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la Biblioteca di via Senato mensile, anno viii

Milano

n. 1 – gennaio 2016

SPECIALE CENTENARIO DADA (1916–2016) Dada: iconoclastia della cultura di marco fioramanti

Julius Evola e il Dada in Italia di vitaldo conte

Le lettere dadaiste fra Evola e Tzara di gianfranco de turris

Dada 1921: un’ottima annata di michele olzi

La vita e il gesto oltre la Kultur di dario evola

Eterna provocazione: le anime del Dadaismo di carmelo strano

Il Dada, ovvero sull’indifferenza di giovanni sessa e romano gasparotti

ISSN 2036-1394

SPECIALE CENTENARIO DADA (1916–2016)

la Biblioteca di via Senato – Milano M E N S I L E D I B I B L I O F I L I A – A N N O V I I I – N . 1 / 6 8 – M I L A N O , GENNAIO 2 0 1 6

Sommario 4 SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016) DADA: ICONOCLASTIA DELLA CULTURA di Marco Fioramanti 10 SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016) JULIUS EVOLA E IL DADA IN ITALIA di Vitaldo Conte 18 SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016) LE LETTERE DADAISTE FRA EVOLA E TZARA di Gianfranco De Turris

38 SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016) IL DADA, OVVERO SULL’INDIFFERENZA di Giovanni Sessa e Romano Gasparotti 41 IN SEDICESIMO – Le rubriche LE MOSTRE – RIFLESSIONI – LO SCAFFALE a cura di Luca Pietro Nicoletti e di Luigi Sgroi 58 Editoria UNA RAFFINATA SOPRACCOPERTA DA RECENSIRE di Massimo Gatta

22 SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016) DADA 1921: UN’OTTIMA ANNATA di Michele Olzi

66 In Appendice – Feuilleton L.E.X. LE BIBLIOTECHE PROFONDE di Errico Passaro

26 SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016) LA VITA E IL GESTO OLTRE LA KULTUR di Dario Evola

70 BvS: il ristoro del buon lettore UNA ANTICA CASA DI PIANURA SULL’ARGINE DEL FIUME di Gianluca Montinaro

32 SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016) ETERNA PROVOCAZIONE: LE ANIME DEL DADAISMO di Carmelo Strano

72 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO

Si ringraziano le Aziende che sostengono questa Rivista con la loro comunicazione

Biblioteca di via Senato Via Senato 14 - 20122 Milano Tel. 02 76215318 - Fax 02 798567 [email protected] [email protected] www.bibliotecadiviasenato.it Presidente Marcello Dell’Utri Direttore responsabile Gianluca Montinaro Servizi Generali Gaudio Saracino Coordinamento pubblicità Ines Lattuada Margherita Savarese Progetto grafico Elena Buffa Fotolito e stampa Galli Thierry, Milano Immagine di copertina Marcel Janco (1895-1984), Manifesto per una serata del gruppo Dada (Zurigo, 1918) Stampato in Italia © 2016 – Biblioteca di via Senato Edizioni – Tutti i diritti riservati Reg. Trib. di Milano n. 104 del 11/03/2009 Per ricevere a domicilio (con il solo rimborso delle spese di spedizione, pari a 27 euro) gli undici numeri annuali della rivista «la Biblioteca di via Senato» scrivere a: [email protected] L’Editore si dichiara disponibile a regolare eventuali diritti per immagini o testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte

Editoriale

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n numero – questo de «la Biblioteca di via Senato» – dedicato al centenario Dada (1916-2016). Un’occasione duplice: per conoscere questo movimento artistico-letterario nato nel pieno della I Guerra Mondiale. E per riflettere sulla sua immensa carica, da un lato distruttiva, dall’altro propositiva, che, innescata, ha attraversato, come una inarrestabile slavina, buona parte del Novecento.

Il rifiuto della ragione, l’umorismo, la stravaganza, l’estrema libertà creativa (a volte spinta sin all’eccesso) hanno contribuito a fare del movimento Dada una fucina di idee e progetti artistici che hanno ‘contaminato’ l’intera Europa, rovesciando ogni espressione d’arte nel suo contrario più netto: la negazione, la non-arte. Occasione, quindi. Ma pure spunto di reazione, di fronte a tutti quegli -ismi radicali che (allora come ora) attraversano il nostro continente. Gianluca Montinaro

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SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016)



DADA: ICONOCLASTIA DELLA CULTURA Idee e uomini da Zurigo a Berlino MARCO FIORAMANTI

ESSERE DADA uello dadaista è un movimento radicale, antiartistico, antipoetico, volto a esaltare l’aspetto spontaneo, immediato, contraddittorio, trotzkista dell’arte («in ogni momento, per vivere, Dada deve distruggere Dada»). Il gesto, sottile, istintivo, casuale, evidenzia l’importanza fondamentale della scelta rispetto alla capacità manuale. Dada segna nell’arte e nel costume un momento di libertà assoluta, capace di annullare il concetto di tempo storico e di causa/effetto con le esperienze artistiche del passato. Una rivoluzione totale, senza necessaria ricostruzione o trasformazione e inserimento di un nuovo potere, i dadaisti volevano la distruzione dell’essenza stessa del potere. Con l’avvento di Dada l’arte si manifesta nella sua istantaneità: puro prodotto intellettuale. È l’intenzione che fissa

Q

Sopra: manifesto di inaugurazione del Cabaret Voltaire a Zurigo (5 febbraio 1916), Berlino, collezione privata. Nella pagina accanto: Raoul Hausmann, ABCD Ritratto dell’artista, 1923, photomontage (inchiostro di china, foto e carta stampata, cm 40x28), Berlino, collezione privata

l’opera, semplice oggetto (o somma di oggetti) del quotidiano, nel suo farsi tale. L’attimo in cui l’immagine dell’oggetto imprime per la prima volta la sua forma sulla retina è l’attimo Dada, assoluto, che col tempo si spoglia della sua assolutezza e diventa ‘cosa’. Il Dadaismo nasce a Zurigo mercoledì 5 febbraio 1916. In un freddo giorno d’inverno Hugo Ball, scrittore, poeta e regista teatrale e la sua futura moglie, la cabarettista Emmy Hennings aprono il Voltaire, (poi detto Cabaret Voltaire) al n.1 della Spiegelgasse. Il locale offriva uno spazio per 50 persone. Il calendario prevedeva azioni legate a letture, esecuzioni musicali, poesie sonore e performance. Insieme alla coppia troviamo Hans Arp, Marcel Janco, Tristan Tzara, Richard Huelsenbeck e altri svizzeri. DADA A ZURIGO IN DIRETTA: BALL, HENNINGS, TZARA, GLAUSER Attraverso i racconti di Friedrich Glauser, scrittore svizzero, veniamo a conoscere che Tristan Tzara, ebreo rumeno (all’anagrafe Samuel Rosenstock), un omino snob dal volto tondo e le

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mani piccole, occhialetti dalla montatura in osso sul naso, aveva oltrepassato la frontiera con un passaporto falso. Sfuggì alla richiesta di arruolamento nell’esercito rumeno grazie alla compiacenza di uno psichiatra: dementia precox. Dovendo presentarsi al tribunale medico di Berna, Tzara si fece accompagnare dal giovane Glauser. Lo psichiatra, quale prova della sua diagnosi, presentò alcune delle poesie del suo paziente che evidenziavano l’incapacità di un processo mentale logico. Durante la visita l’effetto fu strabiliante: faccia da tonto, fili di bava gocciolante, incapacità di esprimere concetti. Esonero immediato. Le frequentazioni tra Tzara e Glauser continuarono anche dopo e, durante una lunga passeggiata notturna, nella Bahnhofstrasse deserta, il poeta rumeno confidò all’amico la bramosia di creare un nuovo movimento artistico. Si ricordò di una visita a una ‘setta estetica’ di Bucarest, nella quale tutti dovevano essere rigorosamente vestiti uguali, di grigio, cappello compreso. La mente viaggiava e lui avrebbe potuto fare affidamento sulle sue vaste conoscenze all’estero, sia a Parigi che in Italia. Nel frattempo, Hugo Ball apriva il Voltaire... Fu Tzara a presentare Ball a Glauser, «fronte alta e ampia, seminascosta dai capelli, che lasciava-

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no scoperta una linea sottile e bianchissima sopra l’arco delle sopracciglia». Accanto a Ball, l’immancabile moglie, Emmy Hennings, donna minuscola e tremolante. Nel marzo del 1917 si aprì la Galleria Dada, un grande appartamento affittato a Ball da tale Corray, produttore di cioccolata. Tappezzarono subito le pareti con opere note (Kokoschka, Klee, Kandinskij, Feininger) fornite dalla rivista «Der Sturm». L’obbiettivo era però quello di realizzare ‘serate dadaiste’, che richiamavano sempre grandi masse di pubblico. Ball al pianoforte, Glauser col tamburello, «gli altri dadaisti vestiti in maglia nera, ornati di maschere alte e inespressive, che saltellano e muovono le gambe a tempo, e grugniscono anche le parole». Emmy Hennings intona la sua Danza macabra su testo di Ball. Poi era il turno di Tzara, «in tight nero, ghette bianche sulle scarpette di vernice» e dei suoi versi dadaisti, recitati in francese: praticamente si trattava di un susseguirsi di parole, a volte erano titoli di quadri di un catalogo... Un giovane della scuola di Laban danzava una poesia fonetica di Ball, apparentemente più comprensibile. La testimonianza di Glauser diventa fondamentale quando racconta il programma, il menù

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Nella pagina accanto da sinistra: un’immagine della prima fiera internazionale Dada (Berlino, 1920); Hugo Ball (1886-1927) e sua moglie Emmy Hennings. In questa pagina, a destra: Tristan Tzara (1896-1963)

di una di quelle serate (tratto dal libro La fuga dal tempo di Hugo Ball): I Suzanne Perottet: Composizioni di Schoenberg, Laban e Perottet (pianoforte e violino). Friedrich Glauser: Padre, Cose (versi). Léon Bloy: Exégèse des lieux-communs (traduzione e lettura di Friedrich Glauser). Hugo Ball: ‘Grand Hotel Metafisica’, prosa in costume. II Marcel Janco: Il Cubismo e i miei quadri. Suzanne Perottet: Composizioni di Schoenberg, Laban e Perottet (pianoforte e violino). Emmy Henninhs: Critica del cadavere, Appunti. Tristan Tzara: ‘Froide lumière’, poème simultan, lu par sept personnes.

spunto all’esigenza di nuovi materiali nella pittura. Poi Raoul Hausmann inserì l’idea e il concetto di ‘fotomontaggio’. Ma entriamo subito nel vivo attraverso le parole di George Grosz.1

Ball annotava al riguardo: «Il poème simultan era concepito come un rinnovamento del coro misto. Ciascuno dei sette personaggi doveva leggere la sua parte, che consisteva in rumori prodotti con la bocca (“Prrr, ssss, ay a ya, uuuuh”) tra i quali fiorivano improvvise le parole; vi si mescolavano vecchie canzoni (Sous les ponts de Paris), allora i rumori diventavano un accompagnamento sommesso, e come una cantilena liturgica una parte del coro recitava parole accostate in modo arbitrario». Col tempo poi la Galleria Dada, nelle mani del solo Ball, stava andando in crisi. Nacquero le diatribe con Tzara e presto si sarebbero separati.

Ammesso che noi artisti fossimo l’espressione di qualcosa, eravamo l’espressione del fermento, dell’insoddisfazione e dell’inquietudine. Ogni disfatta nazionale sfocia in un nuovo periodo, dà il là a un nuovo movimento. In un’epoca diversa avremmo benissimo potuti essere tanti flagellati o altrettanti esistenzialisti. Huelsenbeck introdusse a Berlino, dove io lo conobbi, il movimento dadaista. Dato che l’atmosfera a Berlino era diversa da quella di Zurigo, il Dadaismo vi assunse un colorito politico. Conservò ancora il suo aspetto estetico, ma questo venne sospinto sempre più nello sfondo col sorgere della corrente politica anarchico-nihilista. Questo accadde in un momento in cui tutti si attendevano la vittoria dei comunisti in Germania.

DADA A BERLINO: L’IMPEGNO POLITICO. LE PAROLE DI GEORGE GROSZ È del 1918 il primo manifesto dadaista berlinese, scritto da Richard Huelsenbeck: in esso si dà

Non a caso è stato definito nihilismo allegro questo dei dadaisti ‘tedeschi di Germania’, bambini onnipotenti, artisti senza paracadute che affrontavano la vita con una visione sarcastica basata

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Sopra da sinistra: George Grosz (1893-1959); George Grosz, Eclissi di sole, (1926), Huntington, Heckscher Museum, USA. Nella pagina accanto, da sinistra: Hugo Ball ritratto mentre recita il poema sonoro Karawane; Friedrich Glauser (1896-1938)

sugli happening sfrontati come nelle operazioni mordi-e-fuggi, verso una ricerca di ripristinare una sorta di armonia e atmosfera infantile provocatoria. Tenevamo riunioni dadaiste e facevamo pagare l’ingresso pochi marchi: ma in cambio non davamo altro che banalità. Intendo dire che ci limitavamo a insultare la gente intorno a noi. Le nostre maniere erano intollerabilmente arroganti. Dicevamo: «Tu, pezzo di merda, laggiù, sì, tu con l’ombrello, cretino». Oppure: «Ehi, tu, là a destra, non ridere, cornuto». Se ci rispondevano, come facevano, naturalmente dicevamo, come si usa sotto le armi: «Chiudi il becco, o ti prendo a calci in culo».

Ci prendevamo gioco di tutto. Questo era il Dadaismo. Niente era sacro per noi. Il nostro movimento non era né mistico, né comunista, né anarchico: Tutte queste correnti avevano qualche programma, ma la nostra era completamente nihilista. Sputavamo su tutto, noi compresi. Il nostro simbolo era il nulla, il vuoto. Fino a qual punto fossimo l’espressione di una disperazione che non conosce salvezza, non so dirlo. Non sto tentando di dare o di provocare una spiegazione. Riferisco semplicemente la mia esperienza. C’era qualche pazzo tra noi, per esempio un certo Johannes Baader che si supponeva sposato alla terra per qualche forma mistica: mise insieme un enorme scartafaccio che chiamava Dadacon. Consisteva in ritagli di giornale e fotomontaggi.

Divennero presto conosciuti anche alla polizia che spesso irrompeva nelle riunioni notturne a causa delle frequenti risse.

Grosz si divertiva a formulare slogan dei quali era molto orgoglioso «Dada oggi, Dada domani, Dada sempre», «La piccola parodia politica Dada

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über alles», «Vieni da Dada se vuoi essere abbracciato e messo in imbarazzo», «Dada vi prenderà a calci nel sedere e ci proverete gusto». Facevano stampare questi slogan su alcuni cartellini e poi attaccati alle vetrine dei negozi sui tavoli dei caffè, sulle giacche dei camerieri... la gente cominciava a spaventarsi e a chiedersi chi fossero questi teppistelli e soprattutto perché lo facevano.

era stato gettato. Poi metteva insieme tutto ciò sulla tela o su vecchi cartoni, fissando saldamente ogni cosa con corda e fil di ferro. Il risultato si chiamava Merzbilder (pittura dell’immondizia) e veniva esposto e anche venduto. Molti critici, che volevano essere all’altezza dei tempi, lodavano questa truffa ai danni del pubblico: prendevano sul serio quest’arte.

Noi dadaisti avevamo un’arte tutta nostra: Si chiamava ‘arte dell’immondizia’ o ‘filosofia dell’immondizia’. Il capo di questa scuola d’arte Dada era un certo Kurt Schwitters di Hannover. Le sue tasche erano sempre piene di cianfrusaglie. Racimolava tutto ciò che trovava per strada. Raccoglieva aghi arrugginiti, vecchi stracci, spazzolini da denti senza setole, cicche di sigaro, raggi di ruote di biciclette, ombrelli rotti... tutto ciò che

Solo alcuni riuscivano a capire il legame profondo che univa quell’arte alla normale esperienza quotidiana…

NOTE 1

Cfr. George Grosz, Un piccolo sì e un grande no, Milano, Longa-

nesi, 1975

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SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016)



JULIUS EVOLA E IL DADA IN ITALIA Una ‘espressione sconfinante’ fra arte, poesia e pensiero VITALDO CONTE

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l Dada italiano è ancora carente di studi complessivi, risultando tuttora segreto, rispetto alle altre aree geografiche di espressione del movimento. Punto di partenza per chi volesse intraprendere una tale indagine rimane il lavoro artistico e poetico di Julius Evola (1898-1974), indicato come il principale esponente in Italia del Dada. La sua produzione costituisce una rilevante testimonianza, anche per le diverse e transdisciplinari letture. Dada incarna un’espressione sconfinante, con momenti, riflessioni ed esistenze differenti, all’interno del proprio svolgersi. Ma con una idea di sintesi e totalità finale, peraltro presente in diversi aspetti e autori del movimento. Evola stesso rifiuta di distinguere e separare i momenti più significativi del suo percorso

Sopra: Julius Evola (1898-1974). La foto probabilmente è stata scattata nel corso dell’esposizione dadaista presso la Casa d’Arte Bragaglia (Roma, 15-30 aprile 1921). Alle spalle si riconoscono due suoi dipinti. Nella pagina accanto dall’alto: Julius Evola, La parola oscura (1921), olio su cartone, Roma, collezione Canonico; Stanislao Nievo (1928-2006), Fotoritratto di Evola, 1968

culturale. Ne rivendica il senso complessivo e la continuità fra l’espressione artistica e il percorso filosofico: «Nell’essenziale, sussiste una continuità attraverso tutte le varie fasi della mia attività». Ne Il cammino del cinabro, sua autobiografia intellettuale, termina la parte dedicata al suo passaggio dadaista, con le seguenti parole: «Non scrissi poesie né dipinsi più dopo la fine del 1921». Nello stesso capitolo risultano significative le affermazioni di Tristan Tzara, riportate da Evola: «Che ognuno gridi: vi è un gran lavoro distruttivo, negativo, da compiere. Spazzar via, ripulire. Senza scopo né disegno, senza organizzazione, la follia indomabile, la decomposizione». «In Italia - scrive Evola - fui fra i primissimi a rappresentare la corrente dell’arte astratta, in connessione col dadaismo (conobbi personalmente Tristan Tzara e altri esponenti del movimento)». Nell’esposizione dadaista a tre, con Gino Cantarelli e Aldo Fiozzi, alla Casa d’Arte Bragaglia, a Roma (aprile 1921), sono ben visibili i diversi indirizzi presenti all’interno del gruppo (in Fiozzi per esempio è esplicito il riferimento meccanicistico). All’inaugurazione della mostra Evola

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Dall’alto: Julius Evola, Dadalogie. Il manoscritto del testo, in forma di manifesto, inedito all’epoca, è stato pubblicato nel catalogo della mostra Scheiwiller a Milano. Immagini e documenti (Milano, Biblioteca Civica di Palazzo Sormani, 1983); Julius Evola, Composizione n.3 (1919), disegno a penna, (Roma, collezione privata)

tiene una conferenza, in cui presenta il Dada in Italia: oltre alla rivista mensile «Bleu» (che si pubblica a Mantova e che uscirà in tre numeri), indica come principali aderenti al movimento se stesso, Gino Cantarelli, Bacchi, Fiozzi, Vices-Vinci. Nel suo intervento decreta, con toni fortemente polemici, l’esaurimento del Futurismo. Marinetti prende atto che, per la prima volta, si svolge una manifestazione d’avanguardia esplicitamente dichiarata come non futurista. Ma non è questo il primo attacco al padre fondatore del Futurismo: già nel gennaio dello stesso anno, su «Bleu», Evola aveva firmato, assieme a Cantarelli (che con Fiozzi dirigeva la pubblicazione), una pesante riflessione contro Marinetti e il suo movimento: Dada soulève tout.



