Linguistica Italiana 1

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Psicologia del linguaggio: percezione, memoria, apprendimento

Master

Unità 1

Giorgia Turchetto

COPYRIGHT©UNIMARCONI

Indice PREMESSA --------------------------------------------------------------------------------------------2 OBIETTIVI ----------------------------------------------------------------------------------------------4 1. STUDIARE IL LINGUAGGIO------------------------------------------------------------------5 2. LA COMUNICAZIONE LINGUISTICA---------------------------------------------------- 35 RIEPILOGO ------------------------------------------------------------------------------------------ 82 GLOSSARIO--------------------------------------------------------------------------------------- 101 BIBLIOGRAFIA ----------------------------------------------------------------------------------- 103

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PREMESSA Questa unità didattica si sviluppa secondo un’ottica di approfondimento successivo degli argomenti. Dal generale al particolare, l’unità approfondisce le diverse tematiche: parte dalla definizione di concetti generali, passa attraverso la trattazione di certe teorie fino ad arrivare ad analizzare i campi d’indagine della psicologia del linguaggio ed in particolare alcune tematiche di studio, quale l’acquisizione della competenza comunicativa (cfr. capitolo 5). Il corso si propone di fornire un’introduzione alla psicologia del linguaggio, presentando i processi di acquisizione ed elaborazione del linguaggio, analizzandone criticamente i diversi approcci teorici. L’obiettivo prioritario è quello di comprendere l’acquisizione del linguaggio all’interno del contesto dello sviluppo dell’individuo specificando i possibili aspetti di continuità tra prerequisiti biologici e situazioni di interazione sociale. È trattato lo sviluppo della capacità di produrre e comprendere espressioni linguistiche e in particolare espressioni figurate che associano ad un significato verbale anche un valore mnestico. Diverse ricerche hanno dimostrato la validità che l’acquisizione del linguaggio figurato avviene parallelamente, in modo interconnesso e dipendente dalla più generale capacità di elaborare il linguaggio. Infatti, nei bambini l’acquisizione della competenza figurata, quella cioè per cui un bambino è in grado di comprendere e produrre espressioni non letterali, è un aspetto dell’evoluzione più generale della competenza linguistica e comunicativa e non è, pertanto, necessario invocare meccanismi o principi specifici, come ipotizzano alcuni modelli dell’elaborazione negli adulti. Chiarire che cosa è la Psicolinguistica, come si è sviluppata nel tempo, quali sono stati i contributi delle altre discipline che studiano il linguaggio, illustrare quali sono gli strumenti teorici e metodologici di cui si avvale è di fondamentale importanza, se si vogliono fornire delle conoscenze, non certo esaustive, ma che consentano, almeno, ad un insegnante di progettare e in seguito realizzare il suo piano educativo-didattico in relazione alla classe e alle caratteristiche dei singoli alunni. L’esposizione di teorie, modelli interpretativi, contributi di diversi autori che verranno presentati nel corso della trattazione, costituiscono un quadro di riferimento per meglio delineare gli obiettivi e le competenze, ma anche per dare dei suggerimenti nella scelta degli strumenti, delle metodologie di verifica e degli interventi didattici in modo consapevole e mirato. Nell’Unità didattica si fa riferimento ai contributi apportati da alcune discipline allo studio del linguaggio e della comunicazione e si sono richiamati in modo, speriamo quanto più completo possibile, i processi cognitivi, meta-cognitivi ed emotivo-motovazionali nell’elaborazione dell’informazione e nell’apprendimento del linguaggio. 2

L’unità Didattica termina con un glossario di termini utili al sottocodice linguistico proprio delle scienze che studiano il linguaggio, che crediamo utile per acquisire da subito un sottocodice linguistico consono alla trattazione della tematica. L’unità didattica, lungi dall’esaurire la complessità e la molteplicità degli argomenti afferenti allo studio della Psicologia del linguaggio, fornisce un valido approccio al tema, suggerendo ulteriori spunti di riflessione e di approfondimento per i quali si rimanda alla sezione bibliografica.

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OBIETTIVI Gli obiettivi di questa unità didattica sono: 

conoscere le caratteristiche principali del linguaggio;



enunciare il concetto di segno linguistico identificando le sue caratteristiche peculiari;



comprendere le principali differenze tra linguaggio e lingua;



analizzare i contributi della filosofia del linguaggio, della linguistica e della psicologia alla Psicologia del linguaggio;



comprendere la Psicologia del linguaggio secondo il cognitivismo, viceversa secondo il comportamentismo;



elencare alcuni modelli applicati dalla disciplina comprendendo le differenze metodologiche alla base di ciascuno;



valutare i processi alla base della competenza comunicativa;



entrare in possesso di nuovi elementi conoscitivi propedeutici all’organizzazione degli interventi didattici.

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1. STUDIARE IL LINGUAGGIO L’origine del linguaggio Il cervello di Homo sapiens, grande in media 1400 cm³, ha un volume quasi doppio rispetto a quello dei primi esseri umani che producevano utensili litici. Tale aumento di dimensioni, avvenuto nell’arco di circa due milioni di anni, è stato accompagnato da un adeguato incremento della capacità e della forma del cranio: mentre nei primi ominidi questo era relativamente piccolo, costituito da ossa massicce e caratterizzato da arcate sopraccigliari prominenti e da fronte e mento sfuggenti, nell’Homo sapiens ha acquisito una forma arrotondata, con ossa facciali più sottili, conformate in modo da risultare disposte approssimativamente su un piano frontale. L’aumento di dimensioni del cervello ha consentito il graduale sviluppo di un’altra delle caratteristiche distintive di Homo sapiens, vale a dire il linguaggio. In particolare, i requisiti fisiologici necessari all’acquisizione di questa facoltà si sono affermati in associazione all’espansione e alla specializzazione di una regione della corteccia cerebrale, chiamata area di Broca, adibita al controllo dei movimenti delle labbra e della lingua. La questione dell’origine del linguaggio ha occupato costantemente nella storia del pensiero uno spazio significativo. Questo perché il linguaggio, dal momento in cui ogni essere umano nasce, accompagna non solo ogni istante della vita di relazione con gli altri, ma anche la dimensione della propria interiorità. Da questo punto di vista il linguaggio sembra qualche cosa di ovvio, di banale, di congenito, come il respirare. Basta però volgere lo sguardo intorno, cosa avvenuta assai per tempo nella storia della nostra tradizione culturale e dell’umanità, per accorgersi che nel linguaggio c’è qualche cosa di profondamente diverso dal respirare, dal camminare, dal nutrirsi e che questa diversità è data dall’esistenza di un grandissimo numero di lingue profondamente difformi tra di loro. È come dire che respiriamo tutti allo stesso modo, ma che poi il respiro si realizza con nasi diversi. Oggi sappiamo bene che le lingue sono profondamente diverse perché, anche se con qualche problema, con strumenti di indagine accurati le possiamo censire una per una; oggi, nel mondo, ne contiamo di viventi oltre seimila. Ma questa proliferazione di lingue differenti era evidente anche nel passato, si tratta di una diversità singolare, perché non ha nulla a che fare con l’ambiente naturale in cui ci troviamo. Il processo di diffusione delle lingue fuori dal luogo di origine geografico, infatti, è un fenomeno noto. Nel caso delle lingue, quindi, la riduzione a cause ambientali non c’è. Ed è questo che, da epoche 5

remote, ha colpito l’attenzione e la riflessione di chi ha osservato la pluralità delle lingue. Già gli scribi del vicino oriente antico, del terzo millennio avanti Cristo - che redigevano le lettere dei loro sovrani per altri sovrani, in egiziano, in ittita o in sumerico - avvertivano la problematicità del mettere in corrispondenza due testi redatti in due lingue diverse. È da allora che noi sappiamo che la diversità delle lingue è un fatto profondo e il perché le lingue siano diverse, è stato sempre motivo di curiosità intellettuale. Altrettanto remoto è il chiedersi da parte degli studiosi del linguaggio quale possa essere stata la forma della lingua primigenia. In un antico testo, nelle “Storie” d’Erodoto, lo scrittore, profondo osservatore della diversità dei costumi tra i popoli sostiene come la diversità delle lingue sia fondamento del costituirsi delle distinzione tra i popoli, nazioni e culture. Egli, lungo la trattazione racconta di esperimenti un po’ ingenui, come quello di un faraone, che avrebbe preso due bambini e li avrebbe nutriti, nei primi giorni e nelle prime settimane di vita, al di fuori di ogni contatto con esseri umani. L’obiettivo del faraone era vedere se questi bambini sarebbero riusciti a parlare e quale lingua avrebbero parlato. I bambini, a un certo punto, avrebbero, secondo quanto dice Erodono, cominciato a dire la parola “becos”, che in frigio, una lingua dell’oriente antico, una delle tante lingue dell’attuale Turchia, vuole dire “pane”, cioè “cibo”, “alimento”. Questo, quindi, avrebbe consentito al faraone di stabilire, in modo incontrovertibile, che il frigio era la lingua primigenia dell’umanità. Come si vede, dunque, cercare di capire perché le lingue sono diverse tra loro e quale sia la loro origine è un problema antico, più antico della stessa cultura greca da cui noi, ormai, si può dire in tutto il mondo, traiamo tanta parte dell’ossatura, dello scheletro profondo delle nostre costruzioni intellettuali e filosofiche. Certamente, il tema delle origini del linguaggio, inteso come ricostruzione della forma della ipotetica, o delle ipotetiche, lingue primigenie del genere umano cade sotto i colpi dei linguisti professionali, dei glottologi, che spiegano che non si può risalire in modo attendibile così indietro nel tempo e constatano, quindi, l’ineluttabilità della registrazione della profonda diversità tra i gruppi linguistici. Nello stesso tempo una parte delle filosofie dominanti svalutano il tema stesso delle origini, da De Saussure a Von Von Humboldt fino a Benedetto Croce si sente ripetere che è inutile occuparsi del problema delle origini del linguaggio, perché questo problema si risolve studiando come funziona nell’attualità una lingua. La cosa interessante è capire che ruolo ha il linguaggio nella vita dello spirito umano. All’ostracismo professionale dei linguisti, quindi, si aggiunge anche una messa in mora filosofica. Un’altra questione legata allo studio del linguaggio ruota intorno al fatto che esso è stato considerato, da sempre, come un privilegio riservato all’uomo. 6

Dagli anni Trenta del novecento però questa credenza muta radicalmente, studiosi diversi, come l’americano come John Lilly, l’austriaco Karl Von Frisch, diventato, poi per questi studi, Premio Nobel, hanno cominciato a scoprire che il mondo della comunicazione è più vasto di quello degli esseri umani, che forme di comunicazione, molto sofisticate, esistono tra i mammiferi acquatici. Dai primi lavori classici di Von Frisch, condotti sulle api, un po’ alla volta è nata una disciplina nuova, la “zoosemiotica”, vale a dire lo studio sistematico dei modi di semiosi, dei modi di comunicazione per simboli e per segni, propri di specie animali diverse dal genere umano. Questi studi si sono ormai allargati, si può dire, non solo a tutte le specie, ma gli sviluppi della biologia molecolare, della genetica ci hanno portato negli ultimi quindici anni fino alle estreme frontiere della vita. A questo punto, noi sappiamo che forme rudimentali di interazione comunicativa si trovano anche in piccoli organismi unicellulari, in quelli archeozoi e protozoi da cui è cominciata la storia della vita sulla terra. Sembrerebbe oggi sempre di più, che non solo, come diceva Wittgenstein, un linguaggio è una forma di vita, ma che il linguaggio è la forma della vita: là dove c’è qualcosa che vive, c’è qualcosa che comunica. Uno scossone, dunque, che porta a chiedersi, in che misura, le forme di linguaggio degli esseri umani abbiano qualcosa a che fare con le forme di linguaggio degli altri animali, quali siano le loro affinità e le loro diversità. Quello che noi chiamiamo, per eccellenza, linguaggio, non è che una variante delle forme di comunicazione, il che non significa che sia riducibile alle altre, evidentemente, ma questo ci pone un problema di comprensione di ciò che è continuo e discontinuo nell’emergere del linguaggio non solo come categoria ma anche nel tempo, nella storia delle specie. Anche un altro colpo è stato dato alla esclusiva identificazione della comunicazione con il linguaggio. Questo scossone è venuto dall’allargarsi del nostro orizzonte conoscitivo per quanto riguarda le forme di comunicazione che, l’essere umano gestisce e che sono diverse dal linguaggio verbale a quello grammaticalizzato. L’importanza di questo aspetto è stato compreso bene da Wittgenstein che ha compreso la problematica esistente tra la specificità del linguaggio fatto di parole parlate e scritte e le altre forme di interazione comunicativa. In tanti casi il gesto, per esempio, sostituisce completamente la formulazione verbale e così accade anche per la postura del corpo, l’abbigliamento e molta altra parte della simbologia di cui è intessuta la nostra vita di relazione e di comunicazione non verbale. A sostituire il linguaggio verbale ci sono anche forme più alte di comunicazione come i linguaggi matematici e i linguaggi simbolici che noi abbiamo creato a partire dalle lingue. Ci si è interrogati allora su che rapporto c’è tra il mondo linguistico umano, che ormai ci appare non più un mondo fatto solo di parole e di lingue, ma di codici di comunicazione 7

diversi, e il mondo della comunicazione delle altre specie animali. Se le nostre unghie, i nostri capelli, il nostro sangue, il nostro scheletro, il nostro DNA, il nostro patrimonio genetico, si riportino a momenti diversi della scala evolutiva, abbiamo a che fare, diciamo, nella loro genesi, in modo ipotetico, ma ben documentato, con tappe successive della scala evolutiva. Ci si è chiesti se solo il linguaggio sia un “unicum”, o se non abbia anch’esso una sua preistoria evolutiva, ricostruibile, documentabile, che possa aiutarci a comprendere la sua struttura. La discussione sull’origine del linguaggio è ripresa negli anni cinquanta-sessanta, un po’ in sordina, fino a diventare, di nuovo, un tema di grande interesse scientifico. A questo punto, però, con la differenza che non si tratta più di sapere se i primi esseri umani hanno detto parole come “becos”, ma si tratta, invece, di capire e di ricostruire, se possibile, attraverso la comparazione con le forme di comunicazione delle altre specie viventi, quali sono state le tappe attraverso cui il linguaggio si sia formato. Diventa allora possibile, dare una spiegazione genetica teoricamente convincente della costituzione del linguaggio verbale in base alle componenti che ne regolano il funzionamento. La discussione teorica su ciò che è necessario e su ciò che è contingente, su ciò che è struttura dura e ciò che, invece, è struttura contingente, nell’uso di una lingua è un dibattito, da questo punto di ancora molto acceso. Alcuni studiosi, soprattutto Lieberman, insistono molto sui prerequisiti di tipo anatomico e neurologico. Secondo Lieberman bisogna avere una struttura pienamente eretta perché si abbassi la laringe e questo ci permetta di avere il controllo di suoni così diversificati come quelli che sono presenti effettivamente e non accidentalmente nelle lingue. Abbiamo bisogno anche di una sottile possibilità di differenziare i suoni per potere costruire decine e decine di migliaia di parole, sottilmente diverse tra di loro, ma fatte degli stessi elementi. Contemporaneamente vi è bisogno di un apparato neurologico, quello preposto al controllo della produzione e alla discriminazione acustica di questi suoni, di poco

diversi

tra

loro.

Quindi

la

forma

della

calotta

cranica,

ricostruibile

paleontologicamente, è molto importante per capire quando queste condizioni si sono create. Lieberman ipotizza una datazione molto bassa dell’origine della capacità linguistica che lo porta a concludere che, forse, neanche gli uomini di Neanderthal, così simili a noi e già con una vita sociale molto sviluppata, parlavano una lingua analoga alla nostra; “l’homo sapiens” avrebbe imparato a parlare solo a tre quarti della sua storia. Altri studiosi, come Leroi-Gourhan, ragionano in termini diversi, sostenendo che, nel vedere i reperti di un milione e mezzo di anni fa, ci si accorge che questi ominidi erano capaci di andare a cercare materie prime in terre lontane per formare degli strumenti che servono loro per costruire altri arnesi con i quali costruire ancora altri utensili per 8

procurare cibo e per difendersi. Quando ci si accorge che c’è una struttura sociale, fondata sul lavoro e quindi sull’uso razionale delle mani, ci si trova di fronte a dei quadri culturali che ci fanno pensare che questi esseri, già in qualche modo, dovessero disporre di quella forma di vita comunicativa così complessa, da giustificare l’uso di una lingua storico-naturale. Essi retrodatano quindi fortemente l’origine del linguaggio, da cinquantamila a un milione e mezzo di anni fa. Quale delle due ipotesi si più pertinente è molto difficile da dire. Alcuni studiosi fanno un ragionamento semplice, sostenendo che le parole delle lingue hanno la possibilità di trasferire il significato delle parole, di allargarne i confini a seconda delle necessità, riferendosi alla indeterminatezza semantica che, accanto alla ricchezza del patrimonio lessicale e sintattico è la proprietà chiave delle lingue. Questa proprietà, secondo questi studiosi non può non essere stata sfruttata nel momento in cui il lavoro di trasformazione dell’ambiente passava, per esempio, attraverso le tecniche di cottura del cibo, nel momento in cui, cioè, si inizia ad usare il fuoco razionalmente, in modo programmato. In quella circostanza, l’essere umano deve obbligatoriamente aver cominciato a fare quell’operazione che noi compiamo, quotidianamente, quando dicendo: “oggi ho mangiato maiale”, con la parola [maiale] intendendo dire diverse cose nel senso che la carne di maiale ha in sé il significato di “carne di maiale cotta”, ma anche di “carne cruda di maiale”, o anche semplicemente sta a significare il povero simpatico suino che grufola per nutrirsi e per vivere. La stessa parola, per effetto del fuoco, per così dire, ha dovuto imparare a dilatare i suoi significati, cioè gli essere umani hanno dovuto imparare a possedere un sistema simbolico, ricco di indeterminatezza semantica e di possibili determinazioni, in vie, su vie diverse. Altri ancora pensano che trecentomila anni sia una buona datazione intermedia ma, aldilà di questo, il grande interesse è l’esplorazione in termini genetico-evolutivi delle precondizioni che reggono e regolano la vita del linguaggio verbale, così come noi lo conosciamo, in rapporto alle altre forme di comunicazione dell’intero mondo vivente.

Il linguaggio e la comunicazione La capacità di comprendere e comunicare è uno dei maggiori traguardi raggiunti dall’essere umano. Una caratteristica sorprendente dello sviluppo del linguaggio è la velocità con cui esso è acquisito: la prima parola viene pronunciata intorno ai 12 mesi ed entro i due anni, la maggior parte dei bambini possiede un vocabolario di 270 parole, che diventano 2600 a sei anni. Partendo dal presupposto che è quasi impossibile stabilire il numero di frasi che si possono costruire all’interno di una lingua, è certo, comunque, che i bambini cominciano ad utilizzare proposizioni sintatticamente corrette fin dall’età di tre anni e frasi molto complesse all’età di cinque. 9

Questo straordinario fenomeno non può essere spiegato semplicemente attraverso le teorie dell’apprendimento. Il linguista americano Noam Chomsky ha ipotizzato che il cervello umano è funzionale alla percezione e riproduzione del linguaggio; pertanto il sistema mentale deputato al linguaggio non richiede un apprendimento formale, ma si attiva spontaneamente in un contesto che ne stimola la produzione verbale. Sebbene non tutti gli studiosi del linguaggio condividano le affermazioni di Chomsky sull’acquisizione del linguaggio, l’idea di uno speciale sistema mentale addetto alla produzione linguistica è comunemente accettata. Attualmente, i teorici che si occupano della relazione tra sviluppo cognitivo e acquisizione del linguaggio, affermano che quest’ultimo riflette le concezioni del bambino e si evolve insieme con esse. Il linguaggio è, dunque, in senso generico la facoltà di comunicare, nello specifico, è un “sistema simbolico di comunicazione”, ovvero un dispositivo in cui l’informazione che passa tra un emittente ed un destinatario è codificata attraverso un codice convenzionale e condiviso. Se, dunque la comunicazione è l’azione che l’uomo compie per rendere noto ai suoi simili, il pensiero, le emozioni, le decisioni, il linguaggio verbale è il mezzo che egli usa per attuare la comunicazione. Abbiamo avuto già modo di vedere nell’introduzione dell’unità didattica che la comunicazione non è un fatto esclusivo del genere umano e lo stesso uomo non usa come unica forma di comunicazione solo il linguaggio verbale. Il contesto, ovvero la condizione in cui si comunica (es. in aula, a casa, in famiglia, nel caso di portatori di handicap), le molteplici combinazioni dei soggetti (es. uomo-donna, madrefiglio, capo-dipendente, inseganti-alunni, ecc), e la varietà delle strutture simboliche (es. parole, numeri, simboli) definiscono i diversi tipi di linguaggio. Il livello della comunicazione può essere superficiale (cognitivo-informativo) o profondo (motivazionalepersuasivo). Il linguaggio, infatti, comunica: 

dati di conoscenza (oggettivi e opinionali): far conoscere il proprio stato d’animo persuadere;



modalità di operazione su di essi: far conoscere una procedura – farla acquisire concretamente come automatismo;



stati d’animo ed emozioni (sia volontariamente che involontariamente): far conoscere il proprio stato d’animo – ottenere che venga condiviso;



atteggiamenti e valori: farli conoscere, esplicitarli – ottenere che vengano assunti.

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Se il linguaggio possiamo, dunque, definirlo lo strumento o il mezzo attraverso cui si comunica bisogna chiarire subito che esistono una pluralità di linguaggi che interagiscono e si combinano tra loro nell’atto della comunicazione. Il più comune è il linguaggio verbale orale, poi il verbale scritto, quello grafico (schemi, diagrammi, disegni), il linguaggio gestuale che accompagna spesso quello verbale orale, il mimico (limitato alle espressioni facciali), il linguaggio comportamentale, i suoni non verbali (il clacson, le campane, il fischio, il telefono), le “immagini comunicative” (il semaforo, i fari dell’automobile, il razzo di segnalazione), il silenzio (dal significato fortemente contestualizzato). Nella comunicazione si possono distinguere alcuni elementi essenziali: L’EMITTENTE O FONTE colui che avvia la comunicazione, elabora un messaggio mentalmente, gli da un codice espressivo, lo affida ad un canale con l’obiettivo di farlo arrivare a destinazione; IL CODICE il sistema convenzionale di segni, di elementi sintattici e semantici che costituiscono un certo linguaggio, es. una lingua (italiano, inglese, dialetto) comune a chi parla e a chi ascolta che permette di capire le regole attraverso cui passa il messaggio per raggiungere l’ascoltatore. I linguisti definiscono i segni come significanti che in relazione ad un codice stabilito hanno un significato. Secondo il codice della strada, ad esempio, il colore rosso (significante) indica lo stop (significato), lo stesso colore, secondo un altro codice, può avere significato differente. IL CANALE è il mezzo utilizzato per attivare la comunicazione far passare il messaggio e i segni. È il punto di collegamento tra emittente e ricevente, è letteralmente tutto ciò che si trova tra emittente e ricevente. In relazione alla diversa modalità di comunicare possono usare differenti canali: verbale (parole, rumori, suoni); paralinguistico (tono della voce, volume, velocità, pause dell’eloquio); visivo (aspetto esteriore, look); prossemico (posizione occupata nello spazio); cinestesico (posizione del corpo e gesti); tattile (dare la mano, abbracciare), olfattivo-gustativo (sapori, odori, ecc.). Il Canale o più propriamente il mezzo può essere considerato anche lo strumento che si utilizza per comunicare (il telefono, la posta tradizionale, l’e-mail, la registrazione radiofonica e quella televisiva, ecc.). IL RICEVENTE O DESTINATARIO è colui che riceve il messaggio. Il modo in cui lo riceve non dipende soltanto da come il messaggio è stato trasmesso, ma anche dalle condizioni del destinatario al momento della ricezione (apertura, chiusura, attenzione,

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disattenzione, interesse disinteresse, ecc.) e dalle condizioni di contesto presente o assente ( es. de visu o telefonicamente) o presente virtualmente (lettera, video). IL CONTESTO è il complesso delle idee e dei fatti che consente di determinare il senso di una frase, di una parola, di un brano. Il complesso delle circostanze in cui si sviluppa un determinato fatto (es. c. familiare, culturale, aziendale, ecc.). Il contesto a volte coincide con il referente, ossia l’argomento a cui si riferisce il messaggio. IL FEEDBACK è letteralmente “l’alimentazione di ritorno” o l’informazione di ritorno. Il feedback può essere immediato e completo (de viso), limitato (telefono), ridotto e differito (lettera). Il feedback può comunicare molto: attenzione, distrazione, noia, stanchezza, saturazione psichica, comprensione, assenso, dissenso, ecc. La mancanza di feedback generalmente provoca disagio comunicativo nell’emittente del messaggio che non percepisce alcun ritorno. Il feedback ha quindi una funzione regolatrice che permette al sistema comunicativo di ordinare la propria azione sulla base dei risultati ottenuti. Il feedback serve per: 1.

fare chiarezza (ascolto);

2.

evitare malintesi (correggere la comprensione del messaggio);

3.

costruire la relazione (trasmettere un reale interesse per la comprensione dell’altro).

LE INTERFERENZE rappresentano tutti gli impedimenti, gli ostacoli, che disturbano il canale usato per la comunicazione (lo sbattere di una porta, i caratteri troppo piccoli nelle slide, ecc.). Sono presenti in tutti gli elementi della comunicazione. LA RIDONDANZA è tutto ciò che facilita la comunicazione. La ridondanza coincide con la capacità del linguaggio di ripetere lo stesso messaggio utilizzando forme espressive differenti. Essa implica, anche, che una parte di un messaggio (lettere, parole,) può essere

eliminata

senza

sostanziale

perdita

di

informazione.

La

ridondanza

essenzialmente misura la “flessibilità” del linguaggio essendo proprio quest’ultima che fa sì che noi capiamo un testo anche quando ci sono errori di stampa. Ovviamente in un messaggio composto di parole scelte a caso non v’è informazione e quindi neanche ridondanza.

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Gli elementi della comunicazione

La mancanza di feedback e le interferenze possono provocare un’assenza o una non comprensione del codice e quindi il rifiuto del messaggio da parte del ricevente. Questo fenomeno è chiamato decodifica aberrante e può realizzarsi per: 

incomprensione per disparità dei codici, il codice dell’emittente non è ben compreso dal destinatario (es. lingua straniera);



incomprensione del messaggio per interferenze circostanziali, il codice dell’emittente è compreso dal destinatario, ma è modellato sul proprio orizzonte di attese, di conoscenze, di valori, credenze, ecc.;



rifiuto del messaggio per delegittimazione dell’emittente, il codice dell’emittente è compreso dal destinatario, ma il senso viene stravolto per motivi ideologici (partiti politici).

La decodifica aberrante può interessare tutti gli elementi della comunicazione. La composizione del messaggio, ad esempio, può evidenziare un’assenza di struttura, una mancanza di ordine logico, ne sono un esempio, le argomentazioni in ordine sparso, le inversione, i ritorni improvvisi, le ripetizioni superflue, i passaggi non mediati o le 13

omissioni. In questi casi il messaggio risulta piatto, monotono, confuso e carente. Anche il codice può essere inadatto al messaggio: usare un linguaggio comune per affrontare un tema specialistico, senza ricorrere al sottocodice linguistico appropriato per quella determinata tematica o disciplina (es. linguaggio della geografia, della filosofia, della matematica, ecc.) rappresenta un caso di questo genere. Il canale può presentare una varietà di “disturbi”. Le scariche elettriche del telefono, la grafia illeggibile di una lettera, le pagine strappate del libro, un rumore di fondo durante una conversazione o una lezione o l’invisibilità dell’emittente (per esempio il professore nascosto dietro alla lavagna) sono tutte condizioni che pregiudicano la comprensione. Ricorrere alla “leggera” ridondanza che consiste nel ripetere, presentando con termini leggermente diversi il contenuto del messaggio, è un’utile strategia per evitare o ridurre la decodifica aberrante. In contesti come quello d’aula la ridondanza diventa uno strumento enormemente efficace per dare la possibilità di ricevere il messaggio a chi si è perso la prima esposizione e per “capire di aver capito” a chi invece lo ha già recepito. Il significato vero della comunicazione, infatti, sta nel responso che se ne ottiene e non nelle intenzioni. Anche l’atteggiamento egocentrico di emittente e destinatario può determinare episodi di decodifica aberrante. L’egocentrismo dell’emittente spesso sfocia in un atteggiamento auto-centrato cognitivo e valutativo, mentre nel ricevente nella supponenza di aver recepito tutto quanto c’è da capire nel messaggio, senza pensare ai significati incompresi o sfuggiti. Emittente e ricevente dovrebbero, dunque nel processo comunicativo sviluppare due attitudini: il primo la tendenza al dubbio sistematico; il secondo la tendenza a chiedersi/chiedere chiarimenti. L’emittente, inoltre, deve privilegiare il feedback completo e possibilmente immediato, cercando di provocarlo quando non si verifica spontaneamente. indispensabile è abituarsi a leggere e cogliere il feedback attribuendo e interpretando il significato anche dei minimi segnali. Per l’emittente è molto più difficile dare al messaggio una forma adatta a tutti, utilizzare cioè un codice davvero comune, conoscere ciò che i destinatari già sanno, cogliere tutti i feedback. Una strategia per attuare una comunicazione pluridirezionale efficace si fonda sull’adottare un codice di livello medio con “oscillazioni” in grado di coinvolgere tutti i destinatari del messaggio, più o meno dotati e più o meno capaci di comprendere i contenuti della comunicazione. Sul piano didattico, è molto importante facilitare la comunicazione attraverso la ridondanza. La ripetizione, possibilmente con codici diversi, dello stesso messaggio è una modalità spesso utilizzata in classe.

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Sono state esposte molte teorie sulla comunicazione e su quando essa effettivamente si realizza, molti studiosi concordano sul fatto che: 

vi è comunicazione solo, quando si è in presenza di un emittente ed un ricevente in condizione di codificare/decodificare il messaggio;



ciò che conta nella comunicazione non è quello che è detto, ma ciò che è recepito.

