Il Lavoratore Rtrovato. Nuova Edizione

  • Uploaded by: Gianpaolo Marioni
  • 0
  • 0
  • February 2021
  • PDF

This document was uploaded by user and they confirmed that they have the permission to share it. If you are author or own the copyright of this book, please report to us by using this DMCA report form. Report DMCA


Overview

Download & View Il Lavoratore Rtrovato. Nuova Edizione as PDF for free.

More details

  • Words: 115,811
  • Pages: 403
Loading documents preview...
Giorgio Benvenuto Intervista a cura di Antonio Maglie

IL LAVORATORE RITROVATO

La Crisi, il Sindacato, la Classe in cerca di identità

I Edizione: marzo 2013 II Edizione: maggio 2013 III Edizione: giugno 2013 © copyright 2013 Fondazione Bruno Buozzi via Sistina, 57 - 00187 Roma tel. 066798547 fax 066798845 www.fondazionebrunobuozzi.it e-mail: [email protected] per contattare gli autori: [email protected] [email protected] twitter: @giorgiobenvenut twitter: @FondBrunoBuozzi copertina: Marco Zeppieri editing e impaginazione: Marco Zeppieri finito di stampare nel giugno 2013 dalla Tipolitografia Empograph Villa Adriana (Roma)

da “Il Canto dei Lavorato ri” di Filippo Turati Su fratelli, su compagne, su, venite in fitta schiera: sulla libera bandiera splende il sol dell’avvenir. Nelle pene e nell’insulto ci stringemmo in mutuo patto, la gran causa del riscatto niun di noi vorrà tradir. Il riscatto del lavoro dei suoi figli opra sarà: o vivremo del lavoro o pugnando si morrà. ... Se divisi siam canaglia, stretti in fascio siam potenti; sono il nerbo delle genti quei che han braccio e che han cor. ...

Parte Prima l’Intervista

Il tempo passa, la sostanza non cambia: sacrifici per i soliti noti come li illustrava Chiappori

Introduzione

Era il 1971 quando Fred Uhlman, avvocato e pittore tedesco emigrato prima a Parigi, poi in Spagna e infine in Gran Bretagna, per sfuggire alle persecuzioni naziste, diede alle stampe una novella in lingua inglese: “L’amico ritrovato”. Un piccolo capolavoro, una storia significativa di un’epoca ma anche dei particolari equilibri che sovrintendono al mondo dei sentimenti. La storia ruota intorno ai destini di due giovani studenti di Stoccarda. Hans di origini ebree e Konradin rampollo dell’aristocrazia tedesca. Diventano amici per iniziativa più di Hans che di Konradin ma l’avvento del nazismo spinge il giovane ebreo ad abbandonare la Germania per trovare rifugio negli Stati Uniti. Al momento dei saluti, Konradin svela all’amico che lui, pur non essendo nazista, comunque avverte il fascino di Hitler. Molti anni dopo, a guerra finita, Hans riceve una lettera in cui viene sollecitato a partecipare all’edificazione di un monumento in memoria dei compagni di classe del liceo di Stoccarda morti durante la Seconda Guerra Mondiale. Con timore e curiosità scorre l’elenco delle vittime e ritrova il nome di Konradin: giustiziato per aver partecipato al complotto contro Hitler. In quel momento Hans, vivo, riannoda il filo dell’amicizia con la memoria dell’amico morto, dimenticando quel lontano saluto che lo aveva amareggiato e in qualche misura anche deluso. È un racconto che parla di identità, un racconto drammatico al pari dei tempi in cui è ambientato, ma con una vena ottimistica: ci si può ritrovare sempre e la realtà può assumere contorni imprevisti. Questo libro sul sindacato e sul mondo del lavoro sullo sfondo non ha una guerra, quantomeno non ha una guerra di quelle combattute con modalità cruente. La guerra di cui si parla e di cui i lavoratori sono vittime, si svolge su campi di battaglia silenziosi, discreti; l’unico vento che si avverte è quello dell’aria condizionata; gli unici rumori che si percepiscono sono quelli ovattati dei computer con i quali vengono ordinati movimenti di capitali da una banca a un’altra, da una istituzione finanziaria a un’altra, da un continente a un altro. Tutto al di sopra delle teste dei lavoratori che 7

IL LAVORATORE RITROVATO

avvertiranno gli effetti di questa guerra silenziosa solo quando verrà loro presentato il conto sotto forma di cassa integrazione o di mobilità o di improvviso licenziamento. È la guerra del capitalismo finanziario: si svolge sulle macerie di un sistema economico che si basava sulla creazione e sulla vendita di un oggetto (un bullone, una saponetta, una radio portatile) e che ha scoperto, non proprio all’improvviso, che è molto più facile, agevole e veloce “fare soldi con i soldi”, come dice il protagonista del film “9 settimane e mezzo”. Una vera e propria mutazione genetica che ne ha prodotto altre, che ha reso tutto più incerto, impalpabile, scarsamente identificabile: “derivati” al posto di fabbriche, manager al posto dei datori di lavoro. Anche questo, insomma, è un libro su una identità perduta e che potrebbe essere ritrovata. Quella vecchia novella di Fred Uhlman ci ha ispirato il titolo anche, e soprattutto, per il risvolto positivo finale: gli amici che, comunque si ritrovano. Questa lunga chiacchierata nasce proprio dal bisogno di capire se quei lavoratori sono ancora una classe e se quella classe ha ancora una lotta di classe da combattere contro le sfrenatezze di un liberismo che ha travolto le regole, aumentato le diseguaglianze, polarizzato la ricchezza come raccontano le analisi ufficiali che attribuiscono nel nostro Paese il 46 per cento della ricchezza nazionale al 10 per cento della popolazione. Un bisogno ispirato da un libro del professor Luciano Gallino: “La lotta di classe dopo la lotta di classe”. La tesi proposta è affascinante e in buona misura condivisibile. Nella lotta di classe c’è stata una inversione di ruoli. Negli anni Sessanta e Settanta, quelli che culminarono nell’Autunno Caldo e portarono al varo dello Statuto dei Lavoratori, la facevano gli operai, cioè una categoria sociale meno favorita, nei confronti dei capitalisti, la categoria più favorita. La facevano per conquistare benefici che erano stati negati o mal distribuiti attraverso il Miracolo Economico, per ottenere il riconoscimento di basilari diritti, per riaffermare principi di dignità. Adesso, al contrario, la lotta di classe la fanno le categorie agiate per conquistare spazi di privilegio sempre più ampi e più remunerativi. I numeri confermano questa tesi: la distribuzione sempre più sperequata della ricchezza, quell’uno per cento contro cui puntavano il dito a Zuccotti Park i manifestanti di Occupy Wall Street, il fatto che oggi un manager può percepire un salario quattrocento volte superiore a quello di un impiegato della sua azienda quando, invece, negli anni Sessanta si arrivava al massimo a una trentina di volte. Non è solo una questione di soldi, ma anche di visibilità, di rilevanza politica. Il mondo del lavoro

8

INTRODUZIONE

da centrale nel dibattito dei partiti è diventato periferico; persino le forze politiche di sinistra parlano con sempre maggiore circospezione di una classe che ha cambiato l’Italia sul finire degli anni Sessanta ma che oggi viene percepita quasi come uno scomodo reperto archeologico da osservare nelle foto d’epoca ma da non frequentare con assiduità perché questa frequentazione può portare a una rottura con quelle altre classi che nel frattempo, con il carburante del turbo-liberismo, hanno conquistato il centro della scena trasformando i propri bisogni nei bisogni collettivi, le proprie rivendicazioni nelle rivendicazioni collettive, soprattutto le proprie ricette nelle uniche ricette possibili e praticabili. In un recente libro Joseph Stiglitz riporta una significativa battuta di Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del mondo secondo le classifiche di “Forbes”: “Negli ultimi vent’anni è stata combattuta una lotta di classe. E la mia classe ha vinto”. Alla luce di quel che è avvenuto negli ultimi tre decenni, assume una nuova attualità quel che scrisse nel 1755 Jean Jacques Rousseau nel “discorso sull’origine delle disuguaglianze”: “I ricchi dovettero avvertire lo svantaggio di una guerra perpetua di cui soli, facevano tutte le spese e nella quale il rischio della vita era comune, e quella dei beni in particolare… Il ricco spinto dalla necessità, concepisce infine il progetto più ponderato mai entrato nello spirito umano: impiegare a proprio favore le forze di chi lo attaccava, farsi difensore dei suoi avversari, ispirare loro altre massime, offrire loro altre istituzioni che fossero loro tanto favorevoli quanto il diritto naturale era loro contrario… “uniamoci” disse loro…”invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, raccogliamole in un potere supremo che, capace di governarci seguendo leggi sagge e di proteggere e difendere tutti i membri dell’associazione respinga i nemici comuni e ci mantenga in una concordia universale” Tutti credettero di assicurarsi la libertà perché, dotati di abbastanza raziocinio per comprendere i vantaggi di una istituzione politica, non avevano abbastanza esperienza per prevedere i danni: più capace di presentire gli abusi era precisamente chi contava di approfittarne… Tale fu o dovette essere l’origine della società e delle leggi, che, intralciarono con nuove pastoie i deboli e conferirono nuove energie ai ricchi, irrimediabilmente distrussero la libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e dell’ineguaglianza, di una accorta usurpazione fecero un diritto irrevocabile e, per il profitto di qualche ambizioso, assoggettarono l’intero genere umano alla servitù e alla miseria”. Sembra quasi la cronaca dell’ascesa al

9

IL LAVORATORE RITROVATO

potere di Thatcher e Reagan, del liberismo che prometteva benefici a tutti (“andate e arricchitevi”, era la massima, anche quella una usurpazione di un principio evangelico) e che in realtà ha garantito ricchezze solo a pochi (come ha raccontato nel suo ultimo libro Edmondo Berselli, ben trentadue volte la Lady di Ferro cambiò i criteri di calcolo della disoccupazione per approdare al risultato che confortava le sue tesi ma che non rappresentava la realtà). Lo ha sottolineato uno studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro: nei sedici paesi più avanzati, la quota di Pil riservata ai salari è scesa dal 75 per cento della metà degli anni Settanta, all’attuale 65 per cento (e in Italia siamo anche sotto quella media). Il crollo del Prodotto Interno Lordo impoverisce le famiglie che, come ha rilevato l’Istat, in Italia hanno perso in un solo anno il 3,4 per cento della ricchezza, in quattro addirittura il 5,8, alla faccia degli evangelici inviti della Signora Thatcher. Il conto finale delle difficoltà lo pagheranno evidentemente i più deboli, soprattutto se troveranno conferma le stime del World Economic Situation and Prospect 2013 che prevedono una crescita globale del 2,4 per cento nel 2013 e del 3,2 nel 2014 (contro una media del 7 negli anni che hanno preceduto l’esplosione della crisi). Solo in Italia per ritornare su livelli occupazionali decenti, secondo l'Oil, dovremmo creare 1,7 milioni di posti di lavoro. Nella fascia d'età tra i 15 e i 24 anni il tasso di disoccupazione nell'ultimo trimestre del 2012 è balzato al 35,2 per cento ma, secondo l'Istat, ormai abbiamo sfondato il tetto del 40 per cento (per la precisione, 41,9). In cinque anni l'area del lavoro precario si è estesa come una potentissima macchia d'olio moltiplicandosi quasi per sei, passando dal 5,7 al 32 per cento. Ma è pessimo nel complesso lo stato di salute del Mondo dal punto di vista del lavoro: più di duecento milioni di disoccupati, avremmo bisogno di oltre trenta milioni di nuovi posti di lavoro per riportare le lancette dell'orologio al 2008, all'epoca precedente al crollo Lehman Brothers che evocato ora sembra già roba da preistoria. A volte vien da pensare che questo Paese abbia un grande futuro alle sue spalle. Constatazione pessimistica che trova, però, dei riscontri se si prova a mettere a confronto parole (e opere) dei manager di questi tempi con il fermento di idee che per un lungo periodo ha caratterizzato un’Italia forse pre-moderna ma ancora sognatrice, bacchettona ma capace di immaginare oltre la siepe del Particulare non il buio ma un giardino soleggiato, non l’Eden che è cosa che non riguarda questa vita, ma una Penisola capace di distribuire con equanimità diritti e doveri, benefici senza privilegi, regole

10

INTRODUZIONE

valide per tutti e non solo per alcuni, insomma uno Stato Padre e non patrigno, attento a premiare i migliori e a non dimenticare i meno fortunati. C’è stato anche un momento e ci sono stati anche uomini del Capitale che vedevano un’Italia diversa, incamminata su una Terza Via in cui il profitto non fosse l’unica ragione di vita o l’unica ragione sociale dell’impresa, che da un versante diverso leggevano l’articolo 46 della Costituzione non come l’inizio di un libro dei sogni ma come la descrizione di un mondo nuovo e possibile. A leggerle oggi, le parole di Adriano Olivetti sembrano provenire da un’altra galassia, meteoriti in forma di idee che possono ancora lasciare qualche traccia e proporre qualche riflessione. Diceva agli operai di Pozzuoli: “Il segreto del nostro futuro è fondato sul dinamismo dell’organizzazione commerciale e del suo rendimento economico, sul sistema dei prezzi, sulla modernità dei macchinari e dei metodi, ma soprattutto sulla partecipazione operosa e consapevole di tutti ai fini dell’azienda... Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una vocazione anche nella vita di fabbrica? Possiamo rispondere: c’è un fine nella nostra azione di tutti i giorni... il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che può dirsi ancora incompiuto: creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell’uomo e della società moderna. La fabbrica d’Ivrea pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata a operare, avviando quella regione verso una comunità nuova ove non vi sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue vicende umane, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta. La nostra società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possono essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e riscatto”. Quattro anni dopo quel discorso, vicino Bonn, il Partito Socialdemocratico Tedesco definiva con queste parole il proprio orizzonte di riferimento ideologico, ideale, spiri-

11

IL LAVORATORE RITROVATO

tuale e culturale: “Il socialismo democratico in Europa affonda le proprie radici nell’etica cristiana, nell’umanesimo e nella filosofia classica”. Il pianeta ha trascorso quasi un trentennio inebetito da una lunga sbornia alimentata passando di “bolla in bolla”. In questo tripudio di luci e colori è come se la classe operaia avesse perso il diritto di parola essendo stata sconfitta dalla storia, essendo tramontata la sua “stella”. Nel frattempo anche il linguaggio è diventato confuso, le parole considerate tipiche della sinistra, come riformismo, hanno perso il loro significato iniziale assumendone uno nuovo, accettabile anche da parte dei “vincitori”, anzi usate, adesso, soprattutto da loro, ultima terribile ironia in un processo di negazione dell’identità. Nel suo lavoro, Gallino spiega che questa marginalizzazione dei lavoratori non è solo figlia delle mutate condizioni economiche, ma anche della trasformazione politica avvenuta in Italia. Il crollo della Prima Repubblica ha cancellato i partiti di massa che facevano storicamente riferimento ai lavoratori, il Pci, il Psi e anche taluni spezzoni della Dc, quelli più legati alle logiche sindacali (ad esempio, Forze Nuove, la corrente di Carlo Donat Cattin). Ma a questa marginalizzazione avrebbe contribuito il sindacato, perdendo capacità di rappresentanza. E quest’ultimo è l’aspetto che con il nostro libro abbiamo voluto investigare. Come è potuto accadere che un sindacato fortissimo almeno sino alla metà degli anni Settanta abbia finito per perdere il contatto con il mondo del lavoro? È una questione generazionale? I giovani degli anni Sessanta erano più sensibili al richiamo della politica, del sindacato e delle organizzazioni di massa? La causa è nelle dimensioni sempre più ridotte delle fabbriche? Nella delocalizzazione che ha portato all’estero pezzi notevoli del nostro manifatturiero? Della precarizzazione dei rapporti di lavoro che rende difficile un contatto continuo con persone che oggi sono occupate in un luogo e domani lo saranno in un altro o non lo saranno per nulla? O sono i sindacati che parlano un linguaggio ormai datato, praticano lotte lontane dalla storia di oggi? Sono le Confederazioni che si sono rinchiuse in se stesse e nei luoghi di lavoro evitando di andare a vedere se su Marte c’è vita, se cioè oltre i cancelli c’è una società in cui i bisogni si fondono creando nuovi legami di classe, solidarietà diverse rispetto al passato? E allora come Hans che cerca in quell’elenco di nomi l’amico con la speranza (e la paura) di ritrovarlo per potersi, almeno idealmente, rappacificare, anche noi abbiamo provato a capire per quali strade l’identità della classe si è smarrita e per quali nuove strade può a questo punto essere ritrovata.

g.b. a.m. 12

15 luglio 1990: Giannelli raffigura in questa maniera un mondo sindacale e politico in trasformazione, tra i “blocchi” che crollano e la prima repubblica già avviata al tramonto (si riconoscono nel disegno Franco Marini, Giorgio Benvenuto, Bruno Trentin che ha in braccio Achille Occhetto)

È il “dopo-marcia dei Quarantamila”: i sindacati guidati da Benvenuto, Carniti e Lama discutono sulla ristrutturazione del salario. “La Discussione” del 16 marzo 1981 la illustra con una metafora tramviaria

Dalla Paura all’Orgoglio

Potremmo cominciare come nelle favole: c’era una volta... In questo caso, però, non c’è il lieto fine. No, al momento non c’è lieto fine, possiamo solo sperare che ci sia. E allora, c’era una volta la classe lavoratrice, anzi la classe operaia: la blandivano e corteggiavano i grandi partiti di massa della Prima Repubblica. I sindacati forse non dettavano l’agenda politica ma la indirizzavano, la condizionavano. Ora, invece, questo protagonista sociale sembra uscito dalla scena, evocato soltanto come soggetto di un record, quello sulla disoccupazione, mai così alta. Cosa è accaduto? E perché è accaduto? Il discorso non può che essere piuttosto ampio, lungo, un po’ per ricordare, soprattutto per capire. In principio il sindacato aveva una sorta di egemonia sul mondo del lavoro, era portatore di una straordinaria capacità di rappresentanza e di rappresentatività, riusciva a conciliare da un lato la grande organizzazione, gli iscritti, dall’altro aveva una notevole sensibilità nel dare voce anche a chi iscritto non era. Un equilibrio decisivo, che permetteva alle Confederazioni di avere una vita e una pratica democratica particolarmente ricca. Due fattori contribuivano a questa ricchezza. Da un lato c’erano le correnti sindacali, alcune facevano riferimento ai partiti tradizionali, altre rappresentavano, ad esempio all’interno della Cisl, elementi di innovazione rispetto a quel pezzo di organizzazione che invece si richiamava in maniera organica alla Dc. Questa articolazione garantiva uno straordinario pluralismo. Dall’altro c’era una struttura democratica e organizzativa che ti obbligava a una continua verifica dell’azione con i bisogni, le attese e le richieste dei lavoratori. Le assemblee, le piattaforme rivendicative, una complessa, anche faticosa ritualità che poteva apparire ripetitiva ma che, al contrario, ti 15

IL LAVORATORE RITROVATO

obbligava su ogni questione, su ogni tema a “pesare” la tua capacità di rappresentanza e la tua autorevolezza, a misurare la tua capacità di ascolto e di elaborazione. Insomma, non era solo il sindacato dei “soci”, degli iscritti, era realmente il sindacato dei lavoratori, cioè di una comunità che esprimeva bisogni, attese e, quindi, rivendicazioni, spinte innovative, volontà di riforma e cambiamento. Il fatto che il sindacato non fosse solo un “club di soci” obbligava tutti quanti noi a cercare un livello adeguato di unità di azione. Con qualche eccezione, con qualche caduta, però. Una sola eccezione: la trattativa sulla riforma della scala mobile con il governo presieduto da Bettino Craxi conclusasi la notte di San Valentino del 1984. La Uil e la Cisl con una lettera al Presidente del Consiglio aderirono alla proposta che prevedeva la predeterminazione degli scatti di contingenza, la Cgil no. Ma fatta quella eccezione, tra il 1966 e il 1992 i contratti siglati dalle tre Confederazioni sindacali sono stati tutti unitari. In sostanza, l’unica diversità di posizione fu determinata dal rapporto con il Governo. Per te quanto fu dolorosa quella divisione? Quanto sofferta quella lettera? Perché se ne parliamo ancora oggi allora vuol dire che la questione andò ben oltre i quattro punti di contingenza tagliati. Per me fu molto, molto dolorosa. La Uil fece di tutto per evitare la rottura, fece il possibile e l’impossibile per portare il sindacato a una soluzione unitaria, noi non avevamo l’atteggiamento intransigente della Cisl, non rinunciammo mai alla speranza che si potesse arrivare a un epilogo simile a quello di un anno prima quando firmammo con l’allora ministro del lavoro, Vincenzo Scotti, un accordo che non piacque al Pci. Ci provammo, fino alla fine, con il sostegno di Ottaviano del Turco, segretario generale aggiunto della Cgil, e con il sostegno del Presidente del Consiglio, Bettino Craxi, e di Rino Formica. Craxi e Formica l’accordo unitario lo volevano; lavorarono per quella soluzione, al contrario di Ciriaco De Mita e di Enrico Berlinguer che volevano la sconfitta di Craxi. Su una posizione contraria era attestato anche il leader dei repubblicani, Giovanni Spadolini. Le trattative furono in-

16

DALLA PAURA ALL’ORGOGLIO

tense, serrate e bisogna riconoscere, con la sincerità che l’analisi storica impone, che Craxi si spese enormemente. Craxi aveva un solido rapporto di amicizia con il segretario della Cgil, Luciano Lama: Lama stimava Craxi e Craxi stimava Lama. Lo vuoi un esempio? Credo possa essere utile per inquadrare i personaggi nel momento storico, anche attraverso i loro sentimenti. Craxi di Lama si fidava e la fiducia era reciproca. Si conoscevano bene e da tempo. Ricordo una intervista che Craxi fece al segretario della Cgil: un episodio significativo delle relazioni che intercorrevano tra i due. Perché nell’occasione abbandonò la sua veste di Segretario del Psi per tornare ad indossare un abito più da comune mortale, da giornalista dell’Avanti, sua storica professione. Potrà sembrare strano perché poi la pubblicistica dell’epoca ha dato della vicenda che si concluse con l’accordo di San Valentino una immagine molto diversa, eppure adesso, a tanti anni di distanza, dico che siamo stati a un passo dall’evitare quel referendum che poi passò alla cronaca come il referendum sulla scala mobile. Cosa ha impedito quell’ultimo passo? Berlinguer lo ha impedito prima da vivo e poi da morto. Quando scomparve i suoi “eredi” non ebbero la forza di “tradire” quella sorta di lascito politico per favorire un’intesa che avrebbe evitato una profonda lacerazione del sindacato e probabilmente molti guai ai lavoratori e al Paese. Il referendum Luciano Lama non lo voleva ma si fece ugualmente perché nessuno se la sentì di smentire quella sorta di lascito testamentario. Io l’intesa la volevo perché ero convinto che da quella rottura il sindacato sarebbe uscito indebolito. E così è stato perché dopo San Valentino le Confederazioni hanno operato sempre all’interno di una logica difensiva. Molti tra di noi ritengono che la nostra crisi sia nata nel 1980 con la vicenda Fiat, con la Marcia dei Quarantamila. Ma non è vero: la nostra crisi è nata nel 1984 con l’accordo (e la rottura) di San Valentino.

17

IL LAVORATORE RITROVATO

Perché quella frattura ha prodotto conseguenze più profonde della Marcia dei Quarantamila? Il sindacato si divise. La Federazione Cgil, Cisl, Uil venne sciolta. A causa di quella divisione rientrarono dalla finestra dinamiche di dipendenza dalla politica che avevamo cacciato dalla porta, che il sindacato unito aveva emarginato, messe in un angolo. Da quel momento in poi alle Confederazioni è mancata la forza per elaborare una strategia finalizzata alla modernizzazione del sistema. Dopo San Valentino abbiamo firmato unitariamente altri accordi ma si trattava sempre di intese di segno difensivo. Non siamo più riusciti a elaborare una proposta per governare un mondo che stava cambiando rapidamente. Mentre nell’ottanta siamo stati sconfitti tutti ed essendo stati sconfitti tutti abbiamo immediatamente cominciato a ripensare la strategia, abbiamo individuato nuovi obiettivi generali come, ad esempio, la politica dei redditi, dopo San Valentino non è accaduta la stessa cosa. Se posso prendere a prestito una frase utilizzata da Berlinguer a proposito della Rivoluzione di Ottobre, è venuta meno la nostra “spinta propulsiva”, non siamo più stati capaci di costruire una proposta. È diminuita anche l’autonomia delle varie confederazioni perché ogni sindacato ha cominciato a cercare di fare il massimo nel rapporto con i partiti di riferimento e non più nel rapporto con la collettività dei lavoratori. Contemporaneamente la crisi della politica si accompagnava alla crisi del sindacato. Giocavamo in difesa: nel ‘91 firmammo un accordo che eliminò la scala mobile, tumulammo il meccanismo in una fossa comune senza nemmeno un dignitoso funerale. Sentivo nell’ottantaquattro che si stava chiudendo un’epoca, che stava scomparendo il sindacato che faceva ragionare i partiti sulla sua agenda politica. Poi le cose sono cambiate... L’agenda è stata dettata da altri, mentre il mondo cambiava sotto la spinta della globalizzazione, dell’apertura dei mercati. Siamo rimasti schiacciati su una posizione difensiva e non ci siamo resi conto del grandissimo cambiamento che stava avvenendo. Non l’abbiamo visto noi, non l’hanno visto i partiti, non l’ha visto la Confindustria. Il sindacato si è salvato dal crollo

18

DALLA PAURA ALL’ORGOGLIO

della Prima Repubblica perché aveva una grande organizzazione. Ma purtroppo non aveva più una grande strategia. Siamo stati spiazzati dalle dinamiche della globalizzazione; abbiamo sottovalutato gli effetti economici della caduta del Muro di Berlino. Pensavamo che quella vicenda avrebbe avuto solo delle conseguenze politiche, pensavamo che tutto si sarebbe risolto con la scomparsa dei regimi comunisti. Ma non era così. La caduta del Muro di Berlino ha avuto conseguenze economiche eccezionali, abbattendo tutti i confini ha reso più aperta la concorrenza. Abbiamo colto solo le conseguenze politiche, non siamo stati in grado di contrastare il dumping sociale. In un sistema globale, quando i diritti non vengono rispettati in una parte del mondo, alla fine vengono compressi anche nella tua parte di mondo. Ecco, noi abbiamo sottovalutato questo aspetto. Questo antico mondo da cosa è stato sostituito? Oggi dal punto di vista delle dimensioni economiche il settore più importante è quello del gioco tanto è vero che la Confindustria lo ha organizzato al proprio interno. Le grandi imprese sono i Comuni, gli ospedali; le privatizzazioni sono state realizzate solo per ragioni di cassa. Le piccole imprese sono diventate l’elemento essenziale del nostro sistema produttivo. Ma il sindacato era forte soprattutto nelle grandi realtà ed essendo forte in quelle diventava egemone anche nelle altre più piccole. La polverizzazione del sistema industriale ha fatto crollare le antiche certezze; è andata in crisi la coesione sociale che il sindacato nei tempi d’oro aveva creato, strutturato, irrobustito. Nel ‘68, nel ‘69 gli operai del Nord si battevano per portare le fabbriche e il lavoro al Sud; oggi accade il contrario. Le Confederazioni giocano solo in difesa, immaginano che tutto si possa risolvere nel rapporto con il governo centrale quando, al contrario, gran parte del potere si è spostato verso le regioni, le province, i comuni. E pensare che alla fine degli anni sessanta, quando le Regioni non c’erano ancora, si facevano le vertenze regionali, territoriali. Insomma è rimasto un passo indietro rispetto all’evoluzione delle cose. Il sindacato è rimasto ancorato a una visione centralista. Si sente dire spesso:

19

IL LAVORATORE RITROVATO

dobbiamo portare in Italia le imprese straniere. La realtà è che gli stranieri hanno pochissima voglia di venire in Italia e che la battaglia da fare è più realisticamente quella di trattenere nel nostro Paese le imprese italiane. Tutto nasce lì, nel 1984. Il sindacato è riuscito a costruire una macchina efficiente dal punto di vista della fornitura di servizi: Caf, patronati, assistenza ai consumatori. Ma la sua capacità di elaborazione e di iniziativa politica è risultata, nel tempo, indebolita. Lo vedi anche nel linguaggio che è in qualche maniera figlio dello spirito del tempo. Oggi i sindacalisti dicono continuamente: “dobbiamo difendere…” Sembra quasi che si accontentino di quello che c’è. Al contrario dovrebbero usare parole diverse, dovrebbero dire: “valorizziamo il lavoro, valorizziamo i giovani, valorizziamo gli anziani, valorizziamo le donne”. Davanti alla Tv cominciano i loro discorsi dicendo: io credo. Ma si crede in Chiesa. Fuori dalla Chiesa c’è bisogno di altro perché credere non basta più. E allora bisognerebbe dire: io penso, cioè io elaboro una proposta, una idea, una soluzione. Erica Jong avrebbe parlato di paura di volare, voi rimaneste vittime della paura di proporre, di elaborare, una paura che vi fece smarrire le “agende” e spinse in qualche misura i lavoratori intesi come classe nelle retrovie del dibattito politico. Sì, abbiamo avuto paura di proporre. Ma guarda anche questo è un sintomo dell’invecchiamento del Paese. Abbiamo paura di tutto ciò che non capiamo, che ci è estraneo, almeno nell’immediatezza del momento: degli immigrati che parlano altre lingue, della tecnologia che ci sembra astrusa, della modernità nel suo complesso che mette in discussione le nostre certezze radicate e radicali. E invece un sindacato non dovrebbe mai avere paura, dovrebbe essere capace di affrontare le sfide nuove, dare uno sbocco e rassicurare la comunità che rappresenta. Giovanni XXIII lo scriveva mezzo secolo fa: “non abbiate paura”. Lui si riferiva alle classi politiche democratiche e spiegava che non bisognava temere la democrazia. Ecco, ora lo stesso appello dovremmo lanciarlo per quanto riguarda i rapporti sociali, la difesa dei diritti che ne consegue, l’articolazione della nostra azione che non deve e non può

20

Il libro postumo di Walter Tobagi pubblicato subito dopo il suo assassinio nel giugno del 1980. In copertina la foto stilizzata di Giorgio Benvenuto, Luigi Macario e Luciano Lama

IL LAVORATORE RITROVATO

essere solo di tutela dell’esistente ma deve essere capace di immaginare quel che non esiste ancora ma che esisterà e proporre modi di gestione. Sarebbe l’azione dei riformisti. Esattamente. Ma le riforme non si invocano, si fanno. Non aver affrontato seriamente in quegli anni il discorso delle riforme come avevamo fatto precedentemente, nei primi anni del centro-sinistra, beh quello è stato il nostro più grande errore. Io penso che anche negli anni, come dire, d’oro il sindacato abbia commesso degli errori. Noi nel biennio tra il ‘68 e il ‘69 abbiamo goduto di un eccesso di potere ma non lo abbiamo sperperato solo nelle battaglie salariali, lo abbiamo usato per cambiare la società favorendo quelle categorie di donne e di uomini che rappresentavamo. Da lì sono nate le battaglie sulla scuola, le 150 ore, le vertenze per la politica della casa, per lo sviluppo economico del Mezzogiorno. Il deficit di riforme è nato vent’anni fa. Il sindacato le ha rinviate e tutti gli accordi che sono stati chiusi hanno affrontato questioni di tipo congiunturale ma mai fornito soluzioni strutturali. Immagino un ragazzo nato nel 1984: da allora ad oggi ha sentito parlare solo di crisi. Abbiamo tamponato; abbiamo fatto manutenzione su una macchina che andava in buona parte ricostruita, insomma abbiamo fatto aggiustamenti non riforme, tagliandi, piccole revisioni per evitare che ci fermassero il mezzo. Si è difeso l’esistente senza provare a sfidare il futuro. Il sindacato ha perso la sua capacità di essere soggetto che propone riforme. Prima parlavo della caduta del Muro di Berlino. Con quel Muro è crollata l’Europa che era sotto la sfera di influenza dell’Unione Sovietica, dopo quel Muro la Cina è entrata nell’organizzazione mondiale del commercio. Si è persa un’occasione e abbiamo vissuto nella convinzione che fosse possibile qualche piccolo intervento congiunturale per rimettere tutto a posto. Ho visto approvare decine di leggi finanziarie che venivano presentate come risolutive. Invece rinviavano solo i problemi. Io parlo del sindacato perché è di questo che qui ci occupiamo. Ma gli stessi errori, dall’altra parte, li ha com-

22

DALLA PAURA ALL’ORGOGLIO

messi la Confindustria. Per numero di iscritti il sindacato italiano è ancora il più forte, abbiamo un tasso di sindacalizzazione elevato; anche la Confindustria riesce a tenere al suo interno tutte le varie espressioni imprenditoriali. Ma a questa forza organizzativa corrisponde una debolezza politica straordinaria: o sono inermi o sono vulnerabili. Invece bisognerebbe uscire da questo cono di paura, bisognerebbe tornare a volare, tornare a formulare proposte veramente “alte”, semmai anche rinunciando a qualche conquista di ieri per soddisfare le necessità di oggi. Il professor Luciano Gallino, nel suo libro “La lotta di classe dopo la lotta di classe” cita un dato: due miliardi di operai nel mondo ma mezzo miliardo soltanto protetto da “diritti” comunque sotto attacco, mezzo miliardo in quella parte di pianeta di antica industrializzazione e anche democrazia. Siamo al dumping sociale a cui facevi prima riferimento: è possibile avvicinare quel miliardo e mezzo al mezzo miliardo? Il problema evocato dal professor Gallino purtroppo non lo vedi al centro del dibattito del sindacato. E qui ritorniamo ancora al Muro di Berlino, alla scarsa comprensione del fenomeno da parte nostra. In quell’area, prima del Muro, non c’era libertà politica, ma c’erano diritti. Le condizioni economiche dei lavoratori non erano straordinarie ma c’erano livelli minimi di protezione, erano società a piena occupazione. Caduto il Muro, questi lavoratori sono arrivati indifesi sul mercato, privi di protezione, di paracadute, nudi alla meta. Il sindacato si è ritrovato a operare (ma non ne ha avuto percezione) in un mondo aperto, in un mercato del lavoro senza confini, in un sistema finanziario ampio come un orizzonte. La domanda doveva essere: come possiamo competere se ti trovi a concorrere con paesi in cui i costi sono così diversi? Ci scandalizziamo davanti alle parole di Sergio Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat. Ma lui insegue la sua convenienza. Ricordargli che la Fiat ha avuto tanti soldi dall’Italia, dai governi che si sono nel passato succeduti non serve a nulla: quella “generosità nazionale” gliela potevamo rinfacciare noi, trent’anni fa, ora non regge più. Il sindacato è rimasto provinciale, si è sempre di più chiuso nel suo mondo, quello occidentale, si è progressivamente barri-

23

IL LAVORATORE RITROVATO

cato nella cittadella abitata da mezzo miliardo di lavoratori e non ha capito che non si possono avere troppe persone sul mercato globale in condizione di precarietà. Contro questo dumping sociale sei sempre perdente. Il segretario della Fiom, Maurizio Landini, può proclamare anche mille scioperi ma non sposterà di una virgola la situazione. Il sindacato ora ha una sola Internazionale ma tutto questo non ha restituito peso politico alle organizzazioni. Siamo fuori dalle sedi di discussione multilaterali; sui problemi dell’Europa siamo assenti; in televisione passano notizie di vertici bilaterali e il sindacato appare emarginato. Hai chiuso la finestra e ti sei dimenticato che fuori c’è un mondo. Sì. Il vento del mondo non entra più. Ricordo quello che a molti appariva un nostro vezzo e che suscitava anche tante ironie. Mi vengono in mente le assemblee che tenevamo contemporaneamente alla fine degli accordi di Bretton Woods. Le relazioni cominciavano sempre, invariabilmente con una analisi della situazione internazionale. Venivamo criticati per questa abitudine però da quella visione d’assieme veniva fuori la proposta concreta che riguardava il nostro mondo. Le questioni internazionali sono scomparse dall’agenda del sindacato e in questo mondo così aperto non te lo puoi permettere. Quella nostra vecchia abitudine ora non sarebbe più un vezzo ma una necessità. Nell’enciclica Caritas in Veritate, Papa Benedetto XVI sottolinea la necessità di non lasciare l’uomo solo. Non ti sembra che il problema dei lavoratori oggi sia proprio questo, la solitudine? Il sindacato italiano ha fatto della coesione il suo tratto distintivo. La nostra organizzazione non ha eguali negli altri paesi: la struttura di categoria e poi la confederazione. Questo è sempre stato un elemento di coesione. Ma queste strutture col tempo hanno perso capacità di rappresentanza. Confederazione e categorie si muovono in maniera faticosa e lo stare assieme ha una funzione meramente difensiva. Il sindacato in questa maniera appare claudicante, si poggia su due gambe asimmetriche, con le categorie che sono sempre più portatrici di interessi corporativi: sono vivaci e determinate nelle loro richie-

24

DALLA PAURA ALL’ORGOGLIO

ste ma non le ritrovi quando si tratta di impostare temi di carattere generale. La società è cambiata, il mondo della produzione è cambiato. Prima gli operai che organizzavamo erano inquadrati in categorie contrattuali medio-basse, andavano in ferie tutti nello stesso periodo, la strutturazione sociale facilitava la comunicazione e la solidarietà. La società oggi è estremamente frammentata, difficile organizzare scioperi di carattere generale, complesso anche dare un indirizzo unitario a una varietà estremamente composita di domande e di bisogni. Tu hai avvertito la necessità di fare un passo in avanti verso la modernità? Era in effetti anche quella polverizzazione alla base dell’idea del Sindacato dei Cittadini che lanciai quando ero segretario generale della Uil. Pensavo che quella “comunità” che si era frammentata nel posto di lavoro si potesse riunificare nella società su temi di interesse comune come il fisco, il lavoro, l’efficienza della macchina burocratica, la salute. Dalla solitudine si può uscire solo mettendo insieme interessi comuni che chiedono soddisfazione e chiedendo soddisfazione sollecitano la solidarietà. È su questo terreno che il sindacato è indietro. Ma non solo il sindacato, anche i partiti, la stessa Chiesa. La spinta delle richieste corporative è sempre più potente. Proprio nel libro che prima citavi, Gallino sottolinea l’iniquità crescente a livello salariale: la forbice tra operai e impiegati da un lato e manager dall’altro si è allargata a dismisura. Ed è vero: la lotta di classe oggi non la fanno i lavoratori ma le classi privilegiate per conquistare benefici sempre più consistenti. La tensione verso il futuro, la voglia di immaginare nuove forme di lotta ma anche più moderni meccanismi di gestione del sistema produttivo è stato il “cuore pulsante” della tua Idea di Sindacato. Ne ha parlato in un libro un giornalista che per la categoria, spesso travolta e stravolta da un presente caotico, resta un punto di riferimento dal punto di vista della lucidità dell'analisi e dell' onestà intellettuale: Walter Tobagi. Quel libro uscì qualche mese dopo l'agguato delle Br. Ero a Madrid quando mi raggiunse la notizia della sua morte. Fu un dolore terribile. Tobagi era

25

IL LAVORATORE RITROVATO

cattolico, legato a Pierre Carniti ma aveva simpatia per la Uil che aveva conosciuto all'interno del Corriere della Sera. Proprio a conclusione di quelle 189 pagine, sviluppava un'analisi profetica. Scriveva: “Gli anni ottanta si aprono come una stagione difficile. Il sindacato è ancora una volta in campo aperto, non può vivere sul passato. Non può vivere sulla rendita del potere conquistato nell'autunno caldo. Non può vivere con le vecchie ideologie, superate sia dal modo di produzione sia dal costume di tanta parte della nuova classe operaia. La prospettiva più grama sarebbe quella di passare dal sindacato dell'autunno a un bigio autunno del sindacato”. Forse anche per questo considerava la tua leadership un elemento di grande innovazione... Devo dire che Tobagi guardava all'esperienza della Uil con molta benevolenza, affascinato dalla visione laica che portavamo all'interno del sindacato. Significativa è la conclusione del capitolo in cui parla della mia elezione alla Segreteria generale: “Il problema vero di Benvenuto non è il passato, non è la coerenza ideologica: è la necessità di dare più forza al suo sindacato, se non vuole rischiare di trovarsi in minoranza anche quando sostiene idee giuste. Che è il destino della cultura laica in questo paese di controriforme e verità di massa”. Aveva colto, Tobagi, due aspetti: l'attenzione verso la società, questo proiettarsi oltre la fabbrica che prefigurava la nascita del sindacato dei cittadini; la ricerca di una strada per riannodare le fila del discorso riformistico interrotto con la morte di Bruno Buozzi. Ne parleremo più avanti. Ma a rileggerle oggi quelle pagine resto stupito dalla straordinaria lucidità. Quando, ad esempio dice che fu “il castello di una nuova ideologia che indusse Benvenuto a riscoprire vecchi padri putativi, come Bruno Buozzi”. E ancora: “Rispetto ai due modelli classici – sindacato associazionistico oppure cinghia di trasmissione del partito politico – si cerca una via alternativa: quella del “sindacato che sappia essere soggetto di programmazione” … e non si arresta neppure di fronte alla prospettiva di una

26

DALLA PAURA ALL’ORGOGLIO

qualche forma di cogestione... non esclude che si possano gestire insieme, sindacato e padroni, certe forme di risparmio contrattuale che si sono realizzate con la sterilizzazione della contingenza nelle liquidazioni”; infine: “aiuta perfino i radicali a raccogliere firme. Insomma: la prima fase del Benvenuto segretario della Uil è dominata dalla preoccupazione costante di muoversi, di conquistare consenso sociale”. La solitudine dei lavoratori è ineluttabile? Siamo soli ma in mezzo a una folla. I nuovi strumenti di comunicazione e informazione ti danno l’impressione che tutto quello che avviene sia vicino a te: quando Gheddafi è morto ognuno di noi ha pensato che tutto fosse accaduto a due passi dalla propria casa. Ma non è la realtà, è solo un’ impressione. La solitudine è ineluttabile se ti rassegni. Ed è quel che vedo oggi: la rassegnazione. La logica che sembra prevalere è quella che mette in soffitta gli strumenti collettivi nella convinzione che siano ormai dei vecchi arnesi, inservibili. Il sindacato regge perché fornisce dei servizi ma fatica terribilmente quando si tratta di chiudere un contratto collettivo. L’operaio-massa era una figura mitica che dava un senso alla storia di quegli anni; ora il sindacato non ha più un peso culturale. Sollecitavamo l’interesse di vasti settori della società, intellettuali, giudici, giornalisti, registi, attori. La scomparsa di quella straordinaria attrice che è stata Mariangela Melato ha indotto le televisioni a trasmettere un bellissimo film del 1971: “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri. Erano di moda gli appelli degli intellettuali. Ora chi li firma quegli appelli? Il sindacato non riesce a crearsi alleanze all’esterno, in quella che oggi viene chiamata “società civile”. Ti avverto che corri sul filo pericoloso del reducismo… No, no la melanconia non serve a nulla. Al contrario a qualcosa può servire la nostalgia perché ti può spingere a ritrovare modi, ragioni, soluzioni che col tempo sono andate disperse e che, al contrario, possono essere utili perché non tutto ciò che è passato è da buttare, ci sono pezzi di passato di cui noi sindacalisti, noi riformisti possiamo e dobbiamo andare orgogliosi. Non

27

IL LAVORATORE RITROVATO

possiamo immaginare di ripeterlo, ma possiamo pensare di utilizzarlo come esperienza. No, nessun reducismo. Io invece penso che tanto il sindacato quanto la politica abbiano bisogno di una scossa e di un ringiovanimento. La soluzione brutalmente anagrafica non mi ha mai convinto, la trovo semplicistica. Il problema non è nelle carte d’identità ma è nelle idee e le idee sono vecchie per pigrizia non per data di nascita; è la lettura della società che è datata. Probabilmente la colpa è anche dei nuovi mezzi di comunicazione. La gente, che in Italia ha sempre letto poco, ora legge ancora meno. I new media sono rapidi, veloci, accessibili perché in massima parte gratuiti ma non stimolano la riflessione e non aiutano l’elaborazione. Eppure dovremmo fermarci un attimo e riflettere. A che serve, ad esempio, un Parlamento organizzato ancora come negli anni Cinquanta? A che servono leggi così complicate? È accettabile che la burocrazia sia di ostacolo all’innovazione? Il sindacato è vittima di questa paralisi generale e in una situazione di paralisi finisce per prevalere la legge del più forte. Parlavamo della solitudine. Oggi i più soli sono i giovani. E non a caso i dati dicono che le raccomandazioni crescono. La solitudine è il prologo dell’arte di arrangiarsi, la sconfitta di una comunità di cittadini responsabili come la definirebbe Bauman. La speranza è un Big Bang per produrre un’Italia nuova in un mondo nuovo. Un Paese capace di riscoprire coesione e solidarietà, merito ed equità, diritti, tutele ma anche doveri uguali per tutti. Arriverà mai? Io penso che arriverà perché queste sono cose che scattano quando meno te l’aspetti, anche dopo lunghi e silenziosi periodi di incubazione. Non è pensabile che la situazione generale continui a degradarsi in questa maniera. Il periodo di incubazione potrà anche essere lungo ma poi capita quello che accadde nel ‘68 e nel ‘69. Abbiamo segnali che forse stiamo sottovalutando, l’astensionismo o i movimenti nelle scuole, nelle università. Sono campanelli d’allarme. Fu così anche nel ‘68 e nel ‘69. Da lì nacque un sommovimento che allargandosi come le onde del mare coinvolse tutto, il sindacato, l’economia, la politica. Non puoi vivere in eterno in un mondo in cui le disuguaglianze crescono a dismisura, in cui tra il primo gradino della scala e quello

28

DALLA PAURA ALL’ORGOGLIO

più alto c’è la stessa distanza che corre tra il campo-base e la vetta dell’Everest. La domanda iniziale, però, resta: c’era una volta la classe operaia. C’è ancora? C’è ancora. Oggi, forse, non dobbiamo più parlare di classe operaia ma di una più ampia classe lavoratrice perché il termine ingloba categorie di lavoratori che in passato si muovevano su piani diversi e che invece oggi ritrovandosi nelle medesime condizioni possono sviluppare una solidarietà di classe, di comunità. Dobbiamo ritrovare soprattutto l’orgoglio che caratterizzava quella classe. A volte rivedo le immagini degli anni Sessanta, gli operai, volti giovani, normalmente meridionali (sono stati la spina dorsale del ‘69) che avevano negli occhi la voglia di cambiare, nel cuore un’energia dirompente, sentivano crescere dentro di sé un destino. Ora dai cancelli delle fabbriche escono lavoratori impauriti, impegnati a salvare il salvabile, che non riescono a capire quello che sta avvenendo e che non hanno più una sede in cui combattere. Le paure e l’angoscia le sconfiggi solo quando stai assieme agli altri. A questo servivano le sedi sindacali, le parrocchie. Ecco, la nostalgia può servire a ritrovare quell’orgoglio che, però, deve essere sorretto da una capacità di proposta, di elaborazione, da una spinta realmente riformatrice. Quei giovani di ieri non accettavano l’esistente e volevano cambiare; ora si pensa ad arrivare alla pensione e non si ha più fiducia nel cambiamento. Il riformismo è questo: la forza di una idea, la spinta insopprimibile di un ideale ancora non realizzato. Va ricostruita la classe, quella che Luciano Gallino definisce la comunità di destino. Esattamente. Oggi hai gli operai ma non hai la classe perché essere classe significa stare assieme, essere orgogliosi di appartenere a una categoria di cittadini. L’operaio c’è ma non sa di esistere come classe. Io ricordo l’orgoglio di quella figura mitica che è stato l’operaio-massa. Molti dirigenti sindacali erano autodidatti: giovani che mentre lavoravano avevano studiato e acquisito all’interno del gruppo una leadership, una capacità di rappresentanza. Sei classe quando hai una visione, una proposta, una organizzazione, un ideale

29

IL LAVORATORE RITROVATO

comune. Ma non può essere la proposta, la visione, l’organizzazione di ieri, deve essere quella di oggi e soprattutto di domani. La prima operazione da compiere è restituire ai lavoratori la consapevolezza di non essere soli. Questo è un lavoro che deve fare il sindacato. Aprirsi, includere, costruire una collettività su un interesse comune: è stato sempre il ruolo del sindacato. All’inizio, agli albori nella vecchia Fiom si potevano iscrivere solo gli operai, era la Federazione Italiana Operai Metallurgici, poi sono entrati nel 1945 gli impiegati e divenne la Federazione Impiegati e Operai Metallurgici. Non è un’impresa semplice. Come si realizza? Non bisogna assistere attoniti ai cambiamenti. Bisogna capire cosa è successo nella società e prevedere cosa potrà accadere. Quello che accadrà dipende da quello che saremo in grado di proporre. Benedetto XVI nella sua enciclica parla del “facendum”, ecco nel “facendum” devi mettere il tuo pensiero. Oggi sai quello che non puoi fare, che non devi fare. Ma l’elemento profondo è uno solo: il cambiamento lo realizzi quando sei insoddisfatto. La classe lavoratrice si è progressivamente “ritirata” ed è composta di persone apparentemente soddisfatte. Forse anche in questo ha ragione Bauman: lo Stato non è più una comunità di cittadini responsabili, ma di consumatori soddisfatti. Però non può partire da qui il cambiamento. I giovani meridionali che entravano negli anni Sessanta in fabbrica avevano lavorato in campagna, avevano visto invecchiare i propri genitori in una realtà immobile e immutabile, rincorrendo il “ritmo dell’uomo e delle stagioni” come cantava nostalgicamente Francesco Guccini. Entrava in fabbrica e pensava: non voglio fare la fine di mio padre, voglio che la mia personalità venga valorizzata, voglio essere un interlocutore capace di avanzare proposte forti e di battermi per la loro realizzazione, voglio essere totalmente, pienamente una Persona. Considerata la situazione generale, forse dovremmo parlare più di persone non insoddisfatte che di persone soddisfatte. Sì, è vero. È forte la spinta ad accontentarsi. La globalizzazione è stata come un terremoto ma dopo un terremoto si ricostruisce. Noi siamo come a Gi-

30

DALLA PAURA ALL’ORGOGLIO

bellina: chiediamo aiuti, provvidenze. È vero che sono stati distrutti valori, diritti, opportunità di lavoro ma non puoi pensare di vivere all’infinito nella tendopoli. Oggi è questo che manca: obiettivi su cui misurarci, impegnarci, sfidare il mondo. Pensare che per competere sui mercati globali si debbano abbattere i diritti corrisponde non solo a una politica ingiusta ma a una scelta economica totalmente sbagliata. Noi dobbiamo puntare sulla qualità delle nostre produzioni, sulla raffinatezza tecnologica delle nostre merci. Abbiamo un paese di pensionati e cassaintegrati. I problemi che assorbono tutta l’attenzione sindacale riguardano la difesa dei posti di lavoro, gli esodati, problemi gravi che vanno affrontati. Ma non possiamo giocare solo in difesa, di rimessa, dobbiamo andare all’attacco inserendo all’ordine del giorno del sindacato la questione dell’innovazione, come si fa industria di alta qualità in un paese che sappia conciliare lavoro e diritti, salute e occupazione. Dobbiamo essere in grado di dare risposte sul versante della modernizzazione. I figli dei contadini degli anni Sessanta potevano immaginare e realizzare un futuro migliore dei propri padri; i figli del Terzo Millennio arrivano sul mercato del lavoro e sono sicuri, grazie alla precarietà, di peggiorare la propria posizione rispetto a quella dei genitori. Ho l’impressione che il gruppo dirigente del sindacato sia oggi composto di persone appagate. Se io ho settant’anni fatico a pensare alla società in cui vivremo tra vent’anni. Negli anni Sessanta la classe dirigente delle Confederazioni era composta di persone che avevano meno di cinquant’anni. Bisogna riaprire i gruppi dirigenti ai giovani ma noi abbiamo al vertice di tutte le istituzioni solo over sessanta. Penso fermamente che le persone restano giovani se si aggiornano e si battono per cambiare. Il fatto è che noi in questo momento abbiamo vecchie idee e vecchi gruppi dirigenti. Invece dovremmo ispirarci a quel che diceva John Maynard Keynes “La difficoltà non sta nel credere nelle idee nuove, ma nel fuggire da quelle vecchie,le quali, per coloro che sono stati educati come lo è stata la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente”.

31

Dopo la marcia dei quarantamila, il sindacato cerca la risposta. Il quotidiano “Il Giorno” del 18 aprile 1981 vede Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto e Luciano Lama come tre “moschettieri” pronti a “toccare”

Dall’Autunno Caldo al Grande Freddo

Considerata l’umana propensione a replicare nel tempo gli errori semmai aggravandoli, la storia non è maestra di vita nella maniera in cui molti ritengono. Ciò non toglie che la smemoratezza impedisca la comprensione dei fenomeni e faccia venire meno essenziali strumenti cognitivi. Il sindacato italiano contiene elementi specifici, un Dna comprensibile solo attraverso la lettura della evoluzione storico-politica del Paese, soprattutto in quel campo che oggi definiremmo progressista. Spesso tu hai sottolineato che uno dei riferimenti più robusti del sindacato italiano al momento della sua nascita è stato il Pensiero Mazziniano. Su cosa basi questa tua affermazione? Mazzini si conosce poco. Se rileggiamo i suoi scritti, ci rendiamo conto che la vita da esule, segnata da straordinari sacrifici e quotidiane difficoltà umane e, soprattutto, economiche, ha profondamente arricchito la sua personalità, la sua elaborazione intellettuale, ha aggiunto spessore al suo pensiero. È una esperienza che in qualche maniera ritroveremo poi negli esuli della Resistenza. Mazzini ha avuto modo di conoscere una realtà nuova, di costruirsi una sensibilità cosmopolita che gran parte degli uomini del suo tempo non avevano. Aveva una visione internazionale, era entrato in contatto con il mondo industriale e con il mondo del lavoro che cresceva dentro l’industria, si era formato un’ idea moderna dei processi produttivi. Sono stati tre i cardini della sua predicazione. In primo luogo l’idea di Patria e questa idea influenzerà in misura notevolissima il sindacato italiano che non ha mai fatto proprio uno slogan molto in voga negli anni della contestazione e che diceva “lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”. Il gene del sindacato italiano è riformista, lo è alla nascita e lo è alla rinascita con le idee di Bruno Buozzi che saranno condivise da Giuseppe Di Vittorio e Achille Grandi. La Patria del sindacato italiano è una Patria mazziniana, non è una Patria antagonista. 33

IL LAVORATORE RITROVATO

Le idee mazziniane andranno in crisi quando ne emergeranno altre che sosterranno il contrario, che la Patria deve essere distrutta. Mazzini vedeva il lavoro come una forza costituente di quella Patria, madre di tutti. La sua Italia era evidentemente diversa da quella monarchica, un Paese strutturato per censo, che arrivò a un primo parziale suffragio universale maschile solo nel 1913 e a quello totale, sempre maschile, nel dicembre del 1918; alle donne il diritto di voto verrà riconosciuto soltanto nel 1946. Il secondo punto di riferimento è, per quanto singolare possa apparire, Dio. Mazzini sentiva che bisognava fare riferimento a una cultura condivisa, a un humus. È una questione che è riemersa in tempi recenti in occasione del dibattito sull’inserimento nella costituzione europea del riferimento alle radici cristiane, ovviamente non quelle che hanno prodotto i processi di colonizzazione, ma quelle che hanno portato a encicliche innovative come la Rerum Novarum di Leone XIII, o la Mater et Magistra di Giovanni XXIII, insomma quelle che hanno riorganizzato il pensiero sociale della Chiesa. Quello di Mazzini è, come dire, un Dio Repubblicano. Il terzo elemento è la Famiglia. L’Italia era una società profondamente contadina e la Famiglia era il primo presidio di solidarietà. Leggendolo ci si rende conto che lui immaginava un lavoratore capace di partecipare ai destini del suo Paese: non un soggetto passivo, da sfruttare per finalità economiche, ma un protagonista sociale e politico, con pari dignità, coinvolto nella vita collettiva, a conoscenza dei sistemi e dei modi di produzione. Quasi un “ideologo” del Modello Renano della compartecipazione prima della sua attuazione. La storia del sindacato è fatta di personaggi che nel tempo sono stati dimenticati e che pure hanno avuto un ruolo non secondario. Ai repubblicani si devono le prime cooperative, sono repubblicane le posizioni fortemente anti-clericali (loro avevano a che fare con la Chiesa della Repubblica Romana non con quella che si sarebbe evoluta dopo la Rerum Novarum). Mi è capitato di recente di partecipare ad alcuni incontri e ho riscoperto interventi che risalgono ai primi mesi (o anni) dell’ultimo dopoguerra. Ho ritrovato, ad esempio quel che diceva Amedeo Sommovigo, uno dei fondatori della Uil, quando

34

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

i rumori assordanti della guerra non si erano ancora sopiti. Leggo: “Un sindacato democratico si pone nell’obiettiva posizione di chi esamina con serenità l’economia del proprio Paese e le conseguenti possibilità di sviluppo, indica i correttivi, gli eventuali errori, combatte gli egoismi delle classi possidenti, rileva le insufficienze del governo e si serve dell’azione parlamentare. Il sindacato non esclude la collaborazione con i datori di lavoro, intesa ad assicurare un effettivo vantaggio del lavoratore sia come produttore che come consumatore”. E più o meno nello stesso periodo, Giovanni Conti, autorevole esponente del Pri, che è stato vice-presidente dell’Assemblea Costituente, proclamava: “È ammissibile, in Repubblica, il metodo della lotta di classe e sono ammissibili procedimenti diretti all’esasperazione del vivente contrasto tra classe e classe, se in Repubblica l’azione di classe del sindacato può far capo all’opera legislativa?” In quegli anni di grande polemica, Ugo La Malfa invocava per il sindacato “una visione moderna dello Stato e della Società, che studia statistiche, indici di costi e di prezzi, indici di produzione e di scambi, e li tratta”. E quegli uomini concludevano che il “guaio del sindacato italiano è che c’è troppo Bakunin e poco Mazzini”. I repubblicani da un punto di vista ideologico sono un’ esperienza caratteristica della vita del nostro Paese. Il sindacato nasce in Emilia e Romagna poi si sviluppa nelle fabbriche. Lì, in Emilia e Romagna, repubblicani e socialisti erano contigui. Oggi di quella predicazione cosa è rimasto? Non pensi che sia andata col tempo dispersa? No, non penso. L’azione tendente alla difesa dei diritti dei lavoratori in Italia non è stata mai intesa come tecnica rivoluzionaria. Le Leghe, le Case del Popolo nascono sotto la spinta dei repubblicani e sono i socialisti e i repubblicani che fanno da argine alla diffusione dell’ideologia anarchica. La Confederazione Generale del Lavoro, quella che nasce agli inizi del Novecento non è antagonista ma riformista e fa riferimento a un partito, quello socialista, in cui le due anime si confrontano e si scontrano. Non è un caso che Bruno Buozzi ne divenga il segretario. Lo sarebbe stato anche dopo la sua rinascita a guerra finita se non fosse stato ucciso il 4 giugno del 1944.

35

IL LAVORATORE RITROVATO

Pochi sottolineano che anche le occupazioni delle fabbriche nel Biennio Rosso si conclusero con un accordo che doveva favorire la partecipazione dei lavoratori. Quell’intesa, però, doveva poggiare su una legge dello Stato che non venne mai approvata. Nel Partito Socialista che mise ai voti il passaggio alla pratica rivoluzionaria, vinse la tesi che lo rifiutò e un peso decisivo lo ebbe la Fiom con i metalmeccanici che si astennero. Quando nel ‘21 si consumò la scissione di Livorno e nacque il Partito Comunista, la Confederazione Generale del Lavoro mantenne i rapporti privilegiati con il Partito Socialista. L’idea della partecipazione dei lavoratori è rimasta sempre forte nel sindacato italiano, tanto forte da trovare sistemazione nell’articolo 46 della Costituzione, un articolo rimasto lettera morta. Ci sarebbero volute leggi di attuazione che Rodolfo Morandi provò a elaborare e a far approvare incontrando, però, l’opposizione tanto del Pci quanto della Dc che prefigurando una saldatura nelle realtà produttive tra comunisti e socialisti, temeva che le fabbriche diventassero ingovernabili. Sì, poi abbiamo ottenuto i diritti di informazione e qualche tentativo di concertazione con i governi di Craxi, Amato e Ciampi. Si definirono intese in base alle quali il sindacato sarebbe stato consultato prima della predisposizione delle leggi finanziarie. Ma l’articolo 46 della Costituzione era tutt’altra cosa, decisamente più impegnativa. Ora l’argomento di tanto in tanto si riaffaccia, ma viene agitato con intenti polemici nella dialettica tra le Confederazioni. Vi si fa riferimento per distinguersi e per poi non fare nulla. Il Modello tedesco non ha mai fatto breccia nei cuori del sindacato italiano. E forse la questione più che legata alla contingenza della polemica, è il prodotto di una posizione culturale che non ha mai accettato l’idea della “collaborazione con i datori di lavoro intesa ad assicurare un effettivo vantaggio del lavoratore sia come produttore che come consumatore”. Ho letto una significativa intervista rilasciata al “Corriere della Sera” da Berthold Huber, presidente della Ig Metall tedesca. Illustrando il nuovo accordo sulla compartecipazione, diceva: “I sindacati in Germania si impegnano per idee concrete e non astratte. E alla fine della giornata la lotta si decide sui miglio-

36

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

ramenti reali dei lavoratori non sulle questioni ideologiche… Guido una battaglia soltanto quando sono in pericolo gli interessi dei lavoratori. Abbiamo un interesse naturale a una buona gestione delle imprese per garantire posti di lavoro e crearne di nuovi. Compartecipazione significa allo stesso tempo anche corresponsabilità… In Italia dopo il 1945 i sindacati erano tra i più forti d’Europa ma ora hanno perso quell’antica forza… Bisogna avere la capacità di mettere da parte le differenze ideologiche e dire che è dovere dei sindacati italiani unificarsi per lavorare al progresso del Paese… Conosco l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, lo stimo e l’ho incontrato più volte. Non posso giudicare come gestisce gli irrigidimenti sindacali anche se penso che i sindacati non dovrebbero essere emarginati”. Qual è il “messaggio” di Huber? La sostanza mi sembra molto chiara. Il Modello Renano ha un obiettivo: rafforzare l’occupazione garantendo la competitività delle imprese. Insomma, Volkswagen vende auto anche per questo e, ovviamente, perché fa innovazione e ricerca (leve essenziali per il miglioramento della competitività) e politiche dei prezzi. I lavoratori da tutto questo traggono beneficio tanto è vero che lo scorso anno la casa automobilistica che ha retto meglio di molte altre alla crisi ed è oggi il terzo produttore mondiale, ha pagato un premio di produzione estremamente cospicuo. La morale è che nel mondo occidentale il modello della compartecipazione regge, quello antagonista no. E qui ritorniamo a Mazzini perché quella idea del lavoratore che si preoccupa del mercato su cui opera la sua impresa, che studia e si aggiorna, nasce nel mondo repubblicano e influenza quello socialista. Lo influenza nel momento in cui sorge la contrapposizione con un nuovo modello, quello comunista. Nella vita delle persone contano anche i simboli. Cosa intendi dire? Quando socialisti e comunisti, nel 1921 si divisero, i comunisti adottarono come simbolo la falce e il martello cioè nella simbologia sottolinearono l’incontro tra contadini e operai; i socialisti ci aggiunsero il libro, cioè non per-

37

La bandiera della sezione del Psi di Fiat Mirafiori (anni quaranta). Il simbolo del Psi, a differenza di quello del Pci, aggiunge alla falce (i braccianti) e al martello (gli operai) il libro, elemento evocativo della conoscenza. Sono ricamate le scritte “proletari di tutto il mondo unitevi” di Carl Marx e “...ma la idea che è in me non muore” di Giacomo Matteotti

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

sero di vista la conoscenza. Questo voler insistere sulla conoscenza è un modo per sottolineare la validità delle proprie ragioni, per affermare che queste ragioni sono fondate su dati oggettivi. È significativa una scelta politica di Bruno Buozzi. Nella Fiom l’accesso agli impiegati era precluso; lui cambiò la sostanza dell’acronimo e la Fiom divenne Federazione Impiegati e Operai Metallurgici. Una scelta che era in sintonia con quelle che fece Filippo Turati. Quando divenne il presidente del sindacato telefonici, in qualità di direttore del giornale di categoria scrisse un saggio rivolgendosi ai “lavoratori del braccio e del tavolino”, cioè agli operai e agli impiegati. La storia del pensiero è fatta di contaminazioni e in queste contaminazioni c’è una parte di quel che diceva Mazzini. Nell’immaginario collettivo a volte un po’ superficiale, Mazzini viene considerato il “perdente”, in realtà ha lasciato una grande eredità: il suo pensiero è attualissimo; le situazioni e le dinamiche politiche e sociali sono diverse, ma la necessità di trovare forme di collaborazione per la realizzazione di quell’interesse comune che è la crescita economica e civile del Paese è questione sempre più attuale nella vicenda italiana. Ma questa idea della compartecipazione non ha trovato resistenze solo nel sindacato, le ha trovate anche negli imprenditori. Qualche esempio di collaborazione lo abbiamo avuto: nell’IRI, con il protocollo Prodi. Però l’IRI non esiste più e le aziende che facevano capo alle Partecipazioni Statali sono state vendute per fare cassa. Tra i “resistenti” non hai citato i politici, soprattutto la sinistra politica, almeno nella articolazione che abbiamo conosciuto sino al crollo della Prima Repubblica. Un Sistema bloccato, paralizzato sul confine della Guerra Fredda, tra improbabili aneliti rivoluzionari (in cui probabilmente non credeva nemmeno chi li proclamava), la paura dei Cosacchi a San Pietro e l’incapacità dei progressisti di dotarsi di uno strumento di rappresentanza politica capace di candidarli al governo del Paese in linea con quella che era l’impronta impressa in Europa da Willy Brandt o Olaf Palme o Francois Mitterrand. Purtroppo negli anni settanta e ottanta in Italia circolava un grande disprezzo

39

IL LAVORATORE RITROVATO

nei confronti del termine socialdemocrazia: era un insulto. Eppure nella svolta di Bad Godesberg i sindacalisti in Germania ebbero un ruolo centrale. Da noi il Partito socialista, dal ‘46 al ‘56, sino ai carri armati a Budapest, è rimasto paralizzato nel patto di unità d’azione. Il Pci era egemone nel mondo sindacale e le logiche antagoniste decisamente forti. Ricordo che quando divenni segretario dei metalmeccanici della Uil, la parola d’ordine che circolava era chiara: evitare la germanizzazione. Alleggerire o svuotare la carica conflittuale del confronto veniva vissuto all’interno del mondo sindacale come una sorta di male da evitare. Parlare di compartecipazione o politica dei redditi era impossibile. Alla sinistra italiana, a quella parte che guardava a Occidente, è mancata una classe dirigente come quella che nel novembre del 1959 a Bad Godesberg traghettò la Spd oltre il marxismo, gente come Herbert Wehner, Eric Ollenahuer, Carlo Schmidt, Karl Schiller e l’allora borgomastro di Berlino, Willy Brandt. Io penso che per il sindacato il momento di svolta sia stata la scomparsa di Bruno Buozzi. Di Vittorio e Buozzi erano dotati di forti personalità, spesso in contrasto. Litigavano sovente. Proprio le differenze di vedute tra i due ritardarono la chiusura del Patto di Roma, il patto che è alla base della rinascita della Cgil rimasta unitaria per brevissimo tempo. Tutti e due conoscevano perfettamente i problemi dei lavoratori ma avevano approcci politicamente diversi. Anche caratteri diversi. Di Vittorio nella sostanza era un socialdemocratico. Parlava con Nenni lamentandosi delle difficoltà che incontrava nel confronto con Buozzi e Nenni gli diceva di portare pazienza, di non precipitare la situazione, gli spiegava che Buozzi era un riformista. Poi ci fu l’eccidio della Storta, vicino Roma, Emilio Canevari prese il posto di Buozzi ma non aveva la stessa forte personalità e Di Vittorio riuscì agevolmente a piegarlo a una versione del Patto di Roma più conveniente al PCI. In un libro che ho scritto per la Fondazione che porta il suo nome (“Bruno Buozzi, il riformista”) ho pubblicato una relazione di Di Vittorio decisamente significativa del clima dell’epoca, della situazione mutata. È un documento piuttosto raro 40

Un manifesto dell’inizio del secolo XX della Camera del Lavoro Cgdl di Torino dal quale emerge il ruolo sociale del sindacato: “Pulsate”

IL LAVORATORE RITROVATO

che ho ritrovato con una certa fatica. Si legge: “Cari compagni, il successivo incontro con la delegazione sindacale socialista ha avuto luogo. Essa mi ha comunicato che la Direzione del suo Partito ha approvato, in generale, la posizione assunta nella precedente riunione di far propria la nostra posizione sul sindacato libero, demandando alle stesse organizzazioni sindacali la possibilità di prendere una decisione definitiva in merito, nel caso vi fossero punti di vista differenti. Dunque, il nostro disaccordo coi socialisti su questa posizione, ha cessato di esistere. Ma l’inconsistenza di questi bravi amici è veramente sconcertante. Dopo la comunicazione incoraggiante di cui sopra, il compagno Can. (Emilio Canevari, n.d.a.) mi ha presentato il documento che vi accludo…Data una rapida lettura al documento, non mi è stato difficile demolirlo punto per punto, col maggior garbo possibile… Alla mia critica, il bravo comp. Can. (compagno Emilio Canevari, n.d.a.) rispose che non voleva dire affatto quel che io avevo letto, ch’egli è “completamente d’accordo” con me, che avrebbe accettato tutte le modifiche che avessi formulato. Dissi, con molto garbo, che non si trattava di modificare qualche brano, ma di rivedere tutto il documento. Proposi, quindi di ritirarlo, di non darlo soprattutto ai democr. (democristiani, n.d.a) che vi avrebbero scorto l’accoglimento della loro posizione sulla concezione del Sind. (sindacato, n.d.a.) di categoria e sulla struttura, che, invece, non sarebbe nelle intenzioni socialiste”. La forma del Sindacato, i suoi problemi, che sarebbero stati ingigantiti dalla rottura politica, dall’uscita dei comunisti e dei socialisti dall’area di Governo e dalla Guerra Fredda, è nata lì? I “bravi compagni” di cui parla Di Vittorio (Canevari, tra l’altro, lasciò il Partito socialista e seguì Giuseppe Saragat nel Psli, poi Psdi) sostennero con poca convinzione le posizioni di Buozzi. Fu perso in quel momento il treno riformista. Sì, anche perché poi morì anche il terzo grande protagonista del Patto di Roma, il cattolico Achille Grandi. Eppure la strada che era stata scelta era diversa. Nel ‘43 i tre leader sindacali avevano deciso di inserire, come avrebbe

42

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

voluto Mazzini, la Patria al centro del loro universo. Aggiunsero all’acronimo una vocale, la “i”. Non sarebbe stata più la Confederazione Generale del Lavoro, ma la Confederazione Italiana Generale del Lavoro. Le prime cose che fecero fu l’eliminazione dei fiduciari fascisti e l’organizzazione delle elezioni delle commissioni interne. L’anelito partecipativo era fortissimo perché il problema principale da risolvere era la ricostruzione dell’Italia e questo è un modo di agire riformista. Bisognava liberare il Paese dalle macerie, risorgere dalla tragedia, rimettere insieme l’Italia, farla ripartire dal punto di vista produttivo dopo aver salvato le fabbriche dai bombardamenti e dalla distruzione nazista. Era il sindacato che voleva Bruno Buozzi, era il sindacato che Bruno Buozzi avrebbe guidato da segretario generale se non fosse stato assassinato. Erano diversi, Di Vittorio e Buozzi. Il primo aveva rapporti stretti col Pci, presentava periodiche relazioni a Palmiro Togliatti; Buozzi non aveva particolari rapporti con Pietro Nenni, era autonomo e orgoglioso della sua autonomia. L’eccidio de La Storta ha di fatto scritto un nuovo copione per il sindacato. La morte di Buozzi liberò il campo a Di Vittorio. Poi arrivò la malattia e la morte di Grandi, il cattolico che voleva l’unità sindacale, che riuscì a convincere Alcide De Gasperi circa l’importanza per la Dc di esserci. Ovviamente fu pagato un prezzo a De Gasperi: la possibilità per le Acli di costituirsi e ai Coltivatori Diretti di organizzarsi in maniera autonoma. Scomparsi Buozzi e Grandi, Di Vittorio diventò la figura più forte, più simbolica. Giulio Pastore che sostituì Grandi non aveva ancora l’autorevolezza del suo predecessore, per giunta fu costretto a contendere a Giuseppe Rapelli, un integralista, la leadership della componente cattolica. Con Buozzi il sindacato avrebbe avuto un segretario generale unico e unitario, senza di lui si costituì una Triarchia (tre segretari generali di estrazione Pci, Psi, Dc). Al congresso di Firenze, nel 1947, il primo dopo la ricostituzione, i comunisti da soli ottennero la maggioranza assoluta. Fu eletto come segretario generale Giuseppe Di Vittorio. Ma tutto era già precipitato: l’unità di azione politica agli sgoccioli, il Psi e il Pci ormai emarginati dal governo. Sostanzialmente si chiuse lì, in quel congresso, l’esperienza della Cgil unitaria. Pensare, contandosi, di superare la Triarchia fu una imposizione del

43

1973: rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Assemblea all’Alfa Romeo di Arese. Allora le piattaforme rivendicative, la dinamica delle fasi contrattuali, il mandato a concludere, l’accordo definitivo erano discussi e approvati nelle assemblee da tutti i lavoratori

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

Pci. I comunisti ottennero la segreteria generale ma persero l’unità sindacale. In questa evoluzione del sindacato italiano, come si inquadra la nascita della Uil? La risposta più diretta è forse nel discorso che Giuseppe Saragat pronunciò all’ultimo congresso socialista prima della scissione di Palazzo Barberini: «Diamo uno sguardo all’Europa e vediamo che in Inghilterra l’enorme maggioranza dei lavoratori è unita sotto la bandiera del socialismo democratico. Lo stesso avviene in Norvegia, nella Svezia, in Olanda, nel Belgio, nella Danimarca, nella Svizzera». La Uil nasce con una forte connotazione “laica”, vive con disagio la divisione nei blocchi internazionali est, ovest che finisce per lacerare anche il mondo del lavoro. Vuole unificare, vuole proiettare in una dimensione occidentale la rappresentanza sindacale, uscire dai recinti ristretti che un eccesso di ideologia finisce inevitabilmente per creare. È, se vogliamo, l’anticipazione di quell’idea che prenderà forma a Bad Godesberg, l’idea di un lavoratore soggetto sociale, cittadino a tutti gli effetti, liberato dal peso delle ingiustizie ma anche della burocrazia. Insomma, la Uil è l’impasto di tre matrici ideali: quella socialista riformista che si richiama a Turati e Bruno Buozzi, quella socialdemoratica di Saragat e quella repubblicanamazziniana. Contro la burocrazia, in quel discorso a cui tu fai riferimento, si scagliò Giuseppe Saragat... È vero. Lo fece citando Marx, anche lui vittima dell’ideologia che si richiama al suo nome perché, poi, le sue analisi, economiche e filosofiche, sono decisamente più articolate delle interpretazioni che sono state successivamente fornite. Diceva Saragat: “Udite come Marx parla della burocrazia: Lo spirito burocratico è uno spirito totalmente gesuitico, teologico. I burocrati sono i gesuiti dello Stato e i teologi dello Stato. La burocrazia è la repubblica-prete”. Nonostante il dna socialista, inizialmente i rapporti col Psi non sono stati agevoli.

45

IL LAVORATORE RITROVATO

All’inizio, lo statuto del partito imponeva ai militanti di aderire, a livello sindacale, solo alla Cgil, un obbligo che non era stato ufficializzato in questa maniera nemmeno dal Pci. Chi aderiva alla Uil e alla Cisl, veniva espulso dal Psi. Poi le cose sono cambiate, sotto il peso delle vicende internazionali (i carri armati di Ungheria) e sotto il peso delle unificazioni e successive divisioni delle diverse anime socialiste. Dopo l’ultima separazione, l’obbligo è crollato anche perché la presenza massiccia comunista induceva il Psi a cercare nelle tre Confederazioni un “riequilibrio” politico e numerico. Il Sindacato dei cittadini è in qualche misura figlio anche di quei tempi, di quella storia. Non esistevano le incompatibilità e molti dirigenti della Uil erano anche amministratori locali. Il cuore del sindacato riusciva a battere in sintonia con le esigenze immediate delle persone, iscritti e non. Oggi i giovani hanno con il sindacato un rapporto difficile, anzi nella maggior parte dei casi non hanno nessun rapporto. Le Confederazioni vengono viste come pachidermi burocratici impegnate a rendere difficile la vita dei cittadini soprattutto con gli scioperi nei pubblici servizi, i trasporti ad esempio, vero nervo scoperto di una società complessa che si alimenta di mobilità in un Paese, per giunta, in cui la mobilità pubblica, collettiva è già, in condizioni “ideali”, un vero e proprio corso di sopravvivenza. Eppure la storia del sindacato è una storia “alta”, soprattutto nell’Italia appena unita, povera e largamente analfabeta. Tu hai nel tuo studio un bellissimo manifesto dell’inizio del secolo scorso da cui emerge il ruolo sociale del Sindacato. Il manifesto a cui fai riferimento racconta un sindacato che era un grande punto di riferimento per la gente più umile. Il sindacato organizzava il collocamento, si preoccupava di dare una istruzione di base a chi non aveva potuto imparare a leggere e scrivere, creava le scuole popolari, le casse di solidarietà. Molti lavoratori e molti dirigenti sindacali erano autodidatti, lo era lo stesso Buozzi. Il legame con il Partito Socialista consentiva di attrarre insegnanti, maestri elementari, avvocati. Questa strutturazione corrispondeva in qualche misura all’idea mazziniana: non solo operai ma anche professionisti sensibili alle problematiche sociali. A volte i film con le immagini raccontano storie

46

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

che non sempre le parole riescono a illustrare in maniera esaustiva. Ricordi il film di Mario Monicelli, “I Compagni”? Marcello Mastroianni interpretava il ruolo del maestro. E di maestri ve ne erano tanti. Era un sindacato profondamente riformista che sconfiggeva le spinte più massimaliste, che si preoccupava di trasformare le lotte in proposta, cercava di risolvere i problemi delle persone. Ci sono figure straordinarie che sfuggono alla memoria collettiva. Argentina Altobelli segretario generale della Federbraccianti che si preoccupava di elevare culturalmente un mondo di analfabeti e semianalfabeti. C’erano i giovani, tanti giovani perché o si legava con lo spago la valigia di cartone e si attraversava l’Atlantico o si cercava il riscatto al Nord. Non esisteva ancora la catena di montaggio, la grande fabbrica, il sindacato era un luogo di aggregazione umana prima ancora che politica. E lo stesso è avvenuto nel secondo dopoguerra. Poi… Poi le cose sono cambiate. Il sindacato si è strutturato ma si è diviso politicamente, ha cercato di conquistare i suoi spazi di autonomia. Negli anni Cinquanta e Sessanta è diventato il sindacato delle deleghe, ha acquistato autonomia economica, non ha avuto più bisogno di aiuti esterni per sopravvivere, ha cominciato a fare da solo, al contrario dei tempi in cui conduceva una vita grama. Ha cominciato a costruire l’unità di azione. Si è inserito nel solco creato dalla contestazione nelle scuole e nelle università e più tardi ha acquisito un ruolo decisivo nella battaglia contro il terrorismo. Ma questa forza non è stata utilizzata solo per ottenere miglioramenti salariali, ma anche per promuovere riforme: quella sanitaria, quella previdenziale, i diritti civili. In quel periodo il peso del sindacato è stato enorme. L’ascesa, pero, si è fermata ed è cominciata la crisi. A mio parere sono state due le cause dei nostri problemi. Non abbiamo riflettuto adeguatamente sulla crisi del ‘73, lo choc petrolifero. Non abbiamo capito che il mondo stava cambiando, che le regole commerciali fissate nel ‘44 a Bretton Woods stavano cominciando a essere sconvolte dalla realtà e

47

“Scala mobile” e referendum: così illustra la questione il quotidiano torinese “La Stampa”, con un disegno del 12 giugno 1986, in cui si riconoscono Giorgio Benvenuto, Antonio Pizzinato e Franco Marini in versione “Quarto stato”

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

dalle decisioni che furono assunte soprattutto negli Stati Uniti. Non abbiamo meditato noi ma non ha meditato nemmeno il mondo politico. L’unica proposta che all’epoca fu messa sul tavolo fu quella di Enrico Berlinguer, il Compromesso Storico, ma nasceva dalla paura provocata dai colonnelli greci e dal golpe cileno di Pinochet: il Pci temeva che un eccesso di rivendicazionismo sindacale potesse rimettere in gioco le regole della democrazia. I comunisti, poi, erano molto insofferenti nei confronti dell’unità sindacale così come si era evoluta nella Flm, la Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici: quella unità metteva in campo un soggetto politico autonomo. E al Pci questo non andava bene: preferiva la federazione Cgil-Cisl e Uil, meno autonoma, quasi per costituzione fisica obbligata a fare i conti con i partiti politici di riferimento. Era una soluzione che si collocava perfettamente all’interno della filosofia del Compromesso Storico. Ma ci fu anche una seconda causa. Il sindacato cominciò ad avere problemi con i lavoratori proprio perché il rapporto tra le confederazioni non era più veramente unitario. Le difficoltà più grandi le Confederazioni le incontravano quando trattavano con governi deboli, il governo Cossiga, ad esempio. Ricordo che concludemmo un’intesa per la costituzione di un fondo di solidarietà che avrebbe dovuto contribuire alla crescita del Mezzogiorno. L’accordo, però, non incontrava il gradimento del Pci e alla fine non se ne fece nulla. Non fu un caso isolato... La storia ebbe altre due repliche, con Scotti e con Craxi. L’unità assunse un carattere difensivo, non era più finalizzata a ottenere riforme, a elaborare proposte. Ognuno per la propria parte si impegnava a difendere il territorio di competenza, eravamo un po’ come l’Austria-Ungheria. A questa difficoltà reagimmo costruendo un sindacato di servizi: patronati, centri di assistenza fiscale. Su quel terreno si poteva essere in concorrenza senza mettere in discussione quel che rimaneva della nostra unità. Se dovevo pubblicizzare il mio Caf non dicevo che funzionava male quello del mio “concorrente sindacale”, dicevo più semplicemente che il mio funzionava meglio. I problemi veri nascevano sulle scelte. Il crollo della Prima Repubblica ha peggiorato la

49

IL LAVORATORE RITROVATO

situazione perché il sindacato ha faticato a sintonizzarsi con le logiche del bipolarismo. Se fosse stato unito sarebbe stato un interlocutore forte; diviso, al contrario, ha finito per essere tirato per la giacca di qui e di là e questa situazione ha indebolito ancora di più il rapporto con il mondo del lavoro. Il sindacato è diventato benestante, l’attività sul fronte dei servizi è diventata florida, ma l’iniziativa contrattuale e politica si è progressivamente indebolita. È come se all’improvviso la bussola si fosse bloccata. Negli anni sessanta il rapporto con i lavoratori era veramente intenso. C’erano le assemblee dove dovevi convincere i lavoratori con argomenti seri; e poi le delegazioni che seguivano le trattative e dovevi trovare soluzioni per condurle al traguardo dell’accordo. Ora nel sindacato prevalgono le divisioni, peraltro incomprensibili, soprattutto alla gente. Si è affermata anche nelle Confederazioni una deriva presidenziale: si conosce il segretario generale e basta. Non ci sono più le componenti, non c’è più la dialettica. Il sindacato difende le conquiste che ha già consolidato ma non riesce più a far passare le proprie proposte perché quelle proposte non sono più unitarie. E poi c’è stato un oggettivo invecchiamento del gruppo dirigente. Negli anni Sessanta i giovani sono stati invece il motore della rinascita sindacale. E c’era da parte di questi giovani una adesione fiduciosa al Movimento. Dalla “Storia del sindacato italiano” di Sergio Turone, edito da Laterza, ho recuperato questi dati che derivano da un sondaggio che i consigli di fabbrica realizzarono tra il 1969 e il 1970: il 90 per cento dei delegati era iscritto alle Confederazioni, l’ottanta per cento si dichiarava attivista. Insomma, giovani, combattivi, tesserati e determinati. Molti di quei ragazzi venivamo dal Sud. Non accettavano di vivere nella stessa società dei loro genitori. La volevano cambiare. Ora quella spinta non c’è. A volte si fatica a capire in che modo il Movimento Sindacale riuscì a incidere sull’Italia degli anni del boom economico, soprattutto sull’Italia della fine degli anni Sessanta. Com’erano allora, prima dell’Autunno Caldo,

50

Donne, giovani, molte delle quali meridionali: uno dei motori dell’Autunno Caldo

IL LAVORATORE RITROVATO

prima dello Statuto dei lavoratori, le condizioni della classe operaia? E quelle lotte come riuscirono a trasformarle? Bisognerebbe rivedere i filmati in bianco e nero. Era un’Italia ancora largamente contadina. La vita quotidiana costava grandi sacrifici. Ma si avvertiva questa voglia di cambiamento. Ho il ricordo di un paese giovane, un’Italia in cui i ragazzi erano la grande maggioranza, si impegnavano nella politica, nel sindacato, organizzavano le lotte, sui posti di lavoro, nella scuola. La fase migliore è stata quella del primo centro-sinistra con i socialisti al governo. È stato l’unico momento della nostra storia recente in cui le riforme non sono state solo proclamate o annunciate ma sono state anche realizzate; riforme che avevano come obiettivo la pari dignità tra lavoratore e datore di lavoro, tra Chiesa e Stato, tra Nord e Sud, tra donne e uomini. Progettavi e realizzavi. Ci fu un notevole cambiamento del gruppo dirigente politico, sindacale, imprenditoriale. Al vertice della Fiat c’era Valletta che parlava in piemontese e arrivò l’Avvocato Agnelli che parlava in inglese; Costa che guidava la Confindustria venne sostituito da imprenditori più aperti. Quella fase dinamica poi si è arrestata. Un ultimo sussulto in direzione del cambiamento si è avuto tra il 1983 e il 1987, con il governo Craxi. Ma si trattò di tentativi e alla fine la marcia si è arrestata definitivamente ed è cominciato l’arretramento. I giovani ora sono sempre meno, l’organizzazione della società e del sistema produttivo li mette l’uno contro l’altro mentre prima trovavano mille modi per stare assieme. Oggi la società è molto frammentata. È il problema del sindacato e del Paese nel suo complesso: da un lato i giovani dall’altro i vecchi, da un lato il Nord e dall’altro il Sud, da un lato le donne dall’altro gli uomini. È saltata la coesione. I giovani sono destinatari di messaggi propagandistici che illustrano perfettamente la loro condizione ma non forniscono una speranza e una direzione di marcia. Sergio Turone ha spiegato che l’Autunno Caldo nacque da una sorta di desiderio di rivalsa dei lavoratori: l’Italia del boom si era arricchita ma gli operai avevano beneficiato in maniera molto, molto limitata di questo arricchimento, la distribuzione della nuova ricchezza era stata tutt’altro che equa. Concordi?

52

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

Sì, la realtà era esattamente quella. Gli operai avevano pagato prezzi enormi al processo di avanzamento del Paese. Avevamo avuto tassi di crescita del Pil elevatissimi, in taluni casi prossimi al sette per cento in un anno… Tu prima hai detto che i giovani nati nel 1984 hanno sentito parlare solo di crisi. I dati spiegano meglio di mille parole la corsa al benessere scattata con il Miracolo Economico. Tra il 1959 e il 1962 il reddito pro-capite aumentò del 6,4, del 5,8, del 6,8 e del 6,1 per cento; la produzione industriale aumentò dal 1957 al 1960 del 31,4 per cento, con punte dell’89 per cento nell’automobile, dell’83 per cento nella meccanica di precisione, del 66,8 per cento nel tessile; mediamente il Pil, tra il 1958 e il 1963 aumentò del 6,3 per cento l’anno; il tasso di disoccupazione raggiunse un livello “frizionale”, meno del tre per cento… Il Paese si era svegliato improvvisamente ricco, catapultato nell’élite delle grandi nazioni industrializzate. Ma le condizioni di vita degli operai avevano tratto scarso giovamento da questo fermento, la situazione nelle case dei lavoratori era rimasta in larga misura quella degli anni precedenti al Miracolo. C’è un aspetto geografico nella storia dell’Autunno Caldo che va sottolineato. Le battaglie di quella stagione vennero condotte non tanto dai vecchi operai ma dai giovani del Sud che erano andati in cerca di opportunità al Nord. Loro volevano veramente cambiare. Non avevano paura, non avevano nulla da perdere. I meridionali che si trasferirono al Nord sono stati il grande motore del cambiamento della condizione operaia. Al tempo stesso, però, quell’esodo ha dato al Sud quasi il colpo di grazia: l’emigrazione ha impoverito ulteriormente quella parte d’Italia. I dati sono impietosi: tra il 1955 e il 1971 nei flussi migratori interni sono stati coinvolti 9.150.00 italiani, nel quadriennio 1960-1963 ogni anno sono saliti dal Sud al Nord 800 mila persone. Qualche decennio fa, mentre montava l’onda dirompente della Lega, Sergio Zavoli condusse per la Rai una inchiesta straordinaria dimostrando, con cifre alla mano, il contributo in termini di arricchimento economico determinato dall’emigrazione meridionale. In-

53

L’accordo di San Valentino ha diviso il sindacato. “Il Popolo” del 6 marzo 1984 racconta le posizioni di Uil e Cisl da un lato e Cgil dall’altro, con una metafora carnascialesca: dietro le mascherine, i volti di Benvenuto e Carniti; dietro la maschera di Lama (che avrebbe voluto evitare lo scontro), Enrico Berlinguer decisamente contrario a quella intesa sulla “scala mobile”

D A L L ’ A U T U N N O C A L D O A L G R A N D CE AFPRI ET DO DL O

somma, al di là di quello che sosteneva la Lega, e ciòè che il Sud aveva impoverito il Nord, era accaduto esattamente il contrario, il Nord era stato reso più ricco da tutta quella forza lavoro ancora a basso costo che saliva a cercar fortuna. Che l’emigrazione abbia impoverito il Sud è un dato incontestabile. Il fatto è che al posto di costruire le fabbriche laddove c’era surplus di manodopera, si preferiva far trasferire la manodopera con costi sociali elevatissimi laddove c’era un’alta concentrazione di imprese. Gli industriali preferivano costruire i capannoni al Nord. Al Sud l’industrializzazione l’hanno fatta le Partecipazioni Statali con le famose Cattedrali nel Deserto. Pochi imprenditori settentrionali decisero di investire nel Mezzogiorno ma l’aspetto più rilevante è che quando ciò avvenne la spinta dei lavoratori e del sindacato fu decisiva. Il Sud si è impoverito ma quei ragazzi meridionali hanno veramente cambiato la storia del Paese, con le loro scelte hanno sorpreso l’intera classe politica. Basta pensare a quello che è avvenuto con il divorzio. C’è una cosa stranissima su cui vale la pena riflettere: per due volte il Paese ha smentito di essere conservatore con i referendum. Mi riferisco al divorzio e alla scala mobile. Nel primo caso ci si attendeva che l’Italia, paese cattolico, tornasse all’antico abrogando il divorzio, andò diversamente ed emblematico del mutamento culturale in atto fu il voto del Sud. Nel caso dei quattro punti di contingenza tagliati con l’accordo di San Valentino del 1984, le previsioni della vigilia immaginavano una sconfessione di quell’intesa e il ripristino dei quattro punti. Anche in quel caso, l’esito fu diverso. Perché dalle urne l’accordo uscì indenne? La scala mobile era un meccanismo che non poteva più reggere. Eravamo un paese ad alta inflazione e la scala mobile finiva per alimentarla. Non ricordo chi lo disse, ma la metafora era perfetta: così come non si poteva pensare di curare il diabete con lo zucchero, allo stesso modo non si poteva immaginare di frenare l’inflazione con la scala mobile. Il problema era grave e il sindacato doveva per forza di cose farsene carico. Perché?