L’esperienza pittorica e poetica dadaista di Evola, pur breve nella temporalità, risulta intensa, anche negli aspetti intellettuali, presenti nella stessa pratica artistica. Esprime una testimonianza singolare nell’ambito di un’astrazione che si costruisce con il distacco da urgenze espressive. Il suo spiritualismo assoluto s’inserisce nello spartito dei linguaggi non-figurativi dell’avanguardia europea del primo Novecento, i cui esiti risultano molto ricettivi allo ‘spirituale nell’arte’ in diversi suoi protagonisti, fra i quali Kandinsky, Mondrian, Malevic, Kupka e Ciurlionis, nonché in un certo futurismo che fa capo a Ginna e Balla. Le “rappresentazioni” di Evola sono uno dei ‘gradi zero’ di questa astrazione: con il suo lasciare il pensiero-immagine della pittura per dedicarsi alla

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Da sinistra: prima pagina della rivista «Bleau», n. 3, Mantova, 1921. L’articolo Note per gli amici è di Julius Evola, mentre la xilografia Nudo di donna è di Ivo Pannaggi; copertina del catalogo Julius Evola e l’arte delle avanguardie tra Futurismo, Dada e Alchimia, Roma, Fondazione Julius Evola, 1998: la mostra si svolse a Milano, a Palazzo Bagatti-Valsecchi, nel 1998

filosofia, con il suo intervenire nell’arte e con la sua indifferenza per il creare o non: «Non voglio convincere nessuno. E ripongo la mia causa nella forma senza vita, ripongo la mia causa nel nulla». L’adesione al Dada è comunicata a Tzara nei primissimi giorni del 1920. Evola, con gli scritti e la pittura, ne attraversa le contraddizioni fino a risvolti imprevedibili, condividendone la radicale essenza nichilista, oppositiva a ogni valore acquisito dell’arte e della morale. La sua particolarità è anche quella di aderire al Dada (che rifiuta la formulazione di linguaggi stabiliti) per poi teorizzarne una possibile estetica ed esprimerne opere con

un intrinseco equilibrio e valore artistico, contrariamente alle intenzioni del movimento. Lo scritto giovanile Arte Astratta (composto da una introduzione teorica seguita da dieci poemi e quattro composizioni), pubblicato nel 1920 per Collection Dada (Zurigo), è da considerare la sua prima opera. È una raccolta di riflessioni, composizioni poetiche, riproduzioni di quadri. Il contributo teorico abbozzato è significativo, sintomatico dello spessore intellettuale dell’autore, oltre che essere testimonianza del tempo, ondeggiante fra desiderio di ordine e rottura: «Esprimere è uccidere. Dunque non si può né si deve esprimere».

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Sopra: copertina del catalogo Julius Evola. Arte come alchimia, mistica, biografia, Reggio Calabria, Iiriti Editore, 2005: la mostra (a cura di Vitaldo Conte) si tenne presso il Castello Aragonese di Reggio Calabria, dal 2 dicembre 2005 al 6 febbraio 2006. Nella pagina accanto: Julius Evola, La parole obscure (1921): disegno per la copertina del poema a quattro voci

In nome di una superiore libertà, denuncia l’aspiritualità di ciò che viene abitualmente considerato spirituale, auspicando il valore di un’estraneità mistica, impassibile e dominatrice più che estatica. Per Evola l’arte astratta si costituisce sul principio di un “formalismo assoluto” e sull’espressione di una volontà cosciente, lucida, protesa a «portarsi di là dalla vita» e a non immergersi in essa. Può diventare così «un metodo dello spirito», in arte come altrove, proprio nel suo essere un metodo astratto, non pratico, della purità e libertà. Questa astrazione diviene posizione interiore che può essere ‘oggettivizzata’ nel linguaggio artistico e poetico. Le visioni, che Evola affida alla sua pittura e poesia, pur appartenendo allo specifico linguaggio usato, possiedono una comunicazione sineste-

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tica che risulta anche immagine-concetto. Accompagnano, in maniera sotterranea, il suo procedimento di pensiero, che sottintende simultaneamente quello esoterico e propriamente alchemico. Le composizioni astratte dei suoi Paesaggi interiori possono essere lette appunto come un “pensare”, attraverso la visione di spazi siderali: con il colore che assume pregnanza simbolica e con i riferimenti a un percorso ermetico-alchemico. L’astrazione di Evola è mistica, in quanto la combustione alchemica ha come dinamica la purificazione spirituale. L’alchimia, in lui, diviene creazione, lettera-concetto e procedimento immaginale di pensiero, travalicando i confini fra le arti. Evola vive la stagione artistica con totale partecipazione esistenziale: soglia di trascendimento per ulteriori itinerari, usando le possibilità della mente e dello spirito. Gli appare come l’approdo estremo dell’arte modernissima - cioè astratta - limite insuperabile del nichilismo artistico, non intravedendo nell’ambito della forma, dopo Dada, alcuna possibilità di sviluppo. La sua significativa radicalità esprime certamente la conclusione delle istanze più profonde che avevano alimentato i movimenti d’avanguardia. Le stesse categorie artistiche sono negate, nella ricerca di passaggi verso le forme caotiche di una vita priva di razionalità, in cui la contraddizione, il paradosso, il non senso risultano elementi dominanti.



Il transito dada di Julius Evola nella poesia è espresso dai testi, compresi fra il 1916 e il 1922, che avrebbero formato la raccolta Ràaga Blanda e dal poemetto a quattro voci La parole obscure du paysage intérieur (tradotto dall’italiano in francese dall’autore insieme a Maria de Naglowska) che rappresenta il suo estremo approdo lirico. L’autore, nell’introduzione a Ràaga Blanda, scrive che in questa poesia è visibile uno sviluppo che, a parte alcune non rilevanti incidenze futuriste, va dal decadentismo al simbolismo e dall’ana-

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logismo fino alla composizione dadaista. In quest’ultima fase viene seguita la tecnica della poesia astratta e della cosiddetta “alchimia delle parole”, in cui queste ultime vengono usate non secondo il loro contenuto oggettivo ma soprattutto secondo le valenze evocative, associate a fonemi inarticolati e accordate in modo vario. Le reiterazioni di lettere partite da onomatopee futuriste giungono al Dada, attraverso la ritualità ermetica e il libero fonetismo, perdendo la funzione imitativa o allusiva per assumere quella di richiamare un suono intimo, ancestrale. Le parole, disposte con apparente libertà, vivono in uno spazio determinato da linee convergenti e divergenti, come se fossero cristallizzate dal pensiero. Una speciale chiaroveggenza ricrea l’alchimia lirica nella dimensione oscura del simbolo. La selezione e combinazione evocativa delle parole, dissociate dal senso reale, e dei suoni esprimono la sua poesia dada. Questa ricerca è rintracciabile in altri autori del movimento, come nei testi di Hugo Ball che rileva «Dobbiamo tornare alla più intima alchimia della parola, rinunciare alla parola in modo da poter conservare alla poesia il suo ultimo e più sacro rifugio». Le possibili ‘illuminazioni’ evoliane propongono un mondo che dilata le possibilità sensoriali e percettive della realtà, fino ai confini estremi del vivibile e dell’oltre. Il suo verso, edificandosi con immagini che richiamano una musica interiore, si espande in coinvolgimenti plurisensoriali. Come accade in talune espressioni della poesia concretovisuale e fonetica internazionale, specificatamente in quelle di vocazione magico-rituale. Evola riprende la dimensione simbolista per esprimere una materialità linguistica autonoma: da utilizzare con il suo potere evocativo, attraverso l’orchestrazione dei sensi, emergendo da gruppi d’immagini apparentemente slegate (come nell’alchimia della parola di Rimbaud). Sostituisce l’iniziale astrattismo sentimentale con uno apassionale. La lirica non deve esprimere più nulla,

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perché è comunicazione pura, libertà incondizionata, dominio dei mezzi d’espressione: entra in un’atmosfera assolutamente rarefatta, ossessionante di alogicità e di orgasmo interiore. Nella lettera che Evola scrive a Tzara nel ’21, per accompagnare una copia del poemetto La parole obscure, questo viene definito «una specie di documento di un episodio della mia vita». La vocazione trascendentale espressa dal testo poetico ha un percorso di ampliamento visivo nella copertina disegnata dall’autore stesso, riempita da specifici segni che costruiscono la sua complessità. Questa poesia è da leggere anche come espressione di un percorso di formazione: quello proteso

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Sopra da sinistra: Julius Evola (primo a destra), in tenuta militare, nel 1917; Evola, diciannovenne sottotenente di complemento, comandante di sezione d’artiglieria, ritratto sul Monte Cimone, presso Asiago, nell’agosto del 1918 (© Archivio Fondazione J. Evola. Per gentile concessione)

verso una conoscenza sempre più approfondita della tradizione ermetico-alchemica, la cui cultura si muove e relaziona fra Simbolismo, Futurismo, Dadaismo. Nel ’63 l’autore, nella Prefazione alla ristampa, indicherà il livello dadaista di astrazione di questa sua opera: «Il poemetto è ‘astratto’ solo in certi aspetti del testo, dove ho seguito la tecnica della composizione o ‘alchimia’ dei puri valori evocativi, e non oggettivi, delle parole e anche di suoni. Per il resto, esso ha un ‘contenuto’ abbastanza preciso». Il poema esprime il compimento di quell’azione ‘anti-umana’ auspicata da Tzara nel suo Manifesto del 1918. Raggiungere la pienezza dell’astrazione può comportare il silenzio della parola poetica: esperienza in cui ‘entrano’ anche altri dadaisti. A conclusione del rituale, scrive Evola a Tzara, «inizierà la vita ultima, il 2° piano Dada. Ma ciò non appartiene più all’espressione», cioè

non appartiene più alla poesia: «Siamo fuori, abbiamo esaurite tutte le esperienze, spremute tutte le passioni. Non è pessimismo: si tratta di aver veduto. Io, sono al di fuori». Come lo stesso autore esplicita a Papini, siamo di fronte all’uomo «finito sul serio»: «Smette di scrivere e ne ha abbastanza dell’intellettualismo; fa come fece un Rimbaud, taglia tutti i ponti, cambia essenzialmente di piano. Magari si uccide». Da quel momento Evola si dedicherà esclusivamente al pensiero filosofico. Il nuovo percorso coincide con l’esaurimento di un periodo dell’arte italiana d’avanguardia. Nel ’63 Evola fornirà una spiegazione al riguardo: «L’arte astratta, nello sfociare nel Dadaismo, rappresentò un limite, raggiunto il quale non restava che da tacere, o da passar oltre, o, nei casi estremi, di battere la via di un Rimbaud o di coloro che posero fine alla propria vita». Ed Evola probabilmente ‘silenziò’ la parola poetica per ‘finire’ il proprio sé umano.

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LE LETTERE DADAISTE FRA EVOLA E TZARA Quando il ventenne Julius scriveva al padre del Dada… GIANFRANCO DE TURRIS

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e non fosse stato per la passione, l’intuizione e la caparbietà di una giovane laureanda dell’Università di Roma, le lettere inviate da Julius Evola a Tristan Tzara nel 19191923 sarebbero rimaste ignote, o note solo a una ristrettissima cerchia di specialisti. Nel 1989 Elisabetta Valento che stava preparando una tesi su Julius Evola artista, incuriosita da vari indizi, si recò a proprie spese a Parigi dove fra non poche difficoltà, dato che la notizia non era facile da reperire - anche se questo può sembrare assurdo - seppe che esisteva un Archivio Tzara presso la Fondation Jacques Douicet alla Biblioteca SainteGeneviève. Qui trovò le lettere evoliane ma, come lei ricorda, «non essendo possibile ottenere né fotocopie, né fotografie, né

A sinistra: ritratto di Julius Evola (1898-1974). Sopra: Robert Delaunay (1885-1941), ritratto di Tristan Tzara, 1923

Le “Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (19191923)”, a cura di Elisabetta Valento, sono state pubblicate nel 1991 dalla Fondazione J. Evola («Quaderno» n. 25). Saranno di nuovo riproposte in un volume dedicato interamente all’Evola artista, in preparazione per le Edizioni Mediterranee nella collana “Opere di Julius Evola”.

una qualsiasi altra cosa che riproducesse gli originali accuratamente incellofanati, fui obbligata a trascrivere, con santa pazienza e crampi alle dita, le lettere». Attingere alle fonti dirette è fondamentale per ricostruire qualsiasi avvenimento, dato che il tempo cancella o modifica i ricordi. I trentuno documenti evoliani (purtroppo le lettere di risposta di Tzara sono scomparse) non solo confermano i ricordi del filosofo tradizionalista sul periodo in cui era un giovane artista d’avanguardia ma arricchiscono di particolari significativi (sinora ignoti) la storia del Dadaismo italiano e sono determinanti per comprendere in quale clima psicologico personale e generale si muoveva l’Evola artista. Tramite questa corrispondenza gli storici dell’arte, ad esempio, possono ricostruire, per così dire ‘in presa diretta’, le date di certi avvenimenti. Fra essi la famosa conferenza all’Università di Roma che adesso sappiamo essere avvenuta il 16 maggio

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Sopra, dall’alto: Tristan Tzara, 7 manifestes dada, Parigi, Editions du diorama, 1924, con dedica autografa a Julius Evola; Maria de Naglowska, Malgré les tempêtes..., Roma, P. Maglione & C. Strini, 1921, con dedica a Evola (© Archivio Fondazione J. Evola. Per gentile concessione); parte di lettera di Tristan Tzara a Francesco Meriano, Zurigo 8 dicembre 1916. (Fondazione Primo Conti Archivio Francesco Meriano). Nella pagina accanto, da sinistra: Julius Evola, in una foto del 1935 circa (© Archivio Fondazione J. Evola. Per gentile concessione); Tristan Tzara, Astronomia-calligramma, 1916

1921 e che sarà trasformata nel saggio Sul significato dell’arte modernissima (1925) e le precise date di pubblicazione di Arte Astratta (agosto 1920) e del poemetto La parole obscure du paysage intérieure che è del 1921 e non del 1920, come sino ad allora si era creduto, nonché rettificare l’opinione che la mancata pubblicazione di questa opera di Evola da parte delle Edizioni futuriste di “Poesia” non dipendesse da una decisione dell’autore ma dal successivo ostracismo dell’editore - cioè Marinetti- dopo che Evola si era spostato su posizioni dadaiste (lettera del 7 dicembre 1920), potendone anche avere una interpretazione autentica, quasi una decodificazione, del suo significato profondo (lettera non datata, probabilmente del novembre 1921). Inoltre gli storici dell’arte hanno potuto conoscere, cosa sino ad allora sconosciuta, l’elenco completo dei suoi dipinti esposti nella prima personale alla Casa d’arte Bragaglia del gennaio 1920 (lettera del 7 febbraio 1920). Dalle lettera emergono anche informazioni per i biografi: ad esempio che alla data del 1920 il ventiduenne Giulio Cesare Andrea Evola era ancora inquadrato come tenente di artiglieria, ma presso l’Ufficio dello Stato Maggiore della Marina… sarebbe interessante capire con quali mansioni. Ed ecco spiegato il motivo per cui alcuni testimoni dell’epoca ricordano di averlo visto a passeggio per Roma in divisa e mantello: non snobismo, quindi, ma perché non era stato ancora smobilitato.

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Le lettere sono importanti anche per gli studiosi del pensiero evoliano circa la ‘periodizzazione’ dei suoi interessi che non procedevano per compatimenti stagni. Apprendiamo ad esempio che in pieno fervore dada, nell’autunno 1920, Julius Evola stava lavorando a quello che sarebbe stato il suo primo libro ‘filosofico’, i Saggi sull’idealismo magico (Atanòr, 1925), opera propedeutica all’altra assai più impegnativa, Teoria e fenomenologia dell’individuo assoluto, uscita in due toni (Bocca, 1927 e 1930), conclusa già nel 1924. E infine soprattutto le ultime lettere a Tzara sono fondamentali per capire in che modo Evola intendesse il Dadaismo nel complesso del suo pensiero, che senso avesse e a cosa servisse nel suo ‘sistema’, e come si collegasse la filosofia dadaista con quella del taoismo e con la sua personale dell’Indivi-

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duo assoluto che stava elaborando. E che significato dare all’annuncio del proprio suicidio che, nel corso degli anni a venire, avrebbe sollevato non poche ironie e sarcasmi. Ma il giovane artista è chiaro: muore una persona e da lì spicca il volo un’altra. Il Dadaismo servì al giovane Evola per porre le basi della successiva fase del suo pensiero. Questo «piano scrive nella citata lettera della fine del 1921 - può essere il punto di partenza per una nuova vita e, dunque, il suo punto più basso. Questa nuova vita è il regno dell’iperbole che, come la chiamavano i greci è ‘Madre, sorella e figlia di se stessa’: è l’attività disinteressata: ossia la libertà». Un’indicazione che Julius Evola tenne presente sino al giorno della sua morte. Su tutto ciò, se non avessimo le lettere che Evola scrisse a Tzara, molto sarebbe ancora poco chiaro, anzi del tutto oscuro.