È necessario che ci sia intenzionalità e consapevolezza. L’intenzionalità, che, potremmo parafrasare come “volontà di significazione”, è una caratteristica fondamentale, oltre che del linguaggio, anche di ogni sistema di comunicazione in genere, e di ogni stato mentale. L’intenzionalità è in realtà un concetto molto complesso, e rappresenta uno dei nodi problematici della moderna filosofia della mente e del linguaggio. Senza approfondire troppo il concetto, possiamo accontentarci di sapere, che l’intenzionalità è caratteristica degli stati mentali in genere, soprattutto di quelli linguistici (provare una sensazione od un sentimento non è un’attività linguistica, esprimerlo di solito sì). Per “intenzionalità” i filosofi intendono la proprietà che uno stato faccia riferimento a un altro stato: lo stato di un oggetto non fa, generalmente, riferimento a null’altro che al fatto che quell’oggetto si trovi in quello stato, viceversa la mente umana si può permettere il lusso di trovarsi in uno stato che fa riferimento a un altro stato: posso “credere” che questo libro sia ben scritto, posso “sperare” che molti lettori lo compreranno, posso “temere” che molti filosofi lo stroncheranno, e così via. Tralasciando la filosofia, per semplificare, potremmo spiegare l’intenzionalità dei segni linguistici partendo da un esempio banale: la febbre è un sintomo di uno stato patologico nell’organismo, sicché potremmo considerarlo, e nel linguaggio ordinario di fatto lo facciamo, “un segno della malattia”, ma non c’è alcuna intenzionalità (volontà di significazione) in questa relazione simbolica, vale a dire che non c’è alcuna comunicazione: manifestare la febbre non è certo un atto linguistico. Per altri studiosi del linguaggio, invece, la comunicazione è un semplice scambio d’informazione che investe il tipo di relazione che intercorre tra interlocutori. Può quindi esistere comunicazione a prescindere dall’intenzionalità. Secondo Watziawick lo studio della comunicazione può avvenire a tre livelli: 1) un primo che s’interessa dei problemi della codifica/decodifica dei canali, della ridondanza e di tutti gli aspetti sintattici; 15

2) un secondo livello che si occupa del significato dei simboli della comunicazione, ovvero della convenzione semantica che sottostà ad ogni scambio di segni; 3) l’ultimo livello (quello pragmatico) che è altrimenti detto metacomunicazione (comunicare sulla comunicazione) cura l’aspetto pragmatico. Secondo questa prospettiva, il messaggio contiene sempre in se stesso due informazioni diverse che qualche volta possono essere disgiunte: - il messaggio di contenuto; - il messaggio di relazione. Il primo si esprime sostanzialmente attraverso il codice verbale o numerico, mentre il secondo è meglio espresso dai codici non verbali detti analogici. Spesso si verifica che questo secondo genere di codice sfugge al controllo dell’emittente producendo un messaggio ambiguo, esempio dire a parole (codice digitale) che una cosa ci piace e fare una smorfia di disgusto (codice analogico). Possiamo quindi dire che il linguaggio umano si fonda su tre livelli: 

VERBALE (parole) – codice digitale;



PARAVERBALE (tono, timbro, volume, voce) – codice misto. Il paraverbale usa un codice misto nel senso che ricorre sostanzialmente ad un codice analogico (tono delle voce, colore, timbro, ecc.) che però nel linguaggio verbale scritto è spesso riprodotto con l’uso dei segni diacritici (punteggiatura);



NON VERBALE (linguaggio del corpo) – codice analogico.

Il livello verbale è per l’appunto quello che utilizza un codice digitale costruito sull’uso di segnali discreti (fonemi, morfemi, lessemi) per rappresentare dati in forma di numeri o di lettere alfabetiche. Questo linguaggio pone connessioni digitali nell’aspetto di contenuto della comunicazione ed è collocato nell’emisfero celebrale destro. Al contrario il livello paraverbale e quello non verbale utilizzano un codice analogico che utilizza le immagini, le metafore ed è collocato nell’ emisfero celebrale sinistro.

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I tre livelli della comunicazione

Ogni livello impatta diversamente nel processo di comunicazione. Di seguito uno schema che illustra il peso di ciascuna componente.

Impatto di ogni livello

Il nostro schema sensoriale ci consente di prendere contatto con il mondo, farne esperienza e quindi conoscerlo. La conoscenza è tradotta da un sistema di linguaggio i

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cui canali d’ingresso che ci permettono di entrare in contatto con la realtà circostante sono tre: 1) VISIVO (vista); 2) AUDITIVO (udito); 3) CINESTESICO (tatto, olfatto, gusto, sensazioni). Il sistema visivo si distingue in esterno quando è utilizzato per osservare la realtà. In interno per riprodurre internamente lo stesso procedimento, visualizzando le immagini. Parimenti il sistema auditivo e quello cinestesico si differenziano in esterno, quando ascoltiamo suoni reali, o proviamo sensazioni tattili relative alla consistenza, alla temperatura e all’umidità e in interno quando ricreiamo i suoni nella mente o le sensazioni ricordate, le emozioni in rapporto alla consapevolezza interiore del nostro corpo. Quando si elaborano informazioni si favorisce un sistema preferenziale rispetto all’altro. Questo dipende dall’oggetto dei nostri pensieri o delle nostre azioni. Il canale di processo sensoriale di cui l’individuo è consapevole è denominato Sistema Rappresentazionale Preferenziale o dominante o primario.

La comunicazione educativa La comunicazione ha un’importante funzione educativa che può essere facilmente riassunto in alcuni obiettivi: 

AIUTARE A CRESCERE culturalmente ed umanamente. L’insegnante non trasmette solamente le conoscenze ma incarna un modello di adulto con influenza tanto maggiore quanto più seguito dai suoi studenti. Traducendolo in un’operazione matematica l’insegnante è il prodotto di ciò che dice + ciò che è + ciò che fa;



LA PROMOZIONE DI UNO SPIRITO CRITICO. La comunicazione educativa non deve mirare ad indottrinare (più o meno consapevolmente), ma deve puntare a promuovere la capacità degli studenti di riflettere, confrontare e valutare idee diverse con spirito critico;



LA CIRCOLARITÀ DELL’INFORMAZIONE. Emittenti e destinatari del messaggio contemporaneamente devono avere ruoli interscambiabili, con l’obiettivo da parte dell’insegnante di promuovere e stimolare l’attività comunicativa; 18



MOTIVAZIONE ALL’ASCOLTO, insegnando che esso è alla base della comunicazione. La comunicazione si fonda infatti su un processo a due vie di circolarità e scambio che non può realizzarsi senza l’ascolto.

Gli psicologi insistono sulla funzione e l’importanza del cosiddetto “imprinting”, ovvero sul primissimo approccio che si ha con qualcuno o qualcosa, che condiziona tutto ciò che si svilupperà in seguito. Pertanto, in un processo comunicativo formativo, compresa la centralità della questione, l’imprinting dovrà essere fortissimo e l’attenzione dovrà essere attivata nel modo più efficace possibile. Seguendo quest’ottica, durante il momento formativo, diventa fondamentale riuscire ad “attivare” e “colpire” le fantasie del discente, ricordandogli, in modo provocatoriamente “brutale”, che chi conosce mille parole ragiona, pensa e conosce meglio rispetto a chi riesce a controllarne ed usarne soltanto cento. A tale provocazione il discente potrà reagire in molti modi e va tenuto in conto anche la possibilità di una “indifferenza”, spesso soltanto apparente. Verosimilmente, però, ci sarà chi contesterà tale affermazione, ma sarà proprio l’atteggiamento contestativo a dare il segno di una primissima riflessione sull’identità del pensiero e sul rapporto che lo lega al linguaggio. Se, poi, si vuole fornire un ulteriore spunto di riflessione volto a far comprendere tanto la complessità, quanto i percorsi e la logica di sviluppo della lingua che parliamo, si potrebbe fare una rapidissima incursione nella psicologia medica parlando delle “afasie”. Particolarmente interessante è quella detta “afasia del Wernicke” (dal nome del suo scopritore) che, non a caso, è oggetto di riflessione tanto per i cultori di linguistica quanto per i filosofi del linguaggio, quanto per gli psicolinguisti. Tale perdita del linguaggio, si manifesta con un calo progressivo della conoscenza grammaticale dalle funzioni linguistiche più complesse a quelle più semplici. Chi è affetto da tale afasia, infatti, pur continuando a parlare fluentemente comincia a non comprendere più il significato degli avverbi, poi dei verbi ed infine, procedendo con la stessa logica “distruttiva”, non distingue più aggettivi e nomi. Con tale esempio, il discente comincerà a sospettare che l’acquisizione di una lingua proceda seguendo una logica; il docente, pertanto dovrà stabilire utili rapporti di collaborazione con tutti gli insegnanti in questo caso, soprattutto, con l’insegnante di latino e greco, dato che l’acquisizione di una lingua, ad un tempo “vicina e distante” dalla lingua italiana, comporta sia particolari difficoltà quanto la possibilità di cogliere analogie nella misura in cui lo studente della lingua latina riceve una “proposta” che parte dalle funzioni linguistiche più elementari per andare in direzione delle “funzioni linguistiche” più complesse e poi procedere alla grammatica alla sintassi.

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Un altro effetto sicuramente incisivo può essere dato da un’analisi della cosiddetta “ipotesi Sapir - Whorf” altrimenti detta del “determinismo linguistico”. Secondo tale ipotesi piuttosto che parlare una lingua siamo “parlati” dalla lingua di appartenenza. È stato soprattutto Whorf a proporre tale concezione dopo aver notato l’abissale differenza tra le lingue indoeuropee e lingue “altre” come quelle amerindiane. Tali lingue, infatti, ignorano quella distinzione che sembrerebbe universale tra sostantivi e verbi sostenendo che la “cosa” (sostantivo) e “l’azione” che la cosa compie o subisce (verbo), fanno un tutt’uno. Whorf, quindi, si spinge a sostenere che l’immagine del mondo che noi produciamo ci viene indotta dalle caratteristiche strutturali della lingua di appartenenza. Attraverso la lingua e la sua struttura l’uomo nomina il mondo, lo conosce, lo indaga. Il rapporto tra comunicazione educativa e riflessione etica, non si sviluppa soltanto in una dimensione teorica ma anche nella concretezza dell’azione didattica. Pertanto, qualora qualche alunno dovrà contestare violentemente la suddetta ipotesi, non come espressione di reattività e ragionamento, ma come forma di “chiusura”, il docente deve intervenire non forzando la mano, ma aiutandosi con esempi che possano limare le resistenze. Lo swaili rappresenta un buon esempio cui ricorrere. In questa lingua, come ha notato, Sapir, esistono ben sei generi grammaticali che servono per classificare gli oggetti duri, molli, leggeri, pesanti, etc. in realtà questi generi grammaticali non sono altro che un puro criterio di classificazione formale interno alla lingua centro-africana e che si riconosce in base ad una marca fonica o ad un articolo. Se l’esempio sarà proposto bene sarà possibile generare un vero e proprio aggancio con il proprio vissuto linguistico che opererà una prima somatizzazione di una nuova consapevolezza. Termini come “canale”, “codice”, “messaggio”, “emittente”, “destinatario” farebbero bene ad entrare subito nel lessico concettuale del contesto d’aula. In questo modo gli studenti ritrovandosi in un qualcosa che è loro in un qualche modo familiare, anche se non epistemologicamente conosciuto, saranno indotti ad assumere un atteggiamento costruttivo e propositivo nella riflessione su linguaggio in quanto percepiranno la possibilità di mettere ordine in ciò che quotidianamente usano da sempre e che li riguarda da vicino.

Il linguaggio tra linguistica e psicologia: la psicolinguistica La psicologia del linguaggio o Psicolinguistica è un campo di ricerca interdisciplinare tra la psicologia e la linguistica. L’indagine psicologica sul linguaggio procede principalmente secondo i metodi della psicologia sperimentale e ha il fine di comprendere i processi psicologici alla base dell’acquisizione, dell’elaborazione e dell’uso comune della lingua. A 20

partire dagli anni Cinquanta del Novecento numerose ricerche sul linguaggio si sono ispirate al comportamentismo, derivandone un approccio spiccatamente scientifico che si attiene all’analisi dei soli dati osservabili e verificabili sperimentalmente. Nell’ambito degli studi che hanno per oggetto il linguaggio, la psicolinguistica è definibile come “la scienza che studia la capacità umana di parlare e di capire, cioè il comportamento e le attività mentali coinvolte nell’uso del linguaggio” (Parisi 1974). La sua nascita ufficiale si fa risalire al 1953, anno in cui in un convegno interdisciplinare, tenutosi presso l’Indiana University negli Stati Uniti, si riunirono studiosi appartenenti ad ambiti di ricerca diversi (i linguisti Sebeok e Lenneberg, gli psicologi Carrol, Osgood, Miller, l’antropologo Casagrande) al fine di programmare e sviluppare ricerche sul comportamento linguistico. La sua caratteristica peculiare, configuratasi chiara già in quella sede, è riconoscibile in un nuovo approccio allo studio del linguaggio, collocato in una prospettiva interdisciplinare ed analizzato tramite l’accostamento e talora la fusione di contributi concettuali e strumenti metodologici mutuati dalle diverse discipline, soprattutto dalla linguistica e dalla psicologia. Sappiamo che la linguistica si è tradizionalmente occupata di quell’insieme di conoscenze relative alla competenza linguistica che ciascun parlante possiede in varia misura, la psicologia, invece si è tradizionalmente occupata del comportamento umano alla luce del quadro emotivo e mentale individuale. Pur non sottovalutando i contributi provenienti alla psicolinguistica dalla cibernetica, dalla teoria matematica dell’informazione, dalle discipline biologiche, è da sottolineare come da una parte la linguistica ha fornito dei modelli di descrizione formale della lingua indispensabili per affrontare lo studio analitico dei sottili e complicati meccanismi linguistici, e come d’altra parte la psicologia ha contribuito ad ascrivere l’analisi, sulla percezione e produzione linguistica, entro il più ampio orizzonte dei problemi inerenti i processi cognitivi di base e i comportamenti ad essi correlati. Muovendo, dunque, dalla considerazione che il processo reale di produzione e comprensione delle frasi è condizionato da variabili psicologiche che influenzano e modificano le predizioni basate su un modello di pura competenza proposto dai linguisti,

la psicolinguistica rivolge la sua ricerca

all’individuazione dei processi mentali e delle conoscenze individuali attraverso cui la competenza dei linguisti viene acquisita e tradotta nell’uso del linguaggio. L’oggetto di ricerca della psicologia del linguaggio è rappresentato dai “processi mentali” che sottostanno all’acquisizione della “lingua” e dalla “capacità” che i parlanti devono possedere fin dall’infanzia per imparare ad usare il linguaggio. (Slobin 1971). Dal punto di vista psicologico la conoscenza del meccanismo “linguaggio” è una recente acquisizione, legata proprio alla nascita della psicolinguistica, in quanto prima di essa gli 21

psicologi hanno mostrato poco interesse per il comportamento linguistico, attribuendo ad esso un ruolo marginale nell’ambito dell’analisi del comportamento umano, probabilmente anche per la scarsa familiarità con le formulazioni teoriche che la linguistica andava sviluppando nel tempo, e per l’abitudine di studiare il linguaggio solo in relazione ad altri fenomeni, quali ad esempio la memoria e l’apprendimento. In seno allo strutturalismo linguistico si è attribuita particolare importanza allo studio sincronico del linguaggio e alla formulazione di modelli teorici rigorosi nei campi di indagine da esso privilegiati, quali la fonologia e la morfologia. A questa predilezione ha fatto riscontro una produzione di studi, d’altra parte, poco significativa nel campo della sintassi, del lessico e della semantica. È da notare che la linguistica strutturale ha rappresentato la prima significativa svolta della linguistica nel nostro secolo (la seconda sarà rappresentata dalla linguistica generativotrasformazionale), ed ha preso le mosse dagli insegnamenti di De Saussure. Poiché è impossibile dare in poche righe un panorama esauriente delle concezioni saussuriane, ci si limita ad accennare alla grande dicotomia tra “langue” e “parole”, cardine del pensiero dell’autore. Per il linguista ginevrino la “langue” è il corpo ideale di una lingua e l’insieme delle regole che la determinano, oggetto principale dello studio della linguistica, è costituita dal sistema grammaticale, lessicale, fonematico virtualmente esistente in ciascun cervello. La “parole”, invece, è la concreta esecuzione linguistica, l’aspetto individuale del linguaggio. Lo stesso De Saussure cita: “L’esecuzione è sempre individuale, l’individuo ne è sempre il padrone; noi la chiameremo la parole” (De Saussure 1916). La “parole” è sottoposta alle regole della grammatica e quindi alla influenza descrittiva della “langue”, ma è anche un processo di creazione. Pur avendo affermato più volte che il linguaggio è un fenomeno sociale, De Saussure, identificando la “langue” quale oggetto specifico della linguistica, opera una distinzione funzionale allo scopo della sua ricerca, che d’altra parte determina il carattere astratto di questa sul piano della descrizione dei sistemi linguistici; un carattere astratto che i linguisti delle diverse scuole strutturaliste hanno più tardi accentuato. Nonostante lo strutturalismo abbia difeso in sede teorica generale l’autonomia della linguistica dalla psicologia, esso ha contribuito alla impostazione teorico-pragmatica della psicolinguistica del primo periodo saldandosi, tramite il behaviorismo, con l’orientamento del comportamentismo e dell’associazionismo dominante la psicologia dell’epoca. Negli anni in cui si fonda la psicolinguistica, viene pubblicato un testo, il Verbal Behavior di Skinner del 1957, che contiene quella che si può definire la teoria psicologica del linguaggio più completa di quegli anni, la cui elaborazione realizza la saldatura tra comportamentismo in campo psicologico e strutturalismo in campo linguistico, che è appunto all’origine della psicolinguistica.

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Il comportamentismo basa la sua ricerca sulla possibilità di studiare e spiegare il comportamento attraverso l’osservazione e la sperimentazione; il comportamento non è altro che il modo con cui l’individuo, con la sua disposizione, reagisce agli stimoli esterni. Lo studio del comportamento consiste nello stabilire le relazioni ed il rapporto causale esistenti tra gli stimoli e le risposte dell’organismo. Secondo il comportamentismo il significato di una parola è una risposta interna provocata dallo stimolo sonoro e visivo costituito dalla parola stessa, ed il vocabolario è, in pratica, un repertorio di risposte condizionate, ovvero apprese durante lo sviluppo tramite la ripetuta associazione tra parola-oggetto e parola-situazione e relazionate a degli stimoli. Tali connessioni sono ripetute più volte nel corso dell’apprendimento e sono sottoposte ad un rinforzo proveniente dall’ambiente. Questo approccio allo studio del linguaggio e stato mutuato dal comportamentismo scientifico che va anche sotto il nome di “behaviourismo”. Questa corrente della scuola di psicologia privilegia l’uso della ricerca sperimentale per studiare il comportamento

(detto

risposta)

in

relazione

all’ambiente

(detto

stimolo).

il

comportamentismo nasce sotto l’influenza dell’associazionismo inglese, del funzionalismo americano e della teoria darwiniana dell’evoluzione, dottrine che enfatizzano tutte, l’importanza dell’adattamento dell’individuo all’ambiente e il modo in cui gli organismi cambiano in seguito all’esperienza, cioè in seguito alle loro modalità di apprendimento. Molte di queste ricerche sono state effettuate su animali (topi, piccioni e cani). Due sono i più importanti tipi di apprendimento individuati: il condizionamento classico e il condizionamento strumentale. Il condizionamento classico è noto anche come “condizionamento pavloviano”, in onore del suo scopritore, il fisiologo russo Ivan Pavlov. Questi mostra che se alcuni eventi casuali, come il suono di un campanello, precedono regolarmente un evento biologicamente importante per un animale, come la comparsa di cibo, il campanello diventa un segnale del cibo, per cui l’animale inizia a salivare e si appresta a mangiare ogni volta che il campanello suona. Il comportamento dell’animale diventa, così, una “risposta condizionata” al suono del campanello. In termini pavloviani, l’associazione di uno stimolo condizionato (campanello) con uno stimolo incondizionato (cibo) genera l’apprendimento. Inoltre, alcuni aspetti della risposta incondizionata (salivazione) possono essere provocati solo dallo stimolo condizionato. L’apprendimento dipende anche dal numero e dalla frequenza di associazione degli stimoli (campanello e cibo). Se, tuttavia, al suono del campanello non è più associato il cibo, l’animale smette di rispondere. In questo caso si parla di “estinzione” della risposta. Allo stesso modo se una lingua non viene può parlata molto lentamente se ne perde il ricordo.

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Nel condizionamento radicale o operante, il cui massimo esponente è Skinner, invece, l’enfasi è posta su ciò che l’animale fa e sulle conseguenze della sua azione. In generale, se alcuni atti sono seguiti da un rinforzo positivo (ricompensa), questi sono ripetuti quando l’animale si trova di nuovo nella stessa situazione: ad esempio, se un animale affamato viene ricompensato con del cibo per essere uscito da un labirinto semplice, quando verrà rimesso nel labirinto proverà a cercare di nuovo l’uscita. Se cessa la ricompensa, si verificano altri comportamenti. Questi paradigmi di ricerca si riferiscono agli aspetti elementari dell’apprendimento. Nel condizionamento classico l’enfasi è posta sull’accoppiamento

dello

stimolo

condizionato

con

quello

incondizionato;

nel

condizionamento strumentale si studia, invece, l’associazione tra risposta e rinforzo. Il primo si occupa, quindi, degli eventi associati all’esperienza di apprendimento, il secondo delle conseguenze delle azioni. La maggioranza delle situazioni d’apprendimento prevede

la

presenza di

entrambe

le forme

di

condizionamento.

Gli

studi

sull’apprendimento umano del linguaggio sono naturalmente più complessi rispetto agli studi condotti sugli animali e non possono essere semplicemente spiegati facendo ricorso al condizionamento classico o a quello strumentale. L’apprendimento e la memoria dell’uomo sono stati studiati tramite materiale verbale (liste di parole, storie ecc.) o in compiti relativi a specifiche capacità motorie (scrivere a macchina, suonare uno strumento musicale ecc.). Queste indagini hanno messo in evidenza l’accelerazione negativa della curva di apprendimento, cioè la presenza di ampi progressi iniziali seguiti da un apprendimento via via più lento e la corrispondente accelerazione negativa della curva dell’oblio (gran parte del materiale appreso viene dimenticato in fretta, il resto invece più lentamente). Nell’ambito

del

comportamentismo

lo

studio del

linguaggio

si

è

sviluppato

sostanzialmente in termini di apprendimento, e quindi su un’analisi delle tecniche di controllo verbale. Proprio Skinner ci fornisce un esempio di studio del linguaggio da questo punto di vista molto interessante. Egli propone di distinguere i seguenti tipi di comportamento verbale: mand, comportamento controllato da particolari stati di pulsione (comandi, domande); comportamento ecoico, controllato da parole udite in precedenza; comportamento testuale, controllato da stimoli ortografici; comportamento intra-verbale, controllato da altri stimoli verbali; comportamenti d’uditorio, controllati da variabili legate alla compresenza di un uditorio; e infine comportamento tattile, controllato da variabili oggettuali. Il linguaggio per Skinner non è altro che il comportamento di un oratore rinforzato dall’opera di mediazione di altre persone, gli ascoltatori, che sono stati condizionati proprio per 24

rinforzare il comportamento. Da una parte gli orientamenti del comportamentismo che abbiamo brevemente delineato, dominanti all’epoca in cui nasceva la psicolinguistica, e dall’altra gli orientamenti dello strutturalismo linguistico hanno influenzato la disciplina nei primi anni di vita; a queste posizioni si aggiungono anche i contributi della scienza dei calcolatori. È attraverso questo collegamento tra discipline diverse che la psicolinguistica di questi anni sviluppa un certo numero di ricerche, che oggi potrebbero essere variamente valutate; a questo proposito osserva Parisi: “se si guarda a quelle ricerche prendendo come riferimento i successivi sviluppi così ricchi della psicolinguistica, il giudizio complessivo non può essere che negativo. Del resto, è evidente che i ristretti principi teorici, su cui il modello allora dominante del linguaggio si fondava impedirono ai primi psicolinguisti di fare molto di più che aprire una nuova area di ricerca” (Parisi 1974). Due anni più tardi la comparsa del testo di Skinner, nel 1959, Chomsky pubblicò una recensione critica molto dura nei confronti del Verbal Behavior, criticando fortemente i concetti di base in esso contenuti e le nozioni di stimolo, risposta, rinforzo. Chomsky osserva che: “se si prendono tali termini in senso letterale, la descrizione non è in grado di coprire quasi nessun aspetto del comportamento verbale e che, se li prendiamo invece in senso metaforico, la descrizione non offre nessun vantaggio rispetto alle formulazioni tradizionali. Utilizzati con questa estensione, i termini presi a prestito dalla psicologia sperimentale vengono semplicemente a perdere il loro significato obiettivo ed assumono la stessa imprecisione del linguaggio quotidiano” (Chomsky 1968). Chomsky critica la convinzione, espressa da Skinner, secondo la quale il linguaggio non è altro che un tipo di comportamento, quello verbale, sottoposto agli stimoli ed ai rinforzi provenienti dall’esterno; tale prospettiva riduttiva implicherebbe che ad ambienti diversi facciano riscontro caratteristiche di linguaggio diverse. Al contrario, osserva Chomsky, la regolarità che è osservabile nello sviluppo del linguaggio infantile non trova spiegazione limitando il problema del linguaggio ad una semplice interazione tra uomo e ambiente. L’intellettuale americano parte dalla considerazione che le caratteristiche del linguaggio nei primi anni di vita sono simili in tutti i bambini affermando l’esistenza di una predisposizione innata all’acquisizione, che si manifesta fin dalla nascita ed è indipendente dall’ambiente. Vi è qui il richiamo ad un elemento fondamentale della teoria chomskiana, l’esistenza di una grammatica universale, un sistema di principi, condizioni e regole presenti in tutti i linguaggi umani e rispondenti ad una necessità biologica. L’articolo di Chomsky segna il passaggio ad una nuova fase della psicolinguistica, in cui essa adotterà la posizione della linguistica generativa mentre, in campo psicologico, si va 25

affermando un nuovo orientamento, quello cognitivista. In seguito alla critica del modello Chomskiano classico, la psicolinguistica ha rivalutato la semantica e gli aspetti contestuali e pragmatici della lingua e proposto un modello interattivo dell’acquisizione del linguaggio. I campi d’indagine della psicolinguistica contemporanea sono riassumibili a quattro: 1.

la comprensione (riconoscimento di parole, comprensione di parole, frasi, testi e discorsi);

2.

la produzione del linguaggio;

3.

lo sviluppo (origine del linguaggio, fasi di sviluppo dal preverbale al verbale);

4.

la patologia (afasia, dislessia) grazie anche ai contributi dati dalle neuroscenze.

Negli ultimi decenni la ricerca psicologica ha rivolto sempre maggior attenzione al ruolo dei processi di pensiero nell’apprendimento umano, liberandosi dagli aspetti più restrittivi degli studi comportamentali. Questo filone di ricerca è giunto a sottolineare il ruolo dell’attenzione, della memoria, della percezione, del riconoscimento e del linguaggio (psicolinguistica) nell’apprendimento. I processi mentali più evoluti, come quelli coinvolti nella formazione dei concetti e nella risoluzione di problemi (in inglese problem solving), si sono rivelati particolarmente complessi. Il metodo d’indagine più frequentemente utilizzato consiste nella cosiddetta “elaborazione delle informazioni” (in inglese information processing). Tale approccio studia il modo in cui le informazioni vengono codificate, trasformate, classificate, recuperate e trasmesse dall’individuo; in questo senso, si ritiene che l’uomo possegga le stesse caratteristiche funzionali di un computer. Sebbene l’elaborazione delle informazioni abbia permesso di costruire modelli di problem solving successivamente confermati, ha anche mostrato il limite di applicabilità dei modelli generali del pensiero umano.

Il cognitivismo La teoria linguistica di Chomsky, ed il modello di grammatica elaborato dallo studioso, influenzano profondamente gli studi psicolinguistici dalla fine degli anni 50 in poi; contemporaneamente, nel versante più strettamente psicologico, contributi importanti a tale fase della disciplina sono stati forniti dal cognitivismo, un nuovo orientamento di studi che, segnando il superamento del comportamentismo, rivolge il proprio interesse ai problemi relativi al funzionamento della mente, ai suoi processi e alle sue elaborazioni. Il cognitivismo è una corrente della psicologia che studia principalmente come l’uomo 26

acquisisce informazioni e conoscenze sul mondo circostante e come si comporta nell’ambiente a partire da queste conoscenze. Obiettivo fondamentale di questa impostazione teorica è quello di rivelare i processi che intervengono nella formazione delle conoscenze. Il principale oggetto di studi del cognitivismo è quindi la mente intesa come sistema complesso di regole, indipendente dai fattori biologici (le ricerche cognitive non si occupano del funzionamento del cervello dal punto di vista organico) o dai fattori sociali e culturali; la mente può essere studiata senza tenere in considerazione gli affetti e le emozioni collegati alle percezioni, ai ricordi e ai pensieri. Il cognitivismo analizza soprattutto i processi mentali ritenendo che la mente organizzi le informazioni operando sui dati di cui dispone, secondo delle complesse serie di sequenze, di processi cognitivi considerati in parte innati e in parte appresi dall’esperienza. In tale prospettiva la ricerca su cui il cognitivismo si concentra è l’analisi dei processi di raccolta e trattamento dell’informazione; in questo senso, i modelli derivati dalla cibernetica risultano adeguati a descrivere questo tipo di analisi con l’uso della simulazione sui calcolatori. I computer, con i loro meccanismi di ingresso dell’informazione e di uscita del dato elaborato, e con le loro memorie, rivelano una somiglianza con l’uomo che riceve, elabora e trasforma l’informazione, con i processi cognitivi umani che sono sempre uno scambio di informazione tra individuo e ambiente. La psicologia cognitiva nasce tra il 1950 e il 1960 dalle ricerche di Ulric Neisser e da quelle di George Miller, Eugene Galanter e Karl H. Pribram che ipotizzano che il comportamento umano sia regolato da un meccanismo di retroazione, chiamato TOTE (test-operate-test-exit), che rappresenta il procedimento con cui si realizza un’azione: si esamina la situazione esistente, la si mette a confronto con la meta da raggiungere, si elabora un progetto per realizzare il cambiamento desiderato, si mettono in pratica le azioni necessarie, si analizza nuovamente la situazione, se lo scopo è raggiunto l’azione finisce, in caso contrario si va avanti fino al risultato voluto. A partire dal 1980 circa, la teoria cognitivista propone un ulteriore punto di vista sull’apprendimento, tanto da affermare che, un cambiamento a livello comportamentale è sempre connesso e spiegabile in base a un cambiamento a livello cognitivo. In quest’ottica, l’apprendimento sarebbe il risultato della complessa interazione tra fattori interni ed esterni, e in particolare dei processi mentali attraverso cui vengono elaborati gli input esterni. L’apprendimento non consisterebbe, quindi, nel semplice trasferimento dell’informazione esterna all’interno, ma sarebbe piuttosto il risultato di una sua complessa trasformazione a livello cognitivo. 27

Il soggetto è dunque un attivo costruttore delle sue conoscenze. Questa concezione dell’apprendimento come processo costruttivo attivo prevede, inoltre, che l’acquisizione di nuove conoscenze produca una modificazione di quelle già possedute. Ogni volta che il soggetto impara qualcosa di nuovo modifica le sue strutture concettuali: riorganizza le sue conoscenze, ma anche le procedure atte a padroneggiarle e a utilizzarle. Quest’ultimo aspetto è oggetto di studio soprattutto del recente filone di ricerca sull’apprendimento in età adulta.

