di concerie e di attrezzature per stendere ad asciugare il cuoio appena conciato (con un altissimo impatto inquinante), costellava invece le sponde del fiume Vetra nella parrocchie di S. Lorenzo Maggiore e in quelle confinanti di S. Pietro in Campo Lodigiano e S. Michele alla Chiusa. Un giro di capitali notevole doveva interessare anche questi impianti, sia per il costo della struttura, sia, soprattutto, per la necessità di avere sempre a disposizione un’ingente quantità di denaro in contanti per potersi assicurare il rifornimento continuo di materiale conciante (la cui spartizione venne assoggettata a rigide norme stabilite dalla corporazione solo a partire dal 1491) e di cuoio. Per quest’ultimo gli imprenditori del settore stipulavano contratti di fornitura con i macellai cittadini, oppure cercavano di assicurarsi quello d’importazione, che aveva però prezzi molto piú elevati, e la cui distribuzione, in quantità limitate, veniva curata direttamente dalla corporazione. Per garantirsi una costante liquidità gli operatori del settore investivano anche in altre attività, spesso in qualche modo collegate alla principale. Nel 1455, uno dei piú importanti confettori di Milano, proprietario di due strutture a porta Ticinese lungo la Vetra, ottenne dalla Fabbrica del Duomo l’appalto del dazio della conca di Viarenna, che oltre a garantirgli un flusso di denaro continuo, doveva procurargli probabilmente anche notevoli vantaggi nell’accaparramento in anteprima del materiale conciante che giungeva a Milano proprio attraverso il naviglio. 114

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LEONARDO E I CORSI D’ACQUA La prima conca doppia costruita in Italia fu quella di Viarenna, ideata nel 1439 dall’ingegnere bolognese Fioravante Fioravanti, padre di quell’Aristotele Fioravanti che fu a lungo al servizio degli Sforza. Leonardo da Vinci perfezionò il sistema delle conche doppie per migliorare la navigazione sull’Adda, il cui bacino presenta caratteristiche morfologiche (dislivelli frequenti, corso ricco di anse) piuttosto simili a quelle dell’Arno. Per rendere navigabile il tratto piú difficile del fiume, quello compreso tra Brivio e Trezzo, lo scienziato toscano aveva concepito un progetto simile a quello per la rettificazione di uno dei tratti piú pericolosi dell’Arno, mediante un canale parallelo al fiume, a doppia pendenza, in quanto dotato di doppia chiusa, che consentiva di superare il notevole dislivello, e di evitare alla navi l’impeto della corrente. La buona navigazione dell’Adda si era fatta ancor piú impellente nella seconda metà del XV secolo, dal momento che il corso d’acqua costituiva il naturale complemento del canale della Martesana, realizzato tra il 1457 e il 1465 per completare verso nord il sistema dei navigli milanesi.

Un altro impianto di grande valore, situato sul naviglio della Martesana presso la chiesa di S. Marco, era uno dei complessi per la rifinitura delle armi dei Missaglia, costato, nel 1469, oltre 1000 scudi (circa 5000 £).

Imprenditoria laica Sebbene i mulini appartenessero per la maggior parte a enti ecclesiatici, nel Quattrocento sembrerebbe decisamente prevalere l’elemento imprenditoriale laico, che ne otteneva la locazione perpetua e li gestiva nel modo piú consono alle esigenze del mercato. Le folle da carta e quelle da lana, per esempio, erano in genere affiancate da impianti molitori, che venivano ampliati o ridotti a seconda della necessità. Tale era la gualchiera dei Cesati, imprenditori lanieri, situata nella parrocchia di S. Lorenzo Maggiore fuori porta Ticinese, su di una roggia derivante dal Lambro, dotata di due folle per drappi e una mola per il grano. Simile struttura aveva un’altra gualchiera ubicata sempre a porta Ticinese, nelle cascine della Barona, sulla roggia del Restocchino, composta da un mulino da grano con tre mole 116

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Il foglio 911 recto del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci: contenente gli appunti per una lettera di lagnanze e il disegno dello sbarramento dell’Adda in località Tre Corni (corso dell’Adda con la pianta della diga munita di paratoia). 1478-1519. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

e da due ruote per la follatura dei panni. La relativamente semplice adattabilità di questi impianti permetteva ai gestori di trasformarli velocemente, a seconda del mutare della congiuntura economica, in complessi molitori o in qualsiasi altra tipologia richiedesse la situazione del momento. Esempio di tale fenomeno fu il mulino in rovina affittato dai canonici di S. Nazaro in Brolo, nel 1446, all’imprenditore Cristoforo Alciati che si impegnò a ripararlo a proprie spese trasformandolo in gualchiera o in complesso per la rifinitura delle armi (traversera), o in qualsiasi altro tipo di impianto fosse possibile realizzare. Allo stesso modo, nel 1469, Galeazzo Maria Sforza donò all’armaiolo ducale Antonio Missaglia un mulino da grano dotato di tre paia di mole situato a porta Comasina sulla Martesana, vicino alla chiesa di S. Angelo, con il diritto di costruire un maglio e una traversera tra la chiesa di S. Marco e le mura della città, nel tratto in cui l’acqua del Naviglio della Martesana si congiungeva a quello del fossato cittadino. A continue trasformazioni andò incontro, nella seconda metà del Quattrocento, il mulino per triturare i ciottoli quarziferi del Ticino di cui si serviva l’imprenditore vetrario Giovanni da Montaione (vedi anche il capitolo alle pp. 78-89), situato nella parrocchia di S. Lorenzo Maggiore fuori porta Ticinese, sul Lambro, e di proprietà di un maestro traversatore. Si trattava, in realtà,