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SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016)



DADA 1921: UN’OTTIMA ANNATA Maria de Naglowska e il milieu dadaista in Italia MICHELE OLZI

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uando nell’ottobre del 1921 Julius Evola scrive a Tristan Tzara, le prime parole che possiamo leggere dalla lettera sono: Caro amico vi scrivo per sapere se siete già rientrato a Parigi. Se sì, sarete molto gentile se me lo comunicherete, affinché possa inviarvi un poema che ho pubblicato La parole obscure du paysage intérieur, e chiedervi qualche informazione. Niente di nuovo da me. Stiamo per aprire presto la stagione Dada a Roma.1

Sopra: Maria de Naglowska (1883-1936), in una foto del 1928 circa. Nella pagina accanto:

Nonostante «l’apertura» della stagione Dada auspicata dal filosofo romano, i mesi precedenti alla missiva vedono il susseguirsi di una serie di iniziative appartenenti al suddetto movimento d’arte d’avanguardia.2 Buona parte di queste manifestazioni hanno in comune il fatto di essere organizzate o di avere come protagonista il baro-

frontespizio di un esemplare della poesia Reste seul di Maria de Naglowska. Stampato in 240 copie (questa è la n. 18) nel 1918 a Ginevra, il componimento venne ripubblicato in Italia nella raccolta Malgré les tempêtes... nel 1921 (Roma, P. Maglione & C. Strini). Il disegno a penna del frontespizio è della stessa Maria de Naglowska

ne Evola. Vediamo così quest’ultimo, in qualità di pittore e poeta, contribuire attivamente, durante l’intero corso del 1921, alla scena dadaista romana. Lo stralcio della lettera a Tzara costituisce così uno dei momenti salienti nella diffusione di Dada in Italia. Allo stesso obbiettivo puntano gli sforzi perpetrati da Evola in quegli anni, nonché la sua stessa produzione artistica. A testimonianza di ciò troviamo appunto il suo componimento poetico “a quattro voci”, La parole obscure du paysage intérieur. Pubblicata ufficialmente tra il settembre e l’ottobre del 1921, la poesia La parole obscure du paysage intérieur - Poème à quatre voix3 è stata già introdotta e interpretata durante più d’uno degli incontri organizzati da Evola.4 Così quando quest’ultimo scrive al fondatore del Dadaismo parlando della sua composizione ha già in programma un’ulteriore presentazione della sua opera in pubblico. In occa-

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sione della serata del 29 ottobre del 19215 Maria de Naglowska declama La parole obscure du paysage intérieur presso le “Grotte dell’Augusteo”.6 “Le Grotte” consistono di alcuni locali ricavati nei sotterranei del Mausoleo d’Augusto, i quali diventano, a partire dall’aprile del 19217 il luogo di ritrovo e di esposizione del “Cenacolo d’arte dell’Augusteo” fondato da Arturo Ciacielli insieme a Ugo Giannattasio, Anton Giulio Bragaglia, Enrico Prampolini, Luciano Folgore e Vincenzo Cardarelli. Nonostante non si possa, ancora oggi, accertare tutti gli artisti e tutte le iniziative che abbiano aderito al Dada romano in quell’anno (1921), dell’evento alle Grotte dell’Augusteo e di un personaggio in particolare non abbiamo dubbi al riguardo. La frase «Stiamo per aprire presto la stagione Dada a Roma» si riferisce qui, oltre che al filosofo romano, alla persona e opera della poetessa, giornalista e traduttrice Maria de Naglowska. Oltre a leggere la poesia di Evola in occasione della serata dadaista, la Naglowska collabora edi-

NOTE 1

Elisabetta Valento (a cura di), Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (19121923), Roma, Fondazione Julius Evola, 1991, p. 42. La data esatta è il 24 ottobre 1921. 2 Il “Calendario della Grande Stagione Dada Romana”, recante l’intero programma dei luoghi, dei protagonisti e delle iniziative previste per l’anno 1921, è stato pubblicato prima parzialmente da Enrico Crispolti, Dada a Roma. Contributo alla partecipazione italiana al Dadaismo in «Palatino», luglio-settembre, 1968, pp. 295-296, e poi nel catalogo della mostra Julius Evola e l’arte delle avanguardie tra Futurismo, Dada e Alchimia, Milano,

torialmente alla stessa pubblicazione de La parole obscure.8 A questo punto una domanda è lecita, chi è questa Maria de Naglowska? Come arriva a frequentare l’ambiente delle avanguardie nel 1921? Marija Dmitrevna Naglovskaja9 nasce nel 1883 a San Pietroburgo. Cresciuta ed educata in seno all’aristocrazia, decide verso i vent’anni di lasciare la sua terra natia. Inizia così per lei un periodo di viaggi e di peregrinazioni tra le capitali dell’intera Europa. Alla fine degli anni Dieci è a Ginevra, dove si cimenta nell’attività poetica e di giornalista.10 In seguito al verificarsi di circostanze avverse, abbandona la Svizzera per l’Italia. Nel 1920 arriva a Roma, dove si ritrova in condizioni economiche disastrose. Il fatto più paradossale è che, l’avvicinamento all’ambito e ai luoghi delle avanguardie avviene proprio durante questa sua fase di disperazione. Scrive al riguardo uno dei figli della Naglowska, André: «il nostro domicilio divenne il caffè Aragno e il caffè Greco e noi dormivamo talvolta da un amico, talvolta da un altro».11

Fondazione Julius Evola, 1998, pp. 105108. 3 Julius Evola, La parole obscure du paysage intérieur - Poème à quatre voix, Zurich, Collection Dada, 1921. 4 Cfr. nota 2, ci si riferisce specificamente all’incontro previsto per il 15 giugno 1921. 5 Secondo la ricostruzione effettuata, nella sua tesi di dottorato, da Valeria Paoletti, Dada in Italia. Un’invasione mancata, tesi di dottorato di ricerca conseguita presso l’Università degli Studi della Tuscia, Viterbo, 2009, p. 74, disponibile online all’indirizzo http://hdl.handle.net/2067/1137. 6 Per ulteriori approfondimenti ri-

guardanti i luoghi di ritrovo dei movimenti d’arte d’avanguardia a Roma rimandiamo a Elisabetta Mondello, Ambientazioni, cabaret, teatri tra futurismo e avanguardia, in «Roma moderna e contemporanea», anno II, n. 3, settembre-dicembre 1994, pp. 605-625 7 Cfr. Le ‘Grotte dell’Augusteo’. Un nuovo cenacolo intellettuale, in «La Tribuna», Roma, 17 aprile 1921. 8 Sulla copertina de La parole obscure du paysage intérieur - Poème à quatre voix (prendiamo come riferimento uno dei novantanove esemplari numerati appartenente alla “Collezione ’900 Sergio Reggi”, depositato presso gli Archivi della Parola dell’Immagine e della Comunica-

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Potremmo considerare la frequentazione di quegli ambienti da parte dell’autrice come una mera coincidenza, se non fosse che, a partire dal 1921,12 la Naglowska incomincia a collaborare con il quotidiano «L’Italie».13 L’intellettuale di San Pietroburgo scrive per la rubrica dedicata alla ‘cultura e spettacoli’ nella capitale. Tra questi non troviamo solo le rassegne delle esposizioni artistiche presso il Caffé Greco, o della serie d’incontri su ‘arte e occultismo’ tenuti dal pittore e scultore Raoul Molin dal Ferenzona tra il maggio e il giugno del medesimo anno al Margutta,14 ma anche la recensione della raccolta di poesie della Nostra, Malgré les tempêtes15 (raccolta che viene pubblicata proprio nel 1921 dalla casa editrice Maglione e Strini).16 Un piccolo inciso occorre a questo punto: nello stesso anno Arte Astratta17 di Julius Evola, figura pubblicata da Collection Dada, a Zurigo. In realtà il barone l’ha fatta stampare, a sue spese, presso la medesima casa editrice che aveva pubblicato l’autrice russa. Inutile dire che, oltre all’editore romano di

zione Editoriale a Milano e visualizzabile online all’indirizzo: http://apicesv3.noto.unimi.it/site/reggi/), subito dopo il titolo troviamo scritto «traduit de l’italien par l’auteur et Maria de Naglowska». 9 Come risulta dal fascicolo a nome di «Elena Megeninoff» (sua zia) depositato presso l’Archivio Centrale di Stato, divisione ‘Affari Generali e Riservati’, a Roma, e come riporta la voce biografica dedicata alla poetesse russa, compilata dalla dottoressa Laura Piccolo per il Dizionario Biografico dell’immigrazione russa in Italia, consultabile online all’indirizzo www.russinitalia.it. 10 Per ulteriori approfondimenti sulla vita di Maria de Naglowska, rimandiamo

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Evola, le poesie della Naglowska hanno molto di più in comune con la dimensione Dada in Italia. Malgré les tempêtes - Chants d’amour raccoglie l’intera produzione poetica della Naglowska e la decisione di pubblicarla solamente nell’anno cruciale per Dada, 1921, fornisce una certa visione sull’insieme e lo stile delle poesie. Ciò che lascia poi definitivamente intravedere una vicinanza tra la Naglowska e la corrente d’arte d’avanguardia è il ‘gioco/sentire dada’ presente nei suoi componimenti. Due casi possono ben esemplificare ciò: si tratta delle poesie Reste seul e Chant de l’île déserte.18 Se Reste seul si caratterizza per l’utilizzo di sinestesie, metafore e percezioni che rivelano l’inconsistenza del vissuto umano, Chant de l’île déserte si configura a metà tra una pièce teatrale e una favola araba, in cui i personaggi (Un djinn, un poeta, il dramma, la poesia, la commedia) dialogano e si rimandano la parola l’un l’altro cercando di definire la natura del proprio essere, senza tuttavia mai riuscirci (in quanto confinati appunto su un’isola deserta).

il lettore italiano a Michele Olzi, Per una storia dell’Amore Magico, uno studio biobibliografico su Maria de Naglowska (1883-1936) in Hans Thomas Hakl (ed.), Octagon: The quest for wholeness mirrored in a library dedicated to religious studies, philosophy and esotericism in particular, Gaggenau, Scientia Nova, 2015-16. 11 André De Montparnasse, L’Apatride, Lyon, s.e., 1956, p. 25. 12 Ibid., p. 28; S. Alexandrian, op. cit., p. 6; Marc Pluquet, La Sophiale - Maria de Naglowska, Sa vie, Sa oeuvre, Paris, Ordo Templi Orientis, 1993, p. 4. 13 «L’Italie - Journal politique quotidien», era l’edizione francese del quotidiano romano «Il Tempo», pubblicata dal

1873 al 1940. 14 Maria de Naglowska, L’occultisme apporte la joie, mais souvent aussi le malheur in «L’Italie - Journal politique quotidien», 15 mai 1921, p. 5. 15 M. de Naglowska, Malgré les tempêtes in «L’Italie - Journal politique quotidien», 6 octobre 1921, p. 3. 16 Id., Malgré les tempêtes - Chants d’amour, Roma, P. Maglione & C. Strini, 1921. 17 J. Evola, Posizione teorica, 10 Poemi, 4 Composizioni, Zurich, Collection Dada, 1920. 18 M. de Naglowska, ult. op. cit., p. 18.

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SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016)



LA VITA E IL GESTO OLTRE LA KULTUR Che cosa ha fatto Dada all’arte? DARIO EVOLA

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afè Terrasse, Zurigo 1916, la guerra mondiale è già in corso, due signori giocano a scacchi. Sono Lenin e Tristan Tzara. Entrambi fuggono la guerra per motivi diversi. Il primo per muovere alla guerra, una guerra di segno opposto, il secondo semplicemente per evitarla. Entrambi giocano una partita oltre le vite dei giocatori. Chi sarà il vincitore? Vince chi sa davvero scommettere sul caso: la verità del gioco è nel caso non nella pura strategia matematica. Tzara è l’inventore di Dada, il movimento che afferma il caso come principio della vita, Lenin è lo stratega del materialismo scientifico, un grande sogno che, come tutti i grandi sogni del Novecento si sono tramutati in grandi incubi. Occupiamoci di Tzara e del suo movimento, di cui ricorre quest’anno il centenario. Per comprendere Dada e la sua vitalità continua, occorre restituire Dada alla vita, al caso, al gioco, all’eros, alle pulsioni, allo

Nella pagina accanto: Raoul Hausmann (1886-1971), Dada vince, 1920. Sopra: frontespizio del primo e unico numero di «Le coeur a barbe» (aprile 1922), “journal transparent” pubblicato e diretto da Tristan Tzara

choc, allo stoss (colpo) e sottrarlo alla storia dell’arte. Dada è choc, è stoss, è sorpresa. Non può essere incasellato come movimento artistico nel senso dei manuali né come movimento letterario o teatrale, neppure come movimento politico, ma come espressione del dissenso radicale a ogni conformismo. Dada contiene tutto ciò, opera all’interno dell’arte, della letteratura, del teatro, nella sfera del comportamento, è anti-arte ma agisce al di là dell’arte. Fra apollineo e dionisiaco sceglie di sbilanciare l’azione verso Dioniso con un inedito «nichilismo attivo».1 Il Cabaret Voltaire, fondato da Tzara, Ball, Janco e altri rifugiati a Zurigo, al civico 1 della Spiegelgasse, è una koinè sovranazionale, non classificabile come corrente estetica, ma come specchio - spiegel - deformante del reale. Dada agisce da specchio deformante. L’accusa che Platone muoveva all’arte mimetica, illusionistica, era quella della sua sostanziale inutilità, sostituibile facilmente con uno specchio rotante che avrebbe semplicemente riprodotto in immagine il reale. L’operazione di Dada, dopo due millenni di arte occidentale, fu quella di aprire radicalmente la crisi sulla funzione dell’arte

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Francis Picabia (1879-1953), Occhio cacodilato (1921), Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou

per ricercare le origini della condizione del fare arte. Non possiamo leggere Dada all’interno della storia dell’arte, ma possiamo chiederci «che cosa ha fatto Dada all’arte?». Quando nacque, nel 1916, Dada si affiancò a un movimento, il Futurismo già da tempo affermato. Il Futurismo si caratterizzava per due aspetti eccezionali: era il primo movimento estetico sostanzialmente immateriale, presentando l’opera d’arte più significativa con il celebre manifesto del 1909 (pubblicato, con consumata perizia mediatica). Seconda caratteristica del Futurismo era quella di agire programmaticamente sulla selezione di un pubblico colto dell’alta borghesia metropolitana. Terza caratteristica era la prevalente performatività declamatoria. La pittura più avanzata, come quella di Balla o di Boccioni, non si esauriva nel quadro, nella dimensione pittorica (come accade per altre avan-

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guardie, come l’analitica o la sintesi cubista postimpressionista), ma guarda già al di là della pittura. Inoltre Balla e Boccioni si trovarono a operare contemporaneamente a Kazimir Malevic. Quest’ultimo aveva già chiuso i conti con la pittura mimetico illusionistica esponendo nel 1915 il Quadrato nero su fondo bianco. Il pezzo in realtà era un ibrido: proveniva da una scenografia della piece cubofutursta Vittoria sul sole (1913) e venne esposto come una moderna icona a sottolineare che non rappresentava nulla ma che, come l’icona, era epifania, atto presentativo.2 Con il Futurismo, il Cubofuturismo e soprattutto con Malevic, all’inizio del Novecento, la pittura ha aperto un passaggio inedito verso l’interrogativo sull’immagine, verso la crisi della mimesis, della superficie pittorica. Con essi l’operazione artistica diventa procedimento, non è scissa dal corpo come operatività progettuale. E la funzione artistica non si esaurisce nella rappresentazione mimetico illusionistica ma si significa nella presentazione. La presentazione è declamazione, gesto, azione nello spazio e nel tempo. Dada supera l’arte come prodotto della kultur occidentale, per attraversare l’artificio inteso come aspetto linguistico corporeo e come procedimento. Dada, con il Cabaret Voltaire, dichiara le proprie origini nel Kabarett tedesco, un ibrido culturale caratterizzato dalla mescolanza di forme alte e basse della cultura, all’insegna dell’intrattenimento, della satira e del rituale metropolitano. Impossibile collocare le origini di Dada in un circoscritto ambito artistico o letterario. Fin dal principio il movimento si posiziona in una zona ambigua fra spettacolo, intrattenimento, comunicazione, azione, manifestazione, seguendo sempre un’idea di modalità performativa.3 Dada si pone come antiarte, di fatto opera una frattura nella cultura europea. L’arte non è più rappresentazione o espressione (pittorica, teatrale letteraria, poetica) ma viene addirittura vanificata nel gesto che rifiuta ogni rimando a qualsiasi forma di realtà e di idealità, nonché di concetti nozionistici come: eternità,

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storia, assoluto... Dada risponde alle indicazioni di Nietzsche secondo cui «solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati».4 Dada percorre la via dell’iperbole. L’esagerazione del reale per eccesso. Non si tratta di una alterazione della realtà al fine illusorio, come nel caso del Surrealismo ma, al contrario, la ricerca di una via per dare credibilità al messaggio attraverso l’eccesso espressivo. Nel caso dell’atto performativo, operando nella sfera del sociale e delle relazioni in luoghi non necessariamente deputati all’arte ‘alta’, Dada smaschera la retorica falsificante del “buon costume” sia borghese che della propaganda politica e culturale, della moda, del prodotto del ‘reale’ conformista e rivoluzionario. Contrariamente all’arte e alla cultura attuali, l’avanguardia storica ha saputo vincere sul proprio presente non adeguando l’estetica, ma sottoponendo l’inautentico del reale a iperbole, così da attuare un processo reattivo, e sottraendosi quindi alla dimensione artistica e culturale istituzionalizzata. Ogni azione si svolge fuori dagli schemi fin ad allora praticati e praticabili, la gal-

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leria, il museo, il teatro. Dada opera con gli oggetti quotidiani e nell’ambito dei luoghi di ritrovo ‘bassi’, come il cabaret. Mette in campo un armamentario antropologico inedito, dalla maschera negra alla declamazione disarticolata del linguaggio. La maschera non ha la stessa valenza di quella delle Demoiselles d’Avignon di Picasso di sette anni prima. Si ricerca un senso del ‘primitivo’, come azione corporea e pulsionale, sessuale e dionisiaca, significante non come langue ma come parol poetica, parola che equivale al gesto.5 È significativo l’interesse di Tzara per l’arte primitiva. Per Tzara l’espressione «cosiddetta primitiva» indica che il meccanismo della creazione artistica non riposa unicamente nell’invenzione delle forme ma nella possibilità. Le arti arcaiche o primitive ci insegnano che «gli stili nascono come necessità di espressione».6 Così come scoprirà Georges Bataille secondo cui il mondo primitivo, con la sessualità e con il gioco, si oppone alla produttività del lavoro, affermando dunque che l’espressione creativa primitiva è «superamento degli interdetti».7 L’azione di Dada è quella di di-

Tre copertine della rivista «Dada» (da sinistra: n. 1, luglio 1917; n. 3, 1918, con una xilografia a colori di Marcel Janco; nn. 4-5, 1919, con un disegno di Francis Picabia)

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struggere il linguaggio come mezzo di comunicazione, analizzando i codici e i sistemi di comunicazione per frantumarli con l’uso di parole senza significato, fonemi cui corrispondono azioni performative mutuate dal balletto, dal gesto teatrale, agìte in piccoli palcoscenici con scenografie rimediate e con costumi mutuati dalle figurazioni cubiste e cubofuturiste. Inoltre da Alfred Jarry si mutua l’iconicità pura e lo sberleffo, la Patafisica come «scienza delle soluzioni immaginarie», e 8 da Raymond Roussel il gioco combinatorio della parola che diventa testo immaginario e scatenamento di assonanze.9 La poesia diventa così azione (poieo), non rappresentazione. Alla operatività della vita quotidiana si oppone una meta-operatività che può essere solamente performativa. Il caso e la combinazione sono l’unica alternativa alla produttività del senso comune del lavoro, della fabbrica, dell’arte stessa. Il manifesto, la declamazione, producono eventi delegittimando l’arte mimetica e riportando la funzione artistica a evento in sé. L’unica via è quella dell’arbitrio dell’artista, dell’individuo assoluto liberato da ogni altra funzione. In questo senso vanno lette le serate dada a Zurigo con le danzatrici di Rudolf von Laban insieme alle

maschere africane e alle declamazioni di poemi composti di puri fonemi. Gli storici dell’arte, ossessionati dalla necessità di definizione, hanno, per esempio, motivato come opera d’arte il ready made di Duchamp. In realtà Dada supera l’arte intesa come linguaggio della kultur. Dada è il superamento della servitù della forma. Dada non ha lasciato in eredità teoria, tuttavia esiste una estetica dada senza una poetica. L’unica testimonianza teorica in questo senso la si deve a Julius Evola che, coerentemente, abbandonò poi ogni velleità di professione artistica già nei primissimi anni Venti, preferendo percorrere la vita assoluta, come del resto farà Duchamp praticando il gioco degli scacchi come unica chance della vita. Dada lascia piuttosto una eredità di devianza:10 la vita contro la natura statica. Così, dopo le iniziali esperienze di Zurigo, anche New York, Berlino, Colonia, Hannover, Parigi e Roma, nell’arco di meno di cinque anni, conobbero un movimento sovranazionale che segnerà un punto di non ritorno nell’esperienza artistica occidentale, una esperienza di devianza e di possibile segnata dall’iperbole e dal superamento stesso della dimensione artistica come limite estremo al di là di ogni conformismo.

NOTE

ventura Dada, Milano, Mondadori, 1972; L.