Il contributo della filosofia del linguaggio Le riflessioni sul linguaggio sono nate insieme alla filosofia. Aristotele e Platone possono essere considerati due filosofi antesignani nell’approccio e nell’approfondimento delle questioni legate al linguaggio. Ogni epoca a visto privilegiare le diverse componenti dello studio del linguaggio. Nel medioevo europeo, ad esempio, la discussione sul linguaggio ruota principalmente intorno alla grammatica e alla logica del linguaggio. Dimostrazione di questo è il peso che durante l’età medioevale è stato attribuito allo studio del latino e della sua sintassi logica nelle scuole medie e nei licei classici di un tempo. Uno stretto legame tra analisi filosofica, analisi del linguaggio ed analisi filosofica è rintracciabile fin dalla filosofia antica. Legame che è rimasto invariato nei secoli fino a perdersi nell’età moderna. Verso la metà del secolo scorso Austin (1911-1956) paragonava la filosofia ad un sole caldo e tumultuoso da cui, nel tempo, si sono staccati pezzi che costituiscono i freddi pianeti della scienza, quali la matematica, la fisica, la logica, la psicologia e l’antropologia. Egli, nel corso dei suoi studi, si è più volte chiesto se il XXI secolo, avesse visto sorgere attraverso gli sforzi comuni di filosofi, linguisti e altri studiosi del linguaggio, una vera e comprensiva scienza del linguaggio che in qualche modo avrebbe decretato la fine della filosofia del linguaggio a favore di uno studio “rigorosamente scientifico” e non più filosofico. Di fatto questo non è accaduto, innanzitutto, perché, ad oggi, non si è ancora sviluppata una scienza comprensiva del linguaggio, ma più semplicemente sono in corso diverse ricerche scientifiche sul linguaggio in vari campi: linguistica, psicologia, neurofisiologia, biologia, logica, matematica, informatica e poi perché nel tempo si sono consolidate due tendenze: da un lato le riflessioni sul linguaggio nell’ambito della scienza cognitiva, frutto del lavoro congiunto di studiosi di tutte queste discipline insieme ai filosofi; dall’altro lo sviluppo di alcuni standard nella linguistica teorica, per quanto riguarda la semantica formale.

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Premesso questo, consultare un buon dizionario dei termini filosofici continua ad essere indispensabile per comprendere come la filosofia del linguaggio possa essere considerata a tutti gli effetti una disciplina antesignana nello studio del linguaggio. Non c’è, infatti, attività umana che non sia interessata dalla e alla riflessione più o meno filosofica sulla natura del linguaggio. La logica, la metafisica, l’ontologia, l’epistemologia, la gnoseologia, la psicologia sperimentale, la riflessione sull’uomo in generale e nella totalità delle sue manifestazioni e, infine, l’etica e la morale, sono tutte scienze che spaziano ed indagano i diversi aspetti del linguaggio. Questo dipende dal semplice fatto che il linguaggio è indissolubilmente legato ad ogni attività umana poiché strettissimo è il rapporto che lo stringe al pensiero ed all’elaborazione teorica, così come evidente, è il rapporto che lo congiunge all’agire pratico dell’essere umano ed alla concezione del mondo. Attraverso il linguaggio, infatti, l’uomo nomina le cose, le “significa”, le mette in relazione, veicola valori, esprime giudizi. Tuttavia nonostante sia importante mantenere costantemente aperto un approccio multidisciplinare allo studio del linguaggio è necessario tenere sempre presente la distinzione tra filosofia del linguaggio, linguistica e psicologia, chiarito ormai ampiamente che si tratta di una distinzione e non di una separazione e che tra queste tre attività umane esistono zone di sovrapposizione, interazioni e reciproci condizionamenti. La filosofia del linguaggio, infatti, s’interroga in modo prioritario sulla “natura” e sulla funzione del linguaggio, mentre la linguistica privilegia l’esame dei meccanismi interni alla lingua considerandola come un insieme strutturato, e la psicolinguistica studia l i processi psicologici- cognitivi-comportamentali alla base dell’acquisizione, dell’elaborazione e dell’uso comune della lingua. Gli psicologi hanno costantemente insistito sulla cosiddetta “mediazione verbale” per la quale, tra un atto intellettivo ed un altro c’è sempre il filtro del linguaggio in una dinamica in cui, il possesso degli opportuni strumenti linguistico-concettuali, è il pre-requisito per lo sviluppo ed il potenziamento della attività cognitiva. Partendo da questa idea, non ci si può non soffermare su un filosofo come Wittgenstein che, con il sue riflessioni sul linguaggio, prende le distanze dalla psicologia e nello stesso tempo enuncia dei principi che funzionano da “agganci” tra filosofia del linguaggio e psicologia del linguaggio. “Nelle Ricerche filosofiche”, opera pubblicata postuma nel 1953 e che rappresenta un evento nel panorama filosofico nazionale e in generale per tutti gli studiosi che si occupano dello studio del linguaggio, sono individuate le molteplici funzioni del linguaggio.

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Il linguaggio, infatti non è più solo un mezzo per descrivere il mondo, ma è sempre inestricabilmente connesso ad un contesto d’azione. In questo, Wittgenstein non fa altro che portare avanti il principio di con testualità di Frege. Se Frege aveva detto che una parola ha significato solo nel contesto di un enunciato, Wittgenstein arriva a dire che una parola ha significato solo nel suo contesto d’uso, quindi in un contesto in cui le parole e le azioni inevitabilmente s’intrecciano. Molteplici, infatti, sono le possibili funzioni del linguaggio ed esso serve alle operazioni più svariate come il domandare, il pregare, il comandare, etc. Quella che potremmo definire funzione referenziale e che rimanda al linguaggio inteso essenzialmente come dimostrazione è soltanto una funzione di uno dei possibili giochi linguistici. Nasce così il concetto di “gioco linguistico”, ovvero un contesto di azioni e parole in cui si definiscono gli usi, o meglio i significati delle parole stesse. Se, significato diventa sinonimo di uso del linguaggio, allora quest’ultimo perda ogni aurea metafisica: il significato di un’espressione non è né un oggetto né un’immagine mentale. Il termine “gioco” deve essere preso quasi alla lettera, poiché, così come un qualsiasi gioco viene, veramente appreso nel momento delle pratica, analogamente apprendiamo le regole di un gioco linguistico solo “giocando” e non certo attraverso una riflessione ed un’analisi teorica consumata a priori. L’uso del linguaggio, infatti, si può osservare oggettivamente, nel senso che si può dare una descrizione oggettiva degli usi linguistici, dei significati delle nostre espressioni, riconducendole al contesto in cui vengono originariamente usate. Spesso molti fraintendimenti linguistici dipendono dall’usare una parola fuori dal contesto che le è appropriato. Questa nuova concezione filosofica del linguaggio apre anche un’altra questione legata alla comprensione del significato. Il filosofo studia la comprensione dal punto di vista delle pratiche sociali oggettive e controllabili. Per lui comprendere equivale a capire i segni. In questo prende le distanze da Frege che, partendo dall’analisi dei processi psichici interni, sostiene che comprendere è un processo misterioso in cui il piano psichico e il regno dei pensieri vengono a contatto tra loro. Wittgenstein interrogandosi su come sia possibile capire l’uso dei segni e su che cosa garantisca la corretta comprensione e la giusta applicazione dei segni arriva a formulare la tesi per cui c’è comprensione a patto che si segua la regola. Egli nota, infatti, come l’uomo sia continuamente esposto al fraintendimento, alla comunicazione non riuscita. Ogni espressione può essere interpretata diversamente dai differenti parlanti. Postulato questo viene da chiedersi come, sia allora possibile seguire correttamente una regola se 30

si può dare sempre e costantemente una diversa interpretazione della stessa. Per Wittgenstein, la risposta non è nell’interpretazione della regola, né nell’intenzione di seguire la regola, ma solo nella pratica della regola. Solo la pratica, infatti, è in grado di assicurare la sicurezza della comprensione della conversazione. Pratica che si sviluppa nel contesto di una comunità linguistica: “non si può seguire una regola, privatim, non vi è un linguaggio privato, e seguire la regola è il fondamento dei giochi linguistici”. Un altro elemento d’approfondimento viene fuori, se consideriamo che ogni singolo gioco linguistico, proponendo se stesso regala tanto il metodo della sua stessa comprensione, quanto un modo di rapportarsi al mondo. Ogni “gioco di lingua”, cioè, è una sorta di sonda lanciata verso un mondo possibile o, per meglio dire, verso un modo di organizzare un “orizzonte di senso” all’interno del quale agire. Per dirla con la terminologia delle ricerche filosofiche, tanti sono i “giochi di lingua”, “tante sono le “lebensform” forme di vita e ogni linguaggio nasce da un insieme di bisogni sociali che si vengono a costituire ma, poi, dialetticamente, conferisce a tali bisogni un nuovo spessore e li costituisce in un mondo virtualmente autonomo. Una “forma di vita” è un’istituzione, un costume, una pratica all’interno della quale il linguaggio ha un ruolo speciale da giocare. Si consideri una persona che riporti le proprie sensazioni, diciamo, dopo aver subito un incidente, dopo essere stata investita da un’automobile. È in ospedale ed ovviamente deve dire al dottore dove sente dolore. Questo riportare, localizzare e descrivere il dolore è, secondo Wittgenstein, un’attività, un gioco linguistico. E lo si gioca in un contesto determinato: questo contesto più l’attività stessa costituiscono una forma di vita. A questo punto diventa abbastanza facile constatare il rapporto che si viene a costituire tra il linguaggio e l’esistenzialità, in una prospettiva nella quale l’esistenzialità è sempre considerata nella sua concretezza quotidiana qualunque sia la forma che essa assume. Questo atteggiamento di apertura e tolleranza viene ulteriormente messo in evidenza se puntualizziamo come nella prospettiva di Wittgenstein, i giochi di lingua devono essere semplicemente descritti e mai normativizzati. Chi pretende, infatti, di giudicare la correttezza o meno di questa o quell’altra regola mostra di non avere compreso cosa veramente sia un linguaggio, il quale è sempre parametro di sé stesso e non accetta intrusioni e “normatività” esterne. Assumendo all’interno dei linguaggi la dimensione pragmatico-sociale, Wittgeinstein non può non assumere, anche la dimensione storica ed asserire che i giochi di lingua, portatori di vita e viventi essi stessi, nascono, crescono e muoiono. Una filosofia, una prospettiva estetica, una teoria più o meno scientifica, in quest’ottica, sono dei modi in cui la lingua ha giocato e quando essa ha toccato il punto finale e discensivo della sua parabola, si presenta come un “reperto” che, divenendo 31

oggetto di analisi ermeneutica (interpretazione), può quasi vivere una seconda vita se è capace di spingerci, nei nostri sforzi interpretativi, a determinare un nuovo modo di giocare del linguaggio. Wittgenstein dà l’incipit a quella filosofia analitica tipica dei paesi di lingua inglese che si dedicherà sistematicamente all’analisi delle molteplici manifestazioni del linguaggio intese tutte come mondi autonomi. La comprensione complessiva del nostro filosofo emerge ancora meglio se analizziamo il concetto di “lebensform”, forma di vita, inquadrando la logica che sembra presiedere alla nascita, alla evoluzione e alla morte dei singoli giochi di lingua. Quando si dice che ogni “gioco di lingua” è imparentato con una forma di vita bisogna cogliere la natura dialettica di tale rapporto. Ogni singolo gioco, cioè, nasce dalla “pressione” di esigenze pratiche storicamente e culturalmente determinate che, nel momento del loro presentarsi, si trovano, diciamo così, in una fase ancora magmatica e non ancora organizzata. È il formarsi di questo o di quel particolare linguaggio che struttura tali pressioni, dando loro la forma di un “mondo” ed organizzandola nel segno della sistematicità. L’uomo costituisce se stesso ed il suo mondo proprio producendo tali “giochi linguistici” le cui regole interne crescono su se stesse senza che se ne abbia una preventiva coscienza e senza che si operi con una chiara progettualità. I giochi di lingua, pertanto, sembrano essere i veri soggetti e l’uomo che li esercita ne risulta profondamente condizionato. Non è possibile pertanto prevedere a priori l’evoluzione o la morte di questo o quell’altro linguaggio ed il momento della riflessione cosciente nei confronti di un gioco di lingua, che ha esaurito la sua funzione, può avvenire solo a posteriori. Wittgenstein sottolinea come esista un rapporto di parentela tra i singoli giochi di lingua che, pur nella loro autonomia, mostrano delle affinità e dei tratti comuni che, raggiungendo una certa soglia, si compongono in “famiglie”. Intendendo il linguaggio come la totalità dei “giochi di lingua”, va sottolineato che, esso nasce e si sviluppa, ci sia lecito l’ossimoro, attraverso una logica “caoticamente ordinata”. Per esprimere tale modalità di evoluzione, Wittgenstein è solito ricorrere alla metafora della città. Così come una città, si sviluppa dal lato urbanistico, mettendo insieme quartieri che hanno origini diverse e differenti identità e funzioni, analogamente il linguaggio vede sorgere “giochi di lingua” che non fanno parte di un “aprioristico piano regolatore” ma che, tuttavia, trovando quartieri preesistenti, non possono non rispettarli senza rimanerne condizionati avendo di fronte a sé questa o quella possibilità di sviluppo. È normale, pertanto, che chi osserva tale evoluzione in questa o quell’altra sua fase, si trova di fronte ad un disordine che, però, quanto più lo si guarda da vicino e nella specificità della funzione di ogni suo singolo elemento intero, tanto più appare ispirato e motivato da una logica che trae alimento dalle diverse lebensform via via rintracciate. 32

Nell’’opera di Wittgenstein la filosofia è terapia interna ai singoli giochi di lingua perché l’analisi filosofica porta a compiuta coscienza le regole che si sono sviluppate precedentemente e individua indebiti momenti di sovrapposizione tra questo o quell’altro sprachspiel (gioco di lingua). Le regole interne ai giochi di lingua non sono mai, né vere, né false, esse vanno considerate nelle loro relative posizioni e rispettate nelle autonomie del loro sviluppo. Diverso, però, è il caso in cui i singoli giochi linguistici si sovrappongono, facendo sì che ci si serva, inavvertitamente, di regole che appartengono ad un gioco diverso da quello iniziale. In tal caso, il linguaggio si avvita su se stesso, ed è proprio in tale occasione che deve intervenire la funzione terapeutica della filosofia.

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ESERCIZI a) Spiega il modo in cui si è evoluto il linguaggio nell’essere umano …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… b) Dai una definizione di linguaggio …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… c) Spiega il rapporto esistente tra linguaggio e comunicazione …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… d) Indica su quanti livelli si fonda il linguaggio umano …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… e) La comunicazione ha un’importante funzione educativa, indica quale …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… ……………………………………………………………………………………………………

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2. LA COMUNICAZIONE LINGUISTICA Un exursus di linguistica La linguistica è lo studio della lingua secondo i metodi della scienza moderna ed opera nelle aree della fonologia, morfologia, sintassi che insieme formano la grammatica, e in quelle della metrica, che studia la struttura ritmica e la tecnica compositiva dei versi, della semantica, della lessicografia, che comprende l’etimologia. La lingua è una creazione storica ed antropologica ed è il risultato dell’uso del linguaggio da parte di una determinata società di parlanti in un preciso momento della storia. Di conseguenza, tutti gli uomini hanno, e probabilmente hanno sempre avuto, la facoltà del linguaggio; le lingue, invece sono molteplici e variano a seconda dei gruppi sociali che le esprimono e del periodo storico in cui sono state espresse. Il tempo, oltre alla convenzione sociale, è l’altra coordinata fondamentale per cui una lingua è quella che si manifesta. La linguistica nasce, in prima istanza come esigenza di interpretare correttamente i testi sacri, quando ci si è reso conto, nelle varie civiltà, che la lingua con cui erano scritti i testi non risultava più ben comprensibile. È stata proprio la conoscenza del sanscrito da parte dell’Occidente, avvenuta alla fine del Settecento, a porre le basi per una fondazione scientifica della linguistica. È iniziata, così, un’opera di comparazione sistematica delle lingue (a partire dalle lingue indoeuropee) e una loro classificazione secondo criteri rigorosi, basati soprattutto sullo studio delle corrispondenze fonetiche e morfologiche (Glottologia). Parallelamente è iniziato lo studio sistematico dei dialetti. Per tutto l’Ottocento la linguistica, assorbita dalle scoperte e dalle acquisizioni – valide ancora oggi – del metodo comparativo, è stata una disciplina piuttosto compatta e orientata verso lo studio diacronico, ossia storico, della lingua. Nel XX secolo, e in particolare grazie all’opera di Franz Boas, Ferdinand de Saussure e la scuola linguistica di Praga, la disciplina si è sviluppata secondo una serie di orientamenti diversi: l’analisi diacronica viene ulteriormente sviluppata e perfezionata, ma nello stesso tempo prende piede lo studio sincronico, che si propone di studiare la lingua nel suo stato attuale e nel suo funzionamento reale. Lo strutturalismo è nato e si è sviluppato proprio in linguistica, con la considerazione che le lingue costituiscono sistemi complessi e strutturati, in cui ogni parte è legata a tutte le altre e non è modificabile o eliminabile senza che l’intera struttura ne risenta. Possiamo, dunque parlare di due tipi di linguistica: una sincronica ed una diacronica. Con la prima, intendiamo lo studio del rapporto che occorre tra tutti gli elementi costitutivi del sistema linguistico, prescindendo dalla loro origine e 35

dall’evoluzione del tempo, con la seconda, invece, ci riferiamo all’aspetto dei fatti linguistici secondo la successione nel tempo, ad esempio la /i/ latina in sillaba aperta accentata che in italiano diventa /e/ chiusa. La distinzione tra “langue” e “parole” determina che al momento di un atto locutivo, tutti i rapporti paradigmatici che strutturano una “langue” sono, comunque, sempre e solo sincronici; l’aspetto diacronico si manifesta, all’opposto, sull’asse sintagmatico, ovvero nella “parole”. Studiare la “grammatica” di una lingua è quindi eminentemente compito della linguistica sincronica. Negli Stati Uniti Franz Boas e Edward Sapir, nell’ambito della linguistica descrittiva, hanno applicato raffinate metodologie per identificare i suoni o le unità grammaticali delle lingue prive di tradizione scritta, (ad esempio le lingue indiane d’America), in modo da giungere a una descrizione scientifica dei vari linguaggi. Basandosi sul loro lavoro, Leonard Bloomfield ha proposto un’analisi comportamentale del linguaggio, che ha evitato il più possibile considerazioni semantiche, ossia sul significato. In relazione a questo tipo di ricerche e contro alcune affermazioni radicali e discutibili degli allievi di Bloomfield, Noam Chomsky ha elaborato, a partire dagli anni Cinquanta, la grammatica generativa che, distingue una «struttura profonda» dei fatti linguistici e una «struttura superficiale» in cui la prima si trasforma nell’organizzazione sintattica del parlare concreto. Per Chomsky, la sintassi, ovvero le regole con cui produrre tutte le possibili frasi attraverso la manipolazione di simboli, è la parte veramente importante della lingua. Egli sostiene che solo nella mente umana esiste un processore del linguaggio, e questo processore è già implementato all’atto della nascita. Questa ipotesi spiegherebbe l’incredibile velocità e affidabilità con cui un bambino acquisisce il linguaggio. Esiste, dunque, una sintassi comune a tutte le lingue naturali che viene adattata, caso per caso, semplicemente cambiando pochi parametri, per diventare una lingua concreta. La grammatica generativista si basa, dunque, sull’idea che qualsiasi sia l’aspetto del linguaggio che noi consideriamo, si tratti del significato delle parole o del modo in cui queste si combinano in frasi, o vadano a formare certe costruzioni (domande, relazioni semantiche tra parole, relazioni tra un pronome e un antecedente o un nome) esso si fonda su un vasto orizzonte di complessità. In sostanza, la grammatica generativa, pone l’accento sulla capacità ricorsiva delle regole della lingua di generare sempre nuove frasi. La ricorsività, ossia la frequenza con cui si rinnova o si ripete un fatto o un fenomeno, investe ogni aspetto della lingua. Chomsky, dunque, con gli “Universali linguistici” ha posto alla base delle proprie teorie i presupposti della linguistica e quelli della filosofia del linguaggio. De Saussure, con il suo corso di linguistica generale pubblicato postumo nel 1916, il cui assunto fondamentale è il rapporto convenzionale ed arbitrario che lega in un 36

segno il proprio significato (sostanza) e il suo significante (la rappresentazione grafica, la forma) ha condizionato pretereintenzionalmente la filosofia del linguaggio. Quello di De Saussure, infatti è un trattato, che si presenta come un lucido e freddo preannuncio della crisi che attraversa e sconvolge le certezze del linguaggio tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo. Un filo rosso che porta alla luce la frattura insanabile tra il mondo dei segni e quello della realtà, e l’impossibilità del primo di dare consistenza al secondo. Chomsky, invece, proprio per meglio impostare questioni di linguistica, ha sentito il bisogno di “sconfinare” nella riflessione filosofica e psicologica ipotizzando la presenza di un’attività della “mente”, considerata in una prospettiva universale e concepita come colei che sorregge e presiede alla produzione delle lingue naturali. In Europa la riflessione di Saussure, considerato a tutti gli effetti il padre dello Strutturalismo e della linguistica sincronica e della scuola di Praga non ha dato origine a una scuola linguistica unitaria. Si sono, infatti, sviluppati molteplici interessi ed orientamenti diversi. La scuola glossematica di Copenaghen, ad esempi, rappresentata da Louis Trolle Hjemlslev e Viggo Brøndal viene ricordata per il rigore formale e la sua coerente impostazione concettuale e le sue applicazioni nel campo della semiologia, il funzionalismo, di André Martinet e di Michael Halliday, è un orientamento che pone l’accento sulla funzione comunicativa della lingua e sul ruolo del parlante. Anche Martinet parte dall’impostazione saussuriana che concepisce il momento del singolo atto locutorio come, l’unico istante “reale” della “langue”, ma la riformula diversamente fino ad arrivare ad edificare una linguistica storica strutturale. La posizione assunta da André Martinet, propone infatti di cambiare i termini del problema, pensando alla diacronia come ad una sommatoria d’infiniti istanti sincronici, di fatto non isolabili, se non astraendoli per comodità di studio, dato che nella realtà sono sempre immersi nel fluire della diacronia. Con questo approccio (a volte detto “sincronia nella diacronia”) i capisaldi del pensiero saussuriano: il “sistema” e “la sua struttura sincronica” restano, in ogni caso saldi, e si aprono così nuove porte per lo studio del mutamento linguistico in termini funzionalistici e strutturali. Una soluzione più radicale è invece quella avanzata, in anni più recenti, dalla teoria della grammaticalizzazione, proposta da vari studiosi tra cui Elisabeth Traugott e Paul Hopper. Questa dottrina riconosce realtà solo alla diacronia, negando, di fatto, l’esistenza di una “langue” sincronica. Le conseguenze sono pesanti: non si può più parlare di sistema, ma solo, semmai, di processi astratti e tendenze evolutive generiche e, di fatto, si dissolve lo strutturalismo in una sorta di teleologismo generale (esistono solo processi), senza reale supporto empirico. Viene, infatti, da domandarsi come mai, se tutte le lingue evolvono, davvero, in base alle medesime tendenze, ed in un’unica direzione, non finiscano per 37

essere uguali. Con lo studio del linguaggio anche la dialettologia si è rivelata una disciplina assai vivace, banco di prova sulle lingue vive delle teorie e metodologie speculative. Fra le discipline della linguistica moderna ci sono inoltre: la sociolinguistica; la pragmatica e la psicolinguistica, l’etnolinguistica, che si occupa dei rapporti fra linguaggio, cultura e visione del mondo delle popolazioni o dei gruppi ed è imparentata con l’antropologia; la geografia linguistica, che riassume in sé caratteristiche della grammatica storica, dello strutturalismo, del funzionalismo e dell’etnolinguistica.

Lo Stutturalismo linguistico: il Cours di de Saussure Il “Corso di linguistica generale” vide la luce nel 1916 e fu curato dai discepoli di Saussure che compendiarono e sintetizzarono le lezioni accademiche sviluppate dal linguista ginevrino in un arco di tempo che va dal 1905 al 1909. Con Saussure si assiste, come abbiamo già visto, ad una vera scissione tra linguistica diacornia e sincronica. Per comprendere l’ispirazione fondamentale dello strutturalismo linguistico può essere utile far riferimento ad un esempio proposto dallo stesso Saussure, quando paragona il funzionamento della lingua al gioco degli scacchi. Intuitivamente si comprende, infatti, come l’essenza del gioco degli scacchi, non cambi se i pezzi della scacchiera sono in legno piuttosto che in avorio, così come non si verifica nessun cambiamento funzionale se pedine, torri o alfieri assumono forme diverse. Per il funzionamento di tale gioco, infatti, è necessario soltanto che i singoli pezzi siano distinguibili fra di loro e che ognuno di essi faccia tutt’uno con le funzioni e le proprietà che gli vengono attribuiti. Di fondamentale importanza è dunque la struttura del gioco. Parimenti tale carattere di “totalità” e autoregolatività interna appartengono anche alla lingua. Così come accade nel gioco degli scacchi così nella lingua l’introduzione di un nuovo pezzo, nel caso della lingua di un nuovo elemento, con nuove proprietà e funzioni cambia l’intero funzionamento. Per meglio comprendere l’organizzazione del sistema lingua dobbiamo pensare ad un’analogia con l’orchestra: ogni strumento-elemento è in relazione con tutti gli altri strumenti, ma in particolare con i membri di alcuni settori (fiati, archi, ecc.) che si possono considerare sottoinsiemi. Anche la lingua è un sistema articolato in sottoinsiemi come quello fonologico (suono), morfologico (forma delle parole: articolo, verbo. Ecc.), sintattico (combinazioni di parole in frasi), semantico (significato delle parole), lessicale. Il sistema lingua si estrinseca in strutture, cioè in disposizioni, configurazioni di elementi secondo le leggi particolari di quella determinata lingua. Nella lingua italiana, ad esempio, nel sottosistema fonologico, gli elementi, che corrispondono alle lettere dell’alfabeto, possono combinarsi solo in un certo modo: “e”, “o”, “m”, “r”, possono strutturarsi in “remo”, “more”, 38

“orme”, ma non in “rmoe”, “mroe”. Parimenti nel nostro sistema morfologico è ammessa la configurazione articolo + nome, ma non il contrario ([la casa] e non [casa la]). Studiare una lingua in termini strutturali significa, quindi lasciarsi alle spalle le vecchie prospettive diacronico evolutive per privilegiare un approccio “sincronico”. La dicotomia diacronico sincronico, però, non va intesa in termini rigidi perché le prospettive metodologiche non si escludono a vicenda, anche se l’approccio sincronico ha un suo primato conoscitivo in quanto rende maggiormente comprensibili quelle trasformazioni, diacronico evolutive, che, pur intervenendo dall’esterno, vengono riassorbite dalla lingua sincronicamente intesa e rese compatibili con la funzionalità delle sue strutture. L’elemento più innovativo del pensiero saussuriano è quello relativo alla cosiddetta “arbitrarietà del segno linguistico”. Per il linguista ginevrino il segno linguistico è composto da due facce inscindibili che Saussure chiama rispettivamente significato e significante. Per dirla con Saussure il segno linguistico è in sostanza come un foglio di carta o una pagina di un libro nella quale se tagliamo il recto tagliamo anche il verso perché siamo di fronte alle due facce di una stessa medaglia. Il significato coincide con il concetto, mentre il significante è l’immagine acustica o grafica che viene utilizzata per esprimere il concetto. Il legame tra significato e significante è del tutto arbitrario frutto della convenzione sociale.

Il segno linguistico secondo De Saussure

Con arbitrarietà s’intende specificare, dunque che il segno linguistico non è determinato da relazioni necessarie di causa ed effetto e non è “motivato” da alcun rapporto di somiglianza. Pensiamo alla parola “albero”. La rappresentazione fonica albero non è determinata da alcun rapporto di causa-effetto, né di somiglianza con il concetto ‘albero’ dell’italiano, né il segno linguistico “albero” della medesima lingua è determinato da alcun 39

rapporto causale o di somiglianza con la classe degli oggetti del mondo (“alberi”) cui può riferirsi. Esistono però alcuni “segni motivati” nei quali il significante intrattiene con il significato un rapporto di “somiglianza”. È il caso, ad esempio, delle parole onomatopeiche (ad es. il “sibilare” del vento o l’ululare” del lupo) e del lessico cosiddetto espressivo (ad es. “mamma”, “bua”, “pupu”, ecc.). Il fenomeno è indubbiamente reale, ma ha un’incidenza estremamente ridotta nel sistema linguistico. Se, infatti, proviamo a considerare, le riproduzioni “linguistiche” dei versi degli animali (onomatopee) nelle diverse lingue, noteremo che le parole con cui vengono riprodotti i versi degli animali presentano, indubbiamente una qualche somiglianza con i suoni originali, sono, cioè, “motivati”, ma, spesso, mutano completamente da lingua a lingua. Questo sta a significare che la caratteristica dominate della lingua è quella di essere una convenzione sociale al punto che anche la riproduzione dei suoni “onomatopeici” non trova quasi mai una netta identità nelle diverse lingue. Capito, in modo piuttosto semplice ed intuitivo il rapporto arbitrario che lega significante e significato, soffermiamoci a fare un’ulteriore riflessione, questa volta meno evidente, che sostiene che, anche, anche i “concetti” siano in un rapporto di arbitrarietà in ogni lingua. Non esiste, infatti, una corrispondenza biunivoca tra due o più concetti in lingue diverse. Per comprendere questo, basti pensare alla reale difficoltà che, incontriamo nel fare traduzioni da una lingua all’altra. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli, per iniziare, consideriamo un caso appartenente alle lingue occidentali: il concetto di ‘carne’.