Anche per quanto riguarda l’Arno, Leonardo da Vinci vagheggiava una generale e razionale sistemazione dell’alveo del fiume, proponendosi di «dirizzar l’Arno di sotto e di sopra» per rendere agevole la navigazione. Aveva calcolato i costi del progetto, (4 denari milanesi il braccio quadrato), i possibili introiti (200 000 ducati annui) e i benefici: utilità per l’agricoltura ed eliminazione delle paludi con ambiente piú salubre (e la salubrità dell’ambiente era uno degli scopi che si era prefissato anche nel suo progetto urbanistico per Milano), vantaggi per il commercio e le manifatture. Sempre secondo gli intendimenti di Leonardo, il progetto avrebbe dovuto essere patrocinato dall’Arte della Lana, cioè la piú ricca e potente tra le corporazioni fiorentine, in grado, piú di ogni altra, di comprendere e valutare l’importanza economica dell’idea vinciana; in cambio i lanaioli avrebbero riscosso le entrate derivanti dall’operazione («L’arte della lana facci il navilio et piglisi l’entrata»). Il disegno di Leonardo non venne però attuato, forse per l’assenza da parte del Comune fiorentino di progetti generali preordinati di sistemazione dell’alveo del fiume nelle campagne.

di un complesso per la rifinitura delle armature, in seguito adibito in parte alla lavorazione dei materiali necessari alla produzione del vetro, e in parte a mulino da grano. Dopo aver ottenuto dal proprietario la facoltà di sistemarvi l’attrezzatura di cui aveva bisogno, il da Montaione prese a subaffittare il complesso a mugnai che si impegnavano a triturare anche pietre, terra o allume da lui forniti e in esclusiva per lui.

Una nuova trasformazione Il mulino, che nel 1466 era dotato di tre macine per il grano e di una per le materie prime da cui ottenere il vetro, venne successivamente ampliato, portando a quattro le mole da grano (oltre a quella da vetro). Contemporaneamente, iniziò una sua nuova, parziale trasformazione: nel 1487, infatti, affittando l’impianto molitorio, gli eredi del da Montaione prevedevano che il nuovo gestore potesse modificarlo, introducendo tutte le folle per panni che avesse voluto, e impegnandosi a risarcirgli allo scadere del contratto novennale le spese sostenute per il nuovo impianto. Nel 1490 una gualchiera era ormai ultimata e rimanevano tre delle quattro paia di mole da grano oltre alla pesta per il vetro. Contemporaneamente, i da Montaione decretavano lo smantellamento completo dell’impianto fatto realizzare da Giovanni nel 1459, a favore della sua trasformazione in un’altra

Leonardo da Vinci, carta dell’Arno e del Mugnone nel territorio immediatamente a ovest del centro urbano di Firenze. 1504. Windsor, The Royal Collection. Estremamente precisa e dettagliata, la mappa fu realizzata in vista dei possibili interventi volti a controllare l’alveo dei fiumi.

gualchiera: il nuovo contratto di locazione del mulino prevedeva infatti la facoltà del conduttore di realizzare tutte le folle da panno che avesse voluto, al posto della pesta da vetro. Verso la metà del Cinquecento non restava ormai piú traccia del complesso per la lavorazione del vetro: rimanevano le due mole da grano e soprattutto la gualchiera, situata ora in un edificio a parte, e forse ampliata. Nel 1564 la gualchiera era stata nuovamente trasformata in impianto per la rifinitura delle armi. L’autorità pubblica, soprattutto in periodi di MADE IN ITALY

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carestia, dava licenza di costruire mulini da grano con la facoltà di poterli trasformare poi in altri impianti industriali, una volta cessata la penuria di farina. Talvolta, però, tale prassi si trasformava in un’occasione per realizzare strutture abusive: nel 1550 venne decretata, per esempio, la demolizione della ruota per le spade fatta costruire senza autorizzazione sul fossato cittadino, tra porta Orientale e porta Nuova, da imprenditori che nel 1523 avevano ottenuto la concessione per un mulino da grano. Una segheria idraulica – un tipo di impianto particolare, raramente citato nei documenti –, era situata fuori città, nel territorio di Abbiategrasso, alimentata da una roggia, detta appunto «ad resegam», derivante dal Naviglio Grande. Dotata di due ruote e affiancata a un mulino da grano, nel quale fu poi completamente trasformata, venne acquistata nel 1464 dal giurisperito Gabriele Moresini, insieme ad altri terreni ed edifici circostanti, a testimonianza della molteplicità di interessi del ceto dirigente milanese.