1

G. Lista, Dada e l’avanguardia, in:

Valeriani, Dada, Zurigo, Ball e il Cabaret Vol-

AA.VV. Dada, l’arte della negazione, De Luca,

taire, Torino, Martano, 1970; R. L. Goldberg,

Roma 1994 pp.39-58

7

G. Bataille, Lascaux. La nascita dell’ar-

te, Milano, Abscondita, 2014, pp. 43-51. 8

A. Jarry, Gesta e opinioni del dottor

Performance art from futurism to the pre-

Faustroll patafisica, Milano, Mondadori,

G. Di Giacomo, Malevic. Pittura e filo-

sent, London, Thames and Hudson, 1999; V.

1976.

sofia dall’astrattismo al Minimalismo, Ro-

Magrelli, Profilo del dada, Bari, Laterza,

ma, Carocci, 2014.

2006.

2

3

Cfr.: G. Ribemont Dessaignes, Storia

del Dadaismo, Milano, Longanesi, 1945; G. R. Morteo e I. Simonis (a c. di), Teatro Dada,

4

D. Evola, Il inguaggio oggetto in Ray-

mond Roussel .Per una estetica dell’imposF. Nietzsche, L’origine della tragedia,

Roma, Newton Compton, 1991, p. 134. 5

9

In quegli stessi anni Ferdinand De

sibile in AA.VV., Progetto Raymond Roussel, Roma, Lithos, 2003, pp. 43-53. 10

Cfr. V. Conte, Attraversando Evola.

Torino, Einaudi, 1969; H. Richter, Dada arte

Saussure pubblica il Cours de linguistique

Cavalcare l’arte come pensiero in «Il Bor-

e antiarte, Milano, Mazzotta, 1966; G. P. Po-

générale che raccoglie postume le lezioni di

ghese», n. 1, gennaio 2015, p. 62;

sani, Introduzione a T. Tzara Manifesti del

un decennio a Ginevra.

dadaismo e lampisterie, Torino, Einaudi, 1975; G. Hugnet (a c. di), Per conoscere l’av-

6

T. Tzara, Scoperta delle arti cosiddette

primitive, Milano, Abscondita, 2006, p. 36.

C. Strano, Il segno della devianza, Milano, Mursia, 2005.

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SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016)



ETERNA PROVOCAZIONE: LE ANIME DEL DADAISMO Fino al 1980: il Dad e le due vie di Duchamp CARMELO STRANO

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uoi vedere che, gratta gratta, anche i dadaisti, i nichilisti dell’arte, hanno un’anima? Come Velásquez, Delacroix, o Ingres, Kupka. Avere un’anima? Semplice: palpitare, pulsare in quello e per quello che si fa. «Ma non professi l’antiarte…?» Risposta: «sì, ma l’arte la faccio comunque, magari a modo mio, ma la faccio». Una risposta del genere avrebbe potuto darla anche Jean Arp, col suo viso asciutto da sbarbatello come le sue forme scultoree elementari di piglio astratto. Un’esperienza razionale ma in realtà basata su una irrazionalità e una libera espressività compresse. E poteva scoppiare, anche, questa esperienza, se intesa correttamente, e non come esperienza astratta autoreferenziale. Infatti, pochi anni prima

Sopra: copertina della rivista «Natura Integrale», nn. 19-20, giugno-luglio 1982. Fascicolo dedicato al Manifesto DAD, introdotto dal dialogo tra Pierre Restany e Carmelo Strano: Dada ha perso la A. Ma il relitto DAD si tramuta da larva in nucleo e si carica di positività. Nella pagina accanto: Tristan Tzara, in una celebre immagine del 1921 di Man Ray

del 1916 (data di nascita di Dada), Arp aveva militato, a Monaco, nel Blaue Reiter, accanto a Delaunay e Kandinsky. Inoltre, aveva collaborato alla rivista «Der Sturm» nel clima espressionistico ‘tempestoso’ (tanto per stare nel significato di quel titolo) nel quale la pubblicazione insisteva. Dunque, antitradizione, d’accordo, ma al pari di ogni altra esperienza astratta. Tra l’altro, la produzione successiva all’impegno dadaista - ad esempio, i papiers déchirés - ammicca alla natura.



Una più decisa anima anti-arte fu il coetaneo Kurt Schwitters (entrambi del 1887). Anima profondamente dadaista, sulla sua astrazione impera il polimaterismo audace (materiali di scarto, anche) misto a casualità, elemento lontano da ogni ricercatezza estetica e che fissa bene la distanza da Arp. Tensione alla perfezione, da parte del francese, work in progress, da parte del tedesco. Come accade con i Merzbild e i Merzbau, fino al Merzdichtungen, una sorta di poesia fonetica. Nel 1923 pubblica il primo numero della rivista «Merz» e comincia il primo Merzbau, opera plastica ambientale che pia-

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A sinistra e a destra: doppia parafrasi del duchampiano Nudo che scende una scala: una dello stesso Duchamp, ritrattosi mentre scende le scale, l’altra di Gerhard Richter (1932) che insiste nello stesso tema, ma ribadendo i tradizionali canoni della “bellezza della differenza” e della pittura; Man Ray (1890-1976), Ritratto di Max Ernst (1935)

no piano si snoda lungo i piani della sua casa di Hannover, con valori plastici legati al nonsense, allo horror vacui e al nichilismo di fondo proprio di buona parte dei protagonisti del Dada. Tante responsabilità in rapporto a tutto il Novecento, e oltre, verso l’arte ambientale e il polimaterismo. Il papier collé, da cui parte, costituisce solo un vagito in rapporto al suo accanito impiego del polimaterismo, con la complicità, e complicazione, del principio dell’objet trouvé fuso con la casualità.



In cerca di esplosione del proprio essere, Hugo Ball, anima del Cabaret Voltaire e volano dell’intero movimento, dopo i pochi mesi di fervore zurighese, implode verso la quiete religiosa. Ciò, sebbene avesse indicato in Kant il «nemico mortale che ha messo tutto in mano all’intelletto e al potere», laddove «il nostro cabaret è un gesto». Ha

per complice la sua compagna Emmy Hennings, modella, cantante, poetessa e amica di letterati e artisti. La coppia aveva riparato a Zurigo, dai sommovimenti sociali di Berlino. La città svizzera è meta e patria di rifugiati, dissidenti, sovvertitori del racconto psicologico (Jung, Joyce), renitenti alla leva, rivoluzionari, tra cui, uno per tutti, Lenin che vive non lontano dal Cabaret. Serate esplosive, di ispirazione futurista, tra arte, musica, canti, poesie. Il tutto all’insegna della ribellione profonda contro ogni establishment sociale, politico, culturale, spirituale, religioso. E invece: instabilità, lotta all’ordine logico costituito, fino all’esplorazione ed esplosione del «boom boom personale». Si tratta della libera estrinsecazione della spinta emotiva, istintiva e pre-logica che elude l’impeccabile logica della comunicazione denotativa. Ne è patrocinatore il rumeno Tristan Tzara, poeta antipoetico che, con Ball, fonda il Dada, con contributi teorici sciolti e a sbotti.



Il Dada di Colonia è invece animato da Max Ernst, assieme ad Arp e Johannes Theodor Baargeld. Quest’ultimo, poeta e pittore, tradisce il rigore etico della sua agiata famiglia ebraica, e contribuisce al movimento anche con la pubblicazione della rivista «Der Ventilator». Ma c’è una piccola grande ‘anima’ tuffata nella rivoluzione sociale: Angelika Fick (attivo anche suo fratello Willy), «Cometa del Dada di Colonia», moglie del pittore Heinrich Hoerle. Lascia un segno interessante, sebbene muoia di tubercolosi a 24 anni. In rapporto alle sue spinte rivoluzionarie, neanche il

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Dadaismo la soddisfa. E fonda, con altri, il gruppo ‘Stupid’: a favore del proletariato e dello spartachismo di Rosa Luxembourg (1919), ma suona di secessione alle orecchie di alcuni, tra cui Ernst. Tra fine Ottocento e primi Novecento, scoppia una condizione permanente di rivolgimento di ogni idea, struttura e metodo di pensiero. Ha matrice nella rivoluzione industriale e nelle connesse galoppate della scienza e della tecnologia. E investe tutto: il mondo esterno (società e il nuovo assetto abitativo, lavorativo, economico), quello interno dell’individuo (la psicologia), l’impulso relativizzante provocato dall’esplosione delle varie scienze, a partire dalla fisica quantica e nucleare. La dimensione tempo prende un’accelerazione esponenziale senza ritorno che incide in tutte le sfere del vivere, comunitario e individuale. Gli artisti quantomeno percepiscono questa condizione. Finito il primo conflitto mondiale, vedono

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scene di annientamento sociale, economico, fisico, morale. La disgregazione esterna si muove di pari passo a quella interna (psicanalisi). Vi si innesta l’influenza ‘negativa’, non priva di senso di morte, di Hegel, Schopenhauer, Nietzsche. Il principio di rivolgimento magnificato dai futuristi, con i dadaisti si traduce in negatività, in sotterranea depressione. La macchina? Sì, più bella della Vittoria di Samotracia, ma ora, dopo la guerra (già esaltata quale «igiene del mondo»), la macchina fa sentire tutta la sua freddezza meccanica, di lamiera asciutta che frena persino il generale senso del bello. E forse è il bisogno di una verità più profonda a provocare l’abbattimento di ogni certezza e verità.



Dada si agita sull’asse Zurigo-New York-Parigi. Con l’Armory show (1913), negli Usa appro-

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Sopra da sinistra: Hans Arp, Tristan Tzara e Max Ernst, in una foto scattata a Zurigo nell’estate del 1918; Johannes Baader (1875-1955), Autoritratto in casa (1918 circa), fotomontaggio

dano tante testimonianze dei fenomeni artistici europei, e anche premesse o primizie dada. Nel 1915 vi arriva Duchamp e nasce il sodalizio con Man Ray e Picabia, intorno alla figura del fotografo e animatore Alfred Stieglitz e ai mecenati e coniugi Louise e Walter Arensberg. Ma nella Grande Mela non si insinua il nichilismo. Occorre aspettare l’Action Painting. Quanto a Parigi, allenta il suo charme: Aragon, Breton e Soupault già nel 1918 avevano collaborato alla rivista dada; nella Ville Lumière, Tzara continua a pubblicare il suo «Bulletin Dada»; Breton rimugina il testo sul Surrealismo; Picabia pubblica le riviste «Cannibale» e «Philaou-Thibaou». Ma a sottolineare Parigi quale epicentro del nuovo Dada è la nascita, lì,

della rivista «Littérature». Intorno a essa gravitano tutti quanti: artisti, letterati pensatori. Fallisce il tentativo di rivitalizzare il movimento al “Congresso internazionale per la determinazione delle direttive e per la difesa della sperimentazione moderna” e, da lì a poco (1922), sarà lo stesso Tzara, in una sua conferenza a Weimar, a dichiarare la fine di Dada, con l’arguta precisazione che esso «ha provato non già a distruggere l’arte e la letteratura ma l’idea che di essa si aveva». Ma la vitalità di Dada si riversa nel Surrealismo, a partire dal ruolo, ormai capitale, della casualità e, inoltre, con la consapevolezza - ora - che si tratta di militare «au service de la révolution». Quanto al Dada svizzero-tedesco, buona par-

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te degli animatori si portano in Francia, a partire dai berlinesi toccati dalle reazioni autoritarie della NSDAP. Intanto il solitario Duchamp (attivo fra New York e Parigi), con un occhio alla scacchiera e uno alla pietra filosofale, ironico e beffardo, asciutto e incisivo, la sua parte l’ha fatta alla grande, sovvertendo l’estetica con la concezione della Beauté de l’indifférence. Essendo ormai senza senso la dialettica bello/brutto si va anche perdendo l’aura dell’opera d’arte. Meglio evitare, quindi, per Duchamp, l’emotività del pezzo unico e irripetibile, qualunque sia il giudizio dell’establishment estetico. Complessa la sua posizione d’artista, ma i principi sono chiari e distinti. Fino al paradosso. Come quando non essendo arrivata in tempo la sua Gioconda coi baffi perché potesse essere pubblicata da Picabia, questi genialmente prende un’altra copia del dipinto, vi appone i baffi e la pubblica a propria firma.



Oso dire che, con circa cinquant’anni di anticipo, Duchamp ha offerto a Jacques Derrida un metodo per raggirare la millenaria dialettica degli opposti e, a se stesso, il modo per oltrepassare il rapporto bello/brutto. Semplicemente evitandolo. Misconoscendolo. Ciò che conta è l’effetto sul fruitore. Sdegno? Ammirazione? Sta di fatto che niente di questo più lo sfiora davanti a un oggetto che lascia indifferenti. Analogamente, il filosofo francese avrebbe decostruito la roccaforte della dialettica degli opposti, eliminando la gerarchia degli elementi costruttivi. Col chiudersi degli anni Settanta, attribuivo a Duchamp l’avvio di due cammini paralleli: quello della razionalità (Il Macinino da caffè, Nudo che scende una scala, ecc.) e quello della irrazionalità (misto tra il demoniaco decadentistico e il teosofico-alchemico che innerva il ready-made). Sottolineavo, anche, la responsabilità di Dada di avere ispirato le correnti più vive apparse in quegli anni, secondo una linea di

Marcel Duchamp (1887-1968), in un celebre scatto del 1930 circa

Poetica Strutturale Sistemica (ad esempio, il Minimalismo) e una, più ‘polisensoriale’ (per dirla con Duchamp), di Poetica Strutturale Deviante (ad esempio, il Nuovo Realismo). Con l’inizio degli anni Ottanta, finisce questa spinta di Dada. Presa coscienza di ciò, nel 1981, redigevo il Manifesto Dad (Dada, che simbolicamente aveva perso la ‘a’, era finito) pubblicato anche sulla rivista «Natura Integrale», fondata con Pierre Restany, e che, con quel numero, intenzionalmente cessava. Dada lasciava il posto a Dad, alle ragioni semiologiche di segno opposto proprie della nostra epoca. Ma quella grande esperienza rimane una provocazione latente, uno stato mentale possibile, come la condizione classica e romantica.

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SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016)



IL DADA, OVVERO SULL’INDIFFERENZA Intervista al filosofo Romano Gasparotti GIOVANNI SESSA

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a storia del movimento dadaista si è sviluppata in sintonia con la crisi storico-politica del primo Novecento. Nel febbraio 1916, mentre accadevano i fatti della I Guerra Mondiale, a Zurigo, al n. 1 della Spigelgasse, venne fondato il movimento dada. Nella stessa tranquilla strada, al civico 12, viveva un distinto signore russo, Lenin: è corretto quindi dire che la dimensione ‘rivoluzionaria’ sia consustanziale al dadaismo? Ritengo che a proposito di Dada si tenda ad abusare del termine “rivoluzionario”. In senso proprio, ogni rivoluzione - che si giustifica sempre a partire da una concezione dialettica della realtà e della storia, nonché sulla base di una logica dicotomica, oppositiva ed escludente - mira a scardinare e ad abbattere il vecchio ordine, per sostituirlo con un ordine totalmente nuovo. Il pensiero messo all’opera da Dada, invece, nel suo sospendere e mettere tra parentesi - senza negarla - ogni logica tanto quanto ogni anti-logica, non nega affatto né il passato, né il

Nella pagina accanto: Marcel Janco (1895-1984), Manifesto per una serata del gruppo Dada (Zurigo, 1918). Sopra: Francis Picabia (1879-1953), Ritratto di Tristan Tzara (1918), acquarello, collezione privata

presente, né l’esistente, né ciò che è già dato, astenendosi, nel contempo, dal progettare e dal costruire un ordine nuovo. La cifra di Dada sta nella fedeltà alla più incondizionata indifferenza (rispetto al gusto, allo stile, all’esistente, al dato, a tutto ciò che c’è e potrebbe esserci). Il movimento non fu mai interessato a inaugurare l’ennesimo nuovo stile o modello artistico, ma semmai a prendersi gioco di qualsiasi stile, forma e di qualsiasi positiva proposta (vecchia o nuova che fosse). La sua dimensione, quindi, non solo non è ‘rivoluzionaria’ ma è la più sensibile al richiamo dell’immemorabile tradizione, se per tradizione intendiamo il mistero di quella potenza invisibile e inattingibile, la quale permane nel non potersi mai ripetere determinatamente e nel non identificarsi mai ad alcunché di positivo e di dato. Tradizionale, in questo senso, è ciò che può solo tradursi ed essere tradito ad indefinitum, nel suo essere senza tregua ricercato e sempre mancato. Il critico Arturo Schwarz ha definito il Dada l’unica avanguardia latrice di una effettiva rivoluzione culturale mirata all’abolizione dell’antinomia teoria-prassi. Nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, l’opera d’arte deprivata

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Vaslav Nijinsky (1889-1950), ritratto mentre si esibisce nella Gisèle

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- tanto occidentale quanto orientale - non è forse un folle atto d’amore nei confronti dei tremendi abissi del non pensare?

dell’aura, perde in valore ‘culturale’ ma acquisisce una nuova carica espressiva. È corretto Facendo invece riferisostenere che in Dada ciò è avmento al valore del ‘frammenvenuto con l’abolizione della to’, il Dada ne colse l’ambiguinozione statica dell’opera a fatà, esemplificata nel Readymavore di un’esperienza, umana e de e in altre produzioni di Duartistica, sempre in fieri? champ. Si pensi a L.H.O.O.Q. Sarebbe troppo logicamendel 1919, l’opera nella quale te sensato attribuire al Dada lo Monna Lisa diviene uomo. Il scopo di perseguire l’abolizione dadaismo sembra così aver dell’antinomia tra teoria e prassi, raccolto il lascito ideale di proprio per il carattere ‘finalistico senza scopo’ che ‘un’altra filosofia d’Occidente’, antica, fiume esso attribuisce al ‘gioco dell’arte’. A partire dal carsico del contemporaneo, che dice - con Leoprogetto annunciato da Tristan Tzara di «distrug- pardi - le cose non essere mai qual che sostengogere l’arte con l’arte», il Dadaismo mostra nel mo- no di essere. Concorda? do più disincantato come non già l’arte nuova, benIl punto è proprio qui! Il readymade, al di là di sì tutta l’arte degna di questo nome, non è realizza- tutte le interpretazioni che ha suscitato, mostra che zione di significativa progettualità soggettiva né si le cose, a tutti i livelli, compreso quello artistico, non identifica mai totalmente con gli oggetti mondani sono mai quello che manifestano e dicono di essere. con cui può avere a che fare. Il carattere evenemen- E che solo il puro gioco indifferente dell’arte può, di ziale, non intenzionale e insensato del processo ar- volta in volta, simbolicamente mostrare ciò! Senza tistico è talmente condotto sino all’estremo dal Da- esprimerlo e ben lungi dal comunicarlo. Al di là di daismo, da esigere, alla fine, addirittura lo svuota- ogni feticismo sia dell’oggetto che del significato. mento di ogni determinato pensare, per sprofonda- Disse Duchamp che gli oggetti dell’arte non sono re nei vortici di quella totale assenza di pensiero, in che «miraggi»: indubitabilissimi nel loro apparire, cui si custodisce la possibilità di ogni pensiero pen- ma aventi la medesima obiettiva icasticità di un misante e pensato. Dada invita a laraggio… Per concludere con una sciarsi andare al più gratuito dei sintesi: per l’esperienza dada, Romano Gasparotti (1959) giochi, giocandosi a oltranza il l’arte non ha soggetto - l’artista è insegna Fenomenologia del‘non-luogo’ dell’assoluto vuoto solamente il medium dell’evento l’immagine presso l’Accademia di pensiero. Da questo punto di artistico (peraltro potenzialmendi Belle Arti di Brera, a Milano. vista, al movimento dadaista si te raffinabile dai fruitori) -, non È autore di numerosi saggi e addice ciò che, nel 1919, scrisse il ha oggetto - che è solo un miragvolumi, fra i quali: “I miti della grande ballerino Vaslav Nijinsky gio - né produce alcunché di nuoglobalizzazione” (2003); “Fia proposito del danzatore quale vo. Bensì può momentaneamengurazioni del possibile” (2007); «filosofo che non pensa» (e che, te insorgere come puro dono “Filosofia dell’eros” (2007); proprio in quanto non pensante, gratuito, del tutto disinteressato “L’inganno di Proteo” (2010); è veramente filosofo). Del resto, e indifferente rispetto a ogni sua “Il quadro invisibile” (2015) tutta la grande danza del pensiero significabilità.

