Paolo_di_sacco-_-basi_della_letteratura_plus._materiali_per_il_docente._per_le_scuole_superiori_3- (1).pdf

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Paolo Di Sacco

plu s

Le basi della letteratura 3a Con percorsi di educazione linguistica

Tra Ottocento e Novecento

Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

Paolo Di Sacco

Le basi della letteratura plu s

Con percorsi di educazione linguistica

3A

Tra Ottocento e Novecento

Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

Franco Amerini progettazione editoriale e coordinamento Marina Bardini progettazione grafica e copertina

plu Le basi s della letteratura

Laura Guerrini redazione Cecilia Lazzeri ricerca iconografica Compos 90 impaginazione Studio Lauti - Bologna cartografia Massimiliano Martino controllo qualità Tutti i diritti riservati © 2011, Pearson Italia, Milano - Torino www.brunomondadoriscuola.com 978 88 424 3526 6 A

L

e basi della letteratura Plus è un’opera pensata per accompagnare

L

articolazione in Monografie, i capitoli sugli autori e i movimenti

il lavoro quotidiano degli studenti e per valorizzare le buone pratiche didattiche della nostra scuola secondaria

di secondo grado nell’insegnamento della letteratura italiana.



Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire, nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, corso di Porta Romana n.108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org.

più importanti, e in Raccordi, i capitoli sintetici sugli argomenti

di minore rilevanza, permette di presentare in maniera esauriente

la storia letteraria, pur in un’opera di dimensioni contenute, concentrandosi in modo approfondito ed efficace sui classici. Inoltre, Le basi della letteratura Plus facilitano l’apprendimento, grazie alla chiarezza del linguaggio, Stampato per conto della casa editrice presso La Tipografica Varese - Varese (Italia) Ristampa 0123456

Anno 11 12 13 14 15 16

all’efficace inquadramento dei periodi trattati (nei Contesti), alle analisi guidate dei testi, all’ampia e costante presenza di aiuti allo studio in chiave “visiva” (mappe, schemi, analisi di brani, sintesi): tutti strumenti per orientarsi, capire e memorizzare, vale a dire per lavorare con profitto sulla storia letteraria, i testi, il linguaggio.

L

e nuove indicazioni curricolari chiedono al docente del triennio di affiancare all’insegnamento

della storia letteraria la ripresa e la continuazione di una formazione linguistica generale. Per questo, Le basi della letteratura Plus comprende le sezioni di Educazione linguistica, con schede

dedicate ad argomenti di morfosintassi e di lessico e ad aspetti storici e sociali della lingua italiana. La loro funzione è di consolidare le competenze acquisite nel biennio e di svilupparle in un’ottica linguistica da triennio. Va in questa direzione anche un’altra novità del manuale: la Scuola di scrittura, presente alla fine di ciascun volume. Con una proposta di lavoro graduata sui tre anni, la Scuola guida lo studente

L e disposizioni di legge richiedono libri

al potenziamento delle capacità di scrittura,

di testo in forma mista, ossia con una parte

attraverso un percorso operativo che inizia

cartacea e un’estensione online.

dalle Riscritture, passa per la costruzione del

Ma il corredo digitale di Basi della letteratura Plus

Progetto testuale e porta lo studente ad affrontare

va molto al di là dell’obbligo imposto dalla legge,

le tipologie di scrittura per l’Esame di Stato.

configurandosi come un vero e proprio libro parallelo e integrato con quello cartaceo.

N

uove sono anche le sezioni iconografiche

La dotazione antologica del corso, infatti, è ampliata

I linguaggi dell’arte, che inquadrano

da oltre 100 testi supplementari online, segnalati

i principali movimenti delle arti figurative.

nell’indice dei volumi per un più facile reperimento,

Numerose altre schede iconografiche, Leggere

e suddivisi in Testi e in Laboratori interattivi.

l’arte e Sguardi sulla società, si trovano dislocate

Sono inoltre presenti online brani di critica letteraria.

lungo il manuale in collegamento con la corrente

Tutti i materiali sono segnalati nei volumi

letteraria, l’autore o l’opera lì trattati.

con il simbolo

Paolo Di Sacco

9788842435266A_006-014.qxd:012_058_Contesto

14-01-2011

9:07

Pagina 6

Tra Ottocento e Novecento Contesto

15

■ Storia 1 I primi decenni del Regno d’Italia

18

1. L’Italia della Destra storica 2. L’annessione del Veneto e la questione romana 3. La sinistra al governo 4. L’età crispina 5. La crisi di fine secolo 6. Il movimento operaio e i socialisti

2 L’età dell’imperialismo e l’espansione coloniale

22

24

1. La grande industria e i progressi di scienza e tecnica 2. L’emigrazione dall’Europa e l’emergere di una nuova potenza industriale, gli Stati Uniti

4 L’età giolittiana

25

1. Giolitti: la svolta politica e le aperture sociali 2. Luci e ombre del riformismo giolittiano 3. I cattolici e la politica italiana 4. La guerra di Libia e la propaganda nazionalista

5 Le tensioni internazionali a inizio Novecento

28

1. L’inizio del secolo, tra illusioni di pace e politiche aggressive 2. Le alleanze contrapposte 3. Lo scoppio del conflitto e la posizione dell’Italia

6 La Prima guerra mondiale e le sue conseguenze

30

1. Una svolta epocale 2. L’Europa e l’Italia dopo la guerra ■ SGUARDI SULLA SOCIETÀ

Le masse, nuove protagoniste della

storia

Sintesi visiva Il difficile passaggio tra Ottocento e Novecento

33

42

■ Poetiche 1 Naturalismo e Verismo

43

1. Dalla Francia la novità del Naturalismo 2. La poetica naturalistica ■ IL DOCUMENTO Zola: letteratura e analisi scientifica 3. Il Verismo italiano 4. Naturalismo e Verismo sulle scene teatrali ■ SGUARDI SULLA SOCIETÀ La fotografia

2 Il Decadentismo e la letteratura d’inizio Novecento

48

1. Oltre il Naturalismo 2. Le diverse fasi del Decadentismo 3. Simbolismo e rinnovamento del linguaggio poetico 4. Gli sviluppi del Simbolismo 5. La narrativa decadente: i romanzi dell’Estetismo e la venerazione per il «bello» ■ IL DOCUMENTO Rimbaud: Lettera del «poeta veggente» 6. La posizione di Pascoli e D’Annunzio 7. Il Decadentismo di Svevo e Pirandello e la nuova narrativa psicologica 8. Romanzo italiano e romanzo europeo: i maestri del Novecento ■ LA GEOGRAFIA LETTERARIA Centri e autori del Decadentismo 53

3 Le avanguardie

54

1. Il concetto di avanguardia 2. Le avanguardie storiche del primo Novecento 3. Il Futurismo 4. L’Espressionismo ■ IL DOCUMENTO Il Manifesto del Futurismo 5. Il Dadaismo 6. Il Surrealismo ■ IL DOCUMENTO Il Manifesto dada 1918 e il

Manifesto del Surrealismo ■ LA GEOGRAFIA LETTERARIA Le avanguardie storiche in Europa 59 60 61

34

1. La nuova immagine della scienza 2. L’idea del progesso 3. La filosofia del Positivismo 4. L’evoluzione naturale secondo Darwin ■ IL DOCUMENTO Darwin: evoluzione e futuro

dell’umanità

2 La crisi del modello razionalista

41

1. Croce e Bergson 2. Tra soggettivismo e razionalismo

Sintesi visiva Tre proposte per la modernità Sintesi operativa

■ Idee 1 Il Positivismo

3 Intuizione e vita interiore nelle filosofie d’inizio Novecento Sintesi visiva Due modelli culturali

1. Un fenomeno nuovo: il colonialismo come imperialismo 2. Le ragioni del colonialismo

3 La seconda rivoluzione industriale

L’emancipazione femminile ■ IL DOCUMENTO Nietzsche: «Dio è morto!» 4. I «maestri del sospetto» ■ IL DOCUMENTO Freud: «L’Io non è padrone in casa propria» ■ SGUARDI SULLA SOCIETÀ Mass media e industria culturale ■ SCHEDA

36

1. Un nuovo clima culturale 2. Il crepuscolo di una civiltà 3. La fine delle certezze tradizionali: Nietzsche e Freud

I linguaggi dell’arte ■ L’Impressionismo ■ I macchiaioli ■ Il Postimpressionismo ■ L’Espressionismo ■ Il Cubismo e Picasso ■ Il Futurismo

65 66 67 68 69 70

9788842435266A_006-014.qxd:012_058_Contesto

14-01-2011

9:08

La stagione del Verismo

Raccordo

Il Naturalismo francese

71

1. Una letteratura del «progresso» 2. Un metodo scientifico per la letteratura ■ SCHEDA La penna come un bisturi: romanzo naturalista e medicina 3. Un anticipatore: Flaubert

71 72 73 74

Testi • Guy de Maupassant, Sull’acqua (La casa Tellier)

Gustave Flaubert Madame Bovary T1

Il matrimonio fra noia e illusioni

Émile Zola Germinale T2

La miniera

75 76 79 80

Testi • Émile Zola, Il romanzo come «studio di fisiologia» (Teresa Raquin, Prefazione) ■ SGUARDI SULLA SOCIETÀ Vivere nella moderna 84 città industriale

Verifica

85

Raccordo

Gli scrittori del Verismo 1. Dal Naturalismo al Verismo 2. I veristi siciliani 3. Verismo e letteratura regionale ■ SCHEDA La questione meridionale

Luigi Capuana Giacinta T1

Giacinta e un «medico filosofo»

86

116

1. Il Verismo impossibile: La duchessa di Leyra 2. Finzione e inganno in nuove prove narrative 3. Per un teatro «verista» 4. L’ultimo romanzo: Dal tuo al mio

Sintesi visiva Il Verismo di Verga: opere, temi, linguaggio ■ SGUARDI SULLA SOCIETÀ

La nascita del cinema

118 119

Laboratori interattivi • Via crucis (Per le vie)

Storia di una capinera T1

C’era un profumo di Satana in me

Nedda T2

120 121

125

Nedda «la varannisa»

126

■ LA PAROLA AL CRITICO

L. Russo, Verga tra vecchio e nuovo Testi • Nedda e Jannu

89 90

Vita dei campi

130

131

T3

Lettera-prefazione a L’amante di Gramigna

132

T4

La Lupa

135

Un parto mostruoso e un’elezione al parlamento 97

T5

Cavalleria rusticana

141

V. Spinazzola, I Viceré e il volto mutevole del potere

101

T6

Fantasticheria

148

Grazia Deledda Canne al vento

102 103

Federico De Roberto I Viceré ■ LA PAROLA AL CRITICO

T3

L’ultimo Verga

88

91 92

113

1. La «conversione» al Verismo: Nedda 2. I racconti di Vita dei campi 3. Il «ciclo dei vinti» e I Malavoglia 4. Novelle di campagna, novelle di città 5. L’ultimo capolavoro: Mastro-don Gesualdo

86

Testi • Luigi Capuana, Il medico dei poveri (Le paesane)