Polivalenza degli impianti Gli impianti meno soggetti a sovvertimenti totali (anche se con qualche eccezione) sembrerebbero le folle da carta, alcune delle quali sono documentate ininterrottamente dalla metà del Trecento almeno sino alla fine del Seicento. La folla di Fizzonasco, sul Lambro Meridionale, per esempio, pur ridotta nel secondo decennio del Cinquecento da tre a due ruote, e pur utilizzata, quando necessario, anche come pesta da riso, fu in attività fino al 1696, quando il Collegio Elvetico, che l’aveva da poco acquistata, la fece «del tutto spiantare», a causa della sua scarsa rendita, tanto che «estirpati gli alberi, levate le mole da macinare, rotti tutti li rodigini» non era rimasto «altro che le nude pareti». Una sorte simile toccò negli stessi anni alla cartiera di Pontesesto, anch’essa risalente al XIV secolo almeno. I mutamenti di tipologia avevano a volte un impatto ambientale decisamente negativo, come lamentava nel 1502 un mugnaio che aveva preso in locazione dall’imprenditore cartario Bernardino Calusco una parte della folla di Gratosoglio, sul Lambro Meridionale. La struttura era stata trasformata in impianto molitorio, causando la rottura della conduttura che forniva l’acqua e il deterioramento del mulino, poiché – affermava il mugnaio – «le folle di Gratosoglio, che lavoravano a ciclo continuo nei giorni non festivi, erano state trasformate in mulino, e i mulini non lavorano, né hanno da lavorare, né possono lavorare a ciclo continuo, per cui l’acqua defluisce nei canali in misura molto maggiore in presenza di 118

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folle piuttosto che in presenza di mulini, in quanto le saracinesche che delimitano la chiusa rimangono sollevate per molto piú tempo».

Una lunga controversia In altri casi l’impatto ambientale negativo (pur esistente) era solo un pretesto dietro il quale si celavano motivazioni ben diverse. Una serie di ripetute piene danneggiò gravemente, tra il 1465 e il 1473, l’unico mulino per filare la seta a energia idraulica esistente a Milano nel XV secolo, situato sul Redefosso, nelle vicinanze di porta Nuova. Il 1° marzo 1465 la chiusa perti-

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nente il mulino aveva ceduto, inondando la zona circostante e facendo mancare l’acqua all’impianto, per cui il filatore che lo gestiva si era affrettato a chiederne la riparazione, nonché il risarcimento dei danni ai proprietari. Ne era sorta una lite, che aveva portato l’affittuario ad accusare l’ingegnere ducale Antonio Brivio – costruttore e proprietario del mulino – di averne sottratta nottetempo la ruota, e a ingiungergli di restituirla e di rimetterla in opera, producendo, tra l’altro, le testimonianze di due filatori, che lavoravano per lui e che, sul momento, giurarono di aver visto Antonio privare

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La forza che viene dall'acqua 2

Due esempi dello sfruttamento dell’energia idraulica assicurata da canali artificiali o corsi d’acqua. In alto ricostruzione di una sega idraulica basata su un disegno di Villard de Honnecourt del XIII sec. La macchina è composta da una ruota di mulino (1) che, girando sotto la spinta dell’acqua, aziona un albero di trasmissione (2) e assicura l’avanzamento del tronco da tagliare (3) attraverso una ruota dentata (4). L’albero di trasmissione permette anche il movimento della sega, azionando quattro camme (5), che trascinano verso il basso la lama (6), la quale ritorna poi verso l’alto grazie all’elasticità della pertica (7) a cui è fissata. A sinistra Milano. La grande ruota di mulino posta in via Molino delle Armi, all’angolo con via Santa Croce, in una foto scattata ai primi del Novecento. La toponomastica della zona ricorda la presenza in quest’area di numerosi impianti del genere, destinati appunto alla produzione bellica. MADE IN ITALY

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il mulino della ruota, salvo poi ritrattare entrambi, pochi giorni dopo. La ruota, in realtà, non era stata rubata, ma divelta da una piena; il Brivio l’aveva quindi ritrovata nel naviglio e portata a casa, perché non andasse di nuovo smarrita; per questo si trovava presso di lui, e non perché l’avesse rubata. In ogni caso era stata restituita e l’ingegnere ducale si dichiarava disposto a rimetterla in opera, sebbene il contratto di locazione non glielo imponesse. Ma i problemi non erano finiti: nel dicembre del 1467, a causa di un’alluvione, la chiusa si ruppe di nuovo, danneggiando ancora l’impianto. L’epilogo della vicenda del mulino da seta idraulico si ebbe verso la fine del 1473, quando, in seguito alle ripetute proteste dei deputati della Fabbrica del Duomo e dell’Ospedale Maggiore, oltre che di altri enti ecclesiastici e di «molti cittadini», il duca assegnò al commissario ai lavori ducali Bartolomeo Gadio da Cremona il compito di valutare la situazione e di fare quanto necessario perché la Fabbrica e tanti cittadini non dovessero lamentarsi.

Le ambiguità di una supplica I motivi delle lamentele erano in primo luogo il fatto che la deviazione dell’acqua del Redefosso per costruire la chiusa del mulino da seta aveva danneggiato i detentori di diritti sulle acque che non potevano piú irrigare i prati come facevano in passato; ne conseguiva anche l’impossibilità di pulire periodicamente il fossato, il che provocava, a sua volta, l’allagamento di tutte le cantine di porta Orientale e porta Nuova. La supplica si concludeva con l’ambigua osservazione secondo cui a Milano c’erano mulini da seta manuali sparsi per tutte le case e i solai della città (impianti che anche un bambino poteva far funzionare), per cui – si affermava – gli impianti idraulici non erano affatto necessari. Si chiedeva perciò senza mezzi termini la rimozione del mulino. Esaminata la questione, Bartolomeo Gadio decretò che, in base ai diritti di antica data vantati dagli enti firmatari della supplica, l’acqua del fossato tra porta Cumana, porta Nuova e porta Orientale doveva scorrere libera e senza impedimenti, condannando Antonio Brivio a rimuovere la chiusa e il mulino. Restano da appurare i motivi reali che portarono alla sua eliminazione, al di là di quelli (i danni a tutte le cantine tra porta Orientale e porta Nuova e i diritti sulle acque degli enti ecclesiatici firmatari), proposti nella supplica per lo smantellamento. Che si trattasse di un impianto particolarmente sfortunato è fuor di dubbio, come sfortunato dal punto di vista cli120