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inSEDICESIMO LE MOSTRE – RIFLESSIONI

– LO SCAFFALE

LA MOSTRA/1 APPUNTO PER FRANCESCO HAYEZ Alle Gallerie d’Italia di Milano a cura di luca pietro nicoletti

rima della grande mostra curata da Fernando Mazzocca e Maria Cristina Gozzoli nel 1983, la pittura di Francesco Hayez non godeva di particolari consensi. Su di lui gravava la “sfortuna dell’accademia” nella storiografia artistica novecentesca, su cui appena allora si cominciava a togliere il velo, e non poco contava il giudizio severo di Giulio Carlo Argan, che pure inaugurava la sua Arte moderna con un Canova “illuminista” che non consentiva di salvare il più giovane pittore veneziano, che pure in vita si era molto giovato del sostegno

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entusiasta accordatogli dal maestro di Possagno. Si provava ancora un certo fastidio per una pittura di storia intrisa di valori melodrammatici, in più occasioni avvicinabile con naturalezza alle opere messe in scena dal teatro musicale e da Giuseppe Verdi in particolare. Era quello scarto sentimentale, talvolta non privo di enfasi, che non si poteva conciliare con le utopie razionali di democrazia, sebbene Hayez fosse stato indicato da Giuseppe Mazzini, durante l’esilio, come emblema di pittore “democratico”. Si trattava dunque di

ridisegnarle linee portanti di un tratto di storia dell’Ottocento, secondo i modi della più avanzata storiografia di quegli anni: brevi introduzioni e lunghe schede che instaurassero con le opere un dialogo concreto e tenacemente filologico fino a farne un motivo di militanza culturale. Era in quell’occasione che molti dei quadri di Hayez, per la prima volta studiati con lo stesso rigore riservato alla pittura antica, recuperavano i lunghissimi e verbosi titoli con cui figuravano nei cataloghi delle esposizioni dell’epoca, eloquenti quanto allo spirito del quadro di storia come un moderno “fermo immagine” con commento didascalico. Va da sé che allora il maestro veneziano non era ancora il pittore de Il bacio, quanto quello del Risorgimento nelle mentite spoglie

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della storia medievale e rinascimentale. Non a caso, nel 1983 faceva da copertina una riproduzione del grande I profughi di Parga del 1826-31. Presto tuttavia la prospettiva si sarebbe rovesciata, e Il bacio, nella prima versione del 1859 oggi a Brera, che campeggia sulla copertina del poderoso catalogo 2015 curato ancora una volta da Mazzocca per la mostra alle milanesi Gallerie d’Italia, sarebbe diventata l’icona, logorata dal suo stesso successo, dell’amore romantico. Eppure altri, ben prima degli storici dell’arte, si erano accorti del potenziale “frappant” di quella tela, a partire dall’esplicito omaggio tributatogli da Luchino Visconti, il cui occhio sensibile era planato con intelligenza sulla pittura italiana dell’Ottocento, in una famosa scena di Senso. Oppure, fra le note di costume, la semplicità e immediatezza di quell’immagine, così vicina ad un’apprensione visiva di inizio Duemila, erano risultate chiare al direttore artistico della Perugina, che la

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utilizzò per decorare le scatole del famoso cioccolatino inventato da Luisa Spagnoli e che, grazie ad Hayez, da “cazzotto” veniva ribattezzato in “bacio”. Tutto questo, però, fa parte dell’Hayez “mediatico”, tralasciando invece la ricchezza di temi e motivi presentati dalla bellissima e ricchissima mostra promossa dalle Gallerie, da cui emerge l’inequivocabile statura del pittore, dotato di un virtuosismo mai ostentato, quanto esibito con la naturalezza di un prodigio che si dà per compiuto per mezzo del disegno: anche nei momenti di più buia sfortuna, i suoi dipinti si sarebbero fatti notare per un livello di qualità (non solo di bravura) con pochi precedenti e pochi possibili confronti. Fino alla fine della sua carriera, Hayez non dimentica i modi e le pratiche della pittura di antico regime, e anche a Milano, che gli darà fortuna e successo consentendogli di ritrarre fra i più notabili dell’epoca, da Manzoni a Rosmini, non si dimenticherà mai

della sua formazione sull’esempio dei maestri veneti. Non è di poco conto se ancora in tarda età ricordava con vivezza, nelle memorie dettate nel 1869 a Giuseppina Negroni Prati Morosini, la Presentazione di Maria al tempio di Tiziano come una delle più grandi folgorazioni avute visitando le veneziane Gallerie dell’Accademia. O ancora, nei pochi cimenti giovanili con la difficile arte dell’affresco, tradisce nella gamma di tenerezze cromatiche e luministiche, il tirocinio sui modelli veronesiani e soprattutto tiepoleschi. Ed è tipicamente veneto, infine, il ricorso, frequente nei primi anni, alla pratica di veloci oil sketch di presentazione o di memoria, quasi a uso di bottega, di proprie invenzioni. Del resto Hayez diventa presto pittore di fama, richiestissimo dai collezionisti e più di una volta spinto a replicare proprie composizioni per committenti diversi: è il caso, prima di tutti, proprio del Bacio, il cui prototipo del 1859 vede una replica con varianti

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aneddotico-narrative nel 1861 e ancora nel 1867. Ma soprattutto, il vero tratto fondante della pittura di Hayez è una portentosa abilità di mano, fondata sul disegno ma, all’occorrenza, vibrante di pennello. Alla base, infatti, vi è un assoluto controllo dei registri pittorici, capace di modulare stesure più fuse, tornite da una regia luministica fatta di ombre digradanti ma esatte e visibili, e momenti di maggior libertà di polso. Lo dice bene il confronto fra le due versioni di Romeo e Giulietta, più metallica nella tela di Villa Carlotta (1823), più calda e pittorica nell’edizione in collezione privata veneziana (1833). Del resto, come tutti i pittori veneti, Hayez ha un debole per i panneggi, di cui sa restituire l’epidermide e la morbidezza con qualche concessione talvolta alla sprezzatura. Ci si potrebbe addentrare nel pelago delle letture iconologiche, ma gli studi hanno già detto molto sulle fonti visive e letterarie, sui messaggi criptati di contenuto risorgimentale che si insinuano fin nell’abbinamento dei personaggi (i colori delle bandiere italiana e francese con cui vestono i due amanti del Bacio) o nelle effigi di Giacomo e Filippo Ciani nascoste sotto le vesti degli apostoli, o fra gli astanti delle grandi scene di storia. Su questo, però, esiste molta efficace bibliografia anche divulgativa, come il folgorante e appassionato libretto monografico, più volte ristampato, dedicato sempre da Mazzocca nel 2003 appunto al Bacio. Vale la pena di riflettere, invece, sul merito delle opere, sull’impaginazione

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teatrale dei grandi e affollati quadri di storia, fatti per prolungate e ravvicinate perlustrazioni entro le quali scovare di volta in volta una testa di carattere, un aneddoto, un dettaglio: uno per tutti, il soldato scalzo alle spalle di Pietro l’eremita nel grande dipinto del 1827-1829. Il racconto si svolge come un palco in cui i personaggi si affacciano alla ribalta, in primo piano, dove deve avvenire la scena madre della rappresentazione. E questo vale per i quadri di storia come per quelli biblici, e persino per le fortunate scene ambientate a Venezia: i suoi personaggi, ora, sono come attori calati in una parte, da interpretare con spirito melodrammatico. Ci si accorge poi che Hayez rimescola e rifonde motivi nuovi e motivi attinti dalla storia dell’arte: con una certa impressione si coglie che il gesto dell’Odalisca del 1839 rimanda a quello della Fornarina di Raffaello di tre secoli prima. Si potrebbe dire lo stesso per un genere come il ritratto, il più fedele a determinati schemi e modelli e alla loro riproposizione secondo un codice formale e sociale. Ma soprattutto, merita soffermarsi sul quadro di figura, a partire da una prova di bravura, anche se forse non esente da retorica, come l’Ajace Oileo del 1822. È un quadro nato in risposta ai detrattori che lo accusavano di

HAYEZ H AYEZ AYE MILANO, GALLERIE D’ITALIA – PIAZZA SCALA 7 nnovembre ovembre - 2211 febbraio febbraio 22016 feb 016

dipingere solo scene molto affollate per incapacità di padroneggiare a sufficienza il dettato anatomico: Hayez lo realizza in quindici giorni, come consuetudine nelle sfide di abilità fra pittori all’epoca in voga, realizzando una figura nuda grande al vero fatta atteggiare in una posa che esibisse l’evidenza tornita della muscolatura in tensione, non senza cura verso la morbidezza di certe pieghe della carne. Ad uno sguardo ravvicinato, poi, si nota, unico caso fra le opere in mostra, che nel trattamento pittorico del nudo Hayez usa una tessitura analoga al tratteggio incrociato dei disegni d’accademia (di cui una bella selezione è stata presentata da Francesca Valli all’Accademia di Brera) che segue l’andamento dei volumi muscolari. Il tratteggio, che non compare invece nei più rapidi e vibranti studi preparatori per i dipinti, aiuta a meglio accompagnare una modulazione chiaroscurale del corpo che sia solida e sensibile, capace, nei nudi femminili, di raggiungere dei picchi di esplicita sensualità. Non è il caso, naturalmente, delle immagini, pur non prive di sottile provocazione, de La meditazione (1851) o di Tamar (1847) o di Rebecca al pozzo (1848), ma nelle bangnati come la grande Betsabea al bagno del 1833, e del disegno a inchiostro e rialzi in biacca tratto da questo (ancora un’autoreplica), oggi nelle raccolte del Castello Sforzesco di Milano. È evidente che il tema biblico è del tutto marginale negli interessi del pittore: è principalmente un pretesto per una rappresentazione su grande formato, intima e sensualissima, di un nudo

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femminile immerso in una luce calda e carezzevole. Il definitiva, Betsabea risponde al tipo della bagnante colta dall’osservatore nel momento di immergersi o di uscire dall’acqua. Se si volesse chiamare in causa la teoria dell’assorbimento di Fried, Betsabea è una bagnante che non si accorge della presenza dell’osservatore, comportandosi a prescindere da questo, diversamente da quel velo di timidezza che si trova negli occhi della Bagnante del 1859. Ma Hayez, che pure ci si accorge essere molto vicino alle convenzioni e allo spirito del nudo moderno, aveva fatto un salto nel rapporto fra dipinto e modello nudo in posa che aveva provocato qualche sconcerto. Aveva fatto discutere, per esempio, il solido, morbidissimo ma tornito nudo di spalle che ritraeva la ballerina Carlotta Chabert presentato nel 1830 come Venere che scherza con due colombe. A diturbare parte dei visitatori di Brera era il fatto che la donna non fosse stata sufficientemente idealizzata per poter essere a buon diritto identificata con una Venere e non con una donna in carne ed ossa, con i seni piccoli e le natiche sode che non potevano passare inosservate. Ma il gioco di provocazione era nelle corde di Hayez, come ricorda nelle memorie, in cui giocano sia le dimensioni ragguardevoli della tela, degne del quadro mitologico, sia la nitidezza così sfacciata di questo nudo, di terga oltretutto, troppo vero per poter essere tenuto in quella distanza irraggiungibile delle immagini astrattamente ideali: questa Venere, anzi, sembra mostrarsi proprio perché

l’osservatore si avvicini a lei non solo con lo sguardo. Ma dalle Memorie si capisce anche che per Hayez il rapporto con il modello aveva un ruolo centrale, tanto da dichiarare la necessità di trovare di volta in volta un modello che avesse le caratteristiche fisiche giuste per impersonare un personaggio della storia o della mitologia, cioè un corpo vero adatto a impersonare un carattere

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astratto, quasi calando le “antiche forme” nel tempo presente. Era il caso dell’imponente Sansone della galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze: «figura grande al vero e forse più, avendo avuto la fortuna d’un bellissimo modello il quale presentava tutte le antiche forme della scultura greca […] credo di essere riuscito a rendere una figura con quel carattere nobile e forte che portava il soggetto».

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LA MOSTRA/2 IMPALPABILI TORMENTI Adolfo Wildt a Milano i deve al gusto eccentrico di un editore collezionista come Franco Maria Ricci l’avvio della fortuna storiografica contemporanea di Adolfo Wildt (1868-1931). È dalle pagine patinate e lussuose della sua rivista, “FMR”, e poi da una monumentale monografia a firma di Paola Mola per le stesse edizioni, infatti, che a partire dagli anni Ottanta si è ricominciato a parlare dello scultore milanese e la sua fama ha ripreso quota. Un lungo silenzio era calato su di lui, nel secondo dopoguerra, per la “colpa” di aver realizzato una delle più fortunate e riuscite effigi scultoree di Benito Mussolini: tanto era bastata per oscurare uno dei più significativi, eccentrici e singolari maestri della scultura italiana del Novecento. Eppure in vita, pur fra periodi di difficoltà e di stenti, non gli erano mancate occasioni di notevole consenso: una fra tutte l’incontro con il mecenate prussiano Franz Rose, che, folgorato dalla sua opera, nel 1894 decide di fargli un contratto di esclusiva per acquistarne tutte le opere, e che durerà fino alla morte del collezionista nel 1913. Estraneo alle avanguardie, Wildt si muove sostanzialmente su un binario personalissimo ed eccentrico, continuamente in dialogo con la scultura del passato, fra citazioni puntuali e picchi di invenzione visionaria che ne fanno “l’ultimo simbolista”. Su questo dialogo con l’arte

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antica, anzi, era imperniata la mostra di Forlì del 2012, immediatamente precedente a quella all’Orangerie nell’estate del 2015, riproposta a Milano a cavallo fra 2015 e 2016. È proprio alla base di questa rilettura più recente del lavoro di Wildt il suo rapporto con i maestri del Rinascimento (basterebbe la testina di Augusto Solari del 1919, facilmente imparentabile con certe teste di fanciulli fra Mino da Fiesole e Desiderio da Settignano) o del Seicento (la citazione puntuale da Bernini nella bellissima e pulitissima Santa Lucia del 1926), fra scultura e pittura. Ancora a Parigi, faceva un certo effetto il piccolo e prezioso Vesperbild di Cosmè Tura oggi al Correr in dialogo con il Wildt più duro ed ascetico: se il confronto poteva non rivelarsi filologicamente serrato, indubbiamente un comune senso dell’anatomia forzata in senso espressionistico li poteva accomunare. Ora, abbandonate fonti e maestri, nella tappa milanese di via Palestro l’opera di Wildt si presenta nel suo purissimo e altero, se non propriamente maniacale virtuosismo che ne faceva un assoluto maestro, come recita il titolo di un suo fortunato e bellissimo libretto, ADOLFO WILDT (1868-1931). L’ULTIMO SIMBOLISTA MILANO, GALLERIA D’ARTE MODERNA MILANO 27 novembre -14 febbraio 2016

Adolfo Widt, Vir temporis acti,i Collezione Ricci

de L’arte del marmo. Egli è sempre stato, infatti, un grande maestro nel cantiere della scultura, cosciente della materia nella sua struttura e nella sua superficie, fedele al mestiere tradizionale, portato a livelli altissimi di complessità formale ed esecutiva, ma pronto alla logica delle repliche e delle varianti: è questo, per esempio, il senso delle due versioni de la Vedova (Atte) e del 1892, presentate in fila insieme alla sua fonte di ispirazione diretta della vestale canoviana, oppure delle tre versioni della Maschera dell’idiota in marmo (appartenuta a Dannunzio) o in bronzo. Repliche in più colori e soprattutto in più materiali, infatti, potevano dare letture diverse della medesima forma, come sapeva bene, su tutt’altro pianeta della scultura, il suo contemporaneo Medardo Rosso. Fa una certa impressione, poi, se si pensa che il suo Vir temporis acti,i l’elegante e violenta reintepretazione del Torso del Belvedere in chiave eroica, ma non priva di delicatezze come i capezzoli a bocciolo fiorito, è del 1911, nella stessa Milano in cui Umberto Boccioni cercava di unire nella stessa scultura una testa antigraziosa e un

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Adolfo Wildt, Ombra

infisso di finestra: sono due pianeti che non possono né vogliono in alcun modo comunicare, ma che esprimono le vie inquiete dell’inizio del secolo. Questo Vir,r di cui si conservano solo versioni parziali con brani più o meno ampi dell’originale distrutto dai bombardamenti di cui fu vittima la collezione Rose, aiuta a capire molto del mondo ascetico e volitivo di Wildt: un guerriero sferzato dal tempo e dal destino, a cui allude lo scudiscio che batte sul suo petto e disegna sul suo volto una smorfia di dolore. Un’anatomia marcata, quasi violenta, incollata sullo scheletro, tanto che, a

una vista posteriore, non solo è evidente la spina dorsale, ma alcune costole affiorano sotto le scapole. Non c’è psicologia nel dolore raffigurato da Wildt, ma un contrasto di forze più grandi, caricate nelle espressioni e gravate sul fisico di possenti semidei vessati dalla sfortuna, o una diafana rarefazione spirituale che non ha nulla a che fare con i moti dell’animo. È un mondo più alto, più netto, titanico e simbolico, fatto di immagini che incarnano il concetto di anima, o il concetto di dolore, tradotti in maschere alla stregua, forse, dell’opera wagneriana. Non per nulla, il

capolavoro tragico della sua carriera fu dedicato a Parsifal,l una figura avvitata in un’eccezionale torsione manierista definita anche, in modo eloquente, il Puro folle. Sono maschere, poi, i due volti di Carattere fiero Anima gentile. Una maschera è anche Il prigione dai denti serrati e digrignanti del 1915, a cui l’artista ha tagliato di netto la calotta cranica per serrare l’attenzione sull’espressione del volto, resa ancora più stridente dalla politezza riflettente, quasi di porcellana, con cui tratta il marmo dandogli una intonazione calda che sa rendere soffusa la luce che scivola sulle forme. È proprio il modo di affrontare le superfici che permette di capire che la base fondante di Wildt scultore è soprattutto nel disegno. È un nesso evidentissimo, per esempio, nelle prove di rilievo stiacciato, in cui realizza un profondo sottosquadro per dividere la figura dal fondo, ma lo stesso modo di marcare i profili delle figure, di caricare le espressioni del volto e di accentuare o prosciugare l’anatomia, affonda le sue radici in un’idea grafica della scultura, ulteriormente sottolineata dall’uso di minute e preziose dorature. Non mancano piccole eleganze - che negli anni Novanta hanno indotto a chiamare in causa, senza i dovuti distinguo, le finezze preziose e sofisticate (ma non ascetiche) dell’Art Nouveau - come i capelli ondulati tagliati a scodella e appiccicati al cranio di Vir temporis acti,i o la cuffia della minuta, apparentemente fragile L’anima e la sua veste (1916), che nasconde una capigliatura dorata fatta per

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scanalature meridiane (che Casorati scultore non parta da qui oltre che da Arturo Martini?). Eppure il raffinato, pauperistico lavoro di Wildt disegnatore non è immediatamente confrontabile con la scultura: i suoi delicatissimi disegni a grafite con dorature, fatti in punta di matita con un impeccabile controllo nel modulare la pressione del sottilissimo tratto, arricchiscono piuttosto l’immaginario wildtiano di quelle invenzioni difficilmente trasferibili tridimensionalmente. Un esempio per tutti è L’ombra del 1913: cinque figure nude camminano in cerchio sotto un grande anello scuro da cui fioriscono cinque arbusti flessuosi, carichi di pomi e magre foglioline. Eppure i tempi moderni non riescono a restare del tutto fuori dal suo mondo. Per il ritratto del pilota Arturo Ferrarin (1929), per esempio, pensa ad un’erma cava dagli occhi forati - di cui resta famosa l’impressionante vista posteriore interamente dorata come un’urna modernista - ma poi calca sul suo capo berretto e occhiali da pilota che lo riportano immediatamente al suo tempo. È forse il solo caso riscontrabile di un aggiornamento iconografico a motivi attuali: per il busto di Vittorio Emanuele III, per esempio, non aveva esitato a cingere il capo del re di alloro, denudando le spalle come si confà all’atemporale nudità degli eroi. Eppure, anche quando copre d’oro il marmo e lo smaterializza, la preziosità quasi impalpabile della scultura di Wildt non è mai del tutto apollinea o pacificata: una profonda, sottile inquietudine è entrata, leggera come un filo d’oro, anche nell’Empireo mistico.