T2

Pagina 7

Il pellegrinaggio di Efix tra i mendicanti

Verifica

96

107

Testi • Rosso Malpelo

I Malavoglia T7

Monografia

Prefazione

154

La dignità di chi lavora: Il quarto stato di Pellizza da Volpedo

158

La famiglia Toscano

159

■ LEGGERE L’ARTE

Giovanni Verga

108

La vita

109

1. La famiglia e la formazione 2. I romanzi giovanili e il periodo fiorentino 3. Il periodo milanese 4. La «conversione» letteraria al Verismo 5. Il ritorno in Sicilia e gli ultimi anni

L’apprendistato del romanziere

150

T8

Confronti I promessi sposi e I Malavoglia: due modi assai diversi per cominciare un romanzo ■ LA PAROLA AL CRITICO

T9

111

1. La formazione di Verga in un clima patriottico e tardo romantico 2. I romanzi dell’esordio 3. Amori tormentati e sperimentazione narrativa 4. Due romanzi «mondani»: Eros e Tigre reale

164

G. Baldi, Verga e l’artificio della regressione

166

Le novità del progresso viste da Trezza

167

■ SCHEDA T10

I Malavoglia e la questione meridionale

170

L’addio alla casa del nespolo

171

■ SCHEDA Dal cerchio non si esce: il pessimismo «tragico» di Verga

175

7

9788842435266A_006-014.qxd:012_058_Contesto

14-01-2011

Testi • Due opposte concezioni di vita: padron ’Ntoni e ’Ntoni (cap. XI) La parola al critico • L. Spitzer, L’originalità stilistica dei Malavoglia

Novelle rusticane T11

Libertà

T6

Mastro-don Gesualdo

T13

Nevicata

Gesualdo e Diodata alla Canziria Il romanzo della «roba»

La morte di Gesualdo

176

Verifica

184

234

185

Raccordo

La Scapigliatura 1. Un modo diverso di essere artisti a fine Ottocento 2. Gli autori e la poetica

187

R. Luperini, L’ottica dell’estraneità

Sintesi operativa Proposte di lavoro per l’Esame di Stato

194 200 201

Emilio Praga Penombre T1

204

Preludio ■ SCHEDA

Vita di bohème

Iginio Ugo Tarchetti Racconti fantastici

Educazione linguistica

T2

SCHEDA 2 SCHEDA 3 SCHEDA 4

Preposizioni di ieri, preposizioni di oggi La «capacità» del pronome Il «che» polivalente e l’italiano informale I valori dell’aggettivo

La lettera U

Carlo Dossi L’altrieri. Nero su bianco

Le norme e l’uso Tra grammatica e linguistica

T3

Lisa ■ SCHEDA

207 209

235 235 237

La parola al critico • D. Isella, Che cosa fu la Scapigliatura Testi • Arrigo Boito, L’alfier nero (Racconti) Laboratori interattivi • Arrigo Boito, Dualismo (Libro dei versi, I); Lezioni d’anatomia (Libro dei versi, XII)

193

■ LA PAROLA AL CRITICO

SCHEDA 1

232

177

R. Luperini, Rivolta e pietà nella novella di Bronte Testi • La roba

■ SCHEDA

Pagina 8

Laboratori interattivi • Alla stazione in una mattina d’autunno

■ LA PAROLA AL CRITICO

T12

9:08

L’Espressionismo stilistico

Verifica

238 239 241 242 242 249 250 252 253

211 212

Raccordo

I simbolisti francesi

Raccordo

Giosue Carducci 1. La vita 2. La poetica ■ SCHEDA

Carducci e la metrica barbara

Epistolario T1

Lettera a Felice Tribolati ■ SCHEDA

Carducci prosatore

Rime nuove T2

Pianto antico ■ SCHEDA

T3

8

Charles Baudelaire I fiori del male Corrispondenze

257 258

T2

Spleen

260

217 218 218

■ SCHEDA

Lo spleen: storia di una parola

Arthur Rimbaud Poesie

220 T3

221 222

Vocali

Illuminazioni T4

Alba

224

I cipressi di Bolgheri

225

La parola al critico • L. De Maria, L’irripetibile esperienza di Rimbaud alle origini della poesia novecentesca

Il comune rustico

226

■ SGUARDI SULLA SOCIETÀ

Il Medioevo di Carducci Laboratori interattivi • Davanti San Guido

228

Odi barbare

229 229

Dinanzi alle Terme di Caracalla

256

T1

216

Un tema classico per un lutto senza speranza 223

■ SCHEDA

T5

254

Traversando la Maremma toscana ■ SCHEDA

T4

215 215

254

1. L’espressione in versi del Decadentismo 2. La poetica del Simbolismo

T5

262 263 265 265

L’artista protagonista del cambiamento

267

Paul Verlaine Poesie

268 269

Languore ■ SCHEDA

T6

261

Esistenze «maledette»

Arte poetica

270 271

T7

Stéphane Mallarmé Poesie

273

La poesia dannunziana

Brezza marina

274

1. Gli esordi giovanili: il Decadentismo in versi 2. Una pausa dai sensi: il Poema paradisiaco 3. L’enciclopedia in versi delle Laudi 4. Natura, nazionalismo e musicalità in Maia, Elettra, Alcyone ■ SCHEDA La produzione teatrale di D’Annunzio

■ SCHEDA

La pittura simbolista

Verifica

275 276

Raccordo

Il romanzo decadente 1. Le strade della narrativa di fine Ottocento 2. Identikit del romanzo decadente ■ SCHEDA

Estetismo e società di massa

L’ultima stagione e la nuova prosa «notturna» 277 277 278

Il trionfo del romanzo a fine Ottocento 280 La parola al critico • A.L. de Castris, Il romanzo come espressione peculiare della crisi decadente

Antonio Fogazzaro Malombra Un vecchio manoscritto e la sua pericolosa rivelazione

281 282

Sintesi visiva Generi e opere di D’Annunzio

Canto novo

312

O falce di luna calante

Il piacere T2

■ LEGGERE L’ARTE

310

Testi • Rigenerazione spirituale (L’innocente) • Stelio Èffrena, l’esteta (Il fuoco)

T1

Testi • Antonio Fogazzaro, Le inquietudini di Corrado Silla scrittore (Malombra)

T2

309

1. Una nuova scrittura per la prosa 2. Aggiornamento letterario e vecchi miti 3. Notturno, il libro più «novecentesco» di D’Annunzio

279

■ SCHEDA

T1

307

315

L’attesa di Elena

316

Dietro le cose, una realtà più profonda

287

Joris-Karl Huysmans A ritroso

288 289

T3

La casa artificiale del perfetto esteta La «passeggiata» di Zola e Huysmans: due scuole letterarie a confronto

291

Le vergini delle rocce

292 293

T4

■ LA PAROLA AL CRITICO

G. Tosi, Il simbolismo del Piacere320

Ritratto d’esteta ■ SCHEDA

313

D’Annunzio e il Decadentismo

321 325

■ SCHEDA

Oscar Wilde Il ritratto di Dorian Gray T3

La rivelazione della bellezza

Verifica

296

Monografia

Il programma del superuomo

327

D’Annunzio e il fascismo

329

■ SCHEDA

Alcyone La sera fiesolana

331

T6

La pioggia nel pineto

335

L’eredità lasciata da D’Annunzio alla letteratura del Novecento

340

297

■ SCHEDA

La vita

298

■ LA PAROLA AL CRITICO

La poetica: sperimentalismo ed estetismo

I romanzi del superuomo

A.L. de Castris, Il limite ideologico di Alcyone

Scheda visiva La metrica dannunziana: verso libero e strofa lunga T7

305

1. Sette romanzi tra il 1889 e il 1910 2. L’individualismo del superuomo ■ SCHEDA Nietzsche, D’Annunzio e il superuomo 3. Sperimentalismo e antiromanzo 4. Il motivo della de-

I pastori

341 342 344

Laboratori interattivi • Meriggio • Novilunio

301

1. Lo sperimentatore delle possibilità della parola 2. Un letterato aperto al nuovo 3. L’uomo del cambiamento 4. L’esteta e le sue squisite sensazioni 5. Il creatore d’immagini 6. L’artista e la massa

330

T5

Gabriele D’Annunzio

1. Le ambizioni di un giovane esteta 2. Suggestioni europee 3. Il successo politico e letterario 4. Il poeta della guerra 5. L’impresa di Fiume 6. Un mito tra le reliquie del passato

326

Notturno T8

Imparo un’arte nuova

346 347

■ LA PAROLA AL CRITICO

R. Barilli, La peculiarità di Notturno

Sintesi operativa Proposte di lavoro per l’Esame di Stato

349 350 354

cadenza e del «trionfo della morte»

9

Monografia

T6

■ SCHEDA

Giovanni Pascoli

356

La vita

357

1. L’infanzia e la morte del padre 2. Gli studi fino alla laurea 3. L’insegnamento e la fama letteraria 4. Il «nido» domestico e la paura della vita 5. Poeta e società: la diversa posizione di Pascoli e D’Annunzio

Il percorso delle opere

La poetica del «fanciullino» e il suo mondo simbolico

362

T2

366

368

Il fanciullo che è in noi

369

■ SCHEDA

Il poeta come «fanciullo»: un motivo antico, da Platone a Vico e ai romantici

372

Il poeta è poeta, non oratore o predicatore

373

Myricae

376

Arano

377

■ SCHEDA

Pascoli poeta «impressionista»

378

T4

Novembre

379

T5

Lavandare

381

■ SGUARDI SULLA SOCIETÀ

L’arte come documento sociale

10

T8

X agosto

388

■ LA PAROLA AL CRITICO

391

387

G. Bàrberi Squarotti, Il «nido» nella simbologia di Pascoli T9

L’assiuolo

392

■ LA PAROLA AL CRITICO

395

Poemetti T10

384

397

Digitale purpurea

398

Laboratori interattivi • Nei campi • Il desinare • L’aquilone • Il libro

Canti di Castelvecchio

T12

403

La mia sera

Analisi visiva Struttura e significati della lirica Confronti «Sere» poetiche tra Otto e Novecento

404 406 409

Il gelsomino notturno

411

■ LA PAROLA AL CRITICO

414

E. Gioanola, La tecnica analogica nella poesia di Pascoli T13

La cavalla storna

415

Laboratori interattivi • L’ora di Barga • La tovaglia • Il fringuello cieco

Poemi conviviali T14

Confronti Poetiche a confronto: 375 Manzoni, Leopardi, Verga, Carducci, D’Annunzio, Pascoli

T3

Il tuono

T11

La parola al critico • F. Curi, La «perdita d’aureola» in Pascoli e D’Annunzio

T1

386

T7

361

1. Una «lingua speciale» per la poesia 2. I suoni: l’uso delle onomatopee 3. La scelta lessicale: diversi livelli di linguaggio 4. La rivisitazione della metrica tradizionale 5. Una sintassi oggettiva 6. Analogia e sinestesia: la sperimentazione retorica

Il fanciullino

Pascoli e l’onomatopea

E. Elli, Il «cambio di ottica» nella poesia di Pascoli

1. Dalla visione oggettiva a quella soggettiva 2. La teoria del «fanciullino» 3. Il poeta-fanciullo 4. Il simbolismo pascoliano 5. Presenze simboliche: le campane, i fiori, gli uccelli 6. Il «nido» e la madre 7. La crisi dell’uomo contemporaneo