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matico doveva essere il periodo in questione (si pensi solo alle due piene consecutive a poca distanza dalla costruzione): tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta del Quattrocento ricorrono infatti piú volte notizie di inconvenienti alla rete idrica della città. Ma il problema non era probabilmente soltanto questo: negli stessi anni anche i magli del potente armaiolo Antonio Missaglia (due dei quali nelle vicinanze, sulla Martesana e nel punto di congiungimento di quest’ultima con il Redefosso, un terzo tra il Redefosso e la Vettabbia) subirono traversie simili: nel 1471, infatti, era rimasto senz’acqua il «mulino delle armi» situato tra la roggia Vettabbia e la cerchia dei Navigli; mentre nel 1469, dopo che il Missaglia aveva fatto trasformare in maglio, con grande dispendio, l’impianto presso S. Angelo a porta Cumana, sulla Martesana, era venuta a mancare l’acqua, per cui aveva dovuto supplicare il

duca di garantirgliela. Nel 1472, ancora a proposito della Martesana, l’armaiolo reclamava contro i continui soprusi e danni prodotti lungo il naviglio, con la rottura di ripe e argini, serrature e catenacci e con l’asportazione delle porte degli incastri; era perciò costretto a rinunciare all’impianto di S. Angelo. Che il mulino da seta di porta Nuova dovesse avere ben poca colpa delle continue piene del Redefosso è testimoniato anche dal fatto che, ancora alla fine del Settecento, proprio la zona attigua di porta Tosa, e in particolare i borghi della Fontana e di S. Pietro in Gessate, erano afflitti da continue alluvioni, dovute, dicono i documenti coevi, ai rigurgiti della roggia Bergognona nel punto di congiungimento col Redefosso. E non è neppure pensabile che il mulino da seta fosse stato costruito male, se l’artefice della chiusa era un ingegnere ducale di cui gli

Milano. Lo stabilimento della Breda sul Naviglio della Martesana, in una foto del 1886.

Sforza continuarono a fidarsi negli anni successivi proprio per importanti pareri tecnici per la risoluzione di problemi idraulici, nominandolo anzi nel 1479 specificamente ingegnere deputato alla magistratura delle acque.

I veri interessi degli «altri cittadini» I motivi adombrati nella supplica per lo smantellamento sono invece altri: in primo luogo gli interessi e i diritti sull’uso delle acque della Fabbrica del Duomo, dell’Ospedale Maggiore, di S. Pietro in Gessate, degli altri enti religiosi firmatari della supplica, e degli «altri cittadini» a cui si accenna nel documento del 1473. Ma, per risolvere controversie di que-

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I battiloro sto tipo, le autorità pubbliche avevano già preso in passato (1414) e adottarono anche nel periodo in questione (nel 1476 e nel 1481) altri provvedimenti molto meno drastici, come la costruzione di incastri da aprire e chiudere a seconda della necessità di navigazione e irrigazione e del livello del Redefosso (1476); oppure l’utilizzazione dell’acqua in ore diverse: dal tramonto all’alba e durante i giorni festivi per bagnare i prati, e durante i giorni lavorativi dall’alba al tramonto per i mulini (1481). Concessero poi, negli stessi anni, di costruire altre chiuse nel tratto di Redefosso poco piú a sud, tra porta Tosa e porta Romana. Le cause della drastica decisione di eliminare la chiusa e il mulino da seta idraulico vanno allora probabilmente cercate altrove, magari nei

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legami di carattere personale, clientelare e, soprattutto, di interesse economico, che condizionavano l’agire degli Sforza e di buona parte dei potentati italiani. In questa chiave di lettura si pone allora l’interrogativo di chi fossero gli «altri cittadini» citati nella supplica. C’era forse fra loro quell’Antonio Missaglia che si era appena lamentato (tra il 1469 e il 1472) del mancato funzionamento di alcuni dei suoi magli (tra cui quello di S. Marco, non molto distante)? C’erano forse fra loro quei mercanti di seta che con la diffusione dei mulini ad acqua a opera dei filatori, si sarebbero visti sfuggire di mano la prima e piú importante fase della lavorazione di questa importante e preziosa materia prima? Un solo indizio è percepibile a tale proposito nella supplica, là dove si faceva notare che molti mulini manuali che un bambino poteva facil-

Il Naviglio di Porta Romana, olio su tela di Giovanni Battista Dell’Acqua. 1835. Milano, Museo Civico.

mente azionare erano sparsi per i solai della città, per cui un filatoio idraulico risultava del tutto superfluo: particolari come questi potevano essere noti soltanto agli addetti ai lavori, e motivazioni del genere addotte soltanto dai potenti e ricchissimi mercanti auroserici, che erano i principali finanziatori dei duchi di Milano.