55

IL LAVORATORE RITROVATO

Perché l’inflazione danneggiava soprattutto chi aveva un reddito fisso, i più poveri, toglieva agli operai capacità contrattuale affidando tutto a un meccanismo automatico che appiattiva i salari e poi veniva divorato dallo stesso male che pensava di curare. Non potevamo pensare di rincorrere situazioni e soluzioni che determinavano un aumento della spesa che alla lunga non avremmo potuto dominare. L’idea era quella di costruire un accordo che da un lato mettesse sotto controllo l’inflazione e dall’altro eliminasse le sperequazioni; volevamo creare le condizioni che consentissero al sindacato, in cambio del controllo della scala mobile, di ottenere vantaggi fiscali (fu creato, ad esempio, un meccanismo per restituire il drenaggio fiscale ai dipendenti a reddito fisso), il blocco di altre scale mobili improprie come l’aumento dei fitti e delle tariffe, la possibilità di intervenire sulle scelte generali di politica economica. L’intesa nei nostri piani avrebbe dovuto facilitare il rinnovo dei contratti e confermarci come interlocutori. L’accordo, inoltre, si proponeva anche di contribuire al rilancio degli investimenti perché in quegli anni molti imprenditori invece di reinvestire gli utili per migliorare l’apparato produttivo, li utilizzavano per acquistare Bot che davano, senza rischi, rendimenti decisamente elevati. Conclusione: la prima grande spaccatura sindacale dopo che per anni si era immaginato un ritorno all’unità. L’esito fu quello ma l’obiettivo era un altro: una mediazione che portasse a una intesa che non fosse una resa ma uno scambio. Contro quell’accordo si scatenarono grandi resistenze politiche. Il Pci era all’opposizione e non poteva accettare l’idea di un protocollo sindacale di carattere generale che aveva tutti i crismi di una intesa politica. Il referendum si fece e il Pci che aveva sempre esercitato un diritto di veto, venne sconfitto nelle urne. Due volte avete incrociato sulla vostra strada Berlinguer e due volte il risultato è stato una cocente sconfitta del sindacato, prima la vicenda della Fiat con l’epilogo della Marcia dei Quarantamila, poi la rottura di San Valentino. Le scelte di Berlinguer sulla Fiat sono state un peccato veniale, al contrario

56

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

quelle sulla scala mobile si sono rivelate un peccato mortale. Perché sulla Fiat il “peccato” è stato veniale? Bisogna calarsi nello spirito dell’epoca. Nel ‘79 il Pci era uscito dal governo; alle elezioni politiche successive a quella rottura aveva subìto una clamorosa batosta perdendo quattro punti percentuali, il partito di Berlinguer era passato all’opposizione ed era carico di risentimenti. La vita politica era stata contrassegnata da polemiche forti mentre alla guida dell’Italia vi erano governi molto deboli, come quello presieduto da Cossiga. In quel contesto si inserì il caso Fiat. Noi volevamo fare l’accordo e quando uso la prima persona plurale mi riferisco a tutti i sindacalisti senza distinzione di sigle. Berlinguer cavalcò la vicenda, disse che a Torino bisognava fare come a Danzica dove erano stati montati gli altoparlanti per consentire ai lavoratori di seguire le trattative a Varsavia. Pensa le nostre trattative si svolgevano a Roma… Berlinguer andò a Torino, davanti ai cancelli della Fiat. Gli posero una domanda: cosa avrebbe fatto il Pci se i lavoratori avessero occupato la fabbrica? Io credo che poi si sia pentito della risposta. Ma al di là dei possibili pentimenti, lì per lì disse che il Pci sarebbe stato accanto ai lavoratori se avessero preso autonomamente quella decisione. Considerando la cultura comunista, si trattava di una palese contraddizione: il Pci ha sempre rivendicato un ruolo di guida del movimento operaio, in quel caso, invece, si faceva guidare dai lavoratori, dal sindacato. Il gioco era diventato veramente duro... Erano giorni convulsi, in cui vennero usate parole forti. Io stesso dissi: “O molla la Fiat o la Fiat molla”. Ma lo dissi quando avevamo in tasca l’accordo. Lo raggiungemmo alle 23 del 13 ottobre del 1980: era tardi, eravamo stanchi e così decidemmo di definirlo il mattino dopo. Ma non facemmo in tempo perché arrivò la Marcia dei Quarantamila e Romiti ci disse che a quel punto l’intesa non si poteva più chiudere. Prima della Marcia dei Quarantamila, gli umori davanti ai cancelli erano diversi, particolari, si sentiva che qualcosa sarebbe accaduto. Ho un ricordo che mi è rimasto impresso. I picchetti erano tenuti da giovani operai prevalentemente di origine meridionale ma irrobu-

57

IL LAVORATORE RITROVATO

stiti da lavoratori che venivano da Milano e dall’Emilia. Non era la Polonia e lo spirito di quei ragazzi non era come quello dei lavoratori di Danzica. La sera passeggiai a lungo davanti ai cancelli. Gli operai meridionali sono straordinari per spirito di accoglienza: a ogni fermata offrivano vino e salame. Davanti ai cancelli non c’era l’immagine della Madonna di Czestochowa come a Danzica, ma gigantografie di Carlo Marx. Chiesi a un giovane operaio come andassero le cose. Lui mi raccontò gli umori e alla fine mi chiese, indicando la gigantografia: “Ma chi è quel vecchio con la barba?”. Lo raccontai a Luciano Lama. Questo per dire che a volte la gente è diversa da come la immaginiamo, che le stesse parole da noi pronunciate hanno un valore che poi presso gli altri sbiadisce. Faccio un esempio che nasce da un breve dialogo che ho recentemente avuto. Cosa sia il populismo lo sanno alcuni, non tutti. Un giorno una persona non particolarmente acculturata mi ha detto: “ma perché siete contro i populismi, siete forse aristocratici?” Luciano Lama, Pierre Carniti e Bruno Trentin come vissero la vicenda Fiat? Con grandissima sofferenza. Rimasero profondamente colpiti dalla sortita di Berlinguer. D’altro canto, tutti noi stavamo lavorando non per occupare la fabbrica ma per giungere a un accordo e dichiarare conseguentemente la conclusione dello sciopero. Volevamo l’intesa perché sapevamo che continuando su quella strada avremmo perso: eravamo allo stremo, i lavoratori erano stanchi, non avevamo adeguate risorse economiche per resistere. Su quella vicenda non ci furono divisioni tra Uil, Cgil e Cisl. Avevamo la consapevolezza che molti errori erano stati già compiuti. Qualche anno dopo arrivò la scala mobile e la soluzione messa a punto dal governo Craxi cui aderirono la Uil e la Cisl ma non la Cgil. Anche quella fu una sconfitta, per tutti anche se poi nella gestione della sconfitta Uil e Cisl ne vennero fuori rivedendo e aggiornando la propria azione politica, la Cgil, invece, rimase come paralizzata. Quella sconfitta fu utile alla Uil, alla Cisl e alla parte socialista della Cgil, ma non lo fu per la Cgil nel suo complesso. Da quel momento in poi la divisione all’interno del

58

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

sindacato è diventata insanabile. Craxi fece di tutto per raggiungere l’accordo ed evitare il referendum. E sono convinto che anche Berlinguer ne avrebbe evitato la celebrazione se fosse rimasto in vita. È significativo rileggere quel che scrisse Bruno Trentin nel libro “La libertà viene prima” a proposito della crisi del rapporto unitario: “La riscoperta che l’unità sindacale non è più un valore, e non è una condizione vitale per l’affermazione dei diritti dei lavoratori, attesta del ritorno di un estremismo verbale, assunto come alibi di una inevitabile sconfitta sul campo. Tutto questo attesta l’inevitabile regressione che segue a ogni rinuncia all’autonomia”. Il sindacato ha commesso molti errori ma se il Paese ha resistito nella sua articolazione democratica lo deve anche a voi: siete stati un argine negli anni del terrorismo. Viaggiavate in auto blindate, nei comunicati delle Br eravate indicati come obiettivi da colpire. E foste colpiti, Ezio Tarantelli, Guido Rossa… Come hai vissuto quella stagione? Qual era il tuo stato d’animo? Per noi la cosa più sorprendente era il fatto che esistesse un terrorismo di sinistra. Faticammo a capirlo, ci sembrava impossibile. All’inizio si usava ancora l’aggettivo “sedicenti”. Poi invece capimmo che le Brigate Rosse non erano “sedicenti”, che le cose erano diverse da come per un certo periodo ce l’eravamo raccontate. Con onestà devo dire che il Pci e la Cgil furono fermissimi, determinati. Sì, il sindacato fu un argine e ci schierammo apertamente contro coloro che brandivano quello sciagurato slogan che diceva: “Né con lo Stato, né con le Br”. Com’era il clima in fabbrica? Ricordo assemblee difficilissime a Marghera, all’Alfa Romeo, alla Fiat. Ne ricordo una, proprio a Torino. E ricordo Lama, la sua fermezza. Era stato gambizzato un dirigente della Fiat. Lama nel suo intervento prima diede la solidarietà alla vittima e poi aggiunse che bisognava considerare i quadri come lavoratori. Dalla platea si levò un coro di fischi. Lama non arretrò di un millimetro: replicò quella frase per altre due volte battendo le mani sul podio per

59

IL LAVORATORE RITROVATO

rafforzare il concetto. La prima ripetizione venne accolta dal gelo; la seconda da un applauso liberatorio. Quando penso a quell’assemblea, ritrovo immediatamente l’immagine dell’autorevolezza e dell’autonomia di un leader. Ho un’altra immagine di quegli anni, è legata al rapimento e all’ uccisione di Giuseppe Taliercio, un dirigente della Montedison di Porto Marghera. Subito dopo il rapimento, andammo dalla moglie per esprimerle la nostra solidarietà. Lei ci ascoltò con grande attenzione. Poi si rivolse a Lama e disse: “Guardi, Lama, lei dice delle cose giuste, ma dovete fare una scelta, dovete pesare le frasi, gli slogan perché quando li enunciate voi sono solo parole, ma diventano proiettili quando arrivano a menti fragili, intellettualmente indifese”. Taliercio qualche tempo prima in un volantino era stato pesantemente accusato. Bisogna riconoscere: la posizione del Pci e della Cgil fu fermissima tanto è vero che poi, in occasione del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, i comunisti entrarono in rotta di collisione con Craxi e con Carniti e con chi voleva aprire un canale di trattativa. I “pesci” del terrorismo riuscivano a nuotare anche nelle fabbriche. La piena consapevolezza di questa situazione la raggiungeste con l’assassinio di Guido Rossa? No, l’avevamo capito già con l’assassinio Moro che c’erano contiguità anche in fabbrica. Semmai con l’omicidio di Guido Rossa capimmo che stavamo vincendo la battaglia. La morte di Rossa ha avuto lo stesso effetto della morte di Moro. Rossa era un operaio molto apprezzato, che faceva quello che il sindacato chiedeva di fare: denunciare, isolare i terroristi. L’omicidio di Rossa eliminò le complicità, tolse l’acqua ai pesci. Quel lutto ha prodotto uno choc terribile tra i lavoratori italiani ed ha aumentato la loro determinazione nella lotta al terrorismo. Vorrei ritornare su Ezio Tarantelli e l'occasione la offre il libro che ha scritto il figlio, Luca. C'è una frase che mi ha colpito: “A volte ho la sensazione che il presente del nostro Paese sia iniziato quel giorno, con il funerale di mio padre”. Era un momento drammatico nella vita dell'Italia, tra

60

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

mortali colpi di coda del terrorismo e un aspro confronto sul tema della scala mobile. A marzo '85 l'agguato brigatista a Tarantelli, tredici mesi prima l'accordo di San Valentino, tre mesi dopo il referendum voluto da Berlinguer che di fatto convalidò quell'intesa con un voto popolare. Il nostro presente è nato lì? Tarantelli collaborava con la Cisl e aveva un ottimo rapporto con la Uil. In un suo libro, Massimo Mascini ricostruisce i lavori della riunione delle strutture sindacali che si svolse a Montecatini nel marzo del 1981. Il tema della scala mobile era già caldo. Mascini racconta: “Tutti lo sanno ma nessuno ha la forza per porre il problema. Giorgio Benvenuto riesce a inserire nel documento finale dell’assemblea un accenno alla necessità di intervenire in qualche maniera sul meccanismo della scala mobile, ma alla fine non se ne fa niente, perché la platea è decisamente contraria e il vertice del sindacato è contro di lui... Benvenuto viene lasciato solo. Ma proprio perché si tratta di un passo ineluttabile, anche nel sindacato germoglia l’idea di muoversi in questa direzione. La prima mossa è di un ideologo della Cisl, un giovane brillante economista, Ezio Tarantelli, che pagherà con la vita questa sua intuizione”. Per il sindacato, per il Paese fu una grandissima perdita. E' nato lì il nostro presente? Non saprei dirlo. Sicuramente quella fase storica racchiusa tra San Valentino e il referendum dell'85 ha segnato in maniera profonda la storia del sindacato, ne ha condizionato il futuro. Perché? Il referendum dell'85 e la rottura dell'anno prima a livello sindacale sono rimaste ferite non rimarginate: quella soluzione una parte del sindacato l'ha subìta, quasi come una violenza. Tu San Valentino e il “dopo” lo hai ricostruito in un articolo scritto per la Fondazione Craxi e pubblicato alcuni anni fa, precisamente nel 2005, su Lavoro Italiano. E' vero. Tanto per cominciare, lo sfondo storico. Scrivevo: “Le elezioni politiche del 1983 danno un risultato imprevisto. La Democrazia Cristiana subi-

61

Il palco della presidenza al Congresso nazionale della Uilm a Venezia il 15 maggio 1969. Il congresso stabilì le incompatibilità tra incarichi sindacali e parlamentari ed avviò in modo irreversibile il processo unitario tra Uilm, Fim e Fiom. Giorgio Benvenuto sostituì Bruno Corti alla segreteria della Uilm

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

sce un vero e proprio tracollo... L'incarico a presiedere il Governo viene dato a Bettino Craxi. Il tentativo a differenza del 1979 ha successo. I commenti del Pci sono acidi... Sul tavolo del Governo c'è irrisolto il nodo della politica dei redditi... Il Pil è fermo da due anni; tutti gli indicatori economici sono negativi e l'inflazione non accenna a diminuire. Occorre agire con rigore e tempestività... I sindacati spingono per una politica economica di largo respiro e sono disponibili a realizzare un nuovo grande accordo... Craxi si muove con prudenza. Sonda i sindacati e li trova disponibili. Sente la Confindustria che assume un atteggiamento ambiguo: da una parte lo incoraggia, dall'altra pone condizioni troppo onerose e squilibrate nei confronti del lavoro dipendente...” Una ambiguità che poi è emersa con chiarezza, in una riunione della Giunta della Confindustria. Lo ricordi proprio in quell'articolo. Sì. Si opposero alla firma dell'accordo, tra gli altri, Cesare Romiti (ma Gianni Agnelli aveva preso una posizione diversa) e Carlo De Benedetti. Il via libera passò con la maggioranza di un voto e a favore si schierò anche Vittorio Merloni. Hai scritto, sempre in quella ricostruzione: “Il sì della Dc e del Pri, come rivelano le confidenze pubblicate nel libro di Antonio Tatò (“Caro Berlinguer”) è a mezza bocca; qualche perplessità c'è anche nel Psi: c'è la preoccupazione di non farcela, di essere schiacciati dalla potente macchina organizzativa del Pci” Esattamente. I timori si rivelarono infondati perché la Uil e la Cisl ressero all'impatto propagandistico rafforzando la propria unità. Tennero bene i socialisti della Cgil e la Dc e gli altri partiti della maggioranza furono costretti a fare buon viso a cattiva sorte. Non fu una semplice trattativa sindacale ma qualcosa di molto più ampio e per alcuni aspetti diverso. Fu un capitolo della lotta senza quartiere tra socialisti e comunisti. Nel libro di Tatò c'è una nota per Berlinguer estremamente significativa del clima. Si 63

IL LAVORATORE RITROVATO

legge: “Tutti i compagni della segreteria convengono a quattr'occhi che Craxi è un avventuriero, anzi un avventurista, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, del tutto estraneo alla classe operaia, ai lavoratori, ai loro profondi reali interessi, ideali ed aspirazioni... Craxi è un nemico nostro e della Cgil, della segreteria zaccagniniana, della politica di La Malfa, Biasini, ed è invece amico di Benvenuto e di Mattina, di Bisaglia, di Fanfani, di Donat Cattin. Con Craxi appare in Italia un bandito politico di alto livello. Un portato della decadenza della nostra vita pubblica, un segno dell'inquinamento esteso del nostro personale politico. Craxi è anzi uno dei più micidiali propagatori dei due morbi che stanno invadendo la sinistra italiana – l'irrazionalismo e l'opportunismo – che il maggiore partito della sinistra italiana ha il dovere di combattere e debellare”. Le diffidenze, le ostilità, i rancori a sinistra erano forti ed evidenti, il tempo li aveva incancreniti perché avevano avuto una lunga incubazione, cominciata già nel periodo della solidarietà nazionale. E tutto ruotava intorno alla incompatibilità politica e anche umana tra Berlinguer e Craxi. Il sindacato finiva per essere terreno di battaglia. Ho riletto un saggio di Paolo Mieli inserito nella "storia del socialismo italiano" di Sabbatucci. Riporta un articolo di Massimo Riva, che sarebbe diventato parlamentare del Pci ma che all'epoca era caporedattore delle pagine economiche del Corriere della Sera, in cui usava queste parole nei miei confronti: "Un neoconvertito alle barricate dell'intransigenza che porta il Paese verso la decomposizione politico-sociale e la rovina economica". Era il gennaio del 1977. Cioè non c'era stato ancora il Caso Moro e il Pci premeva l'acceleratore sulla linea dell'Austerità, dei sacrifici. E' di quel periodo una polemica che mi oppose a Giorgio Napolitano. La riporta Mieli nel suo saggio sottolineando che tutto era nato da una mia dichiarazione: "E' in grado il Partito Comunista come partito di Governo di 64

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

tollerare una effettiva autonomia del sindacato unitario… La cosiddetta politica di unità nazionale si è ridotta a una sommatoria algebrica il cui risultato è zero". La replica di Napolitano fu netta: "Quando dice queste cose, Benvenuto fa del qualunquismo anche se dice di temere il qualunquismo più di ogni altra cosa". E io risposi in maniera ancora più netta: "L'onorevole Napolitano non ha esitato ad apostrofare rozzamente con discutibile senso della dialettica le nostre posizioni critiche nei confronti dell'azione di governo". Chiosava Mieli: "Benvenuto è deciso a vuotare il sacco delle recriminazioni: alla strategia dell'attenzione con cui il Pci si muoveva nei confronti del suo predecessore al vertice della Uil, il repubblicano Vanni, "è subentrato un atteggiamento di fastidio che non di rado ha sconfinato nell'insulto e nell'insinuazione". I toni si fanno più accesi anche perché i socialisti sanno di poter contare sull'aiuto discreto della Cisl". Eravamo alla fine degli anni settanta e le cose sarebbero ulteriormente precipitate con la fine della solidarietà nazionale, l'arrivo di Craxi a Palazzo Chigi, San Valentino e il referendum. A quella polemica ha fatto riferimento qualche anno dopo, il presidente Napolitano, nella sua autobiografica politica, "dal Pci al socialismo europeo". Napolitano descrive il panorama di riferimento, spiega il "detto" e soprattutto il "non detto". Di quella polemica, il presidente Napolitano ne parla nel capitolo in cui racconta gli anni dell'Unità Nazionale, della Svolta dell'Eur. Scrive: "Il rapporto tra Pci e sindacati non era stato facile, fino a quel momento… Eravamo convinti che si tendesse, attraverso la polemica con la politica e i comportamenti del governo Andreotti, di cui si svalutavano i risultati, a colpire il Pci… Ci fu una spiacevole polemica tra me e Giorgio Benvenuto; in certe reazioni critiche di noi comunisti qualcuno vedeva il segno di una antica insofferenza verso l'esprimersi di una effettiva autonomia sindacale (e, diceva Benvenuto, verso l'iniziativa politico-culturale di un Partito socialista liberatosi da ogni complesso di inferiorità nei confronti dell'altro partito della sinistra )… Richiamo quel brusco confronto perché ne emerse anche un tema di carattere più generale: se fosse possibile l'autonomia e il ruolo obiettivamente politico,

65

IL LAVORATORE RITROVATO

del sindacato all'interno di una strategia totalizzante come quella del compromesso storico". Tra diffidenze, divisioni e aneliti unitari: è il filo rosso che unisce oltre un secolo di storia della sinistra. E qualche anno dopo quella "spiacevole polemiche" tu e il presidente Napolitano vi ritrovaste su una iniziativa che puntava a rilanciare l'idea di una sinistra nuova, che andasse oltre i vecchi steccati, che cercasse i suoi riferimenti in Europa e che provasse a candidarsi, unitariamente, alla guida del Paese. Erano gli inizi degli anni novanta e i riformisti del Pci, diventato Pds, che erano stati per anni chiamati "miglioristi" erano sotto attacco, accusati di voler passare, armi e bagagli, al Psi. E' vero. Di lì a poco la Prima Repubblica sarebbe crollata sotto i colpi di Mani Pulite e partiti storici come Psi e Dc sarebbero rimasti travolti. Ma noi provammo a lanciare un ponte tra le due forze della sinistra, nonostante una fosse al governo, ancorata a quell'accordo politico conosciuto con un acronimo, Caf, Craxi-Andreotti-Forlani, e l'altra all'opposizione. Scrive sempre Napolitano: "Un'importante iniziativa unitaria sarebbe stata tentata in extremis dopo le elezioni del 1992, nell'ottobre di quell'anno, con il manifesto "per una sinistra di governo", cui aderirono tutti gli esponenti dell'area riformista del Pds e numerosi esponenti di primo piano del Psi, da Giorgio Benvenuto a Rino Formica, da Enrico Manca a Giacomo Mancini, da Mario Raffaelli a Claudio Signorile". Ma ritornando indietro nel tempo, agli anni a cavallo tra la fine dei settanta e gli inizi degli ottanta, le relazioni a sinistra si sviluppavano in un clima decisamente rancoroso. Questo rancore, questo spirito di rivalsa alimentato in maniera nemmeno tanto sotterranea ha finito per segnare la vita, le scelte, la strategia delle Confederazioni. Eppure oggi, a quasi trent'anni di distanza penso sia possibile una riflessione pacata, penso si possa passare dal conflitto politico all'analisi storica. Non solo per rimettere in ordine i pezzi sulla scacchiera, ma per fornire una lettura più realistica di quanto avvenne allora e di come tutti noi vivemmo quel travaglio.

66

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

San Valentino non è un film western: di qui i buoni, di là i cattivi... Quell'accordo va spiegato meglio, sgombrando il campo dai pregiudizi che oggi, a tanti anni di distanza non hanno più ragion d'essere. San Valentino è passato come il congelamento di alcuni punti di contingenza. Non fu così? Fu così ma fu anche dell'altro. Perché l'intesa conteneva anche il blocco dell'equo canone, il controllo dei prezzi e delle tariffe che allora era possibile, il sindacato conquistò il diritto a discutere la politica fiscale. Ricordo ancora la contrarietà di Bruno Visentini che poi, però, con noi si confrontò. Vennero poste le basi per la restituzione del fiscal drag, vennero create le condizioni per la definizione di una vera politica dei redditi che poi sviluppò Carlo Azeglio Ciampi. Ci sono alcune cose che nel fuoco della polemica di quei giorni finirono per essere incenerite scomparendo dal quadro d'assieme. A cosa pensi in particolare? Primo dettaglio dimenticato: la Confindustria diede la disdetta della scala mobile, peraltro commettendo un gravissimo errore di valutazione. Loro, gli imprenditori, erano convinti che il referendum avrebbe bocciato l'accordo, mossero in anticipo la pedina sulla scacchiera e così, a urne chiuse, diedero l'annuncio della disdetta. Le cronache hanno raccontato la vicenda come lo scontro tra due blocchi monolitici. Non è andata così. Perché, come ho spiegato prima, il quadro era molto più complesso, le posizioni decisamente più variegate. Con l'accordo ormai a portata di mano, ci siamo ritrovati davanti le perplessità di Giovanni Spadolini che temeva la rottura con il Pci e la Cgil, le riserve di Rino Formica. E poi c'era De Mita. Insomma, c'era un'ala politica che prima guardava all'accordo con preoccupazione e poi vi aderì. Al referendum ci arrivaste da “candidati perdenti”. Pensa, faticammo a organizzare la manifestazione con le forze favorevoli all'accordo. Alla fine la facemmo a Piazza Navona. Noi non volevamo che il referendum si trasformasse in uno scontro tra titani, di qui Craxi e di lì il

67

IL LAVORATORE RITROVATO

ricordo di Berlinguer. Ma anche nel Pci e nella Cgil c'erano posizioni diversificate. Ho un dubbio che mi accompagna... Un dubbio? Che la Confindustria abbia messo al corrente Pci e Cgil della sua intenzione di disdettare la scala mobile. D'altro canto, poteva essere una soluzione bene accetta da tutte e due le parti: da un lato il Pci avrebbe incassato il successo politico del referendum, dall'altro la Confindustria avrebbe comunque obbligato i sindacati a sedersi al tavolo della trattativa per creare un nuovo meccanismo. Poi sono convinto anche di un'altra cosa: la scomparsa di Berlinguer ha complicato la situazione. Perché? Berlinguer avrebbe trovato sicuramente un modo per uscire da quella strettoia. Ma chi arrivò dopo di lui non riuscì a trovare il bandolo della matassa e sì che ci furono incontri, contatti, tentativi. Ricordo che si prodigò Gerardo Chiaromonte. Carniti stesso si spese. E Spadolini, De Mita. Esisteva, insomma, una realtà in movimento, ancorché sotterranea. Il decreto legge che inizialmente prevedeva una predeterminazione per un anno venne unilateralmente modificato con il consenso della Uil e della Cisl, limitando l'effetto al solo 1984. Lama e Del Turco colsero la novità e cercarono di riaprire il dialogo con il governo; ma non ci fu nulla da fare perché Berlinguer si mostrò irremovibile sia nelle riunioni ufficiali, sia in occasione di molti incontri riservati: Carniti tempo fa in un convegno ha ricordato come un dialogo tra sordi l'incontro che ebbe con il segretario comunista, promosso da Rodano. Il momento più complicato di questo dialogo tra sordi? La manifestazione del 24 marzo del 1984. Non venne proclamata dalla Cgil, venne organizzata dagli autoconvocati. Davanti a un milione di persone Lama fece un discorso prudente. Lo conobbi in anticipo. Lama disse tre no molto

68

Vincenzo Scotti è Ministro del Lavoro e cerca un accordo sul tema della “scala mobile”. Vittorio Merloni (Presidente della Confindustria) con Benvenuto, Lama e Carniti (Federazione Cgil, Cisl, Uil) alla fine lo troveranno, nonostante le resistenze del Pci. “Il Messaggero” del 21 gennaio 1983 sintetizza musicalmente la lunghezza di quel negoziato

IL LAVORATORE RITROVATO

importanti: no allo sciopero generale, no all'apertura indiscriminata di vertenze aziendali, no all'ossessione per il ritiro del decreto. Il clima della manifestazione era terribile, ricordo che fummo costretti a presidiare la sede della Uil. Fu, in sostanza, la più grande manifestazione anti-socialista organizzata in Italia. Nessuna polemica con la Dc, i “nemici” da abbattere erano Craxi, i sindacalisti socialisti e il Psi. Il referendum era per tutti una “polpetta avvelenata” anche se adesso, a distanza di trent'anni si può anche sottolineare che San Valentino ha consentito nel giro di quattro anni, dall'83 all'86 di abbassare l'inflazione dal 14,70 al 5,82 per cento. Ricordo che durante la campagna elettorale, Biagio Agnes, uomo decisamente vicino a De Mita, negò a Bettino Craxi il diritto all'appello televisivo finale. E ricordo che Craxi lanciò un ultimatum: se l'accordo fosse stato bocciato dal referendum, lui si sarebbe dimesso. Ma era una prospettiva che non stava bene a nessuno perché a quel governo non c'erano alternative. E a quel punto intervenne in televisione il nuovo segretario del Pci, Alessandro Natta, che disse chiaro e tondo che Craxi non doveva dimettersi, nemmeno in caso di sconfitta referendaria. Penso che quella sortita possa aver condizionato l'esito della consultazione. Era evidente che celebrato il referendum, bisognava riallacciare tra di noi i fili del discorso interrotto. Interrotto in maniera brusca tanto è vero che il 1° maggio tanto nell'84 quanto nell'85 lo festeggiammo separatamente. Quelle date, 14 febbraio 1984 e 9 e 10 giugno 1985, sono, nella vita del sindacato, una discriminante, siamo rimasti schiacciati in quella parentesi storica e venendo schiacciati ci siamo indeboliti: tutta la nostra attenzione venne spostata sulla struttura del salario mentre altrove, in Europa e nel Mondo si cominciava a parlare degli effetti della globalizzazione. Noi, invece, eravamo paralizzati in una guerra di religione. Cambiò qualcosa dopo il referendum? Il No vinse con una percentuale netta: 54,3 per cento con le punte più alte a Nord (59,1, nel Veneto addirittura 66,9). Quel risultato, nonostante la mal-

70

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

destra disdetta della Confindustria, consentì di riportare al centro dell'attenzione i problemi del Paese con una rinnovata capacità del sindacato che vedeva riconosciuta e valorizzata la sua autonomia. Si è sempre parlato della drammatica rottura del referendum, poco del dopo. Craxi partecipò ai congressi della Cisl, della Uil e della Cgil. Intervenne dando un commosso saluto a Carniti e Lama che lasciavano i loro incarichi, sviluppando analisi improntate alla valorizzazione del ruolo e dell'autonomia del sindacato. La scala mobile è stata lungamente al centro del dibattito sindacale e Tarantelli è stato uno tra i primi a parlare di un meccanismo nuovo che consentisse di domare un' inflazione che sembrava imbizzarrita. In effetti è una storia lunga. E forse conviene ripercorrerla nei suoi diversi capitoli. Fu Guido Carli a lanciare la proposta sul “Sole24Ore” di una predeterminazione degli scatti con conguaglio. In realtà, però, la proposta non era sua e non era stata immaginata come una soluzione di rottura. Il periodo è particolare. Fine della solidarietà nazionale. Noi siamo in difficoltà con i comunisti che escono dal governo e Lama che deve correggere la sua rotta dopo essere stato il protagonista della svolta dell'Eur. Il Pci boicotta l'accordo di solidarietà, quello del contributo dello 0,50 per cento a favore del Mezzogiorno. L'idea sulla scala mobile è di Pierre Carniti che la discute, ovviamente, con Tarantelli. L'intento di Pierre era generoso: non voleva rompere con il Pci, al contrario voleva offrirgli una opportunità per rientrare in gioco ed era convinto che l'opportunità sarebbe stata colta. Ma le cose avrebbero potuto avere questa evoluzione se la proposta fosse stata avanzata dal sindacato, non da Guido Carli. C'è un'altra idea che porta la firma di Ezio Tarantelli. La lanciò poco prima di essere ammazzato dalle Brigate Rosse. E' sintetizzata in un titolo-slogan: “Lavorare meno lavorare tutti”. In sostanza, il sindacato avrebbe dovuto negoziare a livello aziendale cedendo quote di salario e di contribuzione per favorire l'aumento dell'occupazione. Davanti agli occhi lui aveva numeri preoccupanti: in dieci anni, dal '75 all'85, la disoccupazione in Italia era cre-

71

26 settembre 1978: Chiappori sul settimanale “Panorama” sintetizza le differenze di vedute sindacali in materia di politica economica. E alla fine prevale la linea del ministro Pandolfi, anche all’epoca ispirata alla logica dei sacrifici

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

sciuta dal 4,8 all'8,5 per cento. Quella proposta oggi potrebbe funzionare? Dubito che una ricetta del genere possa produrre risultati in presenza di una congiuntura sfavorevole, in una fase fortemente recessiva. La proposta di Tarantelli si legava culturalmente alle scelte che erano state fatte negli anni sessanta e inizi settanta quando si era in un momento di espansione e il sindacato riusciva a contrattare riduzioni dell'orario di lavoro per favorire l'aumento dell'occupazione. In una economia in crescita e in un mondo che può ancora innalzare barriere doganali, la soluzione può dare dei risultati. Ma nelle crisi e in un sistema economico così aperto e globalizzato non ottieni granché. Bertinotti nel 1998 provò a rilanciare l'idea delle 35 ore mandando anche in crisi il governo Prodi. Ma non ottenne grandi risultati, come non li aveva ottenuti in Francia, Martine Aubry che aveva lanciato per prima l'idea. Il sindacato a volte ha una visione statica delle cose ma ciò che va bene in un periodo storico può non andare bene in un altro. Certo quel raddoppio del tasso di disoccupazione nell'arco di un decennio poneva all'attenzione quello che è ancora oggi il nostro più grave problema. Quel raddoppio fu prodotto dall'insorgere di grandi crisi industriali. Non capimmo che eravamo in presenza di crisi strutturali non momentanee. Cosa avreste dovuto fare? Quali politiche del lavoro avreste dovuto proporre? Avremmo dovuto affrontare con determinazione la questione del controllo della spesa pubblica. Ha ragione Raffaele Morese: abbiamo difeso attività industriali che non erano più competitive, abbiamo subìto la crescita travolgente della società dei servizi. A volte Morese mi ricorda che a Genova si progettava la costruzione di un “parco Disneyland” a Cornigliano, nell'area occupata dall'impianto siderurgico. Ma il Pci e la Cgil che erano egemoni si opposero e alla fine la spuntarono. Prevalse una logica conservatrice. Quando si parla di politiche attive del lavoro, nel sindacato sembrano dominare gli stereotipi: mancano le proposte innovative, l'ultima è stata quella sulla scala mobile, l'ultima nostra grande battaglia è stata contro l'inflazione. Le confederazioni non riescono a elaborare politiche di orientamento delle risorse.

73

IL LAVORATORE RITROVATO

E ci siamo persi per strada temi come l'ambiente. Sull'ambiente il sindacato ha accumulato un ritardo veramente incolmabile, come dimostra la vicenda di Taranto di cui parleremo più diffusamente in seguito e che, con le sue evoluzioni drammatiche, interroga il futuro non di una città ma di un Paese relativamente alla tenuta di un sistema industriale che ha ceduto pezzi importanti del proprio manifatturiero, che ha esaltato la peculiarità del tessuto delle Piccole e Medie Imprese dimenticando, però, che alla fine sono sempre le Grandi che fanno da traino, che incidono in misura determinante su innovazione e ricerca. Sull'ambiente abbiamo costruito un vero e proprio paradosso. Negli anni sessanta e settanta, il sindacato ha svolto un ruolo veramente innovativo, rifiutando la monetizzazione del rischio di fabbrica, rivendicando condizioni di lavoro più sicure e ambienti più salubri. Eravamo all'avanguardia. Poi ci siamo smarriti e abbiamo cominciato a considerare i “verdi” dei pericolosi estremisti o dei fastidiosi “estremisti”. Il guaio è che il sindacato spesso vive i problemi in maniera negativa, salvo poi passare da un eccesso a un altro. E così siamo diventati forza propositiva in fabbrica e forza conservatrice fuori dalla fabbrica. Cosa ti rimane di quegli anni? Ripensando ai momenti esaltanti dell’Autunno Caldo e dello Statuto dei Lavoratori e a quelli terribili del terrorismo, agli anni dell’unità che sembrava possibile e alle delusioni prodotte da una unità divenuta sempre più impossibile, quali sentimenti affiorano? Quando ricordi il passato hai sempre un atteggiamento positivo perché sai come è andata a finire, conosci l’epilogo e questo in qualche misura rassicura: non ci possono essere più sorprese. E poi il ricordo si lega a momenti in cui eravamo tutti più giovani. Una cosa mi è rimasta: la consapevolezza che gli italiani nella stragrande maggioranza sono responsabili, direi riformisti. Lo capisci dal modo in cui si è dipanata la storia del nostro Paese, dai fenomeni che comunque hanno fatto avanzare l’Italia sulla strada del progresso. Le posizioni massimaliste, oltranziste non sono mai state maggiori-

74

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

tarie e sono riuscite a prevalere solo quando hanno potuto alimentarsi con l’agnosticismo, l’inerzia, la rassegnazione. Questo Paese nei momenti difficili sa reagire, l’ho visto da ragazzo, con la guerra, la Resistenza e poi la ricostruzione. Perciò non mi è piaciuto Mario Monti quando, da presidente del consiglio in carica, ha detto che loro erano i tecnici e provvedevano a fare quel che era giusto per il Paese limitandosi a darne semplice comunicazione a sindacati e partiti. Io invece penso che in questo Paese la concertazione abbia sempre prodotto grandi risultati. L’8 settembre la gente scappò da una guerra che non capiva, che non condivideva. Molti di quelli che scapparono, però, poi andarono in montagna e parteciparono alla Resistenza. Anche in questo caso, un film illustra perfettamente questo nostro modo di essere: “Tutti a casa” di Luigi Comencini, con Alberto Sordi. Il padre, uno splendido Eduardo De Filippo, cerca di convincerlo a riprendere la guerra con Mussolini. Lui, però, non è convinto. Scende in strada, a Napoli, dove sono cominciate le Quattro Giornate; da ex militare sa maneggiare le armi e spiega agli insorti come utilizzare mitragliatrici e bombe. Anche lui alla fine trova il coraggio di battersi. È una metafora degli italiani. Bisogna coinvolgerli, avere fiducia: non è mai tempo perso confidare nel loro senso di responsabilità. A meditare oggi sui successi di ieri, non solo sindacali, nella luce del tramonto di questa Seconda Repubblica, mentre lo sgangherato bipolarismo ondeggia tra tecnocrazia e populismo, sembra passato un secolo non soltanto quarant’anni. Siamo riusciti a fare tante cose finché nel Paese ha resistito la coesione e il sindacato è stato sufficientemente unito. Poi abbiamo avuto i partiti personali, gli aneliti presidenzialistici, i tecnici, i populisti in servizio permanente effettivo. Negli anni dell’Autunno Caldo sentivi che quando parlavi non avevi dietro di te solo la Uil, avevi i lavoratori, avevi il peso di una grande responsabilità, ma avevi pure una grande forza, una straordinaria autorevolezza. Una forza da indirizzare verso un’ Italia migliore, per i lavoratori. Ho ri-

75

È l’11 giugno 1981: dopo la vertenza Fiat all’VIII° congresso della Uil il sindacato ripensa la sua strategia e prova a ricucire il rapporto unitario. Da una parte a sinistra Luciano Lama, dall’altra Pierre Carniti. Nel mezzo ago e filo Giorgio Benvenuto

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

trovato sempre nella “Storia” di Sergio Turone una tua dichiarazione di quel lontano Autunno. Dicevi: “I metalmeccanici vogliono realizzare un sostanziale mutamento delle proprie situazioni ambientali ed economiche per una profonda evoluzione del sistema sociale oggi esistente, verso forme di democrazia”. La Flm è stata l’esperienza più bella della mia vita. La Flm è stato l’unico tentativo realmente riuscito di unità sindacale. Quando penso a quell’esperienza, mi vengono in mente certe immagini del mondo del lavoro di fine Ottocento. Quando penso alla Flm davanti ai miei occhi si materializza l’immagine del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo: una moltitudine che si muove, in marcia verso il futuro, senza simboli ma orgogliosa di sé; davanti a tutti un uomo e una donna. La donna ha un bambino in braccio perché la famiglia era la vera grande risorsa: in quel mondo contadino che aveva bisogno di braccia, i figli erano ricchezza. Quell’immagine è il simbolo della compattezza; quella donna e quegli uomini non hanno paura perché sono consapevoli della propria forza. Nella vecchia sede del Psi, a Roma, in via del Corso, campeggiava una frase di Giacomo Brodolini: “Da una sola parte, dalla parte dei lavoratori”. Ha segnato un’epoca, quella frase, un modo di intendere il ruolo di ministro del lavoro, non asettico, non equidistante, ma dalla parte dei più deboli, da una “una sola parte”, appunto. A quella frase si rifece, qualche tempo dopo, Carlo Donat Cattin che subentrò a Brodolini al Ministero del Lavoro. Brodolini è stato il padre dello Statuto, una legge profondamente riformista che oggi viene vissuta con fastidio, come un impaccio. Ma c’è una maniera molto semplice per capire (e far capire a chi la vive come un impedimento) perché nacque e perché è stata così importante: rileggere le schede segnaletiche che i carabinieri redigevano per la Fiat sui lavoratori e sui loro familiari. Cosa raccontavano? Te ne leggo qualcuna: «…impiegata Fiat Mirafiori (…) simpatizza per il Pci (…)

77

IL LAVORATORE RITROVATO

risulta che all’atto del matrimonio era in stato di avanzata gravidanza (…) Seria onesta di comune intelligenza e di buoni sentimenti. Però arrogante e piena di alterigia (…) I famigliari sono tutti di idee estremiste più o meno moderate (…) di sentimenti poco religiosi, tanto è vero che la sera del 31 maggio 1950, durante il passaggio della Madonna Pellegrina (che avviene ogni secolo) si rifiutarono di partecipare con gli altri inquilini all’illuminazione dello stabile. Consta inoltre che sul nonno materno (…) venne fatta sepoltura civile con conseguente cremazione». E ancora: «Già di tendenza socialista nenniana (…) in questi ultimi tempi, almeno nelle manifestazioni apparenti, appare ravveduto e propende per il socialismo democratico saragattiano; si è anche riavvicinato alla chiesa, alcuni però lo ritengono opportunista e sono convinti che nutra tuttora sentimenti socialisti (…) Nel 1968 è ritenuto orientato verso il Psu già Psi». Questa è invece significativa del clima: «Reputazione pessima: trattasi di capellone, di elemento che esige vivere indipendente e non offre sufficienti garanzie per una eventuale assunzione presso azienda meccanizzata (…) non consta si sia interessato di politica apertamente, ma è ritenuto simpatizzante Pci». Si scavava nel privato con un carico straordinario di pregiudizi: «La suocera è donna di pessima moralità, vive saltuariamente presso la figlia o presso un amante, elemento di cattiva condotta, in un paese del Vercellese»; «Sua madre è passata a seconde nozze nel luglio scorso; durante la vedovanza ha lasciato a desiderare per la condotta morale e civile ed ha avuto anche un aborto». Lo Statuto è nato perché il mondo del lavoro era caratterizzato da insopportabili discriminazioni. Quando mi capita di rievocare le figure di Brodolini o Donat Cattin non dimentico mai di leggere questi rapporti. Che ricordo hai di Giacomo Brodolini? Era un grande amico di Italo Viglianesi. Mi sembrava molto anziano, in realtà è scomparso ad appena quarantanove anni. Era divertente, ironizzava anche sulla sua malattia. Si era circondato di giovani molto bravi come Gino Giugni, Enzo Bartocci. Poi mi colpirono alcune sue iniziative. Ad esempio, la visita, il giorno di San Silvestro agli operai che occupavano la fabbrica tipografica Apollon (a pro-

78

DALL’AUTUNNO CALDO AL GRANDE FREDDO

posito di intellettuali sensibili alle tematiche del lavoro, alla vertenza dedicò un documentario Ugo Gregoretti). Fu in quell’occasione che pronunciò la frase a cui facevi prima riferimento. E quella sera annunciò il varo dello Statuto dei Lavoratori. Ancora, la presenza ad Avola (Siracusa) ove la polizia aveva ucciso e ferito diversi braccianti che manifestavano contro il caporalato. Infine, il viaggio a Battipaglia dove le proteste per la chiusura della manifattura tabacchi e dello zuccherificio erano state sedate dalla polizia con un bagno di sangue: due morti e duecento feriti. Lì Brodolini promise che non ci sarebbero stati più morti per motivi di ordine pubblico. È stato ministro per poco, ci ha lasciato troppo presto ma ha inciso in maniera profonda sulla storia sociale di questo Paese. Ricordo con affetto anche Donat Cattin che subentrò a Brodolini: tenne gli stessi collaboratori del predecessore e applicò lo Statuto, superando grandissime opposizioni, anche da parte della Cisl che non voleva un intervento per via legislativa. Giugni sciolse il nodo con straordinaria abilità: disse che lo Statuto avrebbe provveduto a rafforzare quei princìpi che venivano dai contratti. Brodolini ebbe il tempo di far approvare in Consiglio dei Ministri lo Statuto e di accompagnarlo in Parlamento. Poi, però, morì. Giugni ha raccontato in una intervista che prima di partire per la Svizzera dove sarebbe spirato, lo invitò a seguire con grande attenzione i lavori parlamentari evitando con questa vigilanza che lo Statuto dei Lavoratori si trasformasse nello statuto dei “lavativi”. E del suo rapporto col sindacato cosa ti viene in mente? Un aforisma... Perché? Brodolini a volte si lamentava del fatto che le organizzazioni sindacali non sostenessero in maniera adeguata la sua battaglia per lo Statuto. Era anche una maniera per “provocare” il suo grande amico Viglianesi. Poi quel sostegno lo ebbe dall'Autunno Caldo. Ma per sottolineare quanto una visione moderna dei rapporti di lavoro e delle relazioni sindacali potessero trarre alimento da una adeguata strumentazione normativa, citava dal “Cappotto” di Gogol questo passaggio: “Raramente si sarebbe potuto incontrare una per-

79

IL LAVORATORE RITROVATO

sona che vivesse così il suo lavoro. E' poco dire: lavorava con zelo; no lavorava con amore. Così in questo suo copiare e ricopiare egli vedeva un qualche mondo variopinto e piacevole. Il piacere si esprimeva sul suo volto; alcune lettere erano le sue favorite; quando si imbatteva in esse, egli non era più lui: ridacchiava, ammiccava, muoveva le labbra, così come nella sua faccia si aveva l'impressione di poter leggere ogni lettera che la sua penna tracciava. Se gli avessero concesso riconoscimenti commisurati con il suo zelo egli, con sua stessa meraviglia, forse, sarebbe finito consigliere di Stato; invece tutto funzionava, così si esprimevano i furboni dei suoi colleghi; doveva ottenere la mostrina all'occhiello, ma si ebbe solo le emorroidi nel sedere”. Quei ministri del lavoro sembrano così lontani dai ministri degli ultimi anni. Difficilmente sentiremo qualcuno oggi ripetere la frase di Brodolini. O anche quella di Carlo Donat Cattin (“Non sono il ministro del lavoro, sono il ministro dei lavoratori”). Che riflessione ti sollecita questa sorta di mutazione genetica? All’inizio della Repubblica i ministri erano al di sopra delle parti. Con Brodolini e Donat Cattin sono diventati parte, adesso sono prevalentemente controparte. Questa trasformazione spiega il profondo arretramento che c’è stato nei rapporti di forze a livello sociale nel nostro Paese. Il sindacato, potente economicamente, è debole politicamente. Un tempo i ministri del lavoro li avevi al tuo fianco, ora li hai contro. E fanno a gara a mettere le dita negli occhi del sindacato.

80

Sono gli anni ottanta tra la vertenza Fiat e l’accordo di San Valentino: Giorgio Forattini vede così le difficoltà sindacali

E’ il luglio del 1988 e si conclude con un accordo separato la vertenza Fiat: Altan la illustra così su “Tango” il settimanale satirico dell’Unità.

Dalla Concertazione all’Emarginazione

Abbiamo parlato del passato del sindacato, un passato che si intreccia con la storia recente dell’Italia, con i suoi momenti belli e i suoi momenti meno belli. Tocca, adesso, affrontare il presente. E qui incombe la domanda centrale: esiste ancora la lotta di classe? Esiste ancora la Classe che nell’interpretazione sociologica viene definita Comunità di destino? Luciano Gallino nel suo libro «La lotta di classe dopo la lotta di classe» sostiene la tesi che i ruoli si siano invertiti: prima erano gli operai che lottavano per migliorare le proprie condizioni (economiche, sociali, di lavoro e di vita), adesso sono le categorie agiate, ad esempio quel dieci per cento di italiani che detiene la metà della ricchezza nazionale, che si batte per allargare l’area del privilegio. Susanna Camusso rispondendo a una specifica domanda di Stefano Lepri nel libro «Il lavoro perduto» (Editori Laterza) sembra propendere per una «mutazione». Dice: «Di sicuro la lotta di classe oggi non è quella del passato. Questo perché il luogo dove si scontrano gli interessi, anche per come è ormai strutturato l’apparato produttivo del nostro paese, non è più soltanto quello classico tra lavoratori e imprese». Tu che la lotta di classe l’hai guidata quando si trattava di trasferire ai lavoratori una parte dei benefici prodotti dal Miracolo Economico che idea ti sei fatto? La mia idea è molto semplice: ho l’impressione che sia venuto meno da parte dei lavoratori dipendenti il senso di appartenenza a una classe. Il mondo del lavoro oggi è un universo frammentato, diviso, spesso contrapposto per aree geografiche, categorie, classi anagrafiche, sistemazioni contrattuali (lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori a tempo determinato più o meno precarizzati). La Classe (forse non più quella mitica, la classe operaia, ma una più ampia e anglosassone working class) esiste ancora per condizioni e oggettivi bisogni, ma non lo sa, come dicevo, non ne ha consapevolezza. Non c’è più 83

IL LAVORATORE RITROVATO

una classe che avverte come impellente e ineludibile il bisogno del cambiamento. Di qui quel rovesciamento di cui parla Gallino con una proliferazione di classi che delimitano il proprio territorio, lo coltivano concimando interessi e privilegi. La classe non è solo una questione di quantità ma anche, come dire, di qualità. La grande burocrazia è una classe. Sia chiaro, non mi riferisco ai dipendenti, ma ai dirigenti, che so, consiglieri di stato, magistrati amministrativi, grandi lobbisti, capi di gabinetto che attraversano indenni governi di ispirazione ideologica e colore diversi manifestando uno straordinario e incrollabile attaccamento al potere. Ecco, queste sono le vere nuove classi che ispirano le scelte dei governi. I lavoratori, invece, attestati su posizioni difensive, faticano a fare sentire la propria voce, a comportarsi da Classe. Le classi a cui tu fai riferimento più che comunità di destino sono comunità di interessi… È vero. Come sono proliferate? Sfruttando due debolezze: quella politica dei partiti e quella progettuale delle forze sociali. Nell’ultimo ventennio si sono affermate come guardiani di un Paese in cui le distanze (di reddito, di tutele, di diritti, di protezione sociale, di privilegi sempre più consolidati, ovviamente) si accentuano, straordinari difensori dell’esistente (evidentemente vantaggioso, per loro). In quelle secche si va perennemente a incagliare l’attività esecutiva. Perché una volta fatte le leggi, bisogna passare ai provvedimenti attuativi. E lì nascono i problemi: programmi e provvedimenti si infrangono su scogli che affiorano a pelo d’acqua e che nessuno riesce, con lungimiranza, a evitare. Sono loro che amministrano il Paese. Col tempo hanno accumulato insofferenza e un desiderio di rivalsa che adesso stanno scaricando sulla società. Insofferenza e rivalsa contro chi e contro cosa? C’è stata un’epoca in cui la politica in questo Paese esisteva ed esistevano le forze sociali. In quel periodo la burocrazia contava decisamente meno. Una

84

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

situazione che in queste categorie o classi ha prodotto un enorme senso di fastidio, forse di frustrazione e ora si prendono la rivincita governando il Paese in maniera trasversale. Ma governare significa coinvolgere la gente, in uno stato democratico significa sollecitare la partecipazione dei cittadini alle scelte. A dar man forte a queste nuove classi è giunta la finanza creativa che in realtà, come abbiamo avuto modo di verificare negli ultimi durissimi anni, non era per nulla creativa ma decisamente distruttiva. Siamo passati dalla produzione di beni come auto, lavatrici, televisori, alla produzione di carta e di valori virtuali basati su logaritmi sempre più complessi che alla fine nemmeno gli inventori erano più in grado di decrittare agevolmente. Da un lato la globalizzazione e dall’altro la perdita di capacità propositiva delle vecchie classi hanno prodotto questo risultato. I grandi burocrati hanno costruito una realtà immutabile. Lentamente i problemi del lavoro e dei lavoratori sono scivolati in secondo, terzo, quarto piano; l’economia non è stata più al servizio delle persone ma le persone sono state poste al servizio dell’economia. Ci sono dei dati che Luciano Gallino propone e ripropone nei suoi libri: nel 2007 gli attivi finanziari movimentati nel mondo dagli istituti di credito ammontavano a 241 mila miliardi di dollari, quattro volte il Pil Mondiale, una massa enorme di ricchezza o presunta tale. Negli ultimi decenni abbiamo assistito alla riproposizione continua delle bolle speculative e quella successiva era sempre più grande e pericolosa di quella che l’aveva preceduta. Oggi il problema della finanza non è l’inflazione, il problema sono i diritti: individuali e collettivi, sfuggire a qualsiasi controllo delle forze sociali semmai sostenendo che quelle prerogative verranno restituite in un posto di lavoro che ormai non c’è più o garantendo che la gestione di servizi resterà nella competenza di quelle forze sino a quando rimarranno buone al proprio posto, applaudendo le scelte che sono fatte per l’interesse di alcuni e non di altri. Negli anni in cui la polemica tra Psi e Pci era molto forte, Claudio Signorile costruì una metafora che illustrava perfettamente il modo in cui i comunisti immaginavano il rapporto con i socialisti. Era l’epoca del Compromesso Storico e Signorile osservò che per il Pci il ruolo dei socialisti era

85

Così nel 1979 Bucchi su “Lavoro Italiano” vedeva le confederazioni proiettarsi nel futuro. Nell’immagine Giorgio Benvenuto, Luigi Macario e Luciano Lama astronauti con chiave inglese, cacciavite e martello in mano

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

quello di ammirare quel che i comunisti stavano realizzando; poi, se proprio intendevano partecipare, armarsi di fazzoletti per detergere la fronte sudata e accaldata dei dirigenti del Pci impegnati in quella titanica costruzione. Dico sinceramente che in alcuni passaggi dell’esperienza dell’ultimo governo tecnico, l’immagine mi è sembrata quasi ispirata da Mario Monti. Dispiace dirlo, ma non ha mostrato particolare attenzione a quel valore, il lavoro, proclamato, esaltato e protetto dalla nostra Costituzione, sin dall’art. 1. Al di là delle posizioni più o meno condivisibili, un presidente del Consiglio “tecnico”, quindi più di altri obbligato a essere al di sopra delle parti politiche, non può attaccare la Cgil nella maniera in cui lui l’ha attaccata. Mi ha molto colpito quella sua strana visita “pastorale” alla Fiat di Melfi. Non disse una parola su come il Governo avrebbe controllato l’attuazione degli impegni assunti dall’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, non un invito ai sindacati a ritrovare le ragioni dell’unità… Non una parola sul fatto che in quei capannoni mancasse un pezzo di Paese, cioè i lavoratori che avevano deciso di farsi rappresentare dalla Cgil, gente a cui un presidente del Consiglio di un Paese in grande difficoltà avrebbe dovuto comunque mostrare una certa gratitudine visto che sono parte di quella categoria di contribuenti (lavoratori dipendenti e pensionati) che versano nelle casse dello Stato, un Stato senza casacca e colore e che si proclama fondato sul lavoro, l’ 80 per cento dell’Irpef. Sì, lì mancava un pezzo d’Italia, una situazione accettabile per Marchionne ma non per un uomo che in quel momento rappresentava le istituzioni, almeno in tale veste si era presentato ma gli intenti, come si è capito dopo, erano diversi. Monti spesso ha insistito nel dire: “chi non è d’accordo con me non esiste”. In questa stagione lunga e particolare della nostra Repubblica abbiamo conosciuto anche l’insofferenza del tecnocrate che considera il confronto, cioè il meccanismo tipico della democrazia una perdita di tempo e lui non aveva tempo da perdere. L’aveva invece per verificare la qualità delle sue scelte nel rapporto con i poteri forti.

87

IL LAVORATORE RITROVATO

Anche questo è il segno di un mutamento di clima, anzi del peggioramento del clima: per imbattersi nel sostantivo “lavoratore” bisognava prima leggersi nove pagine della famosa «agenda per un impegno comune» da lui elaborata. Monti in fondo è coerente: ricordo perfettamente cosa scriveva trent’anni fa a proposito del confronto con i sindacati. Da questo punto di vista subiva indiscutibilmente il fascino delle argomentazioni di Bruno Visentini. Solo che poi Visentini fece la riforma del fisco coinvolgendo i sindacati e cambiò opinione. Io dico che a Palazzo Chigi non puoi escludere nessuno: la democrazia è faticosa, complicata, ma è l’unico metodo politico che assicura a tutti piena libertà. In questo lungo tramonto della politica, il tecnico è parso la panacea di tutti i mali. Il Paese va a rotoli? Chiamiamo i tecnici. Lo dicono i tecnici? Allora è giusto, non si discute. Ma anche i tecnici possono sbagliare. Tanto è vero che spesso non riescono a trovare l’accordo neanche tra di loro Pensi che in una fase confusa si siano confusi anche i ruoli? Io penso che i tecnici siano importanti, per la politica, per il sindacato. Ma non si può consegnare tutto nelle loro mani, non possono essere i destinatari di una delega senza limiti. Se un paese si potesse governare solo attraverso i tecnicismi, allora si potrebbe fare a meno dei partiti, dei sindacati, di tutte le forze sociali, in una sola parola: della democrazia È la freddezza del tecnicismo che non ti affascina? Il fatto è che i ruoli sono diversi: il tecnico vede i numeri, il politico deve vedere le persone. La storia degli “Esodati” da questo punto di vista è stata emblematica. Non è il numero che fa il problema, ma la gravità delle sue conseguenze umane. Delle persone in virtù di un accordo avevano trovato una via d’uscita dal loro posto di lavoro. Non lo avevano chiesto loro, non avevano in maniera illegittima conquistato un diritto, non avevano estorto qualcosa, minacciato qualcuno a mano armata. Era una soluzione concordata, realizzata sulla base di norme vigenti. Poi è cominciato il balletto delle cifre e dei commenti sulla base delle cifre, che è stato l’aspetto più avvilente

88

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

della vicenda. Ma che significa affermare immediatamente: sono sessantamila, come a dire sono pochi, una sparuta minoranza, una roba irrilevante. Peraltro non era vero… Ripeto, non è una questione di numero. Il problema sarebbe stato importante anche se fossero stati solo diecimila o anche meno. Il peso di un problema non lo definisce la calcolatrice. Dietro i numeri ci sono persone in carne e ossa, che soffrono, che hanno mutui, figli in cerca di occupazione da sostenere, con disponibilità economiche contenute, donne e uomini che si fanno carico di genitori non più autosufficienti trovando nello Stato un sostegno limitatissimo. Quella tumulazione della concertazione è stato un errore, di metodo e di sostanza. Probabilmente al tecnico che ha vissuto lungamente isolato nella sua aula universitaria, al riparo dalla tempeste della vita quotidiana sfuggono i problemi delle persone, la fatica del vivere di chi non è “ben nato” e non è riuscito a crearsi un’area di privilegio: in Italia i nodi più intricati sono stati sciolti con la concertazione. A proposito di concertazione e grandi problemi voglio rileggerti un passo del libro “Intervista sul sindacato” di Luciano Lama. Era il 1976. Diceva il Segretario della Cgil: «Il problema centrale per il sindacato è quello di fornire al paese e alle masse lavoratrici un disegno convincente e praticabile di trasformazione della società. Per far questo bisogna essere in grado di conciliare nella coscienza dei lavoratori le aspettative per l’immediato con la cognizione del destino degli anni a venire. Naturalmente si tratta di un obiettivo fin troppo ovvio, ma per niente facile da raggiungere. Io però sono abbastanza ottimista sulla maturazione delle coscienze. Anche per effetto della difficile crisi che attraversiamo, si sta diffondendo dentro e fuori il mondo del lavoro dipendente la convinzione che così “non può durare”. Lama aveva un spirito profondamente unitario. Aveva vissuto sulla sua pelle la divisione, l’isolamento della Cgil e del Pci. Lo aveva vissuto con angoscia come molti altri dirigenti del suo partito e del sindacato. Ecco perché pensava che il sindacato per contare dovesse ricostruire le ragioni dell’unità. Senza mire

89

IL LAVORATORE RITROVATO

egemoniche perché lui era veramente convinto che l’egemonia non fosse il risultato dei rapporti di forza, dei numeri ma la conseguenza del confronto di idee, del dibattito sulla praticabilità delle cose da fare. Era figlio legittimo di quella cultura riformista che aggregandosi intorno a Filippo Turati portò all’elaborazione del programma minimo. Lama non era un agitatore a prescindere, si preoccupava di capire dove arrivare ma prima di tutto cercava di individuare il modo in cui arrivare. Lo sciopero generale per tutti quanti noi aveva un peso politico fortissimo, era una vera e propria arma finale, non poteva essere sprecata perché dopo non avremmo avuto a disposizione altri strumenti di pressione. La verifica della fondatezza di questa impostazione l’abbiamo fatta sulla nostra pelle, in occasione della vertenza Fiat: avevamo fatto gli scioperi, avevamo fatto l’accordo, dai licenziamenti si era passati alla cassa integrazione, avremmo dovuto cambiare in tempo strategia. Non ci riuscimmo. Arrivò la Marcia dei Quarantamila. La Cgil ha fatto numerosi scioperi generali da sola negli ultimi anni: sono passati senza lasciare traccia. Erano i tempi della «svolta dell’Eur», del salario che non era più variabile indipendente. A dir la verità per noi il salario non è mai stato una variabile indipendente. Siamo rimasti vittime di semplificazioni che fornivano una idea distorta delle nostre posizioni. Lama non ha mai detto: “da oggi in avanti il salario è una variabile indipendente”. Non lo ha detto perché questa idea non è mai esistita. Era una posizione di alcuni gruppi della sinistra extra-parlamentare come Lotta Continua, che poteva trovare accoglienza in qualche settore della Flm. Eravamo così convinti che non fosse una variabile indipendente che nelle lotte dell’Autunno Caldo non puntammo tutto sul salario ma chiedemmo e ottenemmo riforme. Il sindacato utilizzò quelle vertenze per realizzare un miglioramento generale delle condizioni di vita dei lavoratori e delle loro famiglie. Quando proponevamo la piattaforma contrattuale noi dicevamo quaranta ore di lavoro settimanali e Lotta Continua diceva trentacinque. No, noi non abbiamo mai enunciato che il salario fosse una variabile indipendente semplicemente perché non era la nostra idea, non era l’idea di tutto il sindacato.

90

La prima Repubblica sta declinando: Chiappori su Panorama legge coma una “retrocessione” l’elezione di Giorgio Benvenuto al vertice del PSI.

IL LAVORATORE RITROVATO

Non era parte della vostra cultura? No, non è mai stata parte della nostra cultura. Certo le richieste salariali di quegli anni furono robuste ma nascevano dalla considerazione che il Miracolo Economico era stato costruito dai lavoratori con costi sociali enormi. La forbice, nonostante il benessere, si era allargata tra i lavoratori. No, proprio non mi va giù l’idea che l’Autunno Caldo possa passare alla storia come la fase in cui il sindacato guardava al salario come a una variabile indipendente. La mancanza di riforme e l’ostilità verso il centro-sinistra avrebbero potuto indurci a scaricare tutto il peso delle inefficienze sulle aziende, chiedendo più quattrini. Poiché mancavano politiche di carattere generale, avremmo potuto monetizzare le soluzioni facendo pagare in questo modo il conto alle imprese. Ma ci comportammo in un altro modo. In questa maniera arrivarono le riforme. Il sindacato questa scelta la fece, la politica e il mondo imprenditoriale no. E devo dire che Monti in qualche maniera la pensava come noi. Ad esempio, sul fronte del fisco: si tassava troppo il mondo della produzione, imprese e lavoratori, e troppo poco la finanza. Abbiamo ancora adesso una tassazione altissima, eredità del passato che la necessità di fronteggiare le crisi attraverso la “spremitura” dei soliti noti non ha contribuito ad alleviare. Oggi un imprenditore che decide di investire nella sua azienda alla fine paga in tasse il sessanta per cento; se vende e quel che guadagna lo investe nella finanza paga sugli utili molto meno, una percentuale irrisoria rispetto a quel famoso sessanta. Avremmo dovuto combattere per tempo e insieme su questo fronte ma abbiamo perso l’occasione. Una cosa comunque resta: il salario come variabile indipendente non apparteneva a Lama, non apparteneva a me, non apparteneva al sindacato italiano nel suo complesso. Quelle parole di Lama accompagnavano uno dei tanti momenti travagliati del nostro Paese. C’era stato lo choc petrolifero ma in Italia la crisi aveva avuto una coda nazionale. Adesso la crisi è planetaria e ha la forma di un’idra con troppe teste. Il tempo è passato solo nel senso che le situazioni sono più complesse?

92

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

Negli altri paesi io vedo una maggiore reattività nell’affrontare la crisi e, soprattutto, la politica non ha deciso di “ritirarsi”, di consegnare al tecnicismo, seppure temporaneamente, una delega in bianco. Nel resto dell’Europa in difficoltà si è andati alle urne e si sono cambiati i governi. In Italia si è preferita una soluzione anomala, abbiamo affidato la gestione della cosa pubblica a persone prive di consenso popolare, abbiamo accettato una sorta di commissariamento della politica, cosa che poi non ci ha comunque impedito di andare alle elezioni anticipatamente, seppur di poche settimane. Per carità, ammetto che la nostra immagine era uscita profondamente offuscata dalle ultime esibizioni del Governo Berlusconi e che Monti ci ha restituito un minimo di rispettabilità internazionale, di questo non gli si può che dare atto. Ma della politica in democrazia non si può proprio fare a meno, semmai bisogna accertarsi che si tratti di buona politica. Ora, però, piacciono i “campioni della società civile” come se esistesse, in contrapposizione, una società incivile o come se dalla società civile in questi anni fossero realmente arrivati solo esempi positivi. Io penso che la società sia incivile quando manca la rappresentatività, quando manca la cultura del bene comune, quando prevalgono l’interesse personale e le posizioni di privilegio che favoriscono l’affermazione della legge della giungla. E l’esperienza del governo Monti come la valuteremo fra qualche anno, quando sarà pienamente storia? Monti ha una attenuante. Ripeto, è un uomo di grande coerenza. Ma per capire lui e per capire Marchionne bisogna partire da una premessa: il Professore ragiona seguendo categorie diverse da quelle a cui siamo abituati noi italiani. Monti era abituato a confrontarsi con le lobby perché in Europa contano soprattutto quelle, non i sindacati o le forze sociali. D’altro canto, a livello europeo i sindacati al massimo vengono informati, in Italia è sempre stato diverso. Le organizzazioni nazionali dei lavoratori non hanno mai ceduto una parte del loro potere. In Europa, Monti si confrontava con le lobby

93

IL LAVORATORE RITROVATO

e dal suo punto di vista non ha mai avuto problemi. Ha ritenuto di esportare in Italia quel metodo ma non è detto che ciò che funziona a livello di istituzioni dell’Unione possa funzionare anche nel nostro Paese. Questa abitudine lo ha inevitabilmente indotto a considerare il sindacato alla stregua di una lobby. Non è così. E poi le lobby funzionano diversamente. Lo si è visto quando ad esempio le liberalizzazioni, portate in Parlamento dal Governo sono state prima progressivamente corrette e poi addirittura svuotate. Funzionano anche i condizionamenti imposti dagli altri paesi che promuovono scelte in contrasto con gli interessi italiani. Cosa intendi dire? La Germania ci ha sicuramente condizionato imponendo la politica dei due tempi: prima il risanamento poi lo sviluppo. Però i tempi del risanamento non sono rapidi, lo sviluppo non c’è stato (e non è in programma a stretto giro di posta) e la Germania ha finito per ottenere un vantaggio concorrenziale evidente, lo dicono tutti i dati, compresi quelli sull’occupazione. È un errore praticare politiche che non tengano conto della realtà specifica. Giusto rimettere a posto i conti ma nella situazione italiana la cura doveva essere più equilibrata per evitare di farci piombare nella depressione. Se il sindacato è una lobby, perché mai Monti non ha detto nulla o mosso un dito invece nei confronti delle vere lobby. La Fiat ha fatto tutto quel che ha voluto, è uscita da Confindustria, ha imposto accordi ai lavoratori, senza che una valutazione, anche minima, venisse fatta. Il sindacato può essere debole, può essere diviso ma non è una lobby. Non è nemmeno una corporazione. Quali sono le conseguenze di questo modo di fare? La scelta dell’emarginazione alla fine ha dato forza solo all’ala più radicale che si agita nel Paese e che ha un certo spazio nel sindacato. Se identifichi tutto il mondo dei lavoratori e delle sue rappresentanze nella Fiom, alla fine consegni l’egemonia a Landini. La trovo una scelta molto comoda perché consente di evitare il confronto con tutti gli altri. Se metti il sindacato spalle al muro, se lo ridicolizzi, in realtà nei suoi confronti assumi un atteggiamento

94

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

prepotente, non semplicemente sordo o indifferente. Non è così che si governa un Paese, soprattutto questo Paese afflitto da problemi serissimi, con la povertà e la disperazione sociale in crescita continua. Per questa strada indebolisci soltanto il sistema dei partiti che è ancora l’unico su cui si possa articolare la democrazia, apri la strada alla protesta radicale e incontrollata e vedi sfumare all’orizzonte l’obiettivo della crescita. Come puoi pensare di incamminarti sulla strada dello sviluppo se rifiuti di coinvolgere la gente, di responsabilizzarla, se non cerchi il consenso? La tecnocrazia a volte è vittima di un complesso di superiorità intellettuale e Monti ha spesso avuto l’atteggiamento superbo di chi dice: quel che faccio io non si discute perché è giusto... E non sempre lo è stato. La Fornero è stata la cartina di tornasole in occasione della riforma del lavoro. Di fronte alle proteste, sostenne che il provvedimento era buono perché tutti lo criticavano. Non mi sembra una tesi agevolmente sostenibile né di grande raffinatezza intellettuale. Il metodo della concertazione che ha trovato i suoi momenti più alti nella lotta al terrorismo e con il governo di Carlo Azeglio Ciampi, ha pagato. Il bilancio del governo Monti, invece non è stato straordinario. La realtà è che puoi avere le idee più belle e brillanti ma non fai molta strada se alle spalle non hai solidi punti di riferimento sociali e politici. E in effetti il governo Monti di strada non ne ha fatta tantissima: l’unica riforma che ha lasciato in eredità dopo un anno di attività è quella delle pensioni, ma non è riuscito a realizzare la riforma fiscale, non ha inciso sui costi della politica pur avendo alle spalle un consenso popolare vastissimo, non è riuscito a ridurre il numero dei parlamentari, non è riuscito a traghettarci verso una nuova legge elettorale, non è riuscito ad adottare quei provvedimenti per evitare la dilapidazione delle pubbliche risorse, che l’opinione pubblica avrebbe accolto con grande favore. Ha giustificato gli insuccessi per l’opposizione dei partiti ma su questi temi c’era il consenso della gente. Tu temi che la tecnocrazia, a lungo andare, replicata periodicamente come è avvenuto in Italia negli ultimi venti anni, possa determinare fenomeni di

95

IL LAVORATORE RITROVATO

neo-autoritarismo? Possa provocare un abbassamento dei livelli democratici? Stiamo correndo dei rischi serissimi. I messaggi che sono stati veicolati verso la pubblica opinione rinviano nel tempo la soluzione dei problemi. Era una pratica che utilizzava in maniera plateale Silvio Berlusconi ma anche il governo Monti non è stato da meno annunciando un giorno sì e l’altro no che la ripresa era dietro l’angolo. Poi, però, ci si rende conto che le misure adottate non sono inquadrate in una visione strategica, che hanno come obiettivo solo il mantenimento dell’esistente. Il risultato è una insofferenza che ha dato alimento a un certo tipo di partiti che non sono completamente fuori dalla storia del Paese ai quali però gli italiani ora sembrano rivolgersi in una maniera decisamente più massiccia. Certo, abbiamo avuto l’Uomo Qualunque oppure la crescita del Msi negli anni del centro-sinistra. La novità vera è nelle dimensioni del fenomeno. Monti ha accreditato presso l’opinione pubblica la tesi che i partiti e i sindacati siano strumenti di democrazia superati. Non comprendendo, però, che la conseguenza di questa sua predicazione solo in parte subliminale non sarebbe stata l’insediamento di un sistema tecnocratico a vita legittimato periodicamente dalle urne, ma la creazione di condizioni per la nascita di pulsioni sostanzialmente anti-democratiche. L'insofferenza giustifica una affermazione come quella ottenuta dal Movimento Cinque Stelle alle politiche del 24 febbario 2013? La protesta può indirizzare un quarto dei votanti, nel segreto dell'urna, verso quella sponda? Io penso che dobbiamo compiere una riflessione più complessiva. In questa lunga transizione verso la Repubblica che non c'è, abbiamo finito per smarrire i punti di riferimento di una democrazia solida per abbracciare entusiasticamente le logiche di una democrazia liquida. A cosa pensi, esattamente? Penso al fatto che nella democrazia solida c'erano strutture robuste di partecipazione, radicate non solo nel territorio ma nella coscienza delle persone: i partiti, i sindacati, le organizzazioni professionali. C'erano luoghi in cui il confronto era la strada maestra che portava all'approfondimento dei pro-

96

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

blemi e delle soluzioni, dalla diagnosi si passava alla terapia. Tutto questo è stato sostituito da meccanismi comunicazionali in cui conta soprattutto l'abilità di chi quei meccanismi maneggia con un elevatissimo rischio di manipolazione perché nel momento in cui non c'è il confronto non prevale tanto il pensiero unico ma il pensiero di Uno Solo, Uno Solo al Comando. Se Grillo spopola, se Berlusconi con un'abile campagna incentrata sull'Imu riesce a recuperare tanti consensi elettorali, la ragione sta proprio in questa capacità non di suscitare un confronto sui problemi del paese ma di veicolare delle opinioni che attraverso il megafono mediatico diventano prima soluzioni e poi verità assolute. Dallo spettacolo (inteso come Grandezza filosofica) della democrazia, alla democrazia dello spettacolo: non a caso, per vie e ruoli diversi, tanto Grillo quanto Berlusconi vengono da lì, dalla televisione. Il problema oggi è questo: riattivare forme di partecipazione e di controllo, uscire da questa camicia di forza di un sistema mediatico che sostituisce l'illusione alla realtà. Da questo punto di vista, io trovo che il messaggio di Grillo sia ancora più subliminale. Lui, attraverso la Rete, dà veramente l'impressione alla gente di partecipare, di poter dire ciò che pensa, anche infarcendo l'espressione del pensiero con qualche volgarità lessicale. Ma poi? Poi? Poi non resta nulla, resta solo l'illusione ma la democrazia è qualcosa di molto diverso, è la somma di luoghi in cui le idee si confrontano, le proposte si articolano e si sintetizzano, in cui i gruppi dirigenti si selezionano non in base semplicemente a un freddo curriculum ma sulla scorta di una verifica continua e quotidiana, sulla scorta di esami che eduardianamente non finiscono veramente mai. La partecipazione è sostanza, non un processo aleatorio in notevole misura suscitato da questi abili utilizzatori di strumenti mediatici attraverso la propagazione di notizie (vere o presunte che siano) attuata con metodi tipici del marketing.

97

IL LAVORATORE RITROVATO

Eppure Grillo riempie le piazze, anche una piazza fortemente simbolica per il sindacato come Piazza San Giovanni a Roma... Le piazze di Grillo mi ricordano un po' le piazze tunisine, egiziane: vengono riempite semplicemente per dire che determinate persone devono andare a casa. E' un copione abilmente replicato dal "Vaffa Day" in poi. Le piazze del sindacato erano diverse: c'era la protesta e c'era la proposta, era così nell'Autunno Caldo, era così negli Anni Ottanta quando abbiamo cominciato a parlare di fisco giusto, di lotta all'evasione e all'elusione, di santuari da smantellare. Siamo al Fantasma della Partecipazione perché, poi, al "vaffa" non segue la riforma. Dov'è la proposta? Come si dà uno sbocco alla protesta? Come si attutisce il disagio con le riforme? Mandiamo tutti a casa. Benissimo. Ma poi? Come si fa crescere l'occupazione? Come si organizza una sana politica dei redditi? Come diamo un senso collettivo a questa nostra storia democratica? In che maniera riusciamo, ognuno di noi per la propria parte, a essere Stato, comunità di interessi e cittadini responsabili, momento regolatore di spinte e bisogni? E' un problema solo italiano? Io lo vivo come un problema solo italiano perché vedo che altrove, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania, in Spagna le cose vanno diversamente: la democrazia è caratterizzata ancora da elementi di solidità. In tanti hanno contribuito a questa situazione... Il problema più grave è la perdita di autorevolezza dei soggetti collettivi, i partiti, i sindacati, la Confindustria, gli organi professionali. Il bisogno irrefrenabile di presenzialismo spinge i dirigenti di quelle organizzazioni verso gli studi televisivi, davanti alle telecamere e in questa maniera alla democrazia si sostituisce una effimera telecrazia e cybercrazia. Resta qualche àncora di salvezza? I presidenti della Repubblica. Giorgio Napolitano, Carlo Azeglio Ciampi, Sandro Pertini che è stato il precursore di una certa interpretazione del ruolo, hanno puntato sulla valorizzazione dei simboli della democrazia: la bandiera,

98

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

l'inno, la Costituzione. Giorgio Napolitano in momenti complessi, bui, è stato un faro: la celebrazione del 150° anniversario dell'Unità ha vivificato una idea messa negli ultimi vent'anni in discussione da avventurose ideologie secessionistiche, ha cercato di battere la "pancia" (di alcuni) con la Ragione e il Sentimento. Ha esaltato la logica di un'Italia Unita modernizzandola, cioè collegandola a quella più vasta Patria Europea che è il nostro destino ancora incompiuto ma ineluttabile. I “tecnici” spesso hanno dato l’impressione che “l’infallibilità” delle loro soluzioni teoriche faccesse a pugni con la crudezza della realtà. Mi viene in mente quel che William Hazlitt ha scritto nel suo libro “Sull’ignoranza delle persone colte”: “La persona istruita è fiera della sua conoscenza di nomi e di date, non quella di uomini e cose, non pensa e non si interessa ai propri vicini di casa, ma è al corrente degli usi e dei costumi della tribù e delle caste degli indù e dei tartari calmucchi. Riesce appena a trovare la via vicina alla propria, benchè conosca le dimensioni esatte di Costantinopoli e di Pechino. Non è ancora riuscita a capire se il suo più vecchio conoscente è un mascalzone o uno sciocco, ma sa tenere una pomposa conferenza su tutti i principali personaggi della storia. Non sa dire se un soggetto è nero o bianco, tondo o quadrato, ma sa a menadito le leggi dell’ottica e le regole della prospettiva. Conosce le cose di cui parla, come un cieco i colori”. L'Italia è un paese molto strano. Il presente e il passato si confondono. Mario Monti ora sembra quasi che non abbia mai retto il timone del governo nazionale. Non trovi un po' bizzarra questa volatilità della pubblica opinione: per un anno quasi non si poteva fare a meno di Monti poi il paese va alle urne e viene sostanzialmente “cancellato”. Il Pd fatica nei sondaggi ma nel momento in cui Letta viene nominato presidente del consiglio si trascina dietro consensi che vanno ben oltre quelli attribuiti al suo partito di appartenenza. Qual è la causa di questa schizofrenia degna di un convegno di psichiatria democratica? La causa è l'assenza di strutture organizzate. I partiti e i sindacati sino a qual-

99

IL LAVORATORE RITROVATO

che tempo fa erano ben radicati nel territorio, avevamo una articolazione democratica che coinvolgeva la gente e ne interpretava gli umori. La volatilità dipende dal fatto che queste presenze sono diventate vieppiù impalpabili. Insomma, la crisi dei corpi intermedi. Di questo in effetti parliamo perché non è che arranchino solo i partiti e il sindacato, sono in difficoltà anche le associazioni, gli ordini professionali, la stessa Confindustria. Le scelte politiche si fanno come se fossimo perennemente immersi in un talk show. Prima ci si lamentava delle lunghe riunioni, delle interminabili trattative sindacali ma tutto questo finiva per coinvolgere la gente in maniera attiva. Ora c'è il vuoto della politica, vissuta come un pianeta sempre più distante. Risultato? La gente vota normalmente contro qualcosa, quasi mai a favore di qualcosa e vota contro perché non riesce a identificarsi con le persone, con le associazioni, con le organizzazioni rappresentative. Questo stato di cose non è colpa di Beppe Grillo. Preesisteva alla sua irruzione sulla scena politica? Sì, preesisteva. Prima c'è stata Mani Pulite che ha avuto in Italia lo stesso effetto del crollo del Muro di Berlino: ha spazzato via tutto. Poi è arrivata la Lega. E tanto il Pd quanto il sindacato hanno compiuto un errore nella valutazione degli orientamenti elettorali nonostante ci fossero studi (ne ricordo uno degli anni novanta della Cgil) che dicevano con chiarezza che al nord gli operai e i pensionati votavano il partito di Bossi. Adesso, evidentemente, si sono spostati su Grillo. Nell'urna si manifesta la protesta ma il guaio è che non ci sono strutture in grado di canalizzare la protesta e così un giorno sei un santo e un altro giorno sei un diavolo. Tutto semplice, senza mediazione alcuna. Esattamente. Tutto ormai è estremamente semplificato. Il povero Walter Veltroni veniva preso in giro per il suo famoso: “ma anche...” Aveva ragione, però. La vita politica è complessa, non esiste solo il bianco e il nero, esiste il grigio che ha tantissime sfumature. Ora al “ma anche” si sono sostituite frasi 100

E’ il luglio del 1991: il presidente George Bush, in occasione del vertice del G8, riceve i leader sindacali alla Casa Bianca. In primo piano Giorgio Benvenuto stringe la mano a George Bush; al centro, Sergio D’Antoni, segretario della Cisl

IL LAVORATORE RITROVATO

“definitive” come “senza se e senza ma” che sono il segno di una semplificazione perversa: non ti costruisci una opinione, fai una scommessa. Tu parlavi prima di talk show. Lì, almeno, si parla. La realtà è che siamo passati ai “mi piace” della Rete, una forma di democrazia scarnificata. In realtà non è una forma di democrazia. Per giunta, quei “mi piace” a cui tu fai riferimento si trasformano in una forma fortissima di condizionamento. E lo abbiamo visto durante le elezioni per il presidente della Repubblica: i parlamentari del Pd non hanno fatto riferimento al partito ma ai messaggi che arrivavano attraverso la Rete. Messaggi che riguardano una infinitesima minoranza della popolazione italiana perché alle parlamentarie di Grillo hanno partecipato venticinquemila persone e il famoso “referendum” sul presidente della Repubblica ha coinvolto ventisettemila elettori. In fondo l'Italia è abitata “appena” da sessanta milioni di connazionali. Il professor Novelli, docente di comunicazione politica all'Università Roma Tre ha detto in una intervista: “Ross Perot nel 1993 negli Usa pensava un modello di partecipazione non comunitario. Il cittadino si alza, fa colazione e preme un bottone per avallare o meno decisioni. Ma è un tipo di approccio che non contempla la riflessione”. E, allora, possiamo seguire indicazioni che arrivano da esigue minoranze per giunta non particolarmente “riflessive”? Il fatto è che la politica e il sindacato hanno ostruito i vecchi canali che consentivano di capire cosa si agita nella società. Risultato: quando cambi opinione così facilmente, quando la tue valutazioni sono tanto volatili, allora vuol dire che in realtà non hai opinioni. Alla fine i sondaggi che vengono effettuati in Rete e che riguardano comunque minoranze finiscono per essere vissuti come il modo di sentire di una maggioranza. Purtroppo sono venute meno le sedi materiali del confronto. E' un po' come nel Palio di Siena: non gareggi per vincere, gareggi per far perdere il tuo avversario. Volendo, l'immagine più credibile sono gli stadi italiani, vera fotografia del

102

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

Paese: si tifa normalmente contro e solo in minima parte a favore... Esattamente. Il leaderismo che ha determinato la nascita di tanti partiti personali finisce in realtà per non avere una proposta, un risvolto positivo. Evgeny Morozov, grande politologo bielorusso, che insegna negli Stati Uniti dice una cosa che dovrebbe indurci a qualche riflessione: scordatevi che attraverso la Rete siate voi i protagonisti perché alla fine conta il carisma e quello non te lo dà una piattaforma digitale. Concordi? Sì. Senza fare nomi, conosco diverse persone che sono andate sulla Rete e che si incavolano quando ricevono valanghe di commenti negativi. Io la Rete la uso e, personalmente, non la demonizzo. Può servire per capire gli umori che si agitano nella società però non può sostituire le strutture collettive, non può sostituire quei luoghi in cui si confrontano le idee, si costruiscono le proposte e le soluzioni. La democrazia è faticosa... Le regole valgono sempre, valevano ieri, valgono oggi, varranno domani. La validità delle proposte va testata ma oggi ti ritrovi senza i consigli di fabbrica, senza un sindacato che discute, senza quei luoghi fisici in cui eri obbligato a convincere i tuoi interlocutori, con pazienza, con proprietà di linguaggio, soprattutto con proprietà di idee. Parliamo di riforme ma la struttura dell'informazione e della comunicazione è quasi incompatibile con la loro elaborazione. Purtroppo le riforme non possono nascere al tavolino di un bar. Dice sempre il professor Novelli: “Si è affermata l'idea che ti rappresenti meglio uno che ti somigli piuttosto che uno bravo”. E a dare un'occhiata ai comportamenti di questi eletti dal popolo attraverso la selezione delle “parlamentarie”, si ha netta l'impressione che ci somiglino tanto da non saper quasi nulla del funzionamento di una macchina comunque complicata (e troppo spesso perversa) chiamata Stato. La Rete al momento è così: sceglie chi è critico, esalta il messaggio più distruttivo. La Rete non è la proposta, è la protesta. In fondo è per questo che

103

IL LAVORATORE RITROVATO

Grillo si tiene alla larga dal governo: teme la normalizzazione. Se c'è una cosa che nella Rete emerge con chiarezza è la protesta senza speranza. Invece sono convinto che se usata in una maniera più razionale potrebbe essere uno strumento formidabile di informazione. Ma dovrebbe crescere una educazione all'uso della Rete. Da questo punto di vista l'assenza dei corpi intermedi, a cominciare dal sindacato, è drammatica perché potrebbero svolgere una funzione pedagogica essenziale. Qui siamo al cane che si morde la coda. Parlare di educazione, di insegnamento è veramente difficile in una società in cui manca il lavoro di gruppo, il gusto della ricerca, in cui non c'è la volontà di comprendere come puoi svolgere una attività di informazione, di interazione. La volatilità del voto, degli stati d'animo è il prodotto di tutto questo: le persone si identificano con chi fa la voce più grossa, con chi avanza le soluzioni più liquidatorie. La Rete è, comunque, entrata da protagonista, nel bene o nel male, nelle elezioni presidenziali. Ma, al di là di questi aspetti relativi a una idea di democrazia che avrà bisogno di ulteriori approfondimenti, tu come giudichi un evento decisamente storico come la rielezione di un presidente della Repubblica? E' la sconfitta dei partiti? Significa semplicemente che i partiti non sanno gestire la vittoria: ormai sono delle macchine elettorali costruite per vincere nelle urne ma non per governare. La conferma di Napolitano è semplicemente una presa d'atto: si sono dovuti affidare a lui per garantire quella che Craxi chiamava governabilità. Joschka Fisher, vice di Gerhard Schroeder nell’ultimo governo tedesco rosso-verde, in una intervista al Corriere della Sera ha criticato così le ricette della Angela Merkel: “Mi preoccupa che l’attuale strategia chiaramente non funziona. Va contro la democrazia, come dimostrano i risultati delle elezioni in Grecia, in Francia e anche in Italia. E va contro la realtà: lo sappiamo sin dalla crisi del 1929, dalle politiche deflattive di Herbert Hoover in America e del cancelliere Heinrich Bruening nella Germania

104

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

di Weimar, che l’austerità in una fase di crisi finanziaria porta solo a una depressione”. Così parlava Fischer a maggio del 2012 e le sue parole hanno trovato piena conferma alla fine dell’anno nei dati diffusi dall’Istat: disoccupazione oltre l’11 per cento con tendenza in aumento per l’anno successivo (11,4), contrazione del 2,3 per cento del Pil, crollo della spesa per i consumi (- 3,2). È una valanga che non si arresta? Non credo che si arresterà in tempi brevi o brevissimi. D’altro canto l’inizio del 2013 è stato analogo alla fine del 2012, una colpo dopo l’altro ai bilanci delle famiglie, dei lavoratori, dei pensionati, delle imprese. Pensi che il sindacato sia consapevole di questa deriva? È consapevole ma paralizzato dalle divisioni: le polemiche tra Confederazioni hanno più spazio delle discussioni di merito sulle cose da fare. Uilm e Fim hanno ragione quando pretendono di firmare il contratto dei metalmeccanici ma si devono contemporaneamente porre il problema di una metà della categoria che preferisce battere un’altra strada. Mi viene in mente un vecchio proverbio: se vuoi camminare in fretta, vai da solo, ma se vuoi essere certo di arrivare, allora muoviti in carovana. Quando le scelte che compi restano solitarie, il rischio della sconfitta è consistente, quando, al contrario le tue soluzioni diventano patrimonio di tutti, le possibilità di giungere felicemente a un traguardo sono più concrete. Un percorso che appare complicato: per quali vie ritrovare l’unità in un momento in cui i lavoratori sono estremamente vulnerabili, attaccati sul fronte del reddito, dei diritti e delle certezze (o sarebbe meglio dire, incertezze) occupazionali? Il sindacato deve rimettere in moto i meccanismi della democrazia interna, deve tornare a rappresentare non solo chi è iscritto ma anche chi non è iscritto, anche perché gli iscritti di oggi si avvicinano alle Confederazioni non per una scelta politica ma per la via traversa dei servizi. Bisogna ritrovare nuovi meccanismi democratici, bisogna cercare un’intesa sull’annosa questione della rappresentanza. I sindacati, divorati dai loro apparati burocratici, sono bloc-

105

IL LAVORATORE RITROVATO

cati. Lo sviluppo deve essere la loro bussola perché solo per quella strada puoi incontrare quei giovani che oggi vivono le Confederazioni come una realtà lontana, incomprensibile, in qualche caso fastidiosa se non proprio ostile. E qui siamo al problema dei problemi per il sindacato di questi anni: il precariato. Guy Standing, docente di Economic Security all’università di Bath in Inghilterra, in un suo recente libro, “Precari” (Il Mulino), dopo aver diviso la società, il mondo dell’impresa e del lavoro in sette categorie (i super-ricchi, i detentori di lavori stabili, i proficians o tecnoprofessionisti, i lavoratori manuali cioè la vecchia classe operaia, i precari, gli emarginati e i disagiati), ha sottolineato le dimensioni planetarie del problema: in Giappone i precari sono ormai il trenta per cento della forza lavoro, in Corea del Sud il cinquanta. In Italia siamo bene avviati. Non pensi che il sindacato negli anni passati si sia illuso di riuscire a domare una “bestia” insaziabile? Il sindacato ha compiuto delle scelte in buona fede. Quando il problema ha cominciato a manifestarsi, ha fatto un ragionamento di buon senso: in un mercato globale abituato a trasformarsi in continuazione non possiamo impiccarci alle rigidità, bisogna inserire elementi di flessibilità; il mercato è volubile, bisogna tener dietro a una organizzazione del lavoro in grado di adattarsi alla domanda, di soddisfare le esigenze imposte dalle richieste dei consumatori e dalle mode. Era giusta la flessibilità, i guai sono cominciati quando la flessibilità è stata trasformata in precarietà. A questo punto il sindacato ha fatto un’altra valutazione: meglio un lavoro precario che un ragazzo per strada, totalmente senza reddito, facile preda di mafie, camorre, ‘ndrine. Il controllo della situazione è sfuggito di mano: la precarietà per una, probabilmente per due generazioni, è diventata l’unico sbocco lavorativo. Uno sbocco avvilente perché non incentiva i giovani obbligandoli ad accettare quel che capita e non quel che è in linea con la loro preparazione culturale e professionale. In questa realtà le Confederazioni sono finite ai margini venendo vissute come inutili orpelli del mondo del lavoro. Questi ragazzi poi si ritrovano davanti dirigenti allo stesso tempo immortali e immobili, persone

106

È l’epoca degli scioperi selvaggi nei trasporti. “La Stampa” del 21 ottobre 1986 illustra con una metafora ferroviaria le posizioni confederali: la Uil guidata da Giorgio Benvenuto favorevole alla regolamentazione del diritto di sciopero nei pubblici servizi, la Cgil di Antonio Pizzinato e la Cisl di Franco Marini più fredde. Di traverso sui binari

IL LAVORATORE RITROVATO

che fanno grandi aperture sul piano delle dichiarazioni ma che non lasciano spazi nelle strutture sindacali e politiche. Tra sindacati e giovani si è instaurato un dialogo tra sordi. Generazioni neglette e rifiutate, considerate inutili sul piano del cambiamento, della rivoluzione delle idee. Alcune sortite della Fornero ai tempi in cui ricopriva il ruolo di Ministro, mi hanno fatto letteralmente cascare le braccia: sempre questo atteggiamento didattico. Come ha detto a proposito dei giovani in cerca di lavoro? Schizzinosi, anzi ha usato un termine inglese, “choosy”, decisamente più elegante nei circoli intellettuali che alimentano i think tank liberisti o turbo-liberisti cui il Professor Monti per formazione culturale e attività professionale fa riferimento. Anche su questo terreno emerge un certo disprezzo intellettuale per una realtà che non si conosce, non si frequenta, non si maneggia: la cattedra a volte allontana dalla vita. Questi ragazzi non sono per nulla schizzinosi, al contrario sono costretti a prendere quel che gli viene offerto. Trovo sinceramente insopportabile questo modo di fare politica per retorica e paternali. La realtà è che ti intristisci quando fai un lavoro che non è coerente non solo con le tue aspettative ma anche con la tua specifica preparazione. La precarietà non è solo un lavoro senza prospettive, è una condizione di vita che ti porta all’abbrutimento, che ti obbliga a vivere solo nel presente (e molto faticosamente), che ti toglie il futuro e il respiro, che condiziona chi ti sta vicino. La precarietà non è semplicemente una inaccettabile e immorale condizione lavorativa, è anche una insopportabile situazione esistenziale e familiare. È immaginabile definire i Precari una nuova classe proletaria o, addirittura, sottoproletaria? Standing nel sostantivo precariato individua lessicalmente proprio l’unione di due concetti, la temporaneità del lavoro e la definizione di una nuova forma di proletariato. Per trasformare la moltitudine dei precari in classe bisognerebbe prima di tutto sfoltire le tipologie contrattuali, oggi sono una vera e propria foresta. E questa proliferazione è stata un altro errore perché sino a quando tutto ruo-

108

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

tava intorno al lavoro interinale o all’apprendistato, la situazione si riusciva anche a governarla, ma in questa selva di contratti è veramente difficile orientarsi. Ecco perché dico che il sindacato si deve aprire a forme nuove, i tentativi che pure nel passato sono stati fatti dalle Confederazioni per organizzare i giovani non hanno funzionato. Ha raccontato Roberto Napoletano, direttore responsabile del Sole 24 ore che al Politecnico di Milano nel gennaio 2013 in un’aula gremita di ragazze e ragazzi un giovane è intervenuto dicendo: “nel considerare la mia condizione mi sono chiesto quale caratteristica mi accomuni a tutti gli altri giovani e studenti di questo Paese. La risposta più istintiva è la paura... . Sui nostri pensieri incombono mille paure: paura di non riuscire a riscattare i nostri crediti; paura del contratto a progetto che scade, paura di non trovare, dopo gli studi, un lavoro all’altezza delle nostre aspettative o di non trovar affatto... in conclusione questa generazione, la mia generazione ha paura del proprio futuro; non credo possa trovarsi un indicatore più significativo per certificare lo stato di malessere di un Paese”. La legge 30 ha molto complicato la situazione anche perché ha percorso la strada che troppe volte è stata battuta in Italia con insuccesso: quella dei due tempi, prima la flessibilità, cioè la foresta contrattuale, poi il welfare che in realtà non è mai arrivato lasciando i giovani nell’incertezza e nella solitudine, esposti soltanto ai colpi di bacchetta (rigida ma non magica) dei ministri di turno o di altri personaggi prodotti da questo lungo e triste Autunno italiano come un ex sottosegretario che definì “sfigati” i ragazzi che alla laurea arrivano a ventotto anni, semmai studiando e lavorando contemporaneamente (come dire: cornuti e mazziati). È vero, la legge 30 ha aperto e allargato una strada, quel che doveva essere una eccezione si è trasformata nella regola. Creando un paradosso: i contratti a tempo indeterminato si fanno per gli immigrati perché il permesso di soggiorno è condizionato a una posizione lavorativa stabile, i giovani italiani, invece, restano precari. A loro la nazionalità e la residenza non possono essere negate, gli viene, però, negato un altro diritto di cittadinanza, quello a un lavoro sicuro e appagante, una negazione che porta alla mortificazione civile.