Francese

Inglese

Italiano

Ungherese

viande

meat

carne

Hús

chair

flesh

""

""

Tabella comparativa dei sistemi di definizione dei concetti

Come si può vedere nella tabella, le lingue non colgono allo stesso modo il valore concettuale del significato. Nell’esempio riportato la lingua francese e la lingua inglese prevedono due significati per specificare rispettivamente con vivande/meat la carne umana, e con chair/flesh, la carne da mangiare, mentre l’italiano non contempla nel suo vocabolario nessuna parola che specifichi il diverso valore concettuale, il quale viene espresso ricorrendo all’uso dell’aggettivo o del complemento (carne+umana) (carne+ da mangiare). Non mancano, poi, casi in cui le corrispondenze sono distribuite in modo ancora più confuso. In lingue culturalmente lontanissime, come l’inglese e il giapponese, la crescita della diversità tra i diversi sistemi concettuali, aumenta, progressivamente, 40

all’incremento delle differenze storiche, geografiche, politiche. In generale, infatti, il grado di diversità delle griglie concettuali tra due lingue è di solito proporzionale alla distanza culturale, antropologica, delle comunità che di quelle lingue fanno uso. Naturalmente l’arbitrarietà del segno non va confusa con una sorta di libertà concessa al parlante, infatti solo lingua è libera di stabilire leggi interne che il parlante dovrà necessariamente rispettare. All’interno della lingua opera un elemento convenzionale e sociale che, però, non può mai inficiare la sua funzionalità strutturale e che anzi, ne costituisce un ulteriore fattore. Oltre all’arbitrarietà Saussure attribuisce, al segno linguistico, la caratteristica della convenzionalità, intesa come il consenso accordato da una comunità di parlanti circa l’uso di un segno linguistico. Complessità e discrezionalità sono altri due elementi distintivi del segno. I segni, infatti, sono unità discrete, tanto al loro interno (articolazione), quanto rispetto agli altri segni con cui si posizionano in occorrenza in un determinato contesto (composizionalità). Quando definiamo il segno unità discreta, intendiamo dire, che esso è scomponibile in parti tra loro chiaramente distinte. L’espressione mela, ad esempio, è chiaramente segmentabile in quattro unità sonore, fonemi, facilmente identificabili procedendo a prove di commutazione locale (Vela, mOla, meNa, melO); il concetto ‘mela’, distinto da quello di ‘pera’, è invece chiaramente segmentabile in ‘buccia’, ‘polpa’, ‘seme’, ‘picciolo’, ecc. Questa doppia articolazione del linguaggio, tanto a livello di definizione concettuale che di segmentazione fonologica, è stata specialmente sottolineata come costitutiva del linguaggio umano, soprattutto, dal linguista francese André Martinet (1908-1999). La composizionalità del segno è intesa come la capacità di ogni segno linguistico di mettersi in relazione con altri segni, diventando esso stesso una parte discreta di un sistema di segni il cui significato è dato dalla somma del significato delle sue parti. Più parole, combinate tra loro possono formare un sintagma, una frase, ecc. Affinché il segno possa disporsi in combinazione con gli altri segni esso deve essere necessariamente lineare. Il significante linguistico, in opposizione ai significanti visivi, essendo di natura auditiva, si svolge soltanto nel tempo. È appunto una linea lungo la quale gli elementi si presentano l’uno dopo l’altro, formando una catena. Le caratteristiche appena spiegate di fatto compongono il segno e agiscono in modo sistematico. Possiamo ora meglio comprendere come, una “langue” sia sempre un sistema coerente di funzioni, e come tale può essere analizzato e studiato. Gran parte della linguistica del Novecento si pone, infatti, all’insegna dello strutturalismo che nasce, appunto, dalla lezione di Saussure, rinforzata anche dal modello della antropologia strutturale di Lévi-Strauss. 41

La lingua per Saussure è un “sistema coerente di funzioni” che si regge su due tipi diversi di rapporti, rispettivamente chiamati rapporti sintagmatici e rapporti paradigmatici. I primi si fondano sulla linearità del segni linguistici, pensiamo, ad esempio, a come le parole all’interno della frase si dispongono, si associano e si relazionano reciprocamente, originando significati di senso compiuto. Questi rapporti sono sempre in presentia, concreti. I rapporti paradigmatici, invece, sono astratti e uniscono dei termini in absentia, in “una serie mnemonica virtuale”, in altre parole, rappresentano la struttura grammaticale della “langue”. Un altro elemento stimolante della linguistica di Saussure, infine, è da individuare nel progetto del ginevrino di “allargare” il concetto di “segno”, includendo, anche, i segni non linguistici per fondare una sorta di scienza generale e onnicomprensiva, definita dal nostro autore come “semiologia”. La linguistica strutturale, sarebbe, quindi, solo una, anche se certamente la più significativa, manifestazione della semiologia, ed ogni forma di cultura, ogni oggettivazione delle attività dell’uomo, può essere vista come un “sistema di segni” le cui leggi interne risulterebbero sicuramente indagabili. Vogliamo precisare che questa digressione fatta sulla linguistica e soprattutto sullo strutturalismo di de Saussure non vuole uscire fuori tema rispetto all’oggetto della psicologia del linguaggio. Riteniamo, che non si possa prescindere dalla conoscenza dei concetti espressi per affrontare lo studio della psicologia del linguaggio.

La psicolinguistica chomskiana: il modello generativotrasformazionale e l’incontro con il cognitivismo, le direzioni di ricerca La linguistica generativo-trasformazionale ha avuto origine con la comparsa, nel 1957, del volume di Chomsky Syntactic Structures. Essa si attribuisce il compito di pervenire ad un modello linguistico tale che possa generare tutte le infinite frasi di una lingua, ciascuna suscettibile di una descrizione a livello di struttura e di interrelazione con le altre frasi. Secondo la teoria linguistica di Chomsky, quale appare nel 1965 in “Aspetti della teoria della sintassi”, il compito di una descrizione linguistica adeguata è infatti quello di costruire una grammatica “predittiva” che a partire dalle unità della lingua, considerate come un numero finito di elementi, permetta di costruire un insieme aperto di frasi grammaticalmente accettabili. Le frasi della lingua e l’intuizione del parlante rappresentano i dati empirici su cui fondare la formulazione e la verifica del modello. Una delle tesi più importanti elaborate dall’autore è relativa alla distinzione tra “competenza” (competence) ed “esecuzione” (performance) linguistica. “Dobbiamo considerare la 42

competenza linguistica - cioè, la conoscenza di una lingua come un sistema astratto sottostante al comportamento, un sistema costituito da regole che interagiscono per determinare la forma e il significato intrinseco di un numero potenzialmente infinito di frasi” (Chomsky 1968). Dunque, per competenza, si riferisce alla capacità, che ogni parlante possiede di comprendere e produrre potenzialmente tutte le frasi di una lingua, le quali costituiscono un insieme tecnicamente infinito. intesa in questo senso, la competenza rappresenta l’oggetto della linguistica, in quanto l’elaborazione di una grammatica, è per Chomsky, la descrizione sistematica ed esplicita della competenza. L’esecuzione invece è l’uso che della lingua fa il parlante, il modo in cui la competenza, capacità potenziale e innata, viene messa in atto nella produzione linguistica. La teoria linguistica ha il compito di specificare come la competenza linguistica è universalmente organizzata al di là delle possibili differenze: la descrizione di questi “universali” fa sì che si possa parlare di una teoria del linguaggio umano in quanto tale, piuttosto che di una lingua in particolare. Un’altra idea di fondo elaborata dall’autore riguarda la distinzione delle componenti di cui consta una grammatica; la frase è l’unità base della lingua, essa è generata tramite delle regole sintattiche che governano la combinazione e la relazione delle singole parti della frase stessa; dunque nella grammatica, intesa come modello di competenza linguistica, è centrale il ruolo della componente sintattica, a cui si aggiunge quella fonologica, relativa alla interpretazione delle relazioni tra suoni e simboli, e quella semantica, che ha il compito di interpretare il significato espresso dai singoli elementi lessicali. L’autore opera una distinzione tra strutture superficiali, che vengono espresse dalle singole frasi prodotte da regole generative, che cambiano da lingua a lingua, e strutture profonde, che rappresentano il contenuto dell’intenzione comunicativa del parlante, astratte e tendenzialmente universali. Come si è detto la componente sintattica è quella fondamentale, in quanto permette al parlante di associare le catene foniche ai significati e viceversa, e quindi di fondare la competenza linguistica. Il passaggio dalle strutture profonde a quelle superficiali, ovvero dal livello astratto delle informazioni semantiche al livello concreto della produzione di frasi, avviene attraverso alcune regole di trasformazione. La componente fonologica assegna una rappresentazione fonetica alle strutture superficiali, la componente semantica assegna una rappresentazione semantica alle strutture profonde. La distinzione tra struttura superficiale e struttura profonda consente a Chomsky di spiegare una frase attiva e la sua corrispondente passiva come due frasi a livello di struttura superficiale che risalgono alla stessa struttura profonda. 43

Anche i casi di sinonimia sono spiegati attraverso l’attribuzione alle frasi sinonime di strutture profonde uguali a cui corrispondono strutture superficiali diverse, mentre i casi di polisemia sono spiegati facendo risalire le frasi polisemiche a strutture superficiali identiche a cui corrispondono strutture superficiali diverse e aventi significato diverso. È interessante sottolineare i progressi compiuti dalla linguistica generativa sul piano della scientificità, per la rilevanza in essa data all’ambito delle elaborazioni teoriche e all’ambito della descrizione linguistica concreta. Parisi nota: “Il principale lato debole del modello classico è la sottocomponente di base della sintassi, cioè il sistema delle regole di riscrittura e l’inserzione lessicale. Se si osserva qual è l’apparato concettuale con cui è costruita la base della sintassi, cioè le categorie sintattiche (nome, verbo, sintagma nominale ecc.), ci si accorge che si tratta di vecchie nozioni della linguistica che conservano nel modello trasformazionale classico tutta o quasi la loro tradizionale oscurità”. Il modello del linguista americano ha, invece, il merito di aver riconosciuto la necessità di livelli di rappresentazione delle frasi più astratti, anche se il livello più astratto del livello classico, quello della struttura profonda, appare ancora come troppo simile alle rappresentazioni superficiali delle frasi. Per una teoria adeguata sembrano necessari livelli di rappresentazione ancora più astratti, cioè più distanti e diversi dalla rappresentazione superficiale. Su osservazioni di questo tipo si è fondata tutta l’analisi critica al modello ortodosso della linguistica post-chomskiana, orientata verso interessi prevalentemente semantici. In questa sede ci interessa piuttosto rilevare come il modello abbia influito sulla psicologia ed abbia fornito la base teorica e programmatica delle ricerche psicolinguistiche fino agli anni ‘70, e come sia stato significativo l’incontro tra esso ed il cognitivismo per lo sviluppo degli studi in psicolinguistica. Abbiamo già visto che per i cognitivisti, il modello “stimolo-risposta”, non basta a spiegare tutti i comportamenti umani: a determinare la conoscenza del mondo non è l’incontro casuale con stimoli ambientali, né la selezione automatica e selettiva sostenuta dai comportamentisti, bensì l’agire attivo dell’uomo di fronte alle informazioni provenienti dal mondo esterno e alla acquisizione dei messaggi nuovi, che vengono, attivamente, inseriti dall’individuo in un contesto di informazioni già possedute. Nella prospettiva cognitivista l’interazione percezione ed azione spinge l’uomo a contribuire alla formazione degli schemi ambientali, modificandoli; ogni individuo sviluppa una conoscenza personale del mondo che avviene mediante la selezione e l’interpretazione attiva degli stimoli inviati dall’ambiente. Nell’ambito del cognitivismo, i temi di studio della psicologia, come la percezione, la memoria, il pensiero, non sono più campi isolati, ma aspetti di un’attività 44

cognitiva globale; l’oggetto di studio è rappresentato dall’insieme dei processi cognitivi e lo scopo è quello di elaborare dei modelli che possano chiarire come funzionano le fasi di questi processi. Si profila, così, la possibilità di studiare quello che è dentro la mente e di accedere ai processi mentali di ricerca, di confronto, di decisione, di pianificazione e di azione. L’orientamento teorico cognitivista, disposto a riconoscere la complessa attività mentale, solo in parte osservabile nel comportamento esterno, considera, con favore, le nuove idee introdotte dalla grammatica generativo-trasformazionale, e mostra interesse per le ipotesi chomskiane sulla complessa struttura sottostante alle frasi e sulle fasi di formazione di queste, sottostanti al comportamento linguistico osservabile. Feconde possibilità di ricerca in campo psicologico, offre, infatti, una linguistica che considera il linguaggio come una competenza contenuta nella mente di ciascun individuo, e la sintassi un processo dinamico fondato su combinazioni di regole. Intorno al 1960 dunque, sia in linguistica, che in psicologia le condizioni della ricerca sono tali da consentire una svolta significativa al corso dell’evoluzione della psicolinguistica. L’analisi dell’acquisizione del linguaggio nei bambini, alla luce dei modelli generativotrasformazionali, si è rivolta a stabilire, se è possibile intravedere all’interno delle frasi prodotte dai bambini di uno-due anni, una qualche forma di struttura sintagmatica, seppure in nuce. È stato dimostrato che, nelle frasi costituite da poche parole, il modo in cui i bambini le correlano è soggetto a regolarità e si è notato che esistono in questo linguaggio embrionale solo alcune particolari combinazioni di parole; tali combinazioni riguardano le parole “perno”, ovvero una classe di parole, frequentemente usate, che rappresentano il perno, appunto, della frase, e le parole che non sono usate con molta frequenza, ma rappresentano una classe virtualmente infinita ed hanno un ruolo di contenuto. Le ricerche che si sono basate sull’analisi della distribuzione di tali classi di parole nelle frasi sono state svolte da Braine (1963) e Brown e Fraser (1963). Il punto focale, come osserva Slobin, è che il bambino, ha già un sistema proprio che non può essere semplicemente considerato una copia della sintassi dell’adulto. È più probabile, che il bambino usi già i limitati strumenti linguistici a sua disposizione per creare nuove espressioni all’interno del suo semplice, ma già strutturato sistema. Questo sistema, naturalmente, deve avere qualche relazione con la lingua, che il bambino ha udito intorno a sé, ma certamente non è affatto una copia ridotta di quel sistema. Per quanto riguarda l’esistenza di una struttura profonda nel linguaggio del bambino, sembra difficilmente riconoscibile la distinzione tra livello superficiale e livello profondo, data la semplicità delle frasi infantili. Mc Neil, a questo proposito, sostiene l’ipotesi, che il bambino nell’apprendimento linguistico, è guidato da una conoscenza implicita delle relazioni 45

grammaticali della struttura profonda che vengono direttamente manifestate nelle sue frasi; solo in seguito egli bambino impara ad applicare le regole di trasformazione consapevolmente, poiché esse rappresentano un’acquisizione sintattica più evoluta. Gli studi fin qui descritti, relativi alla psicolinguistica degli anni ‘60, non rappresentano un quadro esaustivo della ricerca, ma sono gli orientamenti più significativi della linguistica chomskiana. Per questa psicolinguistica, nell’interesse di conoscere le capacità del parlare e del suo uso effettivo, prevale l’obiettivo di trovare conferme per i concetti, le regole e le strutture dei modelli proposti dalla linguistica. I limiti di tale approccio sono identificabili, in fondo, in quelli riconoscibili nella linguistica stessa. Come osserva Parisi, la frase è l’unità comunicativa più ampia considerata, a discapito di unità più grandi, tipo i discorsi e le conversazioni e viene trascurata l’analisi del contesto situazionale entro cui si colloca l’enunciazione della frase, del contesto linguistico ed extra-linguistico. L’indifferenza per questi aspetti della capacità linguistica e dell’uso del linguaggio rappresentano un limite della teoria chomskiana e delle ricerche psicolinguistiche che ad essa fanno riferimento; ma all’origine della crisi della psicolinguistica chomskiana si colloca soprattutto l’emergere, anche in campo linguistico, di un interesse più specifico per la semantica e dell’esigenza di una rappresentazione più astratta del contenuto della frase. Va riconosciuto alla psicolinguistica chomskiana ed alla psicolinguistica in generale il merito di rappresentare un approccio nuovo e fecondo all’analisi dell’interazione tra il soggetto e il linguaggio.

La psicolinguistica sul piano metodologico Negli anni ‘60 la disciplina si rivolge soprattutto alla ricerca di una verifica della “realtà psicologica” dei modelli linguistici di Chomsky nel tentativo di dimostrare che le distinzioni effettuate a livello formale siano effettivamente operanti nell’uso della lingua e nel tentativo di derivare da questi modelli delle previsioni sul modo in cui le frasi vengono percepite, capite e ricordate dagli adulti, ed acquisite dai bambini. Sul piano metodologico le strade percorse sono due: 1.

la sperimentazione in laboratorio tesa a misurare il grado di comprensione e di ricordo delle frasi;

2.

l’osservazione dello sviluppo linguistico del bambino.

In laboratorio le capacità delle persone di comprensione e di memoria possono essere osservate nell’ambito di condizioni controllate dallo studioso e sottoposte a variazioni; la 46

ricerca sul linguaggio infantile può dar conto di come la capacità linguistica, di percezione, di comprensione e di memoria sono correlate nei processi di acquisizione del linguaggio e di sviluppo mentale. La ricerca si è sviluppa in tre diverse direzioni: una serie di studi tendono a verificare la realtà psicologica della struttura sintattica, altri studi alla verifica dell’esistenza di una struttura profonda sottostante alle frasi prodotte dai parlanti, un’altra parte della ricerca si rivolge allo studio delle capacità linguistiche nei primi anni di vita del bambino, descrivendo tali capacità con riferimento al modello chomskiano. Per quanto riguarda la ricerca inerente la realtà psicologica della struttura sintagmatica delle frasi, la teoria chomskiana assegna a ciascuna frase una struttura sintagmatica di tipo gerarchico, attraverso cui, dalle singole parole, si arriva alla rappresentazione della frase completa. La ricerca psicolinguistica ha inteso dimostrare che, due parole formanti un sintagma, costituiscono nella mente, un’unità psicologica più alta, rispetto a quella relativa a due parole che non formano un sintagma. Nella comprensione e nella memorizzazione di una frase si tende infatti ad un lavoro mentale unitario ed il raggruppamento sintattico delle parole trova riscontro nell’unità della mente di chi ascolta e comprende la frase. Per quanto riguarda la realtà psicologica della struttura profonda, nell’ambito della teoria chomskiana è possibile risalire dalla struttura superficiale di una frase alla sua struttura profonda. Le operazioni di trasformazione sono relative ai passaggi dalla forma sintattica attiva, affermativa o dichiarativa, alla forma passiva, negativa o interrogativa; è stato rilevato che a seconda del numero di trasformazioni applicate per risalire alla struttura profonda varia il grado di difficoltà riguardante i processi di comprensione e di ricordo delle frasi. Per quanto riguarda lo studio sullo sviluppo della sintassi nei bambini è da notare, in generale, che la psicolinguistica chomskiana ha dato l’avvio allo studio sistematico dell’acquisizione e della comprensione del linguaggio nei primi anni di vita, percorrendo due vie metodologiche: da una parte la registrazione periodica degli enunciati spontanei dei bambini relativamente ad un arco di tempo di uno-due anni, dallo altro l’utilizzo di tecniche sperimentali, ad esempio far ripetere ad un bambino frasi di diversa difficoltà, oppure sottoporgli una frase e chiedergli, successivamente, di associarla ad una figura. Attraverso varie ricerche, in questo campo, il risultato generale emerso sembra essere che, al di là dell’apparente caos delle prime frasi infantili, esiste un ordine analizzabile che induce a riconoscere un’evoluzione agli stadi dello sviluppo del linguaggio infantile. Secondo l’approccio psicolinguistico chomskiano, se la capacità linguistica corrisponde, in generale al possesso di un insieme di regole, queste sono riconoscibili anche nell’ambito delle capacità linguistiche infantili. 47

Soblin, ad esempio, è abbastanza sicuro, nell’affermare che un bambino ha qualche sistema di regole se la sua produzione è regolare, se egli estende questa regolarità a nuovi casi, e se può scoprire deviazioni dalla regolarità nel suo linguaggio e in quello degli altri. Varie ricerche sono state compiute nel tentativo di provare l’esistenza di regole, ovvero di una regolarità di comportamento linguistico, quali ad esempio i tests di Berko (1958) sulla capacità dei bambini di estendere regole morfologiche a nuovi casi. Come nota Parisi i bambini della scuola materna sono in grado di costruire il plurale dei nomi inventati, in quanto hanno appreso che il plurale dei nomi si costruisce aggiungendo la terminazione -i- alla radice dei nomi stessi.

Pensiero e linguaggio: Skinner - Piaget – Vygotskij Per approfondire lo studio del rapporto tra funzione cognitiva e funzione verbale nel quadro evolutivo infantile non si può non fare almeno un breve accenno alle conclusioni scientifiche di tre fondamentali studiosi contemporanei quali B.F.Skinner, J.Piaget e L.S.Vygotskij. Al modello mentalista di chomsky si oppone quello comportamentista di Skinner. Egli prende le distanze dal pensiero di Chomsky, in cui prevalgono le regole della grammatica internalizzata che consentono di capire una nuova frase, sostenendo che, nel linguaggio dominano le entità non intenzionali di stimolo e risposta. Dare una spiegazione del comportamento, presupponendo che a provocarlo siano sentimenti, sensazioni, stati d’animo e, in genere, “eventi mentali”, non può rispondere a criteri scientifici e oggettivi, perché questi fattori non sono osservabili e non possono essere oggetto di verifica sperimentale. È necessario allora evitare il “mentalismo” e considerare solo i dati osservabili, dirigendo l’attenzione sul ruolo dell’ambiente. Questo è il piano del “behaviorismo metodologico”, il quale però ha lasciato aperto il problema della effettiva esistenza di processi mentali che non possono essere studiati oggettivamente, ma che non per questo possono essere ignorati. Il “behaviorismo radicale” di Skinner cerca di dare, anche a questi eventi, una spiegazione alternativa riconducendo anch’essi a comportamenti da porre in relazione con l’ambiente: diverrà così possibile estendere anche a questi aspetti l’indagine sperimentale, il controllo e la previsione che sono propri della scienza. Per Skinner, dunque, una persona apprende il linguaggio, in modo simile a quello con cui apprende ogni altro tipo di comportamento, per mezzo del rinforzo e dell’osservazione. L’apprendimento linguistico del bambino, per Skinner, si lega ad un’attività di tipo motorio. In particolare, i bambini costruiscono i significati delle parole, non come categorie astratte, ma come se fossero delle vere e proprie etichette associate ad oggetti o situazioni reali. 48

L’imponente mole delle ricerche compiute dallo psicologo svizzero Jean Piaget e dai suoi collaboratori si colloca nell’ambito del funzionalismo europeo. Piaget (1896-1980) si è dedicato nell’adolescenza a ricerche biologiche, assimilando nel contempo, soprattutto attraverso lo studio di Bergson, alcune tematiche di fondo del pensiero filosofico europeo. Chiamato da Claparède all’istituto Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, egli ha diretto in seguito il Bureau intemational d’éducation e il Centre intemational d’épistémologie génétique. Lo studioso svizzero è contrario sia all’empirismo sia all’innatismo: le due correnti

della

filosofia

moderna

che

influenzavano

ancora,

rispettivamente

l’associazionismo e nello stesso il comportamentismo, da una parte, e la scuola della Gestalt e la psicologia scientifica, d’altra. L’intelligenza umana, a suo giudizio, non è plasmata dall’ambiente esterno né preesiste fin dalla nascita alle varie esperienze. Essa, piuttosto, si autocostruisce dall’interno, in un processo che assicura un equilibrio sempre più stabile dell’organismo umano nei confronti dell’ambiente esterno. Estremamente importanti gli studi di Piaget relativi alla nuova disciplina, da lui chiamata, epistemologia genetica, che consiste nello studio del significato che hanno concetti quali spazio, tempo, velocità, causalità, ecc., attraverso la loro acquisizione. Ancora ricerche fondamentali sono state condotte da Piaget sulla rappresentazione, sull’acquisizione del senso morale, sulla percezione, sui rapporti tra logica e psicologia, sull’animismo e sul linguaggio infantili. La sua influenza sugli studi di psicologia dell’età evolutiva è stata ed è tuttora molto importante. Nel panorama delle tendenze contemporanee, l’approccio cognitivo al linguaggio di Jean Piaget, è quello che ha portato alle estreme conseguenze la consapevolezza del carattere non esclusivamente linguistico, ma più generalmente cognitivo ed operativo, non solo della comprensione di enunciati e testi linguistici, ma anche della produzione linguistica e dell’intera facoltà del linguaggio. Quasi a minimizzarne la portata, gli studiosi di Piaget, distinguono almeno due periodi nella sua concezione del linguaggio. In un primo periodo, quello degli scritti pioneristici di psicologia genetica degli anni venti, nei quali il linguaggio viene concepito come lo strumento per avere accesso al pensiero del bambino, ed un secondo periodo, segnato soprattutto dall’opera “La formazione del simbolo nel bambino” (1945), in cui il linguaggio, inglobato in una più generale funzione simbolica, viene considerato come secondario rispetto alle strutture logiche del pensiero. Questa ricostruzione, benché filologicamente esatta, non rende conto della radicalità dell’atteggiamento di Piaget verso il linguaggio. In effetti, per Piaget, il linguaggio è un vero e proprio ostacolo epistemologico che si estende dall’apparizione delle prime olofrasi, sino all’emergenza delle strutture operatorie del pensiero ipotetico-deduttivo. A 49

diciotto mesi, sostiene Piaget, il bambino, in azione, è già un piccolo Einstein. L’apparizione del linguaggio lo costringerà a ripetere, per ogni operazione logica, tutte le peripezie che, per il suo apprendimento, avevano avuto luogo sul piano dell’azione. Piaget considera la capacità del bambino di rappresentarsi mentalmente le azioni come il presupposto base per l’acquisizione del linguaggio. Solo dopo i due anni il bambino, raggiungendo il sottostadio della rappresentazione simbolica, con il gioco del far finta, comincia ad usare un oggetto per rappresentarne un altro. In seguito a ciò egli incomincia a mettere insieme i fonemi per formare una parola che, a sua volta, rappresenta qualcos’altro. Piaget non ritiene che il linguaggio sia un prerequisito per lo sviluppo del pensiero, ma solamente che tra il pensiero e il linguaggio esiste una circolarità genetica in cui nessuna funzione è causa o effetto dell’altra. L’appoggio reciproco è necessario perché il pensiero ed il linguaggio dipendono dall’intelligenza che, è comunque, anteriore al linguaggio. Nel periodo pre-operatorio, in cui le attività del pensiero del bambino sono di tipo egocentrico, anche il linguaggio ha caratteristiche egocentriche e sincretiche (globale), è caratteristica di questo il fatto che da un punto di vista linguistico manchino rapporti sintattici tra i componenti della frase. La prima fase del linguaggio e del pensiero del bambino consiste nel ritenere che il proprio punto di vista corrisponde a quello universale e valido per tutti. Piaget ha documentato l’esistenza delle tendenze egocentriche nei fanciulli per mezzo di ricerche, fatte per circa un mese sull’attività di due bambini di circa sei anni. Tutte le espressioni pronunciate dai fanciulli durante la giornata venivano

registrate.

Riorganizzando tutto il materiale raccolto, Piaget ha diviso le frasi pronunciate dai due bambini in due gruppi: linguaggio egocentrico e linguaggio socializzato. Nel linguaggio socializzato il bambino tiene conto dell’interlocutore e cerca di farsi comprendere da lui, dimostrando così di aver capito che esistono, oltre al suo, anche altri punti di vista, che non bisogna trascurare se ci si vuol far capire. Del linguaggio socializzato fanno parte: 

l’informazione adatta, in questo caso il bambino riesce a comunicare e a scambiare con gli altri il suo pensiero;



la critica, rientrano le osservazioni fatte al comportamento altrui, non tanto per comunicare il proprio pensiero, quanto per appagare la combattività;



ordini, preghiere e minacce, si ha un’azione diretta di un bambino su un altro;

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le domande e le risposte, costituiscono le categorie più socializzate, poiché implicano un rapporto diretto con l’altro nella ricerca d’informazioni o nel dare spiegazioni.

Il linguaggio egocentrico è costituito: 

dalla ripetizione, che consiste nel riprodurre sillabe o parole, senza preoccuparsi della presenza di un interlocutore;



dal monologo, che consiste nel parlare ad altra voce solo per se stessi senza preoccuparsi se gli altri stanno o meno ascoltando;



dal monologo a due o collettivo, che consiste nel parlare ad alta voce davanti agli altri per attirare l’attenzione, senza però preoccuparsi di essere compresi.

Il linguaggio diventa socializzato solo quando il pensiero acquista la caratteristica di reversibilità e consente il decentramento cognitivo. Vygotsky, invece, sostiene che la funzione primaria del linguaggio -nei bambini e negli adulti- è la comunicazione. Il primo linguaggio è quello sociale (globale e plurifunzionale); in seguito le funzioni si differenziano, cioè si egocentrizzano, permettendo allo sviluppo del pensiero e del linguaggio d’interiorizzarsi. In altre parole, ad una certa età il linguaggio diventa anche egocentrico,

ma

resta

sociale,

poiché

l’egocentrismo

rappresenta

soltanto

un’interiorizzazione di forme di comportamenti sociali. Nell’adulto c’è il linguaggio interiore (linguaggio egocentrico in profondità), che si sviluppa all’inizio dell’età scolare. Vygotsky ha costatato come, di fronte alle difficoltà, il coefficiente del linguaggio egocentrico raddoppi, ma proprio perché con esso il bambino realizza un processo di presa di coscienza che lo porta, in un modo o nell’altro, a cercare una soluzione del problema. È noto il suo esempio: mentre un bambino di 5 anni sta disegnando un tram, gli si rompe la matita. Accortosi ch’e del tutto inservibile, decide di usare gli acquerelli, disegnando un tram rotto dopo un incidente; egli continua di tanto in tanto a parlare con se stesso circa il cambiamento del suo disegno. In pratica, il linguaggio egocentrico funge da mediatore fra quello vocale (se vogliamo “autistico”) e quello “interiore” (quello che dà “senso” alle cose). La differenza, fra l’adulto e il bambino per Vygotsky, sta nel fatto che il linguaggio egocentrico del bambino è stato così interiorizzato dall’adulto ch’esso, in questi, non si manifesta più come tale. L’egocentrismo, quindi, è quella molla che permette di non essere soffocati dal conformismo sociale, per sua natura ripetitivo.

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Piaget, invece pensa che il bambino diventi adulto nel momento stesso in cui esce dal piacere egocentrico per entrare nel dovere sociale. Secondo Vygotsky il pensiero autistico è un risultato del pensiero realistico di Piaget, poiché questi pretende che il pensiero realistico - sganciato da bisogni-interessi-desideri sia “puro”, capace di ricercare la verità per se stessa. Secondo Vygotsky il pensiero realistico di Piaget si trasforma in autistico perché presume di soddisfare con la fantasia i bisogni frustrati della vita (la logica staccata dalla vita porta all’irrazionalismo). Per Vygotskij, dunque, nella fase iniziale della vita del bambino, non c’è alcun legame tra pensiero e linguaggio e nessun rapporto di reciproca dipendenza. La relazione tra questi, si crea soltanto, durante lo sviluppo della coscienza, ed è il linguaggio attraverso la comunicazione che organizza in modo qualitativo le categorie del pensiero. In particolare, Il linguaggio durante la crescita viene a determinare maggiormente i contenuti del pensiero, proprio per l’importanza sociale della trasmissione delle conoscenze. Il linguaggio ed il pensiero, che originariamente erano indipendenti, finiscono così per integrarsi in un processo d’interazione reciproca.