Mulini e autorità pubblica Secondo gli Statuti cittadini milanesi del 1396, chi intendeva costruire un nuovo mulino, doveva ottenere il permesso delle autorità comunali. Un obbligo che, nella seconda metà del Quattrocento, si concretizzava nella richiesta di licenza al duca, propenso in genere a concederla, purché, in particolare per i navigli e il Redefosso, non venisse pregiudicata la navigazione, e non fossero lesi i diritti degli altri utilizzatori. Se gli Sforza erano inclini a incentivare un po’ tutte le attività manifatturiere, per quanto concerne i mulini cittadini sembrerebbero interessati a favorirne alcune tipologie: le peste da riso, e, soprattutto, gli impianti per la rifinitura delle armi e quelli per triturare la polvere da sparo, anche a costo di opporsi agli antichi diritti vantati dai consorzi di utenti dei corsi d’acqua. A tale proposito, negli anni Settanta del Quattrocento, Galeazzo Maria Sforza concesse a Francesco da Trezzo di poter costruire un complesso per la lavorazione del riso e uno per la polvere da sparo sul fossato cittadino, tra porta Tosa e porta Romana, donandogli il sito in cui collocare il mulino e concedendogli anche una sovvenzione di 100 scudi da rimborsare in 5 anni, e dalla cui restituzione venne in seguito addirittura esentato. Una sentenza emanata dai commissari ducali deputati alla gestione delle acque provvide poi a proteggere i diritti del da Trezzo dalle pretese accampate dagli altri utenti di quel tratto di naviglio. Questo atteggiamento da parte del signore di Milano appare tanto piú interessante se lo si confronta con quello tenuto solo tre anni prima verso il proprio ingegnere Antonio Brivio, al quale, come già ricordato, era stato invece imposto di eliminare il suo mulino da seta idraulico. Ancora a testimonianza della tendenza a favorire la produzione delle armi, nel 1472 il duca concesse al mercante Cattaneo Cattanei di poter costruire un maglio presso la bocca di S. Boniforte, traendo l’acqua dal Naviglio di porta Ticinese, per produrre lame di spade. Tale attività sarebbe stata di grandissimo vantaggio per le entrate della città, soprattutto a causa della proibizione, proclamata dalla signoria di Vene-

zia, di importare nel ducato di Milano quei manufatti. All’armaiolo venne concessa anche l’esenzione dal dazio delle porte, per sé e per i suoi lavoranti, ma non il diritto in esclusiva di vendere lame e simili, perché lesivo della libertà altrui. Le numerose concessioni di mulini sul fossato cittadino e sulla Martesana all’armaiolo Antonio Missaglia costituiscono, infine, un’ulteriore conferma di quanto questo settore stesse a cuore ai duchi di Milano. L’atteggiamento degli Sforza confermava pienamente quanto già rilevato, fin dal Duecento, a proposito del comportamento dell’autorità pubblica in merito alla gestione dei diritti d’acqua: il fatto cioè che l’uso delle acque cittadine fosse ormai riservato a una ristretta cerchia di famiglie ed enti ecclesiastici potenti, e che fossero proprio il peso politico e la forza economica dei membri di ogni consorzio di utenti a garantire la tutela e la legittimazione dei loro diritti da parte dell’autorità pubblica.

La gestione politica delle risorse Il peso politico e la forza economica costituivano, del resto, i criteri ispiratori del modo di agire dei duchi di Milano nei confronti delle controversie tra il ceto mercantile e i gruppi di artigiani piú potenti, avviati a confondersi con i mercanti e a costituire nuove corporazioni. Tali contrasti, che proprio nel settore del trasporto per via fluviale e in quello degli impianti industriali – che richiedevano gli investimenti maggiori – trovavano il loro punto di forza, risultavano piú o meno marcati a seconda della forza contrattuale che ciascuna categoria era in grado di assumere in rapporto alla specializzazione tecnica, alla disponibilità di capitali, alla consistenza numerica dei suoi membri o alla possibilità di procurarsi una clientela non limitata ai soli mercanti. In sintesi, la peculiarità che emerge di questi impianti, di dimensioni non eccessivamente grandi perché alimentati da canali artificiali o da modesti corsi d’acqua, è proprio la loro estrema adattabilità, insieme al continuo variare delle loro funzioni in base alle esigenze del mercato. Un’adattabilità che rispecchiava perfettamente i molteplici interessi nei quali era coinvolto il ceto imprenditoriale milanese, sempre disponibile a investire i propri capitali contemporaneamente nei settori piú diversi a seconda dei mutamenti della congiuntura, in quel fervore di risorse e di energie economiche, culturali e tecnologiche che impregnavano, in un convulso pulsare di idee nuove, l’Europa rinascimentale. MADE IN ITALY

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LA PESCA

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a fauna ittica dei navigli alimentava un settore non trascurabile dell’economia cittadina, da cui derivavano piccole attività collaterali: oltre alla pesca in se stessa, la fabbricazione delle reti, collegata a sua volta con la produzione delle corde di canapa. Tra le specie pescate, sia nel Naviglio Grande che in quello Pavese, sono documentate in primo luogo trote e lucci, un fatto piuttosto rilevante soprattutto per il secondo, in quanto ne dimostra il probabile collegamento col Ticino, almeno negli anni Ottanta del Quattrocento. Vi erano poi cavedani, lamprede e la pischaria minuta, costituita perlopiú da gamberi. Le anguille, il cui consumo doveva essere notevole, dato che ricorrono assai spesso nei documenti, venivano invece importate salate dal Ferrarese.