109

IL LAVORATORE RITROVATO

Se posso usare un riferimento ardito e anche provocatorio, direi che i giovani italiani precarizzati sono i nostri Sans Papier. A loro viene riconosciuto un unico diritto: essere incasellati in stereotipi che nulla hanno a che vedere con la realtà dei fatti, essere considerati viziati da una tecnocrazia resistente a qualsiasi rinnovamento (quella sì veramente a tempo indeterminato) e che scruta il mondo dal buco della serratura dei più triti luoghi comuni. E a proposito di luoghi comuni, ne circolano diversi anche per quanto riguarda il rapporto tra il mondo della scuola e quello del lavoro. La Confindustria dice che mancano i laureati, Mario Monti si lamenta nella sua agenda dell’abbandono universitario, eppure qualche anno fa venne fuori una indagine in qualche maniera sorprendente: svelava che solo la metà dei manager erano laureati. Più recentemente la Luiss, che non è “lontana” dalla Confindustria, ha condotto un’altra indagine da cui si rileva che due sono le qualità apprezzate dalle imprese per fare carriera: fedeltà e obbedienza. E il merito di cui tutti parlano? Nonostante i mille limiti dell’azione sindacale, credo che anche su questo terreno la presenza di organizzazioni che comunque controllavano e tutelavano abbia prodotto nel passato risultati positivi. Un tempo in fabbrica c’erano i Consigli, ora tutto viene catapultato dall’esterno con i delegati che portano all’interno le divisioni prodotte fuori dai cancelli. Il sindacato aveva conquistato poteri di informazione. Ora questi diritti o non vengono rispettati o vengono addirittura preclusi. La conseguenza è che oggi i lavoratori sono completamente nelle mani dell’impresa, le decisioni e le carriere sono il prodotto di scelte unilaterali e insindacabili. Non può destare sorpresa se le qualità più richieste sono obbedienza e fedeltà. Pian piano nel Paese sta prendendo corpo l’idea che i sindacati sono inutili come strutture rivendicative e possono avere un ruolo solo come dispensatori di servizi. In una fase di bassa crescita o di non crescita o di decrescita, le Confederazioni perdono potere contrattuale e si afferma il concetto che le questioni del lavoro possono solo essere affrontate dal Parlamento. Anche questa storia del salario minimo sottrae spazi al sindacato perché la soglia viene definita in sede par-

110

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

lamentare e sottratta alla negoziazione sindacale. È una situazione che sulle Confederazioni incide anche sotto aspetti ai più sconosciuti. Negli anni Sessanta e Settanta, erano tanti i dirigenti, i lavoratori che sapevano negoziare; questa capacità negli ultimi tempi si è andata affievolendo. Un’ultima considerazione: temo che il salario minimo alla fine si trasformerà nel salario massimo e sarà un ulteriore colpo alle condizioni di vita dei lavoratori. Quello che descrivi è un sindacato che è stato progressivamente messo all’angolo… È stato costretto ad arretrare: pezzo per pezzo gli hanno tolto i diritti, quindi gli hanno cambiato i connotati. È forte il rischio che diventi quel che non è mai stato, una corporazione, che il momento federale diventi prevalente rispetto a quello confederale che è stato sempre, al contrario, il tratto caratterizzante, l’aspetto specifico dell’esperienza italiana. Viviamo in un mondo ricco di paradossi. I Fondi Pensione ne contengono alcuni. Negli anni della Bolla Immobiliare il valore dei titoli di borsa spesso cresceva quando le aziende annunciavano vasti piani di ristrutturazione, cioè tagli ai livelli occupazionali: veniva premiata l’attesa di un dividendo in crescita. I gestori dei Fondi Pensione a volte hanno utilizzato quei capitali per investirli in iniziative di segno decisamente contrario agli interessi dei lavoratori, in aziende, appunto, i cui titoli salivano perché mettevano alla porta migliaia di operai, una situazione talmente surreale da indurre Jeremy Rifkin e Randy Barber addirittura alla fine degli anni Settanta, come riportato da Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini nel libro “Il film della crisi” (Einaudi), a domandarsi sino a quando «i lavoratori continueranno a permettere che il loro capitale continui a essere usato contro di loro oppure se vorranno affermare un controllo allo scopo di salvare i posti di lavoro e la loro comunità». Da allora le cose non sembrano essere cambiate, anzi. Prima ho fatto riferimento a quella intervista del presidente della Ig Metall tedesca, Berthold Huber. La loro scelta è chiara e semplice: noi operiamo in un

111

IL LAVORATORE RITROVATO

modo piuttosto che in un altro nell’interesse dei lavoratori e delle imprese. È una linea ispirata al coinvolgimento non all’asservimento. Da noi si segue la strada esattamente contraria che danneggia tanto i lavoratori quanto le imprese. Cosa intendi dire? In Italia abbiamo un sistema pensionistico da cui il sindacato è stato totalmente estromesso e il fatto di non coinvolgerlo lo trovo fuori luogo. I Fondi Pensione non sono mai decollati e adesso stanno attraversando una fase di oggettiva difficoltà. Dovevano essere un paracadute per i lavoratori. Nel frattempo, però, il sistema è stato continuamente cambiato e i Fondi Pensione non hanno seguito questi cambiamenti. È vero, quei soldi dovrebbero essere usati per i lavoratori, non contro i lavoratori. Come? Faccio un esempio: quanti posti in questa fase si sarebbero potuti salvare investendo quei quattrini in impieghi realmente produttivi. Qui, invece, quando le aziende arrivano al punto di crisi, si pensa immediatamente ai prepensionamenti. Non è immaginabile che l’imprenditore possa essere salvato dai soldi accantonati dai suoi lavoratori, ovviamente riconoscendo a chi ha messo a disposizione i quattrini quelle remunerazioni che vengono previste da qualsiasi istituto di credito. Il pregiudizio ideologico ha funzionato da freno con la conseguenza che oggi il sindacato è perdente sul piano della gestione e su quello della contrattazione. Parlavamo della lotta di classe, ma ci sono momenti, e questo è uno di quelli, in cui gli interessi dei lavoratori, dell’imprenditore e dello Stato coincidono. Con l’emarginazione dei sindacati dal sistema della previdenza siamo caduti dalla padella nella brace. I quattrini immobilizzati nell’Inps e nell’Inail potevano servire allo sviluppo; oggi, al contrario, non hai né sviluppo né sostegno. Gli “esodati “sono una spia: una vicenda che poteva essere gestita in maniera diversa e che è stata trasformata solo in una spesa per la collettività. I Fondi potevano essere usati diversamente e molto meglio. Ma qual è il costo sociale non solo economico di una classe lavoratrice mandata, in occasione di crisi industriali, anticipata-

112

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

mente in pensione? Hai gente giovane e vitale che potrebbe ancora lavorare; al contrario aumenti le sofferenze degli istituti di previdenza e non favorisci lo sviluppo. Questa dei prepensionati a fronte di riforme che innalzano sempre di più l’età pensionabile, è un altro di quei paradossi molto italiani. Lo sottolineano Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini nel loro libro: «Viene aumentata l’età pensionabile e poi si cerca di mandare in pensione anticipata i lavoratori più anziani, che costano di più dei giovani precari: un comportamento che richiederebbe delle sedute di psicanalisi». Trovi che un intervento di Freud possa contribuire a illuminare i meandri oscuri della crisi economica e della mente umana? Visto come vanno le cose, forse sì. Cerchiamo di mettere un punto fermo in questa storia malferma delle pensioni. La vera riforma l’ha fatta Dini con la collaborazione del sindacato. Da quel momento sono stati attuati numerosi interventi scollegati, però, da un disegno generale. Anzi, non solo è mancata una politica generale, ma abbiamo perseguito finalità contraddittorie. Tutti a sessantacinque anni? Benissimo e i giovani quando li facciamo uscire dalla precarietà. Le crisi aziendali si affrontano con i prepensionamenti? E allora prepariamoci a terremotare le casse degli enti previdenziali. Da un lato si alza l’asticella dell’età pensionabile, dall’altro non decolla la previdenza integrativa, dall’altro ancora i giovani restano precari perché sul mercato del lavoro si abbattono i cinquantenni prepensionati che continuano a lavorare essendo vitali, avendo grande esperienza e una straordinaria qualità: costano poco perché la pensione ce l’hanno e non devono più versare contributi. Mi sembra un capolavoro. L’unica riforma è stata quella di Lamberto Dini e le altre? Sono stati interventi rivolti soltanto a fare cassa, al di fuori di un vero disegno strategico. Il sindacato è stato colto in contropiede, si è ritrovato completamente indifeso. L’ultima “riforma”, poi, ha visto la luce nel giro di poche ore, le Confederazioni sono state tenute ai margini delle scelte e la protesta

113

Comincia la vertenza su un fisco più equo: “La Stampa” il 3 aprile 1984 la illustra così sulle sue pagine. Riconoscibili nel disegno Luciano Lama, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto ancora in una rielaborazione del più famoso quadro di Pellizza da Volpedo

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

successiva è stata quasi simbolica, un atto di testimonianza. La crisi ha avuto effetti dirompenti su tutto: sulle certezze delle famiglie, sulle prospettive dei lavoratori, sulla stessa attività dei sindacati. Le prospettive non sono incoraggianti. Quella indicata dal World Economic Situation and Prospect 2013 dice che Usa ed Europa per recuperare quel che sin qui hanno perduto in Pil e posti di lavoro avranno bisogno di qualcosa come cinque anni. Come si esce da questo tunnel? Penso che l’unica maniera sia quella di mettere insieme le forze, di darsi un obiettivo comune in un quadro di partecipazione. Ma per fare questo bisogna riattivare il dialogo con le parti sociali. È l’unica strada per riuscire a mettere a punto soluzioni che reggano al controllo delle tante giurisdizioni di questo Paese. Faccio un esempio: la Corte Costituzionale ha abolito il contributo di solidarietà che era stato imposto alle pensioni più elevate. In una fase come questa le soluzioni vanno approfondite, la conoscenza è fondamentale. Non ci sono alternative alla concertazione: solo attraverso quello strumento puoi pensare di contrapporti al peso delle caste, delle lobby, solo per quella strada puoi evitare la ripetizione degli errori clamorosi commessi nella vicenda degli “Esodati”. La crisi ha accentuato le disuguaglianze (i dati forniti dalla Banca d’Italia sono impietosi: il 10 per cento degli italiani detiene il 45,9 per cento della ricchezza, alcuni studi parlano addirittura del 47; un altro 10 per cento, quello in fondo alla scala non arriva al 9,4), aumentato la povertà (ormai tre italiani su dieci corrono su quella soglia di rischio): sono segnali di debolezza della società ma sembra quasi che tutto questo non interessi. Oggettivamente gli ultimi governi sono apparsi indifferenti ai problemi reali delle persone. La stessa “leggerezza” con la quale l’argomento delle pensioni è stato trattato lo dimostra e non a caso oggi sono proprio i pensionati a correre il rischio di scendere sotto la soglia della povertà. Le pensioni in questi anni sono state letteralmente massacrate. Prima è stata abolita la rivalutazione legata alle dinamiche contrattuali, un intervento che risale al 1992. Poi si è provveduto a sospendere buona parte dell’aggiornamento maturato per via

115

IL LAVORATORE RITROVATO

dell’inflazione, una indicizzazione che ha retto solo per gli assegni più bassi. Quindi le pensioni sono state sottoposte a un sistema di tassazione estremamente elevato, decisamente più elevato di quello che riguarda i guadagni finanziari. Tutte le soluzioni di alleggerimento fiscale escludono i pensionati. Infine le imposte legate alla proprietà, le addizionali Irpef, quelle sui beni di consumo (l’incremento dell’Iva), l’Imu hanno avuto per i pensionati l’effetto di un vero e proprio salasso. Possiamo stupirci se tanti pensionati sono progressivamente scivolati verso la soglia di povertà e alcuni l’hanno pure varcata? Qual è la conseguenza di questa situazione? Per puntellare in qualche maniera bilanci familiari traballanti i pensionati lavorano. In nero. Risultato: i giovani trovano solo occupazioni precarie di bassa qualità, gli anziani dotati di esperienza lavorano senza pagare le tasse. Una quadratura del cerchio più imperfetta non potrebbe esistere. Tu pensi che le stime sui poveri in Italia siano in qualche misura infondate? Io penso che le stime pecchino per difetto, che il quadro reale sia anche peggiore di quello disegnato dalle cifre ufficiali dell’Istat o della Banca d’Italia. Ma il vero problema è che non ci stiamo rendendo conto che abbiamo minato un pezzo vero e proprio del welfare, il welfare familiare quello che ha permesso a questo Paese di tenersi in piedi salvando anche una decente coesione sociale. I pensionati con il loro reddito sicuro garantivano un “riparo” ai figli che già trentenni un salario certo non lo avevano ancora conquistato. La realtà è che i pensionati sono stati puniti quasi con sadismo: gli hanno tolto il necessario non sovrabbondanti privilegi. Qui, in questa categoria sociale scopriamo i nuovi poveri. E li scopriamo anche nelle famiglie monoreddito, quelle in cui un uomo di cinquant’anni ha perso il lavoro e quindi l’unica fonte di sostentamento per la sua famiglia. Non parliamo solo di lavoratori dipendenti. Parliamo anche di piccoli commercianti o artigiani che fiaccati dalla crisi un bel giorno hanno abbassato la saracinesca e non sono più stati nelle condizioni di rialzarla. E quel dieci per cento che detiene metà della ricchezza nazionale cosa ti

116

I sindacati e il fisco. È “La Stampa” che il 13 ottobre 1984 spiega con una vignetta il dialogo tra Lama (Cgil), Benvenuto (Uil), Carniti (Cisl) e il ministro delle Finanze Bruno Visentini sul tema della riforma fiscale: “Uniti nella lotta” agli evasori

IL LAVORATORE RITROVATO

suggerisce? Un senso di ingiustizia: su quel dieci per cento si sarebbe dovuta costruire una patrimoniale. Al contrario, la si è fatta attraverso l’Imu per colpire tutti gli altri, per colpire nel mucchio dei grandi numeri. Le tasse restano uno dei grandi nervi scoperti del nostro Paese, penalizzato da una vasta area di evasione che fornisce un contributo notevolissimo alla stima messa a punto dall’ex capo economista della McKinsey, James Henry: ventunomila miliardi di dollari, un terzo del Pil mondiale, nascosto nei paradisi fiscali, stima probabilmente sbagliata per difetto e che potrebbe lievitare sino a trentaduemila, cioè metà del Pil Mondiale. È l’effetto del crollo di Bretton Woods, di una libera circolazione dei capitali che ha contribuito a gettare le basi dell’attuale disastro. Le situazioni vanno studiate, conosciute; altrimenti si rischia di essere semplici opinionisti. Tu parli di Bretton Woods ma la realtà è che noi abbiamo un problema enorme dietro l’angolo: la Svizzera. Si tratta di una storia esemplare, da un certo punto di vista. Il problema è stato affrontato da ogni Stato per proprio conto. La Svizzera è un forziere. Ma solo gli americani e i tedeschi sono riusciti a trovare una via d’accesso, noi no. Tu dicevi prima che un ragazzo nato nel 1984 ha sentito parlare solo di crisi ma gli effetti della crisi non sono stati uguali per tutti. Alcune stime dicono che in Italia, nel decennio che ha preceduto l’esplosione della “bolla”, dalla seconda metà degli anni novanta al 2007 il sistema delle imprese, dalle piccolissime alle grandissime, ha realizzato un aumento del 14 per cento degli utili. Una percentuale che lievita oltre il sessanta per cento per quelle medie e grandi e che arriva al novanta per le duecento migliori aziende stimate all’epoca da Mediobanca. La crisi non è come la giustizia: uguale per tutti. Questo è il paradosso della finanza: pochi investimenti produttivi, tanti impieghi su quella economia di carta che produce guadagni a breve e brevissimo termine, che garantisce rendimenti minimi all’anno del 15 per cento. A volte

118

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

sento dire: è la conseguenza del mercato. Ma anche il mercato deve essere governato, anche il mercato deve rispondere a delle regole. Ti chiedi mai: dove stiamo andando? Temo verso il prestito europeo. Non sono convinto che l’Italia possa farcela senza chiederlo, non credo che possa impostare un discorso sullo sviluppo a prescindere da quel sostegno. Da soli non possiamo farcela. E poi dobbiamo creare gli Eurobond per fare in modo che l’accesso al credito sia uguale per tutti. Il futuro sarà veramente complicato: mi riesce difficile immaginare il nuovo. So solo che in fasi come queste devi mobilitare la gente, fare appello a tutte le energie disponibili, dare una prospettiva. Il contrario del messaggio lanciato nel momento più pesante della crisi, cioè nel 2012, dal governo Monti. Non penso sia stato utile sostenere che non abbiamo fatto la fine della Grecia, sono convinto che sarebbe stato più produttivo invitare gli italiani a fare come la Germania. Non è con un’idea negativa che si combatte la paura ma con una visione di futuro. Invece sembrava che con un certo piacere si dicesse agli italiani: avete “peccato”, dovete espiare. Non si può far passare un messaggio in cui tutto si riduce a tasse e a sacrifici. È nei momenti difficili che bisogna realizzare un colpo d’ala ma per produrlo si deve indicare un traguardo positivo in questa nostra lunga marcia nel deserto: le riforme come nei primi anni del centrosinistra, una società capace di correggere le troppe ingiustizie che la caratterizzano. Nessuno sembra essere al sicuro. Qualche tempo fa lo “Spiegel” ha pubblicato uno studio commissionato dal ministero delle finanze: il crollo dell’euro determinerebbe in Germania un taglio del 9,2 per cento del Pil e una disoccupazione pari al 9,3. Non pensi che vi sia materia per dubitare della buona qualità della leadership tedesca? Non penso che sia consolatorio evocare i problemi dei tedeschi: i nostri sono decisamente più numerosi e gravi. La Germania può avere mille difetti ma ha un pregio: sa sciogliere i nodi più aggrovigliati. Vent’anni fa ha realizzato

119

IL LAVORATORE RITROVATO

l’unità del Paese e in due decenni è riuscita a integrare economicamente il suo sud: l’Est era in una condizione di arretratezza, ora non lo è più. Noi non siamo stati capaci di raggiungere il medesimo obiettivo in centocinquanta anni. Il Modello Renano che tante resistenze provoca in Italia ha consentito di raggiungere in tempi brevi obiettivi ambiziosi. Ero convinto che bisognasse costruire una Germania Europea, rischiamo, al contrario, di realizzare una Europa tedesca. Poco prima delle elezioni del febbraio 2013 lo ha scoperto anche Berlusconi, cioè lo stesso leader che vent’anni fa sosteneva di tenere sul comodino la fotografia di Margareth Thatcher: come si possa sposare l’immagine di un keynesiano convinto con una campionessa del turbo-liberismo è procedura sconosciuta alle menti umane. In ogni caso, vorrei che tu mi dicessi se quello che sta avvenendo in Italia assomiglia a ciò che a parere del premio Nobel Paul Krugman è avvenuto negli Stati Uniti. Nel suo libro, “Coscienza di un liberal” (Laterza), Krugman sostiene che gli Usa hanno fatto un balzo indietro di circa un secolo passando dalla società Middle Class creata praticamente dal nulla da Roosevelt e dal suo New Deal, alla società Long Gilded Age, quella caratterizzata da grandi diseguaglianze che accompagnò il mondo sul baratro della Grande Depressione del 1929. È andata così anche in Italia? Quando è stata fatta l’Unità d’Italia il problema più urgente era il latifondo, le grandi proprietà agricole, la cultura estensiva preferita a quella intensiva. L’unità doveva servire anche per abbattere questa struttura sociale che si basava sul privilegio, sull’ignoranza, sull’immobilismo. Riuscì a prevalere quella filosofia magnificamente illustrata da Tomasi di Lampedusa in una frase del Gattopardo: “cambiare tutto per non cambiare niente”. Nel secondo dopoguerra, però, il cambiamento è arrivato, frutto di lotte durissime. Ora corriamo il rischio di regredire, di tornare a quegli anni dell’Ottocento: gli agrari, i latifondisti non ci sono più, sono stati sostituiti dai “privilegiati” che hanno accumulato straordinarie ricchezze attraverso la finanza. Dovrebbe nascere un nuovo Cavour o un nuovo Garibaldi, in-

120

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

somma qualcuno in grado di costruire una nuova unità più o meno come si fece allora, sconfiggendo i Borboni. Il Paese è oggi nel confronto con quelli più avanzati in una condizione di minorità, non abbiamo in casa i Borboni ma abbiamo una Italia divisa e a sovranità limitata: una cosa è perdere un pezzo di sovranità perché la cedi all’Europa, altra cosa, del tutto diversa, è perderla perché altri ti impongono le politiche che ritengono più giuste e opportune. Sarebbe stata utile un’altra strategia. Noi abbiamo affrontato nella nostra storia unitaria tanti problemi, tanti drammi. A volte ne siamo venuti fuori brillantemente. Carlo Azeglio Ciampi è stato un vero tecnico: rendendosi conto della debolezza del Parlamento e dei partiti si appoggiò alle forze sociali, chiese sacrifici ma indicò una prospettiva positiva e con la sua azione creò le condizioni per entrare in Europa. Ora corriamo il rischio di consegnare il governo del Paese alla finanza, di creare una società con ristrette classi privilegiate. Il ceto medio moderato di questo paese corre il rischio di essere trasformato in una massa di manovra anti-parlamentare. Il grande errore di Monti, la sua grande occasione sprecata, è stata quella di essersi rapportato ai problemi con un atteggiamento didattico mentre avrebbe dovuto stimolare le grandi potenzialità che in questo Paese ci sono anche se a volte sonnecchiano. La storia ci ha insegnato che nei momenti più difficili gli italiani sono capaci di dare il meglio di sé. Tanti anni ancora di questa politica il Paese non è in grado di reggerli, perché è sfibrato, è debole, è impaurito. Eppure anche Monti ha capito che la differenza non è solo tra chi è ricco e chi non lo è, ma è anche tra chi paga le tasse e chi non le paga, tra chi rispetta le regole e chi non le rispetta. Però bisogna essere coerenti con le dichiarazioni di principio e non si può dire che il rapporto con le lobby va regolato se poi si consegna il Paese alla lobby più potente. Le consente che tutto questo avvenga nel silenzio e con la complicità del governo. Siamo diventati uno Stato biscazziere, con tutto quello che ne consegue a livello di inquinamento criminale (come dimostrano le indagini sulle scommesse nel calcio) e di fenomeni di corruzione.

121

IL LAVORATORE RITROVATO

Ha scritto Paul Krugman, sempre con l’occhio rivolto al suo Paese, gli Stati Uniti: «I liberal sono coloro i quali credono in istituzioni che limitino le disuguaglianze e l’ingiustizia. I progressisti sono coloro i quali partecipano, esplicitamente o implicitamente, a una coalizione politica che difende e cerca di potenziare quelle istituzioni. Sei un liberal, che tu ne sia consapevole o no, se sei convinto che gli Stati Uniti dovrebbero avere un sistema di assistenza sanitaria per tutti. Sei un progressista se partecipi agli sforzi per far nascere questo sistema». Quanti liberal e quanti progressisti circolano in Italia? Pochi liberal e pochi progressisti. Ha ragione lo storico Massimo Salvadori quando afferma che nella nostra dinamica politica le figure evocate da Krugman non si sono materializzate. La sinistra italiana è ancora dominata da divisioni ormai lontane: massimalisti e riformisti, comunisti e anarchici. Ma una sinistra veramente occidentale è tale se riesce a porsi l’obiettivo di diventare forza di governo autosufficiente. Nella sinistra italiana, invece, questa vocazione non è mai cresciuta, forse per un breve periodo l’ha accarezzata Craxi. La sinistra italiana è brava quando si tratta di fare opposizione ma quando bisogna andare al governo si mette immediatamente a costruire alleanze. Questo atteggiamento non lo ritroviamo in Portogallo o in Francia o in Spagna o in Germania o in Grecia o in Inghilterra. In Italia, invece, bisogna associarsi a qualcuno con la conseguenza che le scelte di governo risultano inevitabilmente annacquate. Il fatto è che a noi è mancato qualcosa. È mancata Bad Godesberg, è mancata Epinay sur Seine, è mancato il rinnovamento ideologico e generazionale che ha portato Felipe Gonzalez a governare lungamente la Spagna. Per essere di sinistra devi credere in quello che fai e che proponi ma per crederci realmente devi avere la voglia di misurarti con il governo. Veltroni in qualche maniera al Lingotto ci aveva provato a battere la strada dell’autosufficienza ma poi ha ceduto alla tentazione dell’alleanza con Di Pietro. Il fatto è che alla chiarezza delle posizioni si sostituisce l’opportunismo delle coalizioni. Io sono convinto che la sinistra abbia un grande avvenire, che il mondo abbia bisogno di socialismo perché il peso dell’ingiustizia sta diventando insopportabile.

122

DALLA CONCERTAZIONE ALL’EMARGINAZIONE

Ma bisogna discutere sulle cose da fare non solo sulle alleanze da costruire. Bisogna essere visionari. Sognatori e visionari perché le riforme non si possono solo chiedere, bisogna farle. È il compito di chi governa: riuscire a intravedere quel che gli altri non vedono, semmai anche con l’aiuto dell’immaginazione. L’immaginazione al potere, residuo di un tempo in cui se non tutto, molto è apparso possibile. Bisogna dare alla gente la visione del futuro. È la passione il motore della sinistra ed è quella che dovrebbe guidare i liberal e i progressisti. Purtroppo prevale l’opportunismo. La sinistra si annichilisce da sola parlando di alleanze. E si sottovaluta. Peccato che la discussione aperta da Craxi alla fine degli anni settanta su Proudhon non abbia avuto un seguito perché ci avrebbe aiutato a uscire da questa sorta di recinto storico, forse ci avrebbe fatto nuotare nel mare aperto delle forze progressiste occidentali. Per tornare a Krugman: no, liberal proprio non ne vedo. Questo è un paese di microcorporazioni, sostanzialmente immobile, si lavora per sostituire i nuovi monopoli ai vecchi.

E’ il 5 giugno 1978, scricchiola l’unità sindacale Alain Denis disegna un Luciano Lama che consola Giorgio Benvenuto mentre Luigi Macario e Pierre Carniti vanno via 123

Per Chiappori la frequentazione operaia legittima nel 1993 l’elezione di Giorgio Benvenuto al vertice del PSI.

Dal Presente al Futuro

Per parlare del futuro del sindacato può essere utile fare riferimento al tuo passato. In particolare a un libro dato alle stampe nel 1986 ed edito da Rizzoli. Significativo già nel titolo: “La seconda giovinezza”. Una lunga intervista raccolta da Lorenzo Scheggi Merlini. In quelle pagine dicevi: “Abbiamo il problema, non solo come Uil ma come intero movimento sindacale, di riuscire a riprendere la rappresentanza dei lavoratori sui luoghi di lavoro. La riflessione sulla contrattazione, sulle modalità e i contenuti parte da questa esigenza. Ma niente sarà più come prima. E allora il sindacato, se vuole continuare a esistere, deve trovare altre cose da dare ai lavoratori. Perché la gente dovrebbe iscriversi a un sindacato senza avere niente in cambio? Non avrebbe senso. Da qui l’esigenza di estendere la tutela sugli aspetti, chiamiamoli così, della qualità della vita”. Era il “manifesto ideologico” del “sindacato dei cittadini”: dentro e oltre la fabbrica, gli uffici, i posti di lavoro. Questa era la Seconda Giovinezza del sindacato. Quale sarà la terza? Il passato è quasi un genere di conforto. Sappiamo cos’è accaduto e lo rimpiangiamo. Ma poi ci manca il futuro. A furia di rimpiangere intere generazioni passano, invecchiano e si estinguono. Il Paese mi pare come immobilizzato: si racconta la storia e si impedisce alle nuove generazioni di scriverne una ancora inedita, anzi non si accetta proprio che si mettano alla scrivania per redigerla. Abbiamo nei confronti dei ragazzi un retorico atteggiamento di grande comprensione per i loro problemi, per le loro difficoltà a inserirsi in una realtà dominata dalle vecchie generazioni però poi nei gangli vitali, nelle organizzazioni sociali, nei partiti, nelle professioni, nella stampa riesci a entrare solo se vieni cooptato. Da questo punto di vista, Matteo Renzi ha ragione quando dice, utilizzando un aforisma, che per ottenere un lavoro devi essere amico o figlio o parente di qualcuno. Il merito scompare, non serve a nulla, la preparazione e 125

IL LAVORATORE RITROVATO

la qualità professionale evaporano. Eppure queste ultime qualità sino a una certa fase della nostra storia hanno avuto un ruolo nelle carriere. L’hanno avuto in almeno due momenti storici della nostra vita collettiva. In un contesto drammatico, alla fine della seconda guerra mondiale quando il Paese si è rimboccato le maniche e ha riguadagnato la posizione eretta dopo essere stato messo in ginocchio. Sono stati anni fecondi: la ricostruzione, il Miracolo Economico,il primo centrosinistra con le sue riforme, il benessere diffuso, il welfare, i diritti civili. Ci siamo avvicinati all’Europa, siamo diventati un pezzo di quella che John Kenneth Galbraith chiamava la “società opulenta”. Poi siamo passati lentamente ma progressivamente da quel fermento innovativo a una sorta di stagnazione sociale in cui ci si preoccupa di difendere solo chi è all’interno della cittadella fortificata dei privilegi. Negli anni a cui tu fai riferimento c’era fuori un mondo che stimolava, messaggi nuovi che arrivavano un po’ da tutte le parti e da tutti i settori della vita associativa. John Kennedy andava a Berlino e saliva sulla famosa scaletta per guardare dall’altra parte del Muro e proclamare “siamo tutti berlinesi”. Allen Ginsberg costruiva la rivoluzione culturale della Beat Generation, arrivavano i venti del rock, indipendentemente dal fatto che a spingerli fossero i Beatles o i Rolling Stones. Soprattutto c’era il benessere: tutti noi stavamo godendo della più lunga fase di espansione che il mondo abbia mai conosciuto, spinta dal New Deal di Roosevelt, nata tra i rumori della Seconda Guerra Mondiale e terminata solo con la crisi petrolifera. Erano i tempi della Swinging London o della Dolce Vita. Era un’altra storia. Sicuramente la società stava cambiando. La scolarizzazione di massa, il pianeta diviso politicamente in blocchi ma che cominciava a conoscere a livello economico e commerciale mercati più aperti, globali, il mondo del lavoro aveva le sue regole, le rivendicazioni avevano sempre un orizzonte di carattere generale: certo il salario, ma anche la riduzione a quaranta delle ore di lavoro settimanali, il diritto allo studio per aprire i canali dell’istruzione anche ai figli delle classi meno agiate. La forza del sindacato era l’operaio-massa, il simbolo della nostra capacità di aggregazione. Ma l’operaio-massa esisteva

126

DAL PRESENTE AL FUTURO

perché l’orario in fabbrica era uguale per tutti, le pause pure, si andava in ferie tutti assieme quando ad agosto l’azienda chiudeva. Poi è cambiato tutto. I grandi luoghi di aggregazione non ci sono più, i bisogni hanno subìto una profonda diversificazione, difficilissimo tenere insieme con le rivendicazioni tutti i lavoratori, difficile tenere insieme anche lavoratori impiegati nello stesso territorio, nello stesso settore, nella stessa azienda. Il contratto nazionale a quel punto è entrato in crisi. Il primo campanello d’allarme è stato la Marcia dei Quarantamila. Perché? Perché in quel momento è apparso chiaro che pur lavorando nella stessa fabbrica, i lavoratori non avevano più i medesimi interessi e, quindi, non esprimevano più una identica categoria di bisogni. Quelli che marciavano ci dicevano che le rivendicazioni di cui eravamo portatori riguardavano una parte della fabbrica, diciamo le “avanguardie”. Io la seguii quella marcia. Accaddero diverse cose significative. Tanto per cominciare, alcuni membri dei consigli di fabbrica cominciarono a polemizzare, anche molto vivacemente, con quelli che manifestavano. Poi vennero sollevati dubbi sul fatto che fossero realmente quarantamila. Per fortuna abbandonammo prestissimo quella diatriba contabile perché l’aspetto più rilevante della vicenda non era nei numeri ma nel significato politico. Qual era il significato politico? Che non c’erano più rivendicazioni in grado di tenere unito un universo lavorativo che si era frammentato. Ad esempio: l’aumento uguale per tutti. Era una scelta che poteva soddisfare alcuni, altri, però inseguivano la soddisfazione professionale. Gli aumenti in busta-paga funzionavano quando tutte le aziende andavano bene ma nelle realtà in crisi le rivendicazioni erano inevitabilmente diverse. Da queste riflessioni nacque il “sindacato dei cittadini”. Sì. Avevamo davanti un interrogativo a cui dare una risposta: come ricomporre

127

IL LAVORATORE RITROVATO

quella unità di classe che non si riusciva più a trovare in fabbrica? Avevamo ottenuto delle riforme, avevamo messo il lavoratore nelle condizioni di essere protetto dal welfare. Poi, però, il lavoratore da cittadino si ritrovava a fare i conti con una società inefficiente o iniqua o tutte e due le cose contemporaneamente. Su quel versante l’unità si poteva ricomporre. E così cominciammo a parlare di tasse, fisco equo e progressivo, di lotta all’evasione e all’elusione. Nella società potevi risolvere i problemi dei lavoratori e migliorare la loro qualità della vita. L’alternativa a questa politica era un progressivo schiacciamento sul versante salariale: non riuscendo a ottenere un fisco più giusto e leggero, si rimediava al “danno” scaricando tutto sulla fabbrica, chiedendo sempre di più in termini salariali. Ma, ad esempio, una giustizia che funziona è interesse di tutti. Insomma, fuori dal posto di lavoro c’è un vasto universo da esplorare, l’universo del cittadino che non deve essere considerato un suddito. Penso che su questo versante il sindacato abbia ancora occasioni e potenzialità straordinarie. Lo scontro di classe in fabbrica, così come viene descritto dalla pubblicistica classica e così come io stesso l’ho vissuto, mi sembra ormai un ricordo, uno di quei ricordi capaci di stimolare un po’ di tenerezza, soprattutto quando rivedi certe vecchie immagini in bianco e nero. Ma la tenerezza non basta. No, non basta. Nel mondo globalizzato non ci sono più Luoghi Mitici, tutto è frammentato, atomizzato, parcellizzato; il tempo ha una scansione diversa, i luoghi appaiono instabili. Perciò il sindacato deve ritrovare nelle viscere della società quella grande capacità di trasformazione che ha sempre avuto e sempre avrà. Siamo destinati alla sconfitta se pensiamo che esista uno schema rigido capace di ridurre questa complessità a unità. In una società in cui i capitali viaggiano da un emisfero a un altro in una frazione di secondo, non si può più pensare che la risposta sia nell’apertura di un duro contenzioso con la controparte per ottenere un cospicuo aumento salariale: a fronte di una richiesta considerata esosa, può pure avvenire che l’imprenditore chiuda la fabbrica e la trasferisca in un’altra parte del mondo dove semmai i lavoratori sono meno bravi, meno preparati, ma anche infinitamente meno

128

DAL PRESENTE AL FUTURO

costosi. Non esiste più la società protettiva dei bei tempi quando al fianco del sindacato scendevano in piazza il vescovo e il sindaco. Poiché l’obiettivo non mi pare sia più l’annientamento del capitalismo, allora bisogna percorrere la strada della collaborazione. Su alcune tematiche la conflittualità resterà, su altre, invece, no. Sulla ripartizione degli utili le divisioni resteranno patologiche ma sull’efficienza e la competitività si potrà trovare un accordo su cui realizzare non solo incrementi salariali ma anche irrobustimenti dei livelli occupazionali. Io penso che il sindacato debba puntare oggi a realizzare qualcosa che assomigli a quanto previsto dall’articolo 46 della Costituzione o debba provare a importare in Italia sistemi che hanno funzionato nei paesi del Nord del continente rivendicando, costruendo e partecipando a organismi di controllo che garantiscano il raggiungimento degli obiettivi per i quali è stata richiesta la collaborazione dei lavoratori. Pensi che gli imprenditori italiani sarebbero disponibili a battere questa strada? C’è una parola che usa spesso Sergio Marchionne e che fa al caso nostro: esigibilità. Solo che la esigibilità di cui parlo io è bilaterale, quella di cui parla lui è unilaterale, almeno nella versione italiana perché negli Stati Uniti si è comportato diversamente e ha accettato che l’attuazione degli impegni assunti fosse sottoposta alla verifica del sindacato. Bisogna fare in modo che la fabbrica sia efficiente: se lo è, si espande, assume giovani, garantisce benefici salariali. Deve cambiare la contrattazione. Il livello nazionale deve rimanere per fissare i principi generali ma la parte sostanziale si deve realizzare in azienda. Deve cambiare il rapporto con il Governo che è un interlocutore decisivo: è Palazzo Chigi che fa le riforme. Il confronto del sindacato con l’esecutivo è andato avanti a zig zag. Ci sono stati momenti in cui il governo ha accettato il fatto che le Confederazioni controllassero l’attuazione degli impegni assunti. L’esempio migliore e più recente è quello di Carlo Azeglio Ciampi, quell’intesa con l’esecutivo da lui presieduto agli inizi degli anni Novanta consentì al Paese di uscire dalle sabbie mobili creando le condizioni per l’aggancio dell’euro. Ora il sindacato è stato messo ai margini. Il governo tecnico presieduto da Monti, ad esempio, aveva una visione veramente anti-

129

IL LAVORATORE RITROVATO

quata dei rapporti con le forze sindacali. Come ho già sottolineato, Monti pensava che le organizzazioni sindacali fossero delle lobby. Il fatto è che diventano tali nel momento in cui viene loro rifiutato il confronto, quando scompare il tavolo negoziale. In assenza di risposte, trionfano le lobby o una conflittualità diffusa e disordinata o, peggio, ancora, il qualunquismo. Il governo tecnico nel suo anno di vita ha chiesto tanti, tantissimi sacrifici e garantito pochissimi benefici: abbiamo bloccato la valanga ma non c’è stata inversione di tendenza, la ripresa. Ci hanno detto continuamente che avevamo recuperato credibilità ma ciò è in parte avvenuto perché siamo stati gli esecutori di decisioni prese altrove che tutelavano interessi che non sempre corrispondevano ai nostri. In qualche misura Karl Marx, come sottolineano Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini nel loro libro, non sarebbe poi andato tanto lontano dal vero nel momento in cui ha definito gli Stati (in questo caso un’ istituzione che riunisce più Stati) come le agenzie d’affari del capitalismo. Guarda, io non vorrei essere frainteso su questo argomento. So perfettamente che l’Europa ha svolto un ruolo fondamentale, ha sprovincializzato l’Italia. E dico questo perché ricordo quali forze l’hanno più subita che sostenuta. Anzi, ricordo quali partiti l’hanno proprio avversata. Non la volevano i comunisti che coltivavano un’altra idea di internazionalismo, ma non la volevano neanche i liberali e la Confindustria che vedevano l’integrazione come un pericolo per l’economia protetta che era stata costruita in Italia. L’Europa ha favorito il nostro Miracolo Economico, ci ha spinto sulla strada dell’adozione del Welfare, ci ha obbligato a realizzare alcune riforme, ci ha fatto fare enormi passi in avanti sul terreno dei diritti civili, un versante sui cui ancora molto, a dir il vero, resta da fare. Lo spirito di emulazione prodotto dall’integrazione ci ha aiutato, il riavvicinamento dei confini ha determinato una benevola contaminazione culturale, economica e sociale. L’Europa è entrata in crisi quando si è allargata. E l’Italia ha faticato sempre

130

DAL PRESENTE AL FUTURO

di più a incidere sulle politiche dell’Unione. La Prima Repubblica nelle scelte strategiche riusciva a contare: ricordo il vertice in cui Bettino Craxi, Presidente del Consiglio, isolò la Thatcher sul tema dell’adesione della Spagna e del Portogallo. Abbiamo avuto un sussulto quando ci siamo impegnati per entrare nell’Euro ma a quel punto è subentrata una sorta di appagamento. Eppure Padoa-Schioppa ci aveva avvertiti: l’euro non era l’arrivo ma una tappa vero il traguardo dell’Europa politica. Non siamo riusciti a fare la costituzione europea, la nostra azione è stata zavorrata dal ruolo negativo della Lega. Pur essendo un paese con un grande debito pubblico non abbiamo saputo utilizzare a nostro vantaggio gli anni in cui i tassi di interesse calavano. Risultato: dal 2000 ad oggi l’Italia ha dato all’Europa più di quanto abbia ottenuto, al 2011 lo sbilancio era di quattro miliardi di euro. Politicamente abbiamo sfiorato l’irrilevanza. Non siamo riusciti ad avere un ruolo, a incidere eppure abbiamo avuto nelle posizioni di vertice dell’Unione persone come Romano Prodi, Mario Monti, Emma Bonino. Abbiamo fatto molta retorica europea ma non siamo riusciti a incrinare l’asse egemonico Germania-Francia e a ridurre l’enorme peso che ha la Gran Bretagna sulle scelte che riguardano gli affari e la finanza, nonostante Londra stia con un piede dentro e uno fuori. Anche nella famosa Agenda di Monti non erano indicate soluzioni efficaci per farci fare il salto verso una reale integrazione politica; non ci sono ricette per costruire, ad esempio, un sistema fiscale omogeneo perché se in un paese dell’Unione le tasse sono più basse e in un altro, che so, la Francia, sono più alte soprattutto sui redditi elevati (anche se poi la Corte Costituzionale ha abolito l’aliquota al 75 per cento), allora capita che Gerard Depardieu si trasferisca in Russia insieme a un altro nutrito gruppo di super-ricchi che non accettano l’imposizione fortemente progressiva decisa da Francois Hollande. E avviene che molti super-ricchi nostrani si diano da fare per cercare il paradiso (o i paradisi) fiscale mentre qui in Italia l’inferno si allarga e si consolida e tutti viviamo come dannati. Ci è stato detto che non dovevamo assolutamente fare la fine della Grecia. Temo, però, che senza prestito non riusciremo a uscire dal tunnel,

131

IL LAVORATORE RITROVATO

finiremo, dunque, esattamente come Grecia e Spagna e avremo il commissariamento totale dopo averne subìto uno a metà. La nostra funzione in Europa non può essere solo quella di fare il compitino (altra frase ripetuta troppo spesso: “fare i compiti a casa”), dobbiamo, invece, lavorare seriamente per trasformare l’Unione in un soggetto politico. Gli attacchi forsennati di Silvio Berlusconi alla Merkel rendono difficile una riflessione sugli errori che pure la Germania ha compiuto: il rischio di essere tacciati di populismo è fortissimo. Eppure è un dato che i tedeschi abbiano ottenuto un vantaggio concorrenziale notevole sul terreno delle esportazioni grazie al basso costo del denaro. Joschka Fisher sempre nell’intervista richiamata nel capitolo precedente, ha affermato: “Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell’ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è proprio questo”. L’accusa di egoismo rivolta alla Germania è fondata? Ho l’impressione che alla base dei problemi di rapporto tra la Germania e i Paesi del Sud dell’Europa non ci siano solo i vantaggi concorrenziali che pure i tedeschi hanno avuto. Ci sono i pregiudizi. I paesi mediterranei vengono visti in Germania come “cicale” che negli anni passati hanno speso ben al di là delle loro possibilità, dilapidando scioccamente risorse. Quando sei animato da un pregiudizio alla fine commetti degli errori. Vorrei perciò concedermi una lunga citazione. Helmut Schmidt è stato cancelliere a lungo, ha fatto la storia del suo Paese e della Spd, è un testimone al di sopra di ogni sospetto. In un articolo apparso sul “Sole 24Ore” ha compiuto una analisi lucidissima che vale come pro-memoria per Angela Merkel e, in generale, per i leader europei e per le stesse istituzioni dell’Unione. Ha scritto: “Non siamo sufficientemente consapevoli che la nostra economia (della Germania, n.d.a.) è fortemente integrata nel mercato europeo ed è anche largamente dipendente dalla congiuntura mondiale. Andremo perciò incontro a un rallentamento della crescita delle esportazioni tedesche. Allo stesso tempo assistiamo a uno squilibrio nel nostro sviluppo a fronte di una persistente e massiccia

132

DAL PRESENTE AL FUTURO

eccedenza della bilancia commerciale e delle partite correnti. Queste eccedenze rappresentano il 5 per cento del Pil… Tutte le eccedenze sono in realtà deficit per gli altri. I crediti che abbiamo verso gli altri sono i loro debiti. È una incresciosa lesione dell’equilibrio nei rapporti economici con l’estero che un tempo abbiamo elevato a ideale di legge. Questa infrazione preoccupa i nostri partner europei…In diverse capitali europee cresce l’ansia nei confronti di un dominio tedesco… La posizione centrale che la Germania occupa dal punto di vista geo-politico, l’infausto ruolo assunto nel corso della storia europea fino alla metà del XX secolo, il rendimento attuale impongono a ogni governo tedesco di immedesimarsi negli interessi dei partner europei e di mostrarsi pronto a offrire aiuto… Noi tedeschi abbiamo buone ragioni per essere riconoscenti e abbiamo l’obbligo di essere riconoscenti… L’Unione Europea deve farsi carico di ciò che uno Stato non è in grado di regolare e superare da solo… Ci troviamo di fronte a uno scenario in cui alcune migliaia di speculatori finanziari americani ed europei e qualche agenzia di rating hanno preso in ostaggio i governi d’Europa…Se gli europei avranno la forza e il coraggio di portare a termine una drastica regolamentazione del mercato finanziario, potremmo pensare di diventare a medio termine una zona di stabilità.Se fallissero il peso dell’Europa continuerà a diminuire”. Schiacciati sotto il fardello dei luoghi comuni. Prigionieri dei pregiudizi reciproci e dei conseguenti errori. I problemi della Grecia si sarebbero potuti risolvere rapidamente invece sono stati fatti incancrenire. Non si dovevano imporre a Spagna e Italia politiche tanto recessive. Dobbiamo riuscire a sconfiggere questo pregiudizio. Ma bisogna anche cercare di cambiare l’Europa e la sua percezione presso gli italiani. Se cerco di spiegare razionalmente quanto sia importante per tutti noi questa Istituzione, anche chi vota a sinistra fatica a capirrmi perché non riesce a intravedere i vantaggi, non riesce a misurare i benefici delle scelte, anche molto dolorose, che sono state imposte. Berlusconi penso sia un problema in via di (lenta) soluzione anche se come uomo politico ha dimostrato di avere sette vite come i gatti e la conferma è venuta dalle elezioni politiche del 24 febbraio 2013.

133

La Repubblica: 6 aprile 1984. Dopo San Valentino: per Giannelli Lama prova a fumare con Craxi il calumet della pace sotto gli occhi di Pierre Carniti, Gianni Agnelli e Giorgio Benvenuto. Ma il fumo disegna nell’aria solo un “NO”

DAL PRESENTE AL FUTURO

Semmai colpisce la repentinità di certi mutamenti di casacca avvenuti nel suo campo: tanti tra quelli che lo hanno seguito anche rivestendo ruoli di primo piano nei suoi governi non hanno perso tempo a saltare sulla zattera di Monti, a correre in soccorso, come avrebbe detto Flaiano, del “presunto” vincitore. E questo la dice lunga su alcune nostre cattive abitudini. Sono parte della storia patria, basta ricordare il “continuismo”dopo la seconda Guerra Mondiale che garantì la sopravvivenza di tanta parte dell’alta burocrazia fascista. Che ci possa essere l’elettore che cambia opinione va pure bene, è comprensibile e può essere anche salutare. Comincio a essere perplesso davanti a dirigenti che facevano parte di quello che potremmo definire il Cerchio Magico del Capo e a un certo punto scoprono che la “verità” è da un’altra parte. Un limite di decenza imporrebbe loro di scendere e restare fermi almeno per un giro. Poi io sono convinto che Monti criticando aspramente Vendola e la Cgil, puntasse ad attrarre un certo consenso. In maniera più raffinata ha continuato nel solco di Berlusconi, ha fatto politica agitando la paura, come faceva il Cavaliere quando definiva Prodi un comunista. La scelta di spaccare il Paese è evidentemente un modo per catalizzare consensi. Per cambiare l’Europa, l’Italia deve, a sua volta, cambiare atteggiamento: non dobbiamo fare soltanto “compiti a casa”, come sottolineavi tu, ma dobbiamo indurre tutti gli altri a fare qualche “compito in classe”, cioè uno sforzo comune. L’Italia non ha alternative: ha bisogno di un’Europa che sia soggetto politico. E sociale perché senza il soggetto sociale finiamo per soffrire dal punto di vista della competitività. La moneta unica è stata fatta in maniera azzardata… Lo ha detto pure Cesare Geronzi nel libro scritto con Massimo Mucchetti, “Confiteor” (Feltrinelli): “La Banca d’Italia additava la necessità di arrivare preparati, con le riforme di struttura all’appuntamento della moneta unica

135

IL LAVORATORE RITROVATO

e ricordava che l’euro non sarebbe stato il Paradiso, ma il Purgatorio. I fatti le danno ragione”. Purtroppo l’euro non ha né padri né madri, invece la moneta è uno degli elementi indentitari di uno stato. Sono trascorsi dodici anni da quando l’abbiamo adottata ma come può reggersi una simile costruzione se alla sua base non c’è un solido Parlamento? Avremmo bisogno di un vero governo invece abbiamo una Commissione Europea che risponde agli Stati e l’influenza degli Stati è direttamente proporzionale al loro peso politico, pertanto Germania e Francia nelle decisioni finali incidono di più. Si è molto parlato del prestigio dell’Italia prima perduto con Berlusconi e poi riacquistato con Monti. Ma se hai prestigio devi essere in grado di avanzare e far passare proposte forti, risolutive. Altiero Spinelli e il Manifesto di Ventotene furono una proposta forte: indicarono una strada, quella della coesione europea, che ha consentito a questo continente, perennemente in guerra, di costruire le condizioni per una pace duratura; Alcide De Gasperi portava in Europa idee concrete. In quegli anni l’Italia ha svolto un ruolo costruttivo. Ora il nostro impegno europeista ha caratteri prevalentemente retorici. Abbiamo bisogno di un’Unione che funzioni. Ma è l’Europa per prima che chiede di porre fine a una situazione così squilibrata, perché avanti in questa maniera non va. Prendo a prestito ancora una analisi contenuta nello splendido libro di Ruffolo e Sylos Labini. Si legge: “Oggi i mercati finanziari considerano l’Europa molto più a rischio degli Stati Uniti. Eppure se mettiamo a confronto il vecchio e il nuovo continente, possiamo osservare che l’Europa è dotata di una forza economica superiore. Nel 2011 i ventisette Paesi europei hanno generato un prodotto interno lordo ed esportazioni più elevate di quelle statunitensi (rispettivamente 15.561 e 1.915 miliardi di dollari contro 13.315 e 1.473 miliardi di dollari) e sono stati gravati da un indebitamento pubblico ben più basso (il debito in valori assoluti è di 12.838 miliardi di dollari per i ventisette Paesi dell’euro contro i 15.223 miliardi degli Stati Uniti). Evidentemente la mancanza di coesione politica tra i Paesi dell’euro si ripercuote negativamente sul piano economico e sulla

136

DAL PRESENTE AL FUTURO

stabilità finanziaria”. Condivisibile, mi pare. La mancanza di una gestione unitaria ci rende più deboli. Il paradosso dei numeri è evidente. Gli Stati Uniti sono più forti nonostante abbiano comunque una notevole articolazione delle istituzioni e spese militari enormemente più alte di quelle europee. Però possono contare sulla coesione. E poi ci sono nuove realtà economiche come Cina, Brasile, India, che sono diventate o stanno diventando grandi interlocutori, politici, economici e finanziari (basta prestare attenzione al maggior “proprietario” del debito pubblico americano, cioè Pechino). L’Europa non è né carne né pesce di fronte a protagonisti innovativi, dinamici e fortemente motivati, appare quasi una “non realtà”. Ma non è più pensabile che ciascuno dei Paesi che compongono l’Unione possa da solo competere sullo scenario mondiale quando ti ritrovi a fronteggiare potenze anche demografiche come la Cina. La travolgente crescita della Cina che pure ha subìto un rallentamento a causa della crisi, ha prodotto un mutamento profondo del quadro internazionale. Il “Financial Times” ha annunciato, ad esempio, che il 2013 sarà l’anno del sorpasso cinese ai danni dell’Europa per quanto riguarda la produzione di automobili: 19,6 milioni di veicoli leggeri contro 18,3. Una locomotiva inarrestabile. Esattamente come il Beijing Bullet Train, una tra le immagini più evidenti della distanza tra presente e passato, una linea ad alta velocità costruita in tre anni, con uno sforzo economico notevolissimo (diciotto miliardi di euro); la distanza tra Pechino e Shanghai, oltre 1.300 chilometri, coperta in poco meno di cinque ore. La Cina corre come il suo treno ad alta velocità e sino a quando riusciranno a mantenere il controllo sociale, il processo di modernizzazione sarà travolgente. Trent’anni fa quando visitai per la prima volta quel Paese, le condizioni erano ben altre, decisamente più primitive. Dal comunismo al capitalismo di Stato. Il sistema è quasi una forma di capitalismo comunista, l’applicazione dei princìpi leninisti dell’organizzazione al servizio del libero mercato. I sindacati

137

IL LAVORATORE RITROVATO

non esistono, le condizioni di lavoro non sono certo quelle dei paesi europei, lo sfruttamento dell’ambiente sino ad ora è stato senza limiti con conseguenze a tutti note e soprattutto preoccupanti per il futuro del pianeta. Ma proprio questo mutamento del quadro internazionale, dovrebbe indurre le organizzazioni dei lavoratori a muoversi in maniera più coordinata, a dotarsi di strumenti sovranazionali. Un vuoto da colmare? Gli Stati le sedi internazionali le hanno: l’Onu, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, l’Unione Europea. Una forte organizzazione sovranazionale dei sindacati o dei partiti a cui i sindacati e i lavoratori tendono a fare riferimento, nella realtà non esiste. Un tempo c’erano. Pensiamo alle varie Internazionali sindacali. Non ho nostalgia per il passato, ma noi oggi ci confrontiamo con una finanza che ha una sua “internazionale”, che ha luoghi di incontro, di organizzazione delle idee e di condizionamento delle scelte degli Stati. Noi non abbiamo nulla. Eppure avremmo bisogno di costruire una posizione comune di fronte a problemi che nascono dalla trasformazione della società, davanti a quello che con una parola chiamiamo progresso. L’assenza di un coordinamento delle politiche sindacali la vivo con grande sofferenza. Eppure nel passato lavorando insieme, superando i confini, abbiamo condotto battaglie e ottenuto risultati, penso all’azione che abbiamo sviluppato dopo il golpe di Pinochet in Cile o alle iniziative intraprese nei confronti della guerra nel Vietnam, Quando l’Europa ha cominciato a prendere forma, Uil, Cgil e Cisl sono state tra i “soci” fondatori della Confederazione Sindacale Europea (era il 1973) nonostante la Cgil aderisse ancora alla Federazione Sindacale Mondiale. Ora queste organizzazioni sovranazionali sono chiuse in se stesse e non riescono a incidere nella realtà. L’appello di Carl Marx e Friedrich Engels è stato raccolto e “tradotto” dal mondo della finanza: “Speculatori di tutto il mondo unitevi”. Sicuramente loro si muovono nel mondo globalizzato con grande disinvoltura. Ecco perché dico che il livello internazionale non può essere abbandonato. Ri-

138

DAL PRESENTE AL FUTURO

peto, la nostalgia non produce nulla. Lo slogan dell’usato sicuro per quanto riguarda le vicende umane di cui stiamo parlando va modificato: il sindacato di vent’anni fa sarebbe un usato insicuro. Ma non si possono chiudere gli occhi di fronte al fatto che dai “lavoratori di tutto il mondo unitevi” si è passati ai “lavoratori di tutto il mondo disunitevi”. La globalizzazione ha prodotto l’effetto di mettere i lavoratori di un paese contro quelli di un altro paese e i sindacati vanno in ordine sparso. Basta riflettere solo per un attimo sulla vicenda Fiat: i sindacati italiani, americani, serbi, brasiliani, polacchi non hanno alcun coordinamento, anzi battono strade diverse. Marchionne parla con Obama con la Merkel, con Hollande, mentre negli anni passati con Obama ci avremmo parlato anche noi. Il sindacato italiano fatica addirittura a confrontarsi con l’omologo americano. E d’altro canto non riusciamo a condizionare neanche il governo italiano. A cosa ti riferisci? Quando Marchionne ha detto che se avesse dovuto riportare in fabbrica i diciannove operai iscritti alla Cgil che avevano vinto la causa di reintegro avrebbe dovuto provvedere a metterne in mobilità altrettanti, non una voce si è alzata dall’esecutivo presieduto in quel momento da Mario Monti che successivamente è pure andato in visita pastorale a Melfi (dove poi è scattata la cassa integrazione) preoccupandosi di farsi immortalare dalle telecamere e dai fotografi accanto all’amministratore delegato della Fiat. Né parte, né super-partes, decisamente controparte... Immagino quello che avrebbero fatto Brodolini e Donat Cattin e senza andar molto indietro nel tempo, penso a quello che avrebbe fatto Rino Formica che nel 1989 spedì in tutti gli stabilimenti della Fiat gli ispettori del lavoro e convocò a Roma Giovanni Agnelli e Cesare Romiti per chiedere conto delle accuse di attività antisindacale e comportamenti intimidatori, sui problemi della salute. In qualità di testimone andò a deporre a Torino davanti al pretore Guariniello che sul caso aveva aperto una inchiesta. I celebrati tecnici, invece, hanno preferito una linea ispirata a quella di un pioniere del liberismo, Vincent de Gournay:

139

IL LAVORATORE RITROVATO

“Laissez faire, laissez passer”. E, infatti, Monti ha lasciato passare qualche giorno e si è presentato a Melfi come se nulla fosse accaduto, per il “vernissage” della sua campagna elettorale. I tempi cambiano. Parlavi prima del modello contrattuale: sei convinto che il centro di gravità vada spostato, dalla sede nazionale alla periferia? Sì. Il centro di gravità deve privilegiare il posto di lavoro. A livello nazionale si possono definire le condizioni salariali minime, le garanzie generali, ma poi è inevitabile che flessibilità, straordinari, turni di lavoro, regole contro l’assenteismo debbano essere messe a punto laddove si svolge l’attività, che può essere la fabbrica, l’ufficio, l’azienda privata o quella pubblica. Eppure voi siete stati i “campioni” del contratto nazionale. I tempi sono cambiati. Allora era più facile fissare delle linee generali valide per tutti e, comunque, anche noi avevamo introdotto delle varianti per le piccole e medie aziende. Le fabbriche avevano dimensioni decisamente grandi e la contrattazione nazionale veniva arricchita con quella integrativa. Ora il tessuto industriale italiano è composto prevalentemente da aziende di piccole dimensioni, ci sono i Distretti in cui si concentrano determinate produzioni. Nel ‘69 era più facile fissare degli orari che valessero un po’ ovunque, fatte salve le fabbriche a ciclo continuo e integrato Eppure quando più tardi provammo a inserire la novità del “sei per sei”, sei giorni lavorativi di sei ore, sabato compreso, non riuscimmo a gestirla. Ma ora la gran parte dei benefici è legata alla produttività e alla flessibilità e queste cose le puoi governare in azienda o sul territorio. Bisogna superare certe rigidità d’approccio. Con quale obiettivo? Dobbiamo lavorare per mantenere l’unità di classe, di una classe che ha cambiato fisionomia e probabilmente si è ampliata, ma questa unità non la consolidi nella lotta perché la frammentazione del mondo del lavoro impedisce l’individuazione di obiettivi totalmente comuni: ciò che va bene a un operaio

140

DAL PRESENTE AL FUTURO

che lavora in una fabbrica a Torino può non andare bene a uno che lavora in una fabbrica a Taranto, ciò che va bene a un lavoratore inserito in una realtà aziendale economicamente florida può non andare bene a un lavoratore che deve, invece, provare a salvare il posto perché l’azienda è in crisi. Durante l’Autunno Caldo la situazione era diversa. Tutte le fabbriche godevano ancora del vento favorevole del Miracolo Economico, erano più o meno tutte in espansione. Alla fine avevamo quasi tre livelli di contrattazione: il contratto nazionale, la scala mobile e la contrattazione integrativa. Poi è accaduto che il sindacato sia stato scavalcato nel momento in cui la realtà ha cominciato ad articolarsi: laddove c’era produttività o laddove non c’era produttività, i lavoratori hanno risolto i problemi da soli, mantenendo il confronto tra le quattro mura dell’azienda. Il contratto dei metalmeccanici nel ‘69 rappresentò una svolta epocale. Ora non riesci più ad avere qualcosa di simile tanto è vero che gli ultimi contratti di categoria sono stati firmati senza lasciare strascichi storici. Basta questo “decentramento”? No. Ci sono alcuni temi su cui lo sforzo può essere comune, lavoratori e datori di lavoro, e l’interlocutore è un terzo soggetto. Oggi si fa un gran parlare di alleggerimenti fiscali sugli aumenti legati alla produttività. Benissimo, ma il fisco non lo disciplina né il sindacato né il datore di lavoro. Lo decide il Governo. È un obiettivo, quello di una riforma fiscale che finalmente cominci a premiare la produzione e non la rendita, su cui lavoratori e datori di lavoro possono marciare insieme per convincere il governo a cambiare politiche. Poi interlocutori “terzi” si possono individuare a livello locale. Penso a un atteggiamento comune nei confronti dei sindaci e dei “governatori” regionali per risolvere quei problemi che condizionano negativamente l’attività produttiva in una determinata area. La realtà è che oggi non si può risolvere tutto con il contratto nazionale. Una diversificazione di ruoli e di aree di intervento: il contratto nazionale come una sorta di Costituzione che fissa “principi alti”, il contratto aziendale

141

IL LAVORATORE RITROVATO

che dà attuazione a quei princìpi facendo i conti con le necessità specifiche. Più o meno. Il fatto è che la crisi e la trasformazione del tessuto produttivo hanno precluso un livello di contrattazione, quello integrativo. Ora devi puntare a realizzare una vera e propria contrattazione sostitutiva. Prima avevamo tre livelli, ora i livelli si sono ridotti; ecco perché bisogna dare maggiore forza a quelli aziendali. Alcuni obiettano che il rischio è quello di promuovere “sindacati gialli”, che lavorano più per i datori di lavoro che per i lavoratori. Non mi farei bloccare da questo timore. Un tempo, se un sindacato collaborava con l’impresa diventava “giallo”, ma ora se quel sindacato si siede al tavolo e contratta comunque acquista un ruolo attivo, da protagonista. Lo storico inglese, Donald Sassoon, nel libro “Cento anni di socialismo” (Editori Riuniti) nell’analizzare la crisi del socialismo “evoluzionistico”, quello che abbiamo conosciuto nei paesi occidentali basato su tre “gambe”, forte sindacato, welfare state e settore pubblico in espansione, indica alcuni dati che possono spiegare in qualche misura la parabola delle organizzazioni sindacali. Il dato riguarda i lavoratori impiegati in Italia nel manifatturiero: nel ‘60-’61 rappresentavano il 26,6 per cento della popolazione attiva, nel ‘70-’71 (il periodo dell’Autunno Caldo) il 31,1 per cento, nell’’80-’81 il 22,3 per cento, nel ‘92-’93, gli anni del nascente berlusconismo, il 19,8 per cento. Pensi che la crisi del sindacato possa essere attribuita a questa linea prima ascendente e poi discendente? No, io penso che il sindacato sia in crisi perché non rinnova i suoi strumenti. Quando nella dialettica tra le parti prevale il “no” il sindacato resta unito, quando prevale il “sì”, il sindacato si divide. Eppure il movimento italiano è quello che in Europa può contare sul maggior numero di iscritti. Grande forza numerica a cui fa da contrappunto la debolezza politica e questa debolezza può essere superata solo con l’unità. Bisogna dire dei no, bisogna dire dei sì e bisogna avanzare proposte. E la stessa logica vale a livello europeo e mondiale dove le organizzazioni dei lavoratori restano unite quando si tratta di fare delle valutazioni generiche, smarriscono la compattezza, invece, quando si passa alle cose da chiedere o da fare. Lo sciopero europeo del novembre 2012 ha

142

Gennaio 1983, Vincenzo Scotti realizza con Giorgio Benvenuto, Luciano Lama, Pierre Carniti e Vittorio Merloni un accordo sulla politica dei redditi che “La Discussione” vede come un grande esercizio di equilibrio

IL LAVORATORE RITROVATO

evidenziato tali limiti. Ognuno ha partecipato nel modo che riteneva più opportuno, alcuni hanno scioperato, altri no. Non è certo questa la strada per essere un vero interlocutore politico. Insomma, domina l’immobilismo. Appunto. Nel passato il sindacato, nei numeri, forse era anche più debole ma riusciva a incidere, contava. Ora conta in Germania, conta in America dove Obama per essere rieletto si è appoggiato enormemente ai sindacati dell’automobile essendo intervenuto con grande determinazione per salvare quel settore produttivo, per salvare Detroit. Ora dirò una cosa un po’ forte, provocatoria, ma si tratta di una metafora che dà l’idea della situazione. Il sindacato rischia di diventare come l’Aci: diciotto milioni di iscritti e una attività silenziosa rispetto ai problemi veri dell’automobilista, gli aumenti continui della benzina, delle tariffe autostradali, delle assicurazioni; produce statistiche, belle pubblicazioni ma dalle questioni che l’associato vive sulla propria pelle e sul proprio portafoglio è assente. Tutto questo non regge. Io penso che la crisi sia drammatica e abbia aumentato la domanda di socialismo. Ma in un mondo complesso anche domande che sembrano semplici sono articolate. Un tempo al sindacato si chiedeva pane e lavoro, ora le richieste sono più sofisticate: welfare di qualità, valorizzazione della professionalità, rispetto della persona. Vedi una evoluzione politico-culturale in atto? Stiamo smaltendo la sbornia liberista promossa dalla Thatcher e da Reagan, la deregulation ha dimostrato che senza regole il mondo non funziona. Il socialismo che sembrava finito è, invece, vivo e vitale in Europa. La conferma viene dalle elezioni francesi, dalla rielezione di Obama che pure è espressione di un’altra storia politica ma è figlio di quella famiglia liberal di cui parlava Krugman con un capostipite come Roosevelt che, peraltro, ai suoi tempi dagli americani agiati, dai privilegiati della Gilded Age, veniva visto come un pericoloso socialista, un irrecuperabile statalista tanto è vero che lui in un famoso discorso del 1936 rispose alle critiche in maniera

144

DAL PRESENTE AL FUTURO

molto semplice: “L’unico Stato che va bene ai liberisti è lo Stato che non fa nulla”. I partiti socialisti europei hanno attraversato momenti di crisi ma davanti a queste crisi i gruppi dirigenti si sono messi in discussione. E questo discorso vale ancora di più in Italia dove non abbiamo un partito che si richiami direttamente al socialismo, un partito che lavori per riportare l’economia al servizio dell’uomo. Socialisti tedeschi e francesi non si pongono l’obiettivo di andare al governo, si pongono l’obiettivo di governare. Poi in un partito puoi avere posizioni più chiassose, più agitatrici. Dovremmo imboccare quella direzione. Invece? Invece in Italia abbiamo pensato bene di risolvere il problema della fine della Dc con questa fusione fredda che ha portato alla nascita del Pd, un partito prudentissimo sui diritti civili, che misura le virgole quando deve affrontare tematiche di carattere sociale. Però i fatti dimostrano che in Italia è sempre forte il desiderio di ricostruire un partito popolare che faccia riferimento o a quello europeo o alla storia migliore della vecchia Dc. Ma è altrettanto forte il bisogno di creare una forza politica che si richiami alle grandi socialdemocrazie europee. La domanda di socialismo va intercettata. E lo stesso discorso vale per il sindacato. Tanti anni fa le Confederazioni dovevano combattere per conquistare spazi; ora gli spazi ci sono e ci sono tutte le condizioni perché le organizzazioni sindacali siano uno strumento della governabilità del Paese. Ma devono essere protagoniste in un discorso di progresso civile dell’Italia, di trasformazione di un mercato che torni a rispettare la dignità della persona. La base di partenza del sindacato è buona: ha una grande autonomia finanziaria, può fare da solo, può non dipendere da nessuno; nel gestire i servizi ha dato dimostrazione di grande efficienza, ha confermato di poter maneggiare materie ostiche come il fisco. Ma queste condizioni di partenza buone devono indurlo a investire, ad esempio sulla formazione. In quale maniera? Le scuole del sindacato, un tempo, erano straordinarie. La Confindustria

145

IL LAVORATORE RITROVATO

ha una sua università, perché mai i sindacati non devono avere un’ università del lavoro? Bisogna investire sulla comunicazione. Con quello che spendono Uil, Cgil e Cisl per pubblicazioni settimanali che non riescono più a incidere penso che si potrebbero fare grandi cose utilizzando il vasto armamentario dei new media e degli audiovisivi. Il sindacato non deve solo avanzare proposte ed elaborare idee ma deve anche promuovere confronti e dibattiti. La Confindustria ci riesce organizzando grandi workshop, convegni, seminari. Una volta anche noi ne eravamo capaci. È urgente tornare a investire sulla ricerca e sulla documentazione. Per essere ascoltati non basta più la battuta in tv o il comizio. Dire: contro la crisi faccio lo sciopero generale equivale ad assumere lo stesso atteggiamento di coloro che nei tempi delle pestilenze organizzavano processioni. È giusto fare grandi manifestazioni ma non su obiettivi generici o su denunce che cadono nel vuoto perché non hai soluzioni per risolvere i problemi. Il sindacato deve fare proposte: a fronte della freddezza del tecnicismo, del semplicismo liquidatorio del populismo e del pressappochismo della politica, ha spazi enormi. In questi ultimi anni abbiamo dilapidato risorse eccezionali, penso alle privatizzazioni che hanno prodotto scarsi benefici e avuto l’unico effetto di sostituire ai vecchi, nuovi monopoli. Le Partecipazioni Statali sono state smobilitate a furor di popolo. Abbiamo smantellato anche aziende che funzionavano. Per anni abbiamo parlato delle Cattedrali nel deserto: ora le cattedrali non ci sono più, è rimasto solo il deserto. C’è un dato reso pubblico dall’Istat che illumina la nostra condizione di arretratezza. A fronte di una spesa media europea per la ricerca del 2,01 per cento del Pil, l’Italia spende l’1,26 per cento, contro il tre per cento di Germania e Austria e, soprattutto, l’oltre tre per cento di Finlandia, Svezia e Danimarca che, non a caso, alla crisi hanno retto meglio. Il dato è costante da anni e la cosa più curiosa è che in quella percentuale già bassa la quota dei privati, delle aziende è minoritaria. Cesare Romiti ha affermato nel suo libro “La storia segreta del capitalismo italiano” (Longanesi): “L’innovazione è la cosa più rischiosa e meno divertente che ci possa essere. Oggi

146

DAL PRESENTE AL FUTURO

uno si accontenta di produrre una vite perché è un oggetto concreto, invece l’innovazione richiede molta e faticosa applicazione prima di dare i suoi frutti, se li dà. E poi si è preferito praticare la finanza per cercare guadagni più rapidi e consistenti. Anche se alla fin fine, ha provocato disastri immani”. Non pensi che sia su questi fronti che si misura la nostra distanza con il resto dell’Europa? Sulla ricerca la linea dei governi è stata a dir poco confusa. Non puoi finanziare la ricerca anno per anno, perché ci sono sperimentazioni che richiedono quattro, cinque anni per fornire dei risultati. La politica italiana è veramente vecchia. Poi c’è un discorso da fare sul sistema del credito che non viene incentivato a investire sulla ricerca e sulla cultura: non ci sono forme di detassazione per chi sceglie di impiegare dei quattrini su queste materie. Bisognerebbe agevolare chi fa investimenti con adeguate politiche premianti. Invece penso al modo in cui vengono sprecati i soldi delle banche e delle Fondazioni… Come? Per ricercare il consenso, tra i partiti e sul territorio. Abbiamo fatto la riforma delle Fondazioni, ci sarebbe pure la norma ma è rimasta lettera morta. No, noi non riusciamo a essere come gli Stati Uniti dove chi investe in ricerca viene premiato con delle agevolazioni. Anzi. Il centro tumori di Padova è stato obbligato a pagare l’Imu, di converso la stessa imposta non riusciamo a farla pagare alla Chiesa sugli edifici che vengono utilizzati per attività commerciali e non sono riservati al culto. Siamo schizofrenici perché non solo non garantiamo agevolazioni ma chi fa ricerca viene tassato anche di più. E così i giovani vanno via perché non hanno stimoli, certezze e non sono sicuri di essere apprezzati per quel che valgono. Sempre Cesare Romiti racconta: “In Aspen (Aspen Institute, n.d.a.) dirigo un gruppo di associati speciali che si chiama: Talenti Italiani all’Estero. Al momento sono circa centosettanta persone, quando fai la domanda: “Vorresti tornare a lavorare in Italia?” rispondono quasi sempre sì. Ma aggiun-

147

IL LAVORATORE RITROVATO

gono: “Non più nelle condizioni italiane: siamo ormai abituati a essere valutati solo sul merito, e se lasciamo un posto ne possiamo trovare un altro solo mettendo in evidenza quel che sappiamo fare. Non siamo abituati alle segnalazioni o peggio”. Alla fine del 2012 è scomparsa una scienziata straordinaria, Rita Levi Montalcini: la comunità ebraica romana le ha intitolato l’ospedale israelitico. Una decisione meritoria ma forse la maniera migliore per celebrarne la grandezza sarebbe quello di difendere i “talenti italiani”, creando le condizioni per non farli andare via. Oppure stanziando a favore del suo centro di ricerca l’Ebri (European Brain Research Insitute) i fondi necessari per vivere dignitosamente cioè tre milioni all’anno, e non solo quelli per sopravvivere indecorosamente, cioè ottocentomila euro. Rita Levi Montalcini aveva un rapporto speciale con la Uil. Quando io ero segretario della Confederazione e Silvano Miniati guidava la federazione dei pensionati, lei veniva ai congressi. I nostri iscritti rimanevano affascinati. Spiegava che un cervello tenuto in allenamento rallenta il tempo, attutisce l’età che avanza, ostacola l’invecchiamento. Sì la maniera migliore sarebbe proprio quella. Invece i dati dell’Ismu (Iniziative e Studi sulla Multietnicità, n.d.a.) spiegano che nel 2011 il saldo tra italiani che sono partiti e stranieri che sono arrivati è stato positivo per i nostri connazionali: cinquantamila contro ventisettemila. E la nostra è una emigrazione fortemente scolarizzata, laureati che vanno alla ricerca di occasioni armati di master, lingue straniere e curricula. Vorrei aprire una parentesi visto che prima ho citato Cesare Romiti e l’Aspen Insitute che si definisce una organizzazione “finalizzata a incoraggiare le leadership illuminate, le idee e i valori senza tempo”. La sezione italiana è presieduta da Giulio Tremonti. Sarà che questa concezione aristocratica della selezione (chi decide quali sono le leadership illuminate, i valori e le idee senza tempo?) sollecita attacchi di orticaria, ma forse è venuto il momento di mettere un po’ d’ordine nelle parole come dicevi qualche pagina fa proprio tu. Una tragica confusione è stata fatta tra liberale e liberista. Le due cose non sono propriamente sinonimiche. John Maynard

148

DAL PRESENTE AL FUTURO

Keynes tornava da un viaggio nell’Unione Sovietica e in un breve saggio proclamava orgogliosamente la sua adesione alla cultura liberale. Ma è evidente che John Maynard Keynes non ha molto a che spartire con Friedrick Von Hayek. Paul Krugman ha vinto il Nobel al pari di Milton Friedman ma con la scuola di Chicago non ha rapporti di parentela. David Ricardo e Alfred Marshall, maestro a Cambridge di John Maynard Keynes, si ponevano il problema dell’eccesso di diseguaglianze del capitalismo e delle crisi che ne potevano derivare al contrario di Joseph Schumpeter che teorizzava la “distruzione creativa”. È la confusione che ci ha indotti a immaginare personaggi, ad esempio, come Monti in maniera diversa da quel che realmente sono? Monti è un liberista non ci sono dubbi. Lo è sempre stato. E bisogna dire, con coerenza. In Europa è amato proprio per questo, perché è sempre rimasto fedele alle sue impostazioni. Ricordo ancora alcuni suoi articoli apparsi all’epoca del nostro negoziato nel 1983 con il ministro del lavoro, Vincenzo Scotti. Così come ricordo anche le sue feroci critiche per l’accordo di San Valentino: lui era fermamente contrario. Eppure al momento della sua nomina a capo del governo è stato visto come un nuovo Carlo Azeglio Ciampi… No, personaggi completamente diversi. Ciampi è figlio di una grande generazione antifascista, una generazione che ha svolto ruoli importanti negli uffici studi delle banche durante la lunga notte del fascismo, penso a Ugo La Malfa, a Leo Valiani, a Raffaele Mattioli, antifascisti impastati con il lievito del Partito d’Azione, un partito che aveva una idea profondamente etica della politica. Quando si parla di concertazione, bisogna immediatamente dire che l’unico che l’ha realmente realizzata è stato Ciampi. E non si trattava né di una scelta consociativa, né di una soluzione immobilistica. I tentativi precedenti si erano infatti fermati a metà. L’unica cosa che i due hanno avuto in comune sono stati i parlamenti delegittimati con cui hanno avuto a che fare. Ma Ciampi ebbe una grande intuizione: con il sistema dei partiti in profonda crisi, lui doveva in qualche maniera supplire a questa debolezza appog-

149

IL LAVORATORE RITROVATO

giandosi alle parti sociali e fece quell’accordo che indicava obiettivi, tempi per raggiungerli e sedi per controllarne il raggiungimento. Quell’intesa non ha sviluppato tutte le potenzialità, ed erano enormi, perché nel ‘94 è arrivato Berlusconi e poi quando Berlusconi è stato sostituito da Prodi la coalizione di centro-sinistra che lo reggeva è stata obbligata a fare i conti con la sua “ala radicale” venendo paralizzata sulla questione delle “35 ore”, una riduzione dell’orario di lavoro che nemmeno in Francia che fece da apripista sotto la spinta di Martine Aubry, ha avuto un gran successo. Oggi molti sono portati a sostenere che i nostri problemi nascono dal non esserci dotati di una legge sul conflitto di interessi e dal non aver realizzato la riforma della seconda parte della Costituzione. Ma non è vero: i nostri problemi sono il frutto dell’attuazione parziale della concertazione avviata da Ciampi. Poi, con il ritorno di Berlusconi al governo nel 2001 è arrivato il Patto per l’Italia che non ha prodotto risultati perché è mancata, quando non è stata contraddetta, la sua attuazione. Pensi che se la concertazione di Ciampi avesse pienamente dispiegato i suoi benefici effetti, all’appuntamento con la crisi l’Italia si sarebbe presentata in condizioni migliori? Come si suol dire, la storia non si fa con i se e con i ma. Una cosa però è certa: peggio di come è andata non poteva proprio andare. Il progetto di Ciampi aveva una sua organicità. Sono convinto che avremmo fatto una riforma seria, equa e meno dolorosa delle pensioni, avremmo trasformato in maniera più logica il mercato del lavoro, avremmo aggiornato intelligentemente la contrattazione. Davanti a noi avevamo una strada tracciata. Invece siamo andati fuori strada ma... senza la Jeep che costruisce Marchionne. Forse alla base di tutto c’è la formazione culturale di Carlo Azeglio Ciampi: in un Paese di individualisti che pensano al particolare, Ciampi in tutti i ruoli che ha ricoperto ha rappresentato la figura più nobile del civil servant. Guarda, la valutazione è molto semplice: è stato un grande Presidente del Consiglio, un bravo ministro dell’economia e un ottimo Presidente della Re-

150

DAL PRESENTE AL FUTURO

pubblica. Aveva un rispetto straordinario del movimento sindacale, lo considerava per quel che realmente era, un soggetto riformista, non lo confondeva con gli agitatori di professione. È qui la differenza con Monti, il prototipo di tecnico di questi tempi confusi e stravaganti. Ecco, al contrario di Ciampi, Monti nei confronti del sindacato ha avuto un atteggiamento preconcetto, carico di pregiudizi. Eppure molti a sinistra lo hanno accolto come una sorta di nuovo messia. Capita, alla sinistra, di incorrere in errori di valutazione e sulla base di questi errori concedere vaste aperture di credito. È avvenuto con Paolo Fresco che aveva il solo compito di portare la Famiglia Agnelli fuori dall’auto, con Sergio Marchionne che vedevano con il maglioncino blù e tra gli operai in mensa e lo immaginavano come un esempio di manager democratico, infine con Monti che non si è mai nascosto, non ha mai fatto mistero degli interessi di riferimento, ha sempre avuto una sua coerenza intellettuale e pratica. Marchionne è un manager sovranazionale, lui vive nel mondo, non ha radicamenti, è fedele solo ai suoi interessi, non ha una visione romantica delle cose. Monti ha illustrato in tutte le salse il suo orizzonte ideologico. In molti si sono stupiti del consenso che la Chiesa gli ha tributato. Ma non è casuale che una tra le più belle e concrete interviste da Presidente del Consiglio, Monti l’abbia rilasciata all’”Osservatore Romano”. La Chiesa sceglie i suoi alleati in base alle opportunità, essendo la sua bussola il realismo. Inevitabilmente ha puntò su Monti come interlocutore. “Le difficoltà in cui oggi si imbattono le organizzazioni sindacali italiane non diminuiscono in nulla l’importanza dei mutamenti intervenuti entro di esse: i progressi della democrazia interna, il decentramento delle decisioni, l’autogestione delle lotte, la volontà di modificare le condizioni di lavoro e di stabilire un controllo sulla gestione delle imprese, la ricerca di una maggiore eguaglianza tra i salariati… E l’avanzata italiana ha influenzato numerosi sindacalisti in ogni parte del mondo e, in primo luogo, il sindacalismo francese”. Il riconoscimento risale a trentatré anni fa. L’uomo che sviluppava

151

IL LAVORATORE RITROVATO

queste analisi in un libro intitolato “Sette sindacati per sette paesi” (Laterza) è Gilles Martinet, giornalista e dirigente del Psf all’epoca di François Mitterrand. Il bisogno di trasformazione e di modernizzazione (ma non nel senso liberista) è un elemento caratterizzante dell’azione del sindacato e il suo riferimento al socialismo finisce quasi per essere un inevitabile corollario. La storia del sindacato italiano ha attraversato varie fasi. Prima siamo stati divisi o eravamo semplice cinghia di trasmissione. L’Autunno Caldo ci ha fatto superare questa condizione innalzando il nostro livello di autonomia come sottolineava Martinet. Poi è arrivata la crisi petrolifera e il terrorismo. Ciononostante siamo riusciti a conservare un forte autonomia. Poi a partire dalla metà degli anni Ottanta le situazioni sono cambiate. Certo, per la questione della scala mobile. Ma non solo. Cosa intendi dire? Lungi da me l’intento di esprimere giudizi sulle persone. Le personalità sono figlie delle fasi storiche e di determinate fasi storiche certe personalità sono quasi la diretta conseguenza. Però, al di là della scala mobile e delle divisioni che ne seguirono, penso che gli addii alla segreteria della Cisl di Pierre Carniti nel 1985 e di Luciano Lama a quella della Cgil nel 1986 abbiano accresciuto le difficoltà. La crisi che si aprì sulla scala mobile provocò nel sindacato un’onda lunga che portò anche al ricambio dei gruppi dirigenti. Oggi è la divisione che indebolisce il sindacato. E l’ultimo colpo alla coesione è stato inflitto dal bipolarismo. Sotto alcuni aspetti una stranezza: il bipolarismo è una forma di confronto politico estremamente semplificata, il sindacato in questa semplificazione si sarebbe potuto riappropriare di uno spazio di manovra, avrebbe potuto pensare a fare solo ed esclusivamente il sindacato visto che i partiti di riferimento erano esplosi o implosi. Insomma, avrebbe potuto gestire la sua partita sul terreno di gioco più congeniale. O no? No, perché il bipolarismo italiano ha una particolarità: un’area di centro che ha impedito a questa sistema di trovare nella realtà la sua forma più classica,

152

È il 1984 e dopo San Valentino il dissidio tra Cgil e Cisl diventa insanabile: Luciano Lama e Pierre Carniti sono i duellanti con Giorgio Benvenuto in versione notarile (la Uil aveva una posizione più dialogante)

IL LAVORATORE RITROVATO

definita. Un’area di centro che è presente nel sindacato. E, d’altro canto, Sergio D’Antoni quando ha lasciato la segreteria della Cisl ha fondato un partito che è andato a collocarsi in quell’area; alle vicende politiche oggi partecipa Raffaele Bonanni con l’occhio rivolto sempre in quella direzione. Il nostro è un bipolarismo zoppo. Quello vero postula di stare o di qua o di là; in Italia si è un po’ di qua e un po’ di là, si è, insomma, dappertutto. Il sindacato in queste condizioni non riesce a incidere sulle dinamiche politiche e un sindacalista conquista un ruolo in quell’ambito solo quando lascia la Confederazione e viene eletto in Parlamento. Le organizzazioni dei lavoratori, peraltro, hanno perso anche un altro ruolo: nella Prima Repubblica erano pure macchine elettorali, oggi non più. Anche perché, come ha spiegato Donald Sassoon, il voto dei lavoratori nei confronti dei partiti di sinistra è molto più volatile del consenso delle classi agiate nei confronti dei partiti conservatori o di destra. Qui, però, vorrei tornare alla tua affermazione in base alla quale la domanda di socialismo in questo momento è in aumento. In realtà, in un passato piuttosto recente, il socialismo era considerato un reperto archeologico. Alain Touraine nel 1989 proclamava senza troppi arzigogoli: “Le socialisme est mort”. Ralph Dahrendorf non gli era da meno, sempre nel medesimo anno: “Occorre dichiarare senza possibilità di equivoci che il socialismo è morto e che nessuna delle sue varianti può essere riportata in vita per un mondo che va risvegliandosi dal doppio incubo dello statalismo e del breznevismo”. Ma la dichiarazione più sorprendente è stata quella di Sir Anthony Giddens, in pratica l’ideologo di Tony Blair, risale al ‘94: “Forse l’idea di seppellire il socialismo è diventata realtà”. Sono convinto che queste dichiarazioni di morte derivino dalla confusione che in quegli anni veniva fatta tra socialismo e comunismo. C’è stata, in quella fase in cui tante certezze sono crollate, la tendenza di molti che provenivano dall’esperienza del Pci a cancellare di colpo tutto. Achille Occhetto, ad esempio, pensava che si dovessero archiviare tanto il comunismo quanto il socialismo. Ma avevano torto perché il socialismo ha saputo fare i conti

154

DAL PRESENTE AL FUTURO

con una realtà in pieno cambiamento, si è confrontato in maniera conflittuale con il liberismo. Anzi, il liberismo è entrato in qualche misura in crisi dopo la caduta del comunismo. Reagan e la Thatcher si sono politicamente affermati proprio come contraltari del comunismo, hanno contribuito a farlo cadere anche se il colpo decisivo è arrivato dal Papa, Giovanni Paolo II, e dagli integralismi religiosi che in quegli anni stavano sorgendo. Era il periodo della rivoluzione degli Ayatollah guidata da Khomeyni. È significativo che i paesi africani che sino al crollo di Mosca avevano fatto riferimento al blocco comunista, dopo si siano avvicinati all’Islam. Quando cominciarono i fatti di Danzica, io ero in Cina. Raccontai ai cinesi che nel 1980, con Lama e Macario, avevo avuto un incontro con i dirigenti sindacali sovietici. Raccontai che mi avevano chiesto con una certa curiosità del papa polacco. Erano colpiti da questo fatto. Ed erano colpiti da Khomeini. Avevano capito che a quel punto non dovevano più far fronte al capitalismo ma a qualcosa che dal loro punto di vista aveva i caratteri dell’irrazionalità. Conclusione? È il comunismo che muore e che induce Touraine, Dahrendorf e Giddens a pronunciare quelle frasi. Quegli anni andrebbero riletti con una certa attenzione. Le posizioni di Wojtyla erano estremamente conservatrici sul versante della dottrina ma dal punto di vista economico erano decisamente critiche anche nei confronti della Thatcher e dopo la caduta del comunismo Giovanni Paolo II ha alzato sempre di più i toni della sua polemica contro il capitalismo. Così facendo è diventato anche uno stimolo per i socialisti, li ha aiutati, inconsapevolmente, a superare quella fase di crisi, a organizzare nuove idee in grado di impedire la confusione tra socialismo riformista e comunismo reale. Non si capirebbe altrimenti perché dopo siano nati i governi di Blair e Schroeder. Questo potente ritorno dei valori religiosi, le polemiche contro il capitalismo, la spinta dei nazionalismi, processi favoriti dall’atteggiamento della Chiesa e dei monoteismi, hanno indotto i socialisti a riflettere sui problemi delle persone, sulla dignità umana. Dato per morto, il socialismo è tornato di nuovo protagonista svecchiandosi; non ha rinnegato il suo

155

IL LAVORATORE RITROVATO

passato ma ha ritrovato la forza per costruire il futuro. E in Italia cosa è accaduto? Abbiamo avuto le crisi del Pci e del Psi. Ma non è riuscita a nascere una forza politica di sinistra, dichiaratamente e unitariamente di ispirazione socialista. No, non è riuscita a nascere. Fece un tentativo D’Alema, nel 1998, con gli stati generali della sinistra ma non giunse a buon fine. Purtroppo hanno resistito i vecchi partiti, i vecchi dirigenti e non si è riusciti a fare quel che si è fatto in Francia, in Spagna, in Germania. Che idea ti sei fatto del Labour Party di Ed Miliband, un leader con idee piuttosto diverse rispetto a quelle di Tony Blair, che per alcuni versi sembra intenzionato a recuperare quella tradizione che Blair aveva quasi totalmente abbandonato? Il Labour Party è un crogiolo di culture e di posizioni ma non si spacca mai, resta sempre unito. Può subire delle trasformazioni, può evolversi o anche produrre delle involuzioni però resta sempre lì, non esce nessuno da quella casa. E la stessa cosa accade nel partito socialista francese rifondato a Epinay sur Seine. Una regola che vale pure per i socialisti spagnoli. La realtà è che laddove il partito socialista è egemone, le scissioni riguardano gli altri non i socialisti. In Italia siamo vittime di una maledizione: i socialisti sembrano aver contagiato anche quello che resta dei comunisti. Quel che è avvenuto in Francia, nei paesi del Nord dell’Europa, quello che accadrà in Germania e che dovrebbe accadere pure in Inghilterra, ci dice che la sbornia per il liberismo che ha creato con l’abbattimento di tutte le regole l’attuale disastro, si sta esaurendo. Ecco perché dico che il sindacato ha una grande opportunità: diventare un interlocutore. A quali condizioni? Se recupera l’unità può fare fino in fondo una riflessione: nella storia del 156

L’evoluzione occupazionale in una vignetta di Giannelli del 2011: nel quadro in alto Carniti, Lama e Benvenuto; in quello in basso Bonanni, Epifani e Angeletti

IL LAVORATORE RITROVATO

movimento sindacale nel suo complesso ci sono stati momenti di cambiamento, dalla svolta di Di Vittorio, dal Piano del Lavoro, all’Autunno Caldo, al sindacato dei consigli, ora siamo in una fase di stimolante trasformazione. Va colta perché si tratta di una grande opportunità. È miope affermare che il sindacato è finito. Le organizzazioni dei lavoratori hanno avuto e hanno ancora un ruolo in questo Paese. Importante. Un piccolo ricordo: quando nacque il quotidiano “la Repubblica” l’intestazione delle pagine economiche era: Economia e Sindacato. Poi hanno cancellato una parola: Sindacato. Penso che dovranno rimetterla. Non sono malinconico, anzi sono estremamente ottimista ma bisogna cogliere le opportunità. È stato talmente fallimentare il governo delle democrazie occidentali orientato dagli interessi della finanza e sono state così aberranti le conseguenze, che qualcosa dovrà per forza avvenire. Restando sempre sul Labour, ti leggo da “Modernità Liquida” (Laterza) questa riflessione di Zygmunt Bauman, vero e proprio ideologo di Ed Miliband: “I passeggeri della nave «capitalismo pesante» erano sicuri (non sempre a ragione) che i membri scelti dell’equipaggio cui era stato concesso il diritto di salire sul ponte di comando avrebbero portato la nave a destinazione… I passeggeri dell’aereo «capitalismo leggero», per contro scoprono con orrore che la cabina di pilotaggio è vuota e che non c’è verso di estrarre dalla misteriosa scatola nera con l’etichetta «pilota automatico» alcuna informazione su dove stia andando, dove atterreranno, chi sceglierà l’aeroporto e se esistano regole che consentano loro di contribuire a un atterraggio sicuro”. Concordi? È una immagine affascinante, che rispecchia la realtà, che illustra perfettamente il passaggio da una società che con la sua concretezza dava più sicurezze a una società impalpabile, mobile, indistinta e, quindi, con meno punti di riferimento e più incertezze, zone d’ombra. Prima si remava sicuri nella stessa barca. Poi a un certo punto ci hanno tolto i remi e adesso non sappiamo dove stiamo andando. Stiamo naufragando.