Lo stile e le tecniche espressive

385

359

1. Lo sperimentalismo pascoliano 2. La novità di Myricae 3. I Poemetti 4. I Canti di Castelvecchio 5. L’originale classicismo dei Poemi conviviali 6. L’ultimo Pascoli 7. Le poesie in latino 8. Le prose

Sintesi visiva Generi e opere di Pascoli

Il lampo

418

Alèxandros

419

■ LA PAROLA AL CRITICO

423

P.P. Pasolini, Pasolini interpreta Pascoli Laboratori interattivi • L’ultimo viaggio

Sintesi operativa Proposte di lavoro per l’Esame di Stato

425 429

Educazione linguistica Risorsa lessico Una lingua per scrivere SCHEDA 5 SCHEDA 6 SCHEDA 7 SCHEDA 8

Lingua parlata e lingua scritta I registri e gli stili del discorso Eliminare (sempre) le ripetizioni? Lo stile nominale

432 434 436 439

Clemente Rebora Frammenti lirici

Raccordo

T2

Il Futurismo

441

1. La sola, vera avanguardia italiana

441

■ LEGGERE L’ARTE

443

3. Scrittori futuristi

444

T1

Testi • Camillo Sbarbaro, Padre, se anche tu non fossi… (Pianissimo)

Filippo Tommaso Marinetti La città carnale

446

■ SCHEDA

All’automobile da corsa

447

T4

L’invetriata

497

449

T5

Sogno di prigione

499

Le corse automobilistiche

450

La nuova architettura tra ferro, acciaio e cemento armato

Zang Tumb Tumb Bombardamento ■ SCHEDA

Un genere futurista: il «manifesto»

Aldo Palazzeschi L’incendiario E lasciatemi divertire!

Verifica

451 451

454 455 459

I poeti crepuscolari

460

1. La denominazione e la poetica 2. I gruppi e i protagonisti 3. Un bilancio del Crepuscolarismo

460

Guido Gozzano I colloqui

462 463

T1

L’amica di nonna Speranza

464 465

T2

Totò Merùmeni

470

■ SGUARDI SULLA SOCIETÀ

474

La vita quotidiana nell’Italia di inizio Novecento

Sergio Corazzini Liriche ■ SCHEDA

«Io non sono un poeta»

475 475

T3

Desolazione del povero poeta sentimentale

476

Marino Moretti Poesie di tutti i giorni T4

Io non ho nulla da dire

479 479

Verifica

482

Raccordo

Gli scrittori «vociani» 1. Le riviste fiorentine 2. «La Voce» 3. Prosatori e poeti della «Voce»

Dino Campana e l’orfismo

496 496

Testi • Dino Campana, Viaggio a Montevideo (Canti orfici)

Verifica

501

453

Raccordo

T1

494 494

Dino Campana Canti orfici

■ SGUARDI SULLA SOCIETÀ

T3

Taci, anima stanca di godere

La seconda generazione futurista e nuove sperimentazioni

■ SCHEDA

T2

Camillo Sbarbaro Pianissimo T3

445

■ SCHEDA

493

La visione utopica, dai preraffaelliti a Gauguin

Un vasto retroterra culturale: le fonti del Futurismo

2. La poetica futurista

491 491

Testi • Clemente Rebora, Viatico (Canti anonimi)

442

■ SCHEDA

Dall’intensa nuvolaglia

483 483 485

Monografia

Italo Svevo

502

La vita

503

1. La formazione di Ettore Schmitz 2. L’impiego, i primi romanzi, l’abbandono della letteratura 3. L’incontro con la psicoanalisi e il successo tardivo 4. La Trieste di Svevo, un crocevia di culture 5. Svevo intellettuale di frontiera ■ SCHEDA

Una città di confine fra Italia e Impero asburgico

La formazione e le idee

505 506

1. L’attenzione al romanzo 2. Il tema darwiniano della «lotta per la vita» 3. Schopenhauer e la volontà inconsistente 4. Domande inquietanti 5. L’influsso di Marx e l’incontro con Freud 6. L’influenza della cultura ebraica 7. Un intellettuale di profilo europeo

Una poetica di «riduzione» della letteratura

509

1. La letteratura ridotta a fatto privato 2. Due temi prediletti: il ricordo e la malattia 3. Lo stile: la scelta del realismo

Il percorso delle opere

511

1. Gli esordi 2. Una vita: fra autobiografia e distanza critica 3. Il tema dell’inettitudine 4. Da Una vita a Senilità 5. Salute e malattia: verso il romanzo psicologico 6. La coscienza di Zeno: un libro nuovo per tempi nuovi 7. La «diversità» di Zeno 8. L’ultimo Svevo: i racconti e i frammenti del quarto romanzo 9. Gli scritti teatrali e la commedia La rigenerazione

486

Renato Serra Esame di coscienza di un letterato

488

Fratelli? Sì, certo

488

Sintesi visiva Generi e opere di Svevo ■ LA PAROLA AL CRITICO

515 516

R. Barilli, La linea Svevo-Pirandello

11

della moglie, l’insegnamento, i primi successi 3. Il teatro, l’adesione al fascismo, la fama internazionale

La parola al critico • G. Luti, La crisi della borghesia nei romanzi di Svevo Testi • La madre (Racconti)

Profilo autobiografico T1

Profilo autobiografico

L’assassinio di via Belpoggio T2

«Sono io l’assassino»

Una vita T3

T5

Gabbiani e pesci

527

538

«La metamorfosi strana» di Angiolina ■ LEGGERE L’ARTE La rappresentazione della donna

539 542

Il fumo «Il tempo ritorna»: Svevo e Proust

Scheda visiva Il monologo interiore

T8

521 522

531

■ SCHEDA

T7

517

Un pranzo, una passeggiata – e l’illusione di Ange ■ SCHEDA Ma è vero che Svevo «scrive male»?

La coscienza di Zeno T6

517

526

Senilità T4

Le idee e la poetica: relativismo e umorismo

533

543 548 552

556 561

Psico-analisi

562 567

Il «disagio della civiltà» e il nuovo ruolo dello scrittore ■ LA PAROLA AL CRITICO

Sintesi visiva La poetica pirandelliana

L’itinerario di uno scrittore sperimentale

586 587

1. Le raccolte di versi: una poesia in prosa 2. La ricca produzione novellistica 3. La varietà dei sette romanzi 4. L’antiromanzo: l’esplosione dei «veri» e lo stile assente 5. Il teatro delle «maschere nude» 6. Il percorso del teatro pirandelliano Testi • «W la macchina che meccanizza la vita!» (Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Quaderno 1, capp. 1 e 2)

Sintesi visiva Il teatro pirandelliano ■ SGUARDI SULLA SOCIETÀ Le inquietudini del presente in una visione di futuro: Metropolis di Fritz Lang

L’umorismo T1

Testi • Augusta, la «salute» personificata

Un’autodichiarazione di poetica

Esempi di umorismo

Novelle per un anno

591 592 593 594 596 597 600

T3

Pallottoline!

601

T4

La tragedia di un personaggio

607

■ SCHEDA

613

569 573

L’arte umoristica «scompone», «non riconosce eroi» e sa cogliere «la vita nuda» ■ SCHEDA

T2

568

C. Magris, Svevo «scrittore asburgico» e «postmoderno»

Sintesi operativa Proposte di lavoro per l’Esame di Stato

1. La crisi storica e culturale e la «relatività» di ogni cosa 2. La personalità molteplice 3. Il «sentimento della vita» e le «forme» che ci ingabbiano 4. La poetica dell’Umorismo 5. I temi dell’umorismo: il «contrario», l’«ombra», l’«oltre» 6. La rivoluzione di autore e personaggio

553

Il funerale mancato ■ SCHEDA Svevo e la psicoanalisi ■ SCHEDA

584

L’originale teoria del personaggio «senza autore» T5

Il treno ha fischiato

614

Laboratori interattivi • La carriola

Educazione linguistica

Il fu Mattia Pascal

Le norme e l’uso Questioni di scelte (e di regole) SCHEDA 9 SCHEDA 10 SCHEDA 11

La bellezza del congiuntivo Modo verbale e modalità: la soggettività di chi comunica Il periodo ipotetico

■ SCHEDA

576

582

La vita

583

1. La formazione e gli esordi letterari 2. La malattia 12

Adriano Meis

T7

«Io sono il fu Mattia Pascal»

629

Mattia: l’ombra, l’altro

631

■ SCHEDA

623

Testi • «Io mi chiamo Mattia Pascal» (cap. I) Laboratori interattivi • Una «babilonia» di libri (capp. I, II)

580

Luigi Pirandello

620 622

T6

578

Monografia

Il fu Mattia Pascal al cinema

Uno, nessuno e centomila T8

Il naso di Moscarda ■ SCHEDA

T9

Pirandello e la follia

«La vita non conclude»

632 633 638 639

■ LEGGERE L’ARTE

Sei personaggi in cerca d’autore

641

La «trilogia del teatro nel teatro»

643

■ SCHEDA T10

L’ingresso dei sei personaggi

Analisi visiva Il teatro e i suoi personaggi T11

Nel retrobottega di Madama Pace: la scena interrotta

I giganti della montagna ■ SCHEDA

La «trilogia del teatro dei miti»

T4

«Tutto l’infinito ch’è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa» ■ SCHEDA

Pirandello surrealista?

Sintesi operativa Proposte di lavoro per l’Esame di Stato

656

James Joyce Ulisse

659 660 663 T7

669

672

2. I temi del nuovo romanzo

674

3. Le forme dell’«antiromanzo»

675 676

Fëdor Dostoevskij Delitto e castigo Delitto e fuga

Confronti Romanzo realistico, romanzo psicologico: due modi di narrare a confronto

Lev Tolstoj Anna Karenina La fine di Anna

698 700 704 705 706 711

712 714

Mr. Bloom a un funerale ■ LA PAROLA AL CRITICO

G. De benedetti, Joyce e Proust, capostipiti del romanzo moderno

717

Robert Musil L’uomo senza qualità

719 720

Ulrich, un uomo «senza qualità» ■ SCHEDA

La Mitteleuropa e la sua cultura

724 725

Scuola di scrittura

La vocazione conoscitiva del romanzo novecentesco

La geografia letteraria Il grande romanzo europeo: autori e opere

693 694

672

1. L’evoluzione del romanzo tra Ottocento e Novecento

■ SCHEDA

692

Testi • Franz Kafka, Il risveglio di Gregor Samsa (La metamorfosi)

658

664

L’arresto di K. ■ SCHEDA La «Praga magica» di Kafka

Verifica

Il nuovo romanzo europeo

T2

Proust, Bergson e il tempo

Franz Kafka Il processo T5

Raccordo

T1

Un caso di «memoria involontaria» ■ SCHEDA

T6 T12

Hanno Buddenbrook

Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto

650

■ LA PAROLA AL CRITICO

C. Vicentini, Pirandello riscrive i Sei personaggi: dal dramma dell’ambiguità a un dramma della mente

Thomas Mann I Buddenbrook T3

644 648

I ritratti interiori dell’Espressionismo

677 678 679

Scrivere per l’Esame di Stato (1)

726

1.