LE PESCHIERE Il commercio del pesce, alimento diffusissimo sulle tavole medievali di ogni luogo d’Europa e di ogni ceto sociale, date le severe prescrizioni ecclesiastiche sull’obbligo di

astinenza dalle carni per tutta la Quaresima e durante le vigilie, comportava una serie di problemi dovuti alla sua deperibilità e all’assenza di adeguate tecniche di conservazione. È naturale perciò che si cercasse di effettuare l’approvvigionamento il piú vicino possibile ai luoghi di vendita: oltre che nel mare, nei fiumi e nei laghi, un po’ in tutti i canali, rogge, corsi d’acqua di qualunque tipo, e quando i bacini idrici mancavano del tutto, venivano realizzate le peschiere. Queste ultime risultavano indispensabili anche in presenza di corsi d’acqua, per mantenere freschi i prodotti ittici e servirli nel modo migliore, soprattutto se destinati a importanti autorità di governo. Il principio per garantire un’adeguata conservazione in mancanza di mezzi tecnici idonei era cioè quello di raccogliere i prodotti ittici in piscine non lontane dai corsi d’acqua, mantenendoli in vita fino al momento dell’utilizzazione o della vendita. Erano perciò dotati di peschiere i giardini dei principali castelli viscontei e sforzeschi, ma anche molte zone della città. Nel 1543, per esempio, fu concessa licenza di costruire uno di questi bacini artificiali alla Torre dell’Imperatore, presso le rive del naviglio, tra porta Ticinese e porta Ludovica. Nel secondo Quattrocento le «fontane seu pischerie pro tenendo piscibus» erano numerose un po’ in tutte le aree periferiche cittadine, attigue al naviglio e ai fossati, spesso situate accanto a botteghe di generi alimentari (formaggio e pesce salato prevalentemente), dove i prodotti ittici venivano probabilmente preparati per essere smerciati subito dopo sui banchi delle pescherie di S. Tecla e del Broletto, le sole in cui gli statuti cittadini ne consentivano la vendita. Esistevano peschiere anche ad Abbiategrasso, sempre nei pressi del Naviglio, e sul Ticino, dove il fornitore ducale

A sinistra Peschiera Borromeo (Milano). Uno scorcio del castello dei conti Borromeo, tuttora circondato da un ampio fossato difensivo. A destra Lainate (Milano), Villa Borromeo Visconti Litta. Particolare di uno degli affreschi di Carlo Antonio Procaccini (1571-1630) raffigurante una scena di pesca. Inizi del XVII sec.

Miniatura raffigurante una scena di cattura in una peschiera, da un’edizione del Tacuinum sanitatis. XIV sec.

Michele da Montevegia «immagazzinava» i prodotti destinati alla tavola degli Sforza.

RETI E CORDE DI CANAPA Le norme che regolamentavano la pesca erano in genere molto rigide: severamente vietate erano le reti che potevano rovinare il fondale o impoverire eccessivamente la fauna ittica, e altrettanto drastiche erano le limitazioni dell’attività nei periodi della riproduzione (diversi da specie a specie) e della crescita degli esemplari piú giovani. Tra le reti maggiormente utilizzate nei navigli c’era il bartovello, una sorta di cesto in canapa, con l’intelaiatura in legno, nel quale il pesce entrava agevolmente, ma dal quale non poteva poi uscire per la presenza di punte all’imboccatura. Veniva lasciato in acqua per molti giorni, ancorato alla riva con corde. Ne esistevano diversi tipi, a seconda della specie da catturare e del corso d’acqua in cui venivano utilizzati. I pescatori di frodo si servivano però talvolta di reti molto piú grandi e dannose, come la micidiale «rete grande fata cum le ale et la manica, la quale bastaria a vacuare tuta la peschera in una tirata» trovata

ancora bagnata nel giardino accanto alla peschiera di Abbiategrasso, dopo che aveva devastato la vegetazione delle rive. Anche la manifattura delle reti da pesca fioriva lungo il Naviglio Grande, sia presso produttori specializzati, sia, assai spesso, nelle botteghe dei barbieri, in molte delle quali questa attività veniva svolta nei tempi morti o in determinati giorni della settimana, accomunata al lavoro principale del barbiere-cerusico forse per la precisione richiesta, o forse anche per il possesso degli strumenti necessari. La materia prima, cioè le corde di canapa da cui erano costituite le reti, veniva prodotta, talvolta con la compartecipazione di mercanti di lana, nelle botteghe specializzate che pullulavano nella zona di porta Ticinese, nei pressi del Naviglio e della Darsena, rifornendo anche tutto l’indotto per il quale le funi erano indispensabili: dall’attracco dei barconi al carico e allo scarico delle merci pesanti . Dai contratti d’affitto delle botteghe per la produzione delle corde di canapa emergono talora inediti frammenti di vita quotidiana, come il fatto che, per filare le funi piú lunghe, non essendo sufficienti gli spazi angusti del laboratorio, venissero utilizzate le strade, chiuse per l’occasione, o i cortili dotati di portici, in caso di pioggia o neve. Cosí, nel 1485, i frati di S. Eustorgio concessero a un produttore di corde di poter utilizzare una stradina rasente il giardino del monastero, fin sulla piazza della chiesa, sbarrandola opportunamente per poter lavorare. Negli stessi anni i Cesati, imprenditori lanieri coinvolti anche nel commercio dei laterizi, affittarono allo stesso scopo un portico accanto alla conca di Viarenna, concedendo il diritto di utilizzare anche la strada, fino al corso della Cittadella, per un massimo di venticinque volte all’anno, per la filatura delle corde piú lunghe. In caso di pioggia o neve, oppure nelle ore notturne, sarebbe stato consentito di lavorare sotto il portico, ma senza occupare la strada per uno spazio superiore alle quattro braccia (2,5 m circa). Il conduttore avrebbe dovuto tenere le ruote per filare la canapa nel cortile, ma gli era concesso trasportarle sotto il portico in caso di maltempo. La locazione di una bottega sul Naviglio Grande (1480) contemplava poi il diritto per l’affittuario di battere la canapa presso la porta dell’edificio e di utilizzarne gli spazi, dall’ingresso prospiciente il naviglio fino in fondo al cortile, per filare le funi piú lunghe nei periodi di pioggia o neve. Il proprietario