158

DAL PRESENTE AL FUTURO

È un naufragio che drammaticamente coinvolge le generazioni più giovani. Perciò ti giro l’interrogativo retorico che si è posta nel suo libro Susanna Camusso: “Un paese può reggersi sull’idea di ridurre progressivamente i salari e porre come prospettiva soltanto il «lavoro povero»?” La realtà mi sembra più articolata: non si corre il rischio di dare solo lavoro povero ma di non dare alcun lavoro. Quando hai un impiego precario, non lo svolgi aggiungendo un particolare sapere, ti preoccupi di farlo solo nella migliore maniera possibile tanto sai bene che si tratta di una situazione provvisoria. Il problema vero, anzi il dramma sociale che stiamo vivendo è che l’alternativa al lavoro povero non è un lavoro ricco ma la pura e semplice disoccupazione. La questione che complica le nostre vite è la desertificazione del Paese, un Paese con un numero crescente di anziani, un Paese in cui in realtà sul lavoro povero non esiste concorrenza perché alla fine lo fanno gli immigrati, un Paese che non offre occasioni di lavoro. E, d’altro canto, le occasioni come puoi crearle se blocchi i concorsi e penalizzi chi ha una occupazione. In quindici anni non siamo stati in grado di cambiare un’ imposta, l’Irap, che è una vera e propria tassa sul lavoro e sulla creazione di lavoro: se hai cento dipendenti paghi dieci, se ne hai centocinquanta paghi quindici perché il maggior numero di occupati è considerato un segno di ricchezza, ovviamente da colpire. Situazioni che non fanno altro che diffondere il precariato. Tanto, poi, licenziano pure i precari. La legge Fornero contiene un tasso elevato di approssimazione. L’unico obiettivo sembrava quello di offrire all’Europa lo scalpo del sindacato. Oggi il sindacato ha due emergenze da affrontare: fermare il precariato e, allo stesso tempo, definire un nuovo modello di welfare che tenga conto del fatto che non sarà più possibile occupare lo stesso posto di lavoro per tutta la vita professionale. Come si soddisfano queste due esigenze? Sono convinto che l’unico strumento per affrontare il problema del lavoro che non sarà più a vita sia la contrattazione. La questione del precariato, invece, deve trovare composizione in un quadro legislativo più certo, coerente e, soprattutto, meno confuso: bisogna definire delle agevolazioni a livello fi-

159

IL LAVORATORE RITROVATO

scale e contributivo, bisogna, per via legislativa, valorizzare l’apprendistato. Si parla molto di salario di ingresso io sono più portato a definirlo periodo di prova più ampio. Bisogna soprattutto valorizzare l’interlocutore aziendale. Io non penso che la legge possa risolvere tutto, a un certo punto occorre contrattare: non si può pensare di liberalizzare le imprese e contemporaneamente statalizzare il lavoro. Infine la Legge 30 che io non chiamo legge Biagi perché Marco Biagi aveva una visione più organica dei problemi. Penso che bisognerebbe farla governare ai sindacati. La legge, d’altro canto, crea sempre contenziosi. Al contrario, se valorizzi il momento negoziale da un lato eviti i conflitti o li risolvi senza strascichi legali e dall’altro eviti l’impotenza. In ogni caso non esiste una soluzione in grado di mettere a posto tutto: la ricetta perfetta non ce l’ha nessuno. Non puoi immaginare una legge che ti dica che dopo un certo periodo di tempo tutti i precari dovranno rientrare; non esiste un provvedimento in grado di regolare rapporti dinamici. Ecco perché dico che da questa strettoia si esce solo con uno strumento agile come la contrattazione. Sono convinto che oggi l’angoscia di un genitore non nasca tanto dal fatto che il figlio sia titolare di un rapporto di lavoro precario quanto da una situazione che impedisce di controllare e quindi di governare quel contratto rispettando i diritti delle persone. È l’impostazione riformistica che si può ritrovare anche in Norberto Bobbio: la legge come strumento per riconoscere e garantire i diritti civili; i contratti per proteggere il salario e difendere gli interessi dei lavoratori. Le migliori leggi sono quelle a sostegno dell’attività negoziale. Lo Statuto dei lavoratori è nato dopo l’Autunno Caldo, cioè dopo le lotte e la firma di contratti con contenuti innovativi. Si potrebbe dire che lo Statuto sia nato al tavolo delle trattative. Il sindacato deve riappropriarsi della capacità negoziale. Le organizzazioni dei lavoratori non sono delle associazioni di avvocati né dei partiti politici. Affidare il cambiamento alle leggi e il controllo ai magistrati, alla fine produce una situazione anomala. Rinunci in questa maniera a gestire una materia che si modifica in continuazione. La sostanza è che bisogna trasformare il lavoro precario in un lavoro flessibile ma è evidente che

160

DAL PRESENTE AL FUTURO

tale flessibilità non si raggiunge utilizzando strumenti rigidi come le leggi. Se è flessibile l’obiettivo, deve essere flessibile anche lo strumento per raggiungerlo. Poi ci vuole corresponsabilizzazione: solo in questa maniera riesci a rimanere fedele agli ideali evitando di trasformare il contrasto in un conflitto ideologico. Nella seconda giovinezza della tua esperienza sindacale ti sei imbarcato in battaglie complesse. Ne ricordo due in particolare: la regolamentazione del diritto di sciopero nei pubblici servizi che in quel momento ti attirava parecchie antipatie nell’ambiente soprattutto dei trasporti pubblici e la battaglia sul fisco più equo, sul contrasto dell’evasione e dell’elusione. La vertenza sul fisco la cominciasti praticamente da solo ma poi sulle tue posizioni arrivarono le altre Confederazioni. Cosa è rimasto di quelle battaglie e cosa ancora si può fare? Rispetto a quei tempi, la conflittualità nel Paese si è drasticamente ridotta. In ogni caso penso che sullo sciopero bisognerebbe costruire regole più precise. Per alcuni settori non è stata ancora trovata una soluzione adeguata. Il problema è sempre quello di allora: tenere conto delle esigenze dei cittadini che sono lavoratori che prendono il treno, il tram, il bus, nella maggior parte dei casi per raggiungere il posto di lavoro. Bisogna riuscire a contemperare i diversi interessi perché poi una azione di lotta riesce se può contare anche sulla solidarietà di chi la subisce. Lo sciopero nei trasporti ha aspetti complessi proprio per questo motivo: non è un confronto diretto tra le parti, nel mezzo c’è un terzo estraneo alle ragioni del conflitto. A livello nazionale le regole ci sono, a livello locale andrebbero definite. In ogni caso mi sembra sia un dato ormai acclarato: lo sciopero non deve penalizzare i cittadini e non deve danneggiare gli impianti. Ora, però, bisognerebbe fare un passo in avanti e parlare dell’efficienza, tema che all’epoca non venne affrontato. Cosa intendi dire quando parli di battaglia per l’efficienza? Dovremmo aggredire la questione della lotta agli sprechi e snidare chi approfitta di una posizione di potere per piegare il sistema ai propri interessi. Il

161

IL LAVORATORE RITROVATO

sindacato questo problema deve affrontarlo. Renato Brunetta ha avuto il suo momento di maggiore popolarità quando ha attaccato a colpi di inaccettabili generalizzazioni i pubblici dipendenti. Lo ha fatto irridendo, sbertucciando tutto e tutti. E questo non è accettabile. Ma come ho detto qualche pagina fa, Brodolini prima di partire per la Svizzera dove andò a morire, invitò Giugni a vigilare perché lo Statuto dei Lavoratori non si trasformasse nello statuto dei lavativi. La battaglia che abbiamo combattuto allora era giusta e taluni risultati sono stati acquisiti. Occorre selezionare, anzi vigilare... Bisogna chiedere efficienza e non coprire le parentopoli, i piccoli ras sindacali che fanno assumere figli e nipoti, i dipendenti che evitano come la lebbra il contatto col lavoro; non ci si può mettere sempre di traverso anche quando si tratta di spostare un impiegato da una scrivania a un’altra all’interno di una medesima stanza. Queste situazioni il sindacato le deve gestire non coprire perché poi per colpa di pochi si finisce per perdere dei diritti: “il disservizio” non deve essere “compreso nel prezzo”. Non si può predicare bene e razzolare male, alimentare una doppia morale. Bisogna essere coerenti perché queste cose il sindacato può farle e soprattutto non le fa alla Brunetta o alla maniera della Lega. Il cittadino non è un suddito e va trattato con rispetto. Anche per questo personalmente sono molto sensibile al lavoro delle associazioni dei consumatori. Sull’evasione fiscale forse speravi in qualcosa di più? Sono stati compiuti molti passi in avanti e quelle campagne sono state importanti. Devo dire che un contributo su questo fronte è stato fornito da Vincenzo Visco, da Giulio Tremonti e in ultimo da Mario Monti. Sono riusciti a dare continuità a una linea di segno completamente diverso da quella indicata al Paese con i condoni. Visco e Pierluigi Bersani nel 2006 hanno adottato diverse misure per contenere l’evasione. Tremonti ha proseguito su quella strada e il motivo di contrasto tra lui e Berlusconi risiede proprio in questo diverso approccio alla tematica fiscale. La battaglia è continuata con Monti.

162

DAL PRESENTE AL FUTURO

Ma dato che l’area dell’evasione è ancora molto vasta, allora vuol dire che qualcosa è mancato. Cosa? Tanto per cominciare, l’efficacia di una battaglia come questa aumenta se oltre a snidare i contribuenti infedeli, prevedi dei premi per quelli fedeli. Insomma, i soldi recuperati con la lotta all’evasione non possono finire tutti nel pozzo senza fondo del debito pubblico, una parte deve servire per riequilibrare il carico fiscale. In questa maniera costruisci un vincolo sociale, un’ alleanza. In secondo luogo, le regole per combattere l’evasione e ridurre l’elusione devono essere rispettose delle norme dello statuto dei contribuenti. Lo Stato deve muoversi con correttezza: non puoi dare a intendere che solo il cittadino-contribuente ha dei doveri, devi riconoscere che qualche dovere lo ha pure l’Amministrazione. Inoltre, penso che si debba fare uso di un linguaggio appropriato. Lo Stato non deve far sentire tutti criminali perché non tutti lo sono. È giusto combattere l’evasione ma non devi considerare tutti a priori degli evasori, devi tenere a mente che in tanti pagano sino all’ultimo euro e non evadono. Anzi lo Stato dovrebbe sempre ricordare che c’è una vasta categoria di cittadini che paga troppo. Infine, bisogna concentrare gli sforzi laddove c’è la polpa. Cioé? Sui paradisi fiscali si è fatto veramente troppo poco. A cominciare dalla Svizzera. Si parla tanto di un’Italia che grazie a Monti ha recuperato il prestigio perduto. Il recupero del prestigio non lo misuri a parole ma nel confronto con i partner: se l’ immagine, se l’ autorevolezza è migliorata, allora perché mai non siamo riusciti a concludere un accordo simile a quelli che la Germania e gli Stati Uniti, ad esempio, hanno fatto? Sulla finanza, sui giochi di prestigio delle multinazionali e sui soldi portati all’estero bisogna essere più determinati. Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate hanno le professionalità per scoperchiare i santuari; ci vuole solo la volontà politica. Non è pensabile che l’area dell’evasione sia così vasta solo perché carrozzieri e imbianchini non rilasciano la ricevuta fiscale. Per carità, c’è anche quello. Però quell’area è ampia perché su troppe operazioni finanziarie si chiudono

163

IL LAVORATORE RITROVATO

gli occhi. Dobbiamo essere capaci di costruire rapporti positivi con i partner europei. In questo momento, non è vasta soltanto l’area dell’evasione ma anche quella dell’elusione. D’altro canto, i soldi si possono comodamente occultare utilizzando le diverse leggi in Europa. E da questo punto di vista le situazioni italiane sono veramente paradossali. Perché paradossali? Se io ho dei risparmi e mi compro un paio di case, l’Imu mi colpisce agevolmente. Attraverso la finanza, invece, posso ottenere straordinari benefici con dribbling alla Van Basten. La Guardia di Finanza, l’Agenzia delle Entrate e la Consob hanno mezzi sufficienti per controllare. Ma il discorso va portato in Europa, se necessario anche battendo i pugni sul tavolo perché questa è ricchezza che viene sottratta al nostro Paese. È l’atteggiamento che deve cambiare, che deve essere più convincente. E deve essere più determinato perché la pressione fiscale è schizzata alle stelle. Vanno smantellati i santuari perché in Italia i titolari di retribuzioni d’oro, di pensioni d’oro, gli evasori d’oro sembrano godere di un diritto di extraterritorialità.

164

È il 1986 e siamo alla disdetta della “scala mobile” i protagonisti in versione inizio secolo sono (da sinistra a destra) Giorgio Benvenuto segretario della Uil, Luciano Lama segretario della Cgil, Luigi Lucchini presidente di Confindustria, Remo Gaspari ministro della Funzione Pubblica, Gianni De Michelis ministro del Lavoro e Franco Marini segretario della Cisl

Novembre 1982, a parere de “La Discussione” il confronto nel sindacato ha aspetti un po’ accesi: Giorgio Benvenuto e Pierre Carniti al giornale appaiono intenti a pestare Luciano Lama

Dalla Crisi Finanziaria al Dramma Sociale

Trovo significativo un passaggio dell’ultimo libro di Edmondo Berselli, “L’economia giusta” (Einaudi): “Una sinistra con un residuo di razionalità si preoccuperebbe di “cose” classiche come il lavoro, senza dare per scontato che, con la fine e la trasformazione delle grandi fabbriche, i lavoratori siano tutti scomparsi, spostati, trasferiti, delocalizzati, resi fantasmatici, o che comunque abbiano accettato e assimilato il modello della destra, cioè la combinazione di precariato e bassi compensi (il prezzo imposto dalla flessibilità)”. I partiti di sinistra si occupano poco di “cose classiche” e anche il sindacato in gergo calcistico si direbbe che faccia melina. Perché? Il fatto è che sono scomparsi i vecchi “terminali” che ti consentivano di avere continuamente un’idea di quel che si muoveva nel composito mondo del lavoro. Siamo passati dalle vecchie commissioni interne ai consigli di fabbrica; nel momento di massimo fulgore nei posti di lavoro si tenevano regolarmente le assemblee, cosa che fece scattare nei nostri confronti l’accusa di assemblearismo. Insomma, le antenne erano sempre ritte e sensibili, eravamo in grado di seguire quel che avveniva in fabbrica e quel che avveniva sul territorio. Poi? Poi quei terminali si sono inariditi, hanno perduto l’antica sensibilità. Il rapporto del sindacato con il mondo del lavoro non è stato più diretto ma mediato attraverso i propri “fiduciari”; la struttura delle Confederazioni è sicuramente più democratica di quella dei partiti, ma quei “fiduciari” sono sindacalisti a tempo pieno e non hanno sempre un contatto quotidiano con la realtà produttiva. Negli ultimi anni, poi, la contrattazione ha subìto una profonda trasformazione, si è spostata decisamente al centro. Questa situazione ha consentito al sindacato di essere coinvolto nelle questioni, 167

IL LAVORATORE RITROVATO

come dire, nazionali, di discutere i problemi generali, ma a livello periferico le contrattazioni hanno finito per essere incardinate in un copione: un quadro di riferimento definito centralmente, dei princìpi-guida da attuare a livello locale. Tutto questo cosa ha prodotto? La contrattazione è diventata di tipo “applicativo”, mentre nella fase rivendicativa ha perso vigore essendo quasi per intero focalizzata sulla gestione delle crisi. La conseguenza è che si sono appannate le visioni innovatrici anche perché non c’è più nessuno in grado di spiegarti cosa avviene in fabbrica o in un altro posto di lavoro. In più la fabbrica oggi è quasi una realtà virtuale tra esternalizzazione e precarizzazione: il quadro di riferimento è estremamente confuso. Nell’azienda oggi convivono dipendenti fissi, precari e terziarizzati. Capita che un’impresa, che so, metalmeccanica attribuisca il compito di amministrare i propri dipendenti a persone che rispondono a un’altro datore di lavoro. Il sindacato fa i conti con una realtà piena di sfaccettature. Pensiamo soltanto ai rapporti interinali: lavoratori oggi “prestati” a una azienda e domani a un’altra. Risultato? I “terminali” che potevano aiutarti a costruire soluzioni innovative in questo caos sono scomparsi e il sindacato ha cercato di recuperare quel che ha perso su quel versante con l’efficienza dei servizi: la compilazione delle dichiarazioni dei redditi, la definizione del rapporto di lavoro con la badante che accudisce un parente non autosufficiente, le richieste per ottenere una pensione di invalidità, eccetera. Insomma, le Confederazioni si sono consolidate come strutture di servizi. Ma così non vai lontano perché, poi, la ragione “sociale” del sindacato deve essere “politica”. Non si riesce più a vedere e non si riesce più a sentire. La stessa comunicazione ha cambiato modi e forme. Il fatto che la contrattazione si sviluppi a livello centrale, consente ai sindacalisti di essere informati sui temi di carattere generale e di essere, perciò, invitati in programmi televisivi come “Ballarò” o “Porta a Porta”.

168

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

È un male? Non lo sarebbe in assoluto, il fatto è, però, che vengono chiamati non tanto per il vero lavoro che svolgono, quello di sindacalisti, ma praticamente come opinionisti. Per carità, lo stesso ruolo viene assegnato anche ai rappresentanti dei partiti. Conclusione, viviamo in una democrazia che ha smarrito i “terminali”: parli genericamente del mondo del lavoro ma finisci spesso per non essere a conoscenza dei problemi della gente. Che fare in una situazione tanto complessa? Bisognerebbe ritrovare la capacità di elaborazione ma, ad esempio, i nuovi mezzi di comunicazione hanno solo parziale diritto di cittadinanza nel sindacato. La stampa delle Confederazioni è ancora quella di trent’anni fa ma da allora tutto è cambiato: alcune di quelle pubblicazioni possono andare bene a uno come me che viene da un’altra generazione, ma non ai giovani. Creare una radio non sarebbe difficile e anche dal punto di vista dell’investimento l’impegno non sarebbe proibitivo. Facebook, Twitter, la galassia dei new media non vengono utilizzati in una misura adeguata ai tempi che stiamo vivendo. Il sindacato, insomma, non si è ancora impadronito delle nuove tecnologie. Berlusconi, attraverso le televisioni, parla ai pensionati con una facilità e una agilità che noi non abbiamo. Eppure, per molti anni, il sindacato ha prodotto cultura, ha ispirato il cinema, la saggistica. Una condizione resa più grave dalla divisione e dal frazionamento della rappresentanza. Per venti anni Cgil, Cisl e Uil ne hanno avuto il monopolio. Col tempo le sigle si sono moltiplicate, l’Ugl ha conquistato una sua dignità. Ma, ripeto, quel che fa male è la divisione: va avanti da troppo tempo, da poco più di un decennio perché la frattura che si è creata sul Patto per l’Italia con la Uil e la Cisl da un lato e la Cgil dall’altro, non è mai stata sanata. E così torniamo alla questione iniziale: perché il lavoro è uscito dalle agende? Perché scarseggiano gli elementi di conoscenza. Il sindacato dei Consigli ha rappresentato la pietra angolare del cambiamento avvenuto nella vostra azione, nel modo anche di stare assieme, in

169

IL LAVORATORE RITROVATO

una certa fase storica. Ti leggo questo brano: “Questa convinzione mi porta a respingere le tesi interessate che predicono una crisi irreversibile dei consigli e che, in nome di una democrazia senza partecipazione, propongono una normalizzazione del sindacato e un ripristino di vecchi metodi di direzione e di vecchi meccanismi di formazione del consenso. La strada per uscire dalla crisi dei consigli e per andare a una tappa più avanzata della democrazia sindacale è ancora aperta davanti a noi”. Potremmo usare oggi queste parole, invece un tuo amico e compagno di lotta, Bruno Trentin, le dettò a Bruno Ugolini nel 1980 (“Il Sindacato dei Consigli”, Editori Riuniti). L’Autunno Caldo che hai vissuto insieme a Trentin e a Carniti ha prodotto quella forma sindacale. E adesso? Come si va avanti? Per quale strada? Il sindacato dei Consigli era figlio di quel tempo, promuoveva una idea di partecipazione che era nella logica di anni di grandi contestazioni e di grandi trasformazioni politiche e sociali. Ora le condizioni sono diverse e bisogna modificare la struttura. Per evitare che si manifestino e si affermino forme di corporativismo bisogna puntare sulla valorizzazione delle articolazioni regionali. Perché? Perché oggi molta politica si fa nei comuni e nelle regioni, istituzioni che intervengono sul territorio, sulle questioni sociali, sull’ambiente. Ma con quelle istituzioni il sindacato non ha costruito rapporti. Eppure lì si adottano scelte che incidono sulla “carne viva” del Paese, sui cittadini. Faccio un esempio: il comune di Roma ha praticamente triplicato negli ultimi tempi la pressione fiscale. Mi sembra una questione rilevante sulla quale il sindacato deve e può mobilitarsi. In questo nostro paradossale Paese crolla il Pil ma si moltiplicano le addizionali: a Brescia quella comunale è pari a zero, altrove raggiunge lo 0,9 per cento. Poi, però, si parla di parità di condizioni. Bisogna dare forza alle camere sindacali e alle strutture regionali, non devono più erogare solo servizi. In questa maniera possiamo ritrovare una capacità di azione e lavoro sul territorio. E poi c’è un’altra questione. Quale?

170

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

Bisogna trovare il modo per riaprire la dialettica all’interno dei sindacati. Prima c’era il confronto tra le componenti (nella Uil e nella Cgil, ad esempio) o fra le categorie (nella Cisl). Ora questo confronto resiste solo nella Cgil. Nelle altre due confederazioni prevale non la gestione unitaria ma la gestione unanimistica. Però l’unanimismo ti può aiutare sino a quando l’azione è soltanto tattica, quando devi alzare il tiro e trasformarla in strategica, allora ci vuole l’unità tra tutti i sindacati. Mi par di capire che oggi la tua idea di “democrazia dal basso” non passa più attraverso le fabbriche o i luoghi di lavoro resi magmatici dalla presenza di una vasta varietà di rapporti contrattuali, ma attraverso l’articolazione territoriale. Esattamente. D’altro canto, anche le questioni che riguardano i luoghi di lavoro, ad esempio la flessibilità, devono trovare soluzione a livello territoriale. Aver portato tutto al centro, a Roma, dà grande immagine ma non grandi risultati. Un esempio viene dalla vicenda degli esodati. In occasione del primo sciopero contro la riforma Fornero, i sindacati non avevano ancora percezione esatta delle dimensioni e della gravità del problema. Come mai? Perché, come dicevo anche prima, i canali di comunicazione, i “terminali” sono venuti a mancare, si è interrotto il circolo virtuoso del rapporto tra la conoscenza della realtà e la rappresentanza (e la conseguente soluzione) dei problemi. Bisogna riattivare questi livelli territoriali. Un tempo, tra l’altro, esistevano: il sindacato era un interlocutore di Comuni e Regioni. Ma allora i compiti e i poteri di quelle istituzioni erano limitatissimi. La riforma della seconda parte della Costituzione ha trasferito a livello locale molte competenze però il sindacato non ha seguito, nell’organizzazione della sua attività, questo trasferimento. Con la conseguenza che l’attenzione sui temi generali è elevata mentre la sensibilità su quelli “particolari” è limitata. Luciano Gallino nel suo libro “La lotta di classe dopo la lotta di classe” nel

171

IL LAVORATORE RITROVATO

sottolineare come i lavoratori ormai siano ai margini del dibattito politico, afferma che alla base di questa situazione c’è anche il declino dei partiti della Prima Repubblica che rivendicavano la rappresentanza politica degli operai, il Pci, il Psi e settori della Dc. Ma se il disinteresse dei partiti di centro-destra è giustificabile avendo come punto di riferimento categorie sociali diverse da quella dei lavoratori dipendenti, come è possibile che tale amnesia abbia colpito anche forze politiche come il Pd che pure raccoglie diversi eredi delle tre organizzazioni politiche citate da Gallino? I partiti della Prima Repubblica avevano una notevole sensibilità nei confronti dei problemi del lavoro e i sindacati, a loro volta, esercitavano una robusta influenza sulle grandi forze politiche. Emanuele Macaluso ha ricordato che una volta Togliatti disse che la “cinghia di trasmissione” in Italia non poteva funzionare perché a volte erano i sindacati a fare da cinghia di trasmissione verso i partiti ma spesso accadeva l’esatto contrario. Leader come Francesco De Martino teorizzavano la necessità di avere un buon rapporto con le organizzazioni sindacali. Il bizzarro bipolarismo che si è affermato nel nostro Paese in questa “mai nata” Seconda Repubblica, la necessità di ottenere il riconoscimento dei Poteri Forti ha indotto la sinistra a sottoporsi a diversi esami, uno di questi prevedeva che ci si impegnasse a mettere in riga il sindacato. Conseguenza: la sinistra ha spesso mostrato imbarazzo a proporre come prioritario nella propria agenda il problema del lavoro. Purtroppo questa è la debolezza dei partiti di questa Seconda Repubblica che puntano, senza distinzione, a essere interclassisti. Ci si vuole rivolgere a tutti. Perde, così, vigore una concezione “laica” del partito e finisce per prevalere una idea direi quasi confessionale, ecumenica. Ma una forza politica di sinistra deve avere la capacità di confrontarsi in maniera disinibita con la realtà, non può avere come sua primaria preoccupazione l’esigenza di non dispiacere alle banche, al mondo imprenditoriale, ai settori cattolici più integralisti. La sinistra italiana è purtroppo affetta da un complesso di inferiorità: per essere ammessa nei salotti buoni accetta di sottoporsi a continui controlli del sangue, per entrare in quei circoli si acconcia a camminare in punta di piedi per non disturbare troppo. Il Compromesso Storico sembra essere un tratto caratterizzante e perenne della nostra politica.

172

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

Cosa intendi dire? Che questa logica da Compromesso Storico continua a spegnere oggi come a metà degli anni Settanta qualsiasi autonomia. Allora la sinistra italiana fu a un passo dalla conquista del 50 più uno per cento. Certo, il mondo era diviso in blocchi, la situazione internazionale era complessa, ma il Pci decise, per entrare nell’area di governo, di imboccare la strada del realismo e della moderazione… Quindi, nella nenniana “stanza dei bottoni” con la benedizione della Dc, alleati alla Dc, quando fuori c’era un mondo fatto di giovani, di leader politici come Francesco De Martino e Riccardo Lombardi che avrebbero voluto vedere alla prova anche in Italia una sinistra di governo. Quello spirito evidentemente aleggia ancora nel Paese e chi viene da una certa tradizione e da una certa cultura ritiene ancora che ci si debba fare “accettare”. Un imbarazzo che non hanno mai avuto i laburisti inglesi, che non hanno più avuto a partire dal 1959 i socialdemocratici tedeschi, che dopo la rifondazione di Francois Mitterrand non hanno avuto i socialisti francesi, che non ha sfiorato i socialisti spagnoli che pure uscivano da una lunga dittatura. La sinistra italiana, invece, non ha mai coltivato l’idea dell’autosufficienza e ha inseguito l’obiettivo del governo del Paese passando per coalizioni da condividere con persone che con la sinistra nulla avevano a che fare. Adesso qualcosa sta cambiando ma sono passati settant’anni; i socialdemocratici tedeschi impiegarono sette anni per andare al governo con la Grosse Koalition e tredici per sorpassare elettoralmente Csu-Cdu. Gli spagnoli hanno fatto anche più in fretta. Il fatto è che ci è mancata Bad Godesberg, quella “rivoluzione” democratica e silenziosa sintetizzata in queste poche parole: “il socialismo democratico ha le proprie radici nell’etica cristiana, nell’umanesimo e nella filosofia classica”; o ancora: “il socialismo si attua solo attraverso la democrazia e la democrazia attraverso il socialismo”; o infine una affermazione di questo tenore: “Il Partito Socialdemocratico Tedesco vuole, in competizione su un piano di perfetta uguaglianza con gli altri partiti democratici, conquistare la fiducia della maggioranza, per dare allo Stato e

173

IL LAVORATORE RITROVATO

alla Società una struttura conforme alle rivendicazioni fondamentali del socialismo democratico”. Abbiamo buttato via tempo e occasioni; abbiamo soprattutto evitato accuratamente di fare anche noi la nostra brava Bad Godesberg. Ma se ancora oggi parli con qualcuno molto vicino alla cultura del vecchio Pci, ti rendi conto che due questioni sono oggetto di demonizzazione: la scissione di Palazzo Barberini del 1947 e Bad Godesberg. Probabilmente il vecchio Pci cercava la legittimazione per via indiretta, attraverso le alleanze, piuttosto che per via diretta, come avevano fatto i socialdemocratici tedeschi, ripensando al modo in cui una forza di sinistra che non si ponesse l’obiettivo di abbattere il capitalismo, potesse gestire una società complessa, industrializzata dentro un sistema basato sull’economia di mercato. Credo che si tratti anche di questo. Il problema della legittimazione lo aveva risolto Craxi, ponendo una questione di leadership con tutti i problemi che conosciamo. In molti che vengono dal Pci intravedo, però, la voglia di mimetizzarsi, sembra difettare in loro l’orgoglio di essere di sinistra. Anche il superamento del comunismo è stato compiuto in una maniera particolare che ha prodotto come effetto la scissione di Rifondazione e l’irritazione di molti dirigenti che in quella svolta non si sono ritrovati, non si sono sentiti coinvolti. Io dico che adesso ci vorrebbe una Bad Godesberg che rimettesse al vertice dell’agenda politica di un partito di sinistra la questione del lavoro. Poi sì, certo, ci sono altre questioni, il conflitto di interessi, la giustizia, ma prima di tutto, su tutto c’è il lavoro. Parafrasando Nenni, Travail d’Abord. È mancato lo scatto verso l’alternativa, quello scatto che i tedeschi hanno avuto. Loro al momento della elaborazione di quel programma si sono posti il problema di essere alternativi (non alleati) al partito in quel momento di maggioranza. Avevano capito che la società stava cambiando anche se poi quasi nessuno pensava che in così poco tempo avrebbero raggiunto l’autosufficienza. Tutto questo è stato prodotto da Bad Godesberg e da due gesti alta-

174

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

mente simbolici, e anche pratici, di Willy Brandt: inginocchiandosi davanti al monumento in memoria della distruzione del ghetto di Varsavia, come lui stesso disse, si assunse la responsabilità in quanto tedesco, di quello che era avvenuto; firmando gli accordi che riconoscevano la linea Oder-Neisse rinunciò a qualsiasi rivendicazione territoriale. Fu lui a indicare l’obiettivo di una riunificazione pacifica delle due Germanie anche se poi l’opera venne realizzata da Helmut Kohl. Da noi, invece, anche il richiamo nazionale imbarazzava la sinistra. Il primo a compiere uno “strappo” su questo argomento fu Craxi: i congressi con sventolio di bandiere tricolori e la canzone di De Gregori, “Viva l’Italia”. Venivamo accusati di “fare come i missini”. Ma anche Sandro Pertini baciava la bandiera. La scelta di Craxi non fu indolore nemmeno tra i socialisti: ricordo che molti volevano che si continuasse a cantare solo l’Internazionale. Poi queste scelte le hanno fatte anche D’Alema e Veltroni. Dando però l’impressione che a prevalere fosse più l’aspetto tattico che quello strategico. Ora devo dire che il Pd con il suo simbolo ha imboccato nettamente una strada. Ma sempre con cinquanta anni di ritardo. Eppure alla costruzione di questa Repubblica i comunisti hanno contribuito con il sangue di tanti partigiani: la bandiera che la rappresenta doveva essere un valore, non un imbarazzo. Dopo Bad Godesberg e Palazzo Barberini, il Pci è andato avanti per altri trent’anni. Ma la scelta dei socialdemocratici tedeschi hanno continuato a viverla come un errore. A Bad Godesberg non si parla più solo di operai ma di lavoratori… La cosa più logica e giusta. Devo dire che tra di noi, nel sindacato, questa attenzione agli impiegati e ai quadri c’è sempre stata, anche nella Cgil, anche nella Fiom. Anzi, Luciano Lama e Bruno Trentin erano addirittura più attenti a questa visione di assieme di quanto non lo fossero la Uil e la Cisl. Eravamo un po’ pigri nel lessico, continuavamo a parlare di classe operaia, ma in realtà immaginavamo una classe con dei confini più vasti che comprendeva anche tutti gli altri lavoratori. È comunque una costante: la Cgil ha, in realtà, espresso sempre un vertice

175

IL LAVORATORE RITROVATO

riformista, più di quanto si potesse dire e far accettare ai militanti del vecchio Pci. Io trovo che tutto questo sia normale. Il sindacato non fa rivoluzioni, fa accordi, non sta all’opposizione, se non firma contratti non dura. Nella Cgil ha sempre prevalso questa visione riformista anche se Di Vittorio non amava essere definito in questo modo. Il sindacato ha continuamente avvertito una certa sensibilità istituzionale. Forse gli orizzonti del sindacato erano più vasti: la Cgil doveva guardare a Est ma non poteva evitare di dialogare con i sindacati a Ovest. Ho vissuto la fase di grande tensione che caratterizzò i rapporti tra Luciano Lama ed Enrico Berlinguer. Lama ha fatto veramente il possibile e l’impossibile per mantenere una grande autonomia nei confronti del Pci. Ti dirò di più per comprendere lo spirito dei tempi: i dirigenti comunisti della Cgil hanno sempre condannato l’estremismo e il massimalismo a volte più di quanto facessimo noi. Pur di difendere l’unità sindacale, erano disposti a pagare prezzi altissimi. Ricordo che nell’organo di governo della Federazione Unitaria loro avevano diciotto membri su novanta. Era un grande sacrificio tanto è vero che quella situazione era osteggiata da Berlinguer. Bruno Trentin era contro lo sciopero che provocasse danni agli impianti, le agitazioni a tempo indeterminato, era contro le lotte “disperate”, diceva che bisognava lasciare sempre alla controparte una via d’uscita, ripeteva che lui non voleva in una vertenza giocarsi tutto perché faceva il sindacalista non il giocatore d’azzardo. Sì, ho proprio un bel ricordo di Trentin, un uomo che con le sue analisi sollecitava sempre momenti di riflessione, certo, negli anni del Compromesso Storico ha subito il condizionamento del Pci ma si è sempre mosso con sofferta libertà. E tu eri in qualche maniera condizionato? No, non mi sono mai sentito condizionato. Né dal Psi, né tanto meno dal Pci. Poi la Uil e la Cisl erano in una situazione favorevole: i dirigenti ce li sceglievamo noi. Nella Cgil, invece, gli imput arrivavano sia dal Pci che dal

176

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

Psi. Certo, c’era una sintonia con la linea politica di Craxi perché sentivo che avrebbe accentuato anche la nostra capacità di movimento. Ora la capacità di movimento è compressa dalla crisi, una crisi che ha assunto le caratteristiche di un vero e proprio dramma sociale, con forme di lotta disperate. Molti nodi riguardano aziende un tempo di proprietà dello Stato e che sono state privatizzate. Cesare Geronzi nel suo libro, “Confiteor”, ha detto: “Con il senno di poi, posso dire che l’intera partita della Telecom è stata mal condotta, dalla privatizzazione ai successivi passaggi di proprietà. Alla fine si è stati costretti ad agire in stato di necessità. Mediobanca e Generali sono diventate azioniste della holding Telco, che deteneva la maggioranza relativa di Telecom Italia, a valori che si sono subito dimostrati fuori mercato”. È una dichiarazione che spiega, seppur indirettamente, le difficoltà che altre aziende stanno attraversando, dall’Ilva all’Alcoa; il pressappochismo, la faciloneria o il doloso sostegno a operazioni speculative hanno ispirato comportamenti scarsamente illuminati di troppi nostri liberisti all’amatriciana. Se oggi la situazione dell’ apparato produttivo italiano e dei lavoratori è tanto drammatica, in che misura la responsabilità può essere attribuita alla scelta di fare piazza pulita delle Partecipazioni Statali e dell’Iri? Anche in questo caso bisogna fare ricorso alla storia. È evidente che la globalizzazione ha fatto precipitare il sindacato in una situazione di impotenza. All’improvviso si è trovato privo di controparti perché erano allo stesso tempo ovunque e in nessun luogo in particolare. In un quadro simile puoi promuovere solo azioni difensive. Il panorama è stato ulteriormente complicato dalla liquidazione delle Partecipazioni Statali. Per troppo tempo si è detto peste e corna di quel sistema e non nego che ci fossero dei problemi di trasparenza che, però, potevano essere affrontati e risolti. Le Partecipazioni Statali hanno avuto effetti positivi sul fronte dei diritti, su quello della collaborazione tra sindacati e datore di lavoro (il Protocollo Iri firmato con Romano Prodi), sul fronte dell’industrializzazione del Mezzogiorno. che è stata fatta dalle aziende di Stato e, in minima parte, dalla Fiat. Si è ironizzato parecchio sulla capacità competi-

177

La Discussione, 20 aprile 1981. Sempre la scala mobile. Enrico Berlinguer trattiene Luciano Lama interessato a percorrere con Giorgio Benvenuto e Pierre Carniti la “salita” dell’accordo

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

tiva di quelle fabbriche eppure io dico, alla luce delle performances di alcune di quelle privatizzate, che la galassia aziendale sotto la mano pubblica ancora oggi non sfigurerebbe sul mercato. La realtà è che la vicenda delle Partecipazioni Statali è stata speculare a quella della nostra Repubblica: abbiamo archiviato la Prima senza creare la Seconda, abbiamo liquidato le aziende di Stato senza costruire un sistema alternativo, sostituendole semplicemente con il deserto. Lo si è fatto in maniera frettolosa perché l’obiettivo non era quello di rimpiazzare strutture inefficienti con strutture efficienti ma solo quello di fare cassa. Alla fine la vendita, anzi la svendita, ha soltanto indebolito il sistema paese perché sono andate perdute delle vere e proprie eccellenze che facevano ricerca e innovazione, abbiamo rinunciato a rilevanti presenze produttive sul territorio. Sarebbe stata una scelta positiva se all’imprenditore pubblico fosse subentrato quello privato, invece sono arrivati gli speculatori. che hanno acquistato straordinarie realtà produttive come l’Ilva solo per fare utili (è il caso di Riva) investendo pochissimo o per venderle al fine di realizzare consistenti plusvalenze. Un errore, insomma. Il fatto è che tutto avvenne in un momento di grande contestazione nei confronti del sistema delle Partecipazioni Statali che veniva accusato di essere un grande collettore finanziario della Dc. L’ indignazione ha avuto la meglio sulla programmazione. Altrove queste cose sono state attuate non per fare cassa ma per cambiare le proprietà in maniera coerente. Però il clima dell’epoca era di demonizzazione. Io dico che forse sarebbe utile creare una commissione di inchiesta per analizzare meglio quel che accadde allora. Solo per capire non per individuare colpevoli perché ormai il tempo è passato e la svendita è avvenuta. Come dice Cesare Geronzi, Telecom è stato l’esempio più illuminante di un modo sbagliato di privatizzare? È uno degli esempi possibili. Un altro è l’Alfa Romeo. Per un malinteso orgoglio nazionale fu venduta alla Fiat. La conseguenza è che il marchio è in stato comatoso e che la Fiat è stata danneggiata perché avrebbe avuto bisogno

179

IL LAVORATORE RITROVATO

di un concorrente all’interno dei confini italiani, per migliorarsi, per produrre auto in grado di reggere il confronto con la concorrenza. L’Ilva di Taranto è una delle vertenze più complesse di questi anni difficili. Al di là degli aspetti giudiziari, c’è un dato che illustra la qualità di alcuni protagonisti di questa vicenda delle liberalizzazioni: Riva su quella fabbrica ha investito il necessario sul fronte della produzione manifestando una totale indifferenza verso l’ambiente circostante, tanto da un punto di vista ecologico, quanto da un punto di vista sociale. Il capitalismo «usa e getta», solo che parliamo di donne, uomini e bambini, non di carta straccia. L’Ilva non è stata venduta, è stata svenduta, Riva l’ha pagata un prezzo irrisorio. Ma anche questa è la conferma della maniera malsana in cui tutta l’operazione si è sviluppata. Al momento della vendita, lo Stato avrebbe dovuto riservarsi maggiori poteri di controllo. Gli enti pubblici quando hanno alienato le proprietà immobiliari hanno posto agli acquirenti la condizione di non cederle per almeno cinque anni; per aziende che rappresentavano un pezzo rilevante del nostro apparato produttivo, al contrario, non sono state predisposte garanzie. Abbiamo spianato la strada a un processo di desertificazione della nostra industria manifatturiera. All’epoca si ironizzava dicendo: lo Stato mica può produrre panettoni. Panettoni no e nemmeno occhiali. Ma in talune produzioni strategiche la presenza dello Stato non è assolutamente disdicevole. Per fortuna alcune aziende sono state salvate, Eni, Finmeccanica. Poi lo Stato si deve preoccupare anche di difendere alcuni interessi nazionali. Noi abbiamo perso la nostra presenza nell’elettronica con l’uscita dell’Olivetti dal mercato dei computer; abbiamo perduto posizioni nel settore farmaceutico, nell’elettromeccanica, nei trasporti. Si parlava, senza fare distinzione, di un grande Carrozzone. Ma una privatizzazione che si rispetti non può realizzarsi con l’ansia di “fare cassa”. Oggi Taranto vive in bilico, sfibrata da questo lungo “baratto” salute-lavoro.

180

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

In aggiunta un quesito: se anche bonificare è possibile, chi mette tutti quei soldi? Se l’Ilva fosse ancora statale forse il problema sarebbe più facilmente risolvibile, per quanto dispendioso. È evidente che Riva tutti quei soldi, cinque-sei miliardi non li metterà mai. Ma un modo per uscire da questa situazione bisogna trovarlo, pure a livello europeo. Sono convinto che questo sia un banco di prova, anche per lo Stato perché dubito che si possa adeguare a standard ambientali accettabili quella fabbrica solo con investimenti privati. E, d’altro canto, se non si rilancia l’azione dello Stato a livello economico penso che questo Paese dalla crisi non riuscirà a uscire. Roosevelt resta ancora oggi un esempio. Come si esce dalla recessione? Gran parte del capitale in Italia è impiegato in attività finanziarie. L’unica maniera è un ritorno dell’attività pubblica quanto meno a livello di infrastrutture. Sono cose che altrove, in America, in Francia, si fanno e funzionano. Una cosa è certa: ci poniamo sempre di fronte a drammatiche alternative. Il fatto è che noi non aggiungiamo il nuovo al vecchio, sostituiamo il vecchio col nuovo. Abbiamo distrutto l’agricoltura perché volevamo diventare un grande paese industriale; adesso stiamo distruggendo l’industria per buttarci nella finanza. Alla fine, però, pagano i cittadini, i lavoratori. E Taranto, da questo punto di vista, è una storia emblematica. Lo scontro di due diritti costituzionalmente garantiti, quello alla salute e quello al lavoro. Durante l’Autunno Caldo coniaste lo slogan: la salute non si vende. E adesso come si fa a coniugare le due cose? È possibile oppure a una delle due bisogna rinunciare? L’Autunno Caldo mise per la prima volta la questione della salute al centro delle vertenze. E realizzammo notevoli conquiste: la progressiva robottizzazione delle lavorazioni più nocive, ad esempio. C’era all’epoca la tendenza a monetizzare il rischio. Il sindacato è stato in quel caso attento: ha colto e ha cercato di risolvere il problema della salute sul posto di lavoro. Però ci siamo fermati lì, non abbiamo capito che dovevamo farci carico anche delle que-

181

IL LAVORATORE RITROVATO

stioni ambientali fuori dalla fabbrica, nell’area circostante. Ora fatichiamo a conciliare le necessità che vengono dall’interno (la difesa del posto di lavoro, del reddito) con quelle che premono dall’esterno (la necessità di un ambiente meno contaminato, meno carico di rischi e di malattie). Gli interessi della città e quelli della fabbrica appaiono inconciliabili. Da un lato famiglie che dipendono da quel reddito, dall’altro cittadini che ogni giorno fanno i conti con una condizione ambientale e sanitaria caratterizzata dall’emergenza. Nel mezzo governi, istituzioni e gerarchie ecclesiastiche locali che hanno preferito, in barba a tutte le dottrine sociali, infilare la testa nella sabbia come gli struzzi per qualche fontanella nel cimitero (la “generosità” dei Riva è condita di macabra ironia considerando l’incidenza della mortalità per tumori) o la ritinteggiata della facciata di una Chiesa. I due pianeti sono destinati a non comunicare e a entrare in rotta di collisione? Ilva e Taranto devono per forza di cose trovare un punto di incontro, nel segno della difesa di tutti e due i diritti costituzionali perché tutti e due hanno la medesima forza, nessuno dei due è prevalente sull’altro. I cittadini hanno ragione a chiedere sicurezza fuori dalla fabbrica; i lavoratori hanno ragione a chiederla in fabbrica; i cittadini hanno ragione quando rivendicano il diritto a godere dell’ambiente in cui vivono senza preoccuparsi delle polveri più o meno sottili; i lavoratori, in un’area caratterizzata da penuria di opportunità, hanno il diritto di difendere il salario, dunque la sua fonte. È evidente che bisogna realizzare questa conciliazione con la necessaria gradualità, sollecitando un investimento pubblico che per come si sono messe le cose non può essere né eluso né rinviato perché già troppo tempo è stato perso. E da questo punto di vista, la risposta è sempre nel programma di Bad Godesberg: “Situazioni sociali che conducono a difficoltà individuali e collettive non devono essere considerate inevitabili e immutabili”. Ma c’è un’ altra affermazione che sembra riguardare esattamente il caso Taranto: “Concorrenza sin tanto che è possibile, pianificazione quando è necessario”. È evidente che in questo caso la pianificazione è necessaria: è l’unica strada per restituire Ta-

182

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

ranto ai tarantini e la fabbrica, ripulita, ai lavoratori. È chiaro che Riva non lo farà: non ce la può fare e probabilmente, non lo vuole fare, d’altro canto perché dovrebbe “smentirsi” visto che non lo ha fatto sino ad ora. Ma la situazione non può rimanere così perché il rischio è di accumulare altri ritardi. Si sono buttati via dieci anni con il mondo politico che ha chiuso gli occhi davanti a una gestione imprenditoriale che considerava l’azienda e la città che l’ospitava un limone da spremere. Non una pianta di limone da accudire con grande cura. Tu parli del mondo politico, ma anche il sindacato in questa vicenda sembra essere stato colpito da una sorta di strabismo. Per esperienza personale, ricordo Taranto degli inizi degli anni Sessanta, quando l’Italsider arrivò scatenando egoistiche pulsioni che poi portarono all’insediamento della fabbrica laddove non sarebbe mai dovuta avvenire, cioè a ridosso della città. Per sette anni, dal ‘64 al ‘71, la città si è inebriata nel benessere con un aumento del Pil da metropoli del Nord (quello pro-capite nel periodo fece segnare una crescita di oltre il 270 per cento). Veniva chiamata la “Milano del Sud” per via delle ciminiere e, in effetti, da Taranto, per sette anni, non è partito nessuno, la città non alimentava i flussi migratori Sud-Nord. Ma che l’acciaio inquini lo sanno anche i bambini dell’asilo e che altrove, nel mondo, il problema sia stato affrontato e risolto è un dato di fatto. Perché tanta inerzia, soprattutto tanta timidezza nei confronti di Riva, non propriamente un imprenditore illuminato, un emulo di Adriano Olivetti? Il sindacato è stato anche vittima di una strategia rivolta alla sua emarginazione. Schiacciato, ha finito per arretrare, per difendere il possibile, soprattutto su questi temi più impegnativi in cui entrano in ballo questioni che vanno oltre il lavoro: il territorio, l’ambiente. Il sindacato ha finito quasi per sentirsi inadeguato rispetto alla soluzione di quei problemi e questo strano complesso di inferiorità lo ha pagato con l’immobilismo. Io penso che bisogna anche tenere presente il tipo di controparte con cui ti misuri. Che fai con uno come Riva? Gli mandi i carabinieri? Gli poni la questione in termini ultimativi? Se quella azienda fosse stata ancora di proprietà dello Stato avresti

183

IL LAVORATORE RITROVATO

potuto avviare un negoziato diverso perché lo Stato è un datore di lavoro con delle responsabilità sociali non solo economiche, che per forza di cose deve avere nella Costituzione un riferimento ineludibile. Ma qui parliamo di un imprenditore che ha acquistato una azienda a un prezzo decisamente conveniente e ha cominciato a produrre per sé grandi utili. Davanti a un ultimatum, come avrebbe risposto? Come le Partecipazioni Statali che non potevano chiudere e lasciare l’Italia? O, al contrario, avrebbe tirato giù la saracinesca, mandato a casa alcune migliaia di lavoratori e trasferito la produzione in posti dove non gli avrebbero chiesto nulla dal punto di vista delle garanzie ambientali e avrebbe potuto contare su una manodopera decisamente meno costosa? È evidente quale sarebbe stata la risposta. Ecco allora che quando si parla degli errori del sindacato bisogna anche tenere presente che non si può finire come i garibaldini a Mentana: loro avevano i fucili che si caricavano davanti e i francesi gli Chassepots che sparavano a ripetizione. Il risultato, però, è una città divisa, in cui la coesione sociale rischia di saltare su questioni essenziali per la vita delle persone. L’Ilva è vissuta con fastidio. E fin qui ci sarebbe addirittura poco da dire. Ma è vissuto con fastidio anche chi “vive” dentro l’Ilva e che è vittima di una situazione paradossale: rischia due volte perché quella resta una fabbrica insicura che produce troppi incidenti sul lavoro e in più inala anche da posizioni più ravvicinate le stesse polveri e gli stessi fumi che calano come una condanna biblica sui cittadini nei rioni Tamburi e Paolo VI. Di fronte a un problema così grande abbiamo avuto un sindacato diviso, partiti confusi e preoccupati solo del consenso, amministrazioni locali interessate ad avere un buon rapporto con l’azienda e comitati civici che muovendosi fuori dalle Confederazioni hanno posto il problema con forza e disinvoltura. Ecco, io dico che doveva essere il sindacato a farsi per primo portavoce della questione, rivendicando soluzioni (e poi governandole) in grado di ricostituire un rapporto di fiducia tra persone che vivono il medesimo dramma, seppur da posizioni diverse. È su questo terreno che le Confederazioni devono recuperare capacità di movimento. Il sindacato è un grande soggetto

184

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

istituzionale perché è in grado di trovare soluzioni nel segno della gradualità, salvaguardando quella coesione che non è necessaria solo a Taranto ma in tutta la società civile perché il vivere insieme non può essere una lotta di tutti contro tutti. I comitati, che pure hanno svolto un ruolo positivo, sono inevitabilmente portati a impostare il problema in termini più radicali, ultimativi: o vince l’uno o vince l’altro, non accettano, per la loro stessa forma, il concetto di mediazione, ovviamente mi riferisco alla mediazione sana che porta all’individuazione delle soluzioni e poi ne controlla la realizzazione, non quella furba che punta al tirare a campare. In questi casi il rischio è quello di una guerra tra poveri… Più che tra poveri tra disperati. Inevitabile quando si tratta di conciliare valori fondamentali. I valori non sono mai inconciliabili perché è su quelli che si basa la convivenza civile. Diventano inconciliabili quando manca la politica. E anche quando manca il sindacato. In una situazione di vuoto prevale la legge della giungla… O la legge a cui faceva riferimento Enrico Cuccia, secondo il racconto di Cesare Geronzi: articolo quinto chi ha i soldi ha vinto. Riva di soldi ne ha fatti quindi può candidarsi alla vittoria finale… Qui la situazione è chiara: da un lato ci sono delle persone che temono di perdere il posto di lavoro, dall’altro dei cittadini che temono di ammalarsi, di veder morire i propri figli. Sembrano gli ospiti di una gigantesca navicella spaziale: in assenza di forza di gravità, volteggiano nel vuoto. La magistratura svolge un ruolo fondamentale nel garantire il rispetto delle leggi, ma non si può delegare al giudice la soluzione di problemi complessi che non si possono impostare in un’aula di tribunale. I magistrati hanno svolto un ruolo fondamentale di sollecitazione, ma non è il Palazzo di Giustizia il luogo in cui interessi legittimi ma al momento conflittuali possono essere ricomposti in un quadro di civile convivenza. Il giudice potrà e dovrà punire i colpevoli ma non è lui che può ricomporre a unità un quadro di valori costituzionalmente

185

IL LAVORATORE RITROVATO

garantito. La soluzione concordata, capace di offrire a tutti garanzie, va trovata dalla politica e da un sindacato che si faccia carico dei problemi ambientali, superando le paure e i complessi di inferiorità di fronte all’apparente inanità dell’impresa. A Taranto tutti hanno chiuso gli occhi, i problemi si sono trascinati e trascinandosi sono diventati sempre più grandi. Ora è diventato complicatissimo affondare le mani in questa melma ma bisogna farlo. Ci vogliono soldi, tanti soldi ma non è pensabile che la soluzione possa essere trovata senza un intervento pubblico. Il discorso di Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in Veritate, era ovviamente più generale, ma alcune sue parole possono essere applicate al caso Taranto: “Gli aspetti della crisi e delle sue soluzioni nonché di un futuro nuovo possibile sviluppo, sono sempre più interconnessi, si implicano a vicenda, richiedono nuovi sforzi di comprensione unitaria e una nuova sintesi umanistica”. Taranto ha bisogno proprio di questo: di una nuova sintesi umanistica. Immagino cosa avrebbe detto Bruno Trentin di fronte a una situazione di questo genere: bisogna trovare una via di uscita perché il conflitto non può essere cieco. Parliamo di salute, però, di bambini: possiamo invocare una nuova sintesi umanistica, ma a Taranto la sintesi è stata per troppo tempo disumana. Ciò che è avvenuto e che avviene ancora non si cancella. Ma i dibattiti non servono a nulla se sono finalizzati soltanto alla ricerca del colpevole. I dibattiti funzionano se ci consentono di trovare soluzioni. Ci sono delle responsabilità, la magistratura le colpirà, anche severamente, non ne dubito. Ma cerchiamo la soluzione, qui ed ora. Ci sono stati quelli che hanno fatto guai e quelli che hanno omesso di controllare chi faceva guai. Ma poi dobbiamo trovare il modo per ripartire. Da troppi anni in questo Paese non si fa politica industriale: non la si fa in maniera antica e non la si fa in maniera moderna cioè garantendo che le produzioni siano rispettose dell’ambiente. Da diversi lustri non si fanno riforme. Noi siamo in questo momento come la Cina. Ci siamo fermati alla prima

186

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

fase del processo di industrializzazione. Non siamo andati più avanti e da anni attendiamo. Ma non possiamo rimanere lì, su quel binario morto, ancora a lungo, in attesa di un Godot che non arriva mai. Abbiamo ammodernato poco la struttura produttiva e i dati su innovazione e ricerca sono spietati. Le Partecipazione Statali, con tutti i limiti clientelari che si portavano dietro, avevano prodotto un eccesso di modernizzazione. Il processo di privatizzazione ha messo quelle aziende nelle mani di imprenditori che hanno prodotto, al contrario, un eccesso di sfruttamento senza alcuna preoccupazione per l’ammodernamento di quello che era uno straordinario patrimonio produttivo italiano. La soluzione è stata peggiore del male. La soluzione ha portato all’acquisto di aziende a debito o all’inaridimento degli investimenti perché i quattrini incassati dovevano trasformarsi in utili e dividendi. Che abbia ragione lo storico Eric Hobsbawn citato da Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini nel loro libro: “L’Urss ha tentato di eliminare il settore privato: ed è stata una sonora sconfitta. Dall’altro lato, il tentativo ultraliberista è pure miseramente fallito”? Ma non è che i demoni di ieri si sono trasformati in angeli? Non è che lo Stato imprenditore in fondo una qualche ragion d’essere, in una economia basata sull’iniziativa privata, ce l’ha ancora, almeno quando sono in ballo interessi complessi che rischiano di entrare in rotta di collisione? Non sono per le nostalgie, preferisco guardare i fatti. Le Partecipazioni Statali erano massicciamente invischiate nel finanziamento della politica. Erano invischiate anche perché, sentendosi sotto attacco, distribuivano quattrini per tenersi buoni i partiti. Il sistema era infettato dal clientelismo. I punti deboli c’erano, non ci sono dubbi. Però c’erano anche molti aspetti positivi: erano aziende che facevano ricerca, che investivano sull’innovazione. Poi, dato che dovevi presentarti col cappello in mano per chiedere di aumentare la dotazione finanziaria, a quel punto entrava in ballo il rapporto distorto con la politica. È una situazione che ha fatto precipitare le Partecipazioni Statali in una oggettiva condizione di indifendibilità. Ma se era giusto voltare pagina, non è stato altrettanto giusto o, meglio, conveniente per il Paese, il modo in cui lo si è fatto.

187

La Discussione, 30 marzo 1981: Nino Andreatta, Ministro del Tesoro, spiega a Vittorio Merloni, presidente di Confindustria, Luciano Lama, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto che non ci sono più risorse, il frigo è vuoto

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

Scrivono Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini: “A conti fatti, entrate nelle casse dello Stato e benefici in termini di sviluppo industriale, possiamo affermare che le privatizzazioni non abbiano esercitato un ruolo trainante nello sviluppo dell’economia italiana. Anche questo può essere uno dei motivi alla base del debole tasso di crescita nel periodo 1992-2012, pari all’1,5 per cento annuo, rispetto al 4,5 del quarantennio 1951-91”. Lo Stato come soggetto economico può svolgere un ruolo positivo? Diciamo subito che i problemi sono due: la crescita e le Authority. Io sono convinto che con la penuria di capitali a disposizione, solo lo Stato può svolgere un ruolo di stimolo. Altrimenti dal baratro non riusciremo a risalire e la crescita resterà solo un’ipotesi. Sulle Authority sono molto netto: sono troppe e non hanno prodotto effetti positivi per i cittadini basta vedere cosa è avvenuto in questi anni sulle tariffe, sulla trasparenza, sulla concorrenza. Sono organismi che hanno egregiamente risolto soprattutto i problemi di chi ne fa parte. L’intervento pubblico deve trovare uno spazio, deve giocare un ruolo più attivo in questa crisi se non vogliamo rimanere paralizzati su crescite da prefisso telefonico, quando va bene. L’appello agli industriali lanciato da Berlusconi per salvare l’Alitalia mi sembra che abbia prodotto risultati decisamente deludenti. No, io non penso che esista la possibilità per gli imprenditori italiani di fare da soli, di risollevare da soli questo Paese. Lo Stato deve intervenire, per abbreviare i tempi della crisi, per stimolare i privati, per risollevare i tassi di occupazione che ormai hanno raggiunto livelli troppo bassi nel nostro Paese, tra pensionati, prepensionati e cassaintegrati. Un’altra vertenza emblematica è quella dell’Alcoa. Lì, in Sardegna, una azienda straniera decide di chiudere i battenti perché ritiene non più sostenibili i costi dell’energia. Anche in questo caso parliamo di una azienda privatizzata. È questo il pedaggio della globalizzazione unita alla delocalizzazione? I lavoratori come carta straccia, il lavoro come merce? Anche su questo tema degli investimenti stranieri sento fare grandi discorsi. La realtà però è più cruda delle parole, per quanto misurate possano essere. In Italia le aziende straniere non vengono. Ma accanto agli stranieri che ci

189

IL LAVORATORE RITROVATO

snobbano, ora anche gli italiani vanno via e lo fanno o come imprese o come “menti” perché cercano all’estero quelle gratificazioni che il nostro Paese non è più in grado di dare. Risultato: una notevole decadenza del nostro settore manifatturiero che si accompagna a un peggioramento della qualità dei gruppi dirigenti. Il fatto è che o non conosciamo le situazioni o facciamo finta di non conoscerle. Ma chi viene a investire in Italia nelle attuali condizioni? A parte i costi in denaro, nel nostro Paese bisogna aggiungere anche i costi legati agli eccessi normativi e alle lungaggini burocratiche per ottenere banali autorizzazioni. Uno straniero viene in Italia, vede l’andazzo e fugge. Con il nostro barocchismo normativo e burocratico scoraggiamo anche le persone evangelicamente dotate di buona volontà. E poi bisognerebbe omogeneizzare le legislazioni a livello europeo. A cosa ti riferisci? Il nostro sistema fiscale è antiquato. Prendi anche questo redditometro nuovo. Non va? Ma parliamoci chiaro: in Italia c’è tanto lavoro autonomo, con la normativa attuale si può agevolmente trasformare una spesa personale in una spesa aziendale. E poi c’è un discorso da fare per le imprese: le condizioni vanno armonizzate per evitare la fiscalità nociva. C’è una grande lotta da fare sul dumping sociale. E può farla il sindacato che, però, ora non guarda fuori dai confini del nostro Paese. L’ho detto prima: anni fa abbiamo fatto lotte straordinarie per aiutare popoli oppressi a guadagnare la libertà. Ora, però, bisogna fare un passo in avanti: bisogna lottare perché questi popoli che hanno ottenuto la libertà, abbiano anche il riconoscimento dei diritti economici di cui godono i lavoratori dell’Occidente avanzato. Il dumping sociale è il vero nemico da combattere, è il carburante che alimenta la delocalizzazione e innesca un circolo vizioso per cui il lavoro va dove i diritti sono compressi e tu, per recuperare pezzi sempre più esigui di salario, accetti di abbassare i tuoi. Insomma, una corsa al ribasso, un’asta al contrario sulla pelle delle persone. Questo è il grande problema in-

190

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

ternazionale con cui le Confederazioni sindacali devono fare i conti e trovare forme di collaborazione con gli altri sindacati. L’Italia su questa strada da sola non può competere. E allora dobbiamo porci l’obiettivo, peraltro, ragionevolissimo, di trasferire oltre i confini quelle garanzie che qui da noi sono ormai radicate e considerate elemento essenziale di quella dignità umana a cui i Papi, da Leone XIII a Benedetto XVI, e quindi non solo Karl Marx, hanno fatto in oltre un secolo continuo riferimento trovando evidentemente non molti proseliti, tra chi si definisce la domenica cattolico e praticante e il lunedì va alla ricerca sulla cartina geografica di un posto dove potrà pagare un operaio un euro all’ora. Il sindacato deve misurarsi con questo problema, cominciare a porsi la questione dei diritti economici in Cina o in Corea, e comunque in tutti quei paesi che si dichiarano liberi ma che non rispettano princìpi di dignità che sono contenuti qualificanti della libertà. Pensi realmente che in un mondo così articolato si possa aprire una vertenza di questo tipo? Non ritieni che la tua sia una impostazione un po’ romantica o, peggio ancora, velleitaria? No, non penso di essere romantico o velleitario. Si può organizzare una azione di questo tipo. Anzi, ritengo sia assolutamente necessario organizzarla. Il mio ottimismo nasce dal fatto che su questo terreno ci incontriamo con le posizioni della Chiesa che guarda al mondo, non solo all’Italia. Il sindacato non deve sentirsi emarginato perché non lo è. Deve, però, superare la pigrizia che gli impedisce di passare da un atteggiamento difensivo a un atteggiamento offensivo. Nell’attesa, l’Alcoa chiude, la Sardegna diventa sempre più povera. Una deriva senza speranza? Berlusconi e Maroni, prima delle elezioni del febbraio 2013, si sono accordati sulla storia di trattenere il 75 per cento delle tasse nelle regioni che le producono. La maniera più semplice per affamare definitivamente chi già salta diversi pasti. Il sindacato nel passato, invece, si pose il problema della fiscalità di vantaggio proprio per stimolare la crescita delle zone economicamente più

191

IL LAVORATORE RITROVATO

arretrate. Ora si ribaltano i piani con il Nord, ricco, che ottiene vantaggi e il Sud, povero, che incamera svantaggi. In questo Paese si ha una idea bislacca del federalismo fiscale. Regioni e Comuni possono applicare addizionali su tutto, sulla benzina, sul gas, sulle assicurazioni. Dove sono più alte le addizionali? Al Sud. Dalla fiscalità di vantaggio per stimolare la crescita, siamo passati alla fiscalità di svantaggio per ammazzare definitivamente il cavallo già malnutrito. È evidente che bisogna cambiare registro. Il federalismo va realizzato anche a livello fiscale, ma va realizzato nella maniera indicata dalla Costituzione. Però se le cose sono andate così, la colpa è anche nostra che abbiamo alimentato la litigiosità tra Stato e Regioni. Al resto hanno provveduto le politiche imposte dalla Lega a Berlusconi. La conseguenza è che con il federalismo che abbiamo realizzato abbiamo soltanto reso più debole il Sud, cioè quella parte di Paese che va tonificata, rilanciata, avvicinata negli indici economici al Centro e al Nord. Dagli opposti estremismi siamo passati agli opposti egoismi. È inevitabile che gli egoismi si irrobustiscano man mano che le forze politiche diventano sempre più deboli. La realtà è che la Seconda Repubblica è stata caratterizzata da partiti troppo leggeri, personali, territoriali, in taluni casi semplici comitati elettorali. Altra cosa la storia, ovviamente migliore, dei grandi partiti della Prima Repubblica, quella scritta prima della valanga di Tangentopoli. La differenza con le forze politiche oggi in campo sta nel fatto che quelle rappresentavano veramente il Paese, per intero, da Nord a Sud, da Est a Ovest. In più le forze sociali, il sindacato e la Confindustria, non hanno più la medesima rappresentatività degli anni d’oro. Bisogna ricreare le ragioni della coesione perché l’Italia si sta sfarinando: prevale, come scriveva Guicciardini, il “particulare” sul generale. La mancanza di coesione determina l’arroccamento, l’arroccamento porta a un dialogo tra sordi. Questa tua analisi è applicabile a un’altra questione che dal dibattito politico

192

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

è scomparsa: il Sud. Eppure, le crisi dell’Ilva di Taranto o dell’Alcoa, come abbiamo visto sin qui, si abbattono sui fragili equilibri di quella zona d’Italia con la stessa forza di una dannazione eterna. Sino agli anni Settanta, la Questione Meridionale ha ispirato grandi e appassionati dibattiti, ha diviso verticalmente gli studiosi: di qui i meridionalisti (alcuni «a contratto» come li definiva Beniamino Finocchiaro allievo di Gaetano Salvemini, socialista, presidente della Rai dal ‘75 al ‘77) che rappresentavano la corrente «piagnona» e pertanto aspettavano che lo Stato ripagasse le sue manchevolezze e gli errori di un processo unitario più simile a una annessione che a una riunificazione, di là quelli che invitavano i diretti interessati a essere protagonisti del riscatto. Ora, invece, il silenzio viene interrotto da qualche inchiesta giornalistica quando la camorra uccide un innocente sotto casa della fidanzata. È verissimo. Il Sud non c’è quasi più: dimenticato, retrocesso a questione fuori moda. Eppure la sensibilità verso questo problema non è mancata. In questo libro ho parlato dell’impegno dei lavoratori e del sindacato, le lotte per portare le fabbriche dove c’era la manodopera invece di portare la manodopera dove c’erano le fabbriche. C’era la Cassa per il Mezzogiorno, una serie di istituti che si dedicavano all’analisi dei problemi, le Partecipazioni Statali, il varo di leggi come quella sulla riforma agraria. E non c’era solo l’impegno dei lavoratori e del sindacato. Mi piace leggere un brano del discorso che Adriano Olivetti, forse l’unico vero campione di Umanesimo Industriale visto all’opera nel nostro Paese, fece ai lavoratori di Pozzuoli nel 1955 in occasione dell’inaugurazione della fabbrica dell’Olivetti: “Accettammo di buon grado il nuovo fardello. Fu un atto di fede nell’avvenire e nel progresso della nostra industria, ma soprattutto un meditato omaggio ai bisogni di queste regioni. E non si trattò soltanto di un contributo in denaro, ma anche di un autentico sacrificio dei nostri lavoratori. Perché l’Italia è tutta colpita dalla dolorosa malattia della disoccupazione. Se le condizioni generali delle popolazioni che vivono nel Nord possono essere obiettivamente considerate di gran lunga migliori di quelle prevalenti nel Mezzogiorno, è pur vero che talune sciagure sono andate abbattendosi anche nelle nostre zone un tempo prosperose. La

193

IL LAVORATORE RITROVATO

crisi dei tessili e di taluni settori dell’industria meccanica ha fatto precipitare negli scorsi anni e negli scorsi mesi la situazione nella zona di Ivrea. Cinquecento meccanici perdevano il lavoro alla Zanzi di Ivrea, mille operai tessili ad Agliè, qualche centinaio ancora a Castellamonte, per giungere alla recente chiusura del Cotonificio di Caluso che ha colpito quattrocento famiglie. Così la fabbrica di Ivrea che usava assumere centinaia di operai ogni anno, si vide costretta, tra il ‘52 e il ‘54, per trasferire al Sud il suo potenziale di incremento produttivo, a ridurre o praticamente interrompere il ritmo delle assunzioni. Molti giovani non trovarono lavoro, molti padri dovettero attendere e ancora attendono che i figli possano conseguire una sistemazione, là dove essi stessi avevano passato gli anni migliori della loro vita. Ma nessuno ebbe a lamentarsi, nessuno indicò quale causa della sua condizione insoddisfatta, la creazione di questo stabilimento. Perché nella coscienza dei nostri operai del Canavese è vivo il senso di solidarietà con i fratelli della Campania, della Calabria, della Lucania”. Troppo belle quelle parole e i sentimenti che esprimevano, troppo inutili quelle dei giorni nostri, vuote e senza un minimo anelito di umanità. Purtroppo scontiamo una predicazione politica, quella della Lega, che ha rotto l’unità nazionale, contagiato in maniera negativa tutto l’orizzonte politico, prodotto un federalismo malsano che non sta solo facendo arretrare ulteriormente il Sud, ma non sta portando nulla di buono al Nord. La forbice si è allargata. Su questo allargamento non ci sono dubbi. L’Istat lo certifica: fra il 2007 e il 2011 il Mezzogiorno ha perso il 6,8 per cento del suo Prodotto Interno Lordo, bruciando ricchezza per 24 miliardi di euro; gli investimenti fissi sono calati dell’11,5 per cento, otto miliardi tondi, sedicimila imprese (cioè l’1 per cento del totale) hanno chiuso; gli occupati sono calati di trecentomila unità, in percentuale il 4,6 per cento. Ma si allargano anche altre forbici. Quella salariale: in Calabria la retribuzione giornaliera è di 68,7 euro contro 85,80 della media nazionale, 97,20 della Lombardia; quella di “genere”: sei donne su dieci al Sud non lavorano. Con questi numeri non possiamo più parlare di un Paese a due velocità, dobbiamo per forza di cose

194

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

immaginare due pianeti che corrono in direzioni opposte. I dati forniscono i contorni di una realtà agghiacciante. Ma, ripeto, se il Sud si impoverisce sempre di più, il Nord finisce per pagare la sua indifferenza nei confronti della questione meridionale. La battaglia alla mafia ha ottenuto qualche risultato ma non è un problema solo del Mezzogiorno, è un problema nazionale. Perché, poi, si scopre che la ‘ndrangheta è così ben radicata in Lombardia da poter portare nei gangli della regione dei propri “rappresentanti”; le ‘ndrine sono attivissime a Roma mentre sul litorale le organizzazioni camorristiche, a cominciare dai casalesi, hanno messo profonde radici. Se il dibattito politico italiano ha cancellato il Sud, le organizzazioni criminali si sono guardate bene dal rinunciare alla conquista del Nord e adesso stanno dilagando. La Lega ha imposto le sue logiche, le sue priorità. E gli altri? Bisogna riconoscere che una responsabilità ce l’ha pure la sinistra. Per troppo tempo si è fatto l’occhiolino alla Lega pensando che fosse una “costola” della sinistra. Non era così. La Lega è una forza politica populistica-demagogica. E con la sua martellante propaganda ha emarginato la questione meridionale trasformandola in un tema fuori moda, ha imposto l’abolizione della Cassa per il Mezzogiorno e, infine, ha posto al centro dell’agenda una riforma costituzionale che adesso sta paralizzando il Paese. La Lega rafforzava i confini, le mafie, al contrario, li abbattevano superando abbondantemente la Linea Gotica. Esattamente. Su questo tema si può applicare lo stesso ragionamento fatto sulla “compressione” dei diritti dei lavoratori nel mercato globale: se la mafia non la combatti in Sicilia, inevitabilmente te la ritrovi in Veneto o in Lombardia e viceversa. Parlavi della Cassa per il Mezzogiorno per la quale si potrebbe utilizzare una definizione molto di moda tanti anni fa tra i meridionalisti critici a proposito dell’Acquedotto Pugliese: ha dato più da mangiare che da bere.

195

IL LAVORATORE RITROVATO

Pensi che uno strumento del genere possa essere utile e, quindi, riesumato? No, non penso. È vero quel che tu dici, anche lì ci sono stati fenomeni di malcostume, però un valore, un ruolo la Cassa lo ha avuto. Ma non ritengo che la soluzione possa venire dalla sua riesumazione o dalla creazione di una banca per il Mezzogiorno: ricette che potevano andare bene quando non c’era l’Europa. Altre sono le strade da battere. In primo luogo una fiscalità di vantaggio che stimoli realmente gli investimenti e, conseguentemente la crescita. Un grande piano infrastrutturale che metta le merci (e anche le persone) nelle condizioni di viaggiare agevolmente in un Paese molto stretto ma anche troppo lungo. Non serve un ministero ad hoc però i vari dicasteri devono trattare la Questione Meridionale come se fosse una costola del capitolo “innovazione e ricerca”. E d’altro canto i giovani sono lì e li perdi, nel senso che andranno via, se non li metti nelle condizioni di essere utili per il Paese. Non pensi che ci sia qualcosa che non funziona in questa struttura istituzionale? Al Sud il problema lo tocchi con mano perché realtà analoghe vengono gestite con regole differenti, regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario e semmai laddove avresti bisogno di una “architettura istituzionale” più robusta, non ce l’hai. Parlando della Sicilia, tanti anni fa Leonardo Sciascia usò un aggettivo dal sapore pessimistico: irredimibile. Osservando l’inquinamento della politica vien da dire che il pessimismo era solo spietato realismo. L’inquinamento esiste perché nel Sud contano molto le famiglie politiche: figli nipoti, parenti vari. Veri e propri “coaguli” di interessi che gestiscono, spostano, dirottano pacchetti di voti. Sai qual è l’amara verità? Nel Sud per conquistare potere e fare i soldi devi dedicarti alla politica, al Nord puoi anche seguire un’altra strada, quella del lavoro, dell’impegno professionale, dell’impresa. Nella industrializzazione del Sud (oltre che dell’Italia) un ruolo determi-

196

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

nante lo ha svolto la Fiat. Vale per il passato. E per il futuro? La perenne vertenza che accompagna questa azienda solleva interrogativi sul versante dei diritti e soprattutto illustra la difficoltà del sindacato ad avere un rapporto unitario davanti a fenomeni nuovi e a manager figli di una cultura diversa, se non più spregiudicata, quantomeno più disinvolta. Tu come interpreti gli ultimi capitoli di questa vera e propria saga industriale? La Fiat che abbiamo conosciuto sino a qualche tempo fa, quella che ho conosciuto anche io prima da segretario dei metalmeccanici e poi da segretario della Uil, era una fabbrica italiana, anzi era una fabbrica piemontese. Al vertice c’era la Famiglia, identificabile in Gianni e Umberto Agnelli, la gestione era affidata a Cesare Romiti e a un gruppo di manager che avvertivano in maniera forte l’orgoglio di essere un pezzo fondamentale, il più riconoscibile e antico, del Made in Italy. Forse anche per questo o per lanciare una frecciata nemmeno tanto indiretta a Sergio Marchionne che Cesare Romiti nel suo libro ha scritto: “Il manager che guarda molto al proprio tornaconto è figlio di un sistema che ha perduto certi valori e affievolito gli anticorpi che lo preservano dalla degenerazione”. E più avanti si lascia andare a una affermazione che in qualche maniera smentisce l’idea che negli anni di lui l’Italia si è fatta: “Con l’autoritarismo instauri un regime aziendale che alla prima occasione ti si rivolta contro. Ma se non sei un manager autorevole non riesci a trasmettere principi e azioni che ritieni importanti per il successo dell’azienda”. Che azienda era quella Fiat? Un’azienda che considerava la produzione di automobili centrale nella propria strategia. Un’ azienda che si identificava con la storia d’Italia. E d’altro canto, Giovanni Agnelli era stato senatore, in Parlamento è approdato anche Vittorio Valletta e Gianni Agnelli è stato nominato senatore a vita. Umberto e Susanna Agnelli sono stati deputati. La Fiat non solo si sentiva profondamente italiana ma si sentiva un pezzo decisivo dell’Italia.E devo dire con franchezza che ci sono stati momenti in cui Agnelli si è preoccupato di difendere questa identità.

197

IL LAVORATORE RITROVATO

Dal passato al presente... L’azienda oggi rappresentata da Sergio Marchionne non ha nulla a che vedere con quella che ho conosciuto io, non è più in mano al vecchio imprenditore, al Patriarca o ai Patriarchi, è nelle mani degli eredi, peraltro molto numerosi e non sempre in completa sintonia, che non hanno la medesima sensibilità di Gianni e Umberto Agnelli. Non si sentono legati né alle vicende italiane né all’automobile. E poi c’è Marchionne che proprio non è italiano, non si sente espressione del nostro Paese. Vive in Svizzera, trascorre gran parte della sua esistenza in volo tra i continenti, il suo habitat naturale è il mondo. Lavora e si muove a livelli diversi, vede spesso Obama e in una occasione si è sforzato di parlare torinese ma in realtà del dialetto caro a Valletta non sa una parola. Non avverte la convenienza a fare auto in Italia. L’italianità che era scritta sul biglietto da visita dell’Avvocato Agnelli, che pure aveva portato l’inglese in una fabbrica che parlava piemontese, non lo riguarda. La sua analisi è semplice: che senso ha avere delle fabbriche che producono auto per il grande pubblico in un Paese in cui l’auto non tira più? Di qui la decisione di puntare su altri mercati, la Cina, l’India, il Brasile. A questo punto l’italianità non è più un valore, semmai in qualche caso, soprattutto quando devi gestire i rapporti con i sindacati e i lavoratori, un impaccio. Anche nelle Confederazioni, però, prevale una concezione vecchia: si continua a pensare che la Fiat sia l’espressione per eccellenza del capitalismo italiano. Le cose in realtà sono cambiate. Dovremmo cominciare a fare come ha fatto Obama, o come da tempo fanno in Germania, aprire spazi per la collaborazione, fare in modo che le aziende abbiano i conti in ordine per garantire e migliorare i livelli occupazionali… Qualcosa del genere hanno fatto alla Volkswagen dove nel 2010 hanno firmato una intesa per garantire il posto di lavoro a tutti sino al 2014. Il presidente della Daimler Benz, Dieter Zetsche ha dichiarato: “In Germania non si licenzia”. E in effetti si licenzia così poco che nel 2012, mentre nel nostro Paese la disoccupazione saliva all’11,2 per cento, da quelle parti si registrava il tasso di disoccupazione più basso dal 1991: 6,8 per cento, con

198

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

79 mila senza lavoro in meno rispetto al 2011. E la Volkswagen ha fatto segnare un incremento dell’utile netto del 38,5 per cento, da 15,8 miliardi a 21,9; la busta paga dell’amministratore delegato Martin Winterkom è salita da 17,5 a 20 milioni. La domanda a questo punto sorge spontanea: tutto questo si raggiunge con gli scioperi? Sinceramente non penso. Al contrario sono convinto che si possa ottenere con la collaborazione, chiaramente non a senso unico come quella che teorizza Marchionne. Sono convinto che sia utile che la classe lavoratrice cominci a esplorare nuovi terreni di confronto non conflittuali con le aziende. È interessante a questo proposito uno studio dell ETUI (European Trade Union Institute) che ha aggregato da un lato i dodici paesi in cui sono previste forme di cogestione (Austria, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo, Olanda, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Svezia) e dall’altra quindici paesi, tra i quali l’Italia, in cui non sono previste queste forme di partecipazione. Le due entità aggregate hanno quasi il medesimo Pil. Il risultato dice che fra i dodici gli occupati tra i 20 e i 64 anni sono pari al 72,1 per cento contro il 67,4, la spesa per ricerca e sviluppo ammonta al 2,2 per cento contro l’1,4, la popolazione a rischio povertà è attestata al 19,1 per cento contro il 25,4. Lo studio è del 2010. Io penso che sia giusto sperimentare strade alternative, nuove per noi, già battute per altri e, come dice lo studio a cui tu hai fatto riferimento, anche con una certa soddisfazione. Bisogna fare un passo in avanti, mostrare coraggio perché i tempi ce lo richiedono. Si possono e si debbono distinguere ruoli e obiettivi. Il sindacato in azienda deve ampliare gli spazi di collaborazione evitando di scaricare sulle controparti i costi di uno stato sprecone ed inefficiente. Ma la segretaria della Cgil, Susanna Camusso, ritiene che il modello della cogestione possa funzionare solo nelle grandi fabbriche. Il limite sottinteso è quello indicato dalla legge tedesca: duemila dipendenti che esprimono nei consigli di sorveglianza una rappresentanza del cinquanta per cento. Può essere un freno questo delle dimensioni?