Quattro diverse tipologie per la prima prova Tipologia a: l’analisi del testo 3. Tipologia c: il tema storico 4. Tipologia d: il tema di ordine generale

727

2.

730 746 753

Glossario retorico e stilistico

760

Indice dei nomi

764

Indice degli autori e dei testi

768

684 686 687

Referenze iconografiche

G.B. Brambilla/Blackarchives

Fototeca Storica Nazionale Ando

Luisa Ricciarini

Archivio Pearson Italia

Paolo Candelari

Gilardi

RMN

Franco Antonicelli

Luca Carrà

Hulton Getty

Raccolta Salce

Archivio G. Apostolo

Luca Comerio

Giraudon

Sarony

Archivio Famiglia Filippi

Corbis

Kobal Collection

Ullstein

Archivio Franco Monteverde

Daguerre

Olycom

Giovanni Verga

Archivio Scala

De Agostini Picture Library

Giuseppe Primoli

Raul Zamora

Graziano Arica/ Blackarchives

Antonio Fedeli

Mauro Raffini

13

Contesto

Storia

Tra Ottocento e Novecento Storia Idee Poetiche

Tra Ottocento e Novecento 1861

1871

1875-90

proclamazione del Regno d’Italia

Meucci inventa il telefono

«grande depressione» economica per sovrapproduzione industriale

Storia

1866 Terza guerra d’indipendenza

in Italia il governo passa dalla Destra alla Sinistra storica

Idee

L’origine delle specie di Darwin

Poetiche

Triplice alleanza fra Germania, Austria e Italia

1876

1859

16

1882

1860-1900 circa diffusione della cultura positivista

1876

1883-85

Il crepuscolo degli dèi di Wagner

Così parlò Zarathustra di Nietzsche

1857

1871

1879

1884

I fiori del male di Baudelaire annunciano il Simbolismo poetico

• primo romanzo del ciclo dei RougonMacquart di Zola • Lettera del veggente di Rimbaud • Nedda di Verga

Giacinta di Capuana

• A ritroso di Huysmans • I poeti maledetti di Verlaine

1880 Il romanzo sperimentale di Zola

1881 I Malavoglia di Verga, capolavoro del Verismo italiano

1870-1910 circa espansione coloniale degli stati europei

1900

1903

1911

1914

1917

uccisione di re Umberto I

• aeromobile dei fratelli Wright • Giolitti presidente del Consiglio in Italia

avventura coloniale italiana con la guerra di Libia

attentato di Sarajevo: scoppia la Prima guerra mondiale

• rivoluzione d’ottobre in Russia • intervento americano in guerra

1915

1918

l’Italia entra in guerra

fine della Prima guerra mondiale

1895

1904-05

compare il cinematografo dei fratelli Lumière

guerra russogiapponese

1919

1907 Triplice intesa tra Gran Bretagna, Francia e Russia

pace di Versailles

1912 suffragio universale maschile in Italia

1889

1899

Saggio sui dati immediati della coscienza di Bergson

L’interpretazione dei sogni di Freud

1918-22 Il tramonto dell’Occidente di Spengler

1895 articolo di Brunetière sulla «bancarotta della scienza»

1889

1901

1904

1909

1908-16

1921

Il piacere di D’Annunzio

I Buddenbrook di Mann

Il fu Mattia Pascal di Pirandello

Manifesto del Futurismo di Marinetti

si pubblica in Italia la rivista «La Voce»

Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello

1890

1905

Myricae di Pascoli

esordisce l’Espressionismo con la rivista «Die Brücke»

1891 Il ritratto di Dorian Gray di Wilde

1922 Ulisse di Joyce

1923 La coscienza di Zeno di Svevo

1924 1911 I colloqui di Gozzano

Manifesto del Surrealismo di Breton

17

Contesto

Storia 1 I primi decenni del Regno d’Italia 1

L’Italia della Destra storica

Dal 1861, data della proclamazione del Regno d’Italia, fino al 1876 l’Italia venne governata dalla cosiddetta Destra storica. Si trattava di un raggruppamento di uomini politici, eredi di Cavour (morto in quello stesso 1861), che esprimevano gli interessi dei ceti dirigenti del Centro-Nord, quelli che avevano guidato il processo di unificazione. Uno dei problemi più urgenti era il risanamento del bilancio statale. Le finanze del nuovo regno erano infatti gravate dai debiti degli stati preunitari e soprattutto del Piemonte (che aveva sostenuto le spese militari delle guerre d’indipendenza). I governi della Destra storica attuarono un severo controllo della spesa pubblica e inoltre inasprirono le imposte indirette, che gravavano sui ceti più poveri. Nel 1868 fu introdotta la cosiddetta tassa sul macinato, un’imposta sulla macinazione dei cereali. Immediatamente crebbe il prezzo del pane, alimento-base per milioni di italiani, e scop-

18

piarono proteste e rivolte, che il governo fece reprimere con estrema durezza. Nel frattempo si procedette a un rigido accentramento amministrativo. In ogni provincia l’autorità del governo venne rappresentata dal prefetto, un funzionario che rispondeva al ministro dell’Interno; anche i sindaci erano nominati dal governo. Il nuovo regno, quindi, non concesse autonomia alle realtà locali e spesso non seppe considerare i problemi specifici di terre molto diverse dal Piemonte, per struttura sociale, sviluppo economico e culturale. La politica della Destra contribuì a diffondere tra i ceti popolari un sentimento di sfiducia verso il nuovo stato. Nelle regioni meridionali questa situazione si sommò a una cronica arretratezza e alla leva obbligatoria, che non esisteva sotto i Borbone e che sottraeva i figli maschi alle famiglie contadine. Fra il 1861 e il 1865-66 il disagio popolare nel Meridione si manifestò attraverso il brigantaggio. Da se-

2

L’annessione del Veneto e la questione romana

Il principale obiettivo di politica estera dei governi della Destra storica era l’acquisizione del Veneto, che non faceva ancora parte del Regno d’Italia. L’occasione propizia si presentò con la guerra scoppiata nel 1866 fra Austria e Prussia, e che per l’Italia costituì la Terza guerra d’indipendenza. L’Italia, alleata della Prussia, poté giovarsi delle vittorie militari prussiane e riuscì così, in sede di trattative di pace, ad acquisire il Veneto (ma non il Trentino né Trieste). Restava aperta la questione romana: come superare l’opposizione del papa (che regnava su Roma da oltre un millennio) e fare dell’Urbe la capitale del nuovo regno? Si trattava di un problema molto delicato, per diverse ragioni. Anzitutto coinvolgeva i rapporti italo-francesi, perché l’imperatore Napoleone III si atteggiava a difensore dello Stato pontificio. Allo stesso tempo, il governo italiano era preoccupato dalle spinte dei democratici, che chiedevano la conquista di Roma anche con un’azione militare (Garibaldi tentò due volte di prendere la città, ma venne fermato con

la forza). Inoltre c’era la questione di principio della laicità dello stato – espressa da Cavour nella celebre formula «libera chiesa in libero stato» – e dei rapporti con Pio IX, che nel 1864 condannò nettamente le idee politiche liberali e il principio della separazione tra stato e chiesa. Come nel caso del Veneto, l’annessione di Roma si realizzò in seguito a una congiuntura internazionale favorevole. Nel 1870 scoppiò la guerra francoprussiana, Napoleone III fu sconfitto e il suo regime cadde: l’Italia ebbe allora mano libera e le sue truppe occuparono Roma il 20 settembre 1870, dopo brevi combattimenti. Il parlamento approvò l’anno seguente una legge che regolava i rapporti tra lo stato e la chiesa, riconoscendo a quest’ultima una serie di «guarentigie», cioè di garanzie, ma il papa rifiutò sdegnato quelle che considerava concessioni unilaterali e inaccettabili. Nel 1874, anzi, Pio IX impose ai cattolici il divieto (non expedit) di partecipare in qualsiasi modo alla vita politica. Si aprì in questo modo una nuova fase della questione romana: la frattura tra laici e cattolici costituì per molto tempo un ostacolo alla formazione di una coscienza nazionale unitaria nel giovane stato italiano.

3

La Sinistra al governo

Nel 1876 il governo passò nelle mani dell’opposizione, la Sinistra storica guidata da Agostino Depretis (1813-87). La Sinistra puntava a un programma di riforme per modernizzare il paese, ma aveva anche un’anima conservatrice, che esprimeva le richieste dei latifondisti del Meridione, interessati ad alleggerire la pressione fiscale sulla proprietà terriera. Nel 1882 una riforma elettorale aumentò il numero degli elettori da 500 mila a 2 milioni circa. Potevano ora votare tutti i maschi di almeno 21 anni, promossi in seconda elementare e che pagavano un’imposta di almeno 20 lire:

Il 20 settembre 1870 è la data in cui l’esercito italiano entrò a Roma, sancendo la fine dello Stato della chiesa come entità territoriale indipendente. Il plebiscito di annessione al Regno d'Italia si tenne il 2 ottobre dello stesso anno e vide una schiacciante maggioranza a favore. Nel 1871 Roma fu proclamata capitale del Regno. In precedenza le capitali erano state Torino (dal 1861, anno di nascita del Regno d'Italia, al 1865) e Firenze (dal 1865 al 1871). Nella pagina a fianco, da sinistra, l’ingresso del re Vittorio Emanuele a Firenze il 3 febbraio 1865 e un dipinto che celebra l’arrivo dell’esercito italiano a Roma nel 1870. Qui a destra, una seduta del parlamento italiano a Torino. 19

Monografia Raccordo

coli esistevano bande di briganti, come fenomeno di criminalità ordinaria. Ora le bande si ingrossarono di migliaia di contadini, di renitenti alla leva, di nostalgici dei Borbone, che si diedero a violenze contro i possidenti terrieri e contro ogni cosa legata al nuovo stato (funzionari, municipi, archivi). Il governo rispose con la mobilitazione dell’esercito e l’emanazione di leggi speciali: nel Meridione si svolse una vera e propria guerra tra esercito e briganti, che fece migliaia di morti. Il brigantaggio come fenomeno di rivolta armata venne estirpato. Rimase invece irrisolta la questione meridionale, cioè la condizione di generale povertà e arretratezza del Meridione.