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LA MOSTRA/3 RIFLESSIONI SU MONET A Torino alla GAM consueto, ormai, un certo scetticismo quando si sente annunciare una nuova mostra dedicata agli Impressionisti o a singoli maestri di quella tendenza: la minaccia della mostra blockbuster si riaffaccia facendo temere un rapporto inverso fra la fama dell’artista e la qualità delle opere in prestito. Non è il caso della bella mostra di Monet organizzata alla GAM di Torino a cura di Guy Cogeval, Xavier Rey e Virginia Bertone, che pure risulta essere stata la mostra più visitata del 2015. Non lo è per la sobrietà e leggibilità lineare del percorso, studiato con attenzione sensibile, e non lo è per la compattezza e qualità del gruppo di dipinti che sono venuti a sud delle Alpi. Si tratta di una mostra che raduna infatti un folto gruppo di opere dalle

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collezioni del museo d’Orsay, ma distribuite normalmente su più sedi del museo o in deposito presso altre istituzioni anche fuori Parigi. Si ha quindi l’occasione di vedere opere che comunque difficilmente si potrebbero vedere vicine. Andando più a fondo, poi, si potrebbe riflettere sul gusto e sulle scelte operate dai musei statali francesi: il più grande museo al mondo dedicato alla pittura francese dell’Ottocento si trova a non aver documentato la stagione più tarda del maestro nell’inoltrato Novecento. Eccettuate le grandi tele panoramiche delle Ninfee in pianta stabile all’Oragerie, e giustamente inamovibili, il Monet presentato dalle collezioni del Museo d’Orsay e raccontato dalla mostra torinese non è il pittore delle serie, dei covoni e dei ponti giapponesi,

Régates à Argenteuil (1872), olio su tela, Paris, Musée d’Orsay, © RMN-Grand Palais (musée d’Orsay) / Patrice Schmidt

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Le déjeuner sur l’herbe (entre 1865 et 1866), olio su tela, Paris, Musée d’Orsay, © RMNGrand Palais (musée d’Orsay) / Benoît Touchard

dei pioppeti e delle ninfee (eventualmente, è il pittore delle serie sulla Cattedrale di Rouen), ma quello degli anni più militanti dell’Impressionismo. Ed è una pittura, per molti aspetti, più legata alla tradizione dell’Ottocento che proiettato in avanti vero logiche concettualmente novecentesche: pittore di quadri singoli, insomma, che non ha ancora fatto sua la logica delle varianti sul motivo. In una cosa Monet è concettualmente un maestro con i piedi nella modernità novecentesca: come molti artisti del “secolo breve”, egli è artista “tipologico”, la cui identità è consegnata ad un certo modo di lavorare ed a gruppi (o serie) di opere e di soggetti, ma non a singoli capolavori senza i quali una narrazione che lo

riguarda sarebbe mutila o addirittura orfana. Il quadro di qualità, nel suo caso, spicca per tenuta espressiva, ma non esiste nella sua carriera un dipinto che valga come quadro eponimo seguito da opere di minor peso: non tante prove più o meno riuscite in attesa del capolavoro isolato, ma opere singole ed equivalenti che possono ogni volta essere il capolavoro emblematico e rappresentativo per MONET DALLE COLLEZIONI DEL MUSÉE D’ORSAY E DELL’ORANGERIE TORINO, GALLERIA CIVICA D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA 2 ottobre 2015 31 gennaio 2016

decifrare la ricerca del pittore. Lo stesso accadrà con l’informale una volta finita la seconda guerra: non per nulla uno degli interpreti più lucidi di quel momento, Clement Greenberg, evidenzierà un nesso forte fra la pittura dell’ultimo Monet e l’action painting americana, non senza ben note ricadute museali a distanza. Rispetto a tutto questo Monet è un precursore, ma non escluderei che questo sia dovuto a una certa frenesia da parte sua. Ne cade vittima, forse, la grande Colazione sull’erba, tanto cara a Francesco arcangeli, che l’artista lascia parzialmente incompiuto. È un quadro con il raro pregio di far capire come lavorasse il pittore e di quali strategie adottasse ma no a mano che l’elaborazione del dipinto di complicava. Ci si accorge per esempio che Monet abbozzava l’opera a pennello per sommi capi, andando poi ad ispessire progressivamente la materia aggiungendo le ombre e soprattutto le luci, andando via via aumentando nello spessore della stesura: lo si nota bene osservando la figura di sinistra, in abito ocra, che sta entrando nella scena. Sono noti gli interessi di Monet per la luce e per la sua fugace registrazione sulla tela. Ma quello di cui ci si accorge visitando la mostra di Torino e la varietà di modi di condurre il quadro da parte dell’artista, dalle opere in cui sono più scoperte le sue radici ottocentesche, nel solco di Corot, fino a rimontare, come fece notare a

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suo tempo Arcangeli, alla pittura di paesaggio olandese del Seicento: lo scarto sarà nel passaggio dalla gamma dei bruni a quella dei colori squillanti, dalle ombre di terra bruciata alle ombre blu. Dall’uno all’altro, però, non cambia il modo di concepire il dipinto, disegnando a pennello con un colore scuro e riempiendo poi con i colori più chiari. Lo si vede molto bene nei riflessi sull’acqua, in cui meglio si distingue la sequenza delle operazioni: prima i tratti più scuri, poi mano a mano che aumenta lo spessore della pittura ecco arrivare le luci più chiare, fino alla pittura di tocco evidente. Ogni pennellata, spesso, è in dialogo con quella che gli sta accanto ma ne resta separata, quasi in un precorri mento ancora espressionista del futuro divisionismo, e condotto totalmente in chiave emotiva. È il procedimento che consente, del resto, di cominciare un quadro all’aperto e di finirlo in studio, annotando sul posto tutto quello che è necessario al risultato finale. Ma questo, per altro verso, porta a una sorta di disfacimento della forma all’interno della materia: il disegno, o l’abbozzo, è già pittura e non più chiaroscuro, e l’effetto che ne deriva è fortemente retinico piuttosto che plastico. Solo la veduta del parlamento di Londra in controluce, con cui efficacemente si chiude la mostra, è un dipinto di tessitura polita e compatta: qui la trama è così fitta e vibrante che viene da pensare a Monet accarezzare con il pennello la tela, in modo da dare all’insieme un effetto ovattato. Sarebbe legittimo chiedersi, a questo punto, per quale ragione fare una mostra di Monet proprio a Torino.

Un buon motivo, in partenza, sarebbe il fatto che si tratta della città italiana ancora oggi più francofila. Questo le darebbe già una patente di legittimità in competizione con Venezia, città amata dal pittore e più volte dipinta e per due volte teatro, nel corso della Biennale, di importanti esposizioni che lo riguardano (un’importante personale retrospettiva nel 1932 e una parete nell’importante mostra degli Impressionisti del 1948). Del resto, alcune delle opere presentate in questa mostra erano già state in Italia in occasione delle due manifestazioni lagunari, e sottotraccia rievocano un rapporto con il Monet su cui la critica italiana si è misurata maggiormente. Ma una ragione più profonda lega Torino e Monet in un’occasione mancata. Lo si apprende dal bel saggio di Virginia Bertone sulla fortuna novecentesca del pittore fra 1932 e Essai de figure en plein-air: Femme à l’ombrelle tournée vers la droite (1886), olio su tela) Paris, Musée d’Orsay, © RMN-Grand Palais (musée d’Orsay) / Hervé Lewandowski

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1962, argomento che meriterebbe un intero libro. Dagli archivi della GAM è infatti emerso il tentativo da parte di Vittorio Viale, mitico direttore dei musei civici torinesi nel dopoguerra, di assicurare nel 1958 un’opera del maestro alla erigenda galleria d’arte moderna. La sede che ancora oggi ospita il museo avrebbe aperto i battenti nel 1959. A Viale, che desiderava fortemente avere in quel museo una saletta dedicata agli Impressionisti, viene segnalata la presenza presso un mercante di Parigi di un dipinto, a fronte delle difficoltà oggettive di reperimento di sue opere, che poteva valer la pena di assicurare a Torino. Quella scelta corrispondeva al desiderio di Viale di offrire alla città un museo di respiro internazionale che, senza dimenticare le proprie radici regionali, si aprisse ad esempi e modelli stranieri. L’Impressionismo, oltretutto, funzionava piuttosto bene con una lettura della storia dell’arte moderna che contemplava linee e tendenze che oggi godono di minore fortuna, fra il cosiddetto “astrattoconcreto” di Lionello Venturi e gli artisti della seconda École de Paris, ad oggi visibili in Italia solo per merito della lungimiranza di Viale. L’acquisto, per motivi non del tutto chiari, non va in porto, e il piccolo dipinto di Renoir acquistato nel 1952 non troverà più un compagno di parete in museo. Questa mostra, in qualche modo, inconsapevolmente risarcisce lo smacco di allora, e riconferma il merito di un museo che ancora, per molti aspetti, mantiene un ruolo pilota e fa parlare di sé.

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LA MOSTRA/4 SPIRITO E MATERIA Stefano Soddu e Valentino Vago a pittura di Valentino Vago e la scultura di Stefano Soddu si incontrano per la prima volta nella mostra presso Colleoni Proposte d’arte di Bergamo. L’esposizione vuole proporre accostati, attraverso una scelta di opere storiche e una selezione di lavori recenti dei due artisti, due modi, in nome dell’astrazione, di intendere il rapporto fra arti visive e tensione spirituale: due proposte che, pur con storie e linguaggi distinti, possono efficacemente interagire con suggestivo effetto d’insieme. Entrambi, da un punto di vista puramente concettuale, sono arrivati a fondare il loro lavoro su una dimensione di forte vocazione ambientale, in un caso per via di disseminazione (Soddu) nell’altro di rarefazione (Vago). A monte è infatti un desiderio di ridurre il linguaggio ai suoi termini essenziali e disadorni, necessari a una maggiore concentrazione spirituale dell’immagine. Non a caso, infatti, la pittura di Vago ha trovato la sua ideale compiutezza nella pittura murale (specialmente nei luoghi di culto), mentre la scultura di Soddu ha trovato la sua piena identità nella installazione. Ma al contempo, mentre si allargano su spazi dilatati, sia il lavoro di Vago sia quello di Soddu perdono limiti netti e definiti: per il primo la parete è uno sconfinamento rispetto alla tela in uno spazio di cui altera la percezione attraverso

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un’immersione cromatica; per il secondo, invece, l’interazione con lo spazio lo porta di volta in volta a una reinvenzione e ad un riadattamento dell’installazione al luogo. Un ulteriore punto di contatto, poi, si incontra proprio girando questa mostra: i cumuli di polvere colorata delle installazioni di Soddu possono apparire come un rispecchiamento delle ampie e digradanti campiture di Vago, specie le più accese e infiammate: per entrambi il colore provoca un punto luminoso intenso e, in ultimo, spirituale. Ma il punto fondamentale, che segnala la maggiore distanza fra i due, sta sul problema della materia, che per Soddu ha una solida gravitazione al suolo, senza smaterializzarsi come la pittura di Vago. Questa distanza, tuttavia, non rende il dialogo fra due

STEFANO SODDU E VALENTINO VAGO BERGAMO, COLLEONI PROPOSTE D’ARTE http://www.colleoniarte.com/ 5 novembre - 31 gennaio 2016

artisti di generazione così distanti meno ricco e produttivo. Materia solida che gravita al suolo e rarefazione che procede verso la smaterializzazione, dunque, arrivano a toccarsi. I punti di distanza, sotto il profilo fenomenologico, restano evidenti: un pieno dominio del visivo da una parte (Vago) e un’operazione concettuale che sonda i rapporti fra immagine e parole s, soprattutto, sulla parola in immagine (Soddu). Questo, tuttavia, non impedisce un efficace rapporto dialettico all’insegna della semplificazione e riduzione, seppur raggiunta in un caso per via di togliere (Vago) nell’altra per via di sintesi. Il passo successivo, che darebbe a questo dialogo un sigillo definitivo, li vedrebbe all’opera su scala ambientale, laddove la pittura sfonda i confini del quadro e la scultura irrompe nel vuoto circoscritto dei volumi architettonici. Bisogna quindi interrogarsi sul significato ultimo del rapporto fra arte e spiritualità di fronte a istanze aniconiche. Messa fra parentesi l’esigenza didascalica, l’immagine sacra è diventata soprattutto esperienza del sacro: l’indicibile è luce e colore, in senso romantico, o spazio e architettura in accezione arcaizzante. In entrambi i casi ricerca l’infinito, un’immagine che la mente umana non sa contenere e raffigurare: esiste, ma è un’emanazione irradiante di luce che, talvolta, filtra da una ferita.

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RIFLESSIONI L’UCCISIONE DI UN ARCHEOLOGO E LA FOLLIA DELL’ISIS Intervista a Maria Teresa Grassi, direttrice della Missione Archeologica Italo-Siriana di luigi sgroi

oche settimane prima dei tragici attentati perpetrati a Parigi da terroristi fanatici legati all’Isis, il mondo aveva appreso - attonito - della pubblica esecuzione dell’archeologo Khaled al-Asaad, comminata dal sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi e dai suoi seguaci. L’accusa era quella di tradimento, per aver tentato di salvare l’immenso patrimonio artistico della città siriana di Palmira, dichiarata dall’Unesco (grazie proprio al lavoro di Khaled alAsaad) Patrimonio dell’Umanità nel 1980. Dopo essere stato ripetutamente torturato, e non avendo rivelato ai suoi aguzzini ove aveva messo al sicuro dalla follia iconoclasta dei guerriglieri dell’Isis alcune opere d’arte e reperti

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archeologici, Khaled al-Asaad secondo quanto riferito dal «Guardian» - fu trascinato in piazza e decapitato davanti alla folla. Il suo corpo venne lasciato esposto alcuni giorni, come monito. «la Biblioteca di via Senato», inorridita di fronte a questa barbarie, ha incontrato Maria Teresa Grassi, docente di Archeologia presso l’università di Milano e direttrice della Missione Archeologica Italo-Siriana di Palmira. PProfessoressa rofessoressa G Grassi, rassi, sappiamo sappiamo cche he lei lei ha ha conosciuto conosciuto ppersonalmente ersonalmente KKhaled haled aal-Asaad. l-Asaad. C Cosa osa rricorda icorda ddii llui ui ssotto otto iill pprofilo rofilo uumano mano e pprofessionale? rofessionale? Khaled al-Asaad è stato per

decenni il direttore del sito archeologico di Palmira e a esso ha dedicato la sua vita, con studi, ricerche e anche con tanti lavori di restauro e ricostruzione, finalizzati alla tutela e alla valorizzazione. Quando ho avviato la Missione archeologica congiunta italo-siriana a Palmira, nel 2007, il professore era già in pensione, ma naturalmente continuava a interessarsi di tutto quanto accadeva nel sito. Veniva a trovarci, sul cantiere di scavo o in museo, per conoscere il nostro lavoro e informarsi di quanto stavamo facendo. Naturalmente, parlare con lui era di enorme interesse per tutti noi, e i suoi consigli e suggerimenti erano preziosi. Khaled al-Asaad era la memoria storica di Palmira. el eazione ddel stata llaa rreazione Quale Quale è stata ccisione? sua uuccisione? opo llaa sua iriano, ddopo opolo ssiriano, ppopolo Non lo so, non ho notizie al riguardo. Quando la notizia è stata battuta dalle agenzie di stampa di tutto il mondo, lo scorso agosto, ci sono state alcune comunicazioni via mail, nell’ambito della comunità scientifica internazionale, con i colleghi siriani, espressione del dolore, Sopra: il teatro di Palmira. A sinistra: un'immagine delle rovine di Palmira.