La teoria degli atti linguistici: Austin e Grice le critiche di Searle La nozione di atto linguistico ha giocato un ruolo importante nella formazione della pragmatica linguistica contemporanea e nel diffondersi di pratiche di analisi del discorso attente agli aspetti operativi e interazionali del linguaggio. La sua influenza sul modo di intendere la comunicazione ha favorito il passaggio da una nozione di comunicazione basata sulla codifica, trasmissione e decodifica di messaggi in cui emittente e ricevente sono semplici terminali di un processo meccanico, a una nozione che mette in primo piano le intenzioni comunicative del soggetto parlante. La teoria degli atti linguistici ha contribuito a promuovere, come passo ulteriore, una concezione interazionale della comunicazione, per cui questa è resa possibile dall’agire interconnesso dei soggetti partecipanti. Intesa in senso lato, l’influenza della nozione di atto linguistico è, dunque, molto vasta. Qui non tenteremo di seguirla in tutti i suoi aspetti, ma concentreremo l’attenzione sulla corrente di studi che più ampiamente ed esplicitamente ha trattato l’atto linguistico, appunto, la cosiddetta teoria degli atti linguistici (speech act theory). Possiamo caratterizzare quest’ultima in base alle sue due idee principali, e cioè: 

si deve tracciare una distinzione fra il significato di un enunciato e il modo in cui l’enunciato è usato (la sua “forza”). 52



il proferimento di un enunciato può essere considerato come l’esecuzione di un atto, qualunque sia il tipo di enunciato che viene proferito.

Nel prendere in considerazione le origini di tale teoria, ci limiteremo alle sue origini prossime, nel pensiero filosofico e linguistico del Novecento. Naturalmente bisogna tenere presente che molti dei problemi che la teoria degli atti linguistici si è trovata ad affrontare, e in particolare quelli riguardanti la definizione delle funzioni del linguaggio e la loro correlazione con forme linguistiche, esistevano già ben prima di essa. Già Aristotele distingueva fra il significato delle parole e l’assertività dell’enunciato dichiarativo. Prima di Aristotele, il sofista Protagora si era mostrato consapevole della varietà degli usi del linguaggio, di cui ha proposto la prima classificazione che sia giunta fino a noi. Nel Novecento, l’interesse per le funzioni del linguaggio, ha dato origine a una vasta letteratura di carattere psicolinguistico, semiotico e sociolinguistico (si vedano ad es. Bühler 1934; Jakobson 1960; Halliday 1970). Il ruolo attivo del parlante è stato preso in considerazione non solo, come si è già accennato, da Bühler, ma anche dalle teorie riguardanti il rapporto fra soggettività e linguaggio sviluppatesi in ambito strutturalista intorno al concetto di “enunciazione” (énonciation) (Benveniste 1966: 310-320; Ducrot 1978). Sarebbe. tuttavia sbagliato, sia dal punto di vista strettamente storico, sia dal punto di vista concettuale, considerare questi orientamenti di ricerca come dei contributi alle origini e/o allo sviluppo della teoria degli atti linguistici; essi restano estranei infatti all’una o all’altra delle idee centrali di questa, quando non ad ambedue. La teoria degli atti linguistici si è sviluppata non nel contesto dei dibattiti sulle funzioni del linguaggio, ma nell’ambito della filosofia analitica, e il suo sfondo sia storico che concettuale è nel lavoro di filosofi quali Austin e Grice. Negli anni ‘40, John L. Austin, un filosofo di Oxford, impegnato, come altri filosofi delle università britanniche, di Oxford e Cambridge, nell’analisi del linguaggio ordinario, nota un tipo particolare di enunciati che chiama “enunciati performativi” (performative utterances). Tali enunciati hanno la forma di enunciati dichiarativi ma, quando sono proferiti in circostanze appropriate, non riferiscono né descrivono qualcosa, bensì eseguono un atto. Sono esempi di enunciati performativi: - “Battezzo questa nave Cristoforo Colombo”, “Prometto che domani sarò puntuale”, che appunto, in circostanze appropriate, non riferiscono né descrivono il fatto che il parlante battezza o promette, ma eseguono il battesimo e rispettivamente la promessa. Gli enunciati performativi sono caratterizzati da un uso del presente indicativo attivo, che risulta asimmetrico rispetto ad altre persone e tempi del modo indicativo dello stesso verbo, l’uso dei quali costituirebbe semplici 53

descrizioni o resoconti. I verbi che, alla prima persona del presente indicativo attivo, possono essere usati per formare enunciati performativi, vengono chiamati verbi performativi. Austin non è stato il primo, fra i suoi contemporanei, ad accorgersi di questo tipo di uso linguistico. Menzionare tutte le altre teorie sarebbe, veramente, cosa lunga, pertanto ci limiteremo a considerare i motivi per cui proprio la concezione austiniana ha dato un impulso determinante alla nascita della teoria degli atti linguistici. La nozione austiniana di enunciato performativo ha avuto, fin dall’inizio, connessioni tanto con questioni di carattere linguistico, quanto con la dimensione dell’efficacia sociale degli enunciati considerati. Nel porsi il problema di tale efficacia sociale, Austin segue un suggerimento di Harold Prichard, filosofo oxoniense della generazione precedente, che ne aveva discusso, poco prima di lui, in relazione alla promessa. Prichard non aveva una concezione del linguaggio che, gli permettesse di far dipendere l’efficacia obbligante della promessa dalle parole usate per promettere, perciò, per lui tale efficacia rinviava a una fonte pre-linguistica delle convenzioni sociali e rimaneva sostanzialmente un mistero. Austin è, invece, disposto a considerare la creazione di obblighi, e in generale la produzione di effetti socialmente validi, come usi del linguaggio. Questo ha probabilmente favorito l’estensione della portata della nozione di enunciato performativo a tutti gli enunciati in cui un verbo alla prima persona del presente si mostra asimmetrico rispetto alle altre persone e agli altri tempi, eseguendo un’azione o segnalando un particolare uso del linguaggio. Austin conosce bene il pensiero di Frege ed è al corrente delle linee principali dell’insegnamento di Wittgenstein a Cambridge. Per certi aspetti egli dissente da ambedue questi filosofi: diversamente da Frege, non accetta la centralità del linguaggio assertivo, e contrariamente al Wittgenstein degli anni ‘30 e ‘40, non è disposto a dissolvere il significato in una quantità innumerevole e indefinita di usi. In questo contesto, fra il 1950 e il 1955 egli sviluppa la sua nozione di enunciato performativo in una prima formulazione della teoria degli atti linguistici. Uno degli aspetti centrali che consentono questo sviluppo è che la forma linguistica caratteristica degli enunciati performativi viene considerata come avente la funzione di rendere esplicita una “forza” che anche enunciati non aventi la forma canonica possiedono, purché contengano altri tipi di indicatori dell’azione che compiono. “Ti ordino di andartene” si presenta così come esplicitazione di “Vattene!”, enunciato che il modo imperativo e l’intonazione già segnalano come un ordine; e persino “Io asserisco che la terra è rotonda” si presenta come esplicitazione di “La terra è rotonda”, enunciato che il modo indicativo del verbo segnala come un’asserzione.

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In secondo luogo, Austin sostiene che sia gli enunciati performativi che le descrizioni o resoconti (da lui chiamati anche “enunciati constativi”) sono soggetti a fenomeni paralleli riguardanti la presunzione della sincerità del parlante, gli impegni da lui assunti con il proferimento dell’enunciato e le circostanze il cui verificarsi deve essere presupposto. Sotto questo profilo asserzioni e enunciati performativi mostrano di essere fenomeni del nostro comportamento linguistico e sociale, che hanno una struttura sottostante in comune. Una teoria degli atti linguistici è possibile solo, se è possibile, e risulta aver senso, considerare il proferire enunciati come un compiere atti. Intendiamo per “enunciato” non una frase-tipo, ma un’occorrenza effettivamente prodotta, a voce o per iscritto, di una struttura linguistica che può anche non corrispondere a una frase completa. Viceversa, intendiamo per “atto” qualcosa che “facciamo”: qualcosa che costituisce un comportamento attivo (anziché passivo) di un soggetto. La teoria degli atti linguistici, considerando il proferire enunciati come un compiere atti, considera la produzione di parole o di frasi come esecuzione di atti linguistici, e pone l’atto linguistico come unità della comunicazione linguistica. È compito della teoria degli atti linguistici spiegare in quali sensi e a quali condizioni proferire qualcosa può significare fare qualcosa. In tal modo essa fornisce un quadro concettuale in cui comprendere e descrivere i vari tipi di azione linguistica. Per J.L. Austin il vero oggetto di cui la teoria del linguaggio deve rendere conto è l’atto linguistico totale nella situazione linguistica totale. È nel quadro di un’attenzione per la totalità dell’atto linguistico, che egli propone di tracciare distinzioni fra i suoi aspetti. Si tratta di diversi sensi in cui dire qualcosa equivale a fare qualcosa. Anzitutto, possiamo descrivere un atto linguistico in qualità di atto locutorio, cioè come atto di dire qualcosa. Ma l’atto locutorio ha a sua volta vari aspetti, che scopriamo gradualmente perché non si possono riferire contemporaneamente; dire qualcosa, per Austin, equivale a: 

compiere un atto fonetico, cioè l’atto di emettere certi suoni;



compiere un atto fatico, cioè l’atto di pronunciare suoni di certi tipi, conformi a certe regole (certe parole in una certa costruzione, con una certa intonazione);



compiere un atto retico, ovvero compiere l’atto di usare le parole pronunciate con un certo significato.

Quando riferiamo l’atto locutorio di un parlante, possiamo concentrarci sull’atto fatico e semplicemente citare le parole pronunciate, nella forma del “discorso diretto”, oppure concentrarci sull’atto retico e usare il cosiddetto “discorso indiretto”, che riferisce senso e 55

riferimento senza riportare le medesime parole. In secondo luogo, possiamo descrivere o riferire l’atto linguistico compiuto da un parlante usando verbi come “ordinare”, “consigliare”, “promettere”, “affermare”, “chiedere”, “ringraziare”, “protestare”. In questo modo noi concentriamo l’attenzione sul modo in cui il parlante ha usato il suo enunciato, o più precisamente sull’atto che, nel dire ciò che dice, ha eseguito. Austin chiama quest’atto “atto illocutorio” (illocutionary act, da in + locutionary), e con terminologia ripresa da Frege usa l’espressione “forza illocutoria” (illocutionary force), per riferirsi al fatto che nel proferire un certo enunciato viene compiuto un certo atto illocutorio. Egli contrappone così la forza al significato locutorio. La domanda che ci si pone è come può il parlante, nel compiere un atto locutorio, compiere anche e allo stesso tempo un atto illocutorio. Secondo Austin, ciò è possibile in quanto esistono convenzioni, secondo le quali, gli atti illocutori sono compiuti. Tali atti devono soddisfare un certo numero di “condizioni di felicità” convenzionali, ossia deve esistere una procedura convenzionale accettata per eseguire l’atto e ottenere l’effetto. I partecipanti e le circostanze devono essere appropriati all’uso della procedura che deve essere eseguita in modo corretto e completo. La procedura per eseguire l’atto è in certi casi completamente linguistica (affermare, richiedere, consigliare, promettere), mentre in altri casi può includere comportamenti extralinguistici (protestare, giurare, votare, battezzare, conferire una carica o un’onorificenza). I verbi o locuzioni verbali che designano atti illocutori possono, secondo Austin, essere usati performativamente alla prima persona del presente indicativo attivo, al fine di eseguire il corrispondente atto illocutorio in modo esplicito. Altrimenti, la forza dell’enunciato sarà suggerita da uno o più “indicatori di forza”, fra cui il modo e il tempo del verbo, i verbi modali, certi avverbi e connettivi, l’intonazione e la punteggiatura. Infine, il dire qualcosa, ha conseguenze sui sentimenti, pensieri o azioni dei partecipanti. Queste conseguenze possono essere considerate come qualcosa che è stato posto in essere dal parlante, che nel dire ciò che ha detto, ha compiuto un altro tipo di atto ancora, l’atto “perlocutorio” (per esempio, convincere o persuadere, allarmare, far fare qualcosa a qualcuno). L’esecuzione di un atto perlocutorio non dipende dalla soddisfazione di condizioni convenzionali, ma dall’effettivo raggiungimento di uno scopo, ovvero, premesso che l’atto perlocutorio può essere compiuto senza volere, dall’effettiva produzione di certe conseguenze extralinguistiche. Per questa ragione, i verbi che designano atti perlocutori non possono essere usati performativamente: dire “Io ti convinco” o “Io ti allarmo” non può di per se stesso servire a convincere o ad allarmare. La distinzione fra atti illocutori e perlocutori non è sempre facile. Ci sono verbi che sembrano designare atti compiuti nel parlare (ad es. “insultare”), ma che non sono usati 56

performativamente (almeno nelle lingue e culture a noi familiari). Ci sono anche usi del linguaggio, come esprimere emozione o insinuare, che non si collocano facilmente in nessuna delle tre categorie distinte da Austin. Riepilogando Austin definisce tre tipi di atti linguistici: 

l’atto locativo è quello con cui si dice qualcosa dotato di significato (ad esempio, “quella porta è aperta”) e può essere studiato dal punto di vista fonetico, lessicale o grammaticale;



l’atto illocutivo è un atto effettuato col dire qualcosa: esso, oltre a informare, constatando una data realtà (ad esempio, il fatto che quella porta sia effettivamente aperta), può contenere un’esclamazione, una preghiera o un suggerimento (ad esempio, l’invito a chiudere quella porta aperta). L’atto illocutivo ha quindi una forza collegata alla reale intenzione di chi compie quell’atto linguistico;



l’atto perlocutivo è l’atto compiuto per il fatto di dire qualcosa: quello per cui si raccoglie il suggerimento (o comando, invito, ecc.) implicito in quell’atto “illocutorio” e si esegue ciò che viene suggerito (si chiude, cioè, la porta). Mette in evidenza l’interattività costitutiva del linguaggio, cioè gli effetti sugli interlocutori che l’atto linguistico determina.

Queste distinzioni sono ormai patrimonio comune della filosofia analitica. Paul Grice, appartenente come Austin all’ambiente oxoniense, non ha influenzato Austin, ma ha avuto un’indubbia influenza sugli sviluppi successivi della teoria degli atti linguistici. Particolare importanza ha avuto la sua proposta, pubblicata nel 1957, di considerare l’attività del significare in riferimento alle intenzioni che il parlante ha nel pronunciare il proprio enunciato. Secondo Grice, la nozione di significato del parlante (speaker’s meaning) è più importante rispetto a quella del significato della frase. Il significato del parlante, base di ogni altro aspetto del significare, consiste nell’intenzione del parlante di produrre un effetto nell’ascoltatore, per mezzo del riconoscimento da parte di questi della sua intenzione di produrre tale effetto. Non è questo il luogo per approfondire meriti e difetti della brillante proposta griciana, che ha subito negli anni numerose modifiche di dettaglio (si vedano Grice 1989; Neale 1992; Cosenza 1997). È, tuttavia, il caso di sottolineare che la definizione griciana di significato del parlante è stata, con alcune modifiche, trasferita anche all’atto linguistico e alla sua forza e che la sua stessa 57

disponibilità ha, in modo più generale, giocato a favore dell’interpretazione dell’atto linguistico come espressione di un’intenzione comunicativa. Quest’interpretazione, come vedremo, ha largamente condizionato gli sviluppi della teoria. Più tardi, negli anni ‘60, Grice ha proposto la nozione di “implicatura conversazionale” per render conto di quegli aspetti del significato del parlante che, non trovano riscontro in ciò che questi esplicitamente dice, ma sono suggeriti come integrazioni o aggiustamenti che ne confermano o restaurano il carattere cooperativo. Anche questa nozione verrà utilizzata nella teoria degli atti linguistici, per spiegare i casi in cui la comprensione dell’atto linguistico, ha luogo non in base a regole semantiche, ma alle inferenze che l’atto linguistico suscita nell’ascoltatore. John R. Searle, nella sua riformulazione della nozione di atto linguistico, ha accantonato la distinzione fra atto fonetico e atto fatico, e ha rifiutato la nozione di atto retico, proposta da Austin. Al posto degli atti fonetici e fatici, egli pone il solo atto enunciativo, che consiste, appunto, nell’enunciare parole (o morfemi, o frasi). Searle prende le distanze anche dall’atto retico, notando come per introdurre il discorso indiretto si usano tipicamente verbi differenziati a seconda del tipo di forza illocutoria che l’enunciato ha: 

mi ha detto che sarebbe venuto;



mi ha detto di andarmene;



mi ha chiesto se era a Oxford o a Cambridge.

Per cui, di fatto, si introduce una specificazione, oltre che dell’atto retico stesso, anche dell’atto illocutorio, sicché i due non risultano nettamente separabili l’uno dall’altro. Inoltre, anche accettando la tripartizione austiniana dell’atto di dire, rimane misteriosa la relazione fra l’atto locutorio nel suo insieme e l’atto retico, il più complesso dei tre atti che lo compongono. Infine, per Searle, Austin ha reso, tutt’altro che chiara, la relazione dell’atto locutorio e del suo significato con la verità/falsità, infatti, da un lato sembra connettere le due cose, ammettendo che, là dove vi è significato locutorio è operativa anche la dimensione di giudizio secondo verità/falsità, ma d’altra parte sembra anche voler subordinare il giudizio secondo verita/falsità alla riuscita dell’aspetto illocutorio dell’atto linguistico. I problemi sottostanti alle critiche della nozione austiniana di atto locutorio possono forse essere meglio compresi se si tiene conto del fatto che Austin, parlando di atti, non intendeva parlare di gesti. Se identifichiamo gli atti con gesti distinti dell’agente, è chiaro 58

che non esiste nessun atto corrispondente all’atto fatico austiniano, e che di volta in volta il gesto più complesso include i gesti più semplici. Ma, benché nella sua dissertazione sugl’atti linguistici, egli non lo dichiari mai esplicitamente, ci sono buone ragioni per ritenere che, per Austin, un atto non si identificasse con un gesto dell’agente, bensì corrisponde alla responsabilità dell’agente per la produzione di un qualche effetto. È per questo che egli lega l’identificazione di atti con la loro descrizione, ovvero con la loro ascrizione all’agente. Da questo punto di vista le differenze tra atto fonetico e fatico non sono irrilevanti, poiché nella descrizione del primo entreranno anche quei dettagli del suono emesso che, non sono regolati da regole linguistiche, mentre descrivere il secondo è ascrivere al parlante l’osservanza delle regole della lingua. Searle, invece intende gli atti come gesti (fisici o psicologici). Letta in questa chiave, è chiaro che, quando all’emissione di parole si siano aggiunti il senso e il riferimento, oltre che a un atto retico ci si deve trovare davanti anche a un atto locutorio; e quando ci si trova davanti a un atto locutorio, all’enunciazione di una frase completa e dotata di significato, inevitabilmente questo è anche un atto illocutorio. Il medesimo presupposto, peraltro non esplicitato, porta Searle a sostenere che l’atto illocutorio coincide con l’atto linguistico in senso complessivo. Per riuscire a tracciare delle distinzioni, Searle vuole trovarsi davanti a gesti distinguibili, a parti diverse di un unico gesto complesso, così, egli abbandona la nozione di atto locutorio e la sua suddivisione interna nell’ambito dell’atto linguistico coincide con l’atto illocutorio in cui distingue: 

l’atto enunciativo, cioè l’enunciare parole;



l’atto proposizionale, che consistente nel far riferimento, nel predicare e nell’esprimere una proposizione.

L’atto proposizionale non può aver luogo da solo, ma solo nell’esecuzione di un atto illocutorio; così come una frase completa contiene espressioni referenziali e predicative, un atto illocutorio contiene l’espressione di una proposizione, e vi aggiunge, mediante la presenza di indicatori di forza, la forza illocutoria. Le divergenze riguardanti il concetto di azione e la reintroduzione della nozione di proposizione costituiscono la teoria di Searle non come uno sviluppo di quella abbozzata da Austin, ma come una teoria indipendente, in cui il potenziale polemico proprio del pensiero austiniano viene smorzato o addirittura soffocato.

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Il processo di comprensione del linguaggio Il linguaggio umano, ormai è ben evidente, è un sistema estremamente complesso; come tale deve appoggiarsi a strutture specializzate per poterlo gestire. Alcune di queste strutture sono propriamente fisiologiche (l’apparato fonatorio, l’apparato auditivo, il cervello ed il sistema nervoso), altre più propriamente mentali come la memoria. Usare “mentale”, nell’accezione più intuitiva, vale a dire dotato, senz’altro, di un sostrato fisiologico, ma ad esso non intieramente riducibile: in realtà l’opposizione tra mente e cervello o come più spesso si dice, essendo la moderna filosofia della mente prevalentemente di area anglofoba tra “mind e brain” è uno dei problemi più dibattuti nella filosofia moderna. Intorno a questo problema si è sviluppata la cosiddetta Cognitive science e molta parte della moderna filosofia analitica. Cosa, in effetti, possa o debba più precisamente intendersi per “mentale” è un problema complesso quanto affascinante, che non possiamo certo approfondire adeguatamente qui. Ci basti ricordare che tutta la tradizione linguistica che si richiama a Saussure e tutta la tradizione filosofica che si rifà a Brentano ed alla sua nozione di “intenzionalità” sostengono la radicale alterità degli stati mentali dagli stati di cose (fisicità e natura). Una consistente parte dei moderni filosofi della mente, tra cui Chomsky, ne sostengono, invece, la riducibilità agli stati naturali, ossia la loro “naturalizzazione”. Da un lato, pertanto, si accentua l’opposizione mente - cervello, e dall’altra si cerca di ridurre il più possibile la mente al cervello.

Il processo di comprensione del linguaggi Il processo di comprensione del linguaggio può essere distinto in quattro fasi: Riconoscimento dei suoni del linguaggio: ogni suono è caratterizzato da una frequenza, un’intensità e una durata. I suoni del linguaggio possono essere distinti in base al movimento del sistema articolatorio (polmoni, trachea, faringe, corde vocali, cavità orale o nasale). La comptenza a riconoscere i suoni di una lingua è molto complessa, l’ascoltatore deve, infatti, sorvolare sulla continua mutabilità dei suoni e riconoscere le caratteristiche costanti del linguaggio. Una teoria che cerca di spiegare come si verifichi questo fenomeno è quella dei tratti distintivi enunciatala Jakobson e Halle intorno al 1956, secondo cui il riconoscimento avviene utilizzando un sistema binario di rappresentazioni delle caratteristiche dei suoni: vocale/consonante, secondo questa classificazione il fonema “b” sarebbe più consonantico, mentre il fonema “a” sarebbe più vocalico. 60

Riconoscimento delle parole: ovvero, ciò che effettivamente percepiamo quando ascoltiamo non sono i singoli fonemi, ma anche le parole. Le parole sono considerate come le unità fondamentali del linguaggio e la loro caratteristica peculiare è quella di essere veicolo di significati. Gli studi della psicolinguistica sono stati indirizzati a definire i processi che portano al riconoscimento delle parole. Le parole vengono riconosciute tanto più velocemente tanto più sono frequenti nella lingua del parlante. Questo processo si chiama effetto frequenza; la parola “fantasia”, ad esempio, in un ipotetico test sarebbe riconosciuta, dal campione oggetto della prova, più velocemente della parola “chimera”. Una parola inserita in un contesto appropriato è riconosciuta più prontamente che presentata isolatamente. Presentando parole ed altro materiale che serve da stimolo, le parole sono privilegiate nel riconoscimento, ad esempio se si chiede di individuare una lettera all’interno di una parola o all’interno di una serie di lettere, il riconoscimento sarà più rapido quando si tratta della parola. Comprensione di frasi: la frase può essere considerata come la combinazione di diverse parole che vengono unite da nessi e da regole sintattiche della lingua del parlante; ciò significa che in italiano, così come nella maggior parte delle lingue alfabetiche, nella frase sarà più facile trovate prima il soggetto poi il predicato ed infine il complemento. L’anali dei processi di elaborazione della frase è stata oggetto di diversi dibattiti fra gli studiosi. Il modello di elaborazione, che adesso sembra rispecchiare le operazione messe in atto nella percezione e comprensione della frase, propone una visione interattiva della comprensione in cui i vari livelli di elaborazione (ortografica, lessicale, sintattica e semantica) intervengono per arrivare al significato dell’enunciato. Comprensione del testo: in questo caso la comprensione diventa più complessa, il testo e il discorso sono, infatti, costituiti da un numero variabile di frasi di cui deve essere mantenuto attivo il significato per rappresentarsi interamente il significato di quello che si legge e si ascolta. I modelli che spiegano come ciò avvenga diventano, ovviamente, più articolati per rendere conto della molteplicità dei processi messi in funzione. Riassumendo, si potrebbe dire che, nella comprensione del linguaggio, a partire dai suoni della lingua, noi creiamo delle unità chiamate parole che combinate in frasi ci forniscono la possibilità di comprendere il significato di ciò che ci viene detto. La produzione linguistica, è più complessa da studiare, può essere definita come un processo inverso a quello della comprensione, in cui il nostro pensiero, le nostre idee guidano la formazione delle frasi, delle parole, e dei fonemi per rendere comprensibile ciò che vogliamo comunicare. Alcuni modelli elaborati per analizzare il processo di comprensione sono stati punto di riferimento per studiare la produzione linguistica. 61

Lo sviluppo del linguaggio nel bambino È presente in tutti i bambini una disponibilità, geneticamente trasmessa, a decifrare ed imparare sistemi di comunicazione convenzionali (tipici del suo gruppo sociale): il LINGUAGGIO. Il linguaggio si presenta nella sua generalità sia come oggetto di apprendimento, in quanto forma linguistica, sia come strumento comunicativo, capace di attendere alla duplice funzione pragmatica (uso nella lingua nella dimensione sociale ed interpersonale) e matetica (capace di organizzare il cognitivo e le conoscenze). Lo studioso Lennenberg individua nei primi 2/3 anni il periodo di massima attitudine all’apprendimento verbale, indipendentemente dalla complessità del codice. La progressione dello sviluppo del linguaggio si configura per periodi o stadi che gradualmente precisano e differenziano gli elementi fonologici, morfologici, semantici e sintattici. Tale disponibilità, legata anche alla plasticità neuropsicologica del bambino, decresce gradualmente con il passare del tempo. L’accesso a strutture fonologiche e sintattiche tipiche del linguaggio umano è precluso dal limite segnato dall’epoca della maturità sessuale, laddove invece l’espansione del vocabolario procede per l’intero arco della vita. Fisiologicamente la funzione verbale, specifica solamente nell’uomo, si sviluppa grazie alla particolarità anatomica dell’apparato fonatorio e alla struttura neurale del cervello. Senza analogie nel mondo animale l’apparato vocale dell’uomo (denominato tratto vocale di Lieberman - zona chiara dell’immagine, bocca, cavità nasale, laringe e faringe), capace di produrre e modulare tutti i suoni distintivi delle lingue, è costituito in maniera tale da permettere una sola funzione per volta: respirazione, deglutizione, e fonazione. La conoscenza delle fasi di sviluppo e di maturazione del linguaggio dei bambini rappresenta un’indispensabile criterio per valutazioni diagnostiche e interventi rieducativi, stimolando situazioni di ritardo verbale. Precisiamo che situazioni di disfluenza rappresentano quadri naturali e transitori in una fase d’immaturità del linguaggio, che non necessitano di interventi diretti sul bambino, ma devono essere opportunamente vagliate, sulla relazione e la comunicazione familiare, al fine di recuperare un clima di naturalezza e spontaneità che favorisce e sostiene la maturazione globale dello stesso. Presentando una periodizzazione dello sviluppo del linguaggio infantile è necessario sottolineare come si tratta di indicazioni generali che non possono e non devono rappresentare limiti temporali rigidi e validi per tutti i bambini.

Lo stadio prelinguistico da 0 a 10-12 mesi La studiosa Sinclair De Zwart H. specifica come il periodo prelinguistico è reso possibile dall’abilità di rappresentarsi mentalmente la realtà. Il bambino prima “pensa” l’oggetto e 62

l’ambiente circostante e solamente in seguito individua secondo un processo di scoperta le varie forme linguistiche con cui codificarlo. L’operatività cognitiva si nutre dell’attività motoria del bambino precedendo la produzione del linguaggio e la comprensione dello stesso. Gli atti perlocutori (piangere, sorridere, prendere, toccare, ecc.) sono il suo principale repertorio comunicativo finalizzati ai bisogni primari. Impara a riprodurli consapevolmente e volontariamente con un’esplicita intenzionalità comunicativa (anche la suzione rientra a pieno titolo in questo repertorio). Mimica e gestualità posturale appoggiano le variazione di intonazione ritmo vocale connotando a comunicazione. Vagito - Primo tentativo vocalico del neonato. Valore progressivamente espressivo che giunge al dittongo. Le produzioni sonore sembrano essere casuali e non intenzionali senza simbolizzazione. Nei primi tre mesi la produzione vocalica si accompagna ed è scatenata dal movimento corporeo, accompagnandosi alla tensione scaricata nel pianto. In queste rudimentali vocalizzazioni si riconoscono suoni sia di tipo vocalico (prevalenza di (e) aperta), sia di tipo consonantico (prevalenza di nasali e velari). 3 mesi Vagito - Primo tentativo vocalico del neonato. Valore progressivamente espressivo che giunge al dittongo. Le produzioni sonore sembrano essere casuali e non intenzionali senza simbolizzazione. Nei primi tre mesi la produzione vocalica si accompagna ed è scatenata dal movimento corporeo, accompagnandosi alla tensione

3 mesi

scaricata nel pianto. In queste rudimentali vocalizzazioni si riconoscono suoni sia di tipo vocalico (prevalenza di (e) aperta), sia di tipo consonantico (prevalenza di nasali e velari).

Verso il controllo articolatorio dai 4-5 mesi ai 10-12 mesi Dal quarto mese in poi (fino al settimo circa) la migliorata coordinazione oro-faringea realizza nella fusione di suoni e di rumori la ripetizione ludica di sillabe: la lallazione (consonante + vocale, dal tedesco “lallen”, “balbettio”). È la lallazione che sviluppa e precisa il controllo motorio della produzione sonora portando il bambino a mutare, esercitando, senza intenzionalità, alcuna posture articolari, realizzando suoni diversi, costruendo sequenziali catene di movimenti articolatori indispensabili per la fluenza, associando suoni e posture degli organi della fonazioni grazie alle sensazioni acustiche e propriocettive. Fra il secondo e il quinto/sesto mese il bambino inizia ad esercitare un controllo su alcuni elementi della produzione vocalica in particolare nella durata e nell’intensità, permettendo alla mamma di riconoscere il pianto di fame, il pianto di capriccio, ecc. Contemporaneamente sviluppa la capacità di localizzare le sorgenti sonore, reagendo a suoni armonici e distesi quali quelli della voce umana che riconosce (madre). Esercita la percezione e l’acuità sonora simultaneamente alla lallazione ed in 63

seguito al parlare costituito. Lo sviluppo articolatorio necessita sia della maturazione della percezione uditiva che della coordinazione neuromuscolare-cordale (che procede da attivazioni dinamiche quali la deglutizione, la masticazione, la suzione, fino all’articolazione delle parole). Discriminare un suono e possibilità di costruirlo sono strettamente connesse e dipendenti. I° periodo

5-6 mesi

Interazione aritmica di sillabe

II° periodo Lallazione modulata. L'articolazione dei suoni diviene più chiara in entrata, particolarmente con la madre, ma anche in uscita. E' da precisare che il cervello del bambino è in grado di rappresentare ed evocare oggetti e/o situazioni molto prima di essere in grado di pronunciare una parola. In tale periodo il bambino, con la comparsa della rappresentazione mentale giunge alla comprensione delle prime parole. Espande

7-9 mesi

il suo patrimonio comunicativo con atti illocutori: offre, porge, indica, prende, ecc. Realizza scambi verbali di tipo ludico sia in sequenza che simultaneamente (all'unisono), rafforzando il sentimento di fiducia nell'altro.