199

IL LAVORATORE RITROVATO

Ma quale limite! La cogestione nelle piccole aziende si fa già senza che il sindacato lo sappia. In molti distretti imprese e organizzazioni dei lavoratori hanno elaborato piattaforme per affrontare i problemi comuni. Il nostro è il Paese delle vicende e dei protagonisti ignoti. Già oggi esempi di cogestione sono diffusi. Non vengono chiamati così per una forma di pudicizia lessicale. Insomma, tu pensi che in condizioni diverse e regolamentate, l’accordo che Ig Metall ha fatto alla Volkswagen si possa fare anche qui? Tanto per cominciare, direi che una intesa simile l’hanno già fatta negli Stati Uniti, alla Chrysler. Si dice che un accordo che non fa scioperare e non fa licenziare indebolisca il sindacato. Io la penso diversamente: tutto dipende dai rapporti di forza. E i rapporti di forza come si sono evoluti? Parliamoci chiaro, il sindacato venuto fuori dalla frammentazione della Cgil unitaria nel dopoguerra è stato a lungo un soggetto debole. Dovevamo conquistare spazi, dovevamo imporre la nostra presenza, insomma bisognava farsi valere. Era inevitabile la connotazione antagonista in quella fase storica: il Miracolo Economico aveva garantito straordinari benefici a qualcuno ma ai lavoratori erano state lasciate le briciole. Oggi con la globalizzazione la situazione è cambiata. Se l’impresa non è competitiva, scappa. Abbiamo interesse a salvaguardare la capacità produttiva dell’azienda, nel mercato senza confini, siamo tutti fratelli e tutti concorrenti allo stesso tempo. A questo punto penso che convenga esplorare questo terreno che non è stato sufficientemente arato e sul quale si possono trovare intese convenienti per tutti, per i lavoratori, per gli imprenditori e per il Paese. Accordi che consentano alle aziende di essere più efficienti e competitive. La questione è molto semplice: se le imprese vanno bene puoi ottenere vantaggi salariali, migliorare i livelli occupazionali, aprire le porte del mondo produttivo ai giovani; al contrario, se vanno male, c’è solo l’alternativa della cassa integrazione e della disoccupazione; se vanno bene ti dividi la ricchezza, se vanno male ti impoverisci sempre più. È evidente che un salto di qualità lo devono fare

200

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

anche gli imprenditori che su questo terreno hanno sempre frenato. Tutto questo non significa mettere in soffitta lo scontro di classe, solo prendere atto che nel tempo è cambiato, ha assunto altre forme. È un discorso, però, che incontra grandi diffidenze nella nomenklatura sindacale anche perché le antenne non sono più sensibili come nel passato. Ma se fossero sensibili, anche la nomenklatura sindacale capirebbe che accordi realistici ormai si fanno in molte piccole e medie aziende. Il fatto è che poi bisogna confrontarsi con Marchionne e con la sua idea un po’ unilaterale della collaborazione… La Fiat è un esempio molto particolare. Rappresenta un caso l’uscita dell’unico produttore italiano di automobili dalla Confindustria; ed è un caso il fatto che la Confindustria lo abbia lasciato uscire. Marchionne bisognava obbligarlo a un accordo che prevedesse dei vincoli, anche per lui. Le vicende alla Fiat ci fanno capire che va definita finalmente la questione della rappresentatività sindacale nelle imprese private: nel pubblico il problema è stato risolto con la legge. Ma quando tu eri segretario della Uil, avete mai provato a importare in Italia qualcosa di simile ai Consigli di Sorveglianza tedeschi? Io firmai con Luciano Lama e Franco Marini il Protocollo Iri, un accordo di partecipazione. Poi l’Iri è stata liquidata e con l’Iri anche il Protocollo. Non sono mancate le iniziative legislative ma non sono mai andate avanti perché la volontà politica è stata decisamente carente.Tutti hanno avuto paura di mettere le mani su questa materia perché temevano la posizione ostile della Confindustria. Invece io penso che questo problema di democrazia industriale, il sindacato e un partito di sinistra debbano porselo, esattamente come se lo pose la Spd che con il governo Brandt nel ‘76 ampliò enormemente lo spazio della cogestione di fatto attuando quello che era stato scritto diciassette anni prima all’hotel La Redoute di Bad Godesberg: “Da suddito dell’economia, il lavoratore deve diventare cittadino: la cogestione dell’industria siderurgica e carbonifera è l’inizio di un rinnovamento dell’ordinamento

201

IL LAVORATORE RITROVATO

economico e dovrà svilupparsi ulteriormente per sfociare in una organizzazione democratica della grande industria”. Ma se una partito di sinistra vuole realmente governare, deve risolvere il problema della rappresentatività nel senso dell’applicazione del dettato costituzionale che è rimasto lettera morta. E deve porre il tema della cogestione come forma di partecipazione dei lavoratori e di strumento per favorire lo sviluppo dell’economia del Paese. In realtà, la Spd lavorò su un terreno reso fertile da Konrad Adenauer che pure non era un progressista. Ma con un referendum il 95 per cento dei lavoratori tedeschi disse che avrebbe rinunciato a benefici salariali se gli fossero stati riconosciuti quei diritti di cogestione che i socialdemocratici poi hanno sviluppato. Le condizioni storiche erano tali che favorirono quelle soluzioni. Il trattato di pace per dare ai tedeschi la possibilità di utilizzare il carbone e l’acciaio, materiali decisamente utili in guerra, stabilì che nella gestione fossero coinvolti anche i sindacati e questo per evitare che si creassero spinte per un nuovo conflitto. Quella presenza sindacale ha prodotto effetti benefici, in Germania. In Italia, invece, si è sempre temuto che le organizzazioni sindacali potessero mettere i bastoni tra le ruote. Ma se in Germania sono state un fattore di crescita, non capisco perché in Italia dovrebbero essere, nelle situazioni attuali, un freno alla crescita. La Germania è in qualche maniera l’incontro di due eresie: l’eresia liberale dell’economia sociale di mercato interpretata soprattutto da Ludwig Erhard, il ministro che è considerato il padre del Miracolo Economico; e l’eresia socialdemocratica che troncava i ponti con il passato, con il marxismo per abbracciare una idea di socialismo capace di governare il capitalismo e non di abbatterlo. Anche con Konrad Adenauer, il modello economico tedesco ha avuto una evoluzione diversa rispetto a quella che si è avuta in Italia. In quel momento penso che Adenauer avesse solo un obiettivo: ricostruire il sistema industriale uscito distrutto dalla guerra. Ma questo intento costruttivo era anche nel Dna del sindacato italiano. Le tracce si ritrovano nel piano

202

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

per il lavoro di Di Vittorio, nel contributo che fra il ‘46 e il ‘47 il sindacato ha dato alla ricostruzione del Paese. Si poteva cogliere meglio questo spirito, questa tensione. Morandi ci provò presentando un disegno di legge che apriva la strada a qualcosa di non molto dissimile da quello che si stava costruendo in Germania. Però quel disegno di legge non venne discusso per l’opposizione degli imprenditori, della Dc e anche del Pci che temeva che nei consigli di gestione i lavoratori si sarebbero socialdemocratizzati. Ci fu, insomma, la convergenza degli opposti. Sul fatto che in Germania non si licenzi, concorda pure Marie Seyboth dirigente della lega dei sindacati tedeschi, a capo del dipartimento della cogestione. Invece da noi si licenzia con costi enormi. Cassa integrazione e prepensionamenti fanno parte di una politica del lavoro che dilapida risorse umane ed economiche. Sarebbe molto più produttivo creare meccanismi capaci di intervenire in via preventiva, quando le crisi cominciano a sorgere e non dopo quando sono esplose e non ci sono più alternative. Razionalizzeremmo le risorse e ne trarrebbe qualche beneficio anche il bilancio dello Stato. Insomma tu pensi che si possa creare un nuovo tessuto di rapporti industriali? Io penso che i lavoratori se vengono coinvolti imparano a essere riformisti, se vengono emarginati diventano estremisti. La partecipazione consente di muoversi in maniera più pragmatica e non alla cieca come ancora avviene da noi. Nel programma di un partito come il Pd ci dovrebbe essere un capitolo dedicato alla cogestione? Sì. Nel programma del Pd tutto questo non c’è ed è un grave errore perché alla fine la politica del lavoro che viene promossa finisce per essere difensiva, di contenimento. E poi, il coinvolgimento dei lavoratori è il necessario completamento dello Statuto. La pensavano così Giacomo Brodolini e Carlo Donat Cattin. Brodolini in particolare veniva dal mondo dell’edilizia e lì ci

203

IL LAVORATORE RITROVATO

sono le casse edili e le scuole professionali che sono gestite dai sindacati e dalle imprese. Purtroppo non siamo mai riusciti a portare avanti questi discorsi per il rifiuto di persone come Monti e per le paure del Pci, per l’ostilità degli imprenditori. A questo punto ritornerei alla questione iniziale: che fine hanno fatto i lavoratori? Che fine ha fatto la lotta di classe? Dove si combatte? Su quali temi si sviluppa? La lotta di classe ora si fa sulle riforme per evitare che la lotta di classe la facciano gli altri, cioè le categorie privilegiate, quelli che un tempo chiamavamo gli Gnomi della Finanza, ai danni delle categorie meno protette, più esposte ai venti della crisi. Un tempo la lotta di classe aveva come obiettivo lo stato socialista; ora l’obiettivo è uno stato democratico e solidale, uno stato in cui ci sia realmente pari dignità. E valgono da questo punto di vista le parole che mise, nero su bianco, nell’enciclica Rerum Novarum nel lontano 1891 il Papa Leone XIII: “Avvenne che a poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza”. La cupidigia di un mondo dominato dalla finanza è la medesima di 122 anni fa. La lotta di classe non è più quella del passato, forse si è addirittura ampliata. A condurla non ci sono più solo gli operai ma categorie nuove, le donne, gli anziani, la massa sconfinata di precari e non garantiti. La lotta di classe non va in pensione, si arricchisce di elementi nuovi, esce dalle fabbriche e reclama riforme. Ma riforme vere. E per essere vere non devono accontentare tutti perché se dai a qualcuno diritti e solidarietà è evidente che devi togliere a qualche altro dei privilegi. Se le cose stanno come dici tu, allora il problema è risolto: non c’è dirigente politico che non si dichiari riformista. Diffido fortemente di chi parla di riforme ma non si impegna a farle. Le ultime riforme realizzate in questo paese sono riconducibili a Dini (quella delle pensioni) e a Ciampi (la politica dei redditi). Gli altri ne hanno solo parlato, nessuna, però, delle riforme proclamate ha visto la luce, nessuna ha prodotto

204

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

delle soluzioni organiche. È così abusato il termine che è scaduto a luogo comune. Tutti si dichiarano riformisti, nessuno lo è per davvero. Peraltro questo uso del termine riformista, ha creato confusione, anzi veri e propri fenomeni di appropriazione indebita perché la riforma è qualcosa che fa avanzare il Paese, che aiuta gli ultimi non i primi. La parola riforma è un vestito di taglia universale, lo possono indossare tutti ed è per tutte le stagioni, va bene in estate e in inverno, in primavera e in autunno. Ma la realtà è diversa: le riforme accorciano le distanze, non le ampliano, redistribuiscono la ricchezza non la concentrano in poche mani, realizzano quello che dicevano i socialdemocratici di Bad Godesberg: “Misure appropriate devono far sì che una quota adeguata del costante incremento patrimoniale delle grandi imprese venga distribuita ampiamente oppure posta al servizio dell’utilità comune”. In Italia le riforme non hanno questo segno e non a caso quelle che sono state varate negli ultimi tempi hanno assunto la veste di leggi-delega: fissi dei principi generali (o generici) e poi affidi all’amministrazione l’attuazione. Le cose da cambiare le elencano tutti: la legge elettorale, la giustizia, il fisco, il lavoro. L’agenda c’è ma è sintetizzata in una delle ultime pagine bianche, proprio in fondo. L’ultimo sussulto realmente riformista lo si è avuto con il primo centro-sinistra negli anni sessanta. È vero. All’inizio non lo si è colto, non è stato capito, con il passare del tempo stiamo rivalutando quegli anni. Tutto questo fa parte del nostro modo di essere: siamo rivoluzionari senza rivoluzione e riformisti senza riforme. Il dibattito politico è veramente surreale: si evocano le riforme ma non si fanno perché se fossero vere scontenterebbero qualcuno. La realtà è che sono forti le corporazioni mentre sono deboli i governi e i partiti. Ma veramente la liberalizzazione dei taxi può essere vissuta come un grande intervento innovativo? Le liberalizzazioni si sono fatte. Ne abbiamo parlato prima. In quel caso ci si è limitati a trasferire i monopoli da una parte all’altra. Tutte

205

IL LAVORATORE RITROVATO

le liberalizzazioni in Italia, fatta eccezioni per treni e aerei, non hanno portato benefici ai cittadini, al contrario hanno provocato aumenti, dalle assicurazioni alle autostrade. Manca una robusta difesa dei consumatori. Ma per tornare alla lotta di classe, io dico che ormai è fuori dalla fabbrica. E la classe qual è? È la classe lavoratrice nel senso più ampio, l’insieme di lavoratori ed ex lavoratori. Una classe di cittadini che deve spingere per fare le riforme. Usi un vocabolario da rivoluzione francese. E perché no. Il cittadino di nuovo al centro del nostro universo. In tutti questi anni abbiamo perso tempo e occasioni. Abbiamo perso un’occasione quando abbiamo creato l’unità sindacale che poi si è dissolta, quando si è scatenata una ostilità preconcetta contro Craxi, quando abbiamo deciso di non costruire un partito socialista e socialdemocratico europeo dopo la caduta del muro di Berlino. In conclusione, aderiresti a una forza politica che ponesse come suoi punti di riferimento l’etica cristiana, l’umanesimo e la cultura classica... Sì, penso che questa società abbia bisogno di un nuovo umanesimo. E la filosofia classica in realtà è filosofia pratica. La verità è che bisognerebbe conoscere realmente il programma di Bad Godesberg per capire che ancora oggi contiene, almeno nella realtà italiana, grandi elementi di novità. Ma su Bad Godesberg ci sono le opinioni, non la conoscenza dei contenuti. E penso anche che andrebbe riletto il documento della scissione di Palazzo Barberini, qualche pregiudizio verrebbe meno insieme a qualche luogo comune. Dovremmo ispirarci un po’ di più a Roosvelt che risollevò gli Stati Uniti e il mondo governando in una fase ancora più drammatica di quella attuale. Vanno di moda i Pantheon. Tu chi metti nel tuo? Quello che è qui, a Roma, quando è stato costruito era vuoto, non c’era nessuno. Nel Pantheon normalmente ci vanno i morti, io preferisco i vivi. Ecco perché, se proprio devo scegliere, ci vedo i cittadini, quei cittadini al cui ser206

DALLA CRISI FINANZIARIA AL DRAMMA SOCIALE

vizio volevo mettere la Uil. Ho sempre pensato che il monumento più bello sia quello al milite ignoto. Non un grande generale, non una straordinaria figura di condottiero, ma un soldato anonimo che rappresenta tanti altri soldati anonimi. Ecco perché penso al cittadino, a una figura simbolica che incarna i diritti e i doveri di tutti noi. Che si identifica con un umanesimo perduto, con l’idea di un mondo in cui l’economia e il mercato siano al servizio delle persone e non le persone al servizio dell’economia e del mercato o, peggio ancora, dell’arricchimento facile e di una finanza tragica, ingorda e immorale, che si ribella a quella società spietata che Bruce Springsteen ha fotografato con due versi di una recente canzone: “andiamo in città adesso, alla ricerca di soldi facili”. Insomma, nel mio Pantheon vedo una donna e un uomo che nel mondo globalizzato cercano e trovano la loro solidale identità.

207

La Repubblica, 3 maggio 1989: Giorgio Forattini vede un Bettino Craxi in versione “mussoliniana” intento a “manganellare” i sindacati

Dal Sindacato ai Partiti

“E' di coraggio non di autocompiacimento che abbiamo bisogno oggi, di leader non di imbonitori”. La frase sembra tagliata a misura sulla situazione che stiamo vivendo. In realtà è stata pronunciata cinquantatré anni fa da John Fitzgerald Kennedy davanti alla Convention Democratica che gli consegnava la candidatura presidenziale. Il suo avversario era Richard Nixon passato poi alla storia per il Watergate. Non pensi che regga ancora, nella sua sostanza, che soprattutto esprima una nostra, nel senso di italiana, drammatica necessità? Kennedy le elezioni le vinse e fu un successo storico, il primo cattolico in una Casa Bianca che era riservata agli Wasp, white anglo-saxon protestant. Kennedy era bianco ma non protestante e portava dentro il soffio di una modernità travolgente. Fu per l'America e per il Mondo intero una scelta innovativa. Nel discorso a cui tu fai riferimento, che è poi quello della Nuova Frontiera, poneva problemi veri e complessi, cercava soluzioni serie e articolate. Il suo messaggio, replicato oggi, forse non farebbe guadagnare consensi: “La Nuova Frontiera di cui parlo non è fatta di promesse che io intendo offrire al popolo americano, bensì di quel che intendo chiedere al popolo americano”. Una bella inversione di ruoli: probabilmente in Italia, dove le campagne elettorali si sono trasformate in un'asta di promesse con i “battitori” che alzano sempre di più la posta, a metà della frase la platea si sarebbe svuotata. Quello è stato un momento di grande vitalità per l'America e per il Mondo. E quel che lui disse allora ha ancora oggi una grandissima validità perché ci sono valori, ci sono proposte che attraversano il tempo, che non hanno una data di scadenza come quella che si accompagna ai cibi.

209

IL LAVORATORE RITROVATO

Kennedy pensava alla Frontiera, ai pionieri, guardava l'orizzonte, una distesa di migliaia di miglia; noi fatichiamo persino ad avere una idea compiuta anche dei confini del nostro condominio: a volte anche girare l'angolo ci sembra un'impresa altamente avventurosa. E, allora ti chiedo: ma siamo proprio sicuri che il Paese Reale sia migliore del Paese Legale? Non ti viene a volte il dubbio che quello che vediamo davanti a noi e che non ci piace sia, in realtà, la nostra immagine riflessa in uno specchio appena appena deformante? Vedo la questione in un'altra maniera. Cioè? Penso che lentamente il Paese stia diventando illegale nel senso che c'è una separatezza insopportabile tra le istituzioni, che progressivamente stanno venendo meno coesione e solidarietà che sono collanti essenziali del vivere insieme. Ma la gente di tutto questo non ha colpa. Cosa sta accadendo, allora? Accade che in un momento come questo di gravissima crisi, tutti quanti noi immaginiamo di camminare in un tunnel buio: non vediamo l'uscita, non vediamo un raggio di sole che ci conforti. Non solo non siamo felici, non solo non siamo appagati, ma siamo ormai rassegnati. Ci manca la speranza. Ci guardiamo attorno e il panorama non ci conforta. Facciamo appello ai valori costituzionali che sono sempre validi ma poi ci scontriamo con un bipolarismo sgangherato, che non esiste: era nato perché avevamo tanti partiti, sette, e adesso fioriscono come limoni, una ventina. Le Istituzioni sono screditate e vengono vissute con imbarazzo, con fastidio. Ci vorrebbe un cambiamento di rotta. Bisognerebbe abbandonare la strada di questo leaderismo fatto di Uomini della Provvidenza che non si sono mai rivelati provvidenziali e ricostruire una società in cui la vita associativa, collettiva si esprime e si esalta nelle organizzazioni rappresentative. Vuoi dire che a volte il vecchio può essere più utile del nuovo soprattutto

210

DAL SINDACATO AI PARTITI

quando riesce realmente a mettere insieme le persone? Voglio dire che bisogna ricostruire una spina dorsale del Paese che col tempo è venuta meno. Non puoi pretendere di applicare la Costituzione se poi gli strumenti che dovrebbero favorirne l’attuazione prescindono dalla Legge Fondamentale medesima. A quel punto, delle due l'una: o cambi la Costituzione o riporti tutto il resto in quell'alveo. Ma diciamocelo chiaramente: come si può coniugare l'attuale sistema elettorale con la nostra Costituzione. I padri Costituenti nella costruzione del meccanismo elettorale furono coerenti. L'incoerenza è venuta dopo. Tu pensi che non si possano tenere i due piani separati: oggi la riforma elettorale e domani la riforma della Costituzione? No, non si possono separare. Qualunque legge elettorale tu oggi possa realizzare, finisce per fare i conti con un bicameralismo perfetto che in questo momento rallenta le decisioni, “incarta” la dinamica parlamentare, non soddisfa quelle esigenze di efficienza e rapidità che un mondo così interconnesso pone. Quel disegno costituzionale aveva una sua logica: venivamo dal fascismo, i confini in cui il mondo era diviso erano decisamente robusti, le scelte più che alla rapidità delle decisioni si ispirarono al ricordo del passato che era peraltro estremamente prossimo; era prevalente il bisogno di creare un sistema di pesi e contrappesi che evitasse una ricaduta in quella ventennale malattia che aveva afflitto e debilitato il Paese conducendolo in una avventura tragica come la guerra. Anche il professor Sartori pensa che le due cose, Costituzione e legge elettorale, vadano di pari passo anche se poi ammette qualche limitata eccezione... Sinceramente non capisco come si possano separare i due argomenti. Se li separi, alla fine puoi realizzare solo interventi minimi che non risolvono i problemi. Forse puoi ridurre quel premio di maggioranza così robusto che nemmeno Giacomo Acerbo avrebbe immaginato per garantire al Partito Nazionale Fascista la maggioranza parlamentare.

211

IL LAVORATORE RITROVATO

In questo momento si parla molto di Modelli. Tu quale adotteresti? Io sono da sempre un sostenitore del sistema alla francese, doppio turno con ballottaggio. Ma per realizzarlo bisogna cambiare la Costituzione. Ma sai cos'è che blocca tutto? Cosa? Il premio. E' troppo ghiotto, rende bulimici i partiti da un punto di vista elettorale. Per fare la legge bisognerebbe essere politicamente un po' anoressici... Il fatto è che la legge non si fa perché chi pensa di poter vincere si guarda bene dal mettere mano a un premio che amplifica ulteriormente la vittoria dal punto di vista della rappresentanza parlamentare. Nel momento in cui avvertono di poter uscire perdenti dalle urne, allora reclamano la riforma, pronti, ovviamente, a cambiare parere nel momento in cui i sondaggi gliene offrono la possibilità. Ma, ripeto, bisogna rivedere la costituzione. Il bicameralismo va superato e, d'altro canto, così perfetto è ormai una peculiarità italiana. Bisogna dare maggiori poteri al presidente del consiglio e occorre aumentare il peso delle autonomie locali. Insomma, il quadro di riferimento può essere un semi-presidenzialismo alla francese. Meglio tenersi alla larga da un presidenzialismo all'americana? Non mi sembra molto praticabile. E forse ti preoccupa pure un po'. Penso che la Francia sia il modello migliore, per quanto ci riguarda, per la nostra cultura, per le dimensioni stesse del nostro Stato. Poi possiamo guardarci attorno, vedere se esistono altri modelli che garantiscono contemporaneamente efficienza, rapidità di decisioni e saldezza dei princìpi democratici. Ad esempio, il modello tedesco mi pare abbia funzionato molto bene. Insomma, puoi provare a combinare diverse soluzioni per garantirti la governabilità, l'alternanza o, al limite, le grandi coalizioni.

212

DAL SINDACATO AI PARTITI

L'America, insomma, è lontana... C'è un Oceano d'altro canto. Battute a parte, ho sempre avuto un po' di ritrosia nei confronti di un sistema che assegna a una sola persona tanti poteri. Lì alla democrazia sono collaudati da molti secoli. Noi in collaudi difettiamo? Non solo noi, mi pare che qualche problema lo abbiano avuto anche in Germania. In America è sempre stato così: il confronto tra due partiti è dentro lo spirito della nazione. E poi il Paese è grandissimo, gli Stati hanno una straordinaria autonomia. Insomma, tutto si regge: l'articolazione della Nazione e la cultura politica del Paese. Da noi le cose sono diverse. La Costituzione, ripeto, è nata in un particolare momento. Avevamo riconquistato la libertà, abbracciavamo completamente anche grazie al suffragio universale maschile e femminile, una idea democratica a cui non eravamo particolarmente allenati. Il ricordo dell'Uomo della Provvidenza era ancora fortissimo. Ne parleremo più diffusamente dopo: la Costituzione in larga parte regge ancora, va adattata alla nuova realtà storica non superata. Che vuoi, io sono un minimalista. La polemica sull'inciucio (parola onomatopeica e piuttosto sgraziata), sulla grande coalizione vissuta da molti come un insulto più che come una necessità, riapre una questione antica ma irrisolta: quella della legittimazione reciproca. Ma contemporaneamente solleva anche un dubbio. Abbiamo parlato della sinistra italiana che non ha conosciuto la sua Bad Godesberg. Ma non pensi che una bella, coraggiosa, definitiva Bad Godesberg in Italia la debba fare la destra che, comunque, si porta dietro marchi storici non del tutto “smacchiati”? Io dico che la cosa fondamentale è il ritorno dei partiti, quelli veri. E il discorso riguarda soprattutto la destra. Perché soprattutto? La sinistra è rissosa al suo interno, si porta dietro mille questioni irrisolte...

213

IL LAVORATORE RITROVATO

Una su tutte l'ha evidenziata Guglielmo Epifani: lo sconfittismo. Ma alla fine io penso che la sinistra sia stata contagiata da quella deriva. Parliamoci chiaro: la destra non è un partito, è un'impresa con un amministratore unico titolare di una forza, di un magnetismo politico che, al di là dei sei milioni di voti smarriti per strada, non va sottovalutato. Insomma, la destra nel nostro paese nella forma in cui si intende nel resto d'Europa non riesce a emergere. Perché? Perché è stata ghettizzata per molto tempo, perché c'è sempre un retropensiero che l'accompagna. Io dico che se le parole non piacciono se ne possono trovare sempre di più gradevoli. Se a sinistra il termine socialista è sgradito perché evoca una qualche brutta malattia, allora parliamo di riformisti. Poi puoi anche avere una dimensione popolare purché il riferimento politicoculturale-organizzativo di questa dimensione sia un partito. Nei confronti della destra resiste un pregiudizio. Forse non nato per caso... Non è nato per caso, lo ha alimentato la destra stessa nel momento in cui ha deciso di aderire a un movimento che è costruito tutto intorno alla personalità di Berlusconi. Così com'è la destra non aiuta il Paese a risolvere i suoi problemi. Non vorrei essere equivocato perché il paragone è ardito, ma in qualche maniera siamo un po' come l'Argentina dove per venti, venticinque anni si è vissuto nel nostalgico ricordo di Peron e nel frattempo il Paese andava a rotoli, passando da una dittatura a un'altra. Non è, ovviamente, il nostro caso, ma la destra deve trovare il modo di definire un suo modello-partito, di uscire dal recinto berlusconiano per provare a dare al Paese quel che esiste ovunque in Europa, una forza conservatrice, democratica, costituzionale. C'è, però, un problema irrisolto. La reciproca legittimazione è fatta di simboli che poi tanto simbolici non sono. In Francia, il 14 luglio è festa per

214

Dopo la marcia dei quarantamila, l’accordo con la Fiat approvato, secondo Giannelli, per alzata di mano...sui leader sindacali

IL LAVORATORE RITROVATO

Hollande e per Sarkozy. In Italia, il 25 aprile, il giorno in cui l'Italia ritorna libera, lo è per alcuni, altri la vivono con fastidio, altri ancora la detestano. E' pensabile che questa nostra democrazia possa diventare matura se non riesce nemmeno a condividere la sua data di nascita? Questo è un altro problema. Da noi tutto viene vissuto in negativo. Per superare quelle divisioni ormai storiche bisognava cancellare da un lato gli errori dei partigiani, dall'altro quelli dei “ragazzi di Salò”. La sinistra ha le sue colpe perché per troppo tempo ha consegnato la difesa della Patria all'altra parte. Da questo punto di vista, tre persone hanno un po' scardinato questo modo di intendere: Sandro Pertini, Carlo Azeglio Ciampi e Bettino Craxi. Ci siamo portati dietro per molti anni un retaggio della fase precedente alla guerra, quando nello stato liberale i partiti non si riconoscevano e non venivano riconosciuti nemmeno i sindacati. L'avvento del fascismo ha reso ancora più forte questa rottura. La Liberazione non è un “fatto di sinistra”, è un momento di identificazione. E la conferma che si tratta di questo è venuta dalla Costituzione: tutti si sono identificati in quel testo e quella legge è stata varata quando Socialisti e Comunisti erano già usciti dal governo. In Italia, poi, il campo della sinistra è stato egemonizzato dal Pci e questa situazione ha impedito la nascita di un vero partito riformista europeo. L'esaltazione della Patria, in questo contesto, è diventata monopolio della destra. Pertini, uomo della Liberazione, rimise tutto in movimento quando cominciò a baciare la bandiera; Ciampi, anche lui formatosi in quell'agone storico-politico all'ombra del Partito dì'Azione, ha rilanciato quell'inno che veniva dileggiato e da molti considerato una brutta marcetta; Napolitano, con i festeggiamenti per il 150° anniversario dell'Unità, ha tenuto insieme un Paese già sfibrato dalle difficoltà; Craxi introdusse nei congressi i simboli dell'italianità e venne subito bollato con un marchio infamante: fascista. Resta la duplicità di atteggiamento. Il 25 aprile e il 1° maggio sono ricorrenze che resistono molto bene nelle piccole realtà. Ma è sbagliato perché sono elementi identificativi della nostra storia in comune.

216

DAL SINDACATO AI PARTITI

Siamo un Paese a pacificazione ritardata. Si è parlato molto di pacificazione a proposito delle larghe intese. Il fatto è che in Italia la pacificazione avviene attraverso la rimozione: si annulla tutto, il buono e il cattivo, il positivo e il negativo. E' una storia che mi ricorda quella del Pci che in Italia non voleva essere socialista ma in compenso voleva esserlo all'estero tanto è vero che entrò anche nell'Internazionale. Il problema è sempre lo stesso: l'identità. La sinistra deve avere la sua forte identità. Non contrasti la Lega o Grillo imitandoli, inseguendoli. Li contrasti con l'identità. Purtroppo il Pd da questo punto di vista è un po' deboluccio. In attesa del mutamento di rotta che tu prima invocavi, il Paese appare economicamente sempre più in mezzo al guado: la disoccupazione ha superato il record storico del 1995 e sotto il 9 per cento non tornerà prima del 2020. Il Pil ricomincerà a crescere stabilmente solo a partire dal 2016 e a quei ritmi di crescita ci vorranno quattordici anni per recuperare quel che in queste lunghe stagioni di crisi abbiamo perduto. E' il bollettino di una guerra perduta. Temo che ci sia un problema gravissimo che ancora non è emerso: i derivati. Come li definisce Warren Buffet: “armi di distruzione finanziaria di massa”... Esattamente. Sono stati occultati sotto il tappeto, come la polvere. Perciò temo che l'indebitamento di Comuni, province e regioni sia molto più alto di quel che appare. E' un problema enorme perché la spesa pubblica non ne tiene conto. E, d'altro canto, i derivati sfuggono a qualsiasi controllo, fare un inventario è impossibile. Bisogna fare quel che è stato fatto negli Usa e in Giappone. Uscire dalla religione del rigore. Coniugare il rigore con una politica selettiva degli investimenti. L'esperienza del Giappone qualcosa dovrebbe insegnare. Quel Paese è rimasto bloccato per quindici anni dalla politica di austerità. Adesso stanno riemergendo

217

IL LAVORATORE RITROVATO

avendo aggiustato la rotta. Torniamo al discorso di Kennedy o, ancor di più, a quello con cui Roosevelt avviò il New Deal. Può una sinistra limitarsi al piccolo cabotaggio: un po' di lavoro, qualche alleggerimento fiscale, un minimo di protezione sociale? Non è mancata, nella proposta politica, l'idea di una società nuova, di un percorso, anche complicato, anche doloroso, ma capace di portarci non semplicemente fuori dal guado ma dentro una realtà migliore di quella che abbiamo lasciato alle nostre spalle? Tu all'inizio di questa intervista dicevi che bisogna essere visionari, non ti sembra che sia mancata proprio questa visione, non qualche promessa, non qualche intuizione da imbonitori, ma un Colombo capace di scrutare l'orizzonte e di urlare: Terra, Terra? Abbiamo bisogno di una “rete” che coinvolga le persone, una “rete” che riguarda la politica, il sindacato, le imprese. Ora prevale nel paese questa deriva presidenziale, l'uomo solo al comando: non si parla con la gente, al massimo si parla della gente. Io ho grande fiducia negli italiani, sono convinto che siano delle persone mature, l'estremismo non ci appartiene. Ma è vero, bisogna indicare una direzione di marcia, una prospettiva. I sacrifici possono anche essere chiesti ma alla gente devi spiegare perché glieli chiedi, con quali finalità. Ripeto, il nostro non è un paese estremista: il rischio è di identificare le posizioni estreme con quelle dominanti. Il premio Nobel, Joseph Stiglitz, spiega che l'avanzata del liberismo con l'abbattimento “seriale” delle regole è stata agevolata fornendo dei sindacati l'immagine, negli Usa e in Europa, di organizzazioni votate alla creazione di rigidità. E, in effetti, negli anni ottanta vi sono state vertenze-simbolo: quella dei controllori di volo di Reagan e quella dei minatori della Thatcher. Il sindacato, in qualche maniera, è stato dichiarato colpevole senza processo e probabilmente senza colpe. Però ci sono anche esempi industriali interessanti. Diego Della Valle, il Signor Tod's, esibisce con orgoglio una fabbrica col welfare aziendale, l'asilo-nido, la palestra e la mensa. Non delocalizza e all'accusa di paternalismo, al sindacato risponde così: “Li ca-

218

DAL SINDACATO AI PARTITI

pisco. Così gli si toglie il nemico. Non vogliamo sostituirci a loro ma nemmeno possono impedirci di avere delle idee e di metterle in pratica”. Tu pensi che il problema sia quello di avere un nemico? No. Il sindacato, a proposito dei welfare aziendale, ha una idea: teme che il loro sviluppo determini un indebolimento dei sistemi universalistici. Trovo, però, che sia un errore, in una fase di profonda crisi come quella che stiamo attraversando, in cui spesso devi limitarti a una difesa di principi universalistici minimi, rinunciare all'apertura a forme di integrazione. Il problema, semmai, è un altro: devono essere soluzioni contrattate, negoziate con il sindacato, altrimenti si cade nel paternalismo. In ogni caso penso che quello sia un campo da esplorare. Sono anche convinto che il miglioramento di quelle soluzioni possa finire per trascinare anche tutte le altre aziende. Il fatto è che tra di noi resiste ancora l'idea che non si debba rompere una unità di classe che, in realtà, non c'è più, che non si possa collaborare con l'imprenditore perché la collaborazione diventa inevitabilmente subordinazione. Niente intese col “nemico”... Si tratta di una impostazione un po' datata e oggi manca una certa apertura mentale, ma non solo da parte dei sindacati. Siamo fermi ai primordi del confronto, ai tempi in cui il rapporto tra i datori di lavoro e le organizzazioni dei lavoratori era basato sulla diffidenza reciproca. In questa maniera ci siamo astenuti dall'esplorare quelle aree in cui il confronto poteva essere non conflittuale. Però, la sola idea che una intesa possa portare dei vantaggi all'imprenditore, fa scattare una sorta di richiamo della foresta. Forse bisognerebbe partire dalla trasformazione del lessico. Al posto di nemico, parlerei di un soggetto “distinto”, una persona con interessi diversi con la quale su alcuni temi si possono trovare soluzioni pacifiche mentre su altri resisterà la conflittualità. Sono convinto che ci sia uno spazio enorme da percorrere insieme. Faccio un esempio. In molti posti di lavoro si stanno organizzando contratti di solidarietà per far fronte alla crisi. Ma cosa ci impedisce di utilizzarli anche nelle fasi di espansione per favorire

219

IL LAVORATORE RITROVATO

l'occupazione? Sì bisogna aggiornare un po' il lessico accettando parole come partecipazione, collaborazione, conti economici in equilibrio, competitività. La crisi ha favorito in alcune zone del nostro Paese la celebrazione comune del 1° maggio, lavoratori e datori di lavoro insieme. E' possibile che qualcuno abbia interpretato la cosa in maniera strumentale, come un modo per fare pressione sui cordoni della borsa statale. Però, è una novità interessante. Sulla produttività, ad esempio, bisognerebbe svelare qualche arcano. Stiglitz riporta alcuni dati che riguardano gli Usa ma che non sono molto dissimili da quelli europei. Dal 1949 al 1980 salari e produttività sono cresciuti di pari passo. Per quindici anni, poi, i salari sono rimasti fermi mentre la produttività è cresciuta; a partire dal duemila i salari sono tornati a crescere ma in misura decisamente inferiore alla produttività. Alla fine c'è chi ci ha guadagnato e chi ci ha rimesso. Anche sulla produttività non si riesce a fare un discorso compiuto perché, alla fine, se ne parla solo a livello centrale. Ma la realtà è che avremmo bisogno di meno leggi e più contrattazione. Devi contrattare con un obiettivo: voglio un' azienda che dia più soldi, voglio un'azienda che dia più occupazione. Ma non puoi pensare che l'aumento dell'occupazione possa essere favorito solo dal vantaggio fiscale che garantisci per i neo-assunti. E' il sindacato che attraverso la contrattazione deve affrontare le rigidità per ottenere più occupati. Non c'è nulla che non si possa toccare ma tutto va negoziato. E bisogna farlo soprattutto a livello aziendale. Il problema è drammaticamente attuale. Lo dice l'Organizzazione Internazionale del Lavoro: per ripristinare la situazione pre-crisi dovremmo creare in Italia 1,7 milioni di posti di lavoro e nel mondo oltre trenta milioni. Il tasso di disoccupazione giovanile ha sfondato secondo l'Istat un tetto che sembrava irraggiungibile: il 40 per cento. Sui giovani si può fare riferimento alla leggenda di Faust di Goethe. Faust Decide di attuare un grande progetto: strappare al mare una striscia di terreno fertile per insediarvi molti milioni di uomini liberi e attivi. Durante i lavori

220

DAL SINDACATO AI PARTITI

di costruzione, Faust tratta gli uomini che lavorano per lui alla stregua di sudditi ottusi, senza neppure informarli delle proprie intenzioni. “perché l'opera grandissima si compia, uno spirito solo varrà per mille mani”. Quel che vuole Faust a nessuno è mai lecito scrutare a fondo. Grida ai propri schiavi: “servi fuori dal giaciglio, in piedi uno dopo l'altro”. I lavoratori devono essere incitati ai lavori più gravosi con il bastone e la carota. A Mefistofele, Faust comanda: “Per quanto sarà possibile, raccogli folle su folle di lavoratori, stimolali con le ricompense e con la severità: pagali, allettali, stai loro alle costole! Ogni giorno voglio che mi si dia notizia di quanto si allunga il fosso che s'è cominciato”. Ascoltando il rumore delle vanghe, Faust dice degli uomini al lavoro: “E' folla che mi serve”. Come va reinterpretata oggi la leggenda? E' evidente che Faust considera la libertà dei lavoratori un premio per l'avvenire. Il lavoro di costruzione che deve rendere possibile la comunità futura è compiuto prima dai servi, che potranno divenire solo in un secondo tempo uomini liberi e attivi. E' per aver ridotto i giovani in schiavitù senza che mai si intravedesse il traguardo finale della libertà, che finì miseramente il sogno di Faust. Oggi i giovani sono vittime di un'altra schiavitù: la schiavitù della precarietà. Si è allargata a macchia d'olio, sestuplicata nel giro di pochi anni e un contributo lo ha fornito anche la legge Fornero come hanno rivelato recenti studi. Ci sarà un altro epilogo per il sogno di Faust? Mi auguro che l'incubo dei giovani senza soddisfazioni, sicurezza e diritti, finisca con una seria riforma del lavoro. Dovremmo ispirarci a quel che disse John Kennedy: “I problemi del mondo non possono essere risolti da scettici o da cinici i cui orizzonti siano limitati dalle realtà oggettive. Abbiamo bisogno di persone che possano sognare cose che non sono mai esistite e chiedersi: perché no?”

221

È il 1987: due anni dopo crollerà il muro di Berlino, nel frattempo Walesa e Solidarnosc stanno già cambiando la Polonia. La visita in Italia dell’allora premier Jaruzelski viene presentata dal “Centro” con questa vignetta di Pizzola. Un allarmato premier polacco vede spuntare i baffi di Walesa sui volti di Pizzinato, Marini e Benvenuto

222

Dallo Stato alla Chiesa

Al termine di questa lunga chiacchierata alla ricerca del lavoratore e della Classe perduta, può confortare fare riferimento ai testi in cui il lavoratore (non la lotta di classe) resiste: la Costituzione della Repubblica Italiana e la dottrina sociale della Chiesa. Quanta parte della Carta fondamentale è rimasta inattuata? Buona parte… Considerato l’alto numero di disoccupati, anche l’articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”... L’articolo 1 ha conservato intatta tutta la sua forza. Mi viene in mente quel che diceva Hannah Arendt: “Non c’è niente di peggio di una società fondata sul lavoro ma senza lavoro”. Il tema del lavoro in quegli anni drammatici del dopoguerra era centrale nella vita del Paese e della giovanissima democrazia. Lo spiegò chiaramente Riccardo Lombardi in un intervento all’Assemblea Costituente : “Non c’è nessun altro problema in questo momento, compreso quello dei salari, che sia così essenziale come quello della disoccupazione… Ora il problema dei disoccupati non si può affrontare con i metodi dell’ordinaria amministrazione, voglio dire col metodo degli espedienti anche costosi, con il quale è stato affrontato fino ad oggi. Non può questo problema, che è anche morale, oltre che politico, avere la stessa natura, lo stesso rilievo di tutti gli altri…Si sacrifichi qualunque altra cosa, si sacrifichino anche dei principi, ma il problema della disoccupazione deve essere risolto.” Il principio fissato in quell’articolo è l’altra faccia, quella positiva, della tesi di Luciano Gallino: nella Costituente si incontravano culture (comunista, socialista e democristiana) che avevano nel lavoro il centro di gravità. 223

IL LAVORATORE RITROVATO

Ha scritto un interessante libro Antonio Passaro (“il valore del Lavoro”, Pironti editore) per spiegare come è nato quel primo articolo. Oggi, a distanza di tanto tempo, dico che è stata una scelta lungimirante perché fa riferimento alla complessa galassia del lavoro: lavoratori dipendenti ma anche artigiani o mezzadri. È stata sempre la particolarità del nostro Paese che, in realtà, non ha mai avuto la fabbrica come suo unico punto di riferimento. Certo, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, le scelte informative dei giornali, delle tv e delle radio amplificavano le grandi vertenze: la Fiat piuttosto che l’Alfa Romeo, il contratto dei metalmeccanici o dei chimici. Quei fatti sembravano scandire la storia del lavoro. Ma le cose non stavano proprio così. La galassia italiana del lavoro era molto articolata, frammentata. In qualche maniera tale complessità fu portata al centro dell’attenzione da Bettino Craxi e Claudio Martelli con la “scoperta” del Made in Italy. Uno dei grandi studiosi di questo fenomeno è stato il professor Giuseppe De Rita che attraverso le analisi del Censis parlava dei “cespugli”. La nostra Costituzione dà tanto spazio al lavoro. È vero, ne dà più al lavoro che alla famiglia e da questo punto di vista potremmo definirla una Costituzione laica. Ma quei riferimenti contengono qualcosa di ancora più profondo, in particolare l’articolo 1. Cioè? Lo Statuto Albertino fu la carta fondamentale dell’Italia appena unita. Ma quella non era una costituzione accettata da tutti, alcuni settori della popolazione non vi si identificavano, non la condividevano. La Costituzione nata dopo la seconda guerra mondiale, invece, è la legge fondamentale di uno Stato in cui tutti si potevano riconoscere e vi si potevano riconoscere soprattutto i lavoratori che avevano fatto la Resistenza, che avevano avviato il Paese sulla strada del riscatto morale con gli scioperi del ‘43, che avevano difeso le fabbriche e poi avevano con generosità partecipato alla ricostruzione dell’apparato produttivo. La scelta è stata così felice che la Costituzione ha retto anche nei momenti difficili, come l’involuzione autoritaria incarnata dal go-

224

DALLO STATO ALLA CHIESA

verno Tambroni e il terrorismo fermato sulle piazze con un notevole tributo di sangue. La Costituzione ruota intorno a una idea veramente trasversale. Forse la grande qualità di quei principi non sempre viene apprezzata perché molti dei partiti dell’attuale arco parlamentare non sono figli della tradizione politica che ha prodotto quella Legge. Non è una condizione di debolezza? Sicuramente lo è. Ma i partiti sono anche figli delle epoche non solo delle tradizioni culturali e in Italia negli ultimi anni sono nati soggetti nuovi. La Costituzione ha accompagnato la costruzione di uno Stato moderno e ha prodotto una novità da molti sottovalutata. Quale? Il voto alle donne. Lo Statuto Albertino era una costituzione di parte, la nostra Carta Fondamentale è la costituzione delle parti, di tutte le parti. Il problema nasce nel momento in cui la resistenza ad aggiornarla si trasforma in patologia. Una Costituzione non può durare tutta la vita di un uomo senza mai essere toccata. Ci sono alcuni aspetti che vanno reinterpretati proprio per aumentare il suo tasso di “inclusività”. Perché i problemi nascono quando qualcuno si sente escluso. Tu prima parlavi di articoli relativi al lavoro rimasti inattuati. Entriamo nel dettaglio? Gli articoli inattuati sono quelli relativi alla partecipazione, cioè l’articolo 46 (“ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”), alla rappresentatività e alla organizzazione libera e autonoma delle strutture sindacali, cioè l’articolo 39 (“Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso gli uffici locali o centrali… I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di la-

225

IL LAVORATORE RITROVATO

voro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”), alla regolamentazione del diritto di sciopero il cui esercizio non deve arrecare danno ai cittadini. Le idee in quelle norme ci sono tutte, ma purtroppo esse non tengono conto che nel frattempo il mondo è profondamente cambiato. Parlavi di resistenze a toccare la Costituzione. Tu queste resistenze le supereresti e in che modo? Penso che ci voglia una qualche manutenzione. Quanto meno aggiornerei le norme sul lavoro. Penso che i principi sulla rappresentatività andrebbero definiti molto meglio. Così come preciserei la parte relativa alla partecipazione, semmai rafforzandola. E la stessa operazione andrebbe fatta per quanto riguarda l’articolo 40, quello sul diritto di sciopero e, quindi, sulla conflittualità. Ma io farei anche un’altra cosa. Cosa? Costituzionalizzerei lo Statuto dei contribuenti perché in questa maniera si darebbe maggiore certezza ad alcuni dei valori contenuti in quella legge. Alcune regole di quello statuto andrebbero richiamate così come rafforzerei la parte relativa ai diritti del cittadino con particolare riferimento alle questioni fiscali, preciserei soprattutto che in questo campo le norme non possono assolutamente essere retroattive. Basta? Penso che bisognerebbe fare molto sul fronte della semplificazione amministrativa. Ovviamente andrebbe rivista, come ho sottolineato già nel capitolo precedente, la parte relativa alle funzioni del Parlamento, al numero di deputati e senatori, al bicameralismo perfetto. Insomma, cercherei di adeguare la Costituzione alla cultura bipolare. Dal tuo punto di vista questa Costituzione è vecchia? Non è vecchia in assoluto, è invecchiata in alcune sue parti. Sui diritti, ad

226

DALLO STATO ALLA CHIESA

esempio, è ancora giovanissima e molto bella. Ma sull’articolazione dello Stato appare decisamente figlia dello spirito di quei tempi. Parlavi prima di occasioni sprecate. Oltre trent’anni fa una revisione in questo senso della Costituzione venne proposta da Bettino Craxi e dai socialisti, la famosa Grande Riforma. Venne interpretata come il tentativo dell’allora segretario del Psi di impossessarsi dello Stato e di imporre una sorta di “dittatura dolce” al Paese. Giorgio Forattini, ricorderai, lo rappresentava nelle sue vignette con gli stivaloni di Mussolini e in tale veste compare anche in una illustrazione che riproduciamo in questo libro. Oggi gran parte delle proposte avanzate nella Grande Riforma vengono rilanciate in maniera abbastanza trasversale. Dopo la Grande Riforma abbiamo perduto anche altre occasioni. Ad esempio, la Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Era il ‘96 e avrebbe risolto un bel po’ di problemi. È stato l’unico tentativo di dialogo tra maggioranza e opposizione su un tema di grande rilievo come la riforma istituzionale del Paese. Il tentativo fu generoso, il lavoro svolto anche positivo, ma alla fine non approdò a nulla. E prima di D’Alema anche altri, a livello di commissioni parlamentari si sono cimentati col problema: Bozzi, De Mita, Nilde Iotti. Il bisogno di strumenti di governo più tempestivi ora è urgentissimo Altrimenti i nostri problemi non finiranno mai, soprattutto sul fronte della spesa pubblica. L’indebitamento è legato a queste inadeguatezze? La Carta è stata realizzata quando il tempo delle decisioni era più rallentato. Venivamo da venti anni di fascismo e la preoccupazione maggiore era quella di creare una serie di garanzie per evitare nuove ricadute autoritarie. Oggi quelle garanzie, non essendo state corrette e adeguate ai tempi nuovi, portano alla paralisi delle decisioni. La necessità di “accelerare” gli interventi ha avuto come corollario il consociativismo che non è la concertazione con il sindacato, è altra cosa, consiste nel dare qualcosa a tutti per costruire un generale consenso. Una strada che porta inevitabilmente all’aumento della spesa pub-

227

IL LAVORATORE RITROVATO

blica. Il più grande partito italiano è il PSPA: partito della spesa pubblica allargata. A bloccare questa deriva ci ha provato Craxi con il decreto sulla scala mobile, il primo non concordato con le opposizioni. La “sacralità” costituzionale ha determinato l’allungamento delle decisioni, l’allungamento delle decisioni ha favorito il consociativismo, il consociativismo ha ampliato la spesa pubblica, la spesa pubblica ha fatto impennare l’indebitamento e, alla fine di questo circolo vizioso, il pedaggio è stato pagato dalle politiche fiscali perché non potendo incidere sulla spesa si è lavorato sulle entrate e il conto è stato presentato ai soliti noti. Risultato: secondo la Cgia di Mestre nel 2013 gli italiani pagheranno 14,7 miliardi in più di tasse, 585 euro a testa, la pressione fiscale salirà al 45,1 per cento del Pil. Leninianamente potrei chiederti: che fare? Lo sottolineavo prima: riforma del bicameralismo perfetto, riduzione dei parlamentari, correzione di un errore che ho compiuto anche io quando ero in Parlamento con l’inserimento nella Costituzione del principio della “legislazione concorrente” per cui una legge non deve solo essere approvata dalle Camere ma anche dalla Conferenza Stato-Regioni. Tutte queste garanzie hanno prodotto immobilismo, ritardi nelle decisioni e caduta della rappresentatività dei vari organi coinvolti in questa sorta di marcatura a uomo. Mal comune mezzo gaudio: anche Francois Hollande si è visto cancellare la supertassa sui ricchi dalla Corte Costituzionale e qualche problema lo ha pure Barack Obama negli Usa. Hollande lo ha avuto una volta, noi i problemi li abbiamo sempre. Il fatto è che abbiamo avuto una moltiplicazione delle competenze e nella moltiplicazione i contorni dei vari poteri sono diventati sfumati. Invece le competenze devono essere chiare e dobbiamo rinunciare all’idea che il consenso debba essere totale, unanime perché per questa strada si va solo verso la paralisi. La semplificazione è fondamentale. Dobbiamo rimanere fedeli allo spirito della Carta ma se Francia, Gran Bretagna e Germania decidono in pochi mesi noi non possiamo impiegare anni e far marcire i problemi. Così sembriamo Gul-

228

DALLO STATO ALLA CHIESA

liver, “inchiodato” per terra. Di riforma costituzionale parliamo degli anni ottanta: sarebbe anche il momento di farne una veramente organica. Il tema è tornato prepotentemente all’ordine del giorno: ma pensi che riusciremo mai a portare a copimento una nuova fase costituente? Lo spero ma non faccio previsioni. Non perché sono invecchiato, ma comincio a essere scettico. Non vedo le condizioni. Sarebbe già tanto se si riuscisse ad andare verso una vera seconda Repubblica. Ma la realtà è diversa, molto diversa rispetto alle attese: si parla di bipartitismo e abbiamo una ventina di partiti, nella Prima Repubblica quando si diceva che ne avevamo troppi, arrivavamo al massimo a sette. E poi abbiamo partiti per tutti i gusti: personali, locali, semplicemente elettorali, gruppi da transumanza parlamentare basati su, come dire, scambi interessati. Sono convinto che avremmo bisogno di una nuova fase costituente, che sarebbe opportuno farla, ma temo che non si muoverà nulla. Guardiamoci attorno. Si è parlato tanto di tagli alle province e non si è fatto nulla; volevano ridurre i parlamentari e tutto è rimasto come prima eppure le condizioni erano (e sono) così drammatiche che la realizzazione di queste riforme poteva solo essere facilitata dall’ampio clamore suscitato presso l’opinione pubblica da alcune vicende poco commendevoli e dalla necessità per i “Rappresentanti del Popolo” di rilegittimarsi con gesti pratici (e non solo simbolici) ispirati al risparmio presso cittadini-elettori costretti a sobbarcarsi grandi sacrifici. Noi siamo bravi a fare le diagnosi molto meno a prescrivere e attuare le cure. No, le prospettive non sono rosee perciò dubito fortemente che in un futuro ravvicinato riusciremo a vedere l’alba di una nuova fase costituente. Ma dobbiamo lavorare e fare di tutto per non rassegnarci. Se ai lavoratori l’Italia ha prestato istituzionalmente attenzione con la Costituzione, la Chiesa sulla dottrina sociale si cimenta da poco mento di 130 anni. La Rerum Novarum di Leone XIII è stato il primo tassello, Benedetto XVI ha posto l’ultimo, Caritas in Veritate. Tutta la dottrina sociale, comunque, ruota intorno a tre cardini fondamentali: la proprietà come

229

IL LAVORATORE RITROVATO

diritto naturale, la dignità dell’uomo e del lavoro che non può essere merce; il riconoscimento del ruolo dello Stato soprattutto nella sussidiarietà. Una lezione anche per i laici? La Chiesa ha una tradizione, una strategia e una coerenza. A partire dalla Rerum Novarum ha sostituito al concetto di carità, almeno per quanto riguarda il lavoro e l’economia, quello di solidarietà, che era una bandiera socialista. Poi è arrivato questo evento straordinario che è stato il Concilio Vaticano II nel corso del quale sono emerse due novità simboliche, epocali: il passaggio dalla messa in latino alla messa nella lingua dei fedeli; il nuovo modo di dire messa con il prete che non dà più le spalle ai fedeli rivolgendosi direttamente a Dio, ma guarda i fedeli rendendoli protagonisti dell’incontro con Dio. Quindi arrivano i Papi stranieri, prima Giovanni Paolo II, poi Benedetto XVI, infine Francesco I che in qualche misura hanno allentato la pressione sul nostro Paese avendo un atteggiamento più ecumenico. Se sul fronte della dottrina il messaggio resta conservatore, per quanto riguarda il lavoro e l’economia, invece, la Chiesa esprime concetti anche più impegnativi di quelli che esprimono molti movimenti di sinistra. Le encicliche sociali mettono l’uomo al centro dell’economia. Da un punto di vista politico, in effetti, la catalogazione delle encicliche risulta complicata tanto è vero che Caritas in Veritate di Benedetto XVI, che pure non era considerato un pontefice particolarmente progressista, ha scatenato le reazioni negative degli economisti cattolici iper-liberisti. Le idee della Chiesa sono sempre piuttosto complicate e credo che sarebbe superficiale liquidare le varie encicliche inserendole in un contenitore di destra o di sinistra. Molto meglio badare ai contenuti piuttosto che alla giacca, o alla tonaca, da tirare di qua o di là. La dottrina sociale della Chiesa ha il merito di esaltare il ruolo della persona in contrapposizione ai meccanismi freddi dell’economia. Giovanni Paolo II ha usato toni durissimi contro il capitalismo, in parte anche deluso dalla china che le cose nei Paesi dell’Est hanno preso subito dopo la caduta del muro di Berlino: la sfrenatezza consumistica, la corsa all’arricchimento in dispregio di qualsiasi principio di solidarietà. Ecco, nella dottrina sociale c’è proprio il rifiuto della legge della

230

DALLO STATO ALLA CHIESA

giungla, trovi l’attenzione verso il Terzo Mondo, soprattutto in un papa come Paolo VI che aveva deciso di guardare i problemi del pianeta da vicino, viaggiando. Per non parlare degli aneliti innovativi che si respirano nella enciclica di Giovanni XXIII, Mater et Magistra e che raccolgono in qualche maniera i fermenti del tempo, una fase di accelerate trasformazioni con Kennedy negli Stati Uniti e il Mondo Occidentale che stava vivendo un periodo di grande espansione economica e di straordinarie sfide tecnologiche, a cominciare dalle avventure spaziali. Io sono un laico ma penso che noi laici sull’attenzione ai problemi della persona siamo rimasti indietro. In qualche misura la dottrina sociale della Chiesa ha finito per ispirare quel modello di capitalismo alternativo al modello americano rappresentato dalla Germania. Perché ai valori religiosi hanno fatto riferimento i teorici dell’economia sociale di mercato. Alla domanda su cosa fosse il liberalismo, uno dei più autorevoli esponenti della scuola di Friburgo, Wilhelm Roepke rispondeva: “È umanistico. Ciò significa: esso parte dalla premessa che la natura dell’uomo è capace di bene e che si compie soltanto nella comunità, che la sua destinazione tende al di sopra della sua esistenza materiale e che siamo debitori di rispetto ad ogni singolo in quanto uomo nella sua unicità, che ci vieta di abbassarlo a semplice mezzo. Esso è perciò individualistico, oppure, se si preferisce, personalistico”. Un liberalismo piuttosto lontano dal laissez faire classico, che non considerava “la mano invisibile” e ordinatrice del mercato sempre giusta ed efficace. Nell’azione della Chiesa ci sono delle contraddizioni evidenti ma l’attenzione ai problemi sociali che ritrovi praticamente in tutti i Papi a partire da Leone XIII, è straordinaria. Wojtyla è stato estremamente critico verso l’arricchimento a tutti i costi. Benedetto XVI sulla globalizzazione ha espresso un concetto semplice ma straordinariamente suggestivo: siamo tutti più vicini ma anche tutti più soli. E Francesco I sugli aspetti voraci della finanza, sulle grandi disuguaglianze che accompagnano questa crisi ha già avuto modo di esprimersi molto severamente.

231

IL LAVORATORE RITROVATO

Era la fine degli anni Sessanta quando Paolo VI cominciò a parlare dei rischi della globalizzazione che lui chiamava mondializzazione. Paolo VI sul terreno delle aperture sociali è stato un grande Papa. Ma penso che complessivamente tutti, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II per finire a Bendetto XVI abbiamo fornito una interpretazione dei problemi e delle angosce del mondo del lavoro più lungimiranti ed efficaci di molti movimenti di sinistra. Dalla lettura delle encicliche si nota che le analisi dei Papi sono figlie dei tempi. La Rerum Novarum nasce in un momento in cui la predicazione socialista fa proseliti, lo scontro di classe si allarga e la Chiesa ha la necessità di rimettere in ordine i tasselli sotto l’ombrello dell’ecumenismo. Giovanni XXIII parla e scrive da vero “rivoluzionario”, Giovanni Paolo II coglie, appena due anni dopo la caduta del muro, i rischi di un liberismo sfacciato, spregiudicato, senz’anima e senza rispetto. La Chiesa segue con grande attenzione l’evoluzione dei tempi, le encicliche non segnano mai un passo indietro, non sono caratterizzate da ripensamenti, il segno distintivo è la continuità. Noi laici fatichiamo un po’ ad apprezzare tutto questo per un motivo abbastanza semplice. Di solito la grande attenzione sociale si accompagna a posizioni di notevole chiusura verso i diritti civili (quelli cari alla cultura laica). Sono queste ultime constatazioni che orientano i nostri giudizi e pregiudizi. Dovremmo essere in grado di scindere i due piani perché la sensibilità della Chiesa sui temi sociali non solo va apprezzata (forse anche un po’ invidiata) ma va anche utilizzata da tutti noi come fonte di positiva ispirazione. Pensi veramente che la dottrina sociale possa illuminare il cammino di sindacati e partiti anche in un mondo tanto complesso e ricco di sfaccettature? La Chiesa ha una dimensione sovranazionale, è ecumenica. Direi quasi che la sua attuale fortuna è proprio quella di essere poco italiana, ha rinunciato persino ad avere un partito di riferimento. I Pontefici scoprono prima di noi aspetti oscuri, sconosciuti. La nostra arretratezza dipende dal fatto che siamo

232

DALLO STATO ALLA CHIESA

nel mondo e in Europa ma continuiamo orgogliosamente a definirci italiani. La Chiesa, invece, guarda oltre i confini, guarda al mondo. Soltanto la tecnocrazia e la grande burocrazia hanno la medesima capacità e infatti sanno muoversi a livello europeo meglio dei sindacati, dei partiti e della Confindustria. Accennavi al fatto che oggi la Chiesa non ha più la sua “emanazione” politica, la Dc. Non ne ha una ma condiziona tutti. La Chiesa è pragmatica, ha visto che conveniva rivolgersi a tutti piuttosto che avere una sola “voce”. D’altro canto, in Spagna e Francia i partiti cattolici non esistono. E quando Zapatero ha adottato iniziative di un certo segno, la Chiesa locale non si è rivolta al Parlamento ma ha organizzato iniziative d’altro tipo, potremmo definirle di piazza. La fine della Dc è stata decretata Oltretevere dove si sono limitati a prendere atto di una storia che si chiudeva. La Chiesa non ha difeso la Prima Repubblica, anzi ha guardato con simpatia alla nascita della Seconda. Senza partito di riferimento non ha perso nulla, guardando a tutti ha guadagnato molto. Mater et Magistra potrebbe essere una buona base programmatica per un partito “labour”... In taluni casi, i Pontefici sembrano replicare la frase di Brodolini: da una sola parte… E poi questi movimenti che arrivano dal Terzo Mondo, dai paesi in via di sviluppo, spingono la Chiesa sulla strada della modernità da un punto di vista sociale. E questo accadde anche sotto Giovanni XXIII. Giovanni Paolo II è stato per taluni (penso a Bertinotti) una icona anti-capitalistica. Non ti pare un po’ troppo? Wojtyla si rese conto che la Caduta del Muro di Berlino, a cui pure aveva contribuito attivamente, aveva portato la democrazia ma stava mettendo l’uomo al servizio dell’economia, della finanza, della speculazione, lo stava mercificando. Insomma, stava avvenendo l’esatto contrario di quello che da sempre predica la teoria sociale che, invece, vuole la persona al centro, soggetto non oggetto, spirito non merce. Si rese conto, Giovanni Paolo II, che

233

IL LAVORATORE RITROVATO

l’uomo rischiava di essere sopraffatto dal punto di vista etico. È proprio questa rapidità e lucidità di analisi che mi induce ad affermare che la Chiesa sta attraversando il mondo della globalizzazione armata di una bussola e di una visione sovranazionale, noi, al contrario, ci dedichiamo a polemichette su chi è di destra o di sinistra, sui populismi e roba di questo tipo. Qualcuno, prima o poi, dovrà dirci dove stiamo andando e, soprattutto, qual è il traguardo finale. Adriano Olivetti a premessa di un suo saggio “Democrazia senza partiti” presentando il movimento Comunità così guardava con speranza al futuro: “ognuno può suonare senza timore e senza esitazione la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato. Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogniqualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza”.

234

Anni caldi nei rapporti tra Psi e Pci. La sola evocazione del nome di un leader sindacale socialista, Benvenuto, irrita il segretario comunista Enrico Berlinguer

Parte Seconda Le Storie e i Documenti

PROLOGO

“Hai mai sentito dire che la pigrizia e la trascuratezza siano utili all'uomo per apprendere ciò che deve sapere, ricordare ciò che ha appreso, avere salute e forza nel corpo e acquistare e conservare le cose utili della vita? O credi che il lavorare e il preoccuparsi non servano a nulla?" Erano le domande che rivolgeva Socrate ad Aristarco, nel racconto di Senofonte. Sono le domande che ognuno di noi potrebbe rivolgere a chi ritiene che il lavoro oggi sia solo un dettaglio, un accidente della vita, un fastidio che va cancellato dal confronto politico, annullato insieme ai diritti che lo proteggono e che sono stati il frutto non solo di grandi battaglie sindacali, ma anche di una elaborazione culturale e filosofica che affonda le sue radici nella notte dei tempi, addirittura in quei tempi in cui, come scriveva Jorge Luis Borges, nella Grecia e nella Magna Grecia l'Occidente (quell'Occidente di cui noi siamo cittadini) cominciava a pensare. Per Hegel "lo spirito non esiste mai e in nessun luogo se non dopo il compimento del suo lavoro"; per Marcuse è col lavoro che "l'uomo diventa per sé ciò che egli è". Quello che è stato costruito nei secoli, che ci è stato consegnato in eredità a volte può apparire banale, altre volte può anche apparire fastidioso perché tutto ciò che impone limiti (ma una democrazia senza limiti non esiste e non esiste nemmeno una società equa) appare contrario all'interesse individuale e non viene accettato come lo strumento per amalgamare bisogni diversi. Lavoro, lavoratori, sindacati: sono questi i tre protagonisti di questo nostro libro. Ora, alla fine di un percorso oltre il quale confidiamo di ritrovare quel Lavoratore perduto e dimenticato, indifeso e stritolato dai meccanismi di un liberismo che ci ha fatto precipitare in una crisi senza fine, ci sembra utile ritrovare alcune "radici" di questo Movimento che ha cambiato il mondo, che ha cambiato l'Italia e che oggi viene vissuto come una palla al piede: un costo per il Paese, non una risorsa straordinaria, la stessa risorsa straordinaria di cui par-

239

IL LAVORATORE RITROVATO

lava Socrate, la stessa forza spirituale che evocava Hegel. Nel mondo del lavoro confluiscono mille anime e mille sentimenti; è un luogo in cui per forza di cose si esalta la logica benefica della "contaminazione", un luogo in cui nessuno può chiudere porte perché l'aria deve circolare depositando "semi" di conoscenza. Come spiegano i filosofi, il lavoro non è semplice liberazione dal bisogno. Se così non fosse non avrebbe ispirato le Costituzioni, a cominciare da quella della nostra Repubblica; non avrebbe obbligato le forze di sinistra a trovare forme nuove di governo di una società che non può rinunciare al mercato ma che non può, neanche, attraverso il mercato (soprattutto quello finanziario) annichilire tutele, accentuare le distanze, incancrenire le diseguaglianze; non avrebbe indotto numerosi Pontefici a trovare una strada capace di accordare interessi limitando i conflitti. In questa seconda parte abbiamo voluto proprio mettere insieme tutti questi aspetti provando a dare un senso di unitarietà perché, per quanto da versanti diversi, il fiume della storia, della storia che ci riguarda e che riguarda questo libro, va verso un unico mare, quello del lavoro, dei lavoratori e del sindacato. Per rendersene conto basta rileggere le Costituzioni e la produzione legislativa dei grandi organismi internazionali come l'ONU (la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo). Per comprendere l'evoluzione del mondo del lavoro, del mondo sindacale e dei suoi riferimenti politici a livello internazionale e nazionale, basta rileggere come da un movimento socialista che poco meno di un secolo fa si proponeva l'abbattimento del sistema per via rivoluzionaria e violenta (la domanda di adesione al Psi del 1922) si è passati alla "rivoluzione" socialdemocratica di Bad Godesberg, della Spd tedesca, passando per la scissione di Palazzo Barberini che pose con forza il problema dell'abbandono di quei metodi e la scelta di strumenti democratici perché, come avrebbero sostenuto i socialdemocratici tedeschi dodici anni dopo, solo nel socialismo si realizza la democrazia e solo attraverso la democrazia si giunge al socialismo. E risultano profetiche le parole pronunciate da Filippo Turati al congresso di Livorno del 1921. Ci era andato da “imputato politico”, tornò da trionfatore come gli scrisse la sua compagna, Anna Kuliscioff: “e così da accusato, o quasi condannato, sei di-

240

PROLOGO

ventato trionfatore del congresso”. Due giorni dopo quel discorso, si consumò la scissione comunista; quasi un secolo dopo l’unica strada possibile per governare da sinistra società complesse resta quella del “socialtraditore”. Ma conviene anche rileggere le Encicliche Papali per capire il vento nuovo (le cose nuove di Leone XIII) che spira da Oltretevere da quasi 130 anni, per scoprire quanto sia stata forte la critica al capitalismo di Giovanni Paolo II, rivoluzionaria la predicazione di Giovanni XXIII e anticipatori gli allarmi di Benedetto XVI sul tema della globalizzazione. Infine può essere utile aggrapparsi alle parole che tre grandi leader negli Stati Uniti, in epoche diverse, usarono per indicare al Paese un porto sicuro oltre la tempesta.

g.b. a.m.

241

La proclamazione della Repubblica Italiana (Archivio Umberto Cicconi)

Il “Lavoro” nelle Costituzioni “Il nostro Popolo, probo ed eroico”

Quelle nove parole rappresentano l'essenza politica, sociale, economica ed etica dello Stato in cui viviamo: L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. E spiegano pienamente cos'è il lavoro non un semplice mezzo di sostentamento economico, ma strumento attraverso il quale l'uomo realizza la sua personalità. Concetti che rimandano immediatamente a Jean Jacques Rousseau e proprio per sottolineare questo filo rosso che lega due secoli di storia abbiamo voluto riprodurre in questa sezione gli articoli della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino che precedevano la costituzione giacobina del 24 giugno 1973, profondamente ispirata dall'autore del Contratto Sociale, forse la figura, insieme a Voltaire, più emblematica del Secolo dei Lumi. Da tempo si dibatte sui modi in cui ammodernare questa nostra Costituzione approvata il 22 dicembre del 1947, promulgata cinque giorni dopo, ed entrata in vigore il 1° gennaio del 1948. Da tempo si dibatte sul bicameralismo perfetto, sul numero eccessivo dei parlamentari, sulla maniera in cui una Legge Fondamentale che inevitabilmente scontava l'esigenza non solo di ricostruire il Paese ma anche la necessità di evitare che quello che era accaduto con il fascismo potesse ripetersi, può oggi modellarsi su un mondo nuovo, più ampio, fortemente interconnesso, con tempi che sono quelli rapidissimi imposti anche dalla rivoluzione informatica. Ma se sugli strumenti attraverso cui una democrazia parlamentare quotidianamente opera è utile interrogarsi e, semmai, anche arrivare a soluzioni che ormai inseguiamo da oltre un trentennio, sui Princìpi e i Valori che informano quella Costituzione non sono immaginabili né mediazioni né tantomeno arretramenti. Perché quei Princìpi e quei Valori hanno caratteri di universalità e sono il prodotto della tensione ideale, morale e culturale che caratterizzò i lavori della Costituente.

243

IL LAVORATORE RITROVATO

Per rendersene conto basta rileggere il discorso che il Presidente di quell'Assemblea, Umberto Terracini, pronunciò in apertura della discussione sul progetto di Costituzione. Era il 4 marzo 1947. Si esprimeva così, il presidente della Costituente: “La imminente discussione, onorevoli colleghi, deve assolvere – oltre che quello costituzionale – un altro compito, che non dirò sovrasta, ma certo gli sta a paro. Essa deve dare conforto a tutti coloro – e sono incommensurabilmente i più, fra il popolo italiano – che nell'istituto parlamentare vedono la garanzia maggiore di ogni reggimento democratico; a tutti coloro che, soffrendo in sé - nel proprio spirito – di ogni offesa ed ingiuria che venga portata contro il principio rappresentativo e gli istituti nei quali esso storicamente oggi si incarna, voglion però a buon diritto, e si attendono, che questi non vengano meno al proprio dovere; che non è solo quello di elaborare testi legislativi e costituzionali, ma anche di essere in tutti i propri membri esempio al Paese di intransigenza morale, di modestia di costumi, di onestà intellettuale, di civica severità ed ancora , me lo si permetta, di reciproco rispetto, di responsabile ponderatezza negli atti e nelle espressioni, di autocontrollo spirituale ed anche fisico, di sdegnosa rinuncia ad ogni ricerca di facile popolarità pagate a prezzo del decoro e della dignità dell'Assemblea. E' certo difficile, dopo tanta immensità di umiliazione nazionale, ritrovare d'un tratto quell'incontrollabile equilibrio interiore senza il quale non può darsi alcuna consapevole e conseguente attività politica, e cioè attività in servizio del bene pubblico. Ma ciò che per tanti, più prostrati dalla miseria e meno ferrati nel sapere, può ancora essere una meta da raggiungere, per noi – che abbiamo osato accogliere l'offerta di farci guida del popolo – per noi ciò deve essere, o dovrebbe essere, certamente una meta già conquistata. Io amo, dunque, pensare, onorevoli colleghi, che l'alta impresa cui oggi muoveremo i primi passi, impegnandovi ogni nostra forza d'ingegno, ogni nostro moto di passione, ogni nostro fervore di fede, riuscirà a dare prova ai nostri ed ai cittadini di tutti i Paesi del Mondo che l'Assemblea Costituente Italiana è pari alla sua missione, e degnamente rappresenta il popolo che l'ha eletta, un popolo probo, eroico, incorrotto”. Meditando sui comportamenti attuali, la contraddizione tra quella “spinta” e la realtà contemporanea è evidente e vien da chiedersi in quali misteriosi

244

IL LAVORO NELLE COSTITUZIONI

meandri siano scomparse “l'intransigenza morale”, la “modestia di costumi”, l' “onestà intellettuale, la “civica severità”, il “reciproco rispetto”, “la ponderatezza negli atti e nelle espressioni”, l'autocontrollo “spirituale ed anche fisico”. Quella Costituzione non era semplicemente, per chi la stava costruendo, la somma di articoli e commi, era l'immagine di un popolo “probo, eroico, incorrotto”. Era un campionario di virtù civili, anelito di libertà e bisogno di Comunità. Era l'anticipazione di princìpi che sarebbero divenuti patrimonio del mondo intero attraverso la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo che verrà firmata a Parigi il 10 dicembre del 1948, un documento che raccoglie una elaborazione culturale quasi tricentenaria che va dai Bill of Rights alla dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d'America alla Rivoluzione Francese. La Dichiarazione sul tema del lavoro verrà ulteriormente arricchita con il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali approvato nel 1966 ma entrato in vigore nel 1976. Ed è da lì, da quella Dichiarazione, dalle idealità che muovevano un mondo uscito dalla guerra e che in quegli orrori confidava di non ricadere, che nascerà anche l'Organizzazione Internazionale del Lavoro. Abbiamo provato a costruire un affresco ideale e anche ideologico mettendo insieme ciò che diverse Nazioni e diverse Organizzazioni hanno prodotto in materia di lavoro. Partendo, ovviamente, dalla nostra Costituzione, forse la più ricca su questo tema, richiamando leggi fondamentali di paesi europei come la Germania, la Spagna, la Grecia, la Svizzera, o di Stati di recente (e probabilmente solo in parte compiuta) democrazia come la Russia, o Emergenti come il Brasile, o espressione di mondi lontani come il Giappone o di ideologie diverse da quelle liberal-democratiche come la Repubblica Popolare Cinese. Nella convinzione che il lavoro resti sempre e comunque un elemento essenziale dello spirito umano, momento di realizzazione e completamento della personalità, Essenza non Merce.

245

IL LAVORATORE RITROVATO

C ostituzione dell a REPUBBLICA ITALIANA (1 genn a io 19 4 8 )

Principi fondamentali Art. 1: L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Art. 4: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società. Titolo II Rapporti Etico-Sociali Art. 32: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Titolo III Rapporti Economici Art. 35: La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare il diritto al lavoro. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero. Art. 36: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi. Art. 37: La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua es-

246

IL LAVORO NELLE COSTITUZIONI

senziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione. Art. 38: Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dello Stato. L’assistenza privata è libera. Art. 39: L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. Art. 40: Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano. Art. 41: L’iniziativa economica è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere coordinata e indirizzata a fini sociali. Art. 43: Ai fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale. Art. 46: Ai fini dell’elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende. (Stralci)

247

1985. Gli schieramenti alla vigilia del referendum sulla scala mobile. In campo Giorgio Benvenuto, Pierre Carniti, Luciano Lama, Bruno Visentini e Gianni De Michelis. Funge da arbitro Bettino Craxi

IL LAVORO NELLE COSTITUZIONI

Costituzione dell a REPUBBLICA FEDE RALE TEDESCA (1949) Art. 9: Libertà di associazione 1) Tutti i tedeschi hanno il diritto di costituire associazioni e società. 2) Sono proibite le associazioni i cui scopi e la cui attività contrastino con le leggi penali o siano dirette contro l’ordinamento costituzionale, o contro il principio della comprensione fra i popoli. 3) Il diritto di formare associazioni per la salvaguardia e il miglioramento delle condizioni economiche e del lavoro è garantito a ognuno e in ogni professione. Gli accordi che tentano di limitare o escludere tale diritto sono nulli e sono illegali le misure adottate a tale scopo. Art. 12: Libertà della professione e divieto del lavoro forzato 1) Tutti i tedeschi hanno diritto di scegliere liberamente la professione, il lavoro e la formazione. L’esercizio della professione può essere regolato mediante le leggi. 2) Nessuno può essere costretto a un determinato lavoro, eccetto che nell’ambito di un obbligo pubblico di prestazione di servizi, tradizionalmente generale e uguale per tutti. 3) Il lavoro forzato è ammissibile solamente nel caso di pena detentiva pronunciata da un tribunale. (Stralci)

C ostituzione della SPAGNA (1978) Art. 7: I sindacati dei lavoratori e le associazioni imprenditoriali contribuiscono alla difesa e alla promozione degli interessi economico-sociali. La loro costituzione e l’esercizio delle loro attività sono liberi nel rispetto della Costituzione e della legge. La loro struttura e il loro operare dovranno essere democratici. Art. 28 (II comma): Si riconosce il diritto di sciopero dei lavoratori per la difesa dei loro interessi. La legge che regola l’esercizio di questo diritto stabilirà precise garanzie per assicurare il mantenimento dei servizi essenziali della comunità Art. 35: Tutti gli spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto al lavoro, alla libera scelta di professione e ufficio, alla promozione attraverso il lavoro e a una remunerazione sufficiente per soddisfare le necessità loro e della loro famiglia, senza che in nessun caso possa farsi discriminazione per ragioni di sesso. La legge regolerà uno statuto dei lavoratori. Art. 37: La legge garantirà il diritto alla contrattazione collettiva fra i rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori, così come la forza vincolante degli accordi. Si riconosce il diritto dei lavoratori e dei datori di lavoro ad adottare mezzi di conflitto collettivo. La legge che disciplina l’esercizio di questo diritto, senza pregiudizio dei limiti che possa

249

IL LAVORATORE RITROVATO

stabilire, conterrà garanzie necessarie per assicurare il funzionamento dei servizi essenziali della comunità. Art. 40: I pubblici poteri promuoveranno le condizioni favorevoli per il progresso sociale ed economico per una più equa distribuzione del reddito regionale e personale, nel quadro di una politica di stabilità economica. In modo speciale realizzeranno una politica orientata al pieno impiego. Inoltre i pubblici poteri svilupperanno una politica che garantisca la formazione e il riadattamento professionale; veglieranno per la sicurezza e l’igiene del lavoro e garantiranno il riposo necessario mediante la limitazione della giornata lavorativa, le ferie periodiche retribuite e la promozione di centri adeguati. Art. 42: Lo Stato veglierà specialmente per la salvaguardia dei diritti economici e sociali dei lavoratori spagnoli all’estero e orienterà la sua politica al fine di assicurarne il rientro. (Stralci)

C ostituzione dell a REPUBBLICA GRECA (1975) PARTE SECONDA (diritti individuali e sociali) Art. 22. – 1) II lavoro costituisce un diritto ed è posto sotto la protezione dello Stato, che vigila per creare delle condizioni di piena occupazione per tutti i cittadini e per il progresso morale e materiale della popolazione attiva, rurale ed urbana. Tutte le persone che lavorano hanno diritto, senza tener conto del loro sesso o di altre distinzioni, alla stessa remunerazione quando il lavoro compiuto sia di pari valore. 2) Le condizioni generali del lavoro son determinate dalla legge. Esse sono integrate dalle convenzioni collettive di lavoro concluse per mezzo di libere trattative e, in caso d’insuccesso di queste, da disposizioni stabilite attraverso un arbitrato. 3) Ogni genere di lavoro obbligatorio è vietato. Leggi speciali regolano la requisizione dei servizi personali in caso di guerra o di mobilitazione, o per far fronte ai bisogni della difesa del paese, o in caso di una necessità sociale urgente provocata da una calamità, o tale da poter mettere in pericolo la salute pubblica. Tali leggi regolano anche l’apporto di lavoro personale in favore delle collettività locali per il soddisfacimento delle necessità locali. 4) Lo Stato si prende cura della sicurezza sociale dei lavoratori nelle forme previste dalla legge. Clausola interpretativa: Tra le condizioni generali del lavoro rientrano la determinazione delle procedure da seguire per l’esenzione delle quote di associazione alle organizzazioni sindacali, nonché l’obbligo [delle imprese: n.d.t.] di esigerle e di versarle alle organizzazioni stesse, nella misura fissata dai rispettivi statuti. Art. 29. – 1) Lo Stato prende le misure appropriate per assicurare a libertà sindacale e il libero

250

IL LAVORO NELLE COSTITUZIONI

esercizio dei diritti ad essa collegati contro qualsiasi pregiudizio, entro i limiti della legge. 2) Lo sciopero è un diritto. Esso è esercitato dalle associazioni sindacali legalmente costituite, in vista della difesa e del miglioramento degli interessi economici e professionali dei lavoratori in generale. Lo sciopero sotto qualsiasi forma è proibito ai magistrati e agli agenti dei corpi di sicurezza. La legge può imporre delle restrizioni al diritto di sciopero dei dipendenti statali, degli impiegati delle collettività locali e delle persone giuridiche di diritto pubblico, come pure del personale delle imprese pubbliche o di utilità pubblica il funzionamento abbia un’importanza vitale per la soddisfazione dei bisogni essenziali della società. Tali restrizioni non possono giungere alla soppressione del diritto di sciopero od all’impedimento del suo esercizio legale. (Stralci)

Costituzione F ederal e dell a CO NF ED ERAZIO NE SVIZZ ER A (1874) Art. 31. – [emend. nel 1885, 1908, 1913, 1930, 1947]. La libertà di commercio e d’industria è garantita su tutto il territorio della Confederazione, con riserva delle disposizioni restrittive della Costituzione e della legislazione che ne deriva. Le disposizioni cantonali sull’esercizio e sull’imposizione fiscale del commercio e dell’industria rimangono riservate; esse non possono tuttavia portare pregiudizio al principio della libertà di commercio e d’industria, a meno che la Costituzione federale non disponga altrimenti. Sono pure riservate le regalie cantonali. Art. 31 - bis. – [aggiunto nel 1947 ed emend. nel 1980]. Entro i limiti delle sue competenze costituzionali, la Confederazione prende le misure atte ad aumentare il benessere generale e a procurare la sicurezza economica dei cittadini. La Confederazione può, sempre salvaguardando gli interessi generali dell’economia nazionale, emanare disposizioni sull’esercizio del commercio e dell’industria e prendere misure in favore di singoli rami della economia o di professioni. Essa deve, con riserva del cpv. 3, rispettare il principio della libertà di commercio e d’industria. Quando l’interesse generale lo giustifichi, la Confederazione ha il diritto, derogando ove occorra al principio della libertà di commercio e d’industria, di emanare disposizioni: a) per salvaguardare importanti rami dell’economia o professioni minacciati nella loro esistenza e per sviluppare la capacità professionale delle persone che esercitano un’attività per conto proprio la questi rami o professioni; b) per conservare una sana popolazione rurale, assicurare l’efficienza dell’agricoltura e consolidare la proprietà agricola; c) per proteggere regioni la cui economia è in pericolo; d) per parare agli effetti nocivi di carattere economico o sociale prodotti dai cartelli e da organizzazioni analoghe; e) per prendere misure precauzionali in materia di difesa nazionale economica e per garantire l’approvvigionamento del Paese in merci e prestazioni di servizi indispensabili in caso di gravi penurie non rimediabili dall’economia stessa. Disposizioni in virtù delle lett. a e b possono essere emanate solo se i rami economici e le

251

IL LAVORATORE RITROVATO

professioni avranno presi da se stessi le misure interne che si possono equamente pretendere da loro. La legislazione federale emanata in virtù del cpv. 3, lett. a e b, deve salvaguardare lo sviluppo dei gruppi economici che si fondano sul mutuo aiuto. Art. 31-quinquies. – [aggiunto nel 1947 ed emend. nel 1978]. La Confederazione adotta misure per una equilibrata evoluzione congiunturale, segnatamente per prevenire e combattere la disoccupazione e il rincaro. Essa collabora con i Cantoni e con l’economia. Nell’adozione di misure nei settori monetario e creditizio, delle finanze pubbliche e dei rapporti economici con l’estero, la Confederazione può, se necessario, derogare al principio della libertà di commercio e d’industria. Essa può obbligare le imprese a costituire riserve di crisi fiscalmente privilegiate. Dopo la liberazione di queste riserve, le imprese ne decidono liberamente l’impiego nell’ambito degli scopi stabiliti dalla legge. La Confederazione, i Cantoni e i Comuni allestiscono i propri bilanci di previsione tenendo conto delle esigenze della situazione congiunturale. Per stabilizzare la congiuntura, la Confederazione ha facoltà, a titolo temporaneo, di riscuotere supplementi o concedere ribassi sulle imposte e sulle tasse federali. I fondi così assorbiti devono essere sterilizzati fintanto che la situazione congiunturale lo esiga. Le imposte e tasse federali dirette saranno poi individualmente rimborsate e quelle indirette devolute all’assegnazione di ribassi o a procurare occasioni di lavoro. La Confederazione tien conto delle disparità nelle sviluppo economico delle diverse regioni del Paese. La Confederazione procede alle indagini richieste dalla politica congiunturale. Art. 31-sexies. – [aggiunto nel 1981]. La Confederazione prende provvedimenti per proteggere i consumatori salvaguardando gl’interessi dell’economia nazionale e rispettando il principio della libertà di commercio e d’industria. Nell’ambito della legislazione federale sulla concorrenza sleale, alle organizzazioni dei consumatori spettano gli stessi diritti di quelli accordati alle associazioni professionali ed economiche. I Cantoni prevedono una procedura di conciliazione o una procedura giudiziaria semplice e rapida per le controversie derivanti da contratti tra consumatori finali e fornitori fino a un valore litigioso stabilito dal Consiglio federale. Art. 31-septies. – [aggiunto nel 1982]. Per impedire abusi nella formazione dei prezzi, la Confederazione emana disposizioni sulla sorveglianza dei prezzi e dei prezzi raccomandati per merci e servizi offerti da imprese e organizzazioni dominanti il mercato, segnatamente da cartelli e organizzazioni analoghe, di diritto pubblico o privato. Se il fine lo richiede, tali prezzi possono essere ridotti. Art. 34. – La Confederazione è in diritto di statuire disposizioni uniformi sull’impiego dei fanciulli nelle fabbriche e sulla durata del lavoro di persone adulte nelle medesime. Essa ha chiaramente il diritto di emanare dispositivi per la protezione degli operai contro l’esercizio di industrie malsane e pericolose. Le operazioni delle agenzie di emigrazione e delle imprese private nel ramo delle assicurazioni sono sottoposte alla sorveglianza e alla legislazione della Confederazione.

252

IL LAVORO NELLE COSTITUZIONI

Art. 34-bis. – [aggiunto nel 1890]. La Confederazione introdurrà per legge l’assicurazione contro gl’infortuni del lavoro e le malattie, tenendo conto delle casse di soccorso esistenti. Essa può dichiarare quest’assicurazione obbligatoria per tutti, o per certe classi di cittadini soltanto. Art. 34-ter. – [aggiunto nel 1908, emend. nel 1947 e nel 1976]. La. Confederazione ha il diritto di emanare disposizioni: a) sulla protezione dei lavoratori; b) sui rapporti tra datore di lavoro e lavoratore, segnatamente sul disciplinamento comune delle questioni che interessano l’azienda e la professione; c) sul conferimento del carattere obbligatorio generale a contratti collettivi di lavoro o ad altri accordi, tra associazioni di datori di lavoro e lavoratori, per favorire la pace del lavoro: d) su una compensazione adeguata del salario o del guadagno perduto in conseguenza del servizio militare; e) sul servizio di collocamento; f) (abrogato nel 1976). g) sulla formazione professionale nell’industria, nell’artigianato, nel commercio, nell’agricoltura e nei servizi dell’economia domestica. Il carattere obbligatorio generale previsto nella lettera può essere conferito solo per i rapporti di lavoro tra datori di lavoro e lavoratori, e solo se i contratti o gli accordi tengono debito conto delle diversità regionali, degli interessi legittimi delle minoranze e rispettano l’eguaglianza innanzi alla legge e la libertà d’associazione. Le disposizioni dell’art. 32 sono applicabili per analogia. Art. 34-quater. – [aggiunto nel 1928 ed emendato nel l972]. La Confederazione prende i provvedimenti necessari per realizzare una sufficiente previdenza per la vecchiaia, i superstiti e l’invalidità. Essa è composta di un’assicurazione federale, della previdenza professionale e della previdenza individuale. La Confederazione istituisce, in via legislativa, un’assicurazione per la vecchiaia, i superstiti e l’invalidità, obbligatoria per tutta la popolazione. Questa assicurazione eroga prestazioni in denaro ed in natura. Le rendite devono compensare adeguatamente il fabbisogno vitale. La rendita massima non deve superare il doppio della rendita minima. Le rendite devono essere adattate almeno all’evoluzione dei prezzi. I Cantoni cooperano all’attuazione dell’assicurazione; possono essere chiamate a cooperare associazioni professionali e altre organizzazioni private o pubbliche. L’assicurazione è finanziata: a. con i contributi degli assicurati; trattandosi di salariati, la metà dei contributi è a carico del datore di lavoro; b. con un contributo della Confederazione non eccedente la metà delle uscite e coperto, in primo luogo, dai proventi detti dell’imposta e dei dazi doganali sul tabacco, e dall’imposizione fiscale sulle bevande distillate secondo il disposto dell’articolo 32-bis capoverso 9; c. qualora la legge d’esecuzione lo preveda, con un contributo cantonale che riduce corrispondentemente quello federale. La Confederazione prende, in via legislativa, le seguenti misure in materia di previdenza professionale, allo scopo di permettere alle persone anziane, ai superstiti e agli invalidi di man-

253

IL LAVORATORE RITROVATO

tenere in modo adeguato il loro precedente tenore di vita e tenuto conto delle prestazioni dell’assicurazione federale: a. obbliga i datori di lavoro ad assicurare il personale presso una istituzione di previdenza aziendale, amministrativa o di associazione, o presso una istituzione analoga, e ad assumersi almeno la metà dei contributi; b. fissa le esigenze minime cui queste istituzioni di previdenza devono soddisfare; per risolvere certi problemi speciali, possono essere previsti provvedimenti a livello nazionale; c. cura affinché ogni datore di lavoro abbia la possibilità di assicurare il proprio personale presso un’istituzione di previdenza; può istituire una cassa federale; d. vigila affinché le persone che svolgono un’attività lucrativa indipendente abbiano la possibilità di assicurarsi facoltativamente presso un’istituzione di previdenza professionale, a condizioni equivalenti a quelle offerte ai lavoratori dipendenti. L’assicurazione può, in generale o per la copertura di rischi particolari, essere resa obbligatoria per alcune categorie di persone che svolgono un’attività lucrativa indipendente. La Confederazione cura affinché l’assicurazione federale e la previdenza professionale si possano sviluppare, a lunga scadenza, conformemente al loro scopo. I Cantoni possono essere obbligati a concedere esenzioni fiscali alle istituzioni dell’assicurazione federale o della previdenza professionale, come pure sgravi fiscali agli assicurati e ai loro datori di lavoro, per quanto concerne i contributi o i diritti di aspettativa. La Confederazione, in collaborazione con i Cantoni, promuove la previdenza individuale, segnatamente con provvedimenti di politica fiscale e di politica in materia di proprietà. La Confederazione promuove l’integrazione degli invalidi e sostiene gli sforzi intrapresi in favore delle persone anziane, dei superstiti e degli invalidi. Essa può usare a tale scopo i mezzi finanziari dell’assicurazione federale. Art. 34-quinquies. – [aggiunto nel 1945 ed emendato nel 1972]. La Confederazione tiene conto, nell’esercizio dei poteri che le sono conferiti e nei limiti della Costituzione, dei bisogni della famiglia. La Confederazione è autorizzata a legiferare in materia di cassa di compensazione per le famiglie. Essa può dichiarare obbligatoria, per tutta la popolazione o per taluni gruppi di essa, l’affiliazione a queste casse. Essa tiene conto delle casse esistenti, appoggia gli sforzi dei Cantoni per la fondazione di nuove casse e può istituire una cassa nazionale di compensazione. Essa può far dipendere le sue prestazioni finanziarie da un’equa partecipazione dei Cantoni. La Confederazione istituirà, per via legislativa, l’assicurazione per la maternità. Essa potrà dichiarare obbligatoria, in generale o per taluni gruppi della popolazione, l’affiliazione a questa assicurazione e obbligare al versamento di contributi anche persone che non possono fruire delle prestazioni dell’assicurazione. Essa può far dipendere le sue prestazioni finanziarie da un’equa partecipazione dei Cantoni. Le leggi emanate in virtù del presente articolo saranno attuate con il concorso dei Cantoni; si potrà ricorrere alla collaborazione di associazioni di diritto pubblico e privato. Art. 34-sexies. – [aggiunto nel 1972]. La Confederazione adotta le misure intese a promuovere, segnatamente con la riduzione dei costi, la costruzione di alloggi e l’acquisto in proprietà d’appartamenti o case. La legislazione federale determinerà le condizioni alle quali sarà subordinata la concessione dell’aiuto della Confederazione.