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del cordoglio, e anche della rabbia impotente verso un crimine così odioso. Posso immaginare le stesse reazioni in quanti lo conoscessero, ma temo che, in un Paese devastato da una tremenda guerra civile da quasi cinque anni e dove ormai quasi ogni famiglia ha subito perdite dolorose, questo genere di notizie sia all’ordine del giorno e forse - drammaticamente - non abbia lo stesso impatto che ha avuto nei paesi occidentali. Chi Chi hhaa ucciso ucciso Khaled Khaled aal-Asaad, l-Asaad, e pperché erché ? Le notizie le ho ricavate anch’io dalle agenzie di stampa internazionali, che parlano dell’uccisione a opera dello Stato Islamico che ha occupato buona parte del territorio siriano. Per quanto riguarda i motivi della sua uccisione, io credo che il principale sia stato quello - ancora una volta - di attirare l’attenzione di tutti i media. Dopo l’occupazione nel maggio scorso, Palmira non era più stata al centro dell’attenzione; l’assassinio di Khaled al-Asaad l’ha riportata in prima pagina.È stato anche detto che si voleva fargli rivelare il nascondiglio dove parte dei reperti mobili di Palmira potrebbero essere stati messi in salvo. Nessuna di queste notizie è però verificabile con sicurezza. Nel N el caso caso ddii PPalmira, almira, m motivo otivo ddel el rrigetto igetto e ddella ella ddistruzione istruzione delle delle opere opere dd’arte ’arte è, è, di di ffondo, ondo, ssolo olo llaa ccultura ultura iiconoclasta conoclasta del del mondo mondo m musulmano, usulmano, o ltro? aanche nche aaltro? Mi pare che, nell’attuale contesto storico, il motivo di queste distruzioni

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Sopra: Khaled al-Asaad, davanti a un sarcofago rinvenuto a Palmira

vada ricercato soprattutto in una deviata (ma purtroppo efficace) strategia di comunicazione, una comunicazione globale, planetaria, che arriva a tutti. È difficile stabilire quale peso abbia l’ideologia, in particolare quando si parla di ‘distruzione degli idoli’. La storia racconta che tante volte ci si è accaniti, anche con grande violenza, sulle immagini di culture/tradizioni/religioni ‘altre’, per spazzare via l’altro, per cancellarlo, per farlo dimenticare. La storia racconta, ma purtroppo non insegna nulla. Quali Q uali ssono, ono, a ssuo uo ggiudizio, iudizio, i ttesori esori ppiù iù iimportanti mportanti di di PPalmira almira ? È difficile stilare un elenco di tesori. Vorrei invece sottolineare l’importanza di Palmira nel suo complesso, non solo perché è stata una grande metropoli dell’Impero Romano d’Oriente, ma anche per lo straordinario contesto ambientale che ne ha determinato lo sviluppo e l’ascesa, e cioè la grande oasi del deserto siriano, quasi a metà strada tra Mesopotamia e Mediterraneo,

divenuta, tra II e III sec. d. C., tappa obbligata su una delle grandi vie commerciali che univano Oriente e Occidente. E forse definirei il ‘tesoro’ maggiore che Palmira ci ha lasciato in eredità la rielaborazione in forme originali della cultura occidentale (mediterranea, greco-romana) e orientale (oltre l’Eufrate). cultura ale cultura sempio ddii ttale are uunn eesempio Per Per ffare potrebbe si potrebbe cosa si he cosa rtistica, cche aartistica, enzionare? menzionare? m Tra le opere d’arte più note di Palmira vorrei ricordare i rilievi funerari, di cui si possono ammirare alcuni esemplari anche in grandi collezioni museali, come ad esempio il Louvre, il British Museum o i Musei Vaticani (solo per citarne alcuni). I palmireni costruivano grandi tombe collettive, dove venivano sepolti tutti i membri di un clan e quindi dove trovavano posto anche centinaia di defunti, ognuno dei quali era deposto in un loculo chiuso da una lastra di calcare in cui era scolpito il suo ritratto. Questa straordinaria galleria di immagini ci presenta una opulenta,

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silenziosa e serena comunità di uomini sdraiati per sempre a banchetto con ricche vesti ricamate di origine orientale oppure abbigliati all’occidentale (con tunica e mantello) e di donne con sfolgoranti gioielli (in gran parte di tipologie diffuse anche in Occidente, ma esibiti in grande quantità, secondo la tradizione orientale). Prevedete Prevedete qualche qualche aaltra ltra m missione issione iinn SSiria? iria? Ave A Avete vete qqualche ualche progetto progetto aarcheologico rcheologico pparticolare articolare a PPalmira almira o aaltrove? ltrove? Purtroppo, per il momento, non è assolutamente possibile programmare alcuna missione in Siria dove, vorrei ricordare, erano numerosi i progetti

italiani nell’ambito del patrimonio culturale. Si è interrotta, tra le altre, anche l’importante missione a Ebla del prof. Matthiae, che operava nel sito da 50 anni. Io e tutti i colleghi coltiviamo la speranza di poter tornare, un giorno, in Siria, ma quando, dove e come, non è possibile attualmente neppure immaginarlo. Nel frattempo, io continuo a lavorare in Italia, sempre nell’ambito dell’archeologia romana, in un piccolo centro fondato dai Romani a nord del Po nel II sec. a. C., Bedriacum (attuale Calvatone, in provincia di Cremona). Sono molto legata anche a questo scavo (l’anno prossimo saranno 30 anni che ci lavoro) che, a ogni nuova campagna sul campo, riserva sempre

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nuove scoperte, nuove domande e nuovi orizzonti. Cii tolga C tolga uuna na ccuriosità uriosità : llaa Venere VVeenere ddii Ci C Cirene, irene, rrestituita ir estituita aalla lla Libia Libia ddii Gheddafi G heddafi e poi poi sscomparsa, comparsa, ssecondo econdo llei, ei, cche he ffine ine hhaa ffatto? atto? Io spero che sia finita dimenticata in qualche oscuro magazzino, magari ben imballata e rivestita di stracci, in una brutta cassa di legno, senza cartellini né numeri di inventario né indicazioni di alcun genere. È così che spesso, nel passato, tante opere d’arte importanti si sono salvate (penso alla Seconda Guerra Mondiale e alle opere nascoste per sfuggire alle razzie naziste). Un oblio passeggero (spero), in cambio della salvezza.

MARIA TERESA GRASSI rofessore di Archeologia delle Province Romane, Maria Teresa Grassi insegna presso l’Università degli Studi di Milano. Ha partecipato, dal 1980, alle attività di ricerca, di studio e didattiche della Sezione di Archeologia dell’Ateneo milanese (attualmente nel Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali), in particolare agli scavi degli abitati romani di Angera (Va) e di Calvatone-Bedriacum (Cr), di cui è direttore dal 2005. Nel 2007 ha organizzato la Missione Archeologica congiunta italo-siriana PAL.M.A.I.S., di cui è direttore, che opera nel quartiere sud-ovest di Palmira-Tadmor, in Siria. I suoi interessi principali riguardano la romanizzazione della Cisal-

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pina e i rapporti tra Celti e Romani; la cultura materiale di età romana, in particolare la ceramica; la numismatica; i rapporti tra centro e periferie nell’Impero Romano, con particolare riferimento all’Africa e alla Siria. È autrice di alcune monografie

Maria Teresa Grassi, a Palmira

(sui Celti in Italia, sugli Insubri, sulla Lombardia, sulla ceramica a vernice nera) e di numerosi articoli scientifici. Ha pubblicato inoltre alcune opere di carattere divulgativo (le guide archeologiche di Libia e Tunisia).

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LO SCAFFALE Pubblicazioni di pregio più o meno recenti, fra libri e tomi di piccoli e grandi editori Paolo Grillo, “L’aquila e il giglio. 1266: la battaglia di Benevento”, Roma, Salerno Editrice, 2015, pp. 136, 12 euro La battaglia di Benevento del 1266 è comunemente presentata come una sorta di malvagio scherzo del destino ai danni di Manfredi, il figlio dell’imperatore Federico II, che venne sconfitto dalle forze di Carlo d’Angiò, che riuscì in tal modo a impadronirsi del Regno di Sicilia. A partire dalla narrazione ‘guelfa’ degli eventi, che spiegava la clamorosa quanto imprevista vittoria di Carlo con la sacralità della sua missione, voluta dal papa e benedetta da Dio, ha replicato una versione ‘ghibellina’, appoggiata dall’autorità dantesca, con l’immagine del Manfredi «biondo, bello e di gentile aspetto». Si tratta però di un’immagine deformata che quest’opera di Paolo Grillo (professore di Storia medievale presso l’università di Milano) vogliono correggere, restituendo tutta la complessità di una vicenda impossibile da ridurre alle letture nazionaliste/ regionaliste o clericali/anticlericali del secolo passato.

“Comedia di Dante con figure dipinte”, a c. Luca Marcozzi, Roma, Salerno Editrice, 2015, pp. 132, 60 euro L’esemplare della Commedia con il commento di Cristoforo Landino, pubblicato a Venezia da Pietro Piasi nel 1491 e conservato presso la Casa di Dante in Roma, presenta a corredo del testo un ricco apparato di postille e di figure dipinte che illustrano i passaggi salienti del poema di Dante. Il fitto mistero che ha a lungo circondato il loro autore solo in anni recenti si è dissolto per far emergere la figura di Antonio Grifo, poeta e cortigiano veneziano vissuto negli ultimi anni del Quattrocento a Milano, nell’ambiente raffinato della corte di Ludovico il Moro. Grifo è ricordato per l’amicizia con Leonardo e per la sua attività di poeta lirico e commentatore di Dante. Il commentario che qui si propone - a cura di Luca Marcozzi - è a corredo della riproduzione in facsimile dell’opera e illustra dettagliatamente tutte le figure dipinte sui margini della Commedia (quasi quattrocento, cui si aggiungono centinaia di decorazioni minori e motivi floreali). Arricchiscono il commentario un’approfondita introduzione all’opera e all’autore e

alcune tavole di confronto che illustrano il rapporto delle figure del Grifo con l’arte della propria epoca e con la tradizione iconografica della Commedia. “Il cibo negli ex libris”, a c. di Gianfranco Schialvino, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, 2015, pp. 96, 10 euro Il raffinato volumetto Il cibo negli ex libris (tirato in 500 esemplari) è il catalogo dell’omonima mostra tenutasi nei prestigiosi spazi della Biblioteca Braidense di Milano, dal 20 aprile al 17 maggio 2015, in concomitanza con l’Esposizione Universale. Sfogliare quest’opera, curata con la consueta perizia da Gianfranco Schialvino, è un’occasione per un breve ma gratificante viaggio nell’universo degli ex libris (in questo caso aventi come soggetto principale il cibo, tema di Expo Milano) che ormai da tempo «non sono più solo un marchio di proprietà apposto da un bibliofilo sui volumi della propria biblioteca ma artistica forma di espressione personale, specchio del gusto e della cultura del proprietario».

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Editoria



Una raffinata sopraccoperta da recensire Gli 80 anni di America primo amore di Mario Soldati MASSIMO GATTA

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olo la raffinata lettura critica di Salvatore Silvano Nigro poteva rimettere in gioco a distanza di tanti anni, facendole interagire in un meccanismo finissimo e perfetto, l’arte di Carlo Levi, la scrittura di Mario Soldati e la critica di Mario Praz. Tutti convocati intorno alla domanda, insieme sibillina ed elegante, se sia «lecito recensire una copertina».1 E Nigro precisava: «O meglio: maneggiare l’immagine della copertina di un libro, come chiave di lettura del libro stesso?».2 E convocando il grande anglista, Nigro esplicitamente affermava la necessità di guardare meglio e più in profondità ad aspetti del paratestuale che giustamente potevano nascondere inedite e suggestive ‘lettuNella pagina accanto: America primo amore, sovraccoperta originale di Carlo Levi, Firenze, Bemporad, 1935. Qui sopra: America primo amore, copertina di Carlo Levi, Milano, Oscar Mondadori, 1976

re’ critiche. E tutto ciò recensendo un libro di Roberto Calasso che conteneva una scelta dei suoi risvolti di copertina per altrettanti volumi Adelphi.3 Siamo quindi, seguendo la lezione di Genette,4 nel più puro paratestuale: sopraccoperta, copertina, risvolto. Quel risvolto di copertina di cui lo stesso Nigro sarà ele-

gante protagonista quando si tratterà per lui di ‘trafficare’ con quelli per i libri di Andrea Camilleri.5 E proprio il concetto di ‘soglia’, nel saggio di Genette, verrà riutilizzato da Nigro, nella recensione a Calasso, quando scrive: «Il riuso narrativo di una vecchia recensione finì per sovvertire, in questo modo, i tradizionali confini del libro, le sue frontiere. Sottrasse la copertina alla sua funzione di ‘soglia’. La portò ‘dentro la narrazione’. Ne fece l’immagine conclusiva, nella quale venivano a risolversi le direzioni tematiche del tessuto narrativo».6 Portare dentro la narrazione la copertina è forse il sogno di ogni grafico; e in fondo questa emancipazione porta la copertina a ‘rendere libero’ il libro.7 Ma da dove parte Nigro, chi convoca in quella recensione? Ai primi di luglio del ’35 l’editore Bemporad di Firenze pubblicava America primo amore di Mario Soldati, dopo che lo

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A sinistra: Mario Soldati in un disegno di Fulvio Bianconi, 1959. A destra: Mario Soldati (1906-1999)

scrittore torinese aveva vanamente atteso da Bompiani una risposta per la pubblicazione: «Bene, Bompiani mi ha fatto aspettare un mese e poi lo ha rifiutato. Tra le ragioni non dette c’erano naturalmente motivi politici. In un capitolo parlavo apertamente del mio filosemitismo»;8 del resto Bompiani non era nuovo a queste censure o autocensure editoriali per motivi politici, ricordiamo nel 1941 il caso della ristampa de La Mascherata di Moravia.9



L’edizione originale edita da Bemporad10 è rivestita da una splendida sopraccoperta11 in rosso e azzurro, opera di Carlo Levi, realizzata in un pomeriggio del maggio del ’35 (o del ’34?12): «una diavolessa distesa i cui contorni ripetono quelli degli Stati Uniti, contorni ripresi

NOTE 1 Per l’esattezza si tratta della sopraccoperta, e non della copertina, della prima edizione di America primo amore di Mario Soldati (Firenze, Bemporad, 1935), una brossura riquadrata con fregio, cfr. Lucio Gambetti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche del Novecento italiano. Repertorio delle edizioni originali, Milano, Sylvestre Bonnard,

2007, p. 880. Da notare, inoltre, che sia Soldati che Levi utilizzeranno nei loro scritti (vedi oltre) il termine “copertina”. Cfr. anche l’ottimo saggio di Ilaria Crotti, che qui molto opportunamente recupera il termine “sovraccoperta”, Carlo Levi interprete di Soldati: appunti per una sovraccoperta, in Marcello Ciccuto, Alexandra Zincone (a cura di), I segni incrociati. Letteratura italiana del

‘900 e arte figurativa, Viareggio, M. Baroni, 1998, v. 1, pp. 685-698; più in generale vedi sul tema Giovanna Zaganelli, Letteratura in copertina. Collane di narrativa in biblioteca tra il 1950 e il 1980, Bologna, Lupetti, 2013 e Storie in copertina. Protagonisti e progetti della grafica editoriale. Con bozzetti e illustrazioni, presentazione di Ambrogio Borsani, Pavia, Edizioni Santa Caterina, 2014

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più sopra dove la diavolessa si confonde in una selva di grattacieli. «Era bellissima», dice Soldati a Lajolo. Quasi vent’anni dopo il celebre artista e scrittore torinese ricorderà l’episodio ne La copertina dell’America.13 Intanto quella copertina di Levi non sfuggì all’occhio assoluto di Praz che, nella recensione14 che farà al romanzo di Soldati, coglierà in essa (ignorandone però, o dovendone ignorare, il nome dell’autore, come ricordava Soldati nel ’76) suggestioni miltoniane («fosforeggiante di riferimenti miltoniani», precisa Nigro15). E lo scrittore torinese se ne ricorderà al punto di giovarsene, ‘ritagliando’ un tassello della recensione e inserendolo in Storia di una copertina (scritto a Tellaro il 4 gennaio del ’7616), aggiungendolo alla fine della ristampa negli Oscar Mondadori del ’7617 dove, in omaggio a Levi a un anno dalla morte, la Mondadori utilizzò proprio l’illustrazione della sopraccoperta originale

[Quaderni del Master di editoria, 7]. 2 Salvatore Silvano Nigro, Il mondo in un risvolto, «Il Sole 24 Ore-Domenica», 12 ottobre 2003. 3 Roberto Calasso, Cento lettere a uno sconosciuto, Milano, Adelphi, 2003. 4 Cfr. Gérard Genette, Soglie. I dintorni del testo, a cura di Camilla Maria Cederna, Torino, Einaudi, 1989.

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Rimando quindi al raro L’arte del risvolto. Dieci note di Salvatore Silvano Nigro per dieci libri di Andrea Camilleri, con testi di Andrea Camilleri (Il risvolto dei risvolti, pp. 5-8) e Salvatore Settis (Alette, pp. 9-12), Palermo, Sellerio editore [ma Officine Grafiche Riunite di Palermo], dicembre 2007, edizione f. c. per gli amici della Sellerio, stampata in 300 copie numerate a mano in

numeri arabi, più 20 in numeri romani, contenenti ciascuna un’acquaforte originale di Edo Janich, numerata e firmata dall’artista, tirata al torchio su carta Hahnemühle e su carta Cina, dalla Stamperia Calcografica di Venezia. Vedi anche Italo Calvino, Il libro dei risvolti, a cura, e con una Nota (p. V) di Chiara Ferrero, Torino, Giulio Einaudi Editore, novembre 2003, edizione f. c. stampata in

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Palermo, Sellerio, 2006, ediz. non venale in 1500 copie

del ’35.18 Era questo il «riuso narrativo di una vecchia recensione» di cui scriveva Nigro. Il ricordo che ne fece Soldati («dramma-

1000 copie numerate a macchina ed Elio Vittorini, I risvolti dei Gettoni, a cura di Cesare De Michelis, Milano, Libri Scheiwiller, 1988. 6 Salvatore Silvano Nigro, Il mondo in un risvolto, cit., corsivo mio. 7 Cfr. Jhumpa Lahiri, La copertina non fa il libro, lo rende libero, «la Repubblica», lunedì, 8 giugno 2015, pp. 32-33. Sul binomio li-

primo amore, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Palermo, Sellerio, 2003 [La memoria, 569], pp. 299-300 [versione che riprende, correggendone gli errori, quella mondadoriana del ’76, ristampata nel ’90 con l’aggiunta di una ulteriore nota introduttiva, oltre quella di Raboni, firmata da Laura Barile]. L’edizione Sellerio contiene la riproduzione fuori testo della sovraccoperta di Levi

Sopra da sinistra: copertina dell’edizione Sellerio, 2003, nuova ediz. 2014; copertina dell’edizione originale Bemporad, 1935. Nella pagina accanto da sinistra: Mario Soldati, Il profumo del sigaro toscano, Bologna, Ogni uomo è tutti gli uomini Edizioni, 2010; Album di Mario Soldati,

bro/libertà rimando scontato è a Luciano Canfora, Libro e libertà, Roma-Bari, Laterza, 1994, seconda ediz. ivi, 2005. 8 Davide Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa con Mario Soldati, Milano, Frassinelli, 1983, p. 48; la citazione è ora in Salvatore Silvano Nigro, Viaggio nella “stanza chiusa” della scrittura di “America primo amore”, in Mario Soldati, America

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tizzazione teatrale», seguendo Nigro), pur nella concisione, è di estrema eleganza narrativa e, nell’immagine della polizia politica fascista recatasi a casa di

Levi per arrestarlo,19 si intravedono in filigrana gli stessi echi esiziali e dolorosi della ‘visita’ compiuta dall’Ovra nell’abitazione di Edoardo Persico, la sera

di quel tragico 10 gennaio del ’36 (ci muoviamo negli stessi anni del libro di Soldati), così come Camilleri è riuscito quasi rabdomanticamente a immagi-

del ’35 e, in copertina, il ritratto di Soldati dipinto da Levi; l’edizione è stata ristampata nel 2014. 9 Vicenda per la quale rimando a Giorgio Fabre, Sul caso Moravia, «Quaderni di storia», n. 42, luglio-dicembre 1995, pp. 181196, e Idem, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Torino, Zamorani, 1998, p. 399 sgg. Utile sul tema è anche il saggio di

Alessandra Grandelis, Alberto Moravia e Valentino Bompiani: una storia attraverso il carteggio, «Studi Novecenteschi», XLI, n. 88, luglio-dicembre 2014, pp. 499-529. 10 Per le prime edizioni di Soldati rimando a Roberto Cicala, Su alcune prime edizioni di Mario Soldati. Appunti di storia editoriale (con riproduzioni), in Mario Soldati tra luoghi e memoria. Inediti, testimonianze,

studi e immagini, «Microprovincia», n. 5152, Novara, Interlinea, 2013-2014. 11 Qui Nigro utilizza, in rapida successione, sia il termine “copertina” che il corretto “sopraccoperta”, cfr. Salvatore Silvano Nigro, Viaggio nella “stanza chiusa” della scrittura di “America primo amore”, cit., p. 301. 12 Sulla possibile retrodatazione di un

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invece, a sfogliare, a osservare uno dopo l’altro quegli abbozzi che aveva fatto il giorno prima per prova della scritta: scelse i due o tre migliori, li mise bene in vista su un altro cavalletto. Adesso non c’era più tempo per sbagliare e rifare. La perfezione era senz’altro necessaria. La scritta doveva essere definitiva. Carlo alzò il braccio, socchiuse gli occhi, e cominciò, tranquillo, come scivolando e accarezzando, a tracciare il mio nome».21