III° periodo Lallazione comunicativa. Fase iniziale dell'imitazione.

9-11 mesi

IV° periodo Fonema affettivo. Un fonema particolare viene associato sempre alla stessa gestualità. Si inaugura l'associazione indice-suono-oggetto. La comunicazione acquista

11-12 mesi

un carattere spiccatamente volitivo, legata all'oggetto e alla persona.

V° periodo Fonema indicativo. Il linguaggio nelle sue parti elementari acquista valore segnico, indicando un oggetto specifico. E' lo sviluppo della frase precedente.

Dalla ripetizione della stessa sillaba il bambino ottiene variazioni sonore grazie al prolungamento della vocale, al rallentamento e all’accelerazione del ritmo di emissione del fiato, giungendo alla produzione di una sillaba del tutto nuova. Durante la fase della lallazione o immediatamente dopo esordisce il periodo dell’ecolalia rappresentato dal tentativo del bambino di imitare i modelli sonori appena uditi. All’iniziale ecolalia tonematica (centrata sull’intonazione, accentazione e scelta di ritmi omogenei), seguono melodie ritmiche diverse utilizzati per indicare intenzioni e desideri differenti. Il bambino vocalizza le sue emozioni prima di potere esprimere i suoi pensieri. Grazie a repertori ritmici, a modulazioni di tono e di intensità il bambino raggiunge una comunicazione più 64

intenzionale. Da questa maturazione del sistema vocalico (dall’inizio fino a questo momento) procedono sistemi fondamentali per la comunicazione, modificati nel corso della vita: il sollievo dal disagio attraverso il pianto o il grido, l’espressione delle emozioni attraverso l’utilizzo dell’intonazione e della frase (si pensi ai registri che il bambino utilizza a livello sociale per trasformare i propri enunciati in espressioni di collera, ansia, gioia, etc.). Infine il sistema di coordinamento vocale attraverso il controllo uditivo e propriocettivo delle varie posture del tratto vocale impegnato nella produzione delle parole, gli consentiranno di impadronirsi compiutamente del complesso sistema fonologica della lingua.

Stadio interlinguistico primario dai 18 ai 36 mesi Il linguaggio in questo periodo stimola ed organizza funzionalmente i pensieri e i suoi oggetti, senza tuttavia consentire al bambino di utilizzarli per finalità operative senza avere un riferimento concreto. Molta di questa fase viene impiegata per sviluppare e consolidare il sistema fonologico, sintattico e il vocabolario, precisando i contenuti mentali. L’intenzione comunicativa del bambino si sviluppa e di arricchisce differenziandosi. Fra il 12° e il 20° mese il bambino tocca gli oggetti denominadoli, chiede aiuto attraverso il gesto, chiama per attirare l’attenzione, saluta con la mano anche quando va via pronunciando la parola ciao, risponde in maniera elementare, resiste e protesta, ripete quello che sente dire esercitando ludicamente nell’esercizio vocalico. Il bambino procedendo ancora oltre inaugura il suo “domandare” notizie sull’ambiente circostante, gioca a far finta immaginando, tentando di raccontare. Aumentano i suoi contatti e scambi comunicativi con gli altri, variando e modulando il livello delle sue risposte e delle sue comunicazioni a seconda delle persona o delle situazioni in cui si trova. Dai due anni aumentano le frasi complesse, l’utilizzo delle congiunzioni (e, ma, perché) consente di costruire più frasi semplici di seguito oppure d’innestare un pensiero nell’altro. I bambini comprendono domande che comportano una risposta affermativa o negativa quando introdotto da pronomi o avverbi interrogativi. Procedono invece più gradualmente le frasi negative rispetto a quelle affermative, anche se nella fase olofrastica è presente nel bambino l’espressione di una negazione (no latte!.). La competenza comunicativa e le routine sociali aumentano con quell’elementare conversazione tra la mamma e il bambino in cui la prima arricchisce e amplia i tentativi minimi del figlio interpretandoli affettivamente e realisticamente. Il dialogo con i “grandi” indirettamente amplia e modella la produzione verbale del bambino, mentre con i suoi pari assume più le caratteristiche di un soliloquio o monologo parallelo di tipo egocentrico (piagetiano).

65

I° periodo Periodo della parola-frase (olofrase). Indicativamente dalla fine del primo al secondo anno. Il bambino è strettamente legato all'intelligenza linguistica e ai modelli di comunicazione dei genitori. Intorno ai dodici mesi inizia il periodo baby-talk che continua fino circa i trentasei mesi, dividendosi in sub-stadi secondo alcuni studiosi. Il bambino impara a produrre le prime parole comprendendo comandi semplici e poco articolati. Verso i diciotto mesi compaiono le

12-24 mesi

prime parole senza alcuna fisionomia fonologica e semantica (significato) tipica del linguaggio adulto. Nomi e interiezioni costituiscono insieme circa il 50/60% del patrimonio verbale di un bambino di circa 18 mesi, proporzione che decresce con il passare dell'età. Progressivamente aumentano la frequenza dei pronomi, dei verbi, degli aggettivi, delle congiunzioni e preposizioni.

II° periodo Periodo dell'elaborazione delocutoria. Il discorso del bambino avviene in terza persona, esprime giudizi elementari, ricorda nomi e cose senza la loro presenza. Al bambino che tenta di parlare come i genitori mancano la grammatica e la sintassi, non precisione circa le coordinate

fino a 20/21 mesi

spaziali e temporali.

III° periodo Periodo della frase grammaticale o del "linguaggio costituito". Il bambino passa dalla terza alla prima persona, utilizzando il pronome personale io. Costruisce frasi complete, acquistando gradualmente gli elementi grammaticali e della sintassi (unisce il verbo con l'aggettivo in maniera conforme alle leggi sintattiche). In questo periodo il bambino inizia a comprendere frasi che si riferiscono a oggetti e/o situazioni non presenti nel suo campo

percettivo.

oltre i due anni

La produzione linguistica di questo periodo inizialmente è estremamente sintetica, linguaggio

telegrafico, per la mancanza di elementi sintattici connettivi, pur procedendo l'arricchimento lessicale e la precisione nell'articolazione dei suoni. Il linguaggio consiste di nomi, verbi e aggettivi, contandosi pochi pronomi e pochissime congiunzioni (connettivi).

IV° periodo Periodo del PERCHE'. Il bambino assimila introiettandole le forme sintattiche e grammaticali attraverso un'incessante domandare che arricchisce il lessico e il vocabolario. Questo periodo che inizia verso i due anni è legato alla qualità e alla quantità delle risposte ricevute dal bambino da parte dei genitori.

Lo stadio interlinguistico secondario dai 3-4 ai 7-8 anni Dai 3-4 anni in poi il bambino dovrebbe raggiungere una normalità espressiva. Tale sviluppo dipende più di ogni altro momento dalla stimolazione dei genitori e dalla situazione ambientale. Il modello linguistico dei genitori, la frequenza serena della scuola materna, il feedback affettivo e verbale con i genitori, rappresentano fattori catalizzatori di questa maturità verbale. Il bambino diventa capace di padroneggiare strutture linguistiche 66

complesse, come l’uso dell’imperativo, del condizionale, ecc. La progressiva comprensione e produzione delle frasi interrogative manifesta la maturazione del linguaggio. A rilento, invece procede l’apprendimento delle frasi negative rispetto a quelle affermative, pur sottolineando che nella fase olofrastica il bambino esprime normalmente la sua volontà negativa e il suo rifiuto. Lo sviluppo della socialità promossa dalla scolarizzazione materna ed elementare caratterizza questa fase di sviluppo. Il bambino attraversa da un punto di vista cognitivo l’ultimo stadio del pensiero preoperatorio, dirigendosi verso la reversibilità concettuale. È il periodo del monologo egocentrico, del pensiero ad alta voce (come lo interpreta Vygotskij), che anticipando il linguaggio interiore aiuta ludicamente, come principio regolatore, il pensiero e il comportamento. Gradualmente il bambino diventa capace di mantenere l’argomento del suo discorso nella conversazione, variandola a seconda dell’interlocutore, mostrando di potere effettuare congetture sull’altro. Il gioco simbolico gli consente di interpretare ruoli sociali (il papà, la mamma, la maestra, il dottore, ecc.). L’ingresso nella scuola primaria espande e generalizza l’uso delle principali funzioni interattive del bambino; si perfezionano le modalità con cui si scambiano le informazioni e si formulano le domande, le funzioni matetiche ovvero quelle deputate all’apprendimento, (immaginari, descrivere, commentare, valutare secondo riferimenti ad oggetti concreti) emergono attraverso l’ascolto e la comprensione di narrazioni fiabesche e racconti illustrati. I bambini di 4/6 anni, progredendo nella competenza cognitiva, riescono a raggiungere anche livelli considerevoli di consapevolezza metalinguistica. Lo sviluppo e l’espansione del lessico impegna il bambino a coniugare le esigenze della sintassi (prime regole) e l’organizzazione delle idee. Da questa sforzo e in coincidenza con questo sovraccarico sistemico, possono presentarsi fenomeni linguistici scompensati quali esitazioni, e ripetizioni in particolare nell’esordio della frase, dando origine a disfluenze.

Stadio linguistico dai 7-8 anni Completato il controllo del sistema fonologico con la produzione chiara di fonemi complessi quali la consonante liquida / r /, dei gruppi policonsonantici (es. / str /) e delle parole di qualsiasi lunghezza, l’acquisizione del linguaggio può definirsi compiuta. Il raggiungimento di questo stadio non è, tuttavia l’esito dell’età, ma anche il risultato del pensiero e del suo livello di astrazione. Insegnamenti quali la storia, la geografia sono possibili unicamente per la possibilità del bambino di utilizzare lo strumento linguistico

67

senza aver bisogno di ricorrere a riferimenti sensoriali concreti (spazio) e temporali. Il vocabolario si espande in assenza del riferimento alle esperienze vissute. Lo stile narrativo, descrittivo ed espositivo tipici del discorso, si consolida grazie alla scolarizzazione e grazie anche ad una sintassi resa versatile dall’uso dei modi verbali. Verso gli 11-12 anni il codice linguistico può considerarsi, da un punto di vista strutturale sia fonologico che sintattico, evolutivamente compiuto, mentre le modalità cognitive e l’espansione del vocabolario rimangono in permanente evoluzione durante tutto l’arco della vita.

Processi cognitivi e metacognitivi del linguaggio Per analizzare i principali processi cognitivi implicati nell’elaborazione del linguaggio è utile far riferimento al modello “HIP Human Information Processing”, nato nell’ambito del cognitivismo agli inizi degli anni settanta, che considera l’uomo come elaboratore d’informazione. I processi cognitivi vengono indagati partendo dall’analogia tra mente e computer. In questo modo lo stimolo fisico (input) è trasformato dal sistema competente ( visivo, auditivo, olfattivo, gustativo, tattile) in stimolo sensoriale e tradotto in registro sensoriale che permette il mantenimento dell’informazione anche dopo la fine della stimolazione. Se l’informazione è considerata importante verrà ulteriormente elaborata fino al suo riconoscimento percettivo che si fonda sul confronto fra quanto acquisito e le conoscenze pregresse immagazzinate nella memoria a lungo termine. Pertanto, lo stimolo una volta elaborato, o verrà perso o sarà depositato nella memoria a breve termine che ha, invece, una capacità di mantenimento limitata. Il passaggio dal magazzino di memoria a breve termine, a quello a lungo termine, consente la conservazione illimitata delle informazioni. Perché si inneschi questo meccanismo la reiterazione non basta, esso infatti, dipende dal tipo di decodifica che viene imposta al materiale. L’integrazione tra vecchi e nuovi dati consentirà di allargare il patrimonio delle conoscenze già esistenti. Il modello, come si può vedere dalla figura che segue, prevede l’integrazione dell’elaborazione dal basso o guidata dai dati, da cui provengono gli stimoli con l’elaborazione dall’alto o guidata dai concetti, ossia dalle conoscenze consegnate alla memoria a lungo termine.

68

Modello di elaborazione delle informazioni

Il modello però non evidenzia alcuni degli aspetti dell’elaborazione dell’informazione che è invece opportuno chiarire. Il flusso delle informazioni e le fasi rappresentate in figura possono avere un andamento sia seriale sia parallelo. Infatti, il flusso delle informazioni può verificarsi sia tra l’individuo e l’ambiente che internamente alla mente di una persona. L’elaborazione all’interno della mente è più tipica dei processi del pensiero e del ragionamento. Il modello HIP assegna, dunque un ruolo attivo al soggetto conoscente: l’uomo elabora attivamente le informazioni con cui viene a contatto, costruendosi di volta in volta una rappresentazione significativa dell’evento. Per capire quanto sia importante il ruolo attivo della persona è sufficiente pensare a quello che accade ogni volta che si legge o si ascolta musica o un discorso, o si pensa o si scrive un testo. Tra i fattori metacognitivi del linguaggio l’attenzione e la concentrazione sono elementi di fondamentale importanza. Un efficace ed efficiente elaborazione dell’informazione e di conseguenza l’apprendimento, non possono verificarsi senza ricorrere a queste due capacità. La concentrazione determina la comprensione o l’incomprensione di qualsiasi cosa; rappresenta la facoltà di mantenere lontani, durante la fase dell’ascolto e dell’apprendimento, pensieri distraesti, emozioni e situazioni non attinenti a quel determinato contesto. Schematicamente si può asserire che il livello di concentrazione dipende da: 

caratteristiche ambientali (è difficile studiare la lezione di storia in un luogo affollato e rumoroso!);



caratteristiche personali (lo stato di salute, la stanchezza ad esempio incide molto sulla capacità di concentrazione);

69



caratteristiche relazionali rispetto all’obiettivo di apprendimento (portare a termine un compito mai svolto prima implica un grado di concentrazione estremamente elevato).

Riconoscere che la concentrazione varia in base ai differenti fattori procura la possibilità di riuscire a regolare il livello d’impegno e di sforzo necessario per comprendere in modo ottimale. L’attenzione è, invece, la capacità di focalizzare la percezione, aumentando la consapevolezza verso alcuni stimoli e scartandone automaticamente altri. Possiamo considerare l’attenzione come un’abilità che presiede e regola i processi cognitivi dell’uomo. Infatti l’attitudine ad elaborare le informazioni è normalizzata dalle risorse e dai limiti dei processi attentivi: tutti noi abbiamo, almeno una volta, sperimentato quanto sia difficile mantenere lo stesso grado di attenzione nel compiere due operazioni diverse come ascoltare musica e leggere un libro. Cosa che diventa ancora più complicata, se i due compiti non sono ancora entrati a far parte delle procedure automatizzate, ad esempio guidare la macchina da neopatentati e conversare con il passeggero. L’attenzione può, quindi essere considerata la funzione che regola i processi mentali, filtrando, selezionando e organizzando le informazioni in modo da rispondere in maniera adeguata ai diversi stimoli. La disponibilità di risorse attentive dipende da diversi fattori: 1.

livello di preparazione alla stimolazione, quando siamo allertati si riducono i tempi di risposta alla stimolazione;

2.

l’efficienza nella risposta, ovvero la capacità di filtrare gli stimoli rilevanti in rapporto al livello di attivazione.

3.

il livello di attivazione, che se è basso può limitare fortemente la capacità di riconoscere gli stimoli, viceversa quando è troppo altro può indurre il sistema “filtro”

ad

essere

talmente

selettivo

da

incidere

negativamente

sull’individuazione di ciò che realmente serve. Sono stati individuati quattro tipo di attenzione: 1.

L’ATTENZIONE SELETTIVA, ovvero la capacità di selezionare all’interno di un certo numero di stimolazioni quelle rilevanti all’azione che stiamo svolgendo.

2.

L’ATTENZIONE

DIVISA,

ovvero

è

la

capacità

di

svolgere

contemporaneamente due compiti; cosa possibile solo se per uno dei due 70

sono state acquisite procedure automatizzate. L’attenzione, infatti è un sistema che dispone di risorse limitate e in quanto tale due o più operazioni possono essere svolte insieme solo se richiedono poche risorse attentive (ascoltare musica e lavarsi i denti). 3.

L’ATTENZIONE SOSTENUTA, ovvero la capacità di mantenere nel tempo l’attenzione su stimoli interni od esterni. Seguire un’ora di lezione a scuola richiede all’alunno di mantenere il livello di attivazione dell’attenzione per un periodo piuttosto lungo. L’attenzione sostenuta dipende chiaramente dal controllo volontario suscettibile di regolazione.

4.

L’ATTENZIONE SHIFTATA, ovvero la capacità dell’individuo di effettuare uno spostamento dell’attenzione da uno stimolo precedentemente elaborato per concentrarsi su uno nuovo. (passare dalla lezione di latino a quella di matematica).

Tutte queste competenze attentive sono importanti a scuola e garantiscono la corretta esecuzione di un compito e la capacità di eseguirlo per un tempo sufficiente al raggiungimento dell’obiettivo formativo (leggere, comprendere un testo, rispondere a delle domande, scrivere un tema). Studenti con difficoltà di apprendimento o portatori d’handicap possono incontrare ostacoli nell’attivare uno o tutti e quattro i tipi di attenzione appena descritti, poiché mancano di autoregolazione e devono essere pertanto eteroregolati. Un modello molto usato per spiegare il funzionamento dell’attenzione è il SAS (Sistema Attentivo Supervisore). Questo modello parte dalla considerazione che l’attenzione può essere volontariamente o involontariamente direzionata. La selezione automatica delle risposte ad una determinata stimolazione sono controllate da un meccanismo chiamato “selezione competitiva”. In sostanza la funzione del sistema attentivo supervisore consiste nel controllare il corso delle azioni. Quando guidiamo la macchina, ad esempio, lo stop del fanalino della macchina davanti alla nostra attiverà automaticamente il comando di frenare, pertanto in una frazione di secondo il nostro piede sarà sul freno e tutta un’altra serie di stimoli come l’accelerare il rallentare, il premere la frizione, saranno scartati. Se la situazione lo permette, ad esempio il fanalino stop della macchina si accende con largo anticipo rispetto al tempo necessario per la frenata allora possiamo compiere una scelta volontaria filtrando stimoli diversi come decidere di decelerare, scalare le marce e così via. Questo modello si è rilevato estremamente efficace per distinguere i disturbi dell’attenzione e dell’iperattività, evidenziando le difficoltà di autoregolazione del comportamento nei soggetti malati. Le 71

difficoltà di controllo dipendono dall’incapacità di selezionare volontariamente i livelli delle azioni da compiere.

La memoria e i suoi sistemi Intuitivamente, tutti sappiamo cosa è la memoria, e consideriamo il linguaggio come qualcosa di strettamente legato, nel senso che la langue, secondo quanto sosteneva de Saussure è qualcosa che deve essere “ricordata” dall’individuo. In generale, la memoria, le sue strutture fisiologiche ed il suo funzionamento, sono stati studiati molto approfonditamente, tanto da psicologi del linguaggio quanto dai linguisti, da medici neurologi, possiamo, dunque dire di averne molta letteratura in materia. Il primo dato interessante è che anche la memoria sembra una struttura frutto dell’evoluzione naturale. Tutti i mammiferi, ad esempio, uomo compreso sembrano condividere la stessa impostazione di funzionamento:

Il funzionamento della memoria nei mammiferi: riprodotto da Richard F. Thompson, The brain. A Neuroscience Primer, 3rd edition, New York, Worth Publishers, 2000, p. 354. L’informazione sensoriale entra in un “registro sensoriale” (“memoria iconica”) dove è mantenuto per un tempo brevissimo (nell’ordine dei decimi di secondo: la dimostrazione risale a G. Sperling nel 1960). Alcune di queste informazioni sono scartate, altre invece sono trasferite nella “memoria operativa a breve termine” (nell’ordine delle decine di secondi), parte delle quali è poi salvata, in genere dopo essere stata adeguatamente esercitata, nella memoria a lungo termine (di durata teoricamente illimitata), mentre un altra parte viene definitivamente persa (alcune informazioni visive, inoltre, possono passare direttamente dal registro sensoriale alla memoria a lungo termine). Seguendo la via contraria, invece, le 72

informazioni sono recuperate dalla memoria profonda, trasferite nella memoria operativa, e poste in esecuzione.

La memoria è quella funzione che ci consente di conservare, recuperare e codificare all’occorrenza le informazioni tratte dalla nostra esperienza quotidiana. Essa è composta da due sistemi complessi interconnessi tra loro: - la memoria a breve termine (MBT); - la memoria a lungo termine (MLT). Nel primo sistema sono raccolte e conservate tutte quelle informazioni che servono momentaneamente (il numero di telefono letto sull’elenco, l’ultima frase di un discorso, il nome di una persona sconosciuta che ci viene appena presentata. Nel secondo sistema, invece, vengono immagazzinate tutte quelle informazioni relativamente stabili e continuamente accessibili nello svolgimento delle attività quotidiane (il nostro numero di telefono, il lessico della nostra lingua, il nostro nome, ecc.). Di particolare interesse è il fatto che la memoria operativa (MBT) sembra coincidere con la consapevolezza e con quello che chiamiamo di solito “coscienza”, mentre la memoria a lungo termine si caratterizza per caratteristiche più simili all’inconscio, è cioè come un gigantesco serbatoio di conoscenze delle quali non siamo propriamente consapevoli, ma alle quali attingiamo al bisogno, riportandole nella memoria operativa a breve termine. Una delle prove ormai classiche a sostegno della differenziazione tra i due sistemi consiste negli effetti di posizione seriale. Questo test consiste nel pronunciare, chiaramente, una serie di parole non collegate tra loro, che vengono proiettate su uno schermo, e nello stesso tempo scandite oralmente. Una volta esaurita la lista viene chiesto ai soggetti testati di ripetere, per rievocazione libera quante più parole ricordano. Il test ha dimostrato che nella norma si richiamano alla memoria le parole poste all’inizio e alla fine della lista, mentre, con molta più difficoltà, si ricordano i vocaboli centrali. Numerare le parole della lista consente di calcolare la probabilità che una parola ha di essere ricordata in relazione al posto occupato nell’elenco. La competenza che consente di ricordare le prime parole della lista è chiamata effetto di priorità, mentre l’effetto di recenza implica la memorizzazione delle ultime parole. Possiamo, quindi dire, che la memoria a breve termine è soggetta a limiti di capienza e a limiti temporali. Il magazzino della memoria a breve termine è chiamato tecnicamente span ed è fissato pari a (7+o-2) unità. Ciò vuol dire che, normalmente, dopo la presentazione di una lista di parole, possono essere ricordate da 5 a 9 parole. Tale capacità può essere cambiata da particolari strategie, come ad esempio raggruppare le 73

informazioni in unità: i numeri di telefono per esempio vengono raggruppati così (06.691.23.220). Il linguaggio dovrebbe, ragionevolmente, essere depositato nella memoria a lungo termine. In realtà, il discorso va ulteriormente articolato. Quando si parla di “memoria” intendiamo, in effetti, molte strutture diverse e il linguaggio è in relazione solo con alcune di queste.

I principali tipi di memoria a lungo termine: riprodotto da Richard F. Thompson, The brain. A Neuroscience Primer, 3rd edition, New York, Worth Publishers, 2000, p. 365. La memoria non dichiarativa è procedurale, implicita (è relativa al “come”), quella dichiarativa è esplicita (ed è relativa al “cosa”).

Nello schema rappresentato, il linguaggio è situato nella memoria dichiarativa, più precisamente in quel suo sottotipo che è la “conoscenza semantica”, in base alla quale, ad esempio, uno ricorda il significato delle parole o le tabelline aritmetiche, ma non quando le ha imparate. L’altro sottotipo è la “memoria episodica”, in base alla quale, ad esempio, uno ricorda cosa ha mangiato a pranzo, o chi ha incontrato il giorno prima. Un dato interessante, come si può rilevare dallo schema che segue, è che le principali strutture “mentali” (tipi di memoria), sono messi in relazione alle strutture materiali (aree del cervello). Un ruolo centrale, in particolare, sembra giocato dall’ippocampo, nel lobo medio temporale (ne sono presenti due, uno nel lato destro ed uno nel lato sinistro). Famoso nella letteratura medica è il caso di HM, un paziente che ha dovuto subire la rimozione di entrambi gli ippocampi sviluppando di conseguenza un’amnesia anterograda che costringe a vivere esclusivamente il presente, senza la possibilità di immagazzinare nuove informazioni ed esperienze nella memoria a lungo termine. 74

Analoghe esperienze cliniche hanno, però, insegnato che le aree del cervello coinvolte dall’attività linguistica sono principalmente altre: nell’adulto, di solito, sono localizzate nel solo emisfero sinistro, anche se questa “lateralizzazione” non è assoluta, mentre nel bambino sono coinvolti entrambi gli emisferi e solo gradualmente si specializza il sinistro, in particolare l’area di Broca e l’area di Wernicke:

Le principali strutture fisiologiche (emisfero sinistro) del cervello coinvolte nell’attività linguistica: riprodotto da Richard F. Thompson, The brain. A Neuroscience Primer, 3rd edition, New York, Worth Publishers, 2000, p. 442.

In particolare, l’area di Broca, vicina alle zone “motorie” della corteccia cerebrale deputate al funzionamento dei muscoli dell’apparato fonatorio (la lingua), controlla la coordinazione di questi muscoli nel parlato. Lesioni all’area di Broca possono provocare difficoltà nel parlare, pur non intaccando la comprensione. L’area di Wernicke, invece, più vicina alle aree che ricevono gli stimoli acustici (Herschel gyrus) e che le connettono (angular gyrus) con le aree della visione (corteccia visiva), regola l’elaborazione semantica. In caso di lesioni all’area di Wernicke la fonazione è fluente, ma senza senso, e la comprensione è persa. Entro certi limiti, sembra quindi che la distinzione tra significante e significato sia riprodotta anche al livello fisico delle strutture cerebrali. In realtà, recentissimi studi svolti nel 2003, da Andrea Moro, un linguista attualmente impegnato all’Università San Raffaele di Milano, rivendicano un ruolo ancora più importante all’area di Broca, che è risultata coinvolta nell’uso delle regole effettive della lingua; funzione questa che la candiderebbe a principale sede del linguaggio. Un resoconto di facile leggibilità, di M. Piattelli Palmarini, 75

è consultabile sul web. Baddeley, Professore alla Università di York, uno dei maggiori studiosi al mondo di memoria, il cui “modello di memoria di lavoro” ha profondamente influenzato la ricerca contemporanea sulla mente, ha fissato la distinzione di una serie di componenti all’interno del memoria a breve termine, da lui chiamata memoria di lavoro (ML). Baddley propone, al posto di un modello unitario di memoria uno a due dimensioni, controllato da un sistema esecutivo centrale dipendente dalle capacità attentive limitate. Questo sistema di controllo opera su due dati provenienti da due servo-sistemi, uno adoperato per l’elaborazione e il mantenimento dell’informazione linguistica, che va sotto il nome di loop articolatorio (phonological loop), l’altro implicato nell’elaborazione e nel mantenimento dell’informazione visuo-spaziale, denominato taccuino visuo-spaziale (visul spazial scatchpad). Il sistema di loop articolatorio si fonda su un magazzino di memoria che mantiene le tracce di materiale acustico e verbale per tempi brevissimi (magazzino fonologico) e su un processo di articolazione sub vocale, che consente il consolidamento della traccia, attraverso la reiterazione, e la conversione di stimoli visivi nei loro corrispondenti verbali. Questa componente del modello della memoria di lavoro o memoria a breve termine è specializzata nell’elaborazione dell’informazione linguistica. L’altra componente della memoria di lavoro è costituita dal taccuino visuo-spaziale, il quale permette tanto la ripetizione temporanea delle caratteristiche visivo-spaziali delle informazioni in entrata, (come è scritta una parola e dove è collocata), quanto la visualizzazione e la manipolazione delle immagini mentali. L’Esecutivo Centrale è correlato al controllo attentivo delle azioni e in questo senso rimanda al modello SAS (Sitema Attentivo Supervisore).

Una prova di memoria di lavoro verbale: il listening span test Nella comprensione del testo gioca un ruolo importante la memoria di lavoro verbale e diventa, quindi, importante, in fase si analisi del fabbisogno formativo e di progettazione didattica, valutarne le caratteristiche attraverso strumenti adeguati. Una tipica prova di memoria di lavoro verbale è il “listening span test. Esso consiste nel registrare su nastro una serie di frasi che i soggetti, una volta ascoltate, devono riconoscere come vere o false e devono ricordare l’ultima parola di ciascuna frase. Le frasi sono organizzate in gruppi da due, da tre, da quattro, da cinque e da sei frasi. La procedura del test prevede che ai soggetti vengano letti in progressione i vari set di frasi a cui devono attribuire falsità o

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veridicità. Ogni set è scandito dal suono di un campanello che fissa la fine di quel set e quindi il ricordo dell’ultima parola di ogni frase del set in questione. La prova è caratterizzata da due momenti susseguenti: - una richiesta di elaborazione delle informazioni (giudizio vero/falso); - ricordo dell’ultima parola di ogni frase. Gli indici ricavabili dal listening test sono il livello di span e il numero d’informazioni memorizzate. Questo vuol dire che per avere uno span 2 il soggetto deve ricordare le parole di tre set di due frasi su quattro, per uno span 3 deve ricordare oltre a quelle da due anche le parole di tre set da tre frasi su quattro, e così via. Il numero delle informazioni ricordate invece coincide semplicemente con il numero totale di parole correttamente ricordate. Lo span test si è rilevato uno strumento utilissimo per studiare approfonditamente la relazione che lega la capacità di comprendere un testo e la memoria del lavoro verbale. I risultati a cui si è giunti, dimostrano che buone prestazioni di memoria di lavoro verbale comportano buone competenza nella comprensione del testo. Qui di seguito viene riportato un esempio di listening span test: Il burro e la marmellata vanno con il

pane . (v)

Il cane è un animale domestico come il

gatto . (v)

pane - gatto Gli esseri umani potrebbero sopravvivere anche senza Il calcio è uno sport che si pratica solo in alta

ossigeno . (f)

montagna . (f)

Si può anche morire se si viene morsicati da una

vipera . (v)

ossigeno – montagna - vipera La mucca è un mammifero con quattro zampe e una L’acqua del mare è particolarmente ricca

coda. (v)

di sale . (v)

In Italia il Capo dello Stato si chiama Presidente della

Repubblica . (v)

I giornali quotidiani si stampano con nuove notizie tutti i

giorni . (v)

coda - sale – Repubblica - giorni Quando c’è il sole tutta la gente esce con l’ Il deserto è un’immensa distesa

ombrello . (f)

d’acqua senza pesci . (f)

Il latte e il tè si bevono a colazione con i

biscotti . (v)

Una ricetta italiana è quella degli spaghetti al

pomodoro . (v)

Di alc uni frutti come la banana si mangia soltanto la

buccia . (f)

ombrello – pesci – biscotti – pomodoro - buccia Gli occhiali servono per sentire con più chiarezza i I gatti e i cani sono animali che vivono con l’ Quando fa fred do si usano la sciarpa e i

suoni . (f)

uomo . (v)

guanti . (v)

La vipera è un animale pericoloso che vive in

montagna . (v)

La bicicletta è un mezzo di trasporto più veloce dell’ aereo . (f) Le barche possono essere a remi, a motore e a

vela . (v)

suoni – uomo – guanti – montagna – aereo – vela

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La memoria a lungo termine, quindi ha la facoltà di conservare una varietà d’informazioni per un intervallo di tempo che va da alcuni minuti a tutta la vita. Se si fa riferimento alla diversa tipologia di informazioni codificate e immagazzinate nella MLT si possono distinguere differenti tipi di memoria: 

la memoria semantica contiene informazioni di tipo fattuale, (es. quando è stata scoperta l’America), i vari concetti ed il lessico;



la memoria episodica racchiude ricordi di eventi accaduti in un preciso momento e in un certo luogo, ed al suo interno contiene la memoria autobiografica, che si riferisce ai ricordi personali.