254

IL LAVORO NELLE COSTITUZIONI

La Confederazione ha in particolare la facoltà: a. d’agevolare il conseguimento e l’urbanizzazione di aree destinate alla costruzione di alloggi; b. di appoggiare le iniziative in materia abitazionale ed ambientale a favore delle famiglie, delle persone con reddito modesto nonché degli anziani, degli invalidi e delle persone bisognose di cure; c. di promuovere la ricerca nel settore edilizio e in quello del mercato degli alloggi, come anche la razionalizzazione della costruzione; d. di provvedere a che sia garantito il finanziamento necessario per la costruzione di alloggi. La Confederazione può emanare le disposizioni legali indispensabili per l’urbanizzazione delle aree destinate alla costruzione di alloggi e per la razionalizzazione edilizia. I Cantoni sono chiamati a partecipare all’esecuzione ove queste misure, per la loro natura, non cadono esclusivamente nella competenza federale. I Cantoni e le organizzazioni interessate devono essere consultati prima che siano emanate le leggi d’esecuzione. Art. 34-septies. – [aggiunto nel 1972]. La Confederazione può, allo scopo di favorire soluzioni concordate ed impedire abusi in materia di pigioni e di alloggio, emanare disposizioni concernenti il conferimento del carattere obbligatorio generale a contratti quadro di locazione e ad altre misure adottate convenzionalmente dalle associazioni dei locatari e dei locatori o dalle organizzazioni che tutelano interessi similari. L’articolo 34- ter capoverso 2 si applica per analogia. La Confederazione emana disposizioni intese a tutelare i locatari da abusi in materia di pigioni e di altre pretese da parte dei locatori. Tali misure sono applicabili solamente nei Comuni in cui vi sia penuria di alloggi o di locali per uso commerciale. Art. 34-octies. – [attualmente non esiste]. Art. 34-novies. – [aggiunto nel 1976]. La Confederazione disciplina in via legislativa l’assicurazione contro la disoccupazione. Essa può emanare disposizioni sull’aiuto ai disoccupati. L’assicurazione contro la disoccupazione è obbligatoria per i lavoratori dipendenti. La legge determina le deroghe. La Confederazione provvede affinché le persone che svolgono un’attività lucrativa indipendente abbiano la possibilità di assicurarsi a determinate condizioni. L’assicurazione contro la disoccupazione garantisce un’adeguata compensazione del guadagno e promuove con prestazioni finanziarie provvedimenti atti a prevenire e combattere la disoccupazione. L’assicurazione contro la disoccupazione è finanziata con contributi degli assicurati; se questi sono lavoratori dipendenti, la metà dei contributi è a carico dei rispettivi datori di lavoro. La legge delimita il reddito lavorativo soggetto a contribuzione, come anche l’aliquota di contribuzione. In circostanze straordinarie, Confederazione e Cantoni concedono prestazioni finanziarie. I Cantoni e le organizzazioni dell’economia cooperano all’emanazione ed all’esecuzione delle disposizioni legali. (Stralci)

255

La segreteria Pizzinato (subentrato a Luciano Lama al vertice della Cgil) è agli sgoccioli: Giorgio Forattini sintetizza l’amarezza ricordando il suo passato in fabbrica

IL LAVORO NELLE COSTITUZIONI

Costituzione del la FEDER AZIO NE RUSSA (1993) Articolo 7 1. La Federazione Russa è uno Stato sociale, la cui politica è volta alla creazione delle condizioni che permettano una vita dignitosa e un libero sviluppo della persona. 2. La Federazione Russa tutela il lavoro e la salute delle persone, determina la misura minima garantita della retribuzione del lavoro, provvede al sostegno statale della famiglia, della maternita', della paternita' e dell'infanzia, dei cittadini invalidi e anziani, sviluppa il sistema dei servizi sociali, gestisce le pensioni statali, i sussidi e le altre garanzie per la tutela sociale. Articolo 30 1. Ognuno ha il diritto di associazione, compreso il diritto di formare unioni professionali per la difesa dei propri interessi. è garantita la libera attivita' delle associazioni. 2. Nessuno puo' essere costretto a iscriversi ad una associazione o a rimanere in essa. Articolo 37 1. Il lavoro è libero. Ognuno ha il diritto di impiegare liberamente le proprie capacita' nel lavoro e di scegliere il tipo di attivita' e la professione. 2. è vietato il lavoro coatto. 3. Ognuno ha il diritto di lavorare in condizioni rispondenti a requisiti di sicurezza e igiene, di essere retribuito per il lavoro senza alcuna discriminazione, con una retribuzione non inferiore alla misura minima fissata con legge federale, e anche il diritto alla tutela contro la disoccupazione. 4. è riconosciuto il diritto di intraprendere vertenze di lavoro individuali e collettive con l'utilizzo delle procedure di risoluzione stabilite con legge federale, compreso l'esercizio del diritto di sciopero. 5. Ognuno ha diritto alle ferie. Con il contratto di lavoro sono garantiti al lavoratore, in conformita' alla legge federale, la durata del periodo lavorativo, i giorni di riposo, i giorni festivi e le ferie annuali retribuite. Articolo 38 1. La maternita', l'infanzia e la famiglia sono tutelate dallo Stato. 2. I genitori hanno, in ugual misura, il diritto e l'obbligo di provvedere ai propri figli e alla loro educazione. 3. I figli abili al lavoro, che abbiano compiuto 18 anni, devono occuparsi dei genitori inabili al lavoro. Articolo 39 1. è garantita a tutti l'assicurazione sociale per l'eta', in caso di malattia, invalidita' e perdita dell'unico familiare che abbia un reddito, per l'educazione dei figli e negli altri casi previsti dalla legge. 2. La legge determina le pensioni e i sussidi sociali. 3. Sono incoraggiate l'assicurazione sociale volontaria, la creazione di forme supplementari

257

IL LAVORATORE RITROVATO

di previdenza e la beneficienza. Articolo 40 1. Ognuno ha diritto all'abitazione. Nessuno puo' essere privato arbitrariamente dell'abitazione. 2. Gli organi del potere dello Stato e gli organi dell'autogoverno locale incoraggiano la costruzione di abitazioni e creano le condizioni per rendere effettivo il diritto all'abitazione. 3. Agli indigenti, e agli altri cittadini indicati dalla legge, bisognosi di un'abitazione, questa è assegnata gratuitamente o a prezzo agevolato, con risorse abitative statali, municipali o di altro tipo, in conformita' alle regole stabilite dalla legge. Articolo 41 1. Ognuno ha diritto alla tutela della salute e all'assistenza medica. Nelle istituzioni sanitarie statali e municipali l'assistenza medica è prestata ai cittadini gratuitamente ed è finanziata con le risorse del relativo bilancio, con contributi assicurativi e con altre entrate. 2. La Federazione Russa finanzia programmi per la tutela e il miglioramento della salute della popolazione, adotta misure per lo sviluppo del sistema sanitario statale, municipale e privato, incoraggia le attivita' idonee a favorire il miglioramento della salute della persona, lo sviluppo della cultura fisica e dello sport, il benessere ecologico e sanitario-epidemiologico. 3. L'occultamento, da parte di funzionari pubblici, di fatti e circostanze, che costituiscono una minaccia per la vita e la salute delle persone, è per essi fonte di responsabilita', secondo la legge federale. Articolo 42 Ognuno ha diritto ad un ambiente naturale idoneo, a informazioni affidabili sull'ambiente e al risarcimento del danno, alla salute o alle cose, prodotto da illeciti ambientali. (Stralci)

C ostituzione del l ’IMPERO DEL GIAPPO NE (1946) CAPITOLO III. I DIRITTI E I DOVERI DEL POPOLO Art. 27. – Tutte le persone hanno il diritto e il dovere di lavorare. Norme-tipo per le condizioni di lavoro, per i salari, gli orari ed il riposo saranno stabilite dalla legge. Lo sfruttamento della mano d’opera infantile è proibito. Art. 28. – Il diritto dei lavoratori ad organizzarsi, a contrattare e ad agire collettivamente è garantito. (Stralci)

258

IL LAVORO NELLE COSTITUZIONI

C ostituzione dell a FEDERAZIO NE B RASILIANA (1988) Capitolo 2. Dei Diritti Sociali Art. 6. Si intendono come diritti sociali: l’istruzione, la salute, il lavoro, la casa, il tempo libero, la sicurezza, la previdenza sociale, la tutela della maternità e dell’infanzia, l’assistenza agli abbandonati, secondo quanto previsto nella presente Costituzione. Art. 7. Si intendono come diritti dei lavoratori urbani e rurali, oltre ad altri che mirano al miglioramento della loro condizione sociale: I. il rapporto di lavoro protetto contro il licenziamento arbitrario o senza giusta causa, secondo i termini della giurisprudenza specifica, che prevedrà, tra altri diritti, anche un’indennità di compensazione; II. l’assicurazione sulla disoccupazione, nel caso di disoccupazione involontaria; III. il fondo di garanzia per il periodo di servizio prestato; IV. il salario minimo, fissato per legge, unificato a livello nazionale, in grado di soddisfare i bisogni vitali basici del lavoratore e della sua famiglia: abitazione, alimentazione, istruzione, salute, tempo libero, abiti, igiene, trasporti e previdenza sociale, con adeguamenti periodici a salvaguardia del potere d’acquisto, mentre ne viene vietato il suo vincolo a qualsiasi fine; V. la base salariale proporzionale all’estensione e alla complessità del lavoro; VI. il divieto di riduzione del salario, tranne che per quanto disposto da convenzioni o accordi collettivi; VII. la garanzia del salario, mai inferiore al minimo, per quanti percepiscono una remunerazione variabile; VIII. la tredicesima mensilità, basata sulla remunerazione integrale o sul valore della pensione; IX. la remunerazione del lavoro notturno superiore a quella del lavoro diurno; X. la protezione del salario, secondo quanto previsto dalla legge; viene considerato reato il trattenerlo dolosamente; XI. la partecipazione agli utili, o risultati, svincolata dalla remunerazione, e, in via eccezionale, la partecipazione alla gestione dell’impresa, come stabilito dalla legge; XII. gli assegni-familiari pagati in base ai familiari a carico del lavoratore a basso reddito, nei termini fissati dalla legge; XIII. la durata del lavoro normale non superiore alle otto ore giornaliere, con massimo di quarantaquattro ore settimanali, con possibilità di usufruire di orari flessibili e tempo parziale, tramite accordi o contratto collettivo di lavoro; XIV. la giornata lavorativa di sei ore nel caso di turni ininterrotti, fatta salva la negoziazione collettiva; XV. il riposo settimanale remunerato, preferibilmente alla domenica; XVI. la remunerazione del lavoro straordinario superiore, almeno, del 50% di quello normale; XVII. il godimento di ferie annuali pagate con remunerazione almeno di un terzo superiore al salario normale; XVIII. il congedo per maternità, senza pregiudizio di lavoro e salario, con durata di centoventi giorni;

259

IL LAVORATORE RITROVATO

XIX. il congedo di paternità, nei termini fissati dalla legge; XX. la protezione del mercato del lavoro femminile, con incentivi specifici, nei termini fissati dalla legge; XXI. il termine di preavviso proporzionale al tempo di servizio, di minimo trenta giorni, nei termini fissati dalla legge; XXII. la riduzione dei rischi collegati al lavoro, tramite norme di salute, igiene e sicurezza; XXIII. la remunerazione addizionale nel caso di attività faticose, malsane o pericolose, nella forma prevista dalla legge; XXIV. la pensione; XXV. l’assistenza gratuita per i figli e i familiari a carico dalla nascita fino ai sei anni di età, negli asili e nelle scuole materne; XXVI. il riconoscimento dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro; XXVII. la protezione di fronte all’automatizzazione, nella forma prevista dalla legge; XXVIII. l’assicurazione contro gli incidenti sul lavoro, a carico del datore di lavoro, senza escludere l’indennizzo a cui questi è tenuto nei casi di dolo o colpa; XXIX. l’azione legale per i crediti risultanti dai rapporti di lavoro, con termine di cinque anni per la prescrizione, per i lavoratori urbani e rurali, fino al limite di due anni dopo la cessazione del contratto di lavoro; XXX. sono vietate le differenze salariali, di mansioni e di criteri di ammissione in base al sesso, all’età, al colore della pelle o allo stato civile; XXXI. è vietata qualsiasi discriminazione per quanto riguarda il salario e i criteri di ammissione dei lavoratori portatori di handicap; XXXII. sono proibite le distinzioni tra lavoro manuale, tecnico e intellettuale o tra i rispettivi professionisti; XXXIII. è vietato il lavoro notturno, pericoloso o malsano ai minori di diciotto anni, e di qualsiasi lavoro ai minori di sedici anni, eccezion fatta per la condizione di apprendista, a partire dai quattordici anni; XXXIV. parità di diritti tra il lavoratore con contratto a tempo indeterminato e il lavoratore autonomo o occasionale. Paragrafo unico. Alla categoria dei lavoratori domestici sono assicurati i diritti previsti agli incisi IV, VI, VIII, XV, XVII, XVIII, XIX, XXI e XXIV, e l’integrazione alla previdenza sociale. Art. 8. Le associazioni professionali o sindacali sono libere, posto che sia stato rispettato quanto segue: I. la legge non potrà esigere l’autorizzazione dello Stato per fondare il sindacato, una volta depositato il registro presso l’organo competente; sono vietate al potere pubblico l’interferenza e l’intervento nella organizzazione sindacale; II. é vietata la creazione di più di una organizzazione sindacale, di qualsiasi grado, rappresentativa di una categoria professionale o economica, sulla stessa base territoriale, che sarà definita dai lavoratori o dai datori di lavoro interessati, e non potrà essere inferiore all’area di un Comune; III. al sindacato spetta la difesa dei diritti e degli interessi collettivi o individuali della categoria, ivi comprese le questioni giudiziarie o amministrative; IV. l’assemblea generale fisserà l’ammontare del contributo che, nel caso delle categorie pro-

260

IL LAVORO NELLE COSTITUZIONI

fessionali, sarà trattenuto in busta-paga, a sostegno del sistema confederale della relativa rappresentanza sindacale, indipendentemente dall’ammontare del contribuito previsto dalla legge; V. nessuno avrà l’obbligo di iscriversi o restare iscritto al sindacato; VI. i sindacati sono obbligati a partecipare alle trattative collettive di lavoro; VII. i pensionati iscritti hanno diritto di votare e di essere votati nelle organizzazioni sindacali; VIII. é vietato l’allontanamento del lavoratore iscritto al sindacato a partire dalla registrazione della sua candidatura a incarichi dirigenziali o rappresentanza sindacale e, se eletto, anche se supplente, fino a un anno dopo la fine del mandato, tranne nel caso che venga commessa una colpa grave, nei termini previsti della legge. Paragrafo unico. Quanto previsto dal presente articolo si applica alle organizzazioni dei sindacati dei lavoratori rurali e dei pescatori, una volta rispettate le condizioni stabilite dalla legge. Art. 9. E’ assicurato il diritto di sciopero; spetta ai lavoratori decidere sull’opportunità di esercitarlo e sugli interessi che debbano essere difesi per mezzo dello stesso. §1° La legge definirà i servizi o le attività essenziali e disporrà in merito alla salvaguardia delle necessità a cui la comunità non può rinunciare. § 2° I responsabili di abusi saranno sottoposti alle pene previste dalla legge. Art. 10. E’assicurata la partecipazione dei lavoratori e dei datori di lavoro negli organi collegiali pubblici in cui i loro interessi professionali o previdenziali siano oggetto di discussione o delibera. Art. 11. Nelle imprese con più di duecento impiegati, è garantita l’elezione di un loro rappresentante con la finalità esclusiva di promuovere le relazioni dirette con i datori di lavoro. (Stralci)

Costituzione del la REPUBBLICA PO PO LARE CINESE (1988) Articolo 42 I cittadini della Repubblica Popolare Cinese hanno il diritto e il dovere di lavorare. Attraverso vari canali, lo stato crea le condizioniper l'occupazione, aumenta la sicurezza e salute sul lavoro, migliora le condizioni di lavoro e, sulla base della produzione di espanso, aumenta la retribuzione per il lavoro e prestazioni sociali. Il lavoro è una questione di onore per ogni cittadino che sia in grado di lavorare. Tutte le persone che lavorano in imprese di proprietà statale e in collettivi economici urbani e rurali devono affrontare il lorolavoro come i padroni

261

IL LAVORATORE RITROVATO

del paese che sono. Lo Stato promuove l'emulazione socialista del lavoro, e loda e premia modello e operai avanzati. Lo Stato incoraggia i cittadini a prendere parte a lavoro volontario. Lo Stato fornisce la formazione professionale necessaria per i cittadini prima di essere impiegati. Articolo 43 I lavoratori della Repubblica popolare cinese hanno il diritto di riposare. Lo stato ampliastrutture per il riposo e di recupero delle persone che lavorano e prescrive l'orario di lavoro e le vacanze per i lavoratori e il personale. Articolo 44 Lo Stato applica il sistema di pensionamento per i lavoratori e il personale delle imprese e delle istituzioni e per i funzionari di organi dello Stato secondo la legge. Il sostentamento del personale in quiescenza è assicurata dallo Stato e della società. Articolo 45 I cittadini della Repubblica Popolare Cinese ha il diritto di assistenza materiale da parte dello Stato e della società quando sono vecchi, malati o disabili. Lo stato sviluppa assicurazioni sociali, di assistenza sociale e servizi medici e sanitari che sono necessari per i cittadini di godere di questo diritto. Lo stato e la società garantire il sostentamento dei membri disabili delle forze armate, le pensioni alle famiglie dei martiri e dare un trattamento preferenziale alle famiglie dei militari. L'aiuto di Stato e società prendono accordi per il sostentamento di lavoro, e l'istruzione dei ciechi, dei cittadini sordomuti e altri portatori di handicap. Articolo 46 I cittadini della Repubblica Popolare Cinese hanno il dovere e il diritto di ricevere un'istruzione. Lo Stato promuove la sviluppo a tutto tondo dei bambini e dei giovani, mralmente, intellettualmente e fisicamente. (Stralci)

COSTITUZIONE FRANCESE DEL 24 GIUGNO 179 3 D ICHIARA ZIONE DEI DIRITTI DELL’UOM O E DEL CITTADINO Art. 17: Nessun genere di lavoro, di cultura, di commercio, può essere interdetto all’operosità dei cittadini. Art. 18: Ogni uomo può impegnare i suoi servizi, il suo tempo; ma non può vendersi, né essere venduto; la sua persona non è una proprietà alienabile. La Legge non riconosce domesticità: può esistere solo un vincolo di cure e di riconoscenza tra l’uomo che lavora e quello che lo impiega. (Stralci)

262

IL LAVORO NELLE COSTITUZIONI

CARTA ATLANTICA (firmata da Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill) 1941 … Essi desiderano attuare fra tutti i popoli la più piena collaborazione nel campo economico, al fine di assicurare a tutti migliori condizioni di lavoro, progresso e sicurezza sociale... (la Carta Atlantica ispirò in buona misura la successiva Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, n.d.a.). (Stralci)

ONU: DICHIARA ZIONE DEI DIRITTI UNIVERSALI DELL’UOM O (1948) Art. 4: Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma. Art. 22: Ogni individuo in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità. Art. 23: 1) Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione. 2) Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro. 3) Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, ad altri mezzi di protezione sociale. 4) Ogni individuo ha il diritto di fondare sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi. Art. 24: Ogni individuo ha il diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite. Art. 25: 1) Ogni individuo ha il diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà. 2) La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale. (Stralci)

263

IL LAVORATORE RITROVATO

COSTITUZIONE DELL’ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE DEL LAVORO (9 ottobre 1945 ) Preambolo Considerando che una pace universale e durevole può essere fondata soltanto sulla giustizia sociale; Considerando che vi sono condizioni di lavoro che implicano per un gran numero di persone ingiustizia, miseria e privazioni, generando tale malcontento da mettere in pericolo la pace e l’armonia del mondo, e che urge prendere provvedimenti per migliorare simili condizioni: come, per esempio, il regolamento delle ore di lavoro, la fissazione della durata massima della giornata e della settimana di lavoro, il reclutamento della mano d’opera, la lotta contro la disoccupazione, la garanzia di un salario sufficiente ad assicurare convenienti condizioni di vita, la protezione dei lavoratori contro le malattie generali o professionali e contro gli infortuni del lavoro, la protezione dei fanciulli, degli adolescenti e delle donne, le pensioni di vecchiaia e d’invalidità, la difesa degli interessi dei lavoratori occupati all’estero, il riconoscimento del principio «a lavoro eguale, retribuzione eguale», il riconoscimento del principio della libertà sindacale, l’organizzazione dell’insegnamento professionale e tecnico, e altri provvedimenti analoghi; Considerando che la mancata adozione, da parte di uno Stato qualsiasi, di un regime di lavoro veramente umano ostacola gli sforzi degli altri, che desiderano migliorare la sorte dei lavoratori nei propri paesi; Le Alte Parti Contraenti, mosse da sentimenti di giustizia e di umanità, e dal desiderio di assicurare una pace mondiale durevole, nell’intento di raggiungere i fini enunciati nel preambolo, approvano la presente Costituzione dell’Organizzazione internazionale del Lavoro: Capo I Organizzazione Art. 1 1. È istituita un’organizzazione permanente per promuovere l’attuazione del programma esposto nel preambolo della presente Costituzione e nella Dichiarazione sugli scopi dell’Organizzazione internazionale del Lavoro, adottata a Filadelfia il 10 maggio 1944, il testo della quale si trova allegato alla presente Costituzione. 2. Membri dell’Organizzazione internazionale del Lavoro sono gli Stati che erano Membri dell’Organizzazione il 1o novembre 1945 e tutti gli altri Stati che lo diventeranno conformemente alle disposizioni dei paragrafi 3 e 4 del presente articolo. 3. Qualsiasi Membro originario delle Nazioni Unite e qualsiasi Stato ammesso in qualità di membro delle Nazioni Unite con decisione dell’Assemblea generale, conformemente alle disposizioni della Carta può diventare Membro dell’Organizzazione internazionale del Lavoro comunicando al Direttore generale dell’Ufficio Internazionale del Lavoro la sua accettazione formale degli obblighi derivanti dalla Costituzione dell’Organizzazione internazionale del Lavoro. 4. La Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del Lavoro può pari- mente ammettere dei Membri nell’Organizzazione a maggioranza dei due terzi dei delegati presenti alla sessione, compresi i due terzi dei delegati governativi presenti e volanti. Questa ammissione diventerà effettiva quando il governo del nuovo Membro avrà comunicato al Direttore

264

Altan su Satyricon, supplemento de “La Repubblica”, ironizza sulla tendenza a scaricare i sacrifici sui lavoratori (luglio 1980).

IL LAVORATORE RITROVATO

dell’Ufficio internazionale del Lavoro la sua accettazione formale degli obblighi derivanti dalla Costituzione dell’Organizzazione. 5. Nessun Membro potrà uscire dall’Organizzazione internazionale del Lavoro senza avere preventivamente comunicato la sua intenzione al Direttore generale del- l’Ufficio internazionale del Lavoro. Siffatta dichiarazione avrà effetto due anni dopo la data del suo ricevimento da parte del Direttore generale con la riserva che il Membro a questa data abbia adempito tutti gli obblighi finanziari risultanti dalla sua qualità di Membro. Nel caso in cui un Membro abbia ratificato una convenzione internazionale del lavoro, questa uscita non infirmerà in modo alcuno la validità, per il periodo previsto dalla convenzione, degli obblighi risultanti dalla convenzione stessa o che ad essa si riferiscono. 6. Nel caso in cui uno Stato avesse cessato di essere Membro dell’Organizzazione, la sua riammissione come Membro sarà disciplinata dalle norme dei paragrafi 3 o 4 del presente articolo. Art. 10 1. I compiti dell’Ufficio internazionale del Lavoro comprendono la raccolta e la distribuzione di ogni informazione concernente la disciplina internazionale delle condizioni dei lavoratori e del regime del lavoro, in particolare lo studio delle questioni da sottoporre alla Conferenza per la conclusione di convenzioni internazionali e l’esecuzione di inchieste speciali ordinate dalla Conferenza o dal Consiglio di amministrazione. 2. Con riserva delle direttive che potrebbero essergli impartite dal Consiglio d’amministrazione, l’Ufficio: a) prepara la documentazione concernente i diversi oggetti all’ordine del giorno delle sessioni della Conferenza; b) fornisce ai governi, se richiesto e nel limite dei mezzi a sua disposizione, un adeguato aiuto per l’elaborazione delle leggi in base alle decisioni della Conferenza, come pure per il miglioramento della pratica amministrativa e dei sistemi d’ispezione; c) adempie, secondo le disposizioni della presente Costituzione, gli obblighi che gli incombono per quanto concerne l’osservanza effettiva delle convenzioni; d) redige e pubblica nelle lingue che il Consiglio d’amministrazione reputa opportuno scritti concernenti questioni d’interesse internazionale relative all’industria ed al lavoro. 3. In generale esercita tutti gli altri poteri e funzioni che la Conferenza od il Consiglio d’amministrazione stima opportuno di assegnarli. Allegato Dichiarazione sugli scopi dell’Organizzazione internazionale del lavoro La Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del Lavoro, riunita a Filadelfia nella sua ventiseiesima sessione, adotta in questo decimo giorno di maggio 1944 la presente dichiarazione sugli scopi e le mete dell’Organizzazione internazionale del Lavoro e sui principî che devono guidare la politica dei suoi Membri. I. La Conferenza riafferma i principî fondamentali sui quali si fonda l’Organizzazione, cioè in particolare: II. a) il lavoro non è una merce;

266

IL LAVORO NELLE COSTITUZIONI

b) la libertà d’espressione del pensiero e di associazione è una condizione indispensabile di un progresso continuo; c) la povertà, ovunque si trovi, è un pericolo per la prosperità di tutti; d) la lotta contro il bisogno deve essere condotta con energia instancabile non solo nelle singole nazioni, ma anche in campo internazionale mediante una collaborazione continua; a questa lotta devono partecipare con eguali diritti e doveri i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro da una parte e i rappresentanti dei governi dall’altra; di comune intesa essi procederanno a libere discussioni e prenderanno decisioni di carattere democratico intese a favorire il bene della comunità. Convinta che l’esperienza ha pienamente dimostrato la fondatezza della dichiarazione contenuta nella Costituzione dell’Organizzazione internazionale del Lavoro, secondo la quale una pace durevole può essere fondata unicamente sulla giustizia sociale, la conferenza afferma che: a) tutti gli uomini, qualunque sia la loro razza, la loro confessione od il loro sesso, hanno il diritto di aspirare al loro progresso materiale ed al loro sviluppo spirituale nella libertà e nella dignità, nella sicurezza economica e con eguali possibilità per tutti; b) l’attuazione delle condizioni che permetteranno di giungere a questo risultato deve costituire il fine essenziale di ogni politica nazionale ed internazionale; c) tutti i programmi d’azione e tutte le misure prese nel campo nazionale ed internazionale, in particolare nel campo economico e finanziario, devono essere valutati in base a questo principio ed accettati solo in quanto appaiono atti a favorire, e non a intralciare, il raggiungimento di questo fine fonda- mentale; d) spetta all’Organizzazione internazionale del Lavoro esaminare mirando a questo fine fondamentale tutti i programmi d’azione e tutte le misure di carattere economico o finanziario d’importanza internazionale; e) nel compimento dei compiti che le sono affidati l’Organizzazione inter- nazionale del Lavoro può, dopo avere tenuto conto di tutti i fattori economici e finanziari determinati, includere nelle sue decisioni e raccomandazioni ogni altra disposizione che reputi opportuna. III. La Conferenza riconosce l’obbligo solenne per l’Organizzazione internazionale del Lavoro di favorire l’attuazione, nelle varie nazioni del mondo, di programmi che si propongono di conseguire: a) l’occupazione totale ed il miglioramento delle condizioni di vita; b) l’impiego degli operai in lavori che procurino loro la soddisfazione di pro- vare tutta la loro abilità e le loro cognizioni professionali e di contribuire nella maggiore misura possibile al benessere comune; c) l’attuazione di questo scopo, creando, mediante garanzie adeguate per tutti gli interessati, possibilità di formazione ed istituendo mezzi atti a facilitare il trasferimento di lavoratori, comprese le migrazioni di mano d’opera e di coloni; d) un regolamento dei salari e dei guadagni, della durata del lavoro e delle altre condizioni di lavoro, che dia a tutti la possibilità di equamente godere i frutti del progresso, e garantisca a coloro che hanno bisogno di siffatta protezione il salario minimo indispensabile per vivere; e) il riconoscimento effettivo del diritto di procedere a trattative collettive e la cooperazione tra i datori di lavoro e la mano d’opera, allo scopo di migliora- re continuamente l’organizza-

267

IL LAVORATORE RITROVATO

zione della produzione, come pure la collabora- zione del lavoratori e dei datori di lavoro nell’elaborazione e nell’applicazione della politica sociale ed economica; f) l’estensione delle misure di sicurezza sociale, per potere garantire a tutti coloro che hanno bisogno di siffatta protezione, un reddito base, come pure cure mediche complete; g) una protezione adeguata della vita e della salute dei lavoratori in ogni campo d’attività; h) la protezione dell’infanzia e della maternità; i) l’introduzione di condizioni soddisfacenti, alimentari e di alloggio, come pure l’istituzione di sufficienti possibilità ricreative e culturali; j) la garanzia di possibilità eguali nel campo dell’educazione e della formazione professionale. IV. La Conferenza è convinta che un’utilizzazione più completa e più estesa delle risorse produttive della terra, necessaria per l’attuazione degli scopi enumerati nella presente Dichiarazione, può essere garantita mediante un’azione efficace nel campo nazionale ed internazionale, in particolare con misure intese a promuovere l’espansione della produzione e del consumo, a evitare gravi fluttuazioni economiche, a conseguire il progresso economico e sociale delle regioni meno progredite, a garantire una maggiore stabilità dei prezzi delle materie prime e delle derrate sul mercato mondiale e a favorire lo sviluppo di un commercio internazionale esteso e costante. La conferenza promette perciò l’intera collaborazione dell’Organizzazione inter- nazionale del Lavoro a tutte le organizzazioni internazionali, alle quali fosse affidata una parte di responsabilità nell’attuazione di questo grande compito, come pure nel miglioramento della sanità, dell’educazione e del benessere di tutti i popoli. V. La Conferenza afferma che i principi enunciati nella presente Dichiarazione sono integralmente applicabili a tutti i popoli del mondo e che, se nella loro applicazione, si deve tenere debito conto dello sviluppo sociale ed economico di ogni popolo, la loro applicazione progressiva ai popoli che sono ancora dipendenti da altri, come pure a tutti i popoli che si governano da sé, interessa il mondo civile nel suo complesso. (Stralci)

ONU: PATTO INTERNA ZIONALE SUI DIRITTI EC ONO MICI, SOC IA LI E CULTURALI (approvato nel 1966, in vigore dal 1976 ) Art. 3: Gli Stati del presente Patto si impegnano a garantire agli uomini e alle donne la parità giuridica nel godimento di tutti i diritti economici, sociali e culturali enunciati nel presente Patto. Art. 6: 1. Gli Stati del presente Patto riconoscono il diritto al lavoro, che implica il diritto di ogni individuo di ottenere la possibilità di guadagnarsi la vita con un lavoro liberamente scelto o accettato, e prenderanno le misure appropriate per garantire tale diritto. 2. Le misure che ciascuno degli Stati parti del presente Patto dovrà prendere per assicurare la piena attuazione di tale diritto comprenderanno programmi di orientamento e formazione

268

IL LAVORO NELLE COSTITUZIONI

tecnica e professionale, nonché l'elaborazione di politiche e di tecniche atte ad assicurare un costante sviluppo economico, sociale e culturale ed un pieno impiego produttivo, in condizioni che salvaguardino le fondamentali libertà politiche ed economiche degli individui. Art. 7: Gli Stati del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo di godere di giuste e favorevoli condizioni di lavoro, le quali garantiscano in particolare: a. la remunerazione che assicuri a tutti i lavoratori come minimo: I. un equo salario ed una qualche remunerazione per un lavoro di eguale valore senza distinzione di alcun genere; in particolare devono essere garantire alle donne condizioni di lavoro non inferiori a quelle godute dagli uomini, con eguale remunerazione per eguale lavoro; II. un'esistenza decorosa per essi e per le loro famiglie in conformità alle disposizioni del presente Patto; b. la sicurezza e l'igiene del lavoro; c. la possibilità uguale per tutti di essere promossi, nel rispettivo lavoro, alla categoria superiore appropriata, senza altra considerazione che non sia quella dell'anzianità di servizio e delle attitudini personali; d. il riposo, gli svaghi, una ragionevole limitazione delle ore di lavoro, e le ferie periodiche retribuite, nonché la remunerazione per i giorni festivi. Art 8: 1. Gli Stati del presente Patto si impegnano a garantire: a. il diritto di ogni individuo di costituire con altri dei sindacati e di aderire al sindacato a sua scelta, fatte salve soltanto le regole stabilite dall'organizzazione interessata, al fine di promuovere e tutelare i propri interessi economici e sociali. L'esercizio di questo diritto non può essere sottoposto a restrizioni che non siano stabilite dalla legge e che non siano necessarie, in una società democratica, nell'interesse della sicurezza nazionale e dell'ordine pubblico o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui; b. il diritto dei sindacati di formare federazioni o confederazioni nazionali e il diritto di queste di costruire organizzazioni sindacali internazionali o di aderirvi; c. il diritto dei sindacati di esercitare liberamente la loro attività, senza altre limitazioni che quelle stabilite dalla legge e che siano necessarie in una società democratica nell'interesse della sicurezza nazionale o dell'ordine pubblico o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui; d. l diritto di sciopero, purché esso venga esercitato in conformità delle leggi di ciascun Paese. 2. Il presente articolo non impedisce di imporre restrizioni legali di questi diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell'amministrazione dello Stato. 3. Nessuna disposizione del presente articolo autorizza gli Stati parti della Convenzione del 1948 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, concernente la libertà sindacale e la tutela del diritto sindacale, ad adottare misure legislative che portino pregiudizio alle garanzie previste dalla menzionata Convenzione, o ad applicare le loro leggi in modo da causare tale pregiudizio.

269

IL LAVORATORE RITROVATO

Art. 9: Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo alla sicurezza sociale, ivi comprese le assicurazioni sociali. Art. 10: Gli Stati parti del presente Patto riconoscono che: 1. La protezione e l'assistenza più ampia che sia possibile devono essere accordate alla famiglia, che è l'unico nucleo naturale e fondamentale della società, in particolare per la sua costituzione e fin quando essa abbia la responsabilità del mantenimento e dell'educazione dei figli a suo carico. Il matrimonio deve essere celebrato con il libero consenso dei futuri coniugi. 2. Una protezione speciale deve essere accordata alle madri per un periodo di tempo ragionevole prima e dopo il parto. Le lavoratrici madri dovranno beneficiare, durante tale periodo, di un congedo retribuito o di un congendo accompagnato da adeguate prestazioni di sicurezza sociale. 3. Speciali misure di protezione e di assistenza devono essere prese in favore di tutti i fanciulli e gli adolescenti senza discriminazione alcuna per ragioni di filiazione o per altre ragioni. I fanciulli e gli adolescenti devono essere protetti contro lo sfruttamento economico e sociale. Il loro impiego in lavori pregiudizievoli per la loro moralità o per la loro salute, pericolosi per la loro vita, o tali da nuocere al loro normale sviluppo, deve essere punito dalla legge. Gli Stati devono altresì fissare limiti di età al di sotto dei quali il lavoro salariato di manodopera infantile sarà vietato e punito dalla legge. Art. 11: 1. Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguata per sé e per la propria famiglia, che includa un'alimentazione, un vestiario, ed un alloggio adeguati, nonché al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita. Gli Stati parti prenderanno misure idonee ad assicurare l'attuazione di questo diritto, e riconoscono a tal fine l'importanza essenziale della cooperazione internazionale, basata sul libero consenso. 2. Gli Stati parti del presente Patto, riconoscendo il diritto fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame, adotteranno, individualmente e attraverso la cooperazione internazionale, tutte le misure, e fra queste anche programmi concreti, che siano necessarie: a. per migliorare i metodi di produzione, di conservazione e di distribuzione delle derrate alimentari mediante la piena applicazione delle conoscenze tecniche e scientifiche, la diffusione di nozioni relative ai princìpi della nutrizione, e lo sviluppo o la riforma dei regimi agrari, in modo da conseguire l'accrescimento e l'utilizzazione più efficaci delle risorse naturali; b. per assicurare un'equa distribuzione delle risorse alimentari mondiali in relazione ai bisogni, tenendo conto dei problemi tanto dei paesi importatori quanto dei paesi esportatori di derrate alimentari. Art. 12: 1. Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale che sia in grado di conseguire. 2. Le misure che gli Stati parti del presente Patto dovranno prendere per assicurare la piena attuazione di tale diritto comprenderanno quelle necessarie ai seguenti fini: a. la diminuzione del numero dei nati-morti e della mortalità infantile, nonché il sano sviluppo dei fanciulli;

270

IL LAVORO NELLE COSTITUZIONI

b. il miglioramento di tutti gli aspetti dell'igiene ambientale e industriale; c. la profilassi, la cura e il controllo delle malattie epidemiche, endemiche, professionali e d'altro genere; d. la creazione di condizioni che assicurino a tutti servizi medici e assistenza medica in caso di malattia. (Stralci)

UNIONE EUROPEA:CA RTA DEI DIRITTI FO NDAM ENTALI Art. 5: Proibizione della schiavitù e del lavoro forzato 1. Nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù. 2. Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio. 3. È proibita la tratta degli esseri umani. Art. 12: Libertà di riunione e di associazione 1. Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione e alla libertà di associazione. a tutti i livelli, segnatamente in campo politico, sindacale e civico, il che implica il diritto di ogni persona di fondare sindacati insieme con altri e di aderirvi per la difesa dei propri interessi. 2. I partiti contribuiscono a esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione. Art.15: Libertà professionale e diritto di lavorare 1. Ogni persona ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta e accettata. 2. Ogni cittadino dell’Unione ha la libertà di cercare un lavoro, di lavorare, di stabilirsi o di prestare servizi in qualunque Stato membro. 3. I cittadini dei paesi terzi che sono autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri hanno diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell’Unione. Art. 23: Parità tra donne e uomini La parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedono vantaggi specifici a favore del sesso contrapposto. Art. 27: Diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa Ai lavoratori o ai loro rappresentanti devono essere garantite, ai livelli appropriati, l’informazione e la consultazione in tempo utile nei casi e alle condizioni previste dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali. Art. 28: Diritto di negoziazione e di azioni collettive I lavoratori e i datori di lavoro o le rispettive organizzazioni, hanno, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali, il diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli appropriati, e di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive

271

IL LAVORATORE RITROVATO

per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero. Art. 29: Diritto di accesso ai servizi di collocamento Ogni persona ha il diritto di accedere a un servizio di collocamento gratuito. Art. 30: Tutela in caso di licenziamento ingiustificato Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali. Art. 31: Condizioni di lavoro giuste ed eque 1. Ogni lavoratori e ha il diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose. 2. Ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite. Art. 32: Divieto del lavoro minorile e protezione dei giovani sul luogo di lavoro Il lavoro minorile è vietato. L’età minima per l’ammissione al lavoro non può essere inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo, fatte salve le norme più favorevoli ai giovani ed eccettuate deroghe limitate. I giovani ammessi al lavoro devono beneficiare di condizioni di lavoro appropriate alla loro età ed essere protetti contro lo sfruttamento economico o contro ogni lavoro che possa minarne la sicurezza, la salute, lo sviluppo fisico, mentale o sociale o che possa mettere a rischio la loro istruzione. Art. 33: Vita familiare e vita professionale 1. È garantita la vita della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale. 2. Al fine di poter conciliare vita familiare e vita professionale, ogni persona ha il diritto di essere tutelata contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità e ha il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio. Art. 34: Sicurezza sociale e assistenza sociale 1. L’Unione riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione in casi quali la maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia, oltre che in caso di perdita del posto di lavoro, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali. 2. Ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha il diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali. 3. Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volta a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali. (Stralci)

272

Nel disegno di Bruna, Giorgio Benevnuto in bombetta e abito da lavoro: tra lotta e governo

La cartella per la sottoscrizione lanciata dal Pci nel giugno del 1946 per far fronte alle spese per la campagna per le elezioni dell’Assemblea Costituente

Turati, Saragat e le Ragioni del Riformismo

In un momento in cui ci si interroga su quali strade debba battere il socialismo del Terzo Millennio, sui modi in cui oggi sia possibile coniugare sviluppo ed equità, sulle forme in cui realizzare una distribuzione del reddito che riduca le distanze create, al contrario, da trent'anni di predicazione liberista, sulla scelta di ricette realistiche che sfuggano al semplicistico “miracolismo” e alla pericolosa demagogia dei molti improvvisati “ideologi del Nuovo” (facilmente apprezzati nelle fasi storiche come quella attuale caratterizzata da paura e incertezza), vale la pena rileggere il discorso che Filippo Turati pronunciò al congresso di Livorno del 1921. Quelle sue parole imbevute di realismo (cioè della capacità di misurarsi con la concretezza quotidiana) sono ancora oggi una lezione: non ci sono scorciatoie, la costruzione del migliore dei mondi possibili pretende pazienza e impegno costante, impone l'aggiornamento delle soluzioni perché se il mondo cambia, cambiano anche i modi per cambiarlo. Quel congresso si chiuse con la scissione comunista ma circa un secolo dopo, quello che fu considerato un “reprobo” da condannare con l'espulsione dal partito socialista, ha visto le sue idee trionfare nelle “sinistre di governo” dell’Occidente europeo. Eppure il retaggio di questa storia, lunga, complessa e anche tragica continua a essere in qualche misura un “dilemma irrisolto”. E, comunque, il segnale di una “malattia” che periodicamente attraversa la sinistra. Una malattia fatta di parole e di simboli. Il fatto è che con la storia bisogna fare i conti e farli sino all'ultimo perché il rischio è che alla fine prevalga il non detto e il non capito. Perché dopo Livorno, poco più di un quarto di secolo dopo, ci fu Palazzo Barberini, la scissione di Giuseppe Saragat. Il fatto è che nella logica settaria che spesso ha prevalso a sinistra, i fatti e le vicende sono state interpretate seguendo l'aforisma di Pietro Nenni: “A fare a gara a fare i puri c'è sempre uno più puro che ti epura”. Al confronto delle idee si è spesso preferito lo sconfortante inseguimento degli anatemi, all'analisi seria e ap-

275

IL LAVORATORE RITROVATO

profondita la richiesta di una abiura immediata. Eppure quel che avvenne a Livorno, al teatro Goldoni, in quel freddo gennaio, andrebbe rivisitato non per piantare “bandierine” e rivendicare “ragioni” che a quasi cento anni di distanza non hanno più senso a essere rivendicate perché si sono da sole chiaramente affermate, ma per evitare che il futuro ci porti sulla stessa strada del passato, facendoci incorrere nei medesimi errori. Perché a rileggere, ad esempio la ricostruzione storica di Paolo Spriano, ci si rende conto che anche allora Turati, in quella assemblea non fu poi tanto sconfitto. Sull'Ordine Nuovo si diceva in tono perentorio: “Prenda Turati il cadavere del suo Partito Socialista e se ne faccia sgabello per la sua ambizione senile”. Ma poi prese la parola e, come racconta Spriano (“Storia del Partito Comunista Italiano. Da Bordiga a Gramsci” Einaudi Editore 1977) un'ovazione partì “anche dalla platea folta dei socialisti massimalisti”. Ventisei anni dopo, sempre in gennaio, a Roma, a Palazzo Barberini la questione di un socialismo capace di uscire dalle strettoie ideologiche, di fare i conti con l'imperialismo sovietico e le contraddizioni di una “dittatura del Proletariato” che si manifesta nel concreto come negazione della libertà e della democrazia, riemerge con forza. La ripropone Giuseppe Saragat. E lo storico Gaetano Arfè spiegherà così le posizioni e le scelte che in quei giorni vennero compiute: “Il partito che nasce a palazzo Barberini non è nelle intenzioni dei suoi costruttori un partito di socialismo moderato, è un partito classista che si dà come obiettivo ultimo la socializzazione dei mezzi di produzione di scambio, che non esclude nelle dichiarazioni di suoi autorevoli esponenti, anzi auspica, che una volta affermata, organizzata e consolidata l'autonomia dei socialisti, una politica unitaria del movimento operaio possa essere ripresa. Il marxismo liberamente interpretato, cultura e non dogma, è la sua dottrina, in esso è il fondamento teorico della sua autonomia ideale e programmatica. E' un dato anche questo, che mette conto di sottolineare in una Italia dove il marxismo sembra essere diventato una diabolica eresia da estirpare con metodi da Santa Inquisizione. Marxista è Giuseppe Saragat, continuatore critico e più volte eretico della tradizione riformista... Dell'anticomunismo, anche nei momenti di più aspra polemica, non fece mai una ideologia. La lotta aperta e intransigente, condotta con le armi della politica, contro il partito comunista

276

TURATI, SARAGAT E LE RAGIONI DEL RIFORMISMO

si accompagnò all'apprezzamento delle doti di intelligenza e di coraggio dei suoi dirigenti e al riconoscimento del contributo che essi avevano dato alle battaglie della Resistenza e alla costruzione della democrazia repubblicana... Al marxismo si rifaceva la vecchia guardia riformista nella cui tradizione era l'espunzione dal proprio seno di Bonomi e Bissolati e la religiosa fedeltà alla eredità morale e politica di Matteotti, di Turati, di Treves. Essa affluisce compatta nel nuovo partito, organizzata nella corrente che aveva fatto rivivere la turatiana “Critica Sociale”. C'è una parola che perseguita la storia della sinistra, anche quella recente e recentissima: Traditore. E' riecheggiata, ad esempio, nelle contestazioni contro il sindaco di Torino, Piero Fassino, in occasione del Primo Maggio 2013. Fu lanciata con violenza il 17 febbraio del 1977 contro Luciano Lama all'Università La Sapienza a Roma da quei gruppi che proclamavano di non essere “né con lo Stato né con Le Br” ma che finivano per fiancheggiare, in alcuni settori, decisamente più le seconde che il primo. In una ricostruzione per il quotidiano La Stampa, Fabio Martini ha riportato un divertente aneddoto. L'incontro in carcere a Turi, nel 1930, fra Sandro Pertini e Antonio Gramsci. Pertini si avvicina a Gramsci e gli dice: “Scusi, lei è l'onorevole Gramsci?”. E Gramsci risponde: “Che fai, mi dai del lei? Non sei un antifascista anche tu?”. “Sì, mi chiamo Sandro Pertini, ma sono socialista...” “Perché dici ma?”. “Perché per voi comunisti quelli come me sono dei social-traditori”. Poi, dimentico di quel che era stato scritto sull'Ordine Nuovo, anche ai tempi della scissione di Livorno, Gramsci sorride e replica: “Lascia perdere, quell'insulto è una aberrazione, io non lo approvo”. A volte il dibattito a sinistra sembra essere ancora bloccato in quel dialogo tra Pertini e Gramsci. Eppure sono passati più di ottant'anni, tante vicende e tanta storia. Una riflessione pacata partendo dal passato, può aiutare a viaggiare meglio verso il futuro. Con un bagaglio alleggerito dai pregiudizi.

277

IL LAVORATORE RITROVATO

IL DISCORSO DI TURATI AL XVIIE CONGRESSO DEL PSI (Livorno 19 gennaio 1921) Compagni amici, e compagni avversari; non voglio, non debbo dire nemici. A Bologna, un anno fa, in un discorso molto contrastato, che forse ebbe tuttavia qualche conferma dai fatti, io vi pregavo di accogliere le mie parole come un testamento. Io non debbo, senza volere avere la sciocca presunzione, e ridicola, di aggiungere lugubre solennità alle mie parole, poche parole, non debbo e non posso farvi altra dichiarazione oggi. Più che mai, anzi, debbo ringraziare il Partito ed il Congresso che mi ha lasciato in vita, che mi lascia tuttora in vita. È stato un po’ il mio destino d’essere sempre un imputato, davanti a questo o quel tribunale, e quando è un tribunale rivoluzionario, che non vi schianta completamente, che non vi lascia qualche respiro, è un tribunale molto mite, a cui bisogna essere grati… Rivendico il diritto di cittadinanza nel socialismo Nella dottrina, sul terreno dottrinale, io rivendico, noi rivendichiamo solennemente il nostro diritto di cittadinanza nel socialismo che non è per noi il socialismo comunista e il comunismo socialista, perché in queste denominazioni artificiose, ibride, evidentemente l’aggettivo scredita il sostantivo, e il sostantivo rinnega l’aggettivo. Il comunismo ebbe due sensi – voi tutti lo sapete – nella storia del moderno movimento proletario. O fu il comunismo critico di Engels e di Marx, il comunismo classico, opposto per ragioni tutte tedesche e transeunte ai falsi socialismi che prevalevano un quarto di secolo fa, socialismi filantropici falsi, a tutti i socialismi antirivoluzionari di quel tempo – e tutto questo è superato in Germania, come in Italia, come dovunque – oppure si chiamò comunismo in senso ideologico, nella previsione della forma della futura società socialista, che fosse più in là del collettivismo, che al concetto del sistema collettivista: «a ciascuno secondo il proprio lavoro, salvo gli invalidi, i bambini, ecc.», sostituiva il concetto più vasto: «a ciascuno secondo i propri bisogni» – prendere nel mucchio, come si diceva sinteticamente – che più che

278

TURATI, SARAGAT E LE RAGIONI DEL RIFORMISMO

due concetti opposti significavano due fasi successive di evoluzione. La prima applicabile ad una società in periodo classico capitalistico, la seconda in una società di abbondanza, di esuberanza in cui le condizioni sociali permettano il grande consumo, la grande distribuzione ugualitaria di tutte le ricchezze. Compagni, questo comunismo, in un senso o nell’altro, questo comunismo che è il socialismo, può anche espellermi dalle file di un Partito, ma non mi espellerà mai da sé stesso. Perché io ho detto che quando si fa testamento si può essere un po’ orgogliosi, perché, francamente, compagni, è un diritto di anzianità, niente altro, non è un merito. Questo comunismo, questo socialismo e questo comunismo non solo noi lo abbiamo imparato negli anni della giovinezza sui testi sacri – direi quasi – della nostra dottrina, ma lo abbiamo in Italia, per solo merito di anzianità, ripeto, insegnato alla massa, al Partito nostro, ai Partiti che precedettero il nostro nella evoluzione del socialismo, quando questi lo ignoravano, quando lo temevano, quando lo sospettavano, quando lo avversavano. La suprema finalità del socialismo Ed è così che io, con pochissimi altri, in un tempo che i giovani non possono ricordare, abbiamo portato nella lotta proletaria per la prima volta in Italia – oh! copiammo dall’estero, più avanzato di noi – la suprema finalità del socialismo: la conquista del potere da parte del proletariato costituito in Partito indipendente di classe, questa conquista del potere che il compagno Terracini ieri – mi pare ieri – enunciava come un segno di distinzione fra la loro schiera e la nostra, fra il programma antico e quello tutto nuovo, anzi, come egli ci confessò onestamente, tutt’ora in faticosa elaborazione, e che però egli vorrebbe sostituire in blocco al vecchio e glorioso programma del Partito socialista. Io posso dunque amichevolmente sorridere di questa novità e di questa scoperta, che furono l’anima della nostra intelligenza e della nostra vita da che cominciammo a pensare. Non è questo che ci distingue oggi. Ciò che ci distingue non è la generale ideologia socialista, la questione dei fini, e neppure quella dei mezzi, ma una pura e semplice valutazione della maturità delle cose e del proletariato a prendere determinate posizioni in un dato momento; è unicamente la valutazione della convenienza di determinati mezzi

279

IL LAVORATORE RITROVATO

episodici della lotta. La violenza, che per noi non è un programma, non può e non deve essere un programma, che alcuni accettano in toto e vogliono organizzare e preparare – i cosiddetti comunisti puri, chiamateli come volete – che altri accettano a mezzo, guadagnando tutte le conseguenze dannose e nessun utile che la violenza potrebbe per avventura, nella mente di quegli altri, contenere in sé, noi, come programma, la rifiutiamo. Dittatura del proletariato, dittatura di minoranza La dittatura del proletariato, per noi, o è dittatura di minoranza, e allora è imprescindibilmente dispotismo tirannico, o è dittatura di maggioranza, ed è un vero non senso, perché la maggioranza non è dittatura, è la volontà del popolo, è la volontà sovrana. E da ultimo, altro segno di distinzione, il proposito della costrizione del pensiero all’interno del Partito, la persecuzione dell’eresia, da cui nasciamo; nostra madre, o figliuoli, o fratelli carissimi, come direbbe un predicatore la persecuzione della eresia nell’interno del Partito, che fu l’origine e la vita stessa del Partito, la sua forza rinnovatrice ad ogni istante, la garanzia che esso possa lottare contro tutte le forze intellettuali e materiali che gli si parano di fronte. Tutte forme queste – violenza, culto della violenza, dittatura del proletariato, persecuzione dell’eresia – che si risolvono in una sola: nel culto della violenza interna, dirò così, e esterna, e che hanno un solo presupposto – semplifichiamo la questione nella quale è il vero punto di ogni divergenza – e cioè quello – che per noi è l’illusione – che la rivoluzione sociale, intendiamoci, non una rivoluzione politica, che abbatte e cambia sistema, sia il fatto volontario di un giorno o di un mese o di qualche mese, sia l’improvviso alzarsi di un sipario, il calare di uno scenario nuovo, sia il domani di un post-domani di un calendario, mentre il fatto di ieri, di oggi, di sempre, che esce dalle viscere stesse della società capitalistica, di cui noi creiamo soltanto la consapevolezza, che noi possiamo soltanto agevolare nei molteplici adattamenti della vita politica, ma non possiamo né creare, né apprestare, né precipitare, che dura da decenni, che si avvererà tanto più presto quanto meno lo sforzo della violenza, quanto meno il culto della violenza provocante, bruta, prematura, e quindi destinata al fallimento, esasperando resistenze avversarie e provocando reazioni e contro rivoluzioni,

280

TURATI, SARAGAT E LE RAGIONI DEL RIFORMISMO

le ritarderanno il cammino e l’obbligheranno di ritornare su se stessa. La via più breve è l’evoluzione Onde è che per noi la via vera, quella dell’evoluzione, è la più breve. Ed è per questo concetto fondamentale, che il concetto praticato ed accettato da noi, sinceramente,con tutta la devozione, la dedizione e l’umiliazione del nostro particolare concetto, il concetto della sottomissione alle deliberazioni del Partito, del nostro appartarci quando non possiamo cooperare, per dovere di coscienza, ma non vogliamo attraversare, concetto con cui il compagno Serrati chiudeva poche ore fa il suo discorso, formidabile discorso, questo concetto di disciplina nell’azione con la libertà del pensiero, della discussione e della critica, noi lo accettiamo sinceramente, ma dovrà essere accettato e considerato con un certo grano di sale. Perché, quando comincia l’azione a cui è applicabile la disciplina, e quando finisce? Per chi ha il concetto che l’azione rivoluzionaria sia l’azione di un’ora o di un anno, questo obbligo, a chi non è in quel determinato ordine di idee e che diversificasse nei metodi, di appartarsi, di non parlare, di essere silenzioso nel momento del combattimento vero e proprio non si discute e non si fa della critica, è evidente. Ma chi pensa, come noi pensiamo, che questa rivoluzione vi sia già, che procede per lente conquiste, che dura dei decenni, allora, amico Serrati, allora qui tu per il primo comprenderai che questa massima deve essere accettata con molta considerazione, perché quando questo movimento dura decenni, chi rinunzia alla parola ed al pensiero, non alla solidarietà ad una determinata azione nel momento che si svolge, evidentemente rinnegherebbe se stesso. Non credo che abbiate piacere di avere dei rinnegati tra di voi, e sarebbe il maggiore tradimento che si farebbe al Partito, e, più che al Partito, alla propria vanità, al proprio interesse, alla propria situazione. Questo culto della violenza, che è agli inizi di tutti i Partiti nuovi, che è lo strascico di vecchie mentalità blanquiste, insaziate, che sembrano sempre tramontate e che risorgono sempre nella vita dei nostri proletari, che il socialismo disperde ed annulla, che la mentalità di guerra – non ne fu la causa unica – ha rinvigorito, per ragioni intuitive e da tutti ammesse, questo culto della violenza non è che un fiore di serra, effimero, che dovrà presto morire.

281

IL LAVORATORE RITROVATO

La violenza è propria del capitalismo e delle minoranze che intendono imporsi e schiacciare le maggioranze, e non può essere il principio delle maggioranze che vogliono e possono, con le armi intellettuali, redimersi ed imporsi. La violenza è la poca fede nell’idea La violenza è il contrapposto della forza, la violenza è anche la paura, la poca fede nell’idea, la paura delle idee altrui, il rinnegamento della propria idea. E rimane tale anche se trionfa per un’ora, se per un’ora sembra trionfare, seminando dietro di sé la reazione della insopprimibile libertà della coscienza umana, che diventa controrivoluzione, che diventa vittoria, ad un punto dato, dei comuni nemici. Questo avvenne sempre nella storia. Si potrebbe citare il cristianesimo, che fu un’enorme espansione di una idea: una forza che diventò misera, falsa, traditrice, ipocrita, nulla, impotente quando si appoggiò ai troni, alle armi, a tutte le forze della violenza. Ma, soprattutto, questa è verità profonda, che voi riconoscerete un giorno: in regime di suffragio universale, ancora non saputo adoperare, ancora incosciente, che dovremmo rendere cosciente, ma che vuol dire: «siete i sovrani, i dominatori», potete fare tutto quello che volete, senza versare una stilla di sangue umano, vostro ed altrui, se con la violenza, che desta la reazione, non metterete il mondo intero contro di voi. Ecco il punto del nostro solo, del nostro vero dissenso, che fu di ieri, che è di oggi, che è di sempre, contro il quale sempre insorgemmo… Sì, noi lottiamo troppo contro noi stessi, noi lavoriamo troppo spesso per i nostri nemici: noi creiamo la reazione, creiamo il fascismo, creiamo il Partito popolare, intimidendo, intimorendo oltre misura, proclamando con una suprema ingenuità, anche dal punto di vista cospiratorio, la preparazione dell’azione ultima, vuotando del suo contenuto quell’azione parlamentare, che non è l’azione di pochi uomini al di sopra degli uomini, ma che dovrebbe essere la più alta efflorescenza dell’azione comune di tutto il Partito entro i quadri nazionali, e, per accordi reciproci, anche dentro il grande quadro internazionale, che dovrebbe essere appunto la più alta efflorescenza del pensiero e dell’azione, dell’intero Partito, oggi, della intera classe, domani. Noi creiamo la controrivoluzione…

282

TURATI, SARAGAT E LE RAGIONI DEL RIFORMISMO

Siamo figli del Manifesto di Marx Noi siamo figli del Manifesto del 1848. Tutti! Soltanto noi siamo i figli di quel Manifesto, che accettiamo come una cosa che non si accetta come un dogma religioso, ma nel suo spirito, ponendolo nel suo tempo, integrandolo colle revisioni, i perfezionamenti, gli sviluppi che i tempi consigliano e che gli stessi autori e i più autorizzati interpreti del loro pensiero hanno solennemente consacrato nella dottrina. Io citai a Bologna la celebre prefazione alle «Lotte di classe in Francia» di Marx, prefazione del suo continuatore più autorizzato, del suo, non dico braccio destro, ma cervello destro, di Federico Engels, in cui, dopo quasi mezzo secolo dal «Manifesto dei comunisti», se ne faceva dai più autentici interpreti la revisione confessando come, non per gioventù di uomini, ma per la giovinezza del Partito nel tempo essi avessero sopravalutata la possibilità insurrezionale, avessero creduto a ciò che non volevano più. E la potete vedere, questa citazione, negli opuscoli che l’hanno diffusa: è una vera sconfessione del culto della violenza; ed essi confessano che si erano ingannati, che la storia li ha completamente smentiti, e che essa dimostra come le classi che detengono il potere hanno più paura dell’azione legale del proletariato che dell’azione illegale e dell’insurrezione. “La légalité nous tue”. Per cui essi ci provocano sulle piazze, dove sanno che saremo sconfitti, mentre sanno che nell’esercizio dei mezzi legali essi stessi dovranno rompere la legalità, non noi, la legalità che li uccide, veramente, definitivamente… Dobbiamo guardare l’insieme del pensiero marxista, cercare nelle sue monografie, ed allora, leggiamo nella «Guerra civile in Francia», scritta dopo il 1870, leggiamo cosa egli dice quando dichiara che i lavoratori della Comune sapevano che, per raggiungere la loro emancipazione, per raggiungere le forme superiori della società cui tendevano dovevano sostenere delle lunghe lotte ed attraversare una serie di fasi storiche successive che avrebbero trasformato a poco a poco le circostanze e gli uomini, dovevano liberare gli elementi che la vecchia società tiene nel suo seno, per concludere con la derisione delle congiure, col beffeggiare questa borghesia di allora – forse ancora di oggi – che immagina l’Internazionale dei lavoratori come una società segreta di congiure e di complotti, mentre è l’associazione di tutti quanti i grandi interessi umani che si uniscono per la storia nuova…

283

IL LAVORATORE RITROVATO

La mia convinzione; la mia profezia E vengo, e sarò più breve, al secondo ed ultimo punto della mia dichiarazione di voto: la nota pratica sul terreno pratico. Consentite ancora alla vecchiaia – amici, ho quasi quaranta anni di milizia e di propaganda – di affermarvi un’altra convinzione, che se la parola non fosse lievemente ridicola, potrei anche dire una profezia. Una profezia tanto facile che per me è di assoluta certezza, perché vale a compensarmi anche quando l’asprezza dei vostri contrasti mi amareggia e mi produce quel profondo dolore che tutti quelli che hanno veramente amato il Partito sentono. Ad ogni modo io vi faccio questa profezia da Barbanera, perché, e tra qualche anno la troverete smentita, avrete la gioia di poter dire che ero, non un bagolone, ma certamente un illuso.Tra qualche anno, io non sarò forse più qui, non sarò forse più al mondo, voi constaterete se questo si sia avverato. Questo culto della violenza, che è la fonte di tutti i nostri dissensi, la nota profonda, vera, unica del nostro dissenso, questa possibilità del miracolo, della violenza fisica, esterna, verso le altre classi, interna verso una parte del Partito, della violenza fisica e della violenza morale, perché vi è anche una forma di violenza morale che è perfettamente antipedagogica e dannosa allo scopo: la violenza morale che vuole precipitare le cose al di là del possibile, che vuole violentare le mentalità che non hanno trovato nelle circostanze esteriori – perché dalle cose nascono le idee – la possibilità di usare in dati momenti la violenza, che vuole far camminare il mondo sulla propria testa (secondo la frase con cui Marx definiva la filosofia di Hegel) mentre il grande vanto di Marx è stato di rimettere il mondo sui propri piedi, vi è anche una violenza morale, e il comunismo di Marx e di Engels è la negazione di tutte queste violenze in tutto il mondo, tutto questo tra qualche anno non potrà più esistere. Italia tra Germania e Russia Ma per fermarci all’Italia, che, come evoluzione economica sta tra mezzo a quello che fu la Germania ed a quello che è ancora la Russia, sta come un secolo di mezzo fra due secoli, o anche fra due ere, un medioevo di un evo che per noi è ancora futuro, per fermarci all’Italia, la storia dei nostri Congressi, che riassume in qualche punto, simboleggia le varie fasi di pensiero per cui il Partito è

284

TURATI, SARAGAT E LE RAGIONI DEL RIFORMISMO

passato – oh! vi darò un consiglio che vi farà ridere, ma a torto lo fareste storia che è magnificamente riassunta in un articolo contenuto nel numero di dicembre della «Nuova Antologia» scritto da un nostro avversario, Filippo Meda, con una comprensione storica quale difficilmente noi avremmo avuto – leggetelo quell’articolo – la storia dei nostri Congressi dimostra che la lotta di oggi acuita dalla guerra, inasprita dalle conseguenze della guerra è la lotta che è stata sempre combattuta, e nella quale il culto della violenza rinasce, fu smantellato, demolito, torna a rinascere in varie truccature a seconda del momento e delle circostanze, ma è sempre l’unica lotta che si è combattuta e nella quale sempre il socialismo antico, quello classico, il socialismo che crea le coscienze, le organizzazioni, gli organismi, venuti a poco a poco, per acquisizioni successive, è sempre stato il vincitore, pure avendo l’indomani a combattere la stessa lotta. Non è da oggi che siamo socialtraditori: lo siamo stati per tutta la nostra vita, lo fummo sempre. Dal partito operaio al partito socialista All’epoca degli scioperi generali – chi non lo ricorda? – di quelli anche economici, a ripetizione, non eravamo noi che difendevamo le ragioni della borghesia perché ci opponevamo a quella perdita di forze, a quell’albuminuria, a quel diabete a cui l’abuso della grande arma dello sciopero sottoposero il Partito e la classe? Il Partito operaio, dal 1880 al 1890, era una reazione utile di fronte al vecchio corporativismo infetto di tutta la lue labourista, l’abuso della casacca, e via via, e noi abbiamo combattuto, cercando di renderlo un Partito politico nel senso moderno della parola, e fummo derisi, sospetti. Abbiamo poi vinto. Nel 1891-’92 il Partito operaio a Milano prima, a Genova poi, si allargava nel concetto del Partito dei lavoratori italiani in senso più alto, più vario, più largo, perché nei lavoratori c’è anche l’operaio dell’intelligenza, il professionale, e via via, e noi imprimevamo nella massa quell’anelito alla conquista del potere politico che oggi ci annuncia Terracini come cosa sua, ed anche allora eravamo segnati a dito come traditori da quell’anarchismo inconscio che c’era nella massa operaia. A Parma nel 1894, quando si creò il Partito socialista con questo nome, la vittoria fu completa e le manette, il carcere, il domicilio coatto ci servirono per far correre avanti a più rapidi passi la concezione politica che

285

IL LAVORATORE RITROVATO

era stata prima derisa, vilipesa, sospettata. Era il concetto della conquista del potere contro l’azione che – per carità, non ve l’abbiate a male – chiamerò preadamitica di quel Partito operaio che non ammette che l’azione teorica, che considera la lotta elettorale come un mezzo di propaganda escludendo che si possa pensare alla conquista proletaria del potere. Il divorzio dei socialisti dagli anarchici Nel 1892 ci fu la grande lotta a Genova contro gli anarchici, dolorosa anche per noi. Abbiamo vinto, ce ne siamo separati, molti degli anarchici di sentimento che diventarono più colti, più riflessivi a poco a poco tornarono nelle nostre file e contiamo fra essi alcuni dei nostri migliori compagni anche oggi. Forse che ci divideva dagli anarchici la visione della società futura? Ma neanche per sogno! Noi, proiettando la nostra speranza nell’avvenire, possiamo essere anarchici e l’anarchismo è il più perfetto ideale di società futura, salvo le possibilità graduali. Non era questo quello che ci divideva. Era l’impazienza, il miracolismo, il culto della violenza, queste le sole ragioni di quella lotta nella quale siamo stati vincitori. Dal ‘94 al ‘98 ricordate ciò che avvenne? Lo sciopero generale, il primo, la lotta col sindacalismo, lo sciopero di Parma; i vecchi ricordano bene, anche i semi-vecchi. Ebbene, anche allora fu la stessa cosa. lì sindacalismo, l’azione diretta, era il vero sovietismo italiano, solamente tentato all’italiana, era veramente la superiorità degli operai, indipendentemente dalla conquista dello Stato, che doveva imporsi a regnare, – non c’è niente di uguale anche nei fenomeni storici, che pur si riproducono eternamente identici nella storia nell’intimo loro – era il primo sovietismo nostro che precedeva Mosca, eravamo più avanti… Quando svanirà il mito russo... L’anarchismo di un tempo fu dissolto, fu spazzato via, ma rinasce sempre dalle ceneri o tenta di rinascere. Oggi la guerra lo ha fatto rinascere. Il corporativismo fu dissolto, il sindacalismo fu rigettato, il labriolismo andò al potere, il ferrismo fece le capriole che sapete, l’integralismo anche esso sparì, e rimase il nucleo vitale dei socialtraditori, il vile riformismo, il marcio riformismo, per alcuni, il socialismo vero per altri, immortale, invincibile, inesorabile, che può

286

TURATI, SARAGAT E LE RAGIONI DEL RIFORMISMO

essere minoranza oggi, maggioranza domani, ma che salva il Partito, che conduce la classe, che tesse la sua tela ogni giorno e compie quella dura e tenace fatica di cui parlava Engels nel periodo che vi ho citato, che non fa miracoli, che non si culla nelle illusioni delle cose precipitate, che crea oggi una cooperativa, domani fa un sindacato di resistenza, posdomani si occupa della cultura operaia, senza della quale non usciremo mai da questi dolorosi anfratti, che si impossessa dei Comuni, del Parlamento, di tutti gli organi, a poco a poco, giorno per giorno, che crea lentamente ma sicuramente la maturità delle cose e degli animi, crea lo Stato di domani e gli uomini capaci di manovrare il timone. Sempre socialtraditori, in un momento, sempre vincitori alla fine.Ricordate questo fenomeno. La lotta sarà questa volta più dura, lenta, ma sarà lo stesso l’effetto, e fra qualche anno quando anche il mito russo, che avete torto di confondere con la rivoluzione russa, cui applaudo con tutto il cuore quando il mito, quello che è di religioso nei vostri animi, il mito bolscevico, sarà evaporato, quando il bolscevismo attuale o avrà fatto fallimento o sarà trasformato dalla forza delle cose, la nostra vittoria verrà. Imperialismo e nazionalismo orientale Quando sotto le lezioni dell’esperienza, e speriamo che non sia troppo dura per l’Italia e non debbano versarsi quei torrenti sanguinosi che si versarono in Ungheria, quando sotto la lezione delle cose voi avrete inteso più che non abbiate inteso ora; quando le vostre affermazioni di oggi saranno da voi stessi onestamente abbandonate e sconfessate; e i Consigli degli operai e dei contadini, a cui non si aggiungono i soldati non so perché, dovranno pur cedere il passo a quel grande Parlamento proletario in cui sarà riassunta tutta la forza intellettuale, politica e tecnica di tutto il proletariato italiano alleato al proletariato di tutto il mondo, solo allora avrete inteso come il fenomeno russo sia un grande fenomeno storico, ma non nel solo aspetto, forse il più caduco, il meno vitale che voi considerate vedendone l’applicazione puramente tecnica e meccanica, che non sarà possibile e che se poi è possibile ci ricondurrebbe al medioevo, avrete capito – intelligenti come voi siete – che la forza del bolscevismo russo è in un nazionalismo russo che avrà una grande influenza nella storia del mondo come opposizione all’imperialismo dell’Intesa, ma che è pur

287

IL LAVORATORE RITROVATO

sempre una forma di nazionalismo orientale che è conseguenza della necessità statale di trasformare o perire e si aggrappa a noi, al Partito socialista italiano (non si meravigli Serrati se ci domanda di più di quanto non oserebbe domandare all’Inghilterra od alla Francia) si aggrappa a noi disperata- mente per salvare se stesso, che non possiamo seguire ciecamente perché diventeremmo gli strumenti di quel nazionalismo orientale che avrà, ripeto, anche esso la sua grande funzione nella storia del mondo, aprirà l’Oriente alla vita civile e chiamerà la Cina, il Giappone, l’Asia Minore le vecchie razze che sono negli ipogei della storia, alla vita della storia, ma non si può sostituire, né distruggere, né imporre alla Internazionale Maggiore dei popoli più evoluti nel cammino della storia. Il nucleo solito quindi – con questo finisco – che rimane di tutte queste lotte, che sono sempre le stesse nelle diverse forme transitorie e caduche, il nucleo solido è nell’azione. Nell’azione che non è l’illusione, che non è il miracolo, la rivoluzione in un giorno o in un anno, ma è la abilitazione progressiva, faticosa, misera, per successive graduali conquiste, obiettive e soggettive, nelle cose e nelle teste, della maturità proletaria a subentrare nella gestione sociale: sindacati, cooperative, potere comunale, parlamentare, cultura, tutta la gamma, questo è il socialismo che diviene! E non diviene per altre vie: ogni scorciatoia non fa che allungare la strada; la via lunga è la sola breve. E l’azione è la grande pacificatrice, è la grande unificatrice; essa creerà l’unità di fatto, che noi non troviamo nelle formule, che non troveremo mai nelle parole né negli ordini del giorno, per quanto abilmente ponzati con dosature farmaceutiche di fraterno opportunismo. Azione perenne, azione fatale, prima e dopo quella tale rivoluzione che si avvera sempre, nella quale siamo dentro, perché essa stessa, questa azione è la rivoluzione. Azione pacificatrice e unificatrice… Tornerete sulla via dei “socialtraditori”. Ond’è che quando avrete fatto il Partito comunista, quando avrete – e non mi pare che ancora vi ci si avvii molto rapidamente – impiantato i Soviety in Italia, se vorrete fare qualche cosa che sia rivoluzionaria davvero, che rimanga come elemento di civiltà nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto, ma dopo ci verrete, perché siete onesti, con convinzione, a percorrere completamente

288

TURATI, SARAGAT E LE RAGIONI DEL RIFORMISMO

la nostra via, a percorrere la via dei socialtraditori, e questo lo dovrete fare perché questo è il socialismo che è solo immortale, che è solo quello che veramente rimane di vitale in tutte queste nostre beghe e diatribe… Troppa gente nuova è venuta per forza di cose, che renderà più aspra e difficile la nostra via, ma indubbiamente si trionferà in quella via; maggioranza, minoranza, non conta niente, non si tratta di numeri, frazione scacciata o frazione tenuta, alleanza di frazione o non, collaborazione di frazioni o non, fortuna di uomini scacciati via o tenuti, tutto questo è ridicolo di fronte alle necessità della storia, tutto questo non ha importanza, ciò che ha importanza è la forza operante, per cui io vissi, nella cui fede onestamente morrò, con voi o senza di voi, uguale sempre a me stesso, e combattendo io resto, e credo nel suo trionfo, con voi, perché questa forza operante è il socialismo. Ebbene: Viva il socialismo!

Cartolina edita dal Psi per celebrare il 1 maggio 1901 289

Da palazzo Barberini (1947) al Quirinale (1964-1971): Giuseppe Saragat ispirò nell’immediato dopoguerra con la scissione temi che poi trovarono un’eco nella svolta di Bad Godesberg

TURATI, SARAGAT E LE RAGIONI DEL RIFORMISMO

Giuseppe Saragat all’assemblea costitutiva sul Psli Palazzo Barberini 11 gennaio 1947 Liberati dalle pesanti ipoteche che gravano su di noi nel partito fusionista, potremo porre il problema dei nostri rapporti con i comunisti su di un piano non più polemico ma umano e, ardisco sperare, fraterno. Se i fusionisti con il loro funesto atteggiamento non ci avessero preclusa sino ad oggi questa strada penso che saremmo riusciti sin da un pezzo a creare un movimento socialista sottratto a ogni complesso di inferiorità... Qual è compagni, il dissenso di carattere ideologico che ci separa dai comunisti? E prima di tutto cos’è compagni la democrazia. La democrazia non è altro che la partecipazione fervida, continua di tutto il popolo alla vita politica. Nell’interno di un partito è la stessa cosa. La vera unità della classe lavoratrice La democrazia è la partecipazione di tutti i compagni alla vita del Partito. La differenza che passa fra noi e i comunisti è questa: mentre i comunisti fanno partecipare i loro militanti alla loro vita interna del partito per tutto ciò che si riferisce alla parte organizzativa – e su questo piano bisogna riconoscere sono veramente ammirevoli – li escludono però dalla formulazione delle linee direttive generali che vengono dettate sempre dall’alto. Ora queste linee direttive potranno anche essere le migliori di questo mondo, ma la base comunista non ha diritto di interferire su di esse. Noi intendiamo per democrazia la partecipazione di tutti i militanti non solo all’organizzazione del Partito ma all’elaborazione delle linee fondamentali che orientano l’azione comune. Uno degli scopi essenziali del nostro partito è di creare le premesse per la vera unità della classe lavoratrice. Unità che non può che realizzarsi sul piano democratico dove tutte le correnti possono armonizzarsi in concorso fecondo. Mai si è visto un rovesciamento più radicale delle tradizionali concezioni socialiste. Mai si è assistito ad un diniego più violento di quei principi su cui sono fondati i nostri ideali. La nozione del mezzo ha soverchiato quella del fine. La lotta di classe come strumento dell’abbattimento del capitalismo e l’instaurazione di una società libera ed associata si risolve in una lotta per l’instaura-

291

IL LAVORATORE RITROVATO

zione di stati onnipotenti. Il capitalismo muore ed il socialismo non nasce. Nasce la statolatria, nasce il totalitarismo, nasce non la libertà sociale, ma la coercizione sociale... Il socialismo moderno deve essere profondamente democratico. La democrazia non è un metodo strumentale ma è la sostanza viva della nostra dottrina. La democrazia è nello stesso tempo disciplina e coscienza rivoluzionaria della classe lavoratrice perché non si tratta di sapere se il socialismo potrà essere realizzato col suffragio universale oppure se la storia ci proporrà il problema in modo diverso... Una classe non può assurgere a classe dominante della società che se essa rappresenta gli interessi di tutti. Quanto più il proletariato sarà democratico, tanto più troverà alleati, tanto più sarà forte. Oggi si pensa che l’ultima parola della saggezza politica sia il riformismo antidemocratico. Noi pensiamo invece che debba essere la democrazia antiriformista. La libertà non è un ideale astratto Il socialismo intenderà allora che la libertà per cui si batte non è un ideale astratto ma è il lievito di tutto il lungo travaglio delle lotte umane, è il coronamento di queste lotte. La libertà dei Diritti dell’Uomo è la critica delle limitazioni borghesi di questi diritti. Si tratta infatti di diritti limitati alla sfera politica, la libertà dei Diritti dell’Uomo è la libertà dell’uomo egoista. La libertà a cui il socialismo aspira è la libertà nella solidarietà, la libertà che significa “un ritorno cosciente, completo, all’uomo sociale col mantenimento di tutta la ricchezza del suo sviluppo interiore”. Ma questo non vuol dire che il socialismo neghi la libertà individuale, al contrario. Quando Marx critica la libertà di stampa, non critica il diritto degli uomini a esprimere con la stampa il proprio pensiero, ma critica il fatto che solo coloro che hanno quattrini possono farlo. Questo diritto non sarà veramente realizzato che quando tutti avranno una eguale possibilità di dire quello che pensano... Il socialismo parla di democrazia Tutto il socialismo parla di democrazia. È nella democrazia che si forma, nel modo più conseguente, la coscienza di classe... È nella democrazia che si può realizzare quella fraterna alleanza tra i lavoratori della fabbrica e i lavoratori

292

TURATI, SARAGAT E LE RAGIONI DEL RIFORMISMO

degli uffici, che rende possibili non solo l’avvento al potere delle classi popolari ma la gestione di esso in forme non terroristiche, cioè in forme civili. Ricordiamoci d’altronde che il socialismo non può che essere il risultato del concorso della grande maggioranza del popolo. Questa solidarietà tra i lavoratori del ceto medio e i lavoratori delle officine è dettata non soltanto da considerazioni politiche ma da necessità economiche. Nelle grandi fabbriche le forze produttive sono già socializzate, mentre i rapporti di produzione sono ancora di natura privata. Si tratta semplicemente di mettere i secondi in armonia con le prime... Noi sappiamo che nel nostro Paese il socialismo può trionfare per opera sì della classe operaia, ma di una classe operaia che avrà legato a sé, per l’universalità dei suoi fini e per l’umanità dei suoi sforzi, tutte le forze del lavoro... Abbiamo visto che sempre quando il proletariato ha legato a sé con una vera politica democratica i lavoratori del ceto medio, si sono fatti dei passi in avanti e che, proprio quando li ha respinti, si è andati incontro a catastrofi. Il fascismo è nato da questa divisione delle forze del lavoro e dalla conseguente polarizzazione del ceto medio attorno al capitalismo monopolistico. La Repubblica invece è nata dalla fraterna alleanza dei lavoratori dei campi e delle officine con i lavoratori degli uffici.

(Stralci)

293

È il 1922: ecco la riproduzione fotografica della domanda di ammissione che il “candidato socio” doveva sottoscrivere per entrare nel Psi

TURATI, SARAGAT E LE RAGIONI DEL RIFORMISMO

PSI: La Domanda d’Ammissione a socio nel 1922 dopo la scissione del PCdI (Comunisti) In questo viaggio nelle evoluzioni di quel riformismo socialista che in misura così ampia ha ispirato il sindacalismo italiano sin dalle origini, sin dalla nascita della Confederazione Generale del Lavoro, arriviamo al punto (quasi) di partenza. Il documento che riproduciamo è la domanda di ammissione al Psi del 1922 (la sezione è quella di Paliano, paese del frusinate). Parliamo di un periodo storico particolarmente complesso (il Biennio Rosso, la reazione fascista, i primi vagiti di una lunga dittatura) e vale la pena, per capire i contenuti programmatici di quella domanda, compiere una breve ricostruzione storica. Nel marzo del 1919 era nata la III Internazionale, il Comintern (Kommunistische Internationale). Il Psi è egemonizzato dall’ala massimalista e vi aderisce con un voto della direzione ad ampia maggioranza (dieci contro tre). Il 21 gennaio del 1921 a Livorno si consuma la scissione che porta alla nascita del Partito Comunista; poco dopo, nel 1922, al XIX congresso del Psi si afferma ancora l’ala massimalista che espelle i riformisti aprendo la strada alla nascita del Psu. Al XX congresso, nell’aprile del 1923, però, l’ala “fusionista” contro cui si batte Pietro Nenni, viene sconfitta e poco dopo, a maggio, nasce l’internazionale socialista. Il “socio” che chiede di essere ammesso al Psi nel 1922 sottoscrive ancora un programma in cui si afferma “che i lavoratori non potranno conseguire la loro emancipazione se non mercé la socializzazione dei mezzi di lavoro (terre, miniere, fabbriche, mezzi di trasporto, ecc) e la gestione sociale della produzione”. Il programma sottolinea “che solo una instaurazione del socialismo condurrà alla pace civile ed economica” e “che la conquista violenta del potere politico da parte dei lavoratori dovrà segnare il trapasso del potere stesso dalla classe borghese a quella proletaria, instaurando così il regime transitorio della dittatura di tutto il proletariato”, infine “che in tale regime di dittatura dovrà essere affrettato il periodo storico di trasformazione sociale e di realizzazione del comunismo dopo di che, con la scomparsa delle classi scomparirà anche ogni dominio di classe ed il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti”. Il socio accettando questo pro-

295

IL LAVORATORE RITROVATO

gramma “delibera”: di informare la organizzazione del Partito Socialista Italiano ai supposti principi”; “di aderire alla Terza Internazionale che è l’organismo del proletariato mondiale che tali principi propugna e difende”; “di promuovere accordi con le organizzazioni sindacali che sono sul terreno della lotta di classe perché informino la loro azione per la più profonda realizzazione dei supposti princìpi”.

296

Cartolina inizio novecento per propagandare il programma politico e sociale dei repubblicani

Willy Brandt con Bettino Craxi: fu uno dei protagononisti della svolta socialdemocratica del 1959 (Archivio Umberto Cicconi)

Germania: la Svolta della Spd da Marx a Bad Godesberg

“Più si invecchia, più si pensa a lunghissimo termine. Anche da vecchio ho ancora stretti tra le mani i tre valori fondamentali del Programma di Bad Godesberg: libertà, giustizia, solidarietà. E credo che la giustizia richieda oggi pari opportunità per le nuove generazioni”. Parlava così alcuni anni fa Helmut Schmidt, ultimo Patriarca della Spd, davanti alla platea della conferenza nazionale del partito. Un riferimento all'Anima Ideale uscita rifondata da quel lontano congresso. Una vera e propria “rivoluzione”: pacifica, silenziosa, senza armi, feriti e morti. L'unica vittima: l'Ortodossia Marxista abbandonata da un partito più vecchio della stessa Germania. Bad Godesberg per la sinistra italiana è una sorta di fantasma, in alcuni casi di incubo. Perché sul panorama politico dell'epoca si abbatté violentemente facendo venire meno certezze consolidate, mettendo in discussione punti di riferimento che buona parte della sinistra italiana non era in grado e non voleva mettere in discussione. Ci sono voluti decenni perché quel Fantasma fosse accettato come contributo al rinnovamento, come esempio da seguire per la costruzione di una sinistra di governo. Un percorso, sotto molti aspetti, addirittura ancora incompiuto, anche oggi a oltre mezzo secolo di distanza. Discussero per tre giorni, dal 13 al 15 novembre del 1959, in maniera anche accesa nei saloni dell'Hotel La Redoute di Bad Godesberg, un sobborgo di Bonn, all'epoca capitale di una Germania Federale ancora divisa. I delegati erano trecentoquaranta e tra di loro vi era il futuro Cancelliere e premio Nobel per la pace, a quell'epoca Borgomastro di Berlino, Willy Brandt. E c'era anche un ragazzo di diciannove anni che si sarebbe laureato in sociologia e sarebbe diventato uno dei leader del '68, Rudi Dutschke. Il “ragazzo” guidava l'organizzazione studentesca, la Sds, e alla svolta si oppose ferocemente. Al pari di alcuni delegati come quello di Erlangen, Dorsch, che

299

IL LAVORATORE RITROVATO

bocciò la svolta senza attenuanti: “Il programma è opportunista”. Ma senza successo perché passò la proposta di Herbert Wehner, vecchio marxista, sostenitore della rivoluzione bolscevica sino alla scoperta degli orrori staliniani dopo un viaggio in Russia. Alla platea, Wehner si rivolse con parole appassionate e commosse. Lo seguirono il segretario Erich Ollenahuer, l'economista keynesiano Karl Schiller. Carlo Schmidt sostenne la svolta con le sue teorizzazioni. E Brandt giganteggiò con il suo carisma. Alla fine i voti contrari furono appena sedici. Trecentoventiquattro delegati, invece, decretarono il pensionamento del vecchio programma di Heidelberg del 1925. Il marxismo finiva in soffitta, fra gli utensili inservibili in una società occidentale industrialmente avanzata; inservibili soprattutto per un partito di sinistra escluso dal governo dall'epoca di Weimar, dall'epoca dell'ultimo esecutivo guidato da Hermann Muller. Il programma di Bad Godesberg ha segnato la vita della Spd, della Germania e anche della sinistra europea (un po' meno di quella italiana). Per trent'anni quel documento ha ispirato l'azione dei socialdemocratici tedeschi venendo sostituito solo nel 1989 dal programma di Berlino. In Italia il vento di Bad Godesberg è arrivato in ritardo, molto in ritardo, addirittura agli inizi degli Anni Ottanta e per una “porta” laterale: Proudhon riscoperto da Bettino Craxi per aprire una riflessione su un marxismo ormai troppo impolverato per poter essere realmente utilizzato da una sinistra di governo. Ma ai protagonisti della scena politica italiana della fine degli Anni Cinquanta quella svolta apparve pericolosa, inaccettabile. Stranamente, non solo ai comunisti, ma anche ai socialisti e, persino, a Giuseppe Saragat che pure alcuni temi aveva anticipato a Palazzo Barberini ma, come avrebbe sottolineato successivamente Gaetano Arfè, restava un marxista. Il Pci fu, ovviamente, durissimo. L'Unità titolò: “I socialdemocratici di Bonn si trasformano in liberali”. In un editoriale si parlava di “evento grave”. Mario Alicata, sul settimanale ideologico, Rinascita, bollava il programma “di inconsistenza teorica e fumosa genericità che rasenta il grottesco”. L'affondo finale era liquidatorio: “Questa rinunzia deve essere considerata come un'ulteriore vittoria, e pericolosissima, della vecchia classe dirigente tedesca che dopo essere sopravvissuta al crollo dell'impero guglielmino e dopo aver distrutto la Repubblica di Weimar, è ancora una volta risorta intatta dalla ceneri del nazismo. Ma Bad Godesberg non

300

LA RIVOLUZIONE SOCIALDEMOCRATICA

raccolse consensi nemmeno nel Partito Socialista tanto è vero che Riccardo Lombardi individuò nella svolta “un'origine servile” mentre Pietro Nenni ribadì con chiarezza: “Il movimento operaio e socialista ha il suo obiettivo insostituibile nella soppressione del sistema di classe capitalista”. Lo storico Giuseppe Tamburrano ha sottolineato anni fa in un servizio del Corriere della Sera che “tutta la sinistra italiana reagì male alla svolta della Spd. Anche la rivista dei socialisti riformisti “Critica Sociale”, la più aperta e sensibile alle istanze del revisionismo giudicò negativamente, proprio con un mio articolo, Bad Godesberg. E persino Saragat storse il naso: oggi può sembrare strano ma era un marxista ortodosso e si contrapponeva al leninismo giudicandolo un'aberrazione, un tradimento. Riteneva Marx un pensatore democratico e libertario, la negazione del totalitarismo”. Nonostante più di mezzo secolo sia trascorso, Bad Godesberg ha ancora una sua vitalità. Non è un caso che Helmut Schmidt faccia riferimento proprio a quel congresso, a quei giorni turbolenti e avvincenti che produssero una svolta epocale nella socialdemocrazia tedesca. Ancora oggi il senso di quel dibattito può tornare utile. In Germania e soprattutto in Europa. Lo sottolinea Schmidt: “Noi tedeschi di sinistra non dobbiamo farci prendere da illusioni o farci confondere da cortine fumogene: se la Germania tenterà di essere il primus inter pares nella politica europea, una crescente percentuale dei nostri vicini penserà di doversi difendere efficacemente da questo tentativo di primato. Tornerebbe la preoccupazione della periferia per un centro troppo forte. E le probabili conseguenze di tale sviluppo sarebbero paralizzanti per l'Unione Europea, mentre la Germania cadrebbe nell'isolamento. In fondo abbiamo bisogno di proteggerci da noi stessi... La socialdemocrazia tedesca è stata per mezzo secolo internazionalista, abbiamo lottato per mantenere la libertà e la dignità di ogni essere umano. Abbiamo inoltre creduto nella rappresentanza della democrazia parlamentare. Questi valori ci impegnano oggi per la solidarietà europea”. Con Bad Godesberg è cominciata la marcia di avvicinamento della Spd al governo. E mentre in Italia l'eco dell'Autunno Caldo cominciava a diventare assordante, Willy Brandt a Bonn presentava il suo governo (di coalizione con il liberali, il governo Rosso-Blù) dicendo: “Non possiamo creare una democrazia perfetta. Però vogliamo una società che offra maggiore libertà

301

IL LAVORATORE RITROVATO

ed esiga una maggiore condivisione di responsabilità”. E annunciava l'Ostpolitik che avrebbe avuto il momento più alto nel “rito dell'inginocchiamento” a Varsavia con queste parole: “Siamo disposti a offrire comprensione sincera, in modo da poter superare le conseguenze dei mali inflitti all'Europa da una cricca di criminali”. Probabilmente le ricette messe a punto da quei trecentoquaranta delegati adesso, alla prova dei fatti, non reggono più. Lo spirito, però, quello può ancora essere utile in questo mondo in piena transizione, vittima di un liberismo sfrenato e di una finanza rapace e spregiudicata. Bad Godesberg dopo cinquantaquattro anni resta un utile pro-memoria per quelle forze politiche che vogliono governare coniugando sviluppo umano ed economico, crescita ed equità sociale, pari opportunità e solidarietà. Perché, come lascia intendere Schmidt, i confini possono essere diventati più ampi, ma i valori e gli ideali, alla resa dei conti, hanno un carattere universale. O, come disse Giacomo Matteotti “L’idea che è in me non muore”.