Carlo Levi (1902-1975)

narla, descrivendola dettagliatamente nel suo libro.20 Levi riuscirà a completare il disegno, con le scritte in rosso del titolo del libro e dei nomi dell’autore e dell’editore Bemporad, prima di essere arrestato. Sarà questo il suo ultimo atto artistico prima del carcere: «Carlo aveva già intinto nel rosso il pennello: ma lo posò e si mise,

anno cfr. Salvatore Silvano Nigro, Viaggio nella “stanza chiusa” della scrittura di “America primo amore”, p. 302. 13 Ne «La Fiera Letteraria» di Umberto Fracchia, 29 novembre 1954, ora in Mario Soldati, America primo amore, cit., pp. 293295; cfr. Salvatore Silvano Nigro, Viaggio nella “stanza chiusa” della scrittura di “America primo amore”, cit., p. 301, ma il critico indica anche la data “28 novembre 1954”, ibidem, p. 322. 14 Mario Praz, rec. a America primo amore, «La Stampa», 13 luglio 1935; ristampato in Idem, Cronache letterarie anglosassoni, v. II, Cronache inglesi e americane, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1951, pp. 276-279. 15 Salvatore Silvano Nigro, Il mondo in un risvolto, cit., identica formula utilizzata in Idem, Viaggio nella “stanza chiusa” della scrittura di “America primo amore”, cit., p. 304. Ma il grande critico virerà, più correttamente, in ambito dantesco e petrarchesco quella prima suggestione praziana: “La fantasia mitologica della copertina stringe il libro sugli avvisatori danteschi (e non mil-

toniani, come pretende una recensione di Praz) della prosa di Soldati”, Salvatore Silvano Nigro, Addio…diletta America, in Mario Soldati, America primo amore, cit., p. 13; “America primo amore espone calchi danteschi e petrarcheschi. Li esibisce, trepidi. E li fa risuonare negli aloni dell’allusività letteraria”, Idem, Viaggio nella “stanza chiusa” della scrittura di “America primo amore”, cit., p. 319. 16 Una prima redazione dello scritto, col titolo Il diavolo nella mansarda, era stata pubblicata sulla rivista «Galleria», XVII, n. 3-6, maggio-dicembre 1967, pp. 277-282, numero monografico su Carlo Levi, a cura di Aldo Marcovecchio, cfr. Salvatore Silvano Nigro, Viaggio nella “stanza chiusa” della scrittura di “America primo amore”, cit., p. 302. 17 Numero 650 della Collana. In precedenza il libro era stato ristampato a Roma da Einaudi nel ’45 [Saggi, 66], in una “nuova edizione aumentata”, da Garzanti nel ’56 [Saggi], edizione nuovamente rivista: “[…] L’edizione Garzanti ricontrolla grafie e pronunce […]”, Salvatore Silvano Nigro, Viaggio nella “stanza chiusa” della scrittura di

“America primo amore”, cit., p. 319; e infine, con ulteriore “manutenzione”, da Mondadori nel ’59, ’61 e ’67 [Narratori italiani, 61] e infine dalle edizioni Emme, nel ’75 [I pomeriggi, 10]. 18 Storia di una copertina di Soldati è ora ristampata in Idem, America primo amore, cit., pp. 271-280. La ristampa mondadoriana del ’76 aveva una introduzione di Giovanni Raboni. 19 “[…] Verso le otto avevano finito. Dissero a Carlo di prendere un po’ di biancheria: segno che lo arrestavano. Subito, intanto, lo avrebbero portato allo studio di piazza Vittorio: la perquisizione doveva continuare là. Con loro andai anch’io. Ci andavo a … prendere la mia copertina. Ma come avrei fatto per la scritta, che ancora mancava, e Carlo certamente non avrebbe potuto eseguirla lì per lì, in presenza di poliziotti, prima di essere condotto in prigione?”, Mario Soldati, Storia di una copertina, cit., p. 276. 20 Andrea Camilleri, Dentro il labirinto, Milano, Skira, 2012. 21 Mario Soldati, Storia di una copertina, cit., pp. 277-278.

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In Appendice - Feuilleton



L.E.X. Le biblioteche profonde IV capitolo ERRICO PASSARO

RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI “Lupo” è il guardiano di una biblioteca clandestina nel Deep Web. Ha paura. Contatta Victor Stasi, agente di LEX, la branca dei servizi segreti italiani di cui è informatore. Stasi scende nel Web profondo per incontrarlo, ma “Lupo” non risponde: è finito nelle mani del misterioso Abel Kane.

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ictor Stasi contro Abel Kane. Una leggenda nera dei Servizi del suo Paese. Un cacciatore implacabile. Una garanzia nell’acquisire tutte le copie in circolazione di libri scomodi per far sparire la verità. Uno specialista nel “ritirare” dalla circolazione i nemici dello Stato. Stasi aveva bisogno di parA sinistra: il generale Bonera (illustrazione di Anna Emilia Falcone, espressamente realizzata per «la Biblioteca di via Senato»)

lare con il generale Bonera. Il suo capo. Il capo di L.E.X. Fu ricevuto subito, nonostante il minimo preavviso. Non era da lui. Le pareti bianche del suo ufficio di Forte Braschi esaltavano la luce, che sembrava scorrere lungo le superfici. Un brano di musica classica - la Sinfonia n. 1 in mi minore di Sibelius, se Stasi non errava - si diffondeva nell’aria. Bonera l’attendeva in piedi di fronte alla finestra panoramica, le mani intrecciate dietro la

schiena. Si intuiva che, sotto l’uniforme perfettamente stirata, l’uomo era fatto di materiale solido: muscoli in rilievo come il plastico di una catena montuosa; tendini elastici; vene emergenti. I capelli scolpiti al millimetro dicevano di lui più di mille curricula. Bonera guardava il panorama cittadino con un sorriso assente sulle labbra. Senza voltarsi, fece cenno all’ospite di sedersi. Stasi si trasportò su una poltrona e rimase in attesa.

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Victor Stasi (illustrazione di Anna Emilia Falcone espressamente realizzata per «la Biblioteca di via Senato»)

So tutto - disse, prima ancora Stasi parlasse. Il generale usava sempre poche parole per esprimersi. Il suo roccioso riserbo era proverbiale, né si curava di piacere ai propri sottoposti. Abel Kane è una superspia, ma si pensava ritirato a vita pri-

vata - si spiegò il superiore. Sembrava sparito dalla faccia della terra, visto che aveva una lista di precedenti penali lunga un chilometro ed era inseguito da vari ordini di cattura internazionali. Era stato anche preso dalla CIA, ma poi è stato rilasciato dietro intervento di un

non meglio precisato governo occidentale. - Un vero angioletto - disse, ironico, Stasi. Di fronte alla solita irriverenza di Stasi, Bonera lasciò correre. Si voltò e lo fronteggiò, incombendo su di lui. - Ora, si da il caso che sia riapparso da un momento all’altro. Si avvale di elementi incensurati per svolgere incarichi minori, ma agisce in prima persona quando ritiene sia il caso. Come con “Lupo” - Perché non ne so nulla? Ottenne in risposta uno sguardo di traverso. Bonera era ancora in collera con Stasi per una precedente insubordinazione... l’ultima di tante, in verità. Non era il caso di prendere quell’informazione per oro colato, prima delle opportune verifiche. Non è la prima volta che info fantasiose e ritenute veritiere si rivelano una bufala. Lo spionaggio era l’arte di trarre in inganno usando pezzi di verità. Ma le sorprese non erano finite. - Qui c’è lo zampino della Loggia - lo pietrificò Bonera. La Loggia. Il Sistema dei sistemi. Un organismo criminale con ramificazioni ovunque. Un nemico invisibile i cui piani

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LEX aveva intralciato più di una volta. - Non dirà sul serio? - trasecolò Stasi. - Non ha senso -, ma subito si morse la lingua: erano quei modi irriguardosi che lo facevano bacchettare dal capo un giorno sì e l’altro pure. - Solo loro potevano permettersi di rimettere Kane in carreggiata - rifletté ad alta voce Bonera, guardandolo di sbieco. Tornò ad affacciarsi alla finestra panoramica. La pratica Loggia era una vicenda contorta che durava da molti anni. Se “Lupo” era finito nel loro mirino... - Ho cercato il mio informatore nelle biblioteche clandestine del Web - non s’impedì di dire. - Purtroppo… Bonera non lo lasciò finire. - Lo so. Ma Kane ha eletto il suo rifugio in una biblioteca reale, la Nazionale Greca di Atene. È lì che andrà. Stasi provò a interloquire, ma Bonera, sempre con le spalle al suo ospite, gli fece segno di tacere. - Non col suo nome. Opererà in supernero. Si spaccerà per il professor Elio Valeri, un consulente legale in materia di tutela della proprietà intellettuale. Non era la prima volta che Stasi si spogliava della sua identità di ufficiale per assumere quella di un altro soggetto. - Il suo nome in codice sarà

“Manuzio”. - Appoggi? - Nessun nome, nessuna domanda. Saprà in loco chi è il suo contatto. - Questo è lo schema - programmò Bonera. - Dovrà appurare se “Lupo” è ancora vivo e salvarlo. Se, come temo, Kane

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ha strappato al Nostro le informazioni che gli servivano e si è disfatto del suo corpo, dovrà acquisire le prove del fatto e catturare Kane. Vivo o morto. - Il problema non sussiste. Io finisco quello che inizio. E non mi fermerò fino a quando non avrò preso Kane.

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BvS: il ristoro del buon lettore



Una antica casa di pianura sull’argine del fiume ‘La Capanna di Eraclio’ e i mulini di Bacchelli

N

ella capanna, giusto sotto l’argine, davanti al canale, vive la famiglia Soncini. Da sempre sono lì, abitanti di quella terra piatta e allucinata, che allunga fra Ferrara e Rovigo, nel complesso mondo del delta padano. Una terra che appare fra abbacinati riflessi solatii e sfuma nella nebbia che sale dall’acqua: universo metafisico di storie circolari, che rivoluzionano nell’eterno delle stagioni, sempre uguali eppure sempre diverse. Dei Soncini è quella capanna bianca, con rigoglioso pergolato, come degli Scacerni sono i gloriosi e vetusti San Michele e Paneperso, le due «macine natanti» proprietà dei protagonisti del monumentale Il mulino del Po (romanzo che la Biblioteca di via Senato possiede nella prima edizione, stampata a Milano, da Mondadori, nel 1957) di Riccardo Bacchelli. «Nella vastità molle e potente del fiume serpeggiante, qua un gomito, là un ciglio d’argine, altrove un lembo di golena boscosa» le vicende si intrecciano. Fatti di vita. E di cucina. Nella bianca capanna, come sui mulino del Po, batte un grande cuore. Maria Grazia e Pierluigi Soncini, insieme a mamma Wanda (moglie del compianto Era-

GIANLUCA MONTINARO

Ristorante La Capanna di Eraclio Via per le Venezie, 21 Codigoro (Fe) Tel. 0533/712154 clio), tutti i giorni raccontano il passato di queste lande salmastre. Qui, non solo «il pane è la vita degli Italiani». Tante altre succulenti pietanze prendono forma, regalando soddisfazioni e gioie: come l’anguilla ‘arost in umad’ (steccata con aglio e rosmarino) accompagnata da calda e soffice polenta bianca o la granceola con maionese espressa. Ma anche ‘i sapori di una passeggiata nel delta del Po’ (piatto complesso che raccoglie moleche fritte, gamberettini di laguna al vapore e cefalo alla brace) o, in stagione di caccia, la magistrale pernice rossa con fegato grasso e spugnole. «Dove men si pensa rompe il Po», ammonisce Lazzaro Scarcerni, contemplando il corso del vasto

fiume. Lo sanno bene i Soncini che di questo piatto senza fine conoscono ogni scorcio. Mentre Maria Grazia e mamma Wanda scrutano la linea dell’orizzonte dalle ampie finestre della cucina, Pierluigi potrà far arrivare in tavola, dalla cantina, tante bottiglie di pregio. Come una grande bollicina italiana, dalla Franciacorta. Oppure uno dei vini meno conosciuti che si possano incontrare nell’italico mondo enologico: il locale Fortana del Bosco Eliceo. Vino mosso, ricco di acidità e scarso di tannino, il Fortana del Bosco Eliceo ha una particolarità unica: è allevato senza portainnesto. La fillossera, che strage fece in tutta Europa agli inizi del Novecento, non riuscì mai a intaccare l’apparato radicale di queste viti che affondano nelle sabbie. Intanto, fra luci diafane, riflessi equorei e vapori di nebbia, intorno alla capanna, i contadini con gesti arcani continuano a sarchiare, quasi ricamando, i campi marroni. Non c’è fretta, in questo universo metafisico di storie circolari. Sanno bene come l’agricoltura null’altro sia che «l’arte di saper aspettare». Come ugualmente sanno i Soncini: non ci sono segreti in cucina, ma gesti sapienti e la pazienza del tempo debito.

72 VITALDO CONTE Vitaldo Conte è docente di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Roma. Fra i suoi libri: l’antologia Nuovi Segnali (1983), Dispersione (2000), Anomalie e Malie come Arte (2006), SottoMissione d’Amore (2007), Pulsional Gender Art (2011). Fra le mostre curate: Anteprima XIV Quadriennale, Julius Evola, Mistiche bianche, DonnaArte, Eros Parola d’Arte. Poeta (lineare, verbo-visuale), artista e performer con centinaia di pubblicazioni, eventi, mostre in Italia e all’estero.

la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016 GIANFRANCO DE TURRIS Ha lavorato in Rai dal 1983 al 2009, come vice-caporedattore dei servizi culturali del Giornale Radio. Ha ideato e condotto la trasmissione di approfondimento culturale L'Argonauta, con cui ha vinto nel 2004 il Premio Saint-Vincent di giornalismo. Si occupa di politica culturale da un lato e di letteratura dell'Immaginario dall'altro, scrivendo di questi argomenti su quotidiani, settimanali e mensili, nonché su enciclopedie e dizionari, dirigendo riviste e collane, curando l' edizione e l'introduzione di centinaia fra romanzi e saggi, e pubblicando una quindicina di libri. È direttore responsabile della rivista «Antares».

 ERRICO PASSARO Errico Passaro (1966) è ufficiale dell’Aeronautica Militare esperto in materie giuridiche. Giornalista e scrittore, ha pubblicato oltre millesettecento articoli, dieci romanzi, centoventi racconti, fra cui il “triplete” per le collane da edicola Mondadori: la bianca (Zodiac, Urania n. 1557; La Guerra delle Maschere, Millemondi Urania n. 58), la gialla (Necropolis, Supergiallo n. 39), la nera (L.E.X. - Law Enforcement X, Segretissimo, n. 1591; L.E.X. - Operazione Spider, Segretissimo n. 1610; L.E.X. Inverno arabo, Segretissimo n. 1611).

DARIO EVOLA Insegna Estetica all’Accademia di Belle Arti di Roma. Laureato al DAMS di Bologna, ha conseguito il Dottorato alla Sapienza di Roma, dove ha insegnato Storia dell’Arte. È membro del comitato scientifico del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea Università La Sapienza Roma e del Consiglio di Presidenza della Società Italiana di Estetica. Ha collaborato ai servizi culturali della RAI e di numerosi periodici e quotidiani. Autore di saggi sull’estetica, il teatro, le arti visive, il cinema.

MARCO FIORAMANTI È nato a Roma, nel 1954. Pittore e performer, con soggiorni all’estero e ricerche sul campo in Cina, Tibet, Marocco e sullo sciamanismo in Nepal. Dall’82 sperimenta materiali differenti sul recupero dei segni, comportamenti e riti d’iniziazione delle culture ancestrali. Pubblicistica (edizioni conoscenza): AA.VV., Come scrivere un testo (2012); Conversazioni con l’arte contemporanea I (2013), II (2015), in e-book. Svolge l’attività di redattore (settore cultura). Nel 2007 crea e dirige la rivista Night Italia.

MASSIMO GATTA Massimo Gatta (1959) ricopre l’incarico, dal 2001, di bibliotecario presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del Molise dove ha organizzato diverse mostre bibliografiche dedicate a editori, editoria aziendale e aspetti paratestuali del libro (ex libris). Collabora alla pagina domenicale de «Il Sole 24 Ore» e al periodico «Charta». È direttore editoriale della casa editrice Biblohaus di Macerata specializzata in bibliografia, bibliofilia e “libri sui libri” (books about books), e fa parte del comitato direttivo del periodico «Cantieri». Numerose sono le sue pubblicazioni e i suoi articoli.

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO

GIOVANNI SESSA Giovanni Sessa (1957), è docente di filosofia e storia nei licei, già assistente presso la cattedra di Filosofia politica della facoltà di Scienze Politiche della Sapienza di Roma e già docente a contratto di Storia delle idee presso l’Università di Cassino. Numerosi sono i suoi scritti, alcuni dei quali apparsi sulle riviste «Letteratura-Tradizione»; «Palomar» e «il Borghese». Fra i suoi volumi si ricordano: Trascendenza e gnosticismo in E. Voegelin, Caratteri gnostici della moderna politica economica e sociale; Il maestro della Tradizione. Dialoghi su Julius Evola.

LUIGI SGROI Luigi Sgroi (Milano, 1961) lavora in ambito artistico, interessandosi alle “vie del corpo”. Spazia dal teatro d’avanguardia, al mimo classico, al buddhismo zen e, dal 1990, alle varie forme dello yoga.

CARMELO STRANO Filosofo, critico arti visive e letterarie. Riconoscimenti nel mondo. Tra le sue teorie: l’Estetica del quotidiano, la Nuova Classicità, la Docile Razionalità, la Non-Implosività, l’Opera Ellittica, la Devianza linguistica. Ordinario di Estetica (per chiara fama Università di Catania). Dagli anni ‘80 indaga la nostra epoca con attenzione alle marginalità. Curatore di mostre internazionali. Autore di svariati libri; innumerevoli saggi, articoli: riviste, Corriere della Sera, La Repubblica, Il Sole 24 Ore.

MICHELE OLZI Michele Olzi (1987) si laurea in Scienze Filosofiche presso l'Università degli Studi di Milano. È membro della Società Italiana Storia delle Religioni (SISR) e della European Society for the Study of Western Esotericism (ESSWE). Collabora con la rivista «Conoscenza». È intervenuto a convegni internazionali organizzati dal CESNUR e dalla ESSWE. Ha collaborato con Hans Thomas Hakl alla pubblicazione: Satanism: A Reader, (Oxford, Oxford University Press, 2016).



LUCA PIETRO NICOLETTI Luca Pietro Nicoletti, storico dell’arte, si interessa di arte e critica del Secondo Novecento in Italia e in Francia. Ha pubblicato: Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore italiano a Parigi (Macerata 2013).

GIANLUCA MONTINARO Gianluca Montinaro (Milano, 1979) è docente a contratto presso l’università IULM di Milano. Storico delle idee, si interessa ai rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno. Collabora alle pagine culturali del quotidiano «il Giornale». Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della Rovere (2000); Il carteggio di Guidobaldo II della Rovere e Fabio Barignani (2006); L’epistolario di Ludovico Agostini (2006); Fra Urbino e Firenze: politica e diplomazia nel tramonto dei della Rovere (2009); Ludovico Agostini, lettere inedite (2012); Martin Lutero (2013); L’utopia di Polifilo (2015).

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