della bottega manteneva invece la facoltà di lavorare le corde di minore lunghezza rasente le siepi del cortile.

MODALITÀ E DIRITTI DI PESCA Le autorità comunali e gli enti ecclesiastici della maggior parte delle città italiane gestivano i diritti di pesca, assegnandoli poi a un appaltatore che li cedeva a sua volta ai pescatori dietro la corresponsione di un canone in denaro e/o in natura. Coloro che avevano in appalto il Naviglio Grande e il Naviglio Pavese nella seconda metà del Quattrocento, identificabili con importanti mercanti di legname o con personaggi dell’entourage ducale, avevano anche l’incombenza di affittarne determinati tratti per la pesca. Poiché le reti grandi erano vietate e la pesca col bertovello risultava probabilmente molto lenta e poco redditizia, per ottenere rapidamente una maggior quantità di prodotto si cercava di sfruttare i periodi di secca del Naviglio, nei mesi estivi, o in occasione di puliture e riparazioni. Alcune concessioni di pesca nel Naviglio Pavese degli anni Ottanta del Quattrocento proibivano di vuotare il canale a tale scopo, o lo

consentivano, con licenza dell’appaltatore, per un numero limitato di volte all’anno. Talora veniva anche concesso di pescare ogniqualvolta si fosse stati costretti a svuotare il Naviglio Pavese per ripararne le conche. Significativo è il fatto che tale clausola fosse contemplata per il tratto tra Moirago e Bereguardo, particolarmente ricco, dato che tra le previsioni di pesca c’erano ben 35 libbre di lucci. Da ciò si desume anche che il Naviglio Pavese doveva all’epoca toccare il Ticino, almeno nei pressi di Bereguardo; in caso contrario, infatti, sarebbe difficile spiegare la presenza cosí abbondante di questo grande pesce di fiume. Alla fine del Cinquecento la pesca nel Naviglio Grande semiasciutto sembrerebbe la sola consentita, dal momento che il canale, già molto deteriorato, non avrebbe potuto sopportare ulteriori danni. Come affermava nel 1595 il Regio Commissario a esso deputato, infatti, l’affitto del diritto di pesca nel canale, oltre a non risultare affatto remunerativo, si rivelava, anzi, del tutto deleterio, perché i pescatori avrebbero impedito la navigazione e la pulitura, causando facilmente anche la rottura degli argini, delle bocche e degli scaricatori.

Miniatura raffigurante una pescheria, da un’edizione del Tacuinum sanitatis. XIV sec.

MESTIERI

I battiloro

PER SAPERNE DI PIÚ SUL RINASCIMENTO IN ITALIA 2 Philippe Braunstein e Luca Molà (a cura

di), Produzione e tecniche, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, vol. III, Angelo Colla Editore, Costabissara 2007 2 Franco Franceschi (a cura di), Commercio e cultura mercantile, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, vol. IV, Angelo Colla Editore, Costabissara 2007

SULLE MANIFATTURE MILANESI

2 Maria Paola Zanoboni, Artigiani,

imprenditori, mercanti. Organizzazione del lavoro e conflitti sociali nella Milano sforzesca (1450/1476), La Nuova Italia, Firenze 1996; pp. 53-67 (sulle origini della manifattura serica) e pp. 130-145 (sui battiloro) 2 Maria Paola Zanoboni, Produzioni, commerci, lavoro femminile nella Milano del XV secolo, CUEM, Milano 1997 2 Maria Paola Zanoboni, Rinascimento sforzesco. Innovazioni tecniche, arte e società nella Milano del secondo Quattrocento, CUEM, Milano 2005 2 Maria Paola Zanoboni, Salariati nel Medioevo. «Guadagnando bene e lealmente il proprio compenso fino al calar del sole», Nuove Carte Editrice, Ferrara 2009 2 Maria Paola Zanoboni, «Et che… el dicto Pigello sia piu prompto ad servire»: Pigello Portinari nella vita economica (e politica) milanese quattrocentesca, in Storia Economica, XII (2009), pp. 27-107 2 Maria Paola Zanoboni, Battiloro e imprenditori auroserici: mobilità sociale e forniture di corte nella Milano quattrocentesca, in Storia Economica, XIII (2010), fasc. 1-2, pp. 147-186, e fasc. 3, pp. 345-374 2 Paola Venturelli, Gioielli e gioiellieri milanesi: storia, arte, moda, 1450-1630, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 1996