302

LA RIVOLUZIONE SOCIALDEMOCRATICA

La svolta della Spd a Bad Godesberg (1959): il programma È nelle nostre mani che si concentra la responsabilità di un avvenire felice o di una autodistruzione dell’umanità Ma la speranza di questa epoca è anche che l’uomo dell’era atomica può agevolare la sua vita, liberarla dalle preoccupazioni e creare delle ricchezze per tutti, se egli fa uso verso fini pacifici della sua dominazione sempre crescente sulle forze della natura; che l’uomo può garantire la pace mondiale se egli rafforza l’ordinamento giuridico internazionale, riduce la diffidenza che regna tra i popoli e impedisce la corsa agli armamenti; che l’uomo, per la prima volta nella sua esistenza, rende possibile l’affermazione della personalità di ciascuno in una democrazia stabile al fine di assicurare una vita culturale multiforme senza miseria e senza timori. Noi, gli uomini, siamo chiamati a risolvere questa contraddizione. È nelle nostre mani che si concentra la responsabilità di un avvenire felice o di una autodistruzione dell’umanità. È solo attraverso un ordine nuovo e migliore che l’uomo si aprirà una strada verso la libertà. A questo ordine nuovo e migliore aspira il socialismo democratico. I socialisti perseguono una società nella quale ogni individuo possa liberamente espandere la propria personalità e partecipare in modo responsabile, come membro al servizio della Comunità, alla vita politica, economica e culturale dell’umanità. Libertà, giustizia e solidarietà Se il socialismo democratico affonda le proprie radici nell’etica cristiana, libertà e giustizia si condizionano mutuamente: la dignità dell’individuo, infatti, consiste sia nel diritto ad una propria, personale responsabilità, che nel riconoscimento del diritto degli altri uomini ad esplicare la loro personalità e ad operare, a parità di diritti, all’organizzazione della società. Libertà, giustizia e solidarietà, quest’obbligo vicendevole che scaturisce dal comune destino, sono i valori fondamentali della volontà socialista. Il socialismo democratico, che in Europa affonda le proprie radici nell’etica cristiana, nell’umanesimo e nella filosofia classica, non ha la pretesa di an-

303

IL LAVORATORE RITROVATO

nunciare verità supreme e ciò non per mancanza dì comprensione, ne per indifferenza riguardo alle diverse concezioni della vita o verità religiose, bensì per rispetto delle scelte dell’individuo in materia di fede, scelte sul cui contenuto non devono arrogarsi il diritto di decidere né un partito politico, né lo Stato. Il Partito socialdemocratico tedesco è il partito della libertà dello spirito. Esso è composto di uomini provenienti da diversi indirizzi religiosi ed ideologici, uomini la cui intesa si fonda sulla comunanza dei valori etici fondamentali e sulla identità degli obiettivi politici. Il Partito socialdemocratico tedesco propugna un ordinamento sociale ispirato a questi valori fondamentali. Il socialismo, missione continua Il socialismo è una missione continua volta alla conquista della libertà e della giustizia, alla loro tutela ed al loro consolidamento. L’adesione al socialismo democratico implica alcune rivendicazioni fondamentali, che devono essere soddisfatte in una società civile. Tutti i popoli devono sottomettersi ad un ordinamento giuridico internazionale che disponga di un adeguato potere esecutivo. La guerra non dev’essere uno strumento della politica. Tutti i popoli devono avere le medesime possibilità di partecipare al benessere nel mondo. I Paesi in fase di sviluppo hanno diritto alla solidarietà degli altri popoli. Noi lottiamo per la democrazia, che deve divenire la forma d’organizzazione statuale e sociale generalmente ammessa, in quanto essa sola è l’espressione del rispetto per la dignità della persona umana e la responsabilità dell’individuo. Noi ci opponiamo ad ogni dittatura, a qualsiasi genere di dominazione totalitaria ed autocratica, perché esse non rispettano la dignità dell’individuo, ne annullano la libertà ed infirmano il diritto. Un solo strumento: la democrazia Il socialismo si attua solo attraverso la democrazia e la democrazia attraverso il socialismo.Tutti i popoli devono avere le medesime possibilità di partecipare al benessere del mondo. A torto i comunisti si richiamano a tradizioni socialiste. In verità, essi hanno falsato il patrimonio ideologico socialista. Mentre i socialisti operano per la libertà e la giustizia, i comunisti sfruttano le divisioni

304

LA RIVOLUZIONE SOCIALDEMOCRATICA

sociali per instaurare la dittatura del loro partito. Nello Stato democratico, qualsiasi autorità deve sottoporsi al pubblico controllo e l’interesse della collettività deve prevalere sull’interesse del singolo. Invece, in un’economia e in una società governate da ideali di lucro e di potenza, la democrazia, la sicurezza sociale e la libertà della persona umana sono pregiudicate. Il socialismo democratico auspica pertanto un nuovo ordinamento economico e sociale. Vanno aboliti tutti i privilegi per quanto concerne l’accesso ad istituti scolastici. Ognuno deve potersi affermare solo con il proprio ingegno e le proprie capacità. La libertà e la giustizia non possono essere tutelate unicamente da istituzioni. A seguito del processo di organizzazione e meccanizzazione in atto su scala sempre più vasta in tutti quanti i settori, vengono a crearsi sempre nuovi vincoli di dipendenza che rappresentano una minaccia per la libertà. Solo una vita economica, sociale e culturale multiforme stimola le forze creative del singolo, senza le quali non esiste alcuna vita spirituale. Libertà e democrazia sono possibili in una società industriale solo a condizione che un numero sempre crescente di persone sviluppi una coscienza sociale e sia pronto ad assumere la parte di responsabilità che gli compete. Uno strumento decisivo a questo fine è costituito dalla formazione politica nel senso più ampio dell’accezione, obiettivo fondamentale, nel nostro tempo, dell’educazione in tutti i settori. Il Partito socialdemocratico tedesco è vivo ed operante in tutto il popolo tedesco. Esso è un fedele assertore della legge fondamentale della Repubblica Federale tedesca e rivendica nel suo spirito l’unificazione della Germania in un regime di sicura libertà. La divisione della Germania è una minaccia per la pace: porvi fine è di vitale importanza per il popolo tedesco. Infatti, solo in una Germania riunificata tutto il popolo potrà dare, con libera autodeterminazione, contenuto e forma allo Stato e alla società. La vita, la dignità e la coscienza umana sono valori che preesistono allo Stato. Lo Stato garante delle libertà di fede e coscienza Ognuno deve rispettare le convinzioni dei suoi concittadini, ma è allo Stato che compete l’obbligo di garantire la libertà di fede e di coscienza dell’individuo. Lo Stato deve creare le premesse necessarie affinchè ogni cittadino possa

305

IL LAVORATORE RITROVATO

sviluppare la propria personalità con libera autodeterminazione e senso di responsabilità sociale. I diritti fondamentali devono non solo garantire la libertà del singolo cittadino di fronte allo Stato, ma altresì contribuire alla formazione dello Stato stesso in quanto diritti che statuiscono una comunità. Come Stato sociale, esso è tenuto a prendere le misure atte a garantire l’esistenza dei suoi cittadini, per assicurare a ciascuno di essi la possibilità dì un’autodeterminazione responsabile e favorire l’evolversi di una società libera. Il Partito socialdemocratico tedesco riafferma la propria fede nella democrazia. Dalla sintesi dell’idea democratica, di quella sociale e della idea del diritto, allo Stato deriva la sua missione culturale, che serve allo spirito creativo dell’uomo ed il cui contenuto è tratto dalle forze sociali. Il Partito socialdemocratico tedesco riafferma la propria fede nella democrazia, nella quale l’autorità dello Stato discende dal popolo ed il Governo è sempre responsabile di fronte al Parlamento e consapevole della necessità di godere della fiducia di quest’ultimo. Nella democrazia, i diritti della minoranza devono essere garantiti unitamente a quelli della maggioranza. Governo ed opposizione hanno compiti diversi, situati però sullo stesso piano, e portano ambedue la responsabilità dello Stato. Il Partito socialdemocratico tedesco vuole, in competizione su un piano di perfetta uguaglianza con gli altri partiti democratici, conquistare la fiducia della maggioranza della popolazione, per dare allo Stato ed alla società una struttura conforme alle rivendicazioni fondamentali del socialismo democratico. Divisione dei poteri, libertà del cittadino Il potere legislativo, il Governo e la magistratura sono tenuti, ciascuno nel proprio ambito, ad operare per il bene della collettività. La divisione dei poteri tra Federazione, Lender e Comuni tende a ripartire il potere, rinsaldare la libertà ed offrire al cittadino molteplici possibilità di accedere alle istituzioni democratiche grazie al suo diritto di partecipare alle decisioni ed alla responsabilità comuni. Liberi comuni sono indispensabili per una vitale democrazia. Pertanto, il Partito socialdemocratico tedesco sostiene i principi delle libertà dei Comuni e della loro autonomia amministrativa, che devono essere ulteriormente perfezionate e garantite anche sul piano finanziario.

306

LA RIVOLUZIONE SOCIALDEMOCRATICA

I parlamenti, la pubblica amministrazione e la magistratura non devono subire l’influenza unilaterale di gruppi di interessi. Le organizzazioni, nelle quali si riuniscono uomini di gruppi e classi sociali diversi, per comuni obiettivi, sono istituzioni necessarie in una società moderna. Esse devono essere rette da uno statuto democratico. Quanto più esse sono potenti, tanto maggiore è la loro responsabilità e, in pari tempo, il rischio di un abuso di potere. I Parlamenti, la pubblica amministrazione e la magistratura non devono subire l’influenza unilaterale di gruppi di interesse. La stampa, la radio, la televisione ed il cinema assolvono compiti di pubblica utilità. Essi devono, in piena libertà ed indipendenza, poter raccogliere, elaborare e diffondere informazioni ovunque senza ostacoli, nonché formare ed esprimere opinioni sotto la propria responsabilità. La radio e la televisione devono conservare il loro carattere di enti di diritto pubblico, essere gestite in uno spirito libero e democratico, ed essere tutelate contro le pressioni dei gruppi di interesse. Per poter servire esclusivamente la Giustizia, in nome del popolo, i giudici devono godere di piena libertà interna ed esterna. Alla amministrazione della giustizia devono essere chiamati a partecipare, con medesimi diritti, anche giudici onorari. Solo giudici indipendenti possono emettere sentenze penali. Una posizione di supremazia o di inferiorità in campo economico non deve influenzare minimamente l’iter legale o la giurisprudenza. Le leggi devono essere tempestivamente adeguate all’evoluzione sociale per non essere in contrasto con la coscienza morale e per contribuire all’attuazione dell’idea del diritto. Il Partito socialdemocratico tedesco lotta per la difesa del libero ordinamento democratico e riafferma il principio della difesa del territorio nazionale. La difesa del territorio nazionale deve tener conto della posizione politica e geografica della Germania e rimanere pertanto nei limiti che devono essere rispettati perché si possano creare le premesse necessarie ai fini di una distensione internazionale, di un efficace disarmo controllato e della riunificazione della Germania. La difesa della popolazione civile è parte essenziale ed integrante della difesa nazionale. Il Partito socialdemocratico sostiene, alla luce del diritto delle genti, la necessità di mettere al bando in tutto il mondo i mezzi per lo sterminio di massa. La Repubblica federale di Germania non deve produrre né impiegare armi atomiche ed altri

307

IL LAVORATORE RITROVATO

mezzi di sterminio di massa. Il Partito socialdemocratico propugna l’inclusione di tutta quanta la Germania in una zona europea di distensione, nella quale gli armamenti siano soggetti a limitazione controllata e dalla quale dovranno essere sgomberate, nel corso della ricostituzione dell’unità tedesca in regime di libertà, le truppe straniere. Abolizione dei mezzi di sterminio In questa zona, la fabbricazione, il deposito e l’impiego delle armi atomiche e di altri mezzi di sterminio dovranno essere aboliti. Le forze armate devono essere subordinate alle direttive politiche del Governo e sottostare al controllo del Parlamento. I rapporti fra esercito e tutte le forze popolari democratiche devono essere improntati a reciproca fiducia. Anche in uniforme il soldato rimane un cittadino. Il Partito socialdemocratico propugna l’inclusione di tutta la Germania in una zona europea di distensione. Le forze armate devono essere impegnate unicamente per la difesa del territorio nazionale. Il Partito socialdemocratico tedesco chiede un disarmo generale e controllato ed un ordinamento giuridico internazionale dotato di propri mezzi di coazione, in grado di sostituire le forze armate nazionali. La politica socialdemocratica persegue in campo economico il raggiungimento di un benessere sempre crescente, una equa partecipazione di tutti al prodotto sociale, una vita nella libertà senza inique dipendenze e senza sfruttamento. La seconda rivoluzione industriale crea le premesse per accrescere in misura maggiore del passato il livello generale di vita, e per eliminare il bisogno e la miseria che affliggono ancora molti uomini. Garantire la piena occupazione La politica economica, sulla base di una moneta stabile, deve assicurare la piena occupazione, accrescere la produttività economica ed aumentare il benessere generale. Per rendere partecipi tutti gli uomini del crescente benessere, l’economia deve essere adeguata programmaticamente agli incessanti mutamenti strutturali, allo scopo di raggiungere un equilibrato sviluppo economico. Tale politica comporta l’esigenza di una contabilità nazionale e di bi-

308

LA RIVOLUZIONE SOCIALDEMOCRATICA

lancio economico nazionale. Il bilancio nazionale viene definito dal Parlamento. Esso è vincolante per la politica governativa, costituisce una importante base per la politica autonoma della banca d’emissione ed offre un orientamento ai vari settori economici, che mantengono il diritto di orientarsi liberamente. Lo Stato moderno influisce costantemente sull’economia attraverso le sue decisioni in materia fiscale, finanziaria, monetaria e creditizia, mediante la sua politica doganale, commerciale, sociale e dei prezzi, attraverso le sue commesse pubbliche e attraverso la politica agricola ed edilizia. Più di un terzo del prodotto sociale passa in tal modo attraverso l’amministrazione pubblica. Non si tratta quindi di valutare se nell’economia siano opportune programmazioni e pianificazioni, ma di sapere chi impartisce le direttive e a favore di chi esse agiscono. Lo Stato non può sottrarsi a tale responsabilità in campo economico. Esso è responsabile di una politica congiunturale preveggente e deve limitarsi, sostanzialmente, a influire indirettamente sulla economia. La libera scelta dei consumatori e la libera scelta del posto di lavoro sono il fondamento essenziale della politica economica socialdemocratica, mentre la libera concorrenza e la libera iniziativa imprenditoriale sono elementi importanti di essa. L’autonomia delle associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro nella conclusione di contratti collettivi di lavoro costituisce un elemento fondamentale di un libero ordinamento. L’economia totalitaria annienta la libertà. Per questo motivo il Partito socialdemocratico tedesco approva la libera economia di mercato ovunque esista effettivamente la concorrenza. Nel caso in cui taluni mercati cadano sotto il dominio di singoli o di gruppi, si rendono però necessarie molteplici misure per ristabilire la libertà economica (concorrenza in tutta la misura del possibile) e la pianificazione nella misura del necessario. La libertà di concorrenza L’economia moderna è caratterizzata essenzialmente da un sempre crescente processo di concentrazione. La grande industria non solo determina in modo decisivo lo sviluppo dell’economia e il livello di vita, ma trasforma anche la struttura della economia e della società. Chi nelle grandi organizzazioni economiche dispone di capitali molto ingenti e di decine di migliaia di lavoratori

309

IL LAVORATORE RITROVATO

non amministra solamente, ma esercita un dominio sugli uomini; la dipendenza dei lavoratori e degli impiegati supera ampiamente il concetto di economia in senso materiale. Chi non dispone della stessa potenza non ha le stesse possibilità di sviluppo e la sua libertà è sempre più o meno limitata. La posizione più debole nella vita economica è quella del consumatore come tale. I dirigenti dei grandi complessi economici, con la loro potenza, maggiormente accresciuta attraverso cartelli e trusts, acquistano un potere d’agire sullo Stato e sulla politica che non si concilia con i principi democratici. Essi usurpano il potere dello Stato. La potenza economica si trasforma in potenza politica. Questa evoluzione è una sfida a tutti coloro che ritengono fondamento della società la libertà e la dignità umana, la giustizia e la sicurezza sociale. Moderare la potenza della grande industria è perciò compito centrale di una politica economica di libertà. Stato e società non devono essere asserviti a potenti gruppi di interessi. Efficaci controlli pubblici devono impedire gli abusi del potere economico. La proprietà privata dei mezzi di produzione ha diritto di essere difesa nella misura in cui non intralci lo sviluppo di un equilibrato ordinamento sociale. Le medie e piccole imprese produttive devono essere rafforzate affinchè possano sostenere il confronto economico con le grandi imprese. Lo Stato nell’economia di mercato La concorrenza condotta mediante imprese pubbliche è un mezzo decisivo per prevenire un predominio privato sul mercato. Attraverso tali imprese debbono prevalere gli interessi della collettività. Esse si rendono necessarie là dove, per motivi naturali o tecnici, talune prestazioni indispensabili alla collettività possono essere fornite economicamente e razionalmente solo se la concorrenza viene eliminata. Le imprese della libera economia comunitaria, che si ispirano ai bisogni e non al lucro privato, esercitano una funzione calmieratrice dei prezzi ed aiutano i consumatori. Esse assolvono una funzione preziosa nella società democratica e meritano di essere incoraggiate. Mediante un’ampia pubblicità l’opinione pubblica deve poter conoscere la struttura della potenza economica e la gestione delle grandi imprese, affinchè possa essere mobilitata contro gli abusi. Efficaci controlli pubblici devono im-

310

LA RIVOLUZIONE SOCIALDEMOCRATICA

pedire gli abusi del potere economico. I mezzi più efficaci sono il controllo degli investimenti e il controllo delle forze che dominano il mercato. Proprietà collettiva e pubblico controllo La proprietà collettiva è una forma legittima di pubblico controllo a cui nessuno Stato moderno rinuncia. Essa serve a preservare la libertà dallo strapotere delle grandi concentrazioni economiche. Nella grande industria il potere di decisione è prevalentemente affidato a dirigenti che, da parte loro, servono potenze anonime. In conseguenza la proprietà privata dei mezzi di produzione ha perso ampiamente il suo potere di disposizione. Il problema centrale del nostro tempo è quello della potenza economica. Dove non può essere assicurata una sana regolamentazione dei rapporti di forza economici, là è opportuna e necessaria la proprietà comune. Qualsiasi concentrazione di potenza economica, anche quella nelle mani dello Stato, cela in sé pericoli. La proprietà collettiva deve essere perciò organizzata secondo principi della autonomia amministrativa e del decentramento. Gli interessi degli operai e degli impiegati, nonché il pubblico interesse e quello dei consumatori, devono essere rappresentati presso i suoi organi amministrativi. Non attraverso una burocrazia centrale, ma con una cooperazione consapevole delle responsabilità di tutti gli interessati si gioverà nel migliore dei modi la comunità. Una consapevole ed equa politica dei redditi L’economia di mercato non assicura di per sé una equa ripartizione dei redditi e del patrimonio. A tal scopo è necessaria una consapevole politica del reddito e del patrimonio. Redditi e patrimoni non sono ripartiti equamente. Ciò non dipende solo dalle massicce distruzioni di patrimoni causate da crisi, guerre e inflazioni, ma è sostanzialmente la colpa di una politica economica e fiscale che favorisce la formazione di redditi e di patrimoni nelle mani di pochi e danneggia coloro che finora non posseggono un patrimonio. Il Partito socialdemocratico vuole creare condizioni di vita che permettano a tutti gli uomini di poter creare liberamente, mediante redditi crescenti, un proprio patrimonio. Ciò presuppone un costante aumento del prodotto sociale e la sua equa ripartizione.

311

IL LAVORATORE RITROVATO

Tutti gli uomini debbono poter creare liberamente, mediante redditi crescenti un proprio patrimonio. La politica dei salari e degli stipendi è un mezzo adeguato e necessario per ripartire più equamente redditi e patrimonio. Misure appropriate devono far sì che una quota adeguata del costante incremento patrimoniale delle grandi imprese venga distribuita ampiamente oppure posta al servizio della utilità comune. E un segno dei nostri tempi che il benessere privato di classi sociali privilegiate aumenti senza limiti, mentre importanti compiti comuni, soprattutto scienza, ricerca ed educazione vengono trascurati in modo indegno di una nazione civile. I principi della politica socialdemocratica in materia economica valgono anche per l’agricoltura. La struttura dell’agricoltura e la dipendenza della sua produzione da fattori naturali non influenzabili rendono necessario tuttavia misure particolari. Il Partito socialdemocratico riafferma il principio della proprietà della terra da parte di chi la coltiva. Le imprese familiari produttive devono essere protette da un moderno diritto agrario e devono essere rafforzate sul piano economico e sociale. La promozione del sistema delle cooperative è la migliore strada per accrescere la produttività delle piccole e medie imprese, salvaguardando al tempo stesso la loro autonomia. L’agricoltura deve adeguarsi alle trasformazioni strutturali della economia nel suo complesso per poter apportare il suo pieno contributo allo sviluppo economico generale e per poter assicurare un adeguato livello di vita ai lavoratori agricoli. Queste trasformazioni non verranno determinate solo dal progresso tecnico-scientifico, ma dal mutamento delle condizioni regionali nel quadro della cooperazione europea e della crescente interpenetrazione dell’economia tedesca con quella mondiale. Incoraggiare il rammodernamento dell’agricoltura e la sua produttività è un compito pubblico. La popolazione può essere solo avvantaggiata dall’integrazione in un complesso economico caratterizzato da un’alta produttività generale e da un crescente potere d’acquisto della massa. La politica di mercato e dei prezzi necessaria a garantire il reddito agricolo (ordinamento di mercato) deve tener conto degli interessi dei consumatori e dell’economia pubblica. È necessario migliorare la situazione culturale, economica e sociale di tutti i lavoratori agricoli. L’arretratezza della legislazione sociale deve essere eliminata. Tutti gli operai, gli impiegati e i funzionari hanno il diritto di riunirsi in sindacati.

312

Benvenuto, Macario e Lama in versione registratori di cassa: il disegno di prima pagina con cui “Il Mondo” illustra l’inchiesta del 22 settembre 1977 sui finanziamenti sindacali

IL LAVORATORE RITROVATO

Il lavoratore da suddito a cittadino Nell’attuale sistema economico, i lavoratori sono in potere di coloro che occupano i posti di comando nelle imprese e nelle associazioni padronali, se non oppongono la loro forza solidale e organizzata democraticamente in sindacati indipendenti allo scopo di negoziare liberamente le condizioni di lavoro. Il diritto di sciopero costituisce naturalmente un diritto fondamentale degli operai e degli impiegati. I sindacati lottano per una giusta partecipazione dei lavoratori al prodotto sociale e per il diritto ad intervenire nella determinazione del processo economico e sociale. Essi lottano per una maggiore libertà e trattano in qualità di rappresentanti di tutti i lavoratori. Essi hanno perciò una importante funzione nel continuo processo di democratizzazione. Un grande compito dei sindacati è quello di far sì che ogni lavoratore possa diventare un efficiente collaboratore e che egli possa utilizzare tale capacità. Gli operai e gli impiegati, che apportano un contributo decisivo all’economia, sono stati finora esclusi da una efficace cogestione. La democrazia postula però tale partecipazione nelle imprese e nella economia generale. La cogestione dell’industria siderurgica e carboniera è l’inizio di un rinnovamento dell’ordinamento economico e dovrà svilupparsi ulteriormente per sfociare in un’organizzazione democratica della grande industria. Si dovrà garantire la cogestione dei lavoratori, su un piano di eguaglianza, negli organi di amministrazione autonoma dell’economia. La politica sociale deve stabilire le premesse essenziali perché il singolo possa affermarsi liberamente nella società e impostare in autonoma responsabilità la propria vita. Situazioni sociali che conducono a difficoltà individuali e collettive non devono essere considerate inevitabili ed immutabili. Il sistema di sicurezza sociale deve essere commisurato alla dignità dell’uomo consapevole delle proprie responsabilità. Diritto alla pensione, diritto alla sicurezza Ogni cittadino ha diritto a percepire dallo Stato un minimo di pensione per la vecchiaia, in caso d’inabilità al lavoro o di morte di colui che gli assicura il sostentamento Ad essa si aggiungono altri diritti a pensione acquisiti individualmente. In questo modo si dovrà garantire il tenore di vita raggiunto con una

314

LA RIVOLUZIONE SOCIALDEMOCRATICA

vita di lavoro. Tutte le prestazioni sociali in danaro, nonché le pensioni agli invalidi di guerra e ai superstiti, devono essere adattate continuamente al crescente reddito del lavoro. Garantire la libertà professionale dei medici, assicurare l’assistenza La tecnica e il progresso espongono oggi la salute dell’uomo a molteplici pericoli, che minacciano non solo l’attuale generazione ma anche quelle future. Il singolo non può difendersi da questi danni: il Partito socialdemocratico esige pertanto una ampia protezione sanitaria. È necessario impostare le condizioni e le forme di vita nonché organizzare la politica sanitaria in modo da eliminare i pericoli alla salute umana. È necessario sviluppare la protezione sanitaria pubblica, soprattutto la protezione del lavoro, e metodi efficaci di previdenza e di profilassi sanitaria a favore del singolo. Appare opportuno sia destare la coscienza del dovere di aver cura della propria salute, sia consentire al medico, scelto liberamente, di impiegare qualsiasi mezzo disponibile per proteggere la salute e prevenire le malattie. Si dovrà garantire la libertà professionale dei medici, ed è un compito pubblico assicurare l’assistenza ospedaliera. L’uguale diritto alla vita di tutti gli uomini deve anche essere attuato riaffermando per ciascuno, in caso di malattia, il diritto incondizionato a godere, indipendentemente dalle proprie possibilità economiche, di tutti i mezzi terapeutici che oggi la scienza medica è in grado di offrire. L’assistenza medica liberamente scelta deve essere integrata, in caso di malattia, da una completa compensazione economica. Lasciando immutati i redditi, la durata del lavoro deve essere abbreviata progressivamente nella misura resa possibile dallo sviluppo economico. Al fine di superare particolari difficoltà e situazioni di bisogno le prestazioni sociali generali devono essere integrate da servizi e prestazioni assistenziali individuali degli enti di sicurezza sociale, che si aggiungono a quelli delle libere associazioni di previdenza sociale, delle organizzazioni di mutuo soccorso e delle associazioni filantropiche. Sarà necessario tutelare l’indipendenza della libera previdenza sociale. Un codice del lavoro, un codice sociale Ciascuno ha diritto a una casa decorosa. Tutta la legislazione sociale e del lavoro deve essere riordinata in maniera chiara e unitaria in un codice del lavoro

315

IL LAVORATORE RITROVATO

e in un codice sociale. Ciascuno ha diritto ad una abitazione decorosa, che è il domicilio della famiglia. Essa perciò deve godere permanentemente della protezione sociale, e non deve essere abbandonata alle mire del guadagno privato. La politica degli alloggi, della costruzione e delle aree deve porre rimedio in modo sollecito alla penuria di alloggi. La costruzione sociale di alloggi deve essere incoraggiata e si deve agire sui canoni di locazione da un punto di vista sociale. Si dovranno vietare le speculazioni sulle aree e sottoporre a prelievi fiscali i profitti ingiustificati provenienti dalla vendita dei terreni. La parità di diritti della donna deve essere attuata realmente in senso giuridico, sociale ed economico. Alla donna devono essere offerte possibilità pari a quelle dell’uomo in materia di educazione e formazione, scelta della professione, attività professionale e trattamento economico. La parità di diritti non deve annullare il rispetto delle peculiarità psicologiche e biologiche della donna. Il lavoro domestico deve essere riconosciuto come attività professionale. È necessario assistere particolarmente le casalinghe e le madri. Le madri di figli in età prescolastica, o soggetti all’obbligo scolastico, non devono vedersi costrette, per motivi economici, a procacciarsi una attività esterna. Stato e società devono proteggere, favorire e rafforzare la famiglia. Nella sicurezza materiale della famiglia vi è il riconoscimento del suo valore ideale. Una compensazione degli oneri familiari per il tramite del sistema fiscale, assistenza alla maternità e assegni familiari devono proteggere efficacemente la famiglia. Alla gioventù deve essere data la possibilità di orientare autonomamente la propria vita e di prepararsi alle sue responsabilità future nei confronti della comunità. Stato e società hanno perciò il compito di rafforzare il potere educativo della famiglia, di integrare la sua opera in quei campi in cui essa non può agire e di sostituirla nei casi necessari. Lo sviluppo delle capacità professionali dei giovani rende necessario un sistema di sovvenzioni generali all’educazione e alla formazione. La Spd, la collaborazione con le chiese e le comunità religiose La protezione dei giovani lavoratori deve essere adattata alla evoluzione delle condizioni sociali e delle esperienze pedagogiche. Se si richiamerà la gioventù in tempo utile alla collaborazione e alla corresponsabilità, in un

316

LA RIVOLUZIONE SOCIALDEMOCRATICA

clima di fiducia, la democrazia potrà giovarsi di cittadini ricchi di idee e di volontà. La soddisfazione del diritto all’educazione e all’assistenza per Io sviluppo della personalità deve essere garantita da una legislazione progressista a favore dei giovani. In tutti i settori della esistenza concernenti l’educazione, la promozione e la protezione della gioventù si deve garantire che il bene della gioventù preceda qualsiasi altra considerazione. Le forze creative dell’uomo devono potersi esplicare liberamente nell’ambito di una vita culturale caratterizzata dalla ricchezza e dalla vivacità dei suoi molteplici aspetti. La politica dello Stato sul piano culturale ha il dovere di incoraggiare e favorire tutte le forze capaci di apportare un contributo a questa cultura. Lo Stato deve proteggere tutti i cittadini da quei gruppi di potere e di interessi che vogliono assoggettare la vita spirituale ai propri scopi. Solo una reciproca tolleranza, che rispetti in eguale misura la dignità dell’essere umano anche in chi è di diverse convinzioni e di religione diversa, offre una solida base ad una convivenza feconda in senso umano e politico. Il socialismo non è un surrogato della religione. Il Partito socialdemocratico tedesco rispetta le Chiese e le comunità religiose, il loro compito particolare e la loro autonomia. Esso garantisce la tutela di diritto pubblico loro accordata. Il Partito socialdemocratico è sempre pronto a collaborare con le Chiese e le comunità religiose nello spirito di una libera partnership. Si rallegra che il vincolo della religione determini negli individui l’accettazione dell’impegno ad agire in senso sociale e ad assumere la propria responsabilità nella società. La libertà di pensiero, di fede e di coscienza, come pure la libertà di manifestare le proprie opinioni, dovranno essere garantite. La manifestazione di principi religiosi o ideologici non deve essere sfruttata per scopi di politica, di partito o antidemocratici. Insegnare, formare, educare Educazione ed istruzione devono dare a tutti gli uomini la possibilità di sviluppare liberamente i loro talenti e le loro capacità, e incoraggiarli a resistere alle tendenze conformistiche della nostra epoca. La conoscenza e l’assimilazione dei valori culturali tradizionali e l’intima comprensione delle forze formative che agiscono nella vita sociale di oggi sono i fondamenti di un pensiero indipendente e di una libera capacità di giudizio. Nelle scuole e nelle univer-

317

IL LAVORATORE RITROVATO

sità, la gioventù deve essere educata insieme, nello spirito di reciproca stima, alla libertà, all’autonomia, alla consapevolezza della responsabilità sociale ed agli ideali della democrazia e della comprensione tra i popoli, perché possa acquisire, nella nostra società permeata di varie e diverse convinzioni politiche e ordini di valori, una mentalità e un atteggiamento basati sulla comprensione, la tolleranza e la solidarietà. A questo fine, è necessario che in tutti i programmi scolastici venga tenuto adeguato conto dell’educazione civica quale materia di insegnamento. Un posto centrale nell’istruzione spetta all’educazione artistica e all’attività artigianale. Lo Stato e la società hanno il dovere di renderle accessibili e familiari a tutto il popolo, organizzando convenientemente l’istruzione, l’arte e l’attività in tutti i campì dell’arte. Lo sport e l’educazione fisica devono ricevere largo incremento da parte dello Stato e della società. Essi giovano alla salute del singolo individuo e sono essenziali alla formazione dello spirito di solidarietà. La scuola deve essere gratuita In tutte le scuole si dovrà meglio organizzare la cooperazione dei genitori all’educazione scolastica e una partecipazione degli allievi all’amministrazione. L’ordinamento scolastico e i programmi d’insegnamento devono essere tali da consentire un adeguato esplicarsi dei vari talenti in tutte le fasi dello sviluppo. A chiunque abbia attitudine allo studio deve essere sempre aperto l’accesso a scuole di ordine superiore e istituti di perfezionamento. La frequenza di tutte le scuole pubbliche, università e istituti universitari deve essere gratuita. Parimenti gratuito sarà in tali scuole l’uso dei mezzi didattici messi a disposizione degli allievi. L’istruzione obbligatoria generale deve essere portata a dieci anni. Le scuole d’avviamento professionale non si limiteranno all’insegnamento delle discipline tecniche bensì cureranno anche l’istruzione generale e l’educazione civica. È indispensabile aprire nuove vie d’accesso agli istituti universitari. Poiché il curriculum abituale degli studi, attraverso la scuola elementare e le scuole medie, non permette di valorizzare tutti i giovani effettivamente capaci, devono essere create nuove possibilità di adire l’Università percorrendo una seconda via attraverso l’esercizio dell’attività professionale, le scuole professionali e altre istituzioni particolari. Tutti gli inse-

318

LA RIVOLUZIONE SOCIALDEMOCRATICA

gnanti devono essere addestrati in istituti di ordine universitario. Un buon sistema scolastico richiede che gli educatori abbiano una personalità pedagogica, e siano capaci di discutere con autonomia di giudizio critico tutti i problemi dell’epoca. La ricerca e l’insegnamento scientifico devono essere liberi. I loro risultati devono essere accessibili al pubblico. Saranno messi a disposizione della ricerca e dell’insegnamento scientifico mezzi pubblici adeguati. Lo Stato ha l’obbligo di provvedere a che non si faccia uso a danno dell’umanità dei risultati della ricerca scientifica. Un Consiglio indipendente delle ricerche deve aiutare sotto la propria responsabilità i ricercatori a porsi ed a risolvere i compiti di volta in volta più importanti. Da questo programma d’incremento della ricerca scientifica non dovrà essere escluso nessun campo della scienza. La necessità di risolvere i problemi politici, umani e sociali connessi con la crescente evoluzione della società industriale, e la necessità di salvaguardare in essa la libertà dell’uomo, esigono l’ulteriore sviluppo e l’approfondimento della scienza dell’uomo e della società. Gli sforzi compiuti in questo campo devono essere pari per intensità a quanto viene realizzato per lo sviluppo delle scienze naturali e della tecnica. Università libere e indipendenti La libertà e l’indipendenza delle università e di tutti gli istituti di ordine universitario rimangono intangibili. Le università, tuttavia, non possono isolarsi dalla realtà della vita che le circonda; esse dovrebbero perciò collaborare strettamente con altre istituzioni della società democratica, soprattutto con le organizzazioni per l’istruzione post-scolastica degli adulti. Aiuti su larga scala devono assicurare agli studenti la possibilità di perfezionare la loro formazione scientifica. A tutti dovranno essere trasmesse le nozioni fondamentali del gruppo delle scienze politiche e sociali. Una moderna organizzazione di insegnamento post-scolastico per adulti deve permettere di sviluppare la capacità di giudizio e di acquisire le cognizioni e le capacità indispensabili per un agire conscio delle proprie responsabilità nello Stato democratico. All’attività artistica dovrà essere concessa piena libertà. Lo Stato ed i comuni sono tenuti a fornire tutti i mezzi atti a favorire la produttività artistica ed a rendere acces-

319

IL LAVORATORE RITROVATO

sibili i valori culturali in tutti i campi dell’arte. L’esplicazione dell’attività artistica non deve subire restrizioni da parte di alcuna norma, e in particolar modo non essere soggetta a nessun genere di censura. Patrocinare il diritto di tutti gli uomini alla loro patria, lingua, cultura e tradizioni. Il compito più importante e più urgente è quello di mantenere la pace e di garantire la libertà. Il socialismo democratico si è sempre ispirato all’idea della collaborazione e della solidarietà internazionale. In un’epoca in cui tutti gli interessi e le relazioni si intrecciano su un piano internazionale, nessun popolo può più risolvere per sé solo i suoi problemi politici, economici, sociali e culturali. Il Partito socialdemocratico tedesco è guidato dall’idea che i compiti culturali, economici, giuridici e militari della politica tedesca debbono essere assolti in stretto collegamento con gli altri popoli. È indispensabile mantenere relazioni diplomatiche e commerciali normali con tutte le nazioni, prescindendo dai loro sistemi di governo e dalle loro strutture sociali. Corti internazionali d’arbitrato, procedure compromissorie, diritto di autodeterminazione e parità di diritti fra tutti i popoli, inviolabilità dei territori nazionali e non-intervento negli affari interni degli altri popoli devono assicurare la pace, garantita da un’organizzazione mondiale. Tutti gli uomini hanno diritto a una patria Le Nazioni Unite dovranno diventare veramente quell’organizzazione mondiale generale a cui mirava l’idea che ha dato loro vita. I loro principi dovranno avere carattere vincolante per tutti. È indispensabile che si elabori un diritto dei gruppi etnici, in armonia con i diritti universali dell’uomo proclamati dalle Nazioni Unite. Il Partito socialdemocratico tedesco patrocina il diritto di tutti gli uomini alla loro patria, lingua, cultura e tradizioni. Come primi passi sulla via di un disarmo generale e della distensione nelle relazioni internazionali devono essere istituiti sistemi di sicurezza regionale nell’ambito delle Nazioni Unite. La Germania unificata dovrà divenire membro di un sistema europeo di sicurezza, con tutti i diritti e i doveri che tale posizione comporta. L’evoluzione economica impone la collaborazione fra gli Stati europei. Il Partito socialdemocratico tedesco approva questa collaborazione, che deve favorire in modo particolare il progresso economico e sociale. Co-

320

LA RIVOLUZIONE SOCIALDEMOCRATICA

munità sovra-nazionali limitate a determinati Paesi non devono condurre ad un isolamento nei riguardi del mondo esterno. La collaborazione a parità di diritti e un commercio mondiale aperto a tutte le nazioni sono il presupposto di una convivenza pacifica. Gli Stati democratici devono manifestare la loro solidarietà soprattutto verso i Paesi in fase di sviluppo. Ancora oggi più della metà della popolazione del mondo vive in estrema povertà e ignoranza. Fino a che non si attuerà una nuova distribuzione delle ricchezze mondiali, e la produttività dei Paesi in fase di sviluppo non sarà potenziata in maniera notevole, l’evoluzione democratica continua ad essere minacciata e la pace incerta. Tutti i popoli hanno il dovere di unirsi nel tentativo di combattere la fame, la miseria e le epidemie. I Paesi in fase di sviluppo hanno diritto ad aiuti generosi ed incondizionati. Il loro sviluppo economico, sociale e culturale deve ispirarsi alle idee del socialismo democratico perché essi non ricadano sotto nuove forme di oppressione. Il movimento socialista adempie ad un compito storico. Esso si è iniziato come protesta naturale e morale dei lavoratori salariati contro il sistema capitalistico. Il possente sviluppo delle forze produttive ad opera della scienza e della tecnica aveva procurato ad un esiguo ceto sociale ricchezza e potenza, ai lavoratori salariati in un primo tempo nient’altro che indigenza e miseria. Abolire i privilegi, dare libertà e giustizia Abolire i privilegi della classe dirigente e concedere agli uomini libertà, giustizia e benessere: questo era ed è tuttora il significato del socialismo. Nella sua lotta, la classe lavoratrice poteva contare soltanto su se stessa. La sua coscienza di classe fu ridestata dal riconoscimento della propria situazione, dalla decisa volontà di modificarla, dalla solidarietà delle sue azioni e dai successi tangibili che riportava nella lotta. Nonostante gravi rovesci e taluni errori, il movimento dei lavoratori è riuscito ad ottenere nel XIX e nel XX secolo il riconoscimento di molte sue rivendicazioni. Il proletario di un tempo, privo di qualsiasi diritto e protezione, che doveva tribolare sedici ore al giorno per un salario da fame, ha ottenuto la giornata lavorativa legale di otto ore, la tutela del lavoro, l’assicurazione contro la disoccupazione, la malattia, l’invalidità e la vecchiaia. Ha ottenuto che fosse vietato il lavoro dei fanciulli e il lavoro

321

IL LAVORATORE RITROVATO

notturno delle donne, ha ottenuto la protezione dell’infanzia e della maternità e le ferie retribuite. Si è conquistato con la sua lotta la libertà di riunione, il diritto di organizzazione sindacale, il diritto di negoziare i contratti collettivi e il diritto di sciopero, e sta per affermare definitivamente il suo diritto alla cogestione. Colui che un tempo era semplicemente un oggetto dello sfruttamento capitalistico, occupa oggi nella società il suo posto di libero cittadino, a parità di diritti e di doveri. Il comunismo soffoca la libertà I comunisti soffocano la libertà in modo radicale. In alcuni Paesi d’Europa retti da governi socialdemocratici sono già state poste le fondamenta di una nuova società. La sicurezza sociale e la democratizzazione dell’economia vengono attuate in misura sempre crescente. Questi successi sono pietre miliari che segnano il cammino ricco di sacrifici del movimento dei lavoratori. Nel suo graduale processo di liberazione esso ha servito la causa della libertà di tutti gli uomini. Da partito della classe lavoratrice il Partito socialdemocratico è divenuto un partito del popolo; esso vuole che le forze scaturite dalla rivoluzione industriale e dalle tecniche moderne siano messe al servizio della libertà e della giustizia per tutti. Le forze sociali che avevano costruito il mondo capitalistico non sono in grado di assolvere questo grande compito della nostra epoca. La sua storia è l’espansione di un grandioso sviluppo tecnico ed economico, ma anche una catena di guerre devastatrici, una immane disoccupazione delle masse, inflazioni esproprianti e insicurezza economica. Socialismo è rispetto per la dignità umana Le vecchie forze si rivelano oggigiorno incapaci di fronteggiare la sfida brutale del comunismo rispondendo con un programma superiore, il programma di un nuovo ordine di libertà e di autodeterminazione politica e personale, di sicurezza economica e di giustizia sociale. Perciò non possono neppure soddisfare alle richieste pressanti di aiuti solidali rivolte dai giovani Stati, che infrangono oggi il giogo dello sfruttamento coloniale e intendono costruire in libertà il loro avvenire nazionale e partecipare al benessere del mondo. Questi Stati tentano di resistere alle lusinghe dei comunisti che si adoprano per at-

322

LA RIVOLUZIONE SOCIALDEMOCRATICA

trarli nell’ambito del loro dominio. I comunisti soffocano la libertà in modo radicale. Essi violentano i diritti dell’uomo e il diritto di autodeterminazione delle persone e dei popoli. Contro la loro potente organizzazione si sollevano oggi in misura sempre crescente anche gli stessi cittadini dei Paesi a governo comunista. Anche qui si verificano trasformazioni. Anche qui cresce l’aspirazione alla libertà, che a lungo andare nessun dominio può più tenere a freno completamente. Ma i despoti comunisti combattono per imporre il loro regime. Sulla schiena dei loro popoli essi edificano una potenza economica e militare che si trasforma in una crescente minaccia per la libertà. I valori del socialismo democratico. Perciò la speranza del mondo è un ordine fondato sui valori sostanziali del socialismo democratico, che intende creare una società civile nel rispetto della dignità umana, una società libera dall’indigenza e dal timore, da guerre ed oppressioni, in unità di intenti con tutti gli uomini di buona volontà. Uomo o donna, ciascuno è chiamato a collaborarvi, in tutti i Paesi del mondo. In terra tedesca i socialisti si riuniscono nel Partito socialdemocratico tedesco, che accoglie nelle sue file chiunque affermi la sua fede nei valori e nelle esigenze fondamentali del socialismo democratico.

323

9 febbraio 1977: l’Italia è in bolletta, il salvadanaio (con il volto di Andreotti) vuoto e lesionato; Luciano Lama richiama Giorgio Benvenuto con una tirata d’orecchio sulla questione dell’austerità

Roosevelt, John e Bob Kennedy, Navigare nella Tempesta “Non vi è nulla di più straordinario della decisione di emigrare, nulla di più straordinario della ridda di emozioni e pensieri che inducono infine una famiglia a dire addio ai vecchi legami e ai luoghi familiari, a solcare le scure acque dell'oceano per approdare in una terra straniera. Oggi, in un'epoca in cui grazie ai mezzi di comunicazione di massa a un capo del mondo si sa tutto ciò che accade all'altro, non è difficile capire come la povertà o la tirannia possa spingere una persona a lasciare il proprio paese per un altro. Ma secoli fa l'emigrazione era un salto nel buio, era un investimento intellettuale ed emotivo enorme. Le forze che indussero i nostri antenati a quella decisione estrema – lasciare la propria casa e intraprendere un'avventura gravida di incognite, rischi e immense difficoltà – dovevano essere soverchianti”. John Fitzgerald Kennedy cominciò a scrivere questo saggio alcuni anni prima dell'elezione alla presidenza degli Stati Uniti d'America. Quelle parole assumono un valore ancora più alto in un momento come questo e in un Paese come il nostro che con le urgenze dell'integrazione non ha fatto ancora i conti, che si è fatto incantare dalla predicazione schiettamente xenofoba di forze politiche che sono arrivate anche al Governo spinte dalla pancia di un Paese che si è cullato nel vecchio e consolatorio adagio “italiani brava gente” senza rendersi conto che, nel frattempo, qualcosa di pericoloso cresceva e si radicava, si diffondeva e si trasformava: prima erano i cartelli “non si fitta ai meridionali”, quindi le esortazioni sintetizzate in “forza Etna” e forza Vesuvio” e adesso si trasformano negli inviti rivolti agli extracomunitari a tornare nel loro Paese d'origine essendo da alcuni (per fortuna non da molti o da tutti) considerati la causa di tutti i nostri mali. Eppure basterebbe poco per rendersi conto del contributo che questi lavoratori venuti da lontano, dopo aver adottato, come scriveva Kennedy, “una decisione estrema”, garantiscono, in una società a bassa crescita demografica, ad esempio all'equilibrio dei conti del sistema

325

IL LAVORATORE RITROVATO

previdenziale; o, ancora, al contributo che forniscono nella continuazione di mestieri particolarmente disagiati che gli italiani non vogliono più fare (o che hanno riscoperto solo da poco, sotto la pressione della crisi e della mancanza di opportunità occupazionali). Erano concetti “alti” quelli di Kennedy, concetti che assecondarono le spinte del movimento per i diritti civili, che portò all'eliminazione di diverse leggi razziali da parte di JFK e, ancor di più, di Lindon B. Johnson, presidente sottovalutato perché schiacciato sotto il peso storico dell'attentato mortale di Dallas e sotto quello della personalità dell'uomo che alla Casa Bianca lo aveva preceduto. Fu una scelta non semplice perché portò alla rottura di una coalizione elettorale che da Franklin Delano Roosevelt aveva retto le sorti d'America, l'alleanza del New Deal a cui partecipavano le popolazioni del Sud (oltre che i sindacati). Perché governare comporta dei costi, perché governare non significa solo subire la volontà della maggioranza (o inseguire la volontà della maggioranza) ma creare un fiume di consenso che prima può essere un fiume carsico per apparire in superficie solo in un secondo momento. Rileggere oggi quel che, in epoche diverse, dicevano Roosevelt e Kennedy può essere utile per capire che le sfide vanno affrontate non subìte come un castigo divino, che governare è un lavoro molto complesso (a dispetto di quello che certi atteggiamenti, certe scelte, anche certi successi elettorali sembrano dire) che impone non solo competenza e probità ma anche coraggio. Davanti a una nazione stremata dalla Grande Depressione, a un presidente, Herbert Hoover, sconfitto non tanto dalle urne quanto dalla drammaticità della crisi, da una disoccupazione al venticinque per cento, da una povertà crescente, Roosevelt usò parole semplicissime: “Non c'è nulla di cui aver paura se non della paura stessa”. Eppure, intorno aveva il deserto economico. Il 24 ottobre (un giovedì per gli americani, un venerdì per gli europei) del 1929 la Borsa aveva subìto un crollo senza precedenti, bissato il lunedì successivo (tredici per cento) e moltiplicato per tre ventiquattro ore dopo (dodici per cento); in quella bufera fallirono quattromila istituti di credito, uno su due. L'anima di quel Paese era nelle parole di Woody Guthrie: “Una bella mattina di sole all'ombra del campanile / vidi la mia gente davanti all'Ufficio Assistenza/ loro erano lì affamati,

326

R O O S E V E LT E K E N N E D Y

io ero lì che mi chiedevo se/ questa terra è stata creata per te e per me” (This Land Is Your Land). Roosevelt restituì la fiducia a quel Paese stremato riformando il sistema bancario (Glass-Steagall Act), regolando il mercato dei titoli (Securities act e Security exchange act), impiegando tre milioni di disoccupati in lavori socialmente utili (il tasso di disoccupazione in tre anni scese al dieci per cento, la produzione industriale aumentò in quattro mesi del 57 per cento). Abbiamo voluto riprodurre il discorso di insediamento che Franklin Delano Roosevelt ha pronunciato il 4 marzo del 1933 e quello di accettazione della candidatura alla presidenza degli Stati Uniti d'America pronunciato da JFK nel luglio del 1960 alla Convention democratica. Momenti diversi ma ugualmente difficili, turbolenti. Momenti in cui bisogna navigare in un mare in tempesta, senza farsi travolgere dalle onde. Gli stessi momenti che dal 2008 stanno attraversando il Mondo, l'Europa e, soprattutto, l'Italia. Peccato, però, che la citazione che in queste fasi sia venuta più rapidamente alla mente sia quella di Dante Alighieri: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincia, ma bordello”. E tornano in mente anche le parole che il 26 giugno del 1963 John Fitzgerad Kennedy pronunciò a Berlino davanti a un muro che spaccava il mondo anche da un punto di vista squisitamente edilizio: “Duemila anni fa il maggior vanto era poter dire “civis romanus sum”. Oggi nel mondo della libertà il maggior vanto è poter dire “Ich bin ein Berliner “... Tutti gli uomini liberi, ovunque vivano, sono cittadini di Berlino, ed è per questo che, da uomo libero, sono fiero di poter dire: “Ich bin ein Berliner”. Ma abbiamo voluto riprodurre anche il discorso di Bob Kennedy sul Pil perché quasi mezzo secolo fa il fratello di John poneva all’attenzione dell apubblica opinione un tema che oggi il Premio Nobel, Joseph E. Stiglitz, ripropone con forza: l’inadeguatezza del Prodotto Interno Lordo come unità di misura del benessere collettivo.

327

IL LAVORATORE RITROVATO

IL DISCORSO DI INSEDIAMENTO di Franklin Delano Roosevelt ALLA PRESIDENZA DEGLI STATI UNITI (Washington, 4 marzo 1933) Questo è per me giorno di consacrazione alla Nazione, e sono certo che i miei concittadini americani si attendono che, sul punto di insediarmi alla Presidenza, io mi rivolga a loro col candore e con la decisione che la situazione presente del nostro popolo rendono necessari. Ritengo che questo sia soprattutto il tempo di dire la verità, tutta la verità, con sincerità e coraggio. Non si può rifuggire, oggi, dall'affrontare onestamente le attuali condizioni del nostro paese. Questa grande nazione saprà sopportare ancora, come ha già saputo sopportare, e saprà anche risorgere alla prosperità. Lasciate dunque che io esprima tutto la mia ferma convinzione che quanto dobbiamo soprattutto temere è di lasciarci vincere dalla paura, da quella paura senza nome, irragionevole e ingiustificata, che paralizza i movimenti necessari per trasformare una ritirata in un'avanzata. In tutte le ore oscure della nostra vita nazionale una guida basata sulla franchezza e sull'energia ha incontrato quella comprensione e quell'appoggio del popolo intero, che sono essenziali per giungere alla vittoria; sono convinto che, ancora una volta, voi non mancherete di sostenere coloro che debbono guidarvi in questi critici giorni. Tali le condizioni di spirito nelle quali io e voi ci apprestiamo ad affrontare le comuni difficoltà. Grazie al Ciclo, esse si riferiscono esclusivamente a beni materiali. I valori sono discesi a livelli fantasticamente bassi; le imposte sono cresciute; la nostra capacità di pagamento è diminuita; ogni categoria di amministrazione deve tener conto di una notevole diminuzione delle sue entrate; nelle correnti commerciali si è prodotto un vero congelamento delle possibilità di scambio; per ogni dove si posano le foglie secche dell'iniziativa industriale; gli agricoltori non trovano mercati di sbocco per i prodotti della terra, e migliaia di famiglie hanno perduto i risparmi pazientemente accumulati in lunghi anni. Ancora più grave è la circostanza che una folla di disoccupati si trova di fronte al tetro problema della propria esistenza, mentre un numero non minore di cittadini continua a lavorare con scarso profitto. Solamente uno sciocco ottimista potrebbe negare l'oscura realtà del momento.

328

R O O S E V E LT E K E N N E D Y

Eppure le nostre sciagure non derivano da alcun fallimento sostanziale. Ne siamo colpiti da alcun flagello di locuste. Dovremmo anzi aver seri motivi di riconoscenza, ponendo mente ai pericoli vinti dai nostri avi grazie- alla loro fede e alla loro audacia. La natura ci offre ancora le sue incalcolabili ricchezze, e gli sforzi dell'uomo sono giunti a moltiplicarle. L'abbondanza è alle soglie delle nostre case, ma la possibilità di valercene viene meno benché questi tesori ci siano a portata di mano. Questo accade perché quanti dominano nel campo dello scambio dei beni materiali, venuti meno dapprima al loro compito per ostinazione ed incompetenza, ammettono poi il loro fallimento ed abdicano alle loro responsabilità. Davanti al tribunale dell'opinione pubblica, condannati dal cuore e dalla mente degli uomini, stanno i sistemi di speculatori poco scrupolosi. A loro difesa si potrebbe ammettere che essi hanno pur tentato di agire; ma d'altra parte si deve dire che hanno agito seguendo schemi di tradizioni ormai superate. Di fronte al fallimento del credito, essi hanno saputo soltanto proporre di ricorrere a nuove concessioni di credito. Quando è stato loro impossibile di continuare a prospettare il miraggio del profitto per indurre il nostro popolo a seguire le loro false teorie di governo, essi hanno creduto di poter correre ai ripari con pietose esortazioni invitanti a concedere ancora la perduta fiducia. Essi non conoscono altre norme, che quelle di una generazione di difensori dei propri interessi. Non hanno alcuna larghezza di visione, e quando manca tale elemento i popoli decadono. Questi barattatori del denaro altrui sono fuggiti dai loro alti seggi nel tempio della nostra civiltà. Sarà ora possibile restituire questo tempio al culto delle verità antiche. E la misura più o meno vasta di questa restaurazione dipenderà dalla proporzione nella quale verranno applicati valori sociali più nobili di quelli del puro e semplice profitto monetario. La felicità non consiste esclusivamente nel possesso del denaro; essa si concreta nella gioia del raggiungimento d'uno scopo, nell'emozione data da ogni sforzo di creazione. Nella folle rincorsa dietro profitti evanescenti non si deve più dimenticare la gioia e lo stimolo morale prodotti dal lavoro. Questi giorni difficili saranno valsi il prezzo di qualsiasi sacrificio sofferto, se ci avranno insegnato che il nostro vero destino non è di sottostare rassegnatamente a tante

329

IL LAVORATORE RITROVATO

difficoltà, ma di reagire ad esse per noi stessi e per i nostri simili. Il riconoscere la falsità della ricchezza puramente materialistica come indice di successo procede di pari passo con l'abbandonare la falsa convinzione che i posti di alta responsabilità pubblica e politica si identificano con i fini dell'ambizione e del profitto personale. Bisogna porre fine a quella linea di condotta bancaria e commercialistica, che troppo spesso ha permesso di confondere la concessione di sacri diritti con la possibilità di perpetuare impunemente il male secondo criteri spietatamente egoistici. C'è poco da meravigliarsi di fronte alla diminuita fiducia, perché la confidenza prospera solo se alimentata dall'onestà, dal senso dell'onore, dal mantenimento delle obbligazioni assunte, da un costante spirito di protezione e da una linea di condotta invariabilmente altruistica. In mancanza di tali elementi la fiducia è destinata a morire. Ma la ricostruzione non esige solo modificazioni di indole morale. La nostra nazione domanda di poter agire, e immediatamente. Il nostro primo grande compito è di dare lavoro al popolo. Non è un problema insolubile, se affrontato con saggezza e coraggio. Può essere parzialmente risolto per mezzo di ingaggi diretti da parte del governo, affrontando la questione come si affronterebbe in caso di bisogno la mobilitazione per una guerra; ma nello stesso tempo non dimenticando che tale impiego di uomini va diretto al compimento di opere di grande utilità pubblica, realizzando progetti adatti a provocare e riorganizzare l'uso delle nostre grandi risorse nazionali. Al tempo stesso, però, bisogna ammettere francamente che nei nostri centri industriali esiste un eccesso di popolazione, ed in conseguenza, impegnandoci in una redistribuzione di uomini in tutta la nazione, occorrerà tentar di provocare un migliore sfruttamento delle possibilità agricole del suolo americano, a beneficio di chi è più adatto alla coltivazione della terra. Affermo che questo compito può essere facilitato da sforzi ben precisati per giungere ad un rialzo del valore dei prodotti agricoli e quindi ad una aumentata capacità d'acquisto della produzione dei centri urbani. Può essere facilitato impedendo con mezzi pratici l'aumento delle perdite, che deriva alle nostre piccole aziende agricole da affrettate e premature sospensioni della loro attività. Può essere facilitato insistendo sull'opportunità da parte del Governo Federale, di quelli dei vari Stati e delle amministrazioni locali di fare il possibile per ridurre i gravami delle

330

R O O S E V E LT E K E N N E D Y

imposte. Può essere facilitato unificando attività che oggi sono inadeguate, antieconomiche e mal distribuite. Può essere facilitato per mezzo di un progetto nazionale per l'organizzazione e la sorveglianza sui trasporti, le comunicazioni e altri servizi, che hanno un carattere spiccatamente pubblico. Insomma, molti sono i mezzi per risolvere il problema, che non verrà tuttavia mai risolto soltanto col continuare a parlarne. Occorre agire: e dobbiamo agire rapidamente. Infine, nel nostro progresso verso una ripresa del lavoro occorre tenere presenti due salvaguardie contro i mali del vecchio ordine di cose: bisogna esercitare una stretta sorveglianza su tutto il sistema bancario, creditizio e di investimento del denaro; bisogna finirla con le speculazioni basate sul denaro altrui; ed è necessario prendere disposizioni per raggiungere una correntezza adeguata, ma solida. Tale è il programma d'azione attraverso il quale ci proponiamo di ridare l'ordine alla nostra nazione e di riportare al pareggio il suo bilancio. Le nostre relazioni commerciali con l'estero, benchè di somma importanza, dal punto di vista dell'urgenza e quindi del tempo vengono necessariamente in seconda linea, e non possono essere affrontate che dopo la riorganizzazione di una salda economia nazionale. Io considero sana politica l'affrontare in precedenza quello che è per noi di primaria importanza. Farò di tutto per favorire il commercio attraverso un riassestamento dell'economia internazionale, ma le immediate necessità interne della nazione non possono attendere che questo si compia in precedenza. L'idea fondamentale, che coordina i mezzi specifici per giungere al risanamento nazionale, non è strettamente nazionalistica. In primo luogo essa consiste nel tener conto dell'innegabile interdipendenza di tutti i vari elementi che formano gli Stati Uniti d'America; è una specie di riconoscimento dell'antico e perennemente essenziale spirito del pioniere americano. In essa è la via della salvezza. Anzi, essa è l'immediata salvezza. Ed è la certezza che la rinascita sarà duratura. Nel campo della politica estera vorrei indirizzare la nazione sulla via del buon vicinato, seguendo i principii di chi rispetta risolutamente sé stesso e, proprio per questo, rispetta anche i diritti degli altri. Bisogna essere come l'uomo che riconosce la santità delle proprie obbligazioni in mezzo al mondo di tutti i suoi

331

IL LAVORATORE RITROVATO

vicini. Spero di interpretare fedelmente il pensiero del nostro popolo dicendo che mai prima di ora abbiamo così chiaramente realizzato la nostra interdipendenza, l'uno con l'altro; abbiamo imparato che non è lecito prendere soltanto, ma che bisogna anche saper dare; che, se vogliamo progredire, occorre marciare come un esercito fedele e ben addestrato, pronto a sacrificarsi per il trionfo della comune disciplina, perché senza tale disciplina non può esistere progresso, ne alcuna guida può dare buoni risultati. So bene che siamo pronti e disposti a sottoporre la nostra vita e le nostre ricchezze a tale disciplina perché essa consente il consolidarsi d'una linea di governo che tende a un più diffuso benessere. Questo io mi propongo d'offrire, promettendo che i più vasti obiettivi da raggiungere peseranno su noi, su tutti noi, come una severa obbligazione, con un'unità di doveri, che sino ad oggi è stata invocata solo in tempi di guerra. Fatta questa promessa, assumo senza esitazioni il comando di quel grande esercito che è il nostro popolo, per muovere un disciplinato attacco contro i comuni problemi. Sotto la forma di governo ereditata dai nostri avi è possibile agire in questa forma e per tale fine. La nostra Costituzione è così semplice e pratica che è sempre possibile affrontare esigenze straordinarie con adattamenti insignificanti delle sue disposizioni e senza derogare dai suoi principii essenziali. Ecco perché il nostro sistema costituzionale si è costantemente dimostrato il meccanismo più superbamente duraturo che esista nel mondo moderno. Ha resistito a ogni frangente di espansione territoriale, di guerra intestina, di relazioni col resto del mondo. È quindi lecito sperare che il normale equilibrio tra il potere esecutivo e legislativo si dimostri in tutto adeguato a fronteggiare l'eccezionale compito che ci attende. Ma può anche darsi che situazioni mai presentatesi in precedenza e richiedenti azione immediata possano costringere a momentanee deroghe dal normale equilibrio della pubblica procedura. Osservando i miei doveri verso la costituzione, sono pronto a richiedere l'adozione di quelle eccezionali misure che una nazione gravemente colpita potrebbe esigere in questo mondo gravemente colpito. Tali misure, o quelle che il Congresso dovesse ricavare dalla sua esperienza e dalla sua saggezza, o cercherò, entro i limiti della mia autorità costituzionale, di portare alla più solle-

332

R O O S E V E LT E K E N N E D Y

cita adozione. Ma se il Congresso non volesse adottare una di queste due alternative, e se la situazione della nazione fosse ancora critica, io non mi sottrarrò alla chiara responsabilità che eventualmente mi si presentasse. Domanderei al Congresso l'ultimo mezzo che resterebbe per fronteggiare la crisi: ampi poteri esecutivi per combattere contro i pericoli del momento, poteri altrettanto ampi come quelli che mi si potrebbero dare se il nostro territorio fosse invaso da un nemico. In cambio della fiducia avuta in me saprò dare il coraggio e la devozione che convengono al momento presente. È il meno che io possa fare. Noi affrontiamo i difficili giorni che ci attendono, col vivo coraggio derivante dalla nostra unità nazionale, con la chiara coscienza di voler perseguire e ritrovare gli antichi e preziosi valori morali, con la netta soddisfazione proveniente dal compimento del proprio dovere da parte dei giovani e dei vecchi. Nostro scopo è il raggiungimento di una vita nazionale stabilmente riordinata. Non guardiamo con sfiducia verso l'avvenire della vera democrazia. Il popolo degli Stati Uniti non ha tradito sé stesso. Nel momento del bisogno ha sottoscritto la richiesta di volere che si agisca sollecitamente e decisamente. Ha chiesto la disciplina e ha voluto essere guidato con sicurezza. Ha fatto di me l'attuale strumento del suo volere. Secondo lo spirito col quale il dono m'è stato fatto, io lo accetto. In questo giorno di consacrazione alla nazione domandiamo umilmente la benedizione di Dio. Che Egli protegga ciascuno e tutti noi. Che Egli mi guidi nei giorni venturi.

333

IL LAVORATORE RITROVATO

J.F. Kennedy, il discorso di accettazione della candidatura presidenziale alla Convention democratica (Los Angeles 13 luglio 1960) … Non siamo qui per maledire le tenebre ma per accendere la candela che ci guidi attraverso le tenebre verso un futuro più sicuro e giudizioso. Come ha detto Winston Churchill nel suon discorso di insediamento quasi vent'anni fa, se apriamo una disputa tra il presente e il passato rischieremmo di perdere il futuro. E oggi la nostra preoccupazione deve essere il futuro. Perché il Mondo sta cambiando. La vecchia epoca volge al termine. I vecchi metodi non funzioneranno. All'estero gli equilibri di potere stanno mutando. Vi sono armi più terrificanti, nazioni nuove e instabili, una nuova pressione demografica e nuove povertà. Un terzo del mondo, si è detto, è libero: è vero, ma un altro terzo è vittima di una spietata repressione e un altro terzo ancora è attanagliato da povertà, fame e malattie. Sprigiona più energie il risveglio di queste nuove nazioni che non la fissione nucleare... Anche qui, in Patria, il futuro è parimenti rivoluzionario. Il New Deal e il Fair Deal erano misure audaci per quelle generazioni, ma questa è una nuova generazione. La rivoluzione tecnologica nel settore agricolo ha determinato un incremento produttivo, che però non abbiamo ancora imparato a sfruttare in modo proficuo, tutelando allo stesso tempo il diritto degli agricoltori a un reddito equo. Il boom della popolazione urbana ha generato un sovraffollamento nelle scuole, ha ammassato la gente nelle periferie e aggravato lo squallore dei quartieri poveri. La rivoluzione pacifica in favore dei diritti umani, che reclama la fine della discriminazione razziale in ogni ambito della nostra vita, ha morso i freni imposti dalla timida leadership di governo. La rivoluzione nel campo della medicina ha allungato la vita dei nostri cittadini più anziani senza però garantire quella dignità e quella sicurezza che gli ultimi anni meritano.

334

R O O S E V E LT E K E N N E D Y

Infine la rivoluzione nel settore dell'automazione inventa macchine in grado di sostituire gli uomini nelle miniere e nelle fabbriche americane senza però riuscire a sostituire i loro redditi, la loro preparazione e la necessità di pagare le spese mediche, il conto del droghiere e l'affitto. Si è verificato inoltre un cambiamento – un arretramento – nella nuova forza intellettuale e morale. Sette anni di siccità e carestia hanno inaridito il campo delle idee. La moria si è abbattuta sui nostri organismi di controllo e il marciume, a partire da Washington, si è insinuato in ogni angolo dell'America, traducendosi in una mentalità corrotta, in un malcontento diffuso, nella confusione tra ciò che è legale e ciò che è giusto. Troppi americani hanno smarrito la vita, la volontà e il senso della loro missione storica... …Questa sera mi trovo nel West, dove un tempo sorgeva l'ultima frontiera. Dalle terre che si estendono alle mie spalle per tremila miglia i pionieri rinunciarono alla sicurezza, agli agi e in certi casi alla loro stessa vita per costruire un mondo qui, nel West. Non erano schiavi dei loro dubbi, prigionieri delle loro etichette. Il loro motto non era , ma . Erano determinati a fare di quel nuovo mondo un mondo forte e libero, a superare i pericoli e le avversità, a sconfiggere i nemici che lo minacciavano dall'esterno e dall'interno. Oggi qualcuno potrebbe dire che quelle lotte sono terminate, che tutti gli orizzonti sono stati esplorati, che tutte le battaglie sono state vinte, che non esiste più una frontiera americana. Ma sono certo che nessuno in questa vasta assemblea concorda con tali opinioni. I problemi, infatti, non sono tutti risolti, così come le battaglie non sono tutte vinte, e oggi ci troviamo alle soglie di una nuova frontiera, la frontiera degli anni sessanta, una frontiera di speranze e minacce non ancora concretizzate. Il New Freedom di Woodrow Wilson prometteva al nostro paese una nuova struttura economica e politica. Il New Deal di Franklin Roosevelt prometteva sicurezza e assistenza per i bisognosi. La nuova frontiera di cui parlo, invece, non è fatta di promesse che io intendo offrire al popolo americano, bensì di quel che intendo chiedere al popolo americano. Fa appello all'orgoglio degli americani, non al loro portafoglio, offre la promessa di ulteriori sacrifici anzi-

335

IL LAVORATORE RITROVATO

ché di maggiore sicurezza... … Sarebbe facile ritirarsi da questa frontiera, volgere lo sguardo alla sicura mediocrità del passato, lasciarsi cullare dalle buone intenzioni e dalla nobile retorica... Io credo invece che questo tempo esiga inventiva, innovazione, immaginazione e risolutezza del tutto nuove. Chiedo a ognuno di voi di essere pioniere di questa frontiera... ...E' di coraggio, non di autocompiacimento, che abbiamo bisogno oggi, di leader, non di imbonitori. E l'unica prova concreta della leadership è la capacità di guidare, e di farlo con vigore... …E' un dato di fatto che ci troviamo sulla frontiera a un punto di svolta della storia. Dobbiamo dimostrare ancora una volta se questa nazione, o qualsiasi nazione così concepita, è in grado di sopravvivere... …Può una nazione organizzata e governata come la nostra sopravvivere? E' questo il vero interrogativo. Abbiamo il nerbo e la volontà necessari… …E' questo l'interrogativo della nuova frontiera. (Stralci)

336

R O O S E V E LT E K E N N E D Y

R. Kennedy, discorso sul P.I.L. all’Università del Kansas (18 marzo 1968) ...Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto nazionale lordo (PIL). Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei finesettimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missile e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere armericani... (Stralci)

337

Pomezia, ottobre 1979. Papa Wojtyla incontra per la prima volta nel suo pontificato i lavoratori. Riconoscibili Benvenuto (Uil), Pagani (Cisl) e Giunti (Cgil)

La Dottrina Sociale della Chiesa Il Lavoro non è Merce “Il Liberalismo non è nella sua essenza abbandono del Cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale, e soltanto una straordinaria riduzione delle prospettive storiche può indurre a scambiare il liberalismo con il libertinismo. Esso incarna piuttosto nel campo della filosofia sociale quanto di meglio ci hanno potuto tramandare tre millenni del pensiero occidentale, l'idea di umanità, il diritto di natura, la cultura della persona e il senso dell'universalità”. Così si esprimeva Wilhelm Roepke, consigliere di Konrad Adenauer alla fine degli Anni Cinquanta. Perché per capire la rilevanza della Dottrina Sociale della Chiesa nel dibattito economico bisogna partire da lui, cioè dall'uomo che più di altri ha cercato nelle Encicliche papali il fondamento non solo teorico ma etico alla dottrina dell'economia sociale di mercato. Il problema era semplice: riuscire a conciliare concetti apparentemente in contraddizione, trovare al Capitalismo una forma che non si trasformasse in sfruttamento dell'uomo sull'uomo, che salvaguardando la dignità umana non mettesse in conflitto le classi, cercando un ruolo per lo Stato e, soprattutto, per i Corpi Intermedi, evitando che gli “spiriti animali” potessero assumere forme troppo selvagge inserendo nella società elementi di diseguaglianza insopportabili. La Chiesa comincia a dotarsi di una Dottrina Sociale nel momento in cui si rende conto che il Conflitto di Classe sta esplodendo, che i processi industriali hanno creato un proletariato sfruttato e marginalizzato e che questa trasformazione può mettere in crisi un equilibrio sociale che non può che far da sfondo a una predicazione ecumenica, inevitabilmente interclassista. A gettare le basi provvede Leone XIII promulgando, il 15 maggio del 1891, l'enciclica Rerum Novarum. Le “Cose Nuove” di cui il Pontefice parlava erano sinteticamente indicate nell'incipit: “L'ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall'ordine politico passare nell'ordine simile dell'economia”. Se è vero che esiste una coerenza che

339

IL LAVORATORE RITROVATO

lega documenti diversi e un tratto di storia ultrasecolare, è anche vero che le diverse Encicliche che hanno riguardato gli aspetti sociali ed economici del vivere in comunità hanno profondamente risentito delle diverse fasi economiche, dei cicli, dei travagli che le hanno caratterizzate, dalla prima, quella “fondativa”, di Leone XIII, all'ultima, quella di Benedetto XVI, Caritas in Veritate. E probabilmente la prossima, di Papa Francesco, non potrà che risentire ulteriormente delle profonde trasformazioni, delle urgenze e delle difficoltà prodotte da una crisi economica che ha scavato un solco ancora più ampio tra le classi, riportandoci, dal punto di vista delle distanze di reddito, ai tempi che hanno preceduto la Grande Depressione, il crollo di Wall Street del 1929. Non si tratta di una ipotesi ma di una facile previsione visto che il Pontefice venuto “dalla fine del Mondo” ha fatto già capire come si colloca davanti a una congiuntura negativa che ha assunto i caratteri del dramma globale. Lo ha fatto capire con queste semplici parole: “Non interessa se la gente muore di fame. Ci si preoccupa delle banche e della finanza. Se cadono gli investimenti, le banche, tutti a dire che è una tragedia. Se le famiglie stanno male, non hanno da mangiare, allora non fa niente. Questa è la nostra crisi. Ci sono più martiri oggi che nei primi secoli della Chiesa, fratelli e sorelle che soffrono. Fa male al cuore dire che trovare un barbone morto di freddo non è notizia mentre lo è uno scandalo, pensare che tanti bambini non hanno da mangiare non è notizia, questo è grave”. Leone XIII si confrontava con una società in cui la Rivoluzione Industriale stava dispiegando tutte le sue potenzialità, tanto dal punto di vista positivo che da quello negativo. Il profondo divario tra le classi, le condizioni estremamente precarie di chi era più indietro nella scala sociale, lo sfruttamento dei lavoratori obbligavano a ripensare i rapporti sociali per fare in modo, come avrebbe scritto più tardi Roepke che il liberalismo non fosse “nella sua essenza abbandono del Cristianesimo”. Erano anni in cui la predicazione marxista cominciava a incontrare consensi sempre più ampi e in cui cominciavano a nascere le prime grandi lotte operaie. Ad esempio, quella per la riduzione a otto ore della giornata lavorativa, cominciata il 20 luglio del 1989 a Parigi al congresso della Seconda Internazionale quando venne deciso che “una grande manifestazione sarà organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente in tutti

340

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

i paesi e in tutte le città, nello stesso giorno, i lavoratori chiederanno alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare ad effetto le altre risoluzioni del Congresso di Parigi”. Quella di Leone XIII è una società industriale che ha poco a che vedere con i concetti della predicazione evangelica, in cui i minori senza alcuna tutela sono impiegati in lavori duri e pericolosi, al pari delle donne per le quali non sono previste garanzie per la maternità, in cui soprattutto l'orario di lavoro (come sottolinea la Seconda Internazionale avviando le rivendicazioni per le otto ore) non è in alcun modo normato, quindi limitato. “Se con il lavoro eccessivo o non conveniente al sesso e all'età, si reca danno alla sanità dei lavoratori, in questi casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l'autorità delle leggi”. E ancora: “Nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri”. Quarant'anni dopo, Pio XI ricorderà quella “enciclica fondativa” con un nuovo documento significativamente intitolato: Quadragesimo anno. I riferimenti sociali saranno gli stessi di Leone XIII ma il nuovo Pontefice per aggiornare la Dottrina Sociale della Chiesa si farà ispirare dalle sue “cose Nuove”. E il 15 maggio del 1931 il mondo, soprattutto l'Italia, era decisamente diverso, al centro esatto tra due guerre. Soprattutto “spazzato” da quella che ancora oggi viene considerata la più grande crisi del Capitalismo, la Grande Depressione, il crollo di Wall Street, quel Venerdì Nero che determinò negli Stati Uniti (ma non solo) un decennio si enormi difficoltà. Pio XI insiste su due concetti: la solidarietà e la sussidiarietà. Sarà proprio Papa Ratti a parlare per primo di Dottrina Sociale. Trent'anni più tardi, il 15 maggio 1961, toccherà a Giovanni XXIII celebrare l'anniversario della Rerum Novarum. Ne verrà fuori l'enciclica Mater et Magistra, probabilmente il documento più innovativo che compone la Dottrina Sociale della Chiesa, un documento in cui si comincerà a parlare di solidarismo internazionale in una visione dell'economia che comincia a essere fortemente globalizzata. Un documento in cui verranno accettate anche forme di socializzazione a patto che siano rispettose della dignità umana. Poi arriverà la Populorum Progressio di Paolo VI, un Pontefice che aveva scelto di stare nel mondo e di percorrere il Mondo. E da attento osservatore cominciò a rendersi conto dei rischi della globalizzazione, rischi che sarebbero esplosi

341

IL LAVORATORE RITROVATO

più tardi. Il centenario della Rerum Novarum è stato celebrato da Giovanni Paolo II. Era il 1991, due anni prima il Muro di Berlino era caduto sancendo la dissoluzione dell'Impero Sovietico e la fine del socialismo realizzato. L'enciclica risente ovviamente di quelle evoluzioni storiche a cui il Papa Polacco aveva partecipato incidendo in maniera risolutiva. Ma la libertà conquistata sembra in qualche maniera tradire le attese, soprattutto si esprime nella forma di un arricchimento feroce che nei Paesi che gravitavano intorno al Colosso Sovietico produce fenomeni contrari al rispetto della dignità umana che è il principio essenziale intorno a cui ruota la Dottrina Sociale della Chiesa (oltre che al Diritto di Proprietà come Diritto Naturale). La polemica di Giovanni Paolo II nei confronti di un Capitalismo senza regole e senza rispetto per l'uomo si farà di anno in anno più aspra e quella Enciclica è una tra le espressioni più alte della sua elaborazione culturale. Infine, l'enciclica di Benedetto XVI, Caritas in Veritate. E' significativa anche la genesi di questo documento. Doveva essere promulgata nel 2008 per celebrare il quarantesimo anniversario della Populorum Progressio di Paolo VI. Ma poi esplode la crisi mondiale e il Pontefice avverte la necessità di aggiornare, alla luce dei nuovi eventi, il documento già elaborato che diventerà pubblico un anno dopo, il 29 giugno del 2009. “La carità nella verità” perché, spiega il Pontefice “la verità va cercata, trovata ed espressa nell'economia della carità, ma la carità va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità”. L'Enciclica sarà un saggio sugli aspetti critici della globalizzazione, in particolare sul dumping sociale. Alla luce di questi documenti si può capire quel che Roepke ha sottolineato a sostegno della sua dottrina: “E' indispensabile quel patrimonio etico che abbiamo raggiunto per effetto dello sviluppo millenario dall'Antichità attraverso il Cristianesimo fino al giorno d'oggi”. I Pontefici hanno indicato una terza via tra Capitalismo e socialismo; Roepke e gli altri studiosi di quella che è stata chiamata la scuola di Friburgo (Walter Eucken, Alexander Ruestov, Hans Grossman-Doerth, Franz Boehm) hanno provato a darvi concretezza creando una dottrina liberale che fosse alternativa a quella classica e che ha finito per ispirare (e guidare) lo sviluppo tedesco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Se da un lato c'è stata “l'eresia di sinistra” della Spd, dall'altro c'è stata

342

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

quella liberale dell'economia sociale di mercato. Al contrario dei liberisti classici (quelli per i quali lo Stato migliore, come diceva Roosevelt, è lo Stato che non fa nulla), Roepke e gli altri ritenevano che, senza cadere nel dirigismo, l'organizzazione statale avrebbe dovuto fornire un quadro giuridico all'interno del quale, senza alterare le dinamiche di mercato, le relazioni industriali si sarebbero dovute svolgere. E alle encicliche faranno riferimento soprattutto per quanto riguarda l'aspetto della sussidiarietà, per valorizzare l'attività di quei corpi intermedi che danno sostanza alla società civile. Per Roepke tutto questo sarà l'Umanesimo Liberale, cioè quella Terza via tra il liberismo del “Laissez faire” e il collettivismo; il suo obiettivo era un sistema industriale basato sul “libero mercato” e non sul capitalismo perché il capitalismo porta alla creazione di monopoli, alla costituzione di “cartelli”, alle posizioni dominanti. Per apprezzare pienamente questi sviluppi teorici, abbiamo deciso di proporre la sintesi delle sei più significative Encicliche, raggruppandole in virtù di un criterio di “vicinanza”: da un lato quelle che fanno riferimento diretto al documento fondativo, Rerum Novarum, e cioè Quadragesimo Anno, Mater et Magistra e Centesimus Annus; dall'altro Caritas in Veritate che si collega direttamente alla Populorum Progressio.

343

IL LAVORATORE RITROVATO

LEONE XIII: RERUM NOVARUM (1891) Introduzione L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto... Il socialismo falso rimedio La soluzione socialista inaccettabile dagli operai … i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. La proprietà privata è di diritto naturale … L’uomo … deve dunque poter scegliere i mezzi che giudica più propri al mantenimento della sua vita, non solo per il momento che passa, ma per il tempo futuro. Ciò vale quanto dire che, oltre il dominio dei frutti che dà la terra, spetta all’uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno fecondo deve essergli somministrato il necessario ai suoi bisogni futuri… L’aver poi Iddio dato la terra a uso e godimento di tutto il genere umano, non si oppone per nulla al diritto della privata proprietà. Il vero rimedio: l’unione delle associazioni Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura

344

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. Necessità della concordia Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra…La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Relazioni tra le classi sociali Innanzi tutto, l’insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti… Principalissimo poi tra i loro doveri (dei datori di lavoro, n.d.c) è dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo. L’opera dello Stato A risolvere peraltro la questione operaia, non vi è dubbio che si richiedano altresì i mezzi umani… I governanti debbono in primo luogo concorrervi in maniera generale con tutto il complesso delle leggi e delle istituzioni politiche, ordinando e amministrando lo Stato in modo che ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità... Perciò tra i molti e gravi doveri dei governanti solleciti del bene pubblico, primeggia quello di provvedere ugualmente ad ogni ordine di cittadini, osservando con inviolabile imparzialità la giustizia cosiddetta distributiva ...Se dunque alla società o a qualche sua parte è stato recato o sovrasta un danno che non si possa in altro modo riparare o impedire,

345

IL LAVORATORE RITROVATO

si rende necessario l’intervento dello Stato… Ma giova discendere espressamente ad alcuni particolari di maggiore importanza. Principalissimo è questo: i governi devono per mezzo di sagge leggi assicurare la proprietà privata… Difesa del lavoro contro lo sciopero Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata scarsa porgono non di rado agli operai motivo di sciopero. A questo disordine grave e frequente occorre che ripari lo Stato, perché tali scioperi non recano danno solamente ai padroni e agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi e, per le violenze e i tumulti a cui d’ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più efficace e salutare, si é prevenire il male con l’autorità delle leggi e impedire lo scoppio, rimovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere il conflitto tra operai e padroni. Condizioni di lavoro Molte cose parimenti lo Stato deve proteggere nell’operaio, e prima di tutto i beni dell’anima. Di qui segue la necessità del riposo festivo... Quanto alla tutela dei beni temporali ed esteriori prima di tutto è dovere sottrarre il povero operaio all’inumanità di avidi speculatori. Non deve dunque il lavoro prolungarsi più di quanto lo comportino le forze…Si deve avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un’altra o del tutto insopportabile o tale che sí sopporta con difficoltà. Infine, un lavoro proporzionato all’uomo alto e robusto, non é ragionevole che s’imponga a una donna o a un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non ammetterli nelle officine prima che l’età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze fisiche… Così, certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per í lavori domestici. La questione del salario La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si commette ingiustizia solo quando o il padrone non paga

346

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

l’intera mercede o l’operaio non presta tutta l’opera pattuita; e solo a tutela di questi diritti, e non per altre ragioni, è lecito l’intervento dello Stato. A questo ragionamento, un giusto estimatore delle cose non può consentire né facilmente né in tutto… non v’è dubbio che può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome egli offre volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera la necessità: due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che nella povera gente sí riducono al salario del proprio lavoro. L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale… Il diritto all’associazione è naturale … Il sentimento della propria debolezza spinge l’uomo a voler unire la sua opera all’altrui…Degnissimi d’encomio sono molti tra i cattolici che, conosciute le esigenze dei tempi, fanno ogni sforzo per migliorare onestamente le condizioni degli operai. E presane in mano la causa, si studiano di accrescerne il benessere individuale e domestico… A tal fine vediamo che spesso si radunano dei congressi, ove uomini saggi si comunicano le idee, uniscono le forze, si consultano intorno agli espedienti migliori.

(Stralci)

347

IL LAVORATORE RITROVATO

PIO XI: QUADRAGESIMO ANNO (1931) ...Sebbene l'economia e la disciplina morale, ciascuna nel suo ambito, si appoggino sui principi propri, sarebbe errore affermare che l'ordine economico e l'ordine morale siano così disparati ed estranei l'uno all'altro, che il primo in nessun modo dipenda dal secondo... Voi conoscete, venerabili Fratelli e diletti Figli, come il Nostro Predecessore di f. m., abbia difeso gagliardamente il diritto di proprietà contro gli errori dei socialisti del suo tempo, dimostrando che l'abolizione della proprietà privata tornerebbe, non a vantaggio, ma a estrema rovina della classe operaia. E poiché vi ha di quelli che, con la più ingiuriosa delle calunnie, accusano il Sommo Pontefice e la Chiesa stessa, quasi abbia preso o prenda ancora le parti dei ricchi contro i proletari, e poiché tra i cattolici stessi si riscontrano dissensi intorno alla vera e schietta sentenza Leoniana, Ci sembra bene ribattere ogni calunnia contro quella dottrina, che è la cattolica, su questo argomento, e difenderla da false interpretazioni... ...In primo luogo, si ha da ritenere per certo, che né Leone XIII né i teologi che insegnarono sotto la guida e il vigile magistero della Chiesa, negarono mai o misero in dubbio la doppia specie di proprietà, detta individuale e sociale, secondo che riguarda gli individui o spetta al bene comune; ma hanno sempre unanimemente affermato che il diritto del dominio privato viene largito agli uomini dalla natura, cioè dal Creatore stesso, sia perché gli individui possano provvedere a sé e alla famiglia, sia perché, grazie a tale istituto, i beni del Creatore, essendo destinati a tutta l'umana famiglia, servano veramente a questo fino; il che in nessun modo si potrebbe ottenere senza l'osservanza di un ordine certo e determinato... Evitare due scogli ...Pertanto occorre guardarsi diligentemente dall'urtare contro un doppio scoglio. Giacché, come negando o affievolendo il carattere sociale e pubblico del diritto di proprietà si cade e si rasenta il cosiddetto « individualismo », così respingendo e attenuando il carattere privato e individuale del medesimo diritto, necessariamente si precipita nel « collettivismo » o almeno si sconfina

348

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

verso le sue teorie... ...E veramente dal carattere stesso della proprietà, che abbiamo detta individuale insieme e sociale, si deduce che in questa materia gli uomini debbono aver riguardo non solo al proprio vantaggio, ma altresì al bene comune. La determinazione poi di questi doveri in particolare e secondo le circostanze, e quando non sono già indicati dalla legge di natura, è ufficio dei pubblici poteri. Onde la pubblica autorità può con maggior cura specificare, considerata la vera necessità del bene comune e tenendo sempre innanzi agli occhi la legge naturale e divina, che cosa sia lecito ai possidenti e che cosa no, nell'uso dei propri beni... La pubblica autorità però, come è evidente, non può usare arbitrariamente di tale suo diritto; poichè bisogna che rimanga sempre intatto e inviolato il diritto naturale di proprietà privata e di trasmissione ereditaria dei propri beni, diritto che lo Stato non può sopprimere... ...Per lungo tempo certamente il capitale troppo aggiudicò a sé stesso. Quanto veniva prodotto e i frutti che se ne ricavavano, ogni cosa il capitale prendeva per sé, lasciando appena all'operaio tanto che bastasse a ristorare le forze e a riprodurre... Perciò agli operai angariati, si accostarono i cosiddetti intellettuali, contrapponendo a una legge immaginaria un principio morale parimenti immaginario: che cioè quanto si produce e si percepisce di reddito, trattone quel tante che basti a risarcire e riprodurre il capitale, si deve di diritto all'operaio. Questo errore, quanto è più lusinghevole di quello di vari socialisti, i quali affermano che tutto ciò che serve alla produzione si ha da trasfondere allo Stato... Onde è necessario che le ricchezze le quali si amplificano di continuo grazie ai progressi economici e sociali, vengano attribuite ai singoli individui e alle classi in modo che resti salva quella comune utilità di tutti, lodata da Leone XIII, ovvero, per dirla con altre parole, perché si serbi integro il bene comune dell'intera società. Per questa legge di giustizia sociale non può una classe escludere l'altra dalla partecipazione degli utili... Condizione operaia e pauperismo ...Benché sia verissimo che la condizione proletaria debba ben distinguersi dal pauperismo, pure la stessa foltissima moltitudine dei proletari è un argomento ineluttabile, che le ricchezze tanto copiosamente cresciute in questo

349

IL LAVORATORE RITROVATO

nostro secolo detto dell'industrialismo, non sono rettamente distribuite e applicate alle diverse classi di uomini... ...Ma tale attuazione non sarà possibile se i proletari non giungeranno, con la diligenza e con il risparmio, a farsi un qualche modesto patrimonio, come abbiamo detto riferendoci alla dottrina del Nostro Predecessore Leone XIII. Orbene, chi per guadagnarsi il vitto e il necessario alla vita altro non ha che il lavoro, come potrà, pur vivendo parcamente, mettersi da parte qualche fortuna se non con la paga, che trae dal lavoro? ...Ora è facile intendere che oltre al carattere personale e individuale deve considerarsi il carattere sociale, come della proprietà, così anche del lavoro, massime di quello che per contratto si cede ad altri... ...Da questo doppio carattere, insito nella natura stessa del lavoro umano, sgorgano gravissime conseguenze, a norma delle quali il salario vuole essere regolato e determinato. ...In primo luogo, all'operaio si deve dare una mercede che basti al sostentamento di lui e della sua famiglia . È bensì giusto che anche il resto della famiglia, ciascuno secondo le sue forze, contribuisca al comune Sostentamento, come già si vede in pratica specialmente nelle famiglie dei contadini, e anche in molte di quelle degli artigiani e dei piccoli commercianti; ma non bisogna che si abusi dell'età dei fanciulli né della debolezza della donna... Attenzione alle condizioni dell’azienda ...Nello stabilire la quantità della mercede si deve tener conto anche dello stato dell'azienda e dell'imprenditore di essa; perché è ingiusto chiedere esagerati salari, quando l'azienda non li può sopportare senza la rovina propria e la conseguente calamità degli operai... ...Tutti adunque, e operai e padroni, in unione di forza e di mente, si adoperino a vincere tutti gli ostacoli e le difficoltà, e siano aiutati in quest'opera tanto salutare dalla sapiente provvidenza dei pubblici poteri... ...Finalmente la quantità del salario deve contemperarsi col pubblico bene economico... È contrario dunque alla giustizia sociale che, per badare al proprio vantaggio senza aver riguardo al bene comune, il salario degli operai venga troppo abbassato o troppo innalzato...