Contesto

Storia

Tra Ottocento e Novecento

in pratica un maschio maggiorenne su quattro. L’esito delle elezioni era però condizionato dalle clientele politiche, da notabili locali in grado di controllare pacchetti di voti, spesso da forme di corruzione. In parlamento, inoltre, Depretis inaugurò la pratica del trasformismo, cioè cercò di volta in volta la maggioranza necessaria ad approvare le leggi tra i parlamentari sia della maggioranza sia dell’opposizione. In questo modo Depretis garantì la governabilità, ma al prezzo di patteggiamenti e scambi di “favori” in parlamento, che indebolirono l’azione di governo. In economia, Depretis segnò il passaggio dal liberismo della destra a un protezionismo sempre più marcato (come chiedeva la borghesia imprenditoriale del Nord). Nel 1884 venne abolita l’odiata tassa sul macinato. Nel 1887 venne imposta un’alta tariffa doganale sui prodotti esteri, per proteggere dalla concorrenza internazionale sia l’industria, concentrata al Nord, sia il latifondo del Sud. Intanto furono promossi grandi investimenti dello stato in settori strategici (siderurgia, trasporti, energia). La Sinistra, quindi, avviò la politica industriale dello stato-imprenditore, dello stato che gestisce direttamente un grande volume di affari e di investimenti. Fu una politica utile per avviare lo sviluppo industriale italiano, ma inaugurò la compenetrazione fra potere politico e potere economico, che resterà tipica del capitalismo italiano, con effetti non sempre positivi. In politica estera, nel 1882 l’Italia stipulò con l’Austria e la Germania la Triplice alleanza, un trattato militare che prevedeva la difesa reciproca in caso di aggressione da parte di altri stati. Era il rovesciamento della politica filofrancese della Destra. Così collocata negli equilibri europei, l’Italia avviò una sua politica di

La Triplice alleanza, il patto difensivo stipulato a Vienna nel 1882 con gli imperi di Germania e Austria-Ungheria e che rimase in vigore fino allo scoppio del primo conflitto mondiale, fu voluta principalmente dall'Italia, che aspirava ad inserirsi a pieno titolo tra le grandi potenze europee (qui sotto, una vignetta

conquiste coloniali, spinta da ragioni di prestigio internazionale e dalle pressioni delle gerarchie militari e degli industriali (che dalle imprese coloniali potevano ricavare commesse da parte dello stato). Quando però nel 1887 le truppe italiane partirono dalla baia di Assab, sul mar Rosso, e penetrarono verso l’interno, furono pesantemente sconfitte a Dogali dall’esercito del sovrano (negus) d’Etiopia, o Abissinia.

4

L’età crispina

Nel decennio successivo alla morte di Depretis la personalità dominante della politica italiana fu Francesco Crispi (1818-1901), che gestì il potere con autoritarismo, reprimendo l’opposizione sociale che stava crescendo nel paese. Crispi attuò alcune importanti riforme. Ampliò il diritto di voto nelle elezioni amministrative e varò una riforma della pubblica assistenza, per riservare allo stato gran parte del tradizionale ruolo della chiesa in quest’ambito. Nel 1889 fu inoltre approvato un nuovo Codice penale, proposto dal ministro della Giustizia Zanardelli; tra l’altro, esso abolì la pena di morte e riconobbe il diritto di sciopero, sebbene entro limiti stretti. I principali obiettivi politici di Crispi erano però di rafforzare il carattere accentrato dello stato e il potere del governo. A questo scopo fu accresciuto il potere dei prefetti e delle autorità di polizia. Crispi, ostile ai compromessi del trasformismo di Depretis, agì inoltre rivendicando un’ampia autonomia del governo rispetto al parlamento e arrivò a concentrare nelle propri mani le cariche di ministro degli Esteri e dell’Interno, oltre a quella di presidente del Consiglio. La caduta di Crispi

satirica dell'epoca raffigura i capi di stato protagonisti della firma dell'accordo). Anche la politica di espansione coloniale in Africa, attuata a partire dal 1885 con l'occupazione dell'Eritrea, si può far risalire al desiderio di affermazione del recente Regno italiano. L'avventura coloniale si risolse però tragicamente: i tentativi di occupare anche l'Etiopia furono fallimentari e si conclusero nel 1896 con la disastrosa battaglia di Adua (qui a destra in un'immagine dell'epoca) nella quale persero la vita migliaia di soldati italiani.

5

un centinaio; in altre città venne proclamato lo stato d’assedio.

6

Il movimento operaio e i socialisti

La principale organizzazione degli operai e dei braccianti agricoli del Nord era il Partito socialista italiano, fondato nel 1892. Fu il primo partito moderno di massa in Italia. Il suo leader, Filippo Turati, era di orientamento riformista, cioè propugnava una strategia politica di riforme graduali a favore delle masse operaie. Un’altra corrente interna al partito era invece di orientamento rivoluzionario, o massimalista, cioè riteneva che si dovesse agire in vista di una rivoluzione socialista, senza accettare di collaborare con i partiti borghesi. Molto attivi in Italia, anche se minoritari, erano gli anarchici. Essi credevano nello spontaneismo rivoluzionario delle masse, che cercavano di accendere con sommosse o con gesti clamorosi, anche terroristici: fu l’anarchico Gaetano Bresci, nel 1900, ad assassinare in un attentato re Umberto I. Bresci voleva vendicare i fatti del 1898 (il re aveva conferito un’onoreficienza a Bava Beccaris) e il suo gesto gettò l’Italia sull’orlo della guerra civile. Ma il nuovo re, Vittorio Emanuele III, chiamò a presiedere il nuovo governo un uomo esperto ed equilibrato, Giuseppe Zanardelli, che riuscì a sciogliere le tensioni.

La crisi di fine secolo

L’Ottocento, in Italia, si chiuse all’insegna della crisi economica e del disagio sociale. La produzione industriale era cresciuta (ma si concentrava sempre nel triangolo Milano-Torino-Genova), l’agricoltura al Nord si era evoluta tecnicamente, il paese aveva compiuto passi significativi verso la modernizzazione. Si era però aggravata la questione meridionale e in generale restavano molto difficili le condizioni di vita delle masse povere, contadine e operaie. Lo testimonia l’entità del fenomeno dell’emigrazione: negli ultimi vent’anni dell’Ottocento circa 5 milioni di italiani lasciarono il paese. Quando in seguito a cattivi raccolti il prezzo degli alimenti di base aumentò, si innescarono moti spontanei di protesta popolare, a cui il governo, presieduto da Antonio di Rudinì, rispose con la repressione più spietata. Nel 1898, a Milano, il generale Bava Beccaris ordinò di cannoneggiare i manifestanti, uccidendone

I governi dell’Italia unita classe dirigente liberale

Destra storica dal 1861 al 1876





Sinistra storica dal 1876 al 1896

“ ◗ merito

◗ meriti

• risanamento del bilancio statale

• allargamento del corpo elettorale • provvedimenti sociali

◗ problemi aperti

◗ problemi aperti

• questione romana = emarginazione dei cattolici • questione meridionale = arretratezza del Sud

• difficoltà in politica estera • alleanze con Germania e Austria • sconfitte coloniali

21

Monografia Raccordo

avvenne in relazione alla politica coloniale. Nel 1889 fu fondata la colonia italiana d’Eritrea, sul mar Rosso, grazie a un accordo con il negus etiope Menelik II. Le ambizioni italiane di espansione portarono poi alla rottura dei rapporti e nel 1895 un corpo di spedizione attaccò l’Etiopia. Passati di sconfitta in sconfitta, i soldati italiani subirono infine una disfatta ad Adua, nel 1896, che provocò le dimissioni e la fine politica di Crispi.

Contesto

Storia

Tra Ottocento e Novecento

2 L’età dell’imperialismo e l’espansione coloniale 1

Un fenomeno nuovo: il colonialismo come imperialismo

mici, politici, amministrativi: per questo si parla di imperialismo, in quanto il fine della corsa alle colonie era di costituire veri e propri imperi. • Agli inizi del Novecento l’impero inglese, il più vasto, copriva un quarto delle terre dell’intero globo. • La Francia aveva a sua volta aumentato i dominii in Africa e in Estremo Oriente. • La Germania, partita per ultima, si era accaparrata molte terre in Africa. • L’Italia aveva un ruolo marginale, controllando solo l’Eritrea e parte della Somalia. Col tempo gli spazi di espansione coloniale si restrinsero; in Africa, per esempio, alla fine del secolo rimanevano indipendenti solo l’Etiopia e la Liberia (un piccolo stato sul golfo di Guinea creato per ospitare ex schiavi neri). La competizione per la spartizione coloniale andò pertanto crescendo, aumentò le tensioni e i rischi di guerra in Europa.

Tra 1870 e 1914 le principali nazioni europee si lanciarono alla conquista di colonie. Il fenomeno della colonizzazione non era certo inedito: basta pensare alla conquista delle Americhe cominciata nel Cinquecento, o, nei secoli seguenti, alla crescente espansione degli europei verso l’India e il sud-est asiatico. Tuttavia, il colonialismo ottocentesco fu in gran parte nuovo, perché venne organizzato e realizzato in forme sistematiche, con un dispiegamento mai visto di forze economiche e militari. Il colonialismo divenne una dimensione essenziale della politica europea. Non bastava più lo sfruttamento delle risorse delle terre d’oltremare e un generico controllo sui governi locali. Lo scopo delle potenze coloniali era adesso l’occupazione permanente e il controllo totale della colonia, in tutti gli aspetti econo-

Il mondo dominato dall’Europa

CANADA

Gran Bretagna

Impero russo POTENZE EUROPEE

Francia STATI UNITI oceano Atlantico

Germania

Portogallo

Italia

MESSICO

oceano Pacifico

Belgio

Bermuda Bahamas Guadalupa Giamaica

COLOMBIA

CINA

Gibilterra

AFRICA OCCIDENTALE SUDAN

Guyana Brit. Guyana Oland. Guyana Fr.

Caroline Marshall

Ceylon CONGO BELGA

Ascension

Bismarck

oceano Indiano

Salomone

INDIE OLANDESI

Olanda Caroline

Isole Hawaii

Hong oceano BIRMANIA Kong Pacifico INDIA INDOCINA FILIPPINE Marianne

EGITTO

EQUADOR Marchesi

GIAPPONE

S. Elena

Samoa N. Caledonia

MADAGASCAR

Spagna Tuamotu

Stati Uniti

Danimarca

22

Tristan da Cunha

AUSTRALIA AFRICA BRITANNICA NUOVA ZELANDA

Le ragioni del colonialismo

Le ragioni che alimentavano lo sforzo di conquista coloniale erano di natura economica e politica. Le colonie dovevano fornire alle industrie della madrepatria materie prime abbondanti e a basso costo, e servivano anche come mercato in cui poter piazzare l’eccedenza di produzione, cioè i beni prodotti dalle industrie nazionali, che esigevano un mercato più vasto di quello interno e meno difficile di quello europeo (dove molti governi adottavano misure protezioniste). Quando un territorio non disponeva di materie prime, potevano intervenire ragioni strategiche – l’Egitto, per esempio, diventò un punto cruciale dell’Africa con l’apertura del canale di Suez, nel 1869 –, la volontà di dare continuità territoriale ai propri dominii, o semplicemente di anticipare le mosse della potenza avversaria. Il possesso di colonie costituiva poi un fattore di prestigio sulla scena politica internazionale e gli stati europei che aspiravano a un “posto al sole” nel gruppo delle potenze prima o poi si lanciarono nella conquista. Fece eccezione l’Impero asburgico, che d’altra parte era impegnato a espandere la propria influenza nei Balcani. Questo aspetto dell’imperialismo di fine Ottocento è strettamente connesso al nazionalismo esasperato che emerse pressoché ovunque in Europa. Nella prima parte del secolo la conquista della co-

scienza nazionale si era collegata alle lotte per l’indipendenza o per l’unificazione nazionale, come in Italia e in Germania. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, invece, il nazionalismo divenne un’ideologia aggressiva, diretta in primo luogo contro altri stati (e altri nazionalismi), in un quadro di crescenti tensioni internazionali. I governi stessi insistettero sull’esaltazione dell’idea di «patria» ed enfatizzarono l’idea che la propria nazione aveva un primato da raggiungere. Questo apparve necessario per ottenere il consenso delle masse popolari, in anni in cui, va ricordato, la partecipazione delle masse alla politica si andava estendendo. Nacquero d’altra parte i primi partiti dichiaratamente nazionalisti e forme più o meno esasperate di nazionalismo raccoglievano consensi anche fra una parte degli intellettuali e degli artisti. Il nazionalismo e l’imperialismo si accompagnarono alla diffusione di una mentalità razzista. Nel 1885, per esempio, il primo ministro francese Jules Ferry affermò che «le razze superiori hanno il dovere di civilizzare le razze inferiori» e che questo «dovere della civilizzazione» era appunto un compito storico delle nazioni europee. Dunque, l’idea della superiorità dell’uomo bianco e del suo compito di portare la “civiltà” a popolazioni ancora “selvagge” forniva una giustificazione ideologica al colonialismo.