Da queste due forme di memoria, va distinta la memoria procedurale che riguarda l’abilità e il modo di fare qualcosa, (studiare, risolvere un problema, scrivere un tema). A scuola è sicuramente importante ampliare il patrimonio delle informazioni fattuali, il lessico mentale, ma anche insegnare procedure. Per quanto riguarda i lessici alcune ricerche sostengono che studenti delle medie imparano 2500 parole nuove all’anno, tenuto chiaramente in debito conto le differenze individuali. Un intervento didattico mirato può ampliare la memoria lessicale ed è ovviamente di grande utilità per gli alunni più svantaggiati. Nella MLT le informazioni sono conservate in modo organizzato e strutturato in stretta relazione con la capacità di codifica e con le conoscenze possedute. Quanto più sappiamo, tanto più sarà organizzata la nostra conoscenza e tanto più facile sarà incorporare nuove informazioni. In altre parole, la conoscenza si crea sulla conoscenza, questo può dare un’idea di come sia difficile insegnare ad alunni che non hanno le cosiddette conoscenze di base. In riferimento all’organizzazione delle conoscenze nella memoria a lungo termine, in particolare di quella semantica sono stati elaborati vari modelli. Uno di questi ipotizza che le conoscenze siano organizzate in schemi, cioè in strutture astratte altamente coese e flessibili che possono essere applicate a molti casi: ad esempio, in relazione alla parola “cane” si possiede uno schema, ossia una rappresentazione mentale astratta che, non corrisponde a nessun animale specifico, ma che lo rappresenta mentalmente come un quadrupede peloso che abbaia, alla stessa stregua si possono avere conoscenze schematiche di oggetti, di idee, di astrazioni, di eventi ed emozioni.

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Immaginazione e memoria La memoria contiene oltre alle informazioni verbali anche informazioni visivoimmaginative. Possiamo descrivere quante stanze ha la nostra casa e la loro posizione ripercorrendo mentalmente la rappresentazione, che a memoria, abbiamo della nostra abitazione. In una prospettiva cognitivista l’immaginazione è stata studiata nella sua specificità funzionale, che la caratterizza rispetto ad altri processi cognitivi per il rapporto in cui sta con la percezione visiva. Ci si è domandati, se l’immaginazione sia un reale processo cognitivo a fianco di altri processi o altro non sia che il risultato di questi. Attualmente l’immaginazione appare essere una funzione autonoma che si situa in una posizione intermedia tra i processi percettivi e quelli di memoria. La gran mole di ricerche, effettuate sulla relazione immaginazione/memoria, ha messo in luce gli effetti positivi dell’immaginazione sul ricordo. In estrema sintesi i risultati di questi studi hanno provato che: il materiale verbale (parole, frasi, brani) facilmente immaginabile ha una probabilità maggiore di essere ricordato; l’uso di immagini mentali, sia spontaneo che in seguito a precise istruzioni, incrementa la prestazione mnestica; i “buoni immaginatori” possono avere un ricordo superiore ai “cattivi immaginatori”. Le spiegazioni fornite a questo fenomeno si rifanno all’esistenza di un doppio sistema di codifica. Premesso che stimoli verbali apparentemente simili, come parole della stessa lunghezza e con uguale frequenza nella lingua del parlante, sono ricordati in modo differente e che gli stimoli figurali, oggetti oppure disegni di oggetti familiari, sono ricordati più degli stimoli verbali, è evidente che, responsabile del diverso ricordo, è il modo diverso in cui sistema verbale e sistema immaginativo sono impegnati nella codifica degli stimoli. Gli stimoli figurali sono più facili da ricordare perché attivano immediatamente una codifica per immagini (analogica); se l’oggetto è familiare, anche la codifica verbale, che attribuisce allo stimolo l’etichetta verbale, cioè il nome è rapida. In questo modo l’item viene codificato due volte: una dal sistema immaginativo e una dal sistema verbale. Qualcosa di analogo avviene per gli stimoli verbali che descrivono oggetti o situazioni in grado di suscitare, con facilità e vividezza, delle immagini, pensiamo ad esempio alla descrizione della parola “vacanza”. Tali stimoli, ad alto valore di immagine, vengono immediatamente codificati dal sistema verbale, ma possono anche godere della codifica supplementare del sistema immaginativo. Gli stimoli verbali a basso valore d’immagine, ossia, parole a cui e difficile associare un’immagine mentale, pensiamo ad esempio, alla parola “scopo”, possono con maggior difficoltà avvantaggiarsi di una codifica 79

immaginativa e risolvendosi prevalentemente in quella verbale, sono più difficili da ricordare proprio perché codificati attraverso un unico sistema. Il vantaggio mnestico del valore d’immagine non viene imputato ad una maggior potenza della codifica immaginativa, quanto, piuttosto, alla probabilità di attivazione contemporanea di entrambi i tipi di codifica. Questa teoria detta della doppia codifica, spiega perché le figure siano più facili da ricordare rispetto agli stimoli verbali e come questi si differenzino nel ricordo a seconda del loro valore d’immagine. Proprio la doppia codifica è responsabile del maggior ricordo, tanto che se una figura non è facilmente denominabile non ottiene vantaggio mnestico.

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ESERCIZI a) Spiega il motivo per cui la memoria operativa è collegata alla coscienza …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… b) Spiega cosa s’intende per listening span test …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… c) Spiega le funzioni della memoria dichiarativa …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… d) Indica dove è situato il linguaggio …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… e) Spiega quale rapporto esiste tra immaginazione e memoria …………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………………………………………………………… ……………………………………………………………………………………………………

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RIEPILOGO In questa unità didattica abbiamo visto come la questione dell’origine del linguaggio ha occupato costantemente nella storia del pensiero uno spazio significativo, in quanto dal momento in cui ogni essere umano è al mondo, il linguaggio accompagna, non solo ogni istante della vita di relazione con gli altri, ma anche la dimensione della propria interiorità. Abbiamo visto come l’aumento di dimensioni del cervello ha consentito il graduale sviluppo della capacità di esprimersi attraverso il linguaggio ed in particolare l’espansione e la specializzazione di una regione della corteccia cerebrale, chiamata area di Broca, adibita al controllo dei movimenti delle labbra e della lingua, hanno determinato lo sviluppo della competenza linguistica. Accanto allo studio del linguaggio si è sviluppata, fin dai tempi antichi l’esigenza di capire che cosa fossero rispetto al linguaggio le lingue e perché fossero così diverse tra loro. Attraverso i secoli lo studio del linguaggio ha assunto diversi approcci e molte sono state le metodologie applicate alla sua indagine. Tuttavia, oggi, le diverse correnti di pensiero e le differenti discipline sono tutte, piuttosto d’accordo, nel ritenere che la lingua corrisponda ad una specifica forma di linguaggio usata da una determinata popolazione in un certo punto dello spazio e del tempo. Certamente, il tema delle origini del linguaggio, inteso come ricostruzione della forma della ipotetica, o delle ipotetiche lingue primigenie del genere umano, ha influenzato la linguistica per lunghissimo tempo. Questo sistema d’indagine fondato sostanzialmente su uno studio comparativo delle lingue cade sotto i colpi dei linguisti e dei glottologi del novecento che, spiegano che non si può risalire in modo attendibile così indietro nel tempo e constatano, quindi, l’ineluttabilità della registrazione della profonda diversità tra i gruppi linguistici. Allo stesso tempo, una parte delle filosofie dominanti svalutano il tema stesso delle origini, da De Saussure a Von Von Humboldt fino a Benedetto Croce si sente ripetere che è inutile occuparsi del problema delle origini del linguaggio, perché questo problema si risolve, solo studiando, come funziona nell’attualità una lingua. La cosa veramente interessante è capire che ruolo ha il linguaggio nella vita dello spirito umano. All’ostracismo professionale dei linguisti, quindi, si aggiunge anche una messa in mora filosofica. Dagli anni Trenta del novecento molti altri studiosi, come l’americano John Lilly, l’austriaco Karl Von Frisch, hanno cominciato a scoprire che il mondo della comunicazione è più vasto di quello degli esseri umani, che forme di comunicazione, molto sofisticate, esistono tra i mammiferi acquatici. Dai primi lavori classici di Von Frisch, condotti sulle api, un po’ alla volta è nata una disciplina nuova, la “zoosemiotica”, ossia lo studio sistematico dei modi di semiosi, dei modi di comunicazione per simboli e per segni, 82

propri di specie animali diverse dal genere umano. Pertanto, quello che noi chiamiamo, per eccellenza, linguaggio, non è che una variante delle forme di comunicazione utilizzabili. In tanti casi il gesto, per esempio, sostituisce completamente la formulazione verbale e così accade anche per la postura del corpo, l’abbigliamento e molta altra parte della simbologia di cui è intessuta la nostra vita di relazione e di comunicazione non verbale. A sostituire il linguaggio verbale ci sono anche forme più alte di comunicazione come i linguaggi matematici e i linguaggi simbolici che noi abbiamo creato a partire dalle lingue. Un’altra questione su cui ci si è interrogati a lungo è, se solo il linguaggio sia un “unicum”, o se non abbia anch’esso una sua preistoria evolutiva, ricostruibile, documentabile, che possa aiutarci a comprendere la sua struttura. Alcuni studiosi, soprattutto Lieberman, insistono molto sui prerequisiti di tipo anatomico e neurologico, Secondo cui bisogna avere una struttura pienamente eretta perché si abbassi la laringe che ci permetta di avere il controllo di suoni così diversificati, come quelli che sono presenti effettivamente e non accidentalmente nelle lingue. Quindi la forma della calotta cranica, ricostruibile paleontologicamente, è molto importante per capire quando queste condizioni si sono create. Lieberman ipotizza una datazione molto bassa dell’origine della capacità linguistica che lo porta a concludere che, forse, neanche gli uomini di Neanderthal, così simili a noi e già con una vita sociale molto sviluppata, parlavano una lingua analoga alla nostra; “l’homo sapiens” avrebbe imparato a parlare solo a tre quarti della sua storia. Altri studiosi, ragionano in termini diversi, sostenendo che, analizzando i reperti di un milione e mezzo di anni fa, ci si accorge come, l’uomo ricorrendo alla costruzione di utensili per procurare cibo e per difendersi, avesse sviluppato una struttura sociale, fondata sul lavoro e sull’uso razionale delle mani. Questo quadro culturale fa presupporre che egli dovesse, necessariamente disporre anche di quella forma di vita comunicativa così complessa, da giustificare l’uso di una lingua storico-naturale. Essi, pertanto retrodatano fortemente l’origine del linguaggio, da cinquantamila a un milione e mezzo di anni fa. Altri ancora partono dall’idea che i vocaboli delle lingue hanno la possibilità di trasferire il significato delle parole, di allargarne i confini a seconda delle necessità, riferendosi alla indeterminatezza semantica che, accanto alla ricchezza del patrimonio lessicale e sintattico è la proprietà chiave delle lingue. Questa proprietà non può non essere stata sfruttata, nel momento in cui il lavoro di trasformazione dell’ambiente, passava, per esempio, attraverso le tecniche di cottura del cibo, nel momento in cui, cioè, si usava il fuoco razionalmente, in modo programmato. In quella circostanza,

l’essere

umano

deve

obbligatoriamente

aver

cominciato

a fare

quell’operazione che noi compiamo, quotidianamente, quando con una parola intendendo designare diverse cose, dilatando i suoi significati, attraverso un sistema simbolico, ricco 83

di indeterminatezza semantica e di possibili determinazioni, in vie, su vie diverse. Aldilà di tutte le questioni legate all’analisi del linguaggio, la capacità di comprendere e comunicare resta uno dei maggiori traguardi raggiunti dall’essere umano. Una caratteristica sorprendente dello sviluppo del linguaggio è la velocità con cui esso è acquisito. Partendo dal presupposto che, è quasi impossibile stabilire il numero di frasi che si possono costruire all’interno di una lingua, è certo, comunque, che i bambini cominciano ad utilizzare proposizioni sintatticamente corrette fin dall’età di tre anni e frasi molto complesse all’età di cinque. il sistema mentale deputato al linguaggio non richiede un apprendimento formale, ma si attiva spontaneamente in un contesto che ne stimola la produzione verbale. Possiamo dire, che il linguaggio è, dunque, in senso generico la facoltà di comunicare, nello specifico, è un “sistema simbolico di comunicazione”, ovvero un dispositivo in cui l’informazione che passa tra un emittente ed un destinatario è codificata attraverso un codice convenzionale e condiviso. Il contesto, la condizione in cui si comunica, le molteplici combinazioni dei soggetti, la varietà delle strutture simboliche definiscono i diversi tipi di linguaggio. Il livello della comunicazione può essere inoltre superficiale (cognitivo-informativo) o profondo (motivazionale-persuasivo). Abbiamo anche visto, come nel processo comunicativo, intervengono diversi elementi: emittente o fonte, il codice, il canale, il ricevente o destinatario, il contesto, il feedback. Il feedback, o informazione di ritorno è un fattore chiave perché realmente ci sia comunicazione, esso serve a: 

fare chiarezza (ascolto);



evitare malintesi (correggere la comprensione del messaggio);



costruire la relazione (trasmettere un reale interesse per la comprensione dell’altro).

Le interferenze rappresentano tutti gli impedimenti, gli ostacoli, che disturbano il canale usato per la comunicazione (lo sbattere di una porta, i caratteri troppo piccoli nelle slide, ecc.). Queste sono presenti in tutti gli elementi della comunicazione, per ridurne il rischio il linguaggio verbale si serve delle ridondanza, ovvero della capacità del linguaggio di ripetere lo stesso messaggio utilizzando forme espressive differenti. La ridondanza implica anche che una parte di un messaggio (lettere, parole,) può essere eliminata senza sostanziale perdita d’informazione. Essa, essenzialmente, misura la “flessibilità” del linguaggio, essendo proprio quest’ultima, che fa sì che noi capiamo un testo anche quando ci sono errori di stampa. La mancanza di feedback e le interferenze possono 84

provocare un’assenza o una non comprensione del codice e quindi il rifiuto del messaggio da parte del ricevente. Questo fenomeno è chiamato decodifica aberrante e può realizzarsi per: incomprensione per disparità dei codici(es. lingua straniera); incomprensione del messaggio per interferenze circostanziali (valori e credenze diverse); rifiuto del messaggio per delegittimazione dell’emittente (motivi ideologici dei partiti politici). La decodifica aberrante può interessare tutti gli elementi della comunicazione. Abbiamo anche visti che numerose sono le teorie che ruotano intorno al tema della comunicazione e sullo studio di quando essa effettivamente si realizza. Molti studiosi concordano sul fatto che vi è comunicazione solo, quando si è in presenza di un emittente ed un ricevente in condizione di codificare/decodificare il messaggio, che ciò che conta nella comunicazione non è quello che è detto, ma ciò che è recepito, che intenzionalità e consapevolezza sono alla base dell’azione di comunicare. Soprattutto l’intenzionalità, che, potremmo parafrasare come “volontà di significazione”, è una caratteristica fondamentale, oltre che del linguaggio, anche di ogni sistema di comunicazione in genere, e di ogni stato mentale. Per “intenzionalità” i filosofi intendono la proprietà che uno stato faccia riferimento a un altro stato: lo stato di un oggetto non fa, generalmente, riferimento a null’altro che al fatto che quell’oggetto si trovi in quello stato, viceversa la mente umana si può permettere il lusso di trovarsi in uno stato che fa riferimento a un altro stato: posso “credere” che questo libro sia ben scritto, posso “sperare” che molti lettori lo compreranno, posso “temere” che molti filosofi lo stroncheranno, e così via. Per altri studiosi, invece, la comunicazione è un semplice scambio d’informazione che investe il tipo di relazione che intercorre tra interlocutori, può quindi esistere comunicazione a prescindere dall’intenzionalità. La comunicazione si attua sempre su due piani: quello del contenuto e quello della relazione. Il primo si esprime, sostanzialmente, attraverso il codice verbale o numerico, mentre il secondo è meglio espresso dai codici non verbali detti anche analogici. Spesso si verifica che questo secondo genere di codice sfugge al controllo dell’emittente producendo un messaggio ambiguo, (dire a parole (codice digitale) che una cosa ci piace e fare una smorfia di disgusto (codice analogico)). il linguaggio umano si fonda su tre livelli: 

VERBALE (parole) – codice digitale;



PARAVERBALE (tono, timbro, volume, voce) – codice misto;



NON VERBALE (linguaggio del corpo) – codice analogico. 85

Ognuno di noi, a seconda delle diverse circostanze, comunica utilizzando un sistema rappresentazionale preferenziale o dominante. Esso consiste, in base alla prevalenza del canale che attiviamo per entrare in contatto con la realtà (visivo, auditivo, cinestesico), nell’utilizzare un linguaggio verbale, paraverbale e non verbale specifico ad ogni canale. La comunicazione svolge anche un’importante funzione educativa che può essere facilmente riassunto in alcuni obiettivi quali: 

AIUTARE A CRESCERE culturalmente ed umanamente. L’insegnante non trasmette solamente le conoscenze ma incarna un modello di adulto con influenza tanto maggiore quanto più seguito dai suoi studenti. Traducendolo in un’operazione matematica l’insegnante è il prodotto di ciò che dice + ciò che è + ciò che fa.



LA PROMOZIONE DI UNO SPIRITO CRITICO. La comunicazione educativa non deve mirare ad indottrinare (più o meno consapevolmente), ma deve puntare a promuovere la capacità degli studenti di riflettere, confrontare e valutare idee diverse con spirito critico;



LA

CIRCOLARITÀ

DELL’INFORMAZIONE.

Emittenti

e

destinatari

del

messaggio contemporaneamente devono avere ruoli interscambiabili, con l’obiettivo da parte dell’insegnante di promuovere e stimolare l’attività comunicativa. 

MOTIVAZIONE ALL’ASCOLTO, insegnando che esso è alla base della comunicazione. La comunicazione si fonda infatti su un processo a due vie di circolarità e scambio che non può realizzarsi senza l’ascolto.

Gli psicologi insistono sulla funzione e l’importanza del cosiddetto “imprinting”, ovvero sul primissimo approccio che si ha con qualcuno o qualcosa, che condiziona tutto ciò che si svilupperà in seguito. Pertanto, in un processo comunicativo formativo, l’imprinting dato dall’insegnate dovrà essere fortissimo e l’attenzione dovrà essere accesa nel modo più efficace possibile, riuscendo ad “attivare” e “colpire” le fantasie del discente, ricordandogli, in modo provocatoriamente “brutale”, che chi conosce mille parole ragiona, pensa e conosce meglio rispetto a chi riesce a controllarne ed usarne soltanto cento. Tutta questa prima parte dell’unità didattica e stata trattata in modo generale e propedeutico per dare degli input conoscitivi generali, prima di entrare in merito alla studio della psicologia del linguaggio. Nel quarto capitolo si è cercato di evidenziare le relazioni interdisciplinari che esistono tra psicologia del linguaggio e tutte le altre discipline che si occupano dello studio 86

dei sistemi comunicativi, soffermandoci, soprattutto, all’analisi del contributo concettuale e degli strumenti metodologici mutuati dalla linguistica e dalla psicologia. Cominciamo col dire, che la nascita della psicologia del linguaggio, risale agli cinquanta e nell’ambito degli studi che hanno per oggetto il linguaggio, questa disciplina è definibile come “la scienza che studia la capacità umana di parlare e di capire, vale a dire il comportamento e le attività mentali coinvolte nell’uso del linguaggio”. La linguistica che, tradizionalmente si è occupata di quell’insieme di conoscenze relative alla competenza linguistica che, ciascun parlante possiede in varia misura, ha fornito modelli di descrizione formale della lingua indispensabili per affrontare lo studio analitico dei sottili e complicati meccanismi linguistici. Viceversa, la psicologia che, si è abitualmente occupata del comportamento umano, alla luce del quadro emotivo e mentale individuale, ha contribuito ad ascrivere alla psicologia del linguaggio i modelli di analisi sulla percezione e produzione linguistica, entro il più ampio orizzonte dei problemi inerenti i processi cognitivi di base e i comportamenti ad essi correlati. Muovendo, dunque, dalla considerazione che il processo reale di produzione e comprensione delle frasi è condizionato da variabili psicologiche che, influenzano e modificano le predizioni basate, su un modello di pura competenza, proposto dai linguisti, la psicolinguistica rivolge la sua ricerca all’individuazione dei processi mentali e delle conoscenze individuali, attraverso cui, la competenza dei linguisti, viene acquisita e tradotta nell’uso del linguaggio. La psicologia del linguaggio ha risentito fortemente dello strutturalismo linguistico, soprattutto di quella grande dicotomia che Saussure stabilisce tra “langue” e “parole”. Per il linguista ginevrino la “langue”, è il sistema di segni, condiviso da una certa comunità di parlanti, il quale è per sua natura, standard, arbitrario ed astratto e rappresenta una struttura che muta molto lentamente nel tempo. La “parole”, invece, è l’esecuzione o l’uso del sistema di segni nella comunicazione. Il carattere individuale della “parole” è opposto al carattere sociale della langue, mentre la “parole” rappresenta un atto linguistico concreto, materiale e contingente, prodotto dell’intelligenza e della volontà. La langue viene “registrata passivamente” dal soggetto che l’apprende, imparando una lingua, vale a dire che ciascun parlante la “riceve in consegna” ed entra a far parte della comunità dei parlanti. In sostanza, con “langue”, il linguista indica il complesso delle regole e degli elementi che caratterizzano una lingua strutturalmente intesa, in un preciso stato della sua storia evolutiva. Questa, in ogni caso, può essere usata in molti modi e contiene una pluralità di potenzialità che, però, devono sempre essere compatibili con la sua struttura di fondo. Tali potenzialità passano, concretamente in atto, grazie alla “parole”, ovvero attraverso l’uso individuale di un prodotto sociale che, se ripetuto e condiviso da un numero 87

crescente di parlanti, può quasi prefigurare una nuova regola che si assorbe nella langue e determina un continuo aggiustamento interno della sua funzionalità strutturale. Nonostante lo strutturalismo abbia difeso, in sede teorica generale, l’autonomia della linguistica dalla psicologia, esso ha contribuito alla impostazione teorico-pragmatica della psicolinguistica del primo periodo saldandosi, tramite il behaviorismo, con l’orientamento del comportamentismo e dell’associazionismo dominante la psicologia dell’epoca. Negli anni in cui si fonda la psicolinguistica, viene pubblicato un testo, il Verbal Behavior di Skinner del 1957, che contiene quella che si può definire la teoria psicologica del linguaggio più completa di quegli anni, la cui elaborazione realizza la saldatura tra comportamentismo, in campo psicologico e strutturalismo in campo linguistico, che è appunto all’origine della psicolinguistica. Il comportamentismo basa la sua ricerca sulla possibilità di studiare e spiegare il comportamento attraverso l’osservazione e la sperimentazione; il comportamento non è altro che il modo con cui l’individuo, con la sua disposizione, reagisce agli stimoli esterni. Lo studio del comportamento permette di comprendere le relazioni ed il rapporto causale, esistenti tra gli stimoli e le risposte dell’organismo. Secondo il comportamentismo il significato di una parola è una risposta interna provocata dallo stimolo sonoro e visivo costituito dalla parola stessa, ed il vocabolario è, in pratica, un repertorio di risposte condizionate, ovvero apprese durante lo sviluppo, tramite la ripetuta associazione tra parola-oggetto e parola-situazione e relazionate a degli stimoli. Tali connessioni sono ripetute più volte nel corso dell’apprendimento e sono sottoposte ad un rinforzo proveniente dall’ambiente. Proprio Skinner ci fornisce, un esempio calzante di studio del linguaggio, secondo l’ottica del comportamentismo operante che spiega il comportamento umano in termini di risposte fisiologiche a stimoli esterni. Egli distingue i tipi di comportamento verbale in: mand, (comportamento controllato da particolari stati di pulsione quali comandi e domande); comportamento ecoico, (controllato da parole udite in

precedenza);

comportamento

testuale,

(controllato

da

stimoli

ortografici);

comportamento intra-verbale, (controllato da altri stimoli verbali); comportamenti d’uditorio, (controllati da variabili legate alla compresenza di un uditorio); comportamento tattile, (controllato da variabili oggettuali). Il linguaggio, per Skinner, non è altro che il comportamento di un oratore rinforzato dall’opera di mediazione di altre persone, gli ascoltatori, che sono stati condizionati proprio per rinforzare il comportamento. Due anni più tardi la comparsa del testo di Skinner, nel 1959, Chomsky, linguista americano, pubblica una recensione critica molto dura nei confronti del Verbal Behavior,

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condannando fortemente, i concetti di base in esso contenuti e le nozioni di stimolo, risposta, rinforzo. Chomsky critica, soprattutto, la convinzione, espressa da Skinner, secondo la quale il linguaggio non è altro che un tipo di comportamento, quello verbale, sottoposto agli stimoli ed ai rinforzi provenienti dall’esterno; tale prospettiva riduttiva implicherebbe che ad ambienti diversi facciano riscontro caratteristiche di linguaggio dissimili; al contrario, la regolarità che è osservabile nello sviluppo del linguaggio infantile non trova spiegazione limitando il problema del linguaggio ad una semplice interazione tra uomo e ambiente. Le caratteristiche del linguaggio, nei primi anni di vita, sono simili in tutti i bambini, pertanto l’esistenza di una predisposizione all’acquisizione del linguaggio è innata nell’uomo, si manifesta fin dalla nascita ed è indipendente dall’ambiente. Il linguaggio per Chomsky, non è basato su associazioni rinforzate da premi e punizioni, bensì sull’elaborazione di regole e sull’esistenza di regole fondamentali innate, che corrispondono alla nostra capacità innata di acquisire il linguaggio. Solo partendo da questo presupposto, possiamo spiegare il rapido apprendimento della lingua e l’esistenza di universali linguistici. L’articolo di Chomsky segna il passaggio ad una nuova fase della psicolinguistica, in cui essa adotterà la posizione della linguistica generativa, mentre, in campo psicologico, si va affermando un nuovo orientamento, quello cognitivista, ossia una corrente della psicologia che studia principalmente i meccanismi, attraverso cui l’uomo acquisisce, informazioni e conoscenze e si comporta nell’ambiente a partire da queste stesse conoscenze. Il principale oggetto di studi è la mente, intesa come sistema complesso di regole, indipendente dai fattori biologici o dai fattori sociali e culturali. Il cognitivismo analizza, soprattutto, i processi mentali, ritenendo che la mente organizzi le informazioni, operando sui dati di cui dispone, secondo delle complesse serie di sequenze, di processi cognitivi considerati in parte innati e in parte appresi dall’esperienza. Per la scienza cognitiva, comprendere ciò che avviene nella scatola nera, tra lo stimolo e la risposta, è alla base per capire come il comportamento umano sia regolato da un meccanismo di retroazione, chiamato TOTE (test-operate, test-exit), che rappresenta il procedimento con cui si realizza un’azione. Oltre allo studio della memoria e delle immagini mentali, il cognitivismo si è occupato di altri aspetti della mente umana, quali la formazione dei concetti, del linguaggio e il rapporto tra pensiero e linguaggio. Si sono dovuti creare dei modelli in grado di evidenziare se il processo avviene dal basso, cioè dai dati verso le categorie, o dall’alto. Per esempio, si è visto che noi riconosciamo la parola prima dei caratteri. Con ciò il cognitivismo conferma la teoria della psicologia della Gestalt, che

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sostiene che noi abbiamo un processo in cui, la globalità interviene nel riconoscimento delle parti. Il cognitivismo suppone che i processi di elaborazione dell’informazione non siano consapevoli, cioè che noi non siamo in grado di conoscere le regole mediante le quali elaboriamo le informazioni in entrata nel nostro sistema conoscitivo. Gran parte dei processi cognitivi sono di tipo inconscio, sono cioè processi “silenti o taciti”. La mente è, dunque, un elaboratore di rappresentazioni e per questo motivo il computer, un sistema che elabora trasforma e lavora con simboli e strutture simboliche, è stato usato come modello della mente umana. Il soggetto, per i cognitivisti, è un attivo costruttore delle sue conoscenze. L’acquisizione di nuove informazioni produce una modificazione di quelle già possedute, nel senso che, ogni volta che il soggetto impara qualcosa di nuovo, modifica le sue strutture concettuali, riorganizzando le sue conoscenze, ma anche le procedure atte a padroneggiarle e a utilizzarle. I campi d’indagine, attuali della psicolinguistica contemporanea sono riassumibili a quattro: la comprensione (riconoscimento di parole, comprensione di parole, frasi, testi e discorsi); la produzione del linguaggio; lo sviluppo (origine del linguaggio, fasi di sviluppo dal preverbale al verbale); la patologia (afasia, dislessia) grazie anche ai contributi dati dalle neuroscenze. Anche la filosofia del linguaggio che, s’interroga, in modo prioritario, sulla “natura” e sulla funzione del linguaggio, ha esercitato alcune influenze sulla psicologia del linguaggio. Gli psicologi hanno, costantemente insistito, sulla cosiddetta “mediazione verbale” per la quale, tra un atto intellettivo ed un altro, c’è sempre il filtro del linguaggio in una dinamica in cui, il possesso degli opportuni strumenti linguisticoconcettuali, è il pre-requisito per lo sviluppo ed il potenziamento della attività cognitiva. Partendo da questa idea, non ci si può non soffermare su un filosofo come Wittgenstein che, con le sue riflessioni sul linguaggio, prende le distanze dalla psicologia e nello stesso tempo enuncia dei principi-aggancio tra filosofia del linguaggio e psicologia del linguaggio. La nozione di gioco linguistico è legata all’idea che il significato della parola risieda nel suo uso. Wittgenstein utilizza l’idea del gioco, per spiegare le regole del linguaggio; così come un qualsiasi gioco viene è appreso nel momento delle pratica, analogamente si apprendono le regole di un’azione linguistica solo “giocando”, cioè praticando il linguaggio. L’idea è che, la gente agisce con le parole, che le parole, l’uso delle parole sia una parte della vita umana e che il modo in cui gli uomini le usano distingue aree differenti. Un gioco linguistico è quindi una parte del linguaggio usato nella vita, o un modello semplificato di una parte del linguaggio, un modello usato a scopo illustrativo. 90