350

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

...A ciò parimenti giova la giusta proporzione tra i salari; con la quale va strettamente congiunta la giusta proporzione dei prezzi, a cui si vendono i prodotti delle diverse arti, quali sono stimate l'agricoltura, l'industria e simili... ...Nel mercato del lavoro l'offerta e la domanda divide gli uomini come in due schiere; e la disunione che ne segue trasforma il mercato come in un campo di lotta, ove le due parti si combattono accanitamente. E a questo grave disordine, che porta al precipizio l'intera società, ognuno vede quanto sia necessario portare rimedio. Ma la guarigione perfetta si potrà ottenere allora soltanto, quando, tolta di mezzo una tale lotta, le membra del corpo sociale si trovino bene assestate, e costituiscano le varie professioni, a cui ciascuno dei cittadini aderisca non secondo l'ufficio che ha nel mercato del lavoro, ma secondo le diverse parti sociali. che i singoli esercitano... ...Recentemente, come tutti sanno, venne iniziata una speciale organizzazione sindacale e corporativa, la quale, data la materia di questa Nostra Lettera enciclica, richiede da Noi qualche cenno e anche qualche opportuna considerazione. ...Lo Stato riconosce giuridicamente il sindacato e non senza carattere monopolistico, in quanto che esso solo, così riconosciuto, può rappresentare rispettivamente gli operai e i padroni, esso solo concludere contratti e patti di lavoro... Lo sciopero è vietato; se le parti non si possono accordare, interviene il Magistrato... Basta poca riflessione per vedere i vantaggi dell'ordinamento per quanto sommariamente indicato; la pacifica collaborazione delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti, l'azione moderatrice di une speciale magistratura... ...La lotta di classe quando si astenga dagli atti di inimicizia e dall'odio vicendevole, si trasforma a poco a poco in una onesta discussione, fondata nella ricerca della giustizia: discussione che non è certo quella felice pace sociale che tutti vagheggiano, ma che può e deve essere un punto di partenza per giungere alla mutua cooperazione delle classi.

(Stralci)

351

IL LAVORATORE RITROVATO

GIOVANNI XXIII: MATER ET MAGISTRA (1961) I temi della “Rerum novarum” …Leone XIII parlò in anni di radicali trasformazioni, di accesi contrasti e di acerbe ribellioni… A voi sono ben noti… quei principi basilari esposti dall’immortale Pontefice …Essi riguardano anzitutto il lavoro che deve essere valutato e trattato non già alla stregua di una merce, ma come espressione della persona umana…La proprietà privata, anche dei beni strumentali, è un diritto naturale che lo Stato non può sopprimere. Ad essa è intrinseca una funzione sociale, e però è un diritto che va esercitato a vantaggio proprio e a bene degli altri…Lo Stato, la cui ragion d’essere è l’attuazione del bene comune nell’ordine temporale, non può rimanere assente dal mondo economico…Ai lavoratori, si afferma ancora nell’enciclica, va riconosciuto come naturale il diritto di dar vita ad associazioni…Operai ed imprenditori devono regolare i loro rapporti ispirandosi al principio della solidarietà umana ... Mutamenti e innovazioni La situazione ha subìto profonde innovazioni.. In campo scientifico-tecnicoeconomico: la scoperta dell’energia nucleare, le sue prime applicazioni a scopi bellici, la successiva crescente sua utilizzazione ad usi civili; le possibilità sconfinate aperte dalla chimica nelle produzioni sintetiche; l’estendersi dell’automatizzazione e dell’automazione nel settore industriale e in quello dei servizi; la modernizzazione del settore agricolo…Il campo sociale: lo sviluppo dei sistemi d’assicurazione sociale, e, in alcune comunità politiche economicamente sviluppate, l’instaurazione di sistemi di sicurezza sociale; il formarsi e l’accentuarsi nei movimenti sindacali di un’attitudine di responsabilità in ordine ai maggiori problemi economico-sociali... Inoltre l’aumentata efficienza dei sistemi economici in un numero crescente di comunità politiche, mette in maggiore risalto gli squilibri economico-sociali tra il settore dell’agricoltura da una parte e il settore dell’industria e dei servizi dall’altra; fra zone economicamente sviluppate e zone economicamente meno sviluppate nell’interno delle singole comunità politiche; e, su piano mondiale, gli squilibri economico-sociali ancora più stridenti fra paesi economicamente progrediti e paesi economicamente in via di sviluppo.

352

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

Iniziativa personale e intervento dei poteri pubblici in campo economico …Il mondo economico è creazione dell’iniziativa personale dei singoli cittadini, operanti individualmente o variamente associati per il perseguimento di interessi comuni…Però in esso, per le ragioni già addotte dai nostri predecessori devono altresì essere attivamente presenti i poteri pubblici allo scopo di promuovere, nei debiti modi, lo sviluppo produttivo in funzione del progresso sociale a beneficio di tutti i cittadini… dev’essere sempre riaffermato il principio che la presenza dello Stato in campo economico, anche se ampia e penetrante, non va attuata per ridurre sempre più la sfera di libertà dell’iniziativa personale dei singoli cittadini, ma anzi per garantire a quella sfera la maggiore ampiezza possibile nell’effettiva tutela, per tutti e per ciascuno, dei diritti essenziali della persona… La socializzazione Uno degli aspetti tipici che caratterizzano la nostra epoca è la socializzazione… è a un tempo riflesso e causa di un crescente intervento dei poteri pubblici anche in settori tra i più delicati, come quelli concernenti le cure sanitarie, l’istruzione e l’educazione delle nuove generazioni, l’orientamento professionale, i metodi di ricupero e di riadattamento di soggetti comunque menomati; ma è pure frutto ed espressione di una tendenza naturale, quasi incontenibile, degli esseri umani: la tendenza ad associarsi… È chiaro che la socializzazione cosi intesa apporta molti vantaggi… Nello stesso tempo però la socializzazione moltiplica le forme organizzative e rende sempre più minuta la regolamentazione giuridica dei rapporti tra gli uomini di ogni settore. Di conseguenza restringe il raggio di libertà nell’agire dei singoli esseri umani… Si dovrà concludere che la socializzazione, crescendo in ampiezza e profondità, ridurrà necessariamente gli uomini ad automi? È un interrogativo al quale si deve rispondere negativamente…la socializzazione può e deve essere realizzata in maniera da trarne i vantaggi che apporta e da scongiurarne o contenerne i riflessi negativi…A tale scopo però si richiede che negli uomini investiti di autorità pubblica sia presente ed operante una sana concezione del bene comune… Il nostro animo è preso da una profonda amarezza dinanzi allo spettacolo smisuratamente triste di numerosissimi lavoratori di molti paesi e di

353

IL LAVORATORE RITROVATO

interi continenti, ai quali viene corrisposto un salario che costringe essi stessi e le loro famiglie a condizioni di vita infraumane… La rimunerazione del lavoro … In alcuni tra quei paesi però, alle condizioni di estremo disagio di moltissimi, fa stridente, offensivo contrasto l’abbondanza e il lusso sfrenato di pochi privilegiati… Inoltre nei paesi economicamente sviluppati, non è raro costatare che mentre vengono assegnati compensi alti o altissimi per prestazioni di poco impegno o di valore discutibile, all’opera assidua e proficua di intere categorie di onesti e operosi cittadini vengono corrisposte retribuzioni troppo esigue...Riteniamo perciò nostro dovere riaffermare ancora una volta che la retribuzione del lavoro, come non può essere interamente abbandonata alle leggi di mercato, cosi non può essere fissata arbitrariamente; va invece determinata secondo giustizia ed equità. Sviluppo economico e progresso sociale … allo sviluppo economico si accompagni e si adegui il progresso sociale, cosicché degli incrementi produttivi abbiano a partecipare tutte le categorie di cittadini… Non possiamo qui non accennare al fatto che oggi in molte economie le imprese a medie e grandi proporzioni realizzano, e non di rado, rapidi ed ingenti sviluppi produttivi attraverso l’autofinanziamento. In tali casi riteniamo poter affermare che ai lavoratori venga riconosciuto un titolo di credito nei confronti delle imprese in cui operano, specialmente quando viene loro corrisposta una retribuzione non superiore al minimo salariale… L’accennata esigenza di giustizia può essere soddisfatta in più modi suggeriti dall’esperienza. Uno di essi, e tra i più auspicabili, è quello di far si che i lavoratori nelle forme e nei gradi più convenienti possano giungere a partecipare alla proprietà delle stesse imprese… Ma dobbiamo inoltre ricordare che l’adeguamento tra rimunerazione del lavoro e del reddito va attuato in armonia alle esigenze del bene comune tanto della propria comunità politica quanto della intera famiglia umana…Sono da considerarsi esigenze del bene comune su piano nazionale: dare occupazione al maggior numero di lavoratori; evitare che si costituiscano categorie privilegiate, anche tra i lavoratori; mantenere una equa proporzione fra salari e prezzi e rendere accessibili beni e servizi al maggior numero di cittadini… Sono invece esigenze del bene comune sul piano mondiale: evitare

354

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

ogni forma di sleale concorrenza tra le economie dei diversi paesi; favorire la collaborazione tra le economie nazionali... Esigenze della giustizia nei confronti delle strutture produttive Strutture conformi alla dignità dell’uomo …La giustizia va rispettata non solo nella distribuzione della ricchezza, ma anche in ordine alle strutture delle imprese in cui si svolge l’attività produttiva... Perciò se le strutture, il funzionamento, gli ambienti d’un sistema economico sono tali da compromettere la dignità umana di quanti vi esplicano le proprie attività, o da ottundere in essi sistematicamente il senso della responsabilità, o da costituire un impedimento a che comunque si esprima la loro iniziativa personale, un siffatto sistema economico è ingiusto, anche se, per ipotesi, la ricchezza in esso prodotta attinga quote elevate e venga distribuita secondo criteri di giustizia e di equità. Presenza attiva dei lavoratori nelle medie e grandi imprese …Muovendoci sulla linea tracciata dai nostri predecessori, noi pure riteniamo che sia legittima nei lavoratori l’aspirazione a partecipare attivamente alla vita delle imprese... Ciò esige che i rapporti tra gli imprenditori e i dirigenti da una parte e i prestatori d’opera dall’altra, siano improntati a rispetto, a stima, a comprensione, a leale ed attiva collaborazione ed interessamento come ad opera comune, e che il lavoro sia concepito e vissuto da tutti i membri dell’impresa oltre che come fonte di reddito, anche come adempimento di un dovere e prestazione di un servizio. Ciò importa pure che i lavoratori possano far sentire la loro voce e addurre il loro apporto all’efficiente funzionamento dell’impresa e al suo sviluppo. Presenza dei lavoratori a tutti i livelli …Nell’epoca moderna si è verificato un ampio sviluppo del movimento associativo dei lavoratori e il generale suo riconoscimento negli ordinamenti giuridici dei diversi paesi e su piano internazionale, ai fini specifici di collaborazione soprattutto mediante il contratto collettivo. Non possiamo però non rilevare come sia opportuno o necessario che la voce dei lavoratori abbia possibilità di farsi sentire ed ascoltare oltre l’ambito dei singoli organismi produttivi e a tutti i livell... Se non che le scelte che maggiormente influiscono su quel contesto

355

IL LAVORATORE RITROVATO

non sono decise all’interno dei singoli organismi produttivi; sono invece decise da poteri pubblici o da istituzioni che operano su piano mondiale o regionale o nazionale o di settore economico e di categoria produttiva. Di qui l’opportunità o la necessità che in quei poteri e in quelle istituzioni, oltre che i portatori di capitali o di chi ne rappresenta gli interessi, siano pure presenti i lavoratori o coloro che ne rappresentano i diritti, le esigenze, le aspirazioni. Riaffermazione del diritto di proprietà Il diritto di proprietà privata sui beni anche produttivi ha valore permanente… Inoltre, storia ed esperienza attestano che nei regimi politici, che non riconoscono il diritto di proprietà privata sui beni anche produttivi, sono compresse o soffocate le fondamentali espressioni della libertà; perciò è legittimo dedurre che esse trovino in quel diritto garanzia e incentivo.. In ciò trova la sua spiegazione il fatto che movimenti sociali-politici, che si propongono di conciliare nella convivenza la giustizia con la libertà, fino a ieri nettamente negativi nei confronti del diritto di proprietà privata sui beni strumentali, oggi, maggiormente edotti sulla realtà sociale, rivedono la propria posizione e assumono, in ordine a quel diritto, un atteggiamento sostanzialmente positivo. Non basta affermare il carattere naturale del diritto di proprietà privata anche sui beni produttivi; ma ne va pure insistentemente propugnata l’effettiva diffusione fra tutte le classi sociali. Proprietà pubblica Quanto sopra esposto non esclude, come è ovvio, che anche lo Stato e gli altri enti pubblici possano legittimamente possedere in proprietà beni strumentali, quando specialmente “portano seco una preponderanza economica per cui non si possano lasciare in mano di privati cittadini senza pericolo del bene comune” (Enc. Quadragesimo anno)… Nell’epoca moderna c’è la tendenza a un progressivo estendersi della proprietà che ha come soggetto lo Stato ed altri enti di diritto pubblico. Il fatto trova una spiegazione nelle funzioni sempre più ampie che il bene comune domanda ai poteri pubblici di svolgere. Però anche nella presente materia è da seguirsi il principio di sussidiarietà, sopra enunciato.

(Stralci)

356

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

GIOVANNI PAOLO II: CENTESIMUS ANNUS (1991) Verso le «cose nuove» di oggi La commemorazione della Rerum novarum non sarebbe adeguata, se non guardasse pure alla situazione di oggi. Già nel suo contenuto il Documento si presta ad una tale considerazione, perché il quadro storico e le previsioni ivi delineate si rivelano, alla luce di quanto è accaduto in seguito, sorprendentemente esatte… L’errore fondamentale del socialismo è di carattere antropologico. Esso, infatti, considera il singolo uomo come un semplice elemento ed una molecola dell’organismo sociale, di modo che il bene dell’individuo viene del tutto subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale… Da questa errata concezione della persona discendono la distorsione del diritto che definisce la sfera di esercizio della libertà, nonché l’opposizione alla proprietà privata. Al contrario, dalla concezione cristiana della persona segue necessariamente una visione giusta della società. Secondo la Rerum novarum e tutta la dottrina sociale della Chiesa, la socialità dell’uomo non si esaurisce nello Stato, ma si realizza in diversi gruppi intermedi, cominciando dalla famiglia fino ai gruppi economici, sociali, politici e culturali …Se ci si domanda poi donde nasca quell’errata concezione della natura della persona e della «soggettività» della società, bisogna rispondere che la prima causa è l’ateismo… Dalla medesima radice ateistica scaturisce anche la scelta dei mezzi di azione propria del socialismo, che è condannato nella Rerum novarum. Si tratta della lotta di classe. Il Papa, beninteso, non intende condannare ogni e qualsiasi forma di conflittualità sociale… Ciò che viene condannato nella lotta di classe è, piuttosto, l’idea di un conflitto che non è limitato da considerazioni di carattere etico o giuridico…bensì un interesse di parte che si sostituisce al bene comune e vuol distruggere ciò che gli si oppone… La Rerum novarum si oppone alla statalizzazione degli strumenti di produzione, che ridurrebbe ogni cittadino ad un «pezzo» nell’ingranaggio della macchina dello Stato… A questo riguardo, la Rerum novarum indica la via delle giuste riforme..la società e lo Stato devono assicurare livelli salariali adeguati al mantenimento del lavoratore e della sua famiglia… Infine, bisogna garantire il rispetto di orari «umani» di lavoro e di riposo, oltre che il diritto di esprimere la propria personalità sul

357

IL LAVORATORE RITROVATO

luogo di lavoro, senza essere violati in alcun modo nella propria coscienza o nella propria dignità. Anche qui è da richiamare il ruolo dei sindacati non solo come strumenti di contrattazione, ma anche come «luoghi» di espressione della personalità dei lavoratori… Al conseguimento di questi fini lo Stato deve concorrere sia direttamente che indirettamente. Indirettamente e secondo il principio di sussidiarietà, creando le condizioni favorevoli al libero esercizio dell’attività economica… … Le riforme in parte furono realizzate dagli Stati, ma nella lotta per ottenerle ebbe un ruolo importante l’azione del Movimento operaio. Nato come reazione della coscienza morale contro situazioni di ingiustizia e di danno, esso esplicò una vasta attività sindacale, riformista, lontana dalle nebbie dell’ideologia e più vicina ai bisogni quotidiani dei lavoratori e, in questo ambito, i suoi sforzi si sommarono spesso a quelli dei cristiani per ottenere il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. In seguito, tale movimento fu, in certa misura, dominato proprio da quella ideologia marxista, contro la quale si volgeva la Rerum novarum. L’anno 1989 …Si comprende l’inaspettata e promettente portata degli avvenimenti degli ultimi anni. Il loro culmine certo sono stati gli avvenimenti del 1989 nei Paesi dell’Europa centrale ed orientale… Tra i numerosi fattori della caduta dei regimi oppressivi alcuni meritano di essere ricordati in particolare. Il fattore decisivo, che ha avviato i cambiamenti, è certamente la violazione dei diritti del lavoro… Il secondo fattore di crisi è certamente l’inefficienza del sistema economico, che non va considerata come un problema soltanto tecnico, ma piuttosto come conseguenza della violazione dei diritti umani all’iniziativa, alla proprietà ed alla libertà nel settore dell’economia…Gli avvenimenti dell’ ‘89 si sono svolti prevalentemente nei Paesi dell’Europa orientale e centrale; tuttavia, hanno un’importanza universale, poiché ne discendono conseguenze positive e negative che interessano tutta la famiglia umana… Prima conseguenza è stato, in alcuni Paesi, l’incontro tra la Chiesa e il Movimento operaio, nato da una reazione di ordine etico ed esplicitamente cristiano contro una diffusa situazione di ingiustizia… La seconda conseguenza riguarda i popoli dell’Europa. Molte ingiustizie, individuali e sociali, regionali e nazio-

358

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

nali, sono state commesse negli anni in cui dominava il comunismo ed anche prima; molti odi e rancori si sono accumulati. È reale il pericolo che questi riesplodano dopo il crollo della dittatura…Occorrono, però, passi concreti per creare o consolidare strutture internazionali capaci di intervenire, per il conveniente arbitrato, nei conflitti che insorgono tra le Nazioni,.. Per alcuni Paesi di Europa inizia, in un certo senso, il vero dopoguerra. Il radicale riordinamento delle economie… È giusto che nelle presenti difficoltà i Paesi ex-comunisti siano sostenuti dallo sforzo solidale delle altre Nazioni… La proprietà privata e l’universale destinazione dei beni …Nella Rerum novarum Leone XIII affermava con forza e con vari argomenti, contro il socialismo del suo tempo, il carattere naturale del diritto di proprietà privata. Tale diritto… è stato sempre difeso dalla Chiesa fino ai nostri giorni. Parimenti, la Chiesa insegna che la proprietà dei beni non è un diritto assoluto, ma porta inscritti nella sua natura di diritto umano i propri limiti…Nel nostro tempo diventa sempre più rilevante il ruolo del lavoro umano, come fattore produttivo delle ricchezze immateriali e materiali; diventa, inoltre, evidente come il lavoro di un uomo si intrecci naturalmente con quello di altri uomini. Oggi più che mai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno. Ma un’altra forma di proprietà esiste, in particolare, nel nostro tempo e riveste un’importanza non inferiore a quella della terra: è la proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere. Si è ora accennato al fatto che l’uomo lavora con gli altri uomini, partecipando ad un «lavoro sociale» che abbraccia cerchi progressivamente più ampi. Chi produce un oggetto, lo fa in genere, oltre che per l’uso personale, perché altri possano usarne dopo aver pagato il giusto prezzo, stabilito di comune accordo mediante una libera trattativa. Ora, proprio la capacità di conoscere tempestivamente i bisogni degli altri uomini e le combinazioni dei fattori produttivi più idonei a soddisfarli, è un’altra importante fonte di ricchezza nella società moderna... Così diventa sempre più evidente e determinante il ruolo del lavoro umano disciplinato e creativo e — quale parte essenziale di tale lavoro — delle capacità di iniziativa e di imprenditorialità… Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e più tardi il ca-

359

IL LAVORATORE RITROVATO

pitale, inteso come massa di macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l’uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza… Sembra che, tanto a livello delle singole Nazioni quanto a quello dei rapporti internazionali, il libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni. Ciò, tuttavia, vale solo per quei bisogni che sono «solvibili», che dispongono di un potere d’acquisto, e per quelle risorse che sono «vendibili», in grado di ottenere un prezzo adeguato. Ma esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato. È stretto dovere di giustizia e di verità impedire che i bisogni umani fondamentali rimangano insoddisfatti e che gli uomini che ne sono oppressi periscano. È, inoltre, necessario che questi uomini bisognosi siano aiutati ad acquisire le conoscenze… Si apre qui un grande e fecondo campo di impegno e di lotta, nel nome della giustizia, per i sindacati e per le altre organizzazioni dei lavoratori, che ne difendono i diritti e ne tutelano la soggettività, svolgendo al tempo stesso una funzione essenziale di carattere culturale, per farli partecipare in modo più pieno e degno alla vita della Nazione ed aiutarli lungo il cammino dello sviluppo. In questo senso si può giustamente parlare di lotta contro un sistema economico, inteso come metodo che assicura l’assoluta prevalenza del capitale, del possesso degli strumenti di produzione e della terra rispetto alla libera soggettività del lavoro dell’uomo. A questa lotta contro un tale sistema non si pone, come modello alternativo, il sistema socialista, che di fatto risulta essere un capitalismo di stato, ma una società del lavoro libero, dell’impresa e della partecipazione. Un mercato controllato Essa non si oppone al mercato, ma chiede che sia opportunamente controllato dalle forze sociali e dallo Stato… Conviene ora rivolgere l’attenzione agli specifici problemi ed alle minacce, che insorgono all’interno delle economie più avanzate e sono connesse con le loro peculiari caratteristiche. Nelle precedenti fasi dello sviluppo, l’uomo è sempre vissuto sotto il peso della necessità: i suoi bisogni erano pochi, fissati in qualche modo già nelle strutture oggettive della sua costituzione corporea, e l’attività economica era orientata a soddisfarli. È chiaro che oggi il problema non è solo di offrirgli una quantità di beni

360

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

sufficienti, ma è quello di rispondere ad una domanda di qualità… La domanda di un’esistenza qualitativamente più soddisfacente e più ricca è in sé cosa legittima; ma non si possono non sottolineare le nuove responsabilità ed i pericoli connessi con questa fase storica. Nel modo in cui insorgono e sono definiti i nuovi bisogni, è sempre operante una concezione più o meno adeguata dell’uomo e del suo vero bene: attraverso le scelte di produzione e di consumo si manifesta una determinata cultura, come concezione globale della vita. È qui che sorge il fenomeno del consumismo. Individuando nuovi bisogni e nuove modalità per il loro soddisfacimento, è necessario lasciarsi guidare da un’immagine integrale dell’uomo, che rispetti tutte le dimensioni del suo essere e subordini quelle materiali e istintive a quelle interiori e spirituali. Al contrario, rivolgendosi direttamente ai suoi istinti e prescindendo in diverso modo dalla sua realtà personale cosciente e libera, si possono creare abitudini di consumo e stili di vita oggettivamente illeciti e spesso dannosi per la sua salute fisica e spirituale… Il marxismo ha criticato le società borghesi capitalistiche, rimproverando loro la mercificazione e l’alienazione dell’esistenza umana…L’esperienza storica dell’Occidente, da parte sua, dimostra che, se l’analisi e la fondazione marxista dell’alienazione sono false, tuttavia l’alienazione con la perdita del senso autentico dell’esistenza è un fatto reale anche nelle società occidentali. Essa si verifica nel consumo, quando l’uomo è implicato in una rete di false e superficiali soddisfazioni... Il capitalismo è il sistema migliore? Ritornando ora alla domanda iniziale, si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo? …Se con «capitalismo» si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di «economia d’impresa», o di «economia di mercato», o semplicemente di «economia libera». Ma se con «capitalismo» si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la

361

IL LAVORATORE RITROVATO

consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa. Stato e Cultura … La cultura e la prassi del totalitarismo comportano anche la negazione della Chiesa… Lo Stato totalitario, inoltre, tende ad assorbire in se stesso la Nazione, la società, la famiglia, le comunità religiose e le stesse persone. Difendendo la propria libertà, la Chiesa difende la persona… La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche…Un’autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana… La Chiesa rispetta la legittima autonomia dell’ordine democratico e non ha titolo per esprimere preferenze per l’una o l’altra soluzione istituzionale o costituzionale. Il contributo, che essa offre a tale ordine, è proprio quella visione della dignità della persona, la quale si manifesta in tutta la sua pienezza nel mistero del Verbo incarnato… L’attività economica, in particolare quella dell’economia di mercato, non può svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico. Essa suppone, al contrario, sicurezza circa le garanzie della libertà individuale e della proprietà, oltre che una moneta stabile e servizi pubblici efficienti. Il principale compito dello Stato, pertanto, è quello di garantire questa sicurezza…Lo Stato, ancora, ha il diritto di intervenire quando situazioni particolari di monopolio creino remore o ostacoli per lo sviluppo. Ma, oltre a questi compiti di armonizzazione e di guida dello sviluppo, esso può svolgere funzioni di supplenza in situazioni eccezionali, quando settori sociali o sistemi di imprese, troppo deboli o in via di formazione, sono inadeguati al loro compito…Si è assistito negli ultimi anni ad un vasto ampliamento di tale sfera di intervento, che ha portato a costituire, in qualche modo, uno Stato di tipo nuovo: lo «Stato del benessere». ... Disfunzioni e difetti nello Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato…Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese.

(Stralci)

362

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

PAOLO VI: POPULORUM PROGRESSIO (1967) Aspirazioni degli uomini Essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, la salute, un’occupazione stabile; una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori da ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini; godere di una maggiore istruzione; in una parola, fare conoscere e avere di più, per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi, mentre un gran numero d’essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio tale legittimo desiderio… In questo stato di marasma si fa più violenta la tentazione di lasciarsi pericolosamente trascinare verso messianismi carichi di promesse, ma fabbricatori di illusioni. Chi non vede i pericoli che ne derivano, di reazioni popolari violente, di agitazioni insurrezionali, e di scivolamenti verso le ideologie totalitarie? La chiesa e lo sviluppo …Necessaria all’accrescimento economico e al progresso umano, l’introduzione dell’industria è insieme segno e fattore di sviluppo… Ma su queste condizioni nuove della società si è malauguratamente instaurato un sistema che considerava il profitto come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. Tale «liberalismo» senza freno conduceva alla dittatura..Ma se è vero che un certo «capitalismo» è stato la fonte di tante sofferenze, di tante ingiustizie e lotte fratricide, di cui perdurano gli effetti, errato sarebbe attribuire alla industrializzazione stessa quei mali che sono dovuti al nefasto sistema che l’accompagnava. Bisogna, al contrario, e per debito di giustizia, riconoscere l’apporto insostituibile dell’organizzazione del lavoro e del progresso industriale all’opera dello sviluppo… Troppi uomini soffrono, e aumenta la distanza che separa il progresso degli uni e la stagnazione, se non pur anche la regressione, degli altri… Si danno, certo, situazioni la cui ingiustizia grida verso il cielo… grande è la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie…E tuttavia sappiamo che l’insurrezione rivoluzionaria è fonte di nuove

363

IL LAVORATORE RITROVATO

ingiustizie… Ma desideriamo che il nostro pensiero venga rettamente inteso: la situazione presente dev’essere affrontata coraggiosamente e le ingiustizie, che essa comporta, combattute e vinte. Lo sviluppo esige trasformazioni audaci… La sola iniziativa individuale e il semplice gioco della concorrenza non potrebbero assicurare il successo dello sviluppo… Spetta ai poteri pubblici scegliere, o anche imporre, gli obiettivi da perseguire. Ma devono aver cura di associare a quest’opera le iniziative dei privati e i corpi intermedi, evitando in tal modo il pericolo d’una collettivizzazione integrale o d’una pianificazione arbitraria… Giacché ogni programma, elaborato per aumentare la produzione, non ha in definitiva altra ragion d’essere che il servizio della persona. La sua funzione è di ridurre le disuguaglianze, combattere le discriminazioni, liberare l’uomo dalle sue servitù. Il pluralismo sindacale … Ogni azione sociale implica una dottrina. Il cristiano non può ammettere quella che suppone una filosofia materialistica e atea… Ma, purché siano salvaguardati questi valori, un pluralismo di organizzazioni professionali e sindacali è ammissibile e, da certi punti di vista, utile, se serve a proteggere la libertà… È un umanesimo plenario che occorre promuovere. Che vuol dire ciò, se non lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini? 43. Lo sviluppo integrale dell’uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità… noi dobbiamo parimente cominciare a lavorare assieme per edificare l’avvenire comune dell’umanità». E suggerivamo altresì la ricerca di mezzi concreti e pratici di organizzazione e di cooperazione, onde mettere in comune le risorse disponibili e così realizzare una vera comunione fra tutte le nazioni... …Questo dovere riguarda in primo luogo i più favoriti. I loro obblighi sono radicati nella fraternità umana e soprannaturale e si presenta sotto un triplice aspetto: dovere di solidarietà, cioè l’aiuto che le nazioni ricche devono prestare ai paesi in via di sviluppo; dovere di giustizia sociale, cioè il ricomponimento in termini più corretti delle relazioni commerciali difettose tra popoli forti e popoli deboli; dovere di carità universale, cioè la promozione di un mondo più umano per tutti.

(Stralci)

364

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

BENEDETTO XVI: CARITAS IN VERITATE (2009) La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera… A oltre quarant’anni dalla pubblicazione dell’Enciclica, intendo rendere omaggio e tributare onore alla memoria del grande Pontefice Paolo VI, riprendendo i suoi insegnamenti sullo sviluppo umano integrale e collocandomi nel percorso da essi tracciato, per attualizzarli nell’ora presente…. La vocazione al progresso spinge gli uomini a « fare, conoscere e avere di più, per essere di più ». Ma ecco il problema: che cosa significa « essere di più »? Alla domanda Paolo VI risponde indicando la connotazione essenziale dell’« autentico sviluppo »: esso « deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo». La visione di Paolo VI Paolo VI aveva una visione articolata dello sviluppo…. Oggi il quadro dello sviluppo è policentrico…Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità. Nei Paesi ricchi nuove categorie sociali si impoveriscono e nascono nuove povertà. In aree più povere alcuni gruppi godono di una sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico che contrasta in modo inaccettabile con perduranti situazioni di miseria disumanizzante…. Dopo il crollo dei sistemi economici e politici dei Paesi comunisti dell’Europa orientale e la fine dei cosiddetti “blocchi contrapposti”, sarebbe stato necessario un complessivo ripensamento dello sviluppo… Oggi, facendo anche tesoro della lezione che ci viene dalla crisi economica in atto che vede i pubblici poteri dello Stato impegnati direttamente a correggere errori e disfunzioni, sembra più realistica una rinnovata valutazione del loro ruolo e del loro potere, che vanno saggiamente riconsiderati e rivalutati... Ridotte le reti di protezione Dal punto di vista sociale, i sistemi di protezione e previdenza… faticano e potrebbero faticare ancor più in futuro a perseguire i loro obiettivi di vera giu-

365

IL LAVORATORE RITROVATO

stizia sociale entro un quadro di forze profondamente mutato. Il mercato diventato globale ha stimolato anzitutto, da parte di Paesi ricchi, la ricerca di aree dove delocalizzare le produzioni di basso costo al fine di ridurre i prezzi di molti beni, accrescere il potere di acquisto e accelerare pertanto il tasso di sviluppo centrato su maggiori consumi per il proprio mercato interno. Conseguentemente, il mercato ha stimolato forme nuove di competizione tra Stati allo scopo di attirare centri produttivi di imprese straniere, mediante vari strumenti, tra cui un fisco favorevole e la deregolamentazione del mondo del lavoro. Questi processi hanno comportato la riduzione delle reti di sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori vantaggi competitivi nel mercato globale, con grave pericolo per i diritti dei lavoratori, per i diritti fondamentali dell’uomo…La mobilità lavorativa, associata alla deregolamentazione generalizzata, è stata un fenomeno importante, non privo di aspetti positivi perché capace di stimolare la produzione di nuova ricchezza e lo scambio tra culture diverse. Tuttavia, quando l’incertezza circa le condizioni di lavoro, in conseguenza dei processi di mobilità e di deregolamentazione, diviene endemica, si creano forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell’esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio… Oltre quarant’anni dopo la Populorum progressio, il suo tema di fondo, il progresso, resta ancora un problema aperto, reso più acuto ed impellente dalla crisi economico-finanziaria in atto…La novità principale è stata l’esplosione dell’interdipendenza planetaria, ormai comunemente nota come globalizzazione. Il mercato funziona solo se... …Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri… il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave…

366

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole. La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani… La vita economica ha senz’altro bisogno del contratto, per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti… Gli scopi sociali dell’impresa L’economia globalizzata sembra privilegiare la prima logica, quella dello scambio contrattuale, ma direttamente o indirettamente dimostra di aver bisogno anche delle altre due, la logica politica e la logica del dono senza contropartita…è un fatto che si va sempre più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi. Anche oggi tuttavia vi sono molti manager che con analisi lungimirante si rendono sempre più conto dei profondi legami che la loro impresa ha con il territorio, o con i territori, in cui opera… Preservare i vincoli di giustizia Non c’è motivo per negare che un certo capitale possa fare del bene, se investito all’estero piuttosto che in patria. Devono però essere fatti salvi i vincoli di giustizia, tenendo anche conto di come quel capitale si è formato e dei danni alle persone che comporterà il suo mancato impiego nei luoghi in cui esso è stato generato. Bisogna evitare che il motivo per l’impiego delle risorse finanziarie sia speculativo e ceda alla tentazione di ricercare solo profitto di breve termine, e non anche la sostenibilità dell’impresa a lungo termine, il suo puntuale servizio all’economia reale e l’attenzione alla promozione, in modo adeguato ed opportuno, di iniziative economiche anche nei Paesi bisognosi di sviluppo. La delocalizzazione buona e cattiva.

367

IL LAVORATORE RITROVATO

Non c’è nemmeno motivo di negare che la delocalizzazione, quando comporta investimenti e formazione, possa fare del bene alle popolazioni del Paese che la ospita. Il lavoro e la conoscenza tecnica sono un bisogno universale. Non è però lecito delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo per la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale, fattore imprescindibile di sviluppo stabile.. …« la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno ». Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti.

(Stralci)

368

LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

FRANCESCO I: DISCORSI SULLA CRISI (2013) In attesa della prima enciclica “sociale”, Papa Francesco I ha affrontato i temi del lavoro e il dramma della disuguaglianza in due discorsi. Il primo pronunciato il 1° maggio 2013, festa dei lavoratori, nella cappella di Santa Marta; il secondo nella veglia di Pentecoste. “... Questa icona di Dio lavoratore ci dice che il lavoro è qualcosa di più che guadagnarsi il pane: il lavoro ci dà la dignità! Chi lavora è degno, ha una dignità speciale, una dignità di persona. L’uomo e la donna che lavorano sono degni. Invece, quelli che non lavorano non hanno questa dignità. Ma tanti sono quelli che vogliono lavorare e non possono. Questo è un peso per la nostra coscienza, perché quando la società è organizzata in modo che non tutti hanno la possibilità di lavorare, di essere unti dalla dignità del lavoro, quella società non va bene: non è giusta! Va contro lo stesso Dio, che ha voluto che la nostra dignità incominci da qui... … La dignità non ce la dà il potere, o il denaro, o la cultura. No, la dignità ce la dà un lavoro degno... tanti sistemi sociali, politici ed economici hanno fatto una scelta che significa sfruttare la persona: non pagare il giusto, non dare lavoro perché si guarda solo ai bilanci dell’impresa, si guarda solo a quanto io posso approfittare. E questo va contro Dio! Quante volte abbiamo letto su L’Osservatore Romano titoli che ci hanno colpito come quello del giorno della tragedia del Bangladesh: “Vivere con 38 euro al mese”. Era quanto guadagnavano le persone che sono morte… Questo si chiama “lavoro schiavo!”. E oggi nel mondo c’è questa schiavitù che si fa con la cosa più bella che Dio ha dato all’uomo: la capacità di creare, di lavorare, di farne la propria dignità. Quanti fratelli e sorelle nel mondo sono in questa situazione per colpa di questi atteggiamenti economici, sociali, politici…” Papa Francesco con un riferimento alla costruzione della Torre di Babele dice: “Quando un mattone, per sbaglio, cadeva, era un problema tremendo, uno scandalo: “Ma guarda cosa hai fatto!”. Ma se uno di quelli che facevano la torre cadeva: “Requiescat in pace!”. Era più importante il mattone che la persona. Questo raccontava quel rabbino medievale e questo succede adesso! Le persone sono meno importanti delle cose che danno profitto a quelli che hanno il potere politico, sociale, econo-

369

IL LAVORATORE RITROVATO

mico. A che punto siamo arrivati? Al punto che non siamo consci di questa dignità della persona; questa dignità del lavoro. Ma oggi la figura di san Giuseppe, di Gesù, di Dio che lavorano, ci insegnano la strada per andare verso la dignità. Oggi non possiamo dire più quello che diceva san Paolo: “Chi non vuol lavorare, non mangi”, ma dobbiamo dire che chi non lavora o non trova la possibilità di lavorare, ha perso la dignità! Anzi, la società ha spogliato questa persona di dignità!” Poi, il 18 maggio 2013, nella veglia di Pentecoste, Papa Francesco, ritornava sul tema del lavoro, della crisi economica, della finanza rapace. “...Non interessa se la gente muore di fame, se non ha niente. Ci si preoccupa delle banche o della finanza... Nella vita pubblica se non c'è l'etica tutto è possibile. Leggiamo sui giornali quanto la mancanza di etica fa tanto male all'umanità intera... Se cadono gli investimenti, le banche, tutti a dire che è una tragedia. Se le famiglie stanno male, non hanno da mangiare allora non fa niente... Questa è la nostra crisi... Ci sono più martiri oggi che nei primi secoli della Chiesa, fratelli e sorelle nostri che soffrono. Fa male al cuore dire che trovare un barbone morto di freddo non è notizia mentre lo è uno scandalo; pensare che tanti bambini non hanno da mangiare non è notizia, questo è grave. Ma il martirio non è mai una sconfitta, è il grado più alto della testimonianza che dobbiamo dare. Noi siamo il cammino e il martirio”. Infine l'intervento svolto nel corso dell'Udienza generale del 5 giugno 2013 e quasi interamente dedicato alla giornata per l'ambiente. "I soldi comandano ma Dio nostro Padre ha dato il compito di custodire la terra non ai soldi, ma a noi, gli uomini e le donne, noi abbiamo questo compito... Se muore una persona non è notizia, se tanti bambini non hanno da mangiare non è notizia, sembra normale, non può essere cosi... Non abituiamoci al superfluo e allo spreco di cibo... Vorrei che prendessimo l'impegno contro la cultura dello spreco, per una cultura della solidarietà e dell'incontro... Si cura la terra perché dia frutto e perché questo frutto sia condiviso: è una indicazione di Dio data non solo all'inizio della storia, ma a ciascuno di noi, è parte del suo progetto, vuole dire far crescere il mondo con responsabilità, farlo crescere perché sia un giardino abitabile per tutti... Si dimentica la persona perché quello che comanda è il denaro".

370

In piazza Duomo a Milano, Giorgio Benvenuto viene pesantemente contestato dai militanti del Pci per le posizioni sulla scala mobile, in sintonia con quelle socialiste e di Bettino Craxi. Giorgio Forattini illustra così quella vicenda

IL LAVORATORE RITROVATO

BIBLIOGRAFIA AA.VV. Uil Il sindacato negli anni del miracolo Roma 1961 AA.VV. Fim Cisl Per un sindacato di classe Sapere 1972 AA.VV. Fondazione Giangiacomo Feltrinelli “Problemi del movimento sindacale in Italia 1943-1973” Feltrinelli 1976 AA.VV. Socianalisi del sindacato Uil Politecnico 1980 AA.VV. Il potere diffuso. Per un progetto di autogestione Uil Politecnico 1980 AA.VV. Il sindacato nuovo Franco Angeli Editore 1981 AA.VV. Le scissioni sindacali Edizioni BFS 1999 AA.VV. La riforma del salario Franco Angeli 1984 AA.VV. Le scissioni sindacali Italia Europa BFS Edizioni 1999 AA.VV. LX anniversario della fondazione della Uil Roma 2010 Abravanel Roger Meritocrazia. Quattro proposte concrete per la valorizzare il talento e rendere il nostro Paese più ricco e più giusto Garzanti 2008 Acquaviva Gennaro La politica economica italiana degli anni ottanta Marsilio 2005 Acquaviva Gennaro, Covatta Luigi Il crollo Marsilio 2012 Acquaviva Gennaro, Covatta Luigi, Molaioli Angelo Cento e venti anni di storia socialista Polistampa Ed. 2012 Alò Claudio Il disservizio è compreso Bariletti Editore 1989 Alò Claudio Il grande gap. Infrastrutture: l’Italia ai margini dell’Europa (a cura di Giuseppe Rosa) Editore Sipi 1990 Alosco Antonio Alle radici del sindacalismo Sugarco 1979 Alosco Antoni (a cura di) Cinquant’anni. La Uil Campania dal 1950 al 2000 Ed. Dany 2001

372

BIBLIOGRAFIA

Annibaldi Cesare Impresa, partecipazione, conflitto Marsilio 1994 Arfé Gaetano I socialisti del mio secolo Lacaita 2002 Ascenzi Antonio, Bergagio G. Luigi Il mobbing. Il marketing sociale come strumento per combatterlo G. Giappichelli Editore 2000 Averardi Giuseppe I socialisti democratici (Da Palazzo Barberini alla scissione del 4 luglio 1969) Sugarco 1977 Ballistreri Maurizio Sinistra Socialismo Democrazia A. Siciliano Ed. Messina 1993 Ballistreri Maurizio Sindacato e riformismo Pem Associati Messina 1991 Ballistreri Maurizio Le relazioni sindacali in Italia tra crisi dello Stato-Nazione e bipolarismo politico Edizioni Scientifiche Italiane Napoli 2006 Balzani Roberto Il sindacalismo laico a Forlì: la Uil nel secondo dopoguerra Santermo Editore 1993 Bartocci Enzo Sindacato domani. Le nuove ragioni dell’unità Fondazione Brodolini 1991 Bartocci Enzo Le politiche sociali nell’Italia liberale (1861-1919) Donzelli 1999 Bartocci Enzo Una stagione del riformismo Fondazione Brodolini 2010 Bauman Zygmunt Storia dei sindacati in Italia Editori Riuniti 2006 Bellini S., Scarpellini Mauro Vienna-Ginevra via Comiso Typo Centro Ed. 1985 Bellissima Romano Pillole scosse e petrolio. La Uilcem tra storia e immagini Pironti Editore 2006 Benevento Camillo (a cura di) 40 anni di lotte e conquiste Feneal Uil 1991 Benvenuto Giorgio Natura e funzioni della Commissione Interna Quartara 1960 Benvenuto Giorgio - Rodotà Stefano La riforma dell’ordinamento giudiziario Editori Riuniti Roma 1976 Benvenuto Giorgio Verso un nuovo sindacato Marsilio Ed. 1977

373

IL LAVORATORE RITROVATO

Benvenuto Giorgio Il sindacato tra movimento e istituzioni Marsilio Ed. 1978 Benvenuto Giorgio Dalla tradizione laica un nuovo modello di sindacato Roma 1980 Benvenuto Giorgio Uil 80 dall’antagonismo al protagonismo Barta Editrice 1981 Benvenuto Giorgio (Intervista di Lorenzo Scheggi Merlini) La seconda giovinezza Rizzoli 1986 Benvenuto Giorgio, Giancarlo Fornari La sanità malata Lavoro Italiano 1990 Benvenuto Giorgio Far funzionare l’Italia Procom Edizioni 1990 Benvenuto Giorgio La nostra unità per l’Europa Franco Angeli Editore 1990 Benvenuto Giorgio Giuseppe Mazzini e gli operai Ed. Uil 1991 Benvenuto Giorgio Bruno Buozzi, il riformista Fondazione Bruno Buozzi 2001 Benvenuto Giorgio La Uil di Italo Viglianesi Data Ufficio 2006 Benvenuto Giorgio Millenovecentosessantanove (I metalmeccanici e l’autunno caldo) Fondazione Bruno Buozzi 2009 Benvenuto Giorgio Viglianesi e la storia del sindacato riformista Fondazione Bruno Buozzi 2010 Benvenuto Silvio Ombre e luci Libro Italiano Ragusa 2006 Bertozzi Paride - Sestini Giampietro (a cura di) Dizionario dei termini sindacali e del lavoro Cierre 1993 Bertozzi Paride, Sestini Giampietro (a cura di) Lo statuto dei lavoratori nell’applicazione giurisprudenziale Cierre 1993 Bianchi Gianfranco De Gasperi e la democrazia dell’alternanza Rubbettino Ed. (Quaderni di Europa Popolare) 2008 Bianciardi Silvia Argentina Altobelli Pietro Lacaita Editore 2002 Berselli Edmondo L’Italia di Cipputi Mondadori 2005

374

IL LAVORATORE RITROVATO

Berselli Edmondo L’economia giusta Einaudi 2010 Berta Giuseppe Conflitto industriale e struttura d’impresa alla Fiat (1919-1979) Il Mulino Editore 1998 Berta Giuseppe (con Cesare Annibaldi) Grande impresa e sviluppo italiano studi per i cento anni della Fiat (1° e 2° volume) Il Mulino Editore 1999 Berta Giuseppe La Fiat dopo la Fiat (storia di una crisi 2000-2005) A. Mondadori Editore 2006 Bignami Lionello Unità sindacale ESI 1974 Bobbio Norberto L’età dei diritti Einaudi 2005 Bocca Giorgio I signori dello sciopero Longanesi 1980 Bocchi T. Il movimento repubblicano nel sindacato dal Patto di Roma alla federazione unitaria 1944-1972 Tesi di laurea 1985 Boni Piero Bruno Buozzi e il Patto di Roma Ed. Ediesse 1984 Bonifazi Alberto Da Venezia sulla strada dell’unità Publiroma 1970 Bonifazi Alberto, Salvarani Gianni Dalla parte dei lavoratori, vol. I,II,III Franco Angeli 1976 Borioni Paolo La base socialdemocratica (1964-1968) Carocci Editore 2012 Brodolini Giacomo Dalla parte dei lavoratori Lerici 1979 Burchi Sandra, Ruggeri Fedele Noi e la Cgil Ediesse 2012 Buttinelli Domenico Il servizio sanitario nazionale Franco Angeli Editore 1977 Camera confederale del lavoro di Trieste Sessant’anni di sindacato democratico a Trieste Uil Trieste 2007 Camusso Susanna (Intervista di Stefano Lepri) Il Lavoro perduto Editori Laterza 2012 Canale Aldo, AA.VV. “Fabbrica aperta” anni 1/6. Rivista di politica economica e sindacale Ed. Marsilio 1974/1979

376

BIBLIOGRAFIA

Canale Aldo “Pagina” mensile e settimanale raccolta 1981-1982 Edizione Politecnico Carannante Rocco Dopo la riforma Fornero Tullio Pironti Editore 2012 Carniti Pierre Remare controcorrente Edizioni Lavoro 1985 Carniti Pierre Noi vivremo del lavoro... Edizioni Lavoro 1996 Carniti Pierre Era il tempo della speranza. La Fim negli anni sessanta Edizioni Lavoro 2001 Carniti Pierre Dalla parte del lavoro Città Aperta 2002 Carniti Pierre Dove stiamo andando? Democrazia e lavoro nell’età dell’incertezza Altrimedia 2012 Carpentieri A. La rottura dell’unità sindacale Tesi di laurea 1997 Castagno Gino Bruno Buozzi Ed. Avanti 1955 Castorina Renato Il potere del sindacato Roma 1974 Castorina Renato, Scarpari Romeo Uil dall’atto costitutivo al congresso di Bologna Uil 1977 Castronovo Valerio Fiat. Una storia del capitalismo italiano Rizzoli 2005 Chiaberge Riccardo Un eretico in Confindustria. Il caso Graziano Etas libri 1980 Ciampi Carlo Azeglio, Orioli Alberto Non è il paese che sognavo. Taccuino laico per i 150 anni dell’unità d’Italia Il Saggiatore 2010 Ciani Nadia Fuori da un secolare servaggio. Vita di Argentina Altobelli Ediesse 2011 Contigliozzi Marcello Il mercato comune europeo Cisis 1957 Craveri Piero Sindacato e istituzioni nel dopoguerra Il Mulino 1977 Craveri Piero, Pignatelli Giuseppe Per una riforma delle relazioni industriali. Dieci anni con la Uil Franco Angeli 1990

377

IL LAVORATORE RITROVATO

Cruciani Sante Bruno Trentin e la sinistra italiana e francese Ecole Françoise de Rome 2012 Dalla Chiesa E. Unione europea mercato interno e spazio sociale: quali prospettive? Roma 1987 Danesi Silvano Storia della Uil di Brescia Csp Brescia 2011 De Amicis Edmondo Primo Maggio Garzanti 1891 Dellacqua Mario Luigi Macario Edizioni Lavoro 2003 De Rita Giuseppe, Galdo Antonio L’eclissi della borghesia Laterza 2011 Diamanti Ilvo Tempi strani. Un nuovo sillabario Feltrinelli 2012 Di Capua Giovanni e AA.VV. Grande enciclopedia della politica. I protagonisti dell’Italia democratica. La Uil. Voluni I/VI 1950-2001 Di Capua Giovanni De Gasperi e la democrazia dell’alternanza Rubbettino (Quaderni di Europa Popolare) 2008 Di Mario Antonello Metalmeccanici on line Pironti Ed. 2013 Di Meola Nestore La grande Germania verso il duemila Rubbettino Editore 1997 Di Meola Nestore Willy Brandt Rubbettino Editore 1998 Di Meola Nestore Quel muro c’é ancora Sapere 2000 2003 ESSMOI I socialisti alla Consulta 1974 Fanti Liano (a cura di) Uil 1950-2000. Storia del sindacalismo riformista attraverso un sindacalista: Giulio Polotti M&B Publishing 2000 Feliziani Giancarlo Razza di comunista. La vita di Luciano Lama Editori Riuniti 2009 Ferrari Renato I miei ultimi sessant’anni Ed. Comet 1996 Ferrarotti Franco Sindacalismo autonomo Edizioni di Comunità 1958 Foa Vittorio Sindacati e lotte operaie, 1943-1973 Loescher Editore 1975

378

BIBLIOGRAFIA

Foccillo Antonio La politica dei redditi. Utopia, mito, realtà Ed. Lav. Ital 2007 Foccillo Antonio La politica dei redditi e la sua giuridicità Aracne 2010 Foccillo Antonio - Giovanni Paletta La grande crisi e le manovre economiche Spoleto 2010 Foccillo Antonio Quale sindacato per il nuovo millennio Data News 2011 Fontanelli Giancarlo, Galli Flaminio Parti sociali e comunicazione. Il caso del sindacato nell’Italia contemporanea Anicia 2002 Forbice Aldo I socialisti e il sindacato Palazzi Editore 1968 Forbice Aldo La federazione Cgil, Cisl, Uil tra cronaca e storia Bertani Ed. 1973 Forbice Aldo, Chiaberge Riccardo Il sindacato dei Consigli Bertani 1974 Forbice Aldo Scissioni sindacali e origini della Uil: le vicende politiche e sindacali che portarono nel 1948-1950 alla formazione del pluralismo del movimento sindacale italiano Lavoro Italiano 1981 Forbice Aldo - Sestini Giampietro Pensioni oggi e domani Franco Angeli Ed. 1984 Forbice Aldo Robot, computer e “nuovi operai” Franco Angeli Editore 1984 Forbice Aldo La forza tranquilla Franco Angeli Editore 1984 Forbice Aldo Il sindacato nel dopoguerra Franco Angeli Editore 1990 Forbice Aldo Sindacato e riformismo. Bruno Buozzi scritti e discorsi Franco Angeli Editore 1994 Formica Rino Revisionismo e popolo Ass. Soc. Lib. 2009 Fornari Giancarlo Per una svolta nella politica fiscale Franco Angeli Editore 1977 Fornari Giancarlo, Empedocle Maffia (a cura di) Contro il carovita per una politica dei prezzi Franco Angeli 1977 Fornari Giancarlo I bugiardi del fisco ADN Kronos libri 1985

379

BIBLIOGRAFIA

Fornari Giancarlo - Pellegrino Marco (a cura di) Dall’autunno caldo alle soglie del mercato unico europeo Ianos 1989 Fornari Giancarlo Il sindacato dei cittadini Oikos Edizioni 1990 Fornari Giancarlo (a cura di) Il sindacato degli anni ‘90. Intervista a Giorgio Benvenuto e Giuseppe Tamburrano Oikos 1991 Fornari Giancarlo Tentativo di descrizione di un’agenda di governo Oikos 1992 Fornari Giancarlo La nuova comunicazione pubblica. Strategie e tecnologie per avvicinare le istituzioni ai politici Il sole 24ore 2004 Fornari Giancarlo L’imbarbarimento del linguaggio politico Ediesse 2006 Fornari Giancarlo L’innocente, il guerriero, il mercante, lo psicodramma della comunicazione politica Contrappunti 2006 Galbraith John Kenneth La società opulenta Bollati Boringhieri 1997 Gallino Luciano La scomparsa dell’Italia industriale Einaudi 2003 Gallino Luciano Finanzacapitalismo - La civiltà del denaro in crisi Editori Laterza 2011 Gallino Luciano (intervista di Paola Borgna) La lotta di classe dopo la lotta di classe Editori Laterza 2012 Galossi Romano Voglia di riformismo Salemi 1992 Ghezzi Giorgio Processo al sindacato Ediesse 2012 Gigliobianco Alfredo, Salvati Michele Il maggio francese e l’autunno caldo: la risposta di due borghesie Il Mulino 1980 Gianotti Renzo Lotte e organizzazioni di classe alla Fiat (1948-1970) De Donato Editore 1970 Giordani Enzo Come nacque il sindacato di polizia di Stato Valerio Levi Ed. 1993 Grana Cinzia La Uilm di Bergamo Uilm Bergamo 2002

381

IL LAVORATORE RITROVATO

Hegel Friedrich Fenomenologia dello spirito Bompiani 2000 Horowitz Daniel Il movimento sindacale in Italia Il Mulino 1963 Ingrao Pietro Volevo la luna Einaudi 2006 Ingrao Pietro (con Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti) Indignarsi non basta Aliberti Editore 2011 Keynes John Maynard Sono un liberale? Adelphi 2010 Kennedy John Fitgerald La nuova frontiera Donzelli Editore 2009 Krugman Paul La Coscienza di un liberal Editori Laterza 2008 Krugman Paul Fuori da questa crisi, adesso! Garzanti 2012 Laconi Guido - A. Teutsch Il sindacato dei cittadini Sgk-Uil Bolzano 2002 Lama Luciano Dieci anni di processo sindacale unitario Editrice Sindacale Italiana 1976 Lama Luciano Gli anni del sindacato RS Editrice 1983 Lama Luciano (a cura di Massimo Riva) Intervista sul sindacato Editori Laterza 1976 Lama Luciano (a cura di Massimiliano Amato e Carmine Bonanni) Mezzogiorno e democrazia operaia Libertà e informazione Editore 2005 Lama Luciano (a cura di Maurizio Ridolfi) Luciano Lama Ediesse 2006 La Malfa Ugo Polemica economica a sinistra Ed. Della Voce 1971 Larizza Pietro Esperienze analisi e proiezioni della politica organizativa Uil 1982 Larizza Pietro Con il riformismo per la partecipazione Uil 2009 Larizza Pietro Per le riforme condivise per la democrazia partecipata Uil 2010 Larizza Pietro Il dopo Berlusconi. Paure e speranze Uil 2012 Landolfi Antonio Il socialismo Ediz. Associate 1993 Lauzi Giorgio Per l’unità sindacale. Dal Patto di Roma ad oggi Coines 1974

382

BIBLIOGRAFIA

Lauzi Giorgio La fabbrica del dialogo. Imprese e sindacato: le scelte dell’Intersind (1983-1998) Associazione sindacale Intersind 2005 Levorato G.D. La storia della Uilp Veneto Ed. Maseranse 2001 Limiti Giuliana (a cura di) Giuseppe Mazzini e gli operai Uil 1991 Limiti Giuliana, Di Napoli Mario Carlo e Nello Rosselli. Giustizia e libertà Uil 1993 Livorsi Franco Turati Rizzoli 1984 Lomuti M.L. Le origini della Uil Tesi di laurea 1996 Loreto Fabrizio Agostino Novella Ediesse 2006 Loreto Fabrizio Storia della Cgil dalle origini ad oggi Ediesse 2009 Lotito Franco I diritti della libertà Data Ufficio 2003 Lucarini Federico Politiche contrattuali e costo del lavoro Undel 1983 Macaluso Emanuele 50 anni nel Pci Rubbettino Ed. 2003 Macaluso Emanuele Politicamente s/corretto Audino Editore 2012 Mannucci A. Alla ricerca del sindacato nuovo. La Uil tra federazione unitaria e processo revisionistico Tesi di laurea 1993 Marcuse Herbert Saggi di Teoria Critica 1933-1965 (Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica) Einaudi 1969 Martinet Gilles Sette sindacati per sette paesi Editori Laterza 1980 Mascini Massimo, Ricci Maurizio La via del consenso. Dal protocollo Spadolini del 28 gennaio 1981 all’accordo Scotti del 22 gennaio 1983 Cedis Editrice 1984 Mascini Massimo, Ricci Maurizio Lo scambio alla prova. Imprenditori e sindacati nel 1983 dal lodo Scotti al contratto metalmeccanici Cedis Editrice 1985 Mascini Massimo, Ricci Maurizio La grande sfida sindacati, imprenditori e governo dal settembre 1983 al luglio 1984 Cedis Editrice 1985

383

IL LAVORATORE RITROVATO

Mascini Massimo, Ricci Maurizio La cruna del referendum. Vinti, vincitori e spettatori della svolta del sindacato Cedis Editrice 1987 Mascini Massimo, Ricci Maurizio Dai decimali ai cobas. Come cambiano le relazioni industriali Cedis Editrice 1988 Mascini Massimo, Ricci Maurizio Lavori in corso Cedis Editrice 1991 Mascini Massimo Profitti e salari Il Mulino 2000 Mascini Massimo, Penelope Nunzia Il sindacato di domani Il Diario del lavoro Edizioni 2009 Mattarelli Sauro, Morigi Paola La Uil di Ravenna. Venti di lotte e di proposte Longo 1989 Mattina Enzo Sindacato e controllo operaio Mazzotta 1977 Mattina Enzo Fiat e sindacati negli anni ‘80 Rizzoli 1981 Mattina Enzo Gli industriali e la democrazia Il Mulino 1991 Mattina Enzo Disoccupazione. La vincibile armata Guerini e Associati 2001 Mattina Enzo Elogio della precarietà Rubbettino Ed. 2010 Melograni Piero (a cura di) Intervista sull’antifascismo (Giorgio Amendola) Laterza 1976 Merli Brandini Pietro, Giampiero Sambucini È ancora possibile un sindacato di sinistra? Franco Angeli Ed. 1984 Messia Antonio Storia e storie di metalmeccanici. Quarant’anni di esperienza Uilm Franco Angeli 1990 Messia Antonio Ottobre millenovecentottanta Bardi Editore 2000 Messia Antonio, Passaro Antonio La politica sospesa Tullio Pironti Editore 2003 Messia Antonio Utopia e partecipazione. L’esperienza Zanussi Eucos Edizioni 2004 Messia Antonio, Passaro Antonio Apologia di un antileader Tullio Pironti Ed. 2006

384

IL LAVORATORE RITROVATO

Messia Antonio, Passaro Antonio Luigi Angeletti riformismo e modernità Tullio Pironti Editore 2010 Micheli Giuseppe Quindici anni di cammino della Uil Lavoro Italiano 1968 Miniati Silvano Psiup 1964-1972. Vita e morte di un partito Edimez Ed. 1981 Miniati Silvano Non di sola pensione Circolo d’Europa Ed. 1991 Miniati Silvano I giovani per gli anziani Angelo Guerrini 1992 Montana Vanni B. Amarostico Bastogi 1975 Mucchetti Massimo intervista Cesare Geronzi Confiteor - Potere, banche e affari la storia mai raccontata Feltrinelli 2012 Napoleoni Loretta Il contagio. Perché la crisi economica rivoluzionerà le nostre democrazie Rizzoli 2011 Napolitano Giorgio Dal Pci al socialismo europeo Laterza 2006 Napolitano Giorgio Una e indivisibile. Riflessioni sui 150 anni della nostra Italia Rizzoli 2011 Novelli Claudio Il partito d’Azione e gli italiani La Nuova Italia 2000 Olivetti Adriano Ai Lavoratori. Discorso agli operai di Pozzuoli e Ivrea Edizioni di Comunità 2012 Olivetti Adriano Democrazia senza i partiti Edizioni di Comunità 2013 Paci Agostino, Lauzi Giorgio Governi, imprese e sindacati. fatti e contratti Franco Angeli Editore 2002 Pagliuca Osvaldo Lavorare nella scuola Le Monnier 1988 Pancalli Luca I diritti del cittadino Italedit 2000 Passaro Antonio Chi decide? Tullio Pironti Editore 2009 Passaro Antonio Il valore del lavoro Tullio Pironti Editore 2012

386

BIBLIOGRAFIA

Pelos Ferruccio Il mercato senza lavoro Edizioni Lavoro 2013 Pepe Adolfo Storia della Cgdl Laterza Ed. 1972 Pileri Carlo Quando volano i fenicotteri Fondazione Bruno Buozzi 2012 Pinto Carmine Il riformismo possibile Rubbettino Ed. 2008 Pisasale Giuseppe La Uil trentina Tullio Pironti Editore 2013 Pizzinato Antonio Viaggio al centro del lavoro Ediesse 2012 Plateroti Arnaldo La grande voglia d’Europa Lavoro Italiano 1988 Plateroti Arnaldo La fondazione della Uil: i testimoni Oikos 1989 Plateroti Arnaldo Dicono di noi Uil 2000 Polotti Giulio Dalla fondazione agli anni ‘80. La Uil Edizioni Uil 1989 Proietti Domenico Il profilo riformatore del sindacato Tullio Pironti Ed. 2010 Prosperetti Giulio Nuove politiche per il walfare state G. Giappichelli Ed. 2013 Radosh Ronald Il sindacato imperialista Rosemberg e Seller 1978 Ramella Secondo Vecchio e nuovo sindacalismo negli episodi di un vecchio sindacalista socialista Tip. Riva 1958 Ramella Secondo L’azione sindacale nell’alto novarese. Socialisti e fascisti a confronto Tip. Riva 1962 Regazzi Antonino, Canapa Carlo Fabio Dall’officina metalmeccanica a colloquio con mezzo secolo di esperienza Uilm Istituto studi sindacali Uil 2010 Rasulo Prospero Domenico Delicio. Un itinerario umano e socio-politico lungo una vita Il Coscile 2003 Ravenna Ruggero, Craveri Piero, Pignatelli Giuseppe La scala mobile Politecnico Roma 1980 Ricci Maurizio Anni di ferro. Merloni alla Confindustria Ediesse 1984

387

IL LAVORATORE RITROVATO

Rifkin Jeremy La terza rivoluzione industriale. Come il “potere laterale” sta trasformando l’energia, l’economia, il mondo Mondadori 2011 Roepke Wilhelm Il Vangelo non è socialista Rubettino - Leonardo Facco 2006 Romano Sergio, Lazar Marco con Canonica Michele L’Italia disunita Longanesi 2011 Romeo Federico Gli Stati Uniti e il sindacalismo europeo 1944-1951 Edizioni Lavoro 1959 Romiti Cesare (con Madron Paolo) Storia segreta del capitalismo italiano. Cinquant’anni di economia, finanza e politica raccontati da un grande protagonista Longanesi 2012 Rossi A. Assistenzialismo o sviluppo Ed. La Voce 1985 Rousseau Jean Jeacques Discorso sulle origini delle disuguaglianze Bompiani 2012 Ruffolo Giorgio, Sylos Labini Stefano Il film della crisi - La mutazione del capitalismo Einaudi 2012 Saba Vincenzo Giulio Pastore sindacalista EL 1983 Sabatini Claudio, Polo Gabriele Restaurazione Italiana Manifesto 2000 Sabbatucci Giovanni Storia del socialismo italiano Vol. I-VI Il Poligono 1980 Salvarani Gianni, Guidi E., Valcavi D., Giambarba E., La Porta A., Vinay G., Drago F., Movimento sindacale e contrattazione collettiva 1945-1970 F. Angeli 1971 Salvarani Gianni, Guidi E., Valcavi D., La Porta A., Drago F., La contrattazione integrativa aziendale e di gruppo nel 1970 Seusi 1971 Salvarani Gianni, Guidi E., Valcavi D., La Porta A., La contrattazione integrativa aziendale e di gruppo nel 1971 Seusi 1972 Salvarani Gianni, Guidi E., Valcavi D., Bonifazi A., Giambarba E., La Porta A., La contrattazione aziendale e di gruppo nel 1972 Seusi 1973 Salvarani Gianni, Bonifazi Alberto Le nuove strutture del sindacato Franco Angeli Ed. 1973

388

BIBLIOGRAFIA

Salvarani Gianni, Guidi E., Valcavi D.,Bonifazi A., Giambarba E., La Porta A., (a cura di) Annuario sindacale Franco Angeli 1974 Salvarani Gianni (a cura di) 100 anni di sindacalismo confederale Roma 2010 Salvarani Gianni (a cura di) La consulta questa sconosciuta Roma 2012 Salvarani Gianni (a cura di) Dirigenti e componenti di organismi centrali e periferici della Uil che hanno assunto incarichi di responsabilità nelle istituzioni politicoamministrative pubbliche e private, internazionali, nazionali e locali Roma 2012 Salvarani Gianni Chi sono i fondatori della Uil Ed. Uil 2012 Salvarani Gianni (a cura di) Elenco dei libri di autori Uil e di quelli che hanno scritto solo della Uil Roma 2013 Sambucini Giampiero, Bertozzi Paride Elementi e principi di economia Saleni 1976 Sambucini Giampiero, Bertozzi Paride Lavoratori e sindacati nel processo Uil 1976 Saponaro Michele Mazzini Garzanti 1944 Saragat Giuseppe (a cura di Luigi Preti e Italo De Feo) Quaranta anni di lotta per la democrazia. Scritti e discorsi 1925-1965 Mursia 1966 Sassano Fidia Federazione sindacale mondiale Milano Azione Comune 1967 Sassoon Donald Cento anni di socialismo - La sinistra nell’Europa occidentale del XX secolo Editori Riuniti 1998 Sbarbati Luciana, Ippoliti Iperide La nostra Repubblica Ed. Raffaello 2009 Scarpellini Mauro Proposte per un sindacato protagonista Broglio Editore 1982 Schiavo Mario La UilPost dalla fondazione al congresso di Chianciano (1950-1997) UilPost 1997 Scricciolo Luigi Vent’anni in attesa di giudizio. Dal sindacato in carcere: Imputazione spionaggio Memori 2006 Senofonte Memorabili Bur 1989

389

IL LAVORATORE RITROVATO

Spriano Paolo Storia del Partito Comunista Italiano. vol I. Da Bordiga a Gramsci Einaudi 1971 Sereni Umberto Dal sindacalismo rivoluzionario a sindcalismo repubblicano: il lungo viaggio verso Mazzini di Umberti Pagani in Archivio Trimestrale, n. 4 1978 Simoncini Franco Le associazioni sindacali e i contratti di lavoro Roma 1955 Simoncini Franco Studi di retribuzione Uil 1959 Simoncini Franco Problemi e prospettive della contrattazione collettiva di lavoro Uil 1960 Simoncini Franco Il sindacato e la politica di piano Roma 1962 Simoncini Franco Libertà sindacali e norme repressive Abete 1970 Simoncini Franco Il confronto e la strategia sindacale Abete 1972 Simoncini Franco Unità della Uil per l’unità del movimento Abete 1974 Simoncini Franco La partecipazione nell’impresa Uil 1977 Simoncini Franco Dall’interno della Uil (1950-1985) Franco Angeli Ed. 1986 Spadolini Giovanni e AA.VV. Sindacato e Stato nell’epoca del centrismo e del centrosinistra, vol. I,II,III (a cura di Filippo Peschiera) La Monner 1979 Standing Guy Precari. La nuova classe esplosiva Il Mulino 2012 Stiglitz Joseph E. Il prezzo della disuguaglianza Einaudi 2013 Tamburrano Giuseppe Intervista sul socialismo italiano a Nenni Laterza 1977 Tarantelli Luca Il sogno che uccise mio padre Rizzoli 2013 Tobagi Walter Che cosa contano i sindacati? Rizzoli 1980 Torneo Claudio Il sindacalista d’assalto (Pierre Carniti) Sugarco 1976 Trentin Bruno (intervista di Bruno Ugolini) Il sindacato dei consigli Editori Riuniti 1980

390

BIBLIOGRAFIA

Trentin Bruno Il coraggio dell’utopia Rizzoli Editore 1994 Trentin Bruno Autunno caldo. Il secondo biennio rosso 1968-1969 Ed. Riuniti 1999 Trentin Bruno (a cura di Michele Magno) La libertà viene prima Ediesse Ed. 2004 Trentin Bruno Lavoro e libertà (a cura di Michele Magno) Editori Riuniti 2008 Trentin Bruno Il futuro del sindacato dei diritti Ediesse 2009 Turone Sergio Il paradosso sindacale Editori Laterza 1979 Turone Sergio Storia del sindacato in Italia (1943/1980) Editori Laterza 1981 Turone Sergio Storia della Uil Franco Angeli Ed. 1990 Uhlman Fred L’amico ritrovato Feltrinelli 1986 Vanni Raffaele Relazione sindacale al 3° congresso nazionale dell’Unione Italiana del Lavoro, Roma 9.10.11.12 febbraio 1958 Az. Beneventana Tip. Ed. 1958 Vanni Raffaele Il mezzogiorno di tutti i paesi Centro studi sindacali 1983 Vanni Raffaele (a cura di Camillo Benevento) Gli anni della mia segreteria generala alla Uil Tullio Pironti Editore 2011 Vicario F.M. Le origini e i protagonisti della Uil Tesi di laurea 1988 Viglianesi Italo Dieci anni di sindacalismo democratico Roma 1960 Viglianesi Italo Il sindacato negli anni del miracolo: dichiarazioni alla stampa 1960/61 Uil 1961 Vigorelli Ezio L’italiano è socialista e non lo sa A. Mondadori 1952

391

INDICE DEI NOMI

INDICE DEI NOMI Adenauer Konrad; 202, 339 Agnelli Gianni; 52, 62, 134, 139, 197, 198 Agnelli Susanna; 197 Agnelli Umberto; 197, 198 Agnes Biagio; 70 Alicata Mario; 300 Alighieri Dante; 327 Altobelli Argentina; 47 Amato Giuliano; 36 Arendt Hannah; 223 Aubry Martine; 73, 150 Bakunin Michail; 35 Barber Randy; 111 Bartocci Enzo; 78 Bauman Zygmunt; 28, 30, 158 Beatles; 126 Benedetto XVI; 24, 30, 186, 191, 229, 230, 231, 240, 241, 242, 365 Benso Camillo conte di Cavour; 120 Berlinguer Enrico; 16, 17, 18, 49, 54, 56, 57, 58, 59, 61, 63, 64, 68, 176, 178, 235, 404 Berlusconi Silvio; 93, 96, 97, 120, 132, 133, 135, 136, 150, 162, 169, 189, 191, 192, 214 Bersani Pierluigi; 162 Berselli Edmondo; 10, 167 Bertinotti Fausto; 73, 233 Bissolati Leonida; 277 Blair Tony; 154, 155, 156 Bobbio Norberto; 160 Boehm Franz; 342 Bonanni Raffaele; 154, 157 Bonino Emma; 131 Bonomi Ivanoe; 277 Bordiga Amadeo; 276 Bossi Umberto; 100 Bozzi Aldo; 227 Brandt Willy; 39, 40, 175, 201, 298, 299, 300, 301 Brodolini Giacomo; 77, 78, 79, 80, 139, 162, 203, 233

393

IL LAVORATORE RITROVATO

Bruening Heinrich; 104 Brunetta Renato; 162 Buffet Warren; 9, 217 Buozzi Bruno; 26, 33, 35, 39, 40, 42, 43, 45, 46 Camusso Susanna; 83, 159, 199 Carli Guido; 71 Carniti Pierre; 14, 26, 32, 54, 58, 60, 68, 69, 71, 76, 114, 117, 123, 134, 143, 152, 153, 157, 166, 170, 178, 188, 248 Canevari Emilio; 40, 42 Chiaromonte Gerardo; 68 Ciampi Carlo Azeglio; 36, 67, 95, 98, 121, 129, 149, 150, 151, 204, 216 Luigi Comencini; 75 Conti Giovanni; 35 Cossiga Francesco; 49, 57 Craxi Bettino; 16, 17, 36, 49, 52, 58, 59, 60, 61, 63, 64, 65, 66, 67, 70, 71, 104, 122, 123, 131, 134, 174, 175, 177, 206, 208, 216, 224, 227, 228, 248, 298, 300, 371, 404 Cuccia Enrico; 185 D'Alema Massimo; 156, 175, 227 D'Antoni Sergio; 101, 154 Dahrendorf Ralph; 154, 155 De Benedetti Carlo, 63 De Filippo Eduardo; 75 De Gasperi Alcide; 43, 136 De Gournay Vincent; 139 De Gregori Francesco; 175 Della Valle Diego; 218 De Martino Francesco; 172, 173 De Mita Ciriaco; 16, 67, 68, 70, 227 Depardieu Gerard; 131 De Rita Giuseppe; 224 Dini Lamberto; 113, 204 Di Pietro Antonio; 122, 275 Di Vittorio Giuseppe; 33, 40, 42, 43, 158, 176, 203 Donat Cattin Carlo; 12, 64, 77, 78, 79, 80, 139, 203 Dutschke Rudi; 229 Epifani Guglielmo; 157, 214 Engels Friedrich; 138, 278, 283, 284, 287 Erhard Ludwig; 202

394

INDICE DEI NOMI

Eucken Water; 342 Fassino Piero; 277 Finocchiaro Beniamino; 193 Fisher Joschka; 104, 132 Flaiano Ennio; 135 Formica Rino; 16, 66, 67, 139 Fornero Elsa; 95, 108, 159, 171, 221 Francesco I; 230, 231, 369 Fresco Paolo; 151 Friedman Milton; 149 Galbraith John Kenneth; 126 Gallino Luciano; 8, 12, 23, 25, 29, 83, 84, 85, 171, 172, 223 Garibaldi Giuseppe; 120 Geronzi Cesare; 135, 177, 179, 185 Gheddafi Muammar; 27 Giddens Anthony; 154, 155 Ginsberg Allen; 126 Giovanni XXIII; 20, 34, 231, 232, 233, 241, 341, 352 Giovanni Paolo II; 155, 230, 232, 233, 241, 242, 357 Giugni Gino; 78, 79, 162 Gonzalez Felipe; 122 Gramsci Antonio; 276, 277 Grandi Achille; 33, 42 Gregoretti Ugo; 79 Grillo Beppe; 97, 98, 100, 102, 104, 217 Grossman-Doerth Hans; 342 Guariniello Raffaele; 139 Guccini Francesco; 30 Guthrie Woody; 326 Guicciardini Francesco; 192 Hegel Friedrich; 239, 240, 284 Henry James; 118 Hobsbawn Eric; 187 Hollande Francois; 131, 139, 216, 228 Hoover Herbert; 104, 326 Huber Bertholld; 36, 37, 111 Keynes John Maynard; 31, 149 Kennedy John F.; 126, 209, 210, 218, 221, 231, 325, 326, 327, 334 Kennedy Robert; 325, 327, 337

395

IL LAVORATORE RITROVATO

Khomeyni Ruhollah; 155 Kohl Helmut; 175 Krugman Paul; 120, 122, 123, 144, 149 Kuliscioff Anna; 240 Iotti Nilde; 227 Lama Luciano; 14, 17, 21, 32, 54, 58, 59, 60, 68, 69, 71, 76, 86, 89, 90, 92, 114, 117, 123, 134, 143, 152, 153, 155, 157, 165, 166, 175, 176, 178, 188, 201, 248, 256, 277, 313, 324 La Malfa Ugo; 35, 64, 149 Landini Maurizio; 24, 94 Leone XIII; 34, 191, 204, 229, 231, 241, 339, 340, 341, 344, 348, 349, 350, 352, 359 Lepri Stefano; 83 Levi Montalcini Rita; 148 Lombardi Riccardo; 173, 223, 301 Marchionne Sergio; 23, 37, 87, 93, 129, 139, 150, 151, 197, 198, 201 Macaluso Emanuele; 172 Macario Luigi; 21, 86, 123, 155, 313 Marcuse Herbert; 239 Marshall Alfred; 149 Martelli Claudio; 224 Martinet Gilles; 152 Martini Fabio; 277 Marx Karl; 38, 45, 58, 130, 138, 191, 278, 283, 284, 292, 299, 301 Mastroianni Marcello; 47 Matteotti Giacomo; 38, 227, 302 Mattioli Raffaele; 149 Mazzini Giuseppe; 33, 34, 35, 37, 39, 43 Melato Mariangela; 27 Merkel Angela; 104, 132, 139 Merloni Vittorio; 63, 69, 143, 188 Mieli Paolo; 64, 65 Miliband Ed; 156, 158 Mitterrand Francois; 39, 152, 173 Monicelli Mario; 47 Monti Mario; 75, 87, 88, 92, 93, 94, 95, 96, 99, 108, 110, 119, 121, 129, 130, 131, 135, 136, 139, 140, 149, 151, 162, 163, 204 Morandi Rodolfo; 36, 203 Morese Raffaele; 73 Moro Aldo; 60, 64

396

INDICE DEI NOMI

Morozov Evgeny; 103 Mucchetti Massimo; 135 Muller Hermann; 300 Mussolini Benito; 75, 227 Napoletano Roberto; 109 Napolitano Giorgio; 64, 65, 66, 98, 99, 104, 216 Natta Alessandro; 70 Nenni Pietro; 40, 43, 174, 275, 295, 301 Nixon Richard; 209 Novelli Edoardo; 102, 103 Obama Barak; 139, 144, 198, 228 Occhetto Achille; 13, 154 Olivetti Adriano; 11, 180 183, 193, 234 Ollenahuer Eric; 40, 300 Padoa-Schioppa Tommaso; 131 Palme Olaf; 39 Paolo VI; 184, 231, 232, 341, 342, 363, 365 Perot Ross; 102 Passaro Antonio; 224 Pastore Giulio; 43 Pellizza da Volpedo; 77, 114 Peron Juan Domingo; 214 Pertini Sandro; 98, 175, 216, 277 Petri Elio; 27 Pinochet Augusto; 49, 138 Pio XI; 341, 348 Prodi Romano; 39, 73, 131, 135, 150, 177 Proudhon Pierre-Joseph; 123, 300 Rapelli Giuseppe; 43 Reagan Ronald; 10, 144, 155, 218 Renzi Matteo; 125 Ricardo David; 149 Rifkin Jeremy; 111 Riva Emilio; 179, 180, 181, 182, 183, 185 Riva Massimo; 64 Roepke Wilhelm; 231, 339, 340, 342, 343 Rolling Stones; 126 Romiti Cesare; 57, 63, 139, 146, 147, 148, 197 Roosevelt Franklin Delano; 120, 126, 144, 181, 218, 263, 325, 326, 327, 328, 335

397

IL LAVORATORE RITROVATO

Rossa Guido; 59, 60 Rousseau Jean Jacques; 9, 243 Ruestov Alexander; 342 Ruffolo Giorgio; 111, 113, 130, 136, 187, 189 Salvadori Massimo; 122 Saragat Giuseppe; 42, 45, 275, 276, 290, 291, 300, 301 Sarkozy Nikolas; 216 Sartori Giovanni; 211 Sassoon Donald; 142, 154 Scheggi Merlini Lorenzo; 125 Schiller Karl; 40, 300 Schmidt Carlo; 40, 300 Schmidt Helmut; 132, 299, 301, 302 Schumpeter Joseph; 149 Sciascia Leonardo; 196 Schroeder Gerard; 104, 155 Scotti Vincenzo; 16, 49, 69, 143, 149 Seyboth Marie; 203 Signorile Claudio; 66, 85 Sylos Labini Stefano; 111, 113, 130, 136, 187, 189 Socrate; 239, 240 Sommovigo Amedeo; 34 Sordi Alberto; 75 Spadolini Giovanni; 16, 67, 68 Spinelli Altiero; 136 Spriano Paolo; 276 Springsteen Bruce; 207 Standing Guy; 106, 108 Stiglitz Joseph E.; 9, 218, 220, 327 Taliercio Giuseppe; 60 Tamburrano Giuseppe; 301 Tarantelli Ezio; 59, 60, 61, 71, 73 Terracini Umberto; 244, 279, 285 Thatcher Margareth; 10, 120, 131, 144, 155, 218 Togliatti Palmiro; 43, 172 Tomasi di Lampedusa Giuseppe; 120 Touraine Alain; 154, 155 Tremonti Giulio; 148, 162 Treves Claudio; 277

398

INDICE DEI NOMI

Turati Filippo; 3, 39, 45, 90, 240, 275, 276, 277, 278 Turone Sergio; 50, 52, 77 Trentin Bruno; 13, 58, 59, 170, 175, 176, 186 Ugolini Bruno; 170 Uhlman Fred; 7, 8 Valiani Leo; 149 Valletta Vittorio; 52, 197, 198 Van Basten Marco; 164 Veltroni Walter; 100, 122, 175 Vendola Nichi; 135 Viglianesi Italo; 78, 79 Visco Vincenzo; 162 Visentini Bruno; 67, 88, 117, 248 Von Hayek Friedrich; 149 Voltaire; 243 Wehner Herbert; 40, 300 Winterkom Martin; 199 Zapatero José Luis Rodriguez; 233 Zavoli Sergio; 53 Zetsche Dieter; 198

399

IL LAVORATORE RITROVATO

GLOSSARIO Acli, Associazioni Cristiane Lavoratori Italiane Alcoa, Aluminium Company of America Bot, Buoni Ordinari del Tesoro Br, Brigate Rosse Cdu, Christlich Demokratische Union Cee, Commissione Economica europea Censis, Centro Studi Investimenti Sociali Cgia, Confederazione generale dell'Artigianato Cgdl, Confederazione Generale del lavoro Cgil, Confederazione Generale Italiana del Lavoro Cisl, Confederazione Italiana Sindacato Lavoratori Consob, Commissione Nazionale per le società e la Borsa Csu, Christlich Soziale Union Dc, Democrazia Cristiana Ebri, European Brain Research Institute Eni, Ente Nazionale Idrocarburi Etui, European Trade Union Institute Fiat, Fabbrica Italiana Automobili Torino Fim, Federazione Italiana Metalmeccanici Fiom, Federazione Impiegati e Operai Metallurgici Flm, Federazione Lavoratori Metalmeccanici Ig Metall, Industriegewerkschaft Metall Imu, Imposta Municipale Unica Inail, Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro Inps, Istituto Nazionale della Previdenza Sociale Irap, Imposta Regionale sulle Attività Produttive Iri, Istituto per la Ricostruzione Industriale Irpef Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche Ismu, Iniziative e Studi sulla Multietnicità Istat, Istituto Nazionale di Statistica

400

GLOSSARIO

Iva, Imposta Valore Aggiunto Msi, Movimento Sociale Italiano Onu, Organizzazione delle Nazioni Unite Pci, Partito Comunista Italiano Pd, Partito Democratico Pil, Prodotto Interno Lordo Pli, Partito Liberale Italiano Pri, Partito Repubblicano Italiano Psdi, Partito Socialista Democratico Italiano Psli, Partito Socialista dei Lavoratori Italiani Psi, Partito Socialista Italiano Psiup, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria Psu, Partito Socialista Unitario Uil, Unione Italiana del Lavoro Uilm, Unione Italiana Lavoratori Metalmeccanici Spd, Sozialdemokratische Partei Deutschlands Psf, Parti Socialiste Francais Ue, Unione Europea Ugl, Unione Generale del Lavoro

401

IL LAVORATORE RITROVATO

Parte Prima: l’Intervista Introduzione ........................................................................................... 7 Dalla paura all’orgoglio ......................................................................... 15 Dall’Autunno Caldo al grande freddo .................................................... 33 Dalla concertazione all’emarginazione ................................................. 83 Dal presente al futuro ......................................................................... 125 Dalla crisi finanziaria al dramma sociale ............................................. 167 Dal sindacato ai partiti ........................................................................ 209 Dallo Stato alla Chiesa ........................................................................ 223 Parte Seconda: le Storie e i Documenti Prologo .................................................................................................239 Il lavoro nelle Costituzioni ....................................................................243 Costituzione della Repubblica Italiana .................................................246 Costituzione della Repubblica Federale Tedesca ..................................249 Costituzione della Spagna ....................................................................249 Costituzione della Repubblica Greca ....................................................250 Costituzione Federale della Confederazione Svizzera ..........................251 Costituzione della Federazione Russa ..................................................257 Costituzione dell’Impero del Giappone ................................................258 Costituzione della Federazione Brasiliana ............................................259 Costituzione della Repubblica Popolare Cinese ...................................261 Costituzione della Repubblica Federale Tedesca ..................................249 Costituzione Francese del 24 giugno 1793 ...........................................262 Carta Atlantica ......................................................................................263 ONU (1948): Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo ..................263 Costituzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.................264 ONU: Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali ......268 402

INDICE

Unione Europea: Carta dei diritti fondamentali....................................271 Repubblica Federale Tedesca: Costituzione..........................................216 Spagna: Costituzione.............................................................................217 Turati e le ragioni del riformismo..........................................................275 Il discorso di Turati al XX congresso del Psi............................................278 Giuseppe Saragat all’assemblea costituente del Psli.............................291 Psi: la domanda d’ammissione a socio..................................................295 Germania.La svolta della Spd: il programma di Bad Godesberg ......... 299 Roosevelt, John e Bob Kennedy, Navigare nella Tempesta ................. 325 Discorso di insediamento di F. D: Roosevelt ....................................... 328 Discorso di accettazione di J. F. Kennedy ............................................ 334 Discorso sul Pil di R. Kennedy ............................................................. 337 La dottrina sociale della Chiesa ..... ..................................................... 339 Leone XIII: Rerum Novarum (1891).......................................................344 Pio Xi: Quadragesimo Anno (1931).......................................................348 Giovanni XXIII: Mater e Magistra (1961)...............................................352 Giovanni Paolo II: Centesimus Annus (1991)........................................357 Paolo VI: Populorum Progressio (1967)................................................363 Benedetto XVI: Caritas in Veritate (2009).............................................365 Francesco I: Discorsi sulla crisi (2013)...................................................369 Bibliografia............................................................................................372 Indice dei nomi......................................................................................399 Glossario...............................................................................................400 Sono state inserite vignette satiriche (Altan, Franco Bevilacqua, Alain Denis, Giorgio Forattini, Alfredo Chiàppori, Massimo Bucchi, Franco Bruna, Emilio Giannelli, etc.), documenti e foto dell’archivio della Fondazione Bruno Buozzi e di Umberto Cicconi. 403

1980: Giorgio Forattini su “La Repubblica” disegna Bettino Craxi intento a creare tranelli a Enrico Berlinguer evocando il nome del leader della Uil.

Gli Autori Giorgio Benvenuto, nato a Gaeta l’8 dicembre 1937. Si è laureato a 22 anni in giurisprudenza. La tesi “Natura e funzioni delle Commissione Interne” in Diritto del lavoro con il Professore Francesco Santoro Passarelli è stata pubblicata. E’ entrato nella UIL IL 1° ottobre 1955. E’ stato Segretario Confederale della UIL (1968-1969), Segretario Generale dei metalmeccanici della UILM e della FLM (1969-1976), Segretario Generale della UIL (1976-1992) e della Federazione CGIL-CISL-UIL (1976-1984). E’ stato più volte negli anni settanta ed ottanta vice presidente della Federazione Europea Metalmeccanici (FEM); vice presidente della Confederazione Sindacale Europea (CES); consigliere del Consiglio Nazionale Economia e Lavoro (CNEL). Segretario Generale del Ministero delle Finanze (1992-1993). Segretario Nazionale del PSI (febbraio-giugno 1993). Parlamentare alla Camera dei Deputati e al Senato per tre legislature (1996-2008) ha ricoperto l’incarico di Presidente delle Commissioni Finanze e Tesoro. Economista ed esperto in materie fiscali, insegna alla Scuola Superiore della Guardia di Finanza. E’ autore di molti saggi sulla finanza, sulla politica, sul sindacato, sui partiti. E’ attualmente il Presidente della Fondazione Bruno Buozzi e Vice Presidente della Fondazione Giacomo Brodolini. Antonio Maglie, premio giornalistico Saint Vincent per le inchieste nel 1999, è inviato del Corriere dello Sport-Stadio. Ha fatto parte del gruppo dei fondatori del Quotidiano di Brindisi, Lecce e Taranto ricoprendo l'incarico di vice-caporedattore. Ha collaborato all'Ufficio Stampa della Uil durante la Segreteria di Giorgio Benvenuto. E' stato vice-segretario dell'Associazione della Stampa Romana agli inizi degli anni novanta. Tra i libri pubblicati: La disfatta (Limina, 2003) sulla crisi economica del calcio professionistico.

405

Ringraziamo tutti coloro che hanno permesso la realizzazione di questo libro: le fondazioni Anna Kuliscioff, Socialismo, Brodolini, Nenni, Di Vittorio, Pastore, Argentina Altobelli; l’Istituto di Studi Sindacali della Uil e la società “Procom” di Aldo Canale. Un grazie speciale a Maria Angela Panno che si è occupata della redazione, a Carlo Zeppieri per il perfetto contributo digitale e per i preziosi consigli a Gianni Salvarani, autore di una ricca e documentata bibliografia sulle pubblicazioni riguardanti la Uil.

Con la dichiarazione dei redditi, è possibile destinare il 5 per mille dell’IRPEF alla Fondazione Bruno Buozzi per contribuire al finanziamento delle sue attività di ricerca e di studio. È sufficiente mettere la propria firma, nell’apposito riquadro, indicando il nostro codice fiscale:

97290040589 Chi ha solo il CUD potrà consegnare in posta il modello compilato nella parte recante l’indicazione “scelta per la destinazione del 5 per mille dell’IRPEF”. A chi volesse invece inviare contributi il bonifico deve essere effettuato a favore della Fondazione Bruno Buozzi con la causale “liberalità” al seguente Iban: IT05K 03069 05065 000006406344. FONDAZIONE BRUNO BUOZZI via Sistina, 57 - 00187 Roma tel. 066798547 fax 066798845 sito: www.fondazionebrunobuozzi.it e-mail: [email protected] twitter: @FondBrunoBuozzi - twitter: @giorgiobenvenut 406

Related Documents


More Documents from "Emanuele Nusca"

Ebook Mentalista
February 2021 0
Nap
February 2021 4