Colonie e potenza ◗ ragioni culturali

ideologia nazionalistica

• patriottismo esasperato • mentalità razzista (superiorità dell’uomo bianco)

“ spinge gli stati europei a una ◗ ragioni politico-economiche

politica di potenza “

• competizione con gli altri stati • bisogno di materie prime • allargamento del mercato interno

che si traduce in

conquiste oltremare

◗ in Asia ◗ in Africa

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Monografia Raccordo

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Contesto

Storia

Tra Ottocento e Novecento

3 La seconda rivoluzione industriale 1

La grande industria e i progetti di scienza e tecnica

Fin verso il 1860 l’industrializzazione fu guidata dalla tecnologia del ferro e del carbone. I suoi settori di punta erano il tessile (da cui la rivoluzione industriale era partita), la meccanica e la siderurgia; i suoi emblemi, le macchine a vapore e le ferrovie. Negli ultimi decenni dell’Ottocento lo sviluppo industriale prese caratteri diversi e più complessi, al punto che si parla di una rinnovata fase di industrializzazione: la seconda rivoluzione industriale. • L’industrializzazione, fino ad allora concentrata in poche regioni, si estese a gran parte del continente europeo, oltre che agli Stati Uniti e al Giappone. • Nuove scoperte scientifiche e un accelerato sviluppo tecnologico intervennero a incrementare l’industrializzazione. L’energia elettrica prese il posto del vapore come forza motrice. Nel 1878 l’americano Edison mise a punto la lampadina elettrica e nello stesso anno il tedesco Werner Siemens realizzò la prima locomotiva mossa da un motore elettrico. Produrre e distribuire l’energia elettrica poneva grandi sfide tecnologiche e

Scoperte e invenzioni. I primi esemplari sperimentali di motore a scoppio risalgono agli anni sessanta del XIX secolo: nel giro di alcuni decenni esso era destinato a rivoluzionare i trasporti e a contribuire al passaggio dal carbone al petrolio come fonte energetica, dato che i motori a scoppio usano come carburante derivati del petrolio. Ogni progresso nei motori e nelle macchine andava di pari passo con il miglioramento della qualità dell’acciaio e delle leghe metalliche, grazie a nuovi tipi di altiforni e di procedimenti di lavorazione. Nel 1869 comparvero la celluloide, prima materia plastica prodotta industrialmente e nel 1884 le fibre tessili artificiali. Pochi anni dopo le scoperte del belga Ernest 24

chiedeva la costruzione di infrastrutture (centrali, elettrodotti) che a loro volta alimentarono lo sviluppo industriale. L’illuminazione elettrica, prima nelle maggiori città e nei luoghi pubblici, poi nelle case private, parve il simbolo della vittoria dell’uomo sui ritmi della natura.

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L’emigrazione dall’Europa e l’emergere di una nuova potenza industriale, gli Stati Uniti

Può sembrare strano che proprio in questa fase, all’incirca tra 1875 e la fine secolo, si sia verificata quella che viene chiamata la «grande depressione», che colpì molti paesi europei. Ma non si trattò di una crisi di produzione, bensì di una discesa dei prezzi e quindi dei profitti, sulla cui reale entità, peraltro, non tutti gli storici dell’economia concordano. In ogni caso, fu una crisi economica che non dipendeva dalla scarsità di beni disponibili: al contrario, l’industria era ormai in grado di produrre più beni di quanti ne servissero al mercato, cioè

Solvay misero a disposizione dell’agricoltura i fertilizzanti chimici, al posto dei concimi organici utilizzati fin dalla preistoria. Tra le molte altre nuove invenzioni ricordiamo il telefono (dell’italiano Meucci, 1871, ma perfezionato da Bell nel 1876); l’automobile (1885) di Daimler e Benz; il cinematografo (1895) dei fratelli Lumière; il dirigibile (1900) e l’aeromobile (1903) dei fratelli Wright; la gomma sintetica (1910). Qui a destra, una stampa del 1902 con due poliziotti di Chicago, che fu la prima città a utilizzare il telefono per il controllo della sicurezza urbana. Nella pagina a fianco, una fotografia dell’aeromobile dei fratelli Wright e uno dei primi automezzi per il trasporto di merci.

una nazione ancora giovane, con enormi spazi e risorse naturali non ancora sfruttate, senza nemici in grado di contrastarli nel continente americano. Il loro sviluppo fu impetuoso. Molte nuove soluzioni del capitalismo industriale vennero dagli Usa, come l’alleanza di grandi industrie in cartelli e trusts per controllare il mercato, e anche sistemi produttivi più efficienti, come la catena di montaggio, applicata per la prima volta nel 1913 dall’industriale Henry Ford nella sua fabbrica di automobili. Nel 1914, alla vigilia della Prima guerra mondiale, gli Stati Uniti erano ormai la prima potenza del pianeta per volume di produzione industriale.

4 L’età giolittiana 1

Giolitti: la svolta politica e le aperture sociali

Zanardelli volle tra i suoi ministri il liberale Giovanni Giolitti (1842-1928), che nel 1903 divenne presidente del Consiglio e che mantenne la carica quasi senza interruzioni fino al 1914. Il decennio dell’età giolittiana segnò anzitutto il ritorno alla centralità del parlamento, contro le tentazioni autoritarie degli anni precedenti, e lo sviluppo di una politica riformista, perseguita attraverso l’accordo con i rappresentanti

del movimento operaio, cioè i sindacati e il Partito socialista (nella sua ala riformista). Con Giolitti il governo, invece di usare la forza per difendere interessi di parte, ossia degli imprenditori, tendeva a rimanere neutrale: lavoratori e imprenditori dovevano intavolare trattative sui problemi specifici e trovare un accordo. Di conseguenza, il tasso di conflittualità sociale e politica si abbassò, o almeno trovò in molti casi una composizione pacifica. Tra i più importanti aspetti del riformismo giolit-

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della domanda dei consumatori (è il fenomeno detto «sovrapproduzione»). Fu in questo periodo che aumentò in modo esponenziale la partenza di emigranti europei soprattutto verso le Americhe; moltissimi di loro erano italiani. Non è quindi vero, se non per poche eccezioni, che la conquista di colonie diede lavoro e terra all’eccedenza della popolazione nei paesi europei, come sostenevano molti governanti del tempo. Nei decenni tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento milioni di emigranti in cerca di una vita migliore si recarono negli Stati Uniti. Gli Usa erano

Contesto

Storia

Tra Ottocento e Novecento

tiano ricordiamo la garanzia effettiva del diritto di sciopero e, nel 1904, l’entrata in vigore di leggi per tutelare il lavoro delle donne e dei ragazzi e per sostenere l’invalidità e la vecchiaia. Inoltre una nuova legge scolastica riorganizzò e migliorò l’istruzione elementare. Nel 1912 una riforma elettorale estese il diritto di voto a tutti i cittadini maschi (suffragio universale maschile), inclusi gli analfabeti, purché avessero compiuto trent’anni. Gli elettori salirono così a oltre 9 milioni e sia il ceto medio sia i lavoratori poterono entrare direttamente nella vita politica del paese. L’età giolittiana fu il periodo del definitivo decollo industriale italiano. I nuovi impianti idroelettrici misero a disposizione molta energia per le fabbriche; si svilupparono l’industria chimica (specie per la produzione della gomma: pneumatici e cavi), quella meccanica e automobilistica (con la Fiat di Torino) e quella agroalimentare.

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Luci e ombre del riformismo giolittiano

che l’emigrazione aumentò notevolmente: nel decennio di governo di Giolitti circa 8 milioni di italiani lasciarono il paese, e la maggior parte di loro proveniva dal Sud e dalle isole. Giolitti non seppe quindi affrontare la questione meridionale con una politica di ampio respiro e anzi, secondo critiche che già al suo tempo si levarono, non volle farlo. In particolare Gaetano Salvemini, storico e studioso della questione meridionale, accusò Giolitti di clientelismo, cioè di concedere favori e vantaggi a potenti locali e a parlamentari che potevano assicurargli pacchetti di voti: un malcostume politico di cui Giolitti senza dubbio si servì e che aveva luogo soprattutto nel Sud dell’Italia. L’allargamento alle masse popolari della partecipazione politica fu comunque un risultato di primaria importanza del decennio giolittiano. Questo allargamento non solo favorì, a sinistra, lo sviluppo in senso democratico del movimento dei lavoratori, ma rimise anche in moto la partecipazione dei cattolici alla vita politica.

Lo slancio dell’industria e la crescita produttiva, tuttavia, non coinvolsero l’intero territorio nazionale. Il Sud fu toccato poco o per nulla dal «decollo», tanto

Nel 1913 si tennero in Italia le prime elezioni a suffragio universale maschile: gli aventi diritto passarono così da poco meno di 3 milioni a circa 8,5 milioni. La richiesta di estensione del diritto di voto era da tempo una delle principali rivendicazioni dei partiti di massa (qui sotto, una cartolina del 1905 in favore del suffragio universale). Oltre alla riforma elettorale, i governi presieduti da Giolitti attuarono provvedimenti nel campo della

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legislazione sociale e favorirono l'industrializzazione dell'Italia, ancora assai arretrata soprattutto nel Sud (qui a fianco, un manifesto pubblicitario delle automobili Fiat e, nella pagina a destra, una tessitrice al lavoro). Nonostante questi interventi, l’Italia vide proprio in questi anni un consistente aumento dell’emigrazione (nella pagina a destra, la partenza di emigranti in un dipinto del 1895).

I cattolici e la politica italiana

Giolitti, infatti, cercò un accordo con i cattolici per evitare il rischio che l’ampliamento del corpo elettorale desse la vittoria ai socialisti. In vista delle elezioni del 1913, egli strinse un accordo informale con l’Unione elettorale cattolica, il cosiddetto patto Gentiloni (dal nome del presidente dell’Unione). Così i cattolici votarono per i candidati liberali, in cambio dell’impegno a salvaguardare l’istruzione religiosa nella scuola pubblica e a bloccare proposte di legge sul divorzio, e Giolitti ottenne una larga maggioranza di deputati. Finiva in tal modo la lontananza dei cattolici dalla vita politica del paese, che del resto si era progressivamente attenuata dai tempi del non expedit di Pio IX (1874). I cattolici erano già attivi nella vita sociale italiana, soprattutto da quando papa Leone XIII aveva pubblicato la Rerum novarum (1891), un’enciclica che delineava i princìpi sociali della chiesa. Erano nate cooperative e casse rurali, specie a favore dei contadini, ispirate all’idea della collaborazione e non della lotta fra le classi sociali. Ora i cattolici erano pronti a esprimere un proprio movimento politico, che prenderà forma qualche anno dopo con il nome di Partito popolare.