Parlare un linguaggio è un’attività, una pratica. Si tratta, inoltre, di una pratica acquisita, di una pratica che si apprende, parlare un linguaggio è una forma di abilità. Per acquisire tale competenza è assolutamente necessario applicare, la parola - se si tratta di abilità nell’uso di una particolare parola, più di una volta. Chiunque sostenga di aver acquisito una certa perizia, in un’unica occasione, fa un’affermazione priva di senso, l’intero concetto dell’acquisire un’abilità e del mantenerla implica una pluralità di occasioni”. Nessuno è nato con la capacità di avere competenza in merito a qualcosa senza prima averla acquisita con l’uso della pratica; lo stesso avviene con il linguaggio. Chiariti i rapporti interdisciplinari che legano la psicologia del linguaggio alle altre scienze che studiano la materia, siamo entrati più nel dettaglio della comunicazione linguistica. Analisi, non poteva prescindere da una “zoommata” sui principi che hanno fondato la linguistica strutturalista. Innanzitutto, abbiamo chiarito come, fino alla fine dell’ottocento, sia prevalsa una linguistica di tipo comparativa orientata verso lo studio storico della lingua, mentre nel novecento, e in particolare grazie all’opera di Franz Boas, Ferdinand de Saussure e la scuola linguistica di Praga, la disciplina abbia adottato un approccio sincronico alla studio del linguaggio. Negli Stati Uniti, Franz Boas e Edward Sapir, nell’ambito della linguistica descrittiva, hanno applicato raffinate metodologie per identificare i suoni o le unità grammaticali delle lingue prive di tradizione scritta, in modo da giungere a una descrizione scientifica dei vari linguaggi. Basandosi sul loro lavoro, Leonard Bloomfield, ha proposto un’analisi comportamentale del linguaggio, che ha evitato il più possibile considerazioni semantiche, ossia sul significato. In relazione a questo tipo di ricerche e contro alcune affermazioni radicali e discutibili degli allievi di Bloomfield, Noam Chomsky, ha elaborato la grammatica generativa che, distingue una «struttura profonda» dei fatti linguistici e una «struttura superficiale» in cui la prima si trasforma nell’organizzazione sintattica del parlare concreto. In Europa, invece, la riflessione, iniziata nel 1816 con Saussure, considerato, a tutti gli effetti il padre dello Strutturalismo e della linguistica sincronica e della scuola di Praga, non ha dato origine a una corrente linguistica unitaria. Si sono, infatti, sviluppati molteplici interessi ed orientamenti diversi. La scuola glossematica di Copenaghen, ad esempio, rappresentata da Louis Trolle Hjemlslev e Viggo Brøndal, viene ricordata per il rigore formale e la sua coerente impostazione concettuale e le sue applicazioni nel campo della semiologia, il funzionalismo, di André Martinet e di Michael Halliday, è un orientamento che pone l’accento sulla funzione comunicativa della lingua e sul ruolo del parlante. Proprio la posizione assunta da Martinet, pur mantenendo l’impostazione saussuriana che concepisce il momento del singolo atto locutorio come, l’unico istante reale della 91

“langue”, propone di cambiare i termini del problema, pensando alla diacronia, come ad una sommatoria d’infiniti istanti sincronici, di fatto non isolabili, se non astraendoli per comodità di studio, dato che nella realtà sono sempre immersi nel fluire della diacronia. Con questo approccio (a volte detto “sincronia nella diacronia”) i capisaldi del pensiero saussuriano: il “sistema” e “la sua struttura sincronica” restano intatti, ma si aprono nuove porte per lo studio del mutamento linguistico in termini funzionalistici e strutturali. Una soluzione più radicale è invece quella avanzata, in anni più recenti, dalla teoria della grammaticalizzazione, proposta da vari studiosi tra cui Elisabeth Traugott e Paul Hopper. Questa dottrina riconosce concretezza, solo alla diacronia, negando, di fatto, l’esistenza di una “langue” sincronica. In questo modo viene a cadere il concetto di lingua come sistema e si dissolve lo strutturalismo in una sorta di teleologismo generale (esistono solo processi). Il merito più grande ascrivibile a de Saussure è quello di aver passato al vaglio tutte le caratteristiche del segno linguistico. Il segno linguistico è un’unità inscindibile composta da due facce: significato e significante. Il sistema lingua si estrinseca in strutture, cioè in disposizioni, configurazioni di segni, secondo le leggi particolari di quella determinata lingua. In ogni segno il rapporto tra il suo contenuto e la sua forma espressiva è del tutto arbitrario, semplice frutto di una convenzione. Questo significa che, il segno linguistico, non è determinato da relazioni necessarie di causa ed effetto e non è “motivato” da alcun rapporto di somiglianza. L’arbitrarietà caratterizza ogni livello della lingua dal fonetico al semantico, non esiste, infatti, una corrispondenza biunivoca tra due o più concetti in lingue diverse. Oltre all’arbitrarietà Saussure attribuisce, al segno linguistico, la caratteristica della convenzionalità, intesa come il consenso accordato da una comunità di parlanti circa l’uso di un segno linguistico. Complessità e discrezionalità sono altri due elementi distintivi del segno. I segni, infatti, sono unità discrete, tanto al loro interno (articolazione), quanto rispetto agli altri segni con cui si posizionano in occorrenza in un determinato contesto. La composizionalità del segno è, dunque, intesa come la capacità di ogni elemento linguistico di mettersi in relazione con gli altri, diventando esso stesso una parte discreta di un sistema di segni il cui significato è dato dalla somma del significato delle sue parti. Quando definiamo il segno unità discreta, intendiamo dire che, esso è scomponibile in parti tra loro chiaramente separate che si posizionano in modo lineare tra loro. Parliamo, dunque, di doppia articolazione del linguaggio, tanto a livello di definizione concettuale che di segmentazione fonologica. Più parole, combinate tra loro possono formare un sintagma, una frase, ecc. Le caratteristiche illustrate, di fatto compongono, il segno e agiscono in modo sistematico sul sistema coerente di funzioni della lingua che si regge su due tipi 92

diversi di rapporti, rispettivamente sintagmatici e paradigmatici. I primi si fondano sulla linearità del segni linguistici, pensiamo ad esempio a come le parole all’interno della frase si dispongono, si associano e si relazionano reciprocamente, originando significati di senso compiuto. I rapporti paradigmatici, invece, sono astratti e uniscono dei termini in “una serie mnemonica virtuale”, in altre parole sono la struttura grammaticale della “langue”. Dalla linguistica, siamo passati ad un ulteriore approfondimento del modello generativo trasformazionale di Chomsky, per meglio comprendere, come il modello abbia influito sulla psicologia, ed abbia fornito la base teorica e programmatica delle ricerche psicolinguistiche fino agli anni ‘70, e come sia stato significativo, per lo sviluppo degli studi in psicolinguistica, l’incontro della teoria chomskiana con il cognitivismo. Per Chomsky, il compito di una descrizione linguistica adeguata, è quello di costruire una grammatica “predittiva” che a partire dalle unità della lingua, considerate come un numero finito di elementi, permetta di costruire un insieme aperto di frasi grammaticalmente accettabili. Le frasi della lingua e l’intuizione del parlante, rappresentano i dati empirici, su cui fondare la formulazione e la verifica del modello. Una delle tesi più importanti, elaborate dall’autore, è relativa alla distinzione tra “competenza” (competence) ed “esecuzione” (performance) linguistica. Con la prima, si riferisce alla capacità che ogni parlante possiede di comprendere e produrre potenzialmente tutte le frasi di una lingua, le quali costituiscono un insieme tecnicamente infinito; con la seconda, allude all’uso, che della lingua fa il parlante, al modo in cui la competenza, capacità potenziale e innata, viene messa in atto nella produzione linguistica. L’autore opera una distinzione tra strutture superficiali, che vengono espresse dalle singole frasi prodotte da regole generative che cambiano da lingua a lingua, e strutture profonde, che rappresentano il contenuto dell’intenzione comunicativa del parlante, astratte e tendenzialmente universali. La componente sintattica è quella fondamentale, in quanto permette al parlante di associare le catene foniche ai significati e viceversa, e quindi di fondare la competenza linguistica. Il passaggio dalle strutture profonde a quelle superficiali, ovvero dal livello astratto delle informazioni semantiche, al livello concreto della produzione di frasi, avviene attraverso alcune

regole

di

trasformazione.

La

componente

fonologica

assegna

una

rappresentazione fonetica alle strutture superficiali, la componente semantica assegna una rappresentazione semantica alle strutture profonde. L’orientamento teorico cognitivista, disposto a riconoscere la complessa attività mentale, solo in parte osservabile nel comportamento esterno, considera con favore le nuove idee introdotte dalla grammatica generativo-trasformazionale e mostra interesse per le ipotesi 93

chomskiane sulla complessa struttura sottostante alle frasi e sulle fasi di formazione di queste, sottostanti al comportamento linguistico osservabile. Feconde possibilità di ricerca in campo psicologico offre, infatti, una linguistica che, considera il linguaggio come una competenza contenuta nella mente di ciascun individuo e la sintassi un processo dinamico fondato su combinazioni di regole. Intorno al 1960 dunque, sia in linguistica, che in psicologia le condizioni della ricerca sono tali, da consentire una svolta significativa al corso dell’evoluzione della psicolinguistica. L’analisi dell’acquisizione del linguaggio nei bambini, alla luce dei modelli generativotrasformazionali, si è rivolta a stabilire, se è possibile intravedere all’interno delle frasi prodotte dai bambini di uno-due anni, una qualche forma di struttura sintagmatica, seppure in nuce. Per Slobin il punto focale sta nel fatto che, il bambino ha, già, un sistema proprio che non può essere, semplicemente, considerato una copia della sintassi dell’adulto. L’esistenza di una struttura profonda nel linguaggio del bambino sembra difficilmente riconoscibile così come la distinzione tra livello superficiale e livello profondo, data la semplicità delle frasi infantili. Mc Neil, a questo proposito, sostiene l’ipotesi, che il bambino nell’apprendimento linguistico, è guidato da una conoscenza implicita delle relazioni grammaticali della struttura profonda, che vengono, direttamente, manifestate nelle sue frasi. Solo in seguito, il bambino impara ad applicare le regole di trasformazione consapevolmente, poiché esse rappresentano un’acquisizione sintattica più evoluta. I limiti di tale approccio sono identificabili, in fondo, in quelli riconoscibili nella linguistica stessa: la frase è l’unità comunicativa più ampia considerata, a discapito di unità più grandi, tipo i discorsi e le conversazioni e viene trascurata l’analisi del contesto situazionale entro cui si colloca l’enunciazione della frase, del contesto linguistico ed extra-linguistico. Sul piano metodologico le strade percorse sono due, da una parte, la sperimentazione in laboratorio tesa a misurare il grado di comprensione e di ricordo delle frasi, dall’altra l’osservazione dello sviluppo linguistico del bambino. Per approfondire lo studio del rapporto tra funzione cognitiva e funzione verbale nel quadro evolutivo infantile, non si può non fare almeno un breve accenno, alle conclusioni scientifiche di tre fondamentali studiosi contemporanei quali B.F.Skinner, J.Piaget e L.S.Vygotskij. Al modello mentalista di chomsky si oppone quello comportamentista di Skinner. Egli prende le distanze dal pensiero di Chomsky, in cui prevalgono le regole della grammatica internalizzata che consentono di capire una nuova frase, sostenendo che nel linguaggio dominano le entità non intenzionali di stimolo e risposta. Dare una spiegazione del 94

comportamento, presupponendo che a provocarlo siano sentimenti, sensazioni, stati d’animo e in genere, “eventi mentali”, non può rispondere a criteri scientifici e oggettivi, perché questi fattori non sono osservabili e non possono essere oggetto di verifica sperimentale. È necessario allora evitare il “mentalismo” e considerare solo i dati osservabili, dirigendo l’attenzione sul ruolo dell’ambiente. Per Skinner, dunque, una persona apprende il linguaggio in modo simile a quello con cui apprende ogni altro tipo di comportamento, per mezzo del rinforzo e dell’osservazione. L’apprendimento linguistico del bambino si lega ad un’attività di tipo motorio. In particolare, i bambini costruiscono i significati delle parole, non come categorie astratte, ma come se fossero delle vere e proprie etichette associate ad oggetti o situazioni reali. Al contrario, Piaget prende le distanze, sia dall’empirismo comportamentista, sia dall’innatismo chomskiano. L’intelligenza umana, a suo giudizio, non è plasmata dall’ambiente esterno, né preesiste fin dalla nascita alle varie esperienze. Essa, piuttosto, si autocostruisce dall’interno, in un processo che assicura un equilibrio sempre più stabile dell’organismo umano nei confronti dell’ambiente esterno. L’approccio cognitivo al linguaggio di Jean Piaget, è quello che ha portato, alle estreme conseguenze, la consapevolezza del carattere, non esclusivamente linguistico, ma più generalmente cognitivo ed operativo, non solo della comprensione di enunciati e testi linguistici, ma anche della produzione linguistica e dell’intera facoltà del linguaggio. In effetti, per Piaget, il linguaggio è un vero e proprio ostacolo epistemologico che si estende dall’apparizione delle prime olofrasi, sino all’emergenza delle strutture operatorie del pensiero ipotetico-deduttivo. L’apparizione del linguaggio costringerà il bambino a ripetere, per ogni operazione logica, tutte le peripezie che, per il suo apprendimento, avevano avuto luogo sul piano dell’azione. Per Piaget, il bambino sviluppa inizialmente, come presupposto base per l’acquisizione del linguaggio, la facoltà di rappresentarsi mentalmente le azioni, solo dopo i due anni, raggiungendo il sottostadio della rappresentazione simbolica, “con il gioco del far finta”, comincia ad usare un oggetto per rappresentarne un altro. In seguito a ciò egli incomincia a mettere insieme i fonemi per formare una parola che, a sua volta, rappresenta qualcos’altro. Piaget non ritiene che il linguaggio sia un prerequisito per lo sviluppo del pensiero, ma solamente che tra il pensiero e il linguaggio esiste una circolarità genetica in cui nessuna funzione è causa o effetto dell’altra. L’appoggio reciproco è necessario perché il pensiero ed il linguaggio dipendono dall’intelligenza che, è comunque, anteriore al linguaggio. Nel periodo preoperatorio, in cui le attività del pensiero del bambino sono di tipo egocentrico, anche il 95

linguaggio ha caratteristiche egocentriche e sincretiche (globale), è caratteristica di questo il fatto che da un punto di vista linguistico manchino rapporti sintattici tra i componenti della frase. Il linguaggio diventa socializzato, solo quando, il pensiero acquista la caratteristica di reversibilità e consente il decentramento cognitivo, nel senso che il bambino dimostra di aver capito che esistono, oltre al suo, altri punti di vista, che non bisogna trascurare ai fini della comprensione reciproca. Vygotsky, invece, sostiene che la funzione primaria del linguaggio -nei bambini e negli adulti- è la comunicazione. Il primo linguaggio è quello sociale (globale e plurifunzionale), solo in seguito le funzioni si differenziano, cioè si egocentrizzano, permettendo allo sviluppo del pensiero e del linguaggio d’interiorizzarsi. In altre parole, ad una certa età, il linguaggio diventa anche egocentrico,

ma

resta

sociale,

poiché

l’egocentrismo

rappresenta

soltanto

un’interiorizzazione di forme di comportamenti sociali. Nell’adulto c’è il linguaggio interiore (linguaggio egocentrico in profondità), che si sviluppa all’inizio dell’età scolare. L’egocentrismo, quindi, è quella molla che permette di non essere soffocati dal conformismo sociale, per sua natura ripetitivo. Per Vygotskij, dunque, nella fase iniziale della vita del bambino, non c’è alcun legame tra pensiero e linguaggio e nessun rapporto di reciproca dipendenza. La relazione tra questi si crea, soltanto, durante lo sviluppo della coscienza. In particolare, Il linguaggio durante la crescita viene a determinare maggiormente i contenuti del pensiero, proprio per l’importanza sociale della trasmissione delle conoscenze. Il linguaggio ed il pensiero che, originariamente erano indipendenti, finiscono, così, per integrarsi in un processo d’interazione reciproca. La teoria degli atti linguistici si basa sul presupposto che, con un enunciato non si possa solo descrivere il contenuto o sostenerne la veridicità, ma che la maggior parte degli enunciati servano a compiere delle vere e proprie azioni in ambito comunicativo, per esercitare un particolare influsso sul mondo circostante. L’anno di nascita della teoria degli atti linguistici, nella filosofia analitica anglosassone, può essere considerato il 1955, in cui John Langshaw Austin tenne una lezione all’università di Harvard dal titolo “How to do things with words”, che tuttavia fu pubblicata postuma nel 1962. Per Austin è essenziale lo studio delle funzioni, cioè degli usi linguistici. Ogni parola o proposizione ha, infatti, più usi, ciascuno dei quali va considerato distintamente. La tesi di Austin è che si debba evidenziare, non solo il carattere descrittivo del linguaggio, ma anche quello operativo. Egli parla, quindi, della necessità di valorizzare, adeguatamente, la funzione di prestazione (“performance”) del linguaggio, quella, cioè, nella quale esso si configura come un fare, legato all’azione, all’esecuzione di atti. Austin distingue, così, gli “enunciati constativi” dagli “enunciati performativi” o operativi: gli enunciati constativi 96

constatano dei fatti e come tali li descrivono; gli enunciati performativi compiono azioni e, in tal modo, tendono a realizzare modifiche nella situazione esistente. I primi possono essere veri o falsi, i secondi possono essere efficaci o inefficaci, cioè avere o non avere successo, realizzarsi o meno, senza che ci si debba chiedere se siano veri o falsi. Essi non descrivono un evento o un’azione, ma servono proprio a compiere quell’azione. Successivamente, Austin accantona tale distinzione e sviluppa la tesi della funzione operativa-attiva, del linguaggio mediante una teoria degli atti linguistici, secondo la quale ogni espressione linguistica è un atto: anche l’enunciato ritenuto constativo è un’azione (ad esempio, dire “domani vado a…” equivale ad un impegno, a un atto, è enunciazione performativa e non solo indicativa e descrittiva. Un atto linguistico consta di quattro parti: locuzione (struttura ed enunciato); proposizione (giudizio sul mondo); Illocuzione (obiettivo); perlocuzione (effetto desiderato). Egli distingue tre possibili e distinti aspetti di un atto linguistico, entro i quali classifica gli enunciati inizialmente descritti come constativi e performativi: 1.

l’atto locativo, è quello con cui si dice qualcosa dotato di significato (ad esempio, “quella porta è aperta”) e può essere studiato dal punto di vista fonetico, lessicale o grammaticale;

2.

l’atto illocutivo, è un atto effettuato col dire qualcosa: esso, oltre a informare, constatando una data realtà (ad esempio, il fatto che quella porta sia effettivamente aperta), può contenere un’esclamazione, una preghiera o un suggerimento (ad esempio, chiudi quella porta! o ti prego di chiudere la porta). L’atto illocutivo ha quindi una forza collegata alla reale intenzione di chi compie quell’atto linguistico;

3.

l’atto perlocutivo, è l’atto compiuto per il fatto di dire qualcosa, quello per cui si raccoglie il suggerimento (o comando, invito, ecc.) implicito in quell’atto “illocutorio” e si esegue ciò che viene suggerito (si chiude, cioè, la porta). Mette in evidenza l’interattività costitutiva del linguaggio, cioè gli effetti sugli interlocutori che l’atto linguistico determina.

Nell’ultima parte dell’unità didattica ci siamo occupati dell’acquisizione della competenza comunicativa. Siamo partititi dal processo di comprensione del linguaggio che avviene gradualmente per fasi. Inizialmente, si cominciano a riconoscere i suoni del linguaggio, poi le parole, le frasi fino alla comprensione del testo che, rappresenta la parte più complessa del processo. Riassumendo, si potrebbe dire, che nella comprensione del 97

linguaggio, a partire dai suoni della lingua, noi creiamo delle unità chiamate parole che, combinate in frasi, ci forniscono la possibilità di comprendere il significato di ciò che ci viene detto. La produzione linguistica, è più complessa da studiare, può essere definita come un processo inverso a quello della comprensione, in cui il nostro pensiero, le nostre idee guidano la formazione delle frasi, delle parole, e dei fonemi per rendere comprensibile ciò che vogliamo comunicare. Abbiamo anche visto, come lo sviluppo del linguaggio, vada di pari passo con lo sviluppo mentale e psicologico del bambino. Rimandiamo direttamente al paragrafo 6.3 dell’unità dove in uno schema riassuntivo è possibile seguire il processo delle diverse fasi. Lo studioso Lennenberg individua nei primi 2/3 anni, il periodo di massima attitudine all’apprendimento verbale, indipendentemente dalla complessità del codice. È importante ricordare che, la progressione dello sviluppo del linguaggio si configura per periodi o stadi, che gradualmente precisano e differenziano gli elementi fonologici, morfologici, semantici e sintattici. Tale disponibilità, legata anche alla plasticità neuropsicologica del bambino, decresce gradualmente con il passare del tempo. L’accesso a strutture fonologiche e sintattiche, tipiche del linguaggio umano, è precluso dal limite segnato dall’epoca della maturità sessuale, laddove invece l’espansione del vocabolario procede per l’intero arco della vita. Siamo poi passati, ad analizzare i processi cognitivi e metacognitivi del linguaggio e abbiamo visto come per controllare i principali processi cognitivi implicati nell’elaborazione del linguaggio è utile far riferimento al modello “HIP Human Information Processing”, nato nell’ambito del cognitivismo, agli inizi degli anni settanta, che considera l’uomo come elaboratore d’informazione. I processi cognitivi vengono indagati partendo dall’analogia tra mente e computer. In questo modo lo stimolo fisico (input) è trasformato dal sistema competente ( visivo, auditivo, olfattivo, gustativo, tattile) in stimolo sensoriale e tradotto in registro sensoriale che permette il mantenimento dell’informazione anche dopo la fine della stimolazione. A questo punto, se l’informazione è considerata importante, verrà ulteriormente elaborata fino al suo riconoscimento percettivo, che si fonda sul confronto fra quanto acquisito e le conoscenze pregresse immagazzinate nella memoria a lungo termine. Pertanto, lo stimolo una volta elaborato, o verrà perso o sarà depositato nella memoria a breve termine che ha, invece, una capacità di mantenimento limitata. Il passaggio dal magazzino di memoria a breve termine, a quello a lungo termine, consente la conservazione illimitata delle informazioni. L’integrazione tra vecchi e nuovi dati consentirà di allargare il patrimonio delle conoscenze già esistenti. Tra i fattori metacognitivi del linguaggio l’attenzione e la concentrazione sono elementi di fondamentale

importanza.

La

concentrazione 98

determina

la

comprensione

o

l’incomprensione di qualsiasi cosa; rappresenta la facoltà di mantenere lontani, durante la fase dell’ascolto e dell’apprendimento, pensieri distraesti, emozioni e situazioni non attinenti a quel determinato contesto. L’attenzione è, invece, la capacità di focalizzare la percezione, aumentando la consapevolezza verso alcuni stimoli e scartandone automaticamente altri. Possiamo considerare l’attenzione come un’abilità che presiede e regola i processi cognitivi dell’uomo. Anche la memoria rappresenta un fattore fondamentale per lo sviluppo della competenza comunicativa. È quella funzione che ci consente di conservare, recuperare e codificare all’occorrenza le informazioni tratte dalla nostra esperienza quotidiana. Essa è composta da due sistemi complessi interconnessi tra loro: - la memoria a breve termine (MBT); - la memoria a lungo termine (MLT). Nel primo sistema sono raccolte e conservate tutte quelle informazioni che servono momentaneamente (il numero di telefono letto sull’elenco, l’ultima frase di un discorso, il nome di una persona sconosciuta che ci viene appena presentata; nel secondo sistema, invece, vengono immagazzinate tutte quelle informazioni, relativamente stabili e continuamente accessibili nello svolgimento delle attività quotidiane (il nostro numero di telefono, il lessico della nostra lingua, il nostro nome, ecc.). Il linguaggio dovrebbe, ragionevolmente, essere depositato nella memoria a lungo termine. In realtà, quando si parla di “memoria” intendiamo, in effetti, molte strutture diverse e il linguaggio è in relazione solo con alcune di queste. il linguaggio è situato nella memoria dichiarativa, più precisamente in quel suo sottotipo che è la “conoscenza semantica”, in base alla quale, ad esempio, uno ricorda il significato delle parole o le tabelline aritmetiche, ma non quando le ha imparate. Le aree del cervello coinvolte dall’attività linguistica sono essenzialmente due: nell’adulto, di solito, sono localizzate nel solo emisfero sinistro, anche se questa “lateralizzazione” non è assoluta, mentre nel bambino sono coinvolti entrambi gli emisferi e solo gradualmente si specializza il sinistro. L’area di Broca, vicina alle zone “motorie” della corteccia cerebrale deputate al funzionamento dei muscoli dell’apparato fonatorio (la lingua), controlla la coordinazione di questi muscoli nel parlato. L’area di Wernicke, invece, più vicina alle aree che ricevono gli stimoli acustici (Herschel gyrus) e che le connettono (angular gyrus) con le aree della visione (corteccia visiva), regola l’elaborazione semantica. Baddeley, uno dei maggiori studiosi al mondo di memoria, ha proposto al posto di un modello unitario di memoria, uno a due dimensioni (modello di memoria di lavoro), controllato da un sistema esecutivo centrale dipendente dalle capacità attentive limitate. Questo sistema di controllo opera su due dati provenienti da due servo-sistemi, uno adoperato per l’elaborazione e il mantenimento dell’informazione linguistica, che va sotto 99

il nome di loop articolatorio, l’altro implicato nell’elaborazione e nel mantenimento dell’informazione visuo-spaziale, denominato taccuino visuo-spaziale (visul spazial scatchpad). Il sistema di loop articolatorio si fonda su un magazzino di memoria che mantiene le tracce di materiale acustico e verbale per tempi brevissimi, (magazzino fonologico) e su un processo di articolazione sub vocale, che consente il consolidamento della traccia, attraverso la reiterazione, e la conversione di stimoli visivi nei loro corrispondenti verbali. Questa componente del modello della memoria di lavoro o memoria a breve termine è specializzata nell’elaborazione dell’informazione linguistica. L’altra componente della memoria di lavoro è costituita dal taccuino visuo-spaziale, il quale permette tanto la ripetizione temporanea delle caratteristiche visivo-spaziali delle informazioni in entrata, (come è scritta una parola e dove è collocata), quanto la visualizzazione e la manipolazione delle immagini mentali. La memoria contiene oltre alle informazioni verbali anche informazioni visivo-immaginative. La gran mole di ricerche, effettuate sulla relazione immaginazione/memoria, ha messo in luce gli effetti positivi dell’immaginazione sul ricordo. In estrema sintesi, i risultati di questi studi hanno provato che, il materiale verbale (parole, frasi, brani), facilmente immaginabile, ha una probabilità maggiore di essere ricordato; l’uso di immagini mentali, sia spontaneo o provocato, incrementa la prestazione mnestica (di ricordo). In sostanza, gli stimoli figurali sono più facili da ricordare perché attivano immediatamente una codifica per immagini (analogica); se l’oggetto è familiare, anche la codifica verbale, che attribuisce allo stimolo l’etichetta verbale, cioè il nome è rapida. In questo modo l’item viene codificato due volte: una dal sistema immaginativo e una dal sistema verbale. Questa teoria detta della doppia codifica, spiega perché le figure siano più facili da ricordare rispetto agli stimoli verbali e come questi si differenzino nel ricordo a seconda del loro valore d’immagine.

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GLOSSARIO ABILITÀ FONOLOGICA - uso dei suoni, vocali e consonanti, della nostra lingua. ABILITÀ GRAMMATICALE-SINTATTICA - utilizzo delle regole che permettono la costruzione della frase. ABILITÀ SEMANTICA - conoscenza del significato delle parole e delle frasi. ABILITÀ PRAGMATICA - utilizzo del linguaggio a fini relazionali. FONOLOGIA - Sezione della linguistica riguarda le regole di combinazione dei fonemi della lingua. Il sistema fonologico italiano comprende le vocali e le consonanti. FONETICA - Scienza che studia i tratti distintivi dei suoni che svolgono attività fonemica (in quanto mezzo fisico di comunicazione). FONEMA - Il fonema rappresenta la più piccola parte SONORA, in una successione di parole data, priva di significato, che combinandosi con altri fonemi realizzano le parole. Sostituito all’interno di una parola può mutare il significato della stessa. Nella lingua orale il fonema è costituito dalle onde sonore emesse da chi parla in vista del messaggio. Nella lingua scritta talvolta può non corrispondere ad una singola lettera (es. /c/ duro in italiano seguito dalla vocale e, che si scrive che). MORFOLOGIA - Sezione della linguistica studio le diverse modalità con cui si realizzano, anche in vista della loro funzionalità, le parole di una lingua. I fonemi che da soli non hanno significato, tranne che nei suoni vocalici (monosillabi a, e, i, o), combinandosi in sequenza formano morfemi, che rappresentano le più piccole unità linguistiche capaci di comunicare significati. SINTASSI - Si occupa delle regole di relazione tra le parole in vista della formazione di frasi, utilizzando sia l’ordine particolare delle parole che elementi particolari chiamati morfemi. Questi possono essere combinati (dando luogo alle desinenze) oppure isolati (congiunzioni, preposizioni, particelle con funzioni diverse). SEMANTICA -Ramo della linguistica che studia il significato dei simboli e dei loro raggruppamenti. Riguardo le lingue, studia il significato delle parole, delle frasi e dei singoli enunciati.

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VOCALE - Suono prodotto dall’emissione d’aria che non incontra occlusioni, ostacoli o restringimenti nel canale e nella cavità orale. Si realizzano vocali brevi, lunghe, vocali aperte, chiuse, vocali toniche, atone. Nella lingua italiana le vocali sono sette (e / o, possono avere un suono aperto o chiuso) ma i segni che le rappresentano sono cinque. CONSONANTE - La consonante (dal latino con-sonare) offre il suo suono ad un altro suono. Da un punto di vista fonetico è un suono (aperiodico, a differenza del suono periodico rappresentato dalla vocale) articolato dalla lingua che viene pronunziato col canale orale chiuso o semichiuso e che non può formare sillaba da solo (si contrappone alla vocale, che è sonorizzata con il canale orale aperto e può far sillaba da sola). EGOCENTRISMO - Nell’epistemologia genetica di J. Piaget è la caratteristica iniziale del pensiero infantile secondo cui il bambino non considera la possibilità di punti di vista diversi dal proprio. SINCRETISMO - SINCRETICO - Tendenza del pensiero infantile a percepire secondo una modalità globale dove il “tutto è legato al tutto” (Piaget). REALISMO - Caratteristica del pensiero infantile, nella visione piagetiana, di riconoscere come reale solamente ciò che è percepibile (presente ai sensi) e oggettivo.

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BIBLIOGRAFIA Per la consultazione dei testi si rinvia alla bibliografia, articolata per aree tematiche, sul sito http://www.bdp.it/bibl/aree.htm

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