SULLE MANIFATTURE IN GENERE

2 Silvio Leydi, Gli armaioli milanesi del

secondo Cinquecento, in Parate trionfali: il manierismo nell’arte dell’armatura italiana (catalogo della mostra), 5 Continents, Milano-Musees d’art et d’histoire, Ville de Geneve, 2003; pp. 25-55

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MADE IN ITALY

2 Luciana Frangioni, Un’industria d’arte per le armature e le armi, in Artigianato Lombardo. 2, L’opera metallurgica, Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, Milano 1978; pp. 46-64 2 Bruno Dini, Una manifattura di battiloro nel Quattrocento, in Saggi su un’economiamondo, Pisa 1995; pp. 87-115 2 Bruno Dini, I battilori fiorentini nel Quattrocento, in Manifattura, commercio e banca nella Firenze medievale, Nardini, Firenze 2001; pp. 45-64 2 Vincent Ilardi, Occhiali alla corte di Francesco e Galeazzo Maria Sforza, Metal Lux S.p.A., Milano 1978 2 Vincent Ilardi, Firenze capitale degli occhiali, in Arti fiorentine. La grande storia dell’artigianato, vol. II, Il Quattrocento, Giunti, Firenze 1999; pp. 191-213 2 Sergio Tognetti, I Gondi di Lione. Una banca d’affari fiorentina nella Francia del primo Cinquecento, Olschki, Firenze 2013 2 Maria Paola Zanoboni, Scioperi e rivolte nel Medioevo. Le città italiane ed europee nei secoli XIII-XV, Jouvence, Milano 2015

SULLE VIE D’ACQUA

2 Maria Paola Zanoboni, L’acqua come

spazio economico: attività commerciali e manifatturiere lungo i navigli milanesi (sec. XV), in Storia Economica, 2013, fasc. I; pp. 143-193 [e la bibliografia ivi citata] 2 Giuliana Fantoni, L’acqua a Milano: uso e gestione nel Basso Medioevo, (1385-1535), Cappelli Editore, Bologna 1990 2 Patrick Boucheron, Le pouvoir de bâtir. Urbanisme et politique édilitaire à Milan (XIVe-XVe siècles), Ecole française de Rome, Roma 1998

Nella pagina accanto Milano. La facciata del Castello Sforzesco. In basso calice gotico in avorio, rame dorato e smalti raffigurante le Arti Liberali. Manifattura francese, inizi del XIV sec. (la base è del tardo XVI sec.) Milano, Tesoro del Duomo.

MADE IN ITALY

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VO MEDIO E Dossier n. 8 (maggio 2015) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner [email protected] Redazione: Stefano Mammini [email protected] Redazione: Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Tel 02 0069.6352 Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia [email protected] Impaginazione: Alessia Pozzato L’autore: Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: pp. 7, 18/19, 25 (alto), 38/39, 65, 90/91, 117, 118/119, 120/121; G. Nimatallah: copertina (e p. 37); A. Dagli Orti: pp. 25 (basso), 53, 58, 78 (e 79, destra), 85, 122; G. dagli Orti: pp. 26/27; M. Carrieri: p. 42; G. Cigolini: pp. 43, 45 (destra, in basso), 54/55; Rapuzzi: p. 57; C. Sappa: pp. 92-93; Metis e Mida Informatica/Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 116 – Marka: Brian Jannsen: p. 10; Massimo Pizzotti: p. 11; Giovanni Mereghetti: p. 124 – Mondadori Portfolio: Electa/ Paolo e Federico Manusardi: pp. 8, 124/125; pp. 12-15, 40/41, 74; Electa/Sergio Anelli: pp. 16, 28/29; su concessione MiBACT: p. 29; Electa/Antonio Quattrone: pp. 36, 38; Album: pp. 50-51, 60-61; The Art Archive: p. 52; AKG Images: pp. 56, 64, 70-71, 110, 112/113; Leemage: p. 66 – Doc. red.: pp. 9, 22, 33, 34/35, 46-47, 96-99, 103, 105 – Foto Scala, Firenze: pp. 17, 72 (alto e particolare a p. 73, in basso), 80, 82-84; The Print Collector/Heritage-Images: p. 21; su concessione MiBACT: pp. 23, 44/45, 45 (sinistra), 79 (sinistra); Heritage-Images: p. 24; Cameraphoto: pp. 54, 55 – Bridgeman Images: pp. 20, 32/33, 48/49, 63, 68/69, 81; Wallace Collection: p. 62; Look and Learn: pp. 72/73; Tarker: pp. 126-127 – Archivi Alinari, Firenze: pp. 30/31; Raffaello Bencini: pp. 40, 72 (basso); Granger, NYC: pp. 75-77; Archivio SEAT: pp. 86/87; RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Michèle Bellot: pp. 88/89: Archivio Mauro Ranzani: pp. 108-109 – Giorgio Albertini: disegni alle pp. 102/103, 106/107, 114/115, 119 – Shutterstock: pp. 104/105 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 10, 95 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 100-101. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Editore: MyWay Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: [email protected] tel. 02 0069.6346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit, 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132- Milano Tel 02 2582.1 Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 – 24126 Bergamo Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: [email protected] Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit, 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.

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