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La guerra di Libia e la propaganda nazionalista

Negli anni di Giolitti tornarono a farsi sentire forze che volevano la ripresa dell’espansione coloniale italiana. Le condizioni internazionali maturarono con le difficoltà sempre più evidenti dell’Impero ottomano, che in Africa controllava ancora la Libia, una regione povera, in gran parte desertica (il petrolio verrà scoperto solo anni dopo) e facilmente raggiungibile dall’Italia. Nel 1911 un corpo di spedizione italiano sbarcò nel paese, ma la guerra di Libia si rivelò molto più dura del previsto; i turchi furono battuti, ma nell’entroterra le tribù beduine resistettero con accanimento. Nel 1912 almeno l’area costiera fu occupata e si firmò il trattato di pace, mentre truppe italiane occupavano anche le isole del Dodecanneso, di fronte alle coste turche, per intimidire il governo ottomano. La guerra di Libia fu sostenuta, in Italia, da una vasta propaganda nazionalista: ne abbiamo un’eco nel discorso La grande proletaria si è mossa (1911) di Giovanni Pascoli e nelle Canzoni delle gesta d’oltremare (1911-12), pubblicate sul «Corriere della Sera» da Gabriele D’Annunzio. I nazionalisti, ostili alla democrazia parlamentare, non erano però i soli sostenitori dell’impresa. Li affiancavano i grandi gruppi industriali e finanziari, interessati alle commesse militari. Fu insomma la prova generale per l’accesa propaganda interventista che di lì a poco avrebbe trascinato l’Italia nella Prima guerra mondiale.

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Contesto

Storia

Tra Ottocento e Novecento

5 Le tensioni internazionali a inizio Novecento 1

L’inizio del secolo, tra illusioni di pace e politiche aggressive

il resto del continente e cominciavano a espandersi anche in Asia (nel 1898, dopo una guerra con la Spagna, occuparono le Filippine). Un nuovo protagonista era poi il Giappone, che negli ultimi decenni dell’Ottocento uscì da un secolare isolamento e si industrializzò molto rapidamente. Anche il Giappone si dotò di un impero coloniale e i suoi interessi espansivi in Estremo Oriente lo portarono a scontrarsi con la Russia. Nella guerra russo-giapponese (1904-05) l’Impero del Sol levante trionfò sull’Impero russo, tra l’incredulità generale degli occidentali: per la prima volta un paese asiatico sconfiggeva una grande potenza europea.

La storia europea dei primi anni del Novecento viene spesso ricordata come la Belle époque (in francese “epoca bella”). L’industrializzazione aveva moltiplicato i beni di consumo, l’istruzione era diffusa (almeno nei paesi più sviluppati), prendevano piede invenzioni come il telefono e la luce elettrica; sulle strade comparivano le automobili, i transatlantici solcavano i mari (anche se in gran parte carichi di emigranti che fuggivano dalla miseria), si alzavano in volo i primi aerei e i dirigibili. Molte cose, insomma, sembravano promettere progresso, benessere e anche pace: risaliva al 1870 l’ultima guerra europea combattuta in campo aperto (tra Francia e Germania). In realtà, questi furono anni di nazionalismo sempre più acceso e di contese coloniali, che spingevano le potenze europee a una politica aggressiva e, di conseguenza, a rafforzarsi sul piano militare. Fuori d’Europa cresceva la potenza degli Stati Uniti, che dominavano direttamente o indirettamente

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Le alleanze contrapposte

L’area più calda d’Europa erano i Balcani. Qui la crisi dell’Impero ottomano suscitava le mire di dominio della Russia e dell’Austria; in particolare, quest’ultima occupava la Bosnia, che la Serbia, diventata indipendente e grazie all’appoggio russo, sperava prima o poi di assorbire.

Sull’orlo del conflitto nazionalismo esasperato politica aggressiva dal 1882 Triplice alleanza: ◗ Germania ◗ Austria



alleanze contrapposte

◗ Italia

dal 1907 Triplice intesa: ◗ Gran Bretagna ◗ Francia ◗ Russia



crisi ricorrenti “ guerra russo-giapponese (1904-05)

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guerra di Libia tra Italia e Impero turco (1911)

crisi balcaniche: giugno 1914 attentato di Sarajevo

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Lo scoppio del conflitto e la posizione dell’Italia

La scintilla che accese la guerra generale in Europa scoccò nei Balcani. Nel giugno 1914 morì in un attentato a Sarajevo l’arciduca austriaco Francesco Ferdinando, erede al trono di Vienna. Un mese dopo

Il 28 giugno 1914, quando uno studente bosniaco uccise in un attentato l’erede al trono dell'Impero austro-ungarico (qui a fianco in un disegno della «Domenica del Corriere»), si innescò la serie di dichiarazioni di guerra che portò in breve al coinvolgimento di tutti i principali stati europei, legati da alleanze contrapposte. La crescente conflittualità economica e politica tra le grandi potenze, però, era in atto da tempo, accompagnata dalla diffusione di una cultura della guerra e da una crescente corsa agli armamenti. Allo scoppio della guerra, l’Italia aveva dichiarato la propria neutralità, secondo quanto era stato stipulato nel suo accordo di adesione alla Triplice alleanza. A livello di opinione pubblica si contrapponevano neutralisti e interventisti, mentre il

l’Austria dichiarò guerra alla Serbia, ma in difesa di quest’ultima intervenne la Russia dello zar Nicola II. In pochi giorni scattarono le alleanze incrociate: la Germania intervenne a fianco dell’Austria, Francia e Gran Bretagna a fianco della Russia. Era l’inizio della Prima guerra mondiale. L’Italia rivendicò la propria neutralità, perché era stata l’Austria a dichiarare guerra alla Serbia (la Triplice alleanza era formalmente un patto difensivo). Per mesi, l’Italia si divise fra neutralisti (liberali, cattolici, socialisti, la maggioranza del parlamento), contrari all’entrata in guerra, e interventisti. A favore della guerra erano ovviamente i nazionalisti, che chiedevano di rispettare la Triplice alleanza, ma anche gli «irredentisti», che volevano scendere in campo contro l’Austria per recuperare le terre italiane «irredente», Trieste e il Trentino. In questa situazione confusa fu decisivo l’atteggiamento del governo, guidato da Antonio Salandra, che avviò trattative segrete con l’Intesa. L’Italia entrò nel conflitto nel maggio 1915, a fianco di Francia e Gran Bretagna.

governo vedeva favorevolmente l'ipotesi di un intervento diretto dell’Italia. La guerra fu infatti dichiarata il 24 maggio 1915. A destra, un manifesto interventista e la prima pagina di un giornale satirico con l’immagine di un operaio che spezza un fucile in segno di rifiuto della guerra. 29

Monografia Raccordo

L’Impero tedesco era ormai la prima potenza economica (la sua produzione d’acciaio giunse a superare quella inglese) e militare dell’Europa continentale, una potenza che preoccupava molto la Francia e la Gran Bretagna. In Francia, tra l’altro, il nazionalismo alimentava le aspirazioni di rivincita sulla Germania, dopo la pesante sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1870 (in seguito alla quale era nato l’Impero tedesco). Così Francia e Gran Bretagna, benché rivali nella politica coloniale, giunsero a un’allenza militare in funzione antitedesca, che coinvolse anche la Russia: era la Triplice intesa (1907), alla quale si contrapponeva, come sappiamo, la Triplice alleanza, che dal 1882 legava la Germania, l’Impero austro-ungarico e l’Italia.

Contesto

Storia

Tra Ottocento e Novecento

6 La Prima guerra mondiale e le sue conseguenze 1

Una svolta epocale

La «Grande guerra», come fu chiamata in Italia la Prima guerra mondiale (1914-18), segnò la vittoria di Gran Bretagna, Francia e Italia, oltre agli Stati Uniti, entrati nel conflitto nel 1917, su Germania e Austria; la Russia aveva siglato un armistizio separato nel 1917. Fu la prima guerra totale e provocò oltre 10 milioni di morti. Gli eserciti si fronteggiarono con armi nuove e micidiali: mitragliatrici, mortai, cannoni di calibro e di gittata mai visti, gas asfissianti, aeroplani, sottomarini e anche carri armati, che comparvero verso la fine del conflitto. Migliaia di chilometri di trincee e reticolati tennero impegnati milioni di uomini sui diversi fronti europei. Tutti i paesi belligeranti si mobilitarono in uno sforzo senza precedenti, che coinvolse l’intera società, le risorse che venivano dalle colonie, tutta la potenza produttiva dell’industria. Tra l’altro, poiché gli uomini validi erano al fronte, nelle industrie fu necessario chiamare moltissime donne, e anche questo fu un passaggio di grande significato sociale.

La guerra segnò dunque uno stacco epocale, anzitutto perché fu la prima guerra di massa della storia. Decine di milioni di uomini vissero l’esperienza del fronte, si strinsero fianco a fianco nelle trincee, si sentirono, volenti o nolenti, parte di un gigantesco e tragico sforzo collettivo. Terminata la guerra, per i sopravvissuti e per coloro che in un modo o nell’altro si erano impegnati nelle retrovie non era pensabile tornare alla “normalità” di prima. Sia nei paesi vincitori sia in quelli vinti crebbero gli iscritti ai sindacati e ai partiti e la presenza di masse molto più attive che in passato modificò i termini della vita sociale e della lotta politica.

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L’Europa e l’Italia dopo la guerra

L’Europa uscì dal conflitto indebolita economicamente e sconvolta nel suo assetto politico. Quattro imperi scomparvero dalla carta geopolitica: la Germania, che diventò una repubblica, e i tre grandi e secolari imperi multinazionali: l’Impero russo, spazzato via dalla rivoluzione comunista nel 1917, l’Impero austro-ungarico, che si dissolse e si divise in diversi stati, l’Impero ottomano, dalle cui ceneri nacque la moderna Turchia. I trattati di pace di Versailles (1919) lasciarono però un’Europa carica di tensioni. Il presidente americano Wilson si adoperò per una pace «giusta» e rispettosa del

Il primo conflitto mondiale fu un evento devastante, che vide la mobilitazione di milioni di uomini impegnati nella logorante guerra di posizione nelle trincee ma anche il coinvolgimento della popolazione civile con deportazioni, lavoro forzato e requisizioni. Durante la Grande guerra furono utilizzati in forma massiccia i nuovi armamenti, realizzati grazie allo sviluppo delle industrie e delle tecnologie: carri armati, aerei, mitragliatrici, armi chimiche.

In questa pagina, in alto, un aeroplano da guerra italiano; non disponendo ancora di una grande potenza di fuoco, gli aerei venivano per lo più utilizzati per operazioni di ricognizione; sotto, un carro armato dell’esercito italiano: i carri armati servivano per superare gli sbarramenti in filo spinato delle trincee. Nella pagina a destra, in alto, una trincea italiana al confine con l’Austria nel 1916 e, sotto, le maschere antigas per uomini e animali sul fronte occidentale; i gas

Storia sul piano sociale

sul piano economico

sul piano politico









◗ le masse entrano da protagoniste:

◗ forte indebitamento di tutti gli stati europei verso gli Stati Uniti

◗ cade il mito del progresso ◗ finisce l’«età d’oro della sicurezza»

• in guerra • nel dopoguerra

principio delle nazionalità, ma alla fine prevalse un atteggiamento punitivo verso la Germania, considerata la principale responsabile del conflitto e che dovette accettare condizioni durissime e umilianti. C’era d’altra parte una miccia sociale pronta a esplodere: la rivoluzione che nell’ottobre 1917 aveva portato al potere in Russia i bolscevichi, ovvero i comunisti guidati da Vladimir Il’ic Lenin (1870-1924). La rivoluzione russa diventava un punto di riferimento per i partiti e i movimenti europei dei lavoratori e dei proletari. Quanto all’Italia, la vittoria sull’Austria portò all’annessione del Trentino e della Venezia Giulia, ma subito si cominciò a parlare di «vittoria mutilata», perché alla conferenza di pace l’Italia non ottenne la

Monografia Raccordo

sul piano culturale

Contesto

Le conseguenze della Grande guerra

◗ fine degli imperi multinazionali: • Impero russo • Impero asburgico • Impero ottomano

Dalmazia e Fiume, come invece era stato stabilito dagli accordi pattuiti prima dell’ingresso nel conflitto. I nazionalisti accusarono di arrendevolezza la delegazione italiana guidata da Vittorio Emanuele Orlando. Le tensioni sul piano sociale e politico erano fortissime. Negli anni 1919-20, il cosiddetto biennio rosso, le rivendicazioni sociali e la lotta politica in Italia conobbero infatti (come un po’ ovunque in Europa) una fase di radicalizzazione. Il clima era surriscaldato dall’esito della rivoluzione russa, alla quale molti da sinistra guardavano come a un modello, mentre sul versante opposto, tra i ceti borghesi e conservatori, si diffondevano aspettative di ordine e di un governo forte. La vecchia classe dirigente liberale appariva ormai in piena crisi, incapace di gestire le difficoltà del paese.

velenosi vennero usati per la prima volta nel 1915 dall’esercito tedesco contro i francesi. Infine, una mitragliatrice italiana di produzione Fiat. 31

Tra Ottocento e Novecento

Sguardi sulla società Le masse, nuove protagoniste della storia

■ Manifesto della Lega nazionale delle cooperative (1902).

La società si trasforma Il Novecento, a parere dei sociologi, è stato il «secolo delle masse», l’epoca, cioè, in cui la massa anonima diventa protagonista di una parte importante di storia. Tutto cambiò a causa della Prima guerra mondiale, il primo conflitto di massa della storia. Milioni di soldati furono strappati dalle loro case e spediti al fronte a combattersi, spesso senza sapere perché. Ma stringendosi fianco a fianco nelle trincee, avevano allargato le loro esperienze, si erano misurati con abitudini e mentalità sconosciute. Inoltre, indossando una divisa, ricevendo la paga di soldati, obbedendo agli alti comandi, avevano fatto l’esperienza concreta dello stato, una realtà fino ad allora semisconosciuta. La propaganda di guerra li aveva fatti sentire importanti, affermando che la sorte della «patria» era in mano loro. Ora, una volta terminato il conflitto, le masse non rientrano più nel silenzio. Molti uomini, ritornati dal fronte, si iscrivono a sindacati e partiti, partecipano a scioperi e manifestazioni, leggono i gior32

■ Cittadini leggono gli elenchi dei candidati alle elezioni italiane del 1919.

nali: insomma, sono presenti e attivi nella società. Grazie a loro, la vita politica cambia radicalmente e vengono approvate le prime leggi che cominciano a riconoscere i loro diritti: il suffragio universale, introdotto tra il 1870 e il 1920 in quasi tutta l’Europa, dà a tutti gli elettori, purché maschi, il diritto di voto.

Nascono le organizzazioni di massa Una risposta al bisogno di partecipazione viene dai nuovi «partiti» di massa. Fino ad allora la politica era stata fatta da individui e piccoli gruppi; in parlamento si alleavano, talora si separavano, ma sempre con iniziative individuali. Invece i partiti sono vere e proprie organizzazioni, con un nome, un programma ben definito, una sede, un bilancio economico; un partito possiede sedi, giornali, iscritti; c’è una gerarchia interna, ci si fa carriera ecc. Tutto questo «apparato» è necessario per ottenere il consenso della massa degli elettori, a cui le riforme elettorali, nei vari paesi, hanno spalancato la possibilità di votare.

■ Volantino del Partito socialista italiano a favore del suffragio universale.

SINTESI VISIVA

LE ILLUSIONI

LA REALTÀ





◗ la capacità di scienza e tecnica di conoscere la realtà e modificarla a vantaggio dell’uomo

in Italia ◗ è difficile costruire uno stato davvero unitario

◗ l’inarrestabilità del progresso umano

◗ è difficile dare risposta ai problemi emergenti:

◗ il mito del nazionalismo e il primato della patria ◗ una pace durevole nel continente europeo

Monografia Raccordo

Contesto

Il difficile passaggio tra Ottocento e Novecento

• pareggio del bilancio • questione romana

◗ l’Europa dominatrice del mondo e la sua missione civilizzatrice

• questione meridionale ◗ allargamento della partecipazione politica in Europa ◗ alleanze contrapposte e aggressive ◗ crisi economica («grande depressione», 1875-90)

conseguenze

conseguenze





◗ ci si culla nel benessere della Belle époque ◗ i governi promuovono una politica aggressiva • contro gli altri stati europei • contro Africa e Asia _ colonialismo

in Italia ◗ tensioni sociali (cannonate a Milano, 1898) superate con le riforme di Giolitti in Europa ◗ riorganizzazione industriale (catena di montaggio)

ESITO FINALE





◗ politiche sempre più aggressive

le tensioni sfociano nella Prima guerra mondiale (1914-18)

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Contesto

Tra Ottocento e Novecento

Idee 1 Il Positivismo 1

La nuova immagine della scienza

Lo sviluppo industriale e tecnologico degli ultimi decenni dell’Ottocento alimentò una cultura fortemente razionalistica, il Positivismo. Tale cultura si fondava sulla convinzione che la realtà del mondo sia qualcosa di «oggettivo» e quindi di misurabile. Si trattava di una ripresa e di uno sviluppo della cultura illuministica del Settecento, che già aveva messo in primo piano i valori della realtà pratica e concreta e sottolineato l’utilità delle scienze esatte, delle discipline pratiche (l’economia, l’amministrazione dello stato), della tecnica. Analogamente, un secolo dopo, esaurita l’età romantica, il Positivismo esaltò le scienze sperimentali e le relazioni tra scienza, tecnologia, produzione industriale e benessere collettivo. Secondo il Positivismo bisogna spiegare i «fatti», cioè i fenomeni osservabili. I fenomeni si spiegano attraverso l’individuazione di leggi, ossia di costanti, di comportamenti regolari, e queste leggi si possono indagare e sottoporre a verifica soltanto con metodi scientifici. Era perciò necessario estendere il metodo delle scienze sperimentali a qualunque tipo di sapere, comprese le nuove scienze umane che si stavano definendo in quegli anni (come la sociologia e la psicologia).

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L’idea del progresso

Il Positivismo fu l’epoca di una vera e propria esaltazione del sapere scientifico, nella convinzione che esso aprisse all’umanità un cammino di miglioramento e di prosperità. Questo rimetteva al centro dell’attenzione l’idea del progresso (anch’essa teorizzata per la prima volta dagli illuministi). Nel tempo della grande industria, di scoperte scientifiche che si moltiplicavano e del prodigioso sviluppo della tecnica, la storia appariva come un percorso lineare e destinato necessariamente a progredire verso il meglio. L’ideologia del progresso, peraltro, poteva prendere aspetti diversi. Anche il «socialismo scientifico» di Karl Marx e Friedrich Engels si fondava sull’idea di progresso; era però un progresso che richiedeva una lotta politica, per trasformare radicalmente il sistema sociale ed economico esistente. La fiducia razionalistica del Positivismo permeò gran parte della cultura del secondo Ottocento, fino a quell’età a cavallo tra i due secoli, la cosiddetta Belle époque (letteralmente, in francese, “epoca bella”) in cui ogni cosa sembrava andare per il meglio. In realtà, le basi di questa fiducia erano piuttosto fragili. Quando il progresso mostrerà i suoi tratti più complessi e problematici, quando emergeranno conflitti sempre più aspri nella politica e nella società, culminati nella catastrofe della guerra mondiale, allora sorgerà una reazione al razionalismo, incarnata da correnti culturali spiritualistiche e irrazionalistiche. Saranno queste ultime, dalla fine dell’Ottocento, a dar vita alla «cultura della crisi» e alla letteratura decadente.

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La filosofia del Positivismo

Il termine «positivismo» fu usato per la prima volta nel 1820 dal francese Claude-Henry de Saint-Simon, per definire il metodo rigoroso delle scienze «positive», cioè fondate sull’osservazione dei fatti e la verifica sperimentale delle teorie. Saint-Simon utilizzò inoltre l’espressione «filosofia positiva», per indicare il nuovo sapere che avrebbe dovuto rimodellare la società europea. L’elaborazione sistematica del Positivismo si deve poi a un altro francese, Auguste Comte, che nel Corso di filosofia positiva (1830-42) indicò le tre fasi di sviluppo per le quali, a suo parere, era passata l’umanità. • In una prima fase teologica, gli uomini vedevano il mondo come un prodotto di princìpi soprannaturali. • La fase metafisica fu dominata invece da princìpi razionali, ma astratti, non basati sull’osservazione dei fenomeni. • Solo nell’ultima, la fase positiva, gli uomini hanno cessato d’interrogarsi sull’inconoscibile «perché» dei fenomeni e hanno iniziato a indagare il «come» essi si manifestano, a quali leggi ubbidiscono. Partendo da queste premesse e dall’esaltazione del sapere «positivo», Comte organizzò tutte le scienze 34

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L’evoluzione naturale secondo Darwin

Il risultato più significativo, in ambito scientifico, della cultura positivistica è costituito dalla «teoria dell’evoluzione» di Charles Darwin (1809-82). Il termine evoluzione significa «svolgimento», «sviluppo», e indica nel linguaggio scientifico il processo che ha trasformato le forme di vita sulla Terra da una manciata di organismi semplici, vissuti miliardi di anni fa, a un numero assai vario di specie, cioè quelle attualmente esistenti. Darwin studiò questi fenomeni in esemplari di flora, fauna, rocce, e nel trattato Sull’origine delle specie (1859) espose la sua teoria, basata sul principio della selezione naturale: in natura, solo le specie che possiedono caratteri favorevoli all’ambiente – che è in continuo cambiamento – riescono a sopravvivere, e quindi a trasmettere tali carat-

Il documento Darwin: evoluzione e futuro dell’umanità Secondo Charles Darwin, la vita e la condizione degli organismi viventi sono regolate da una «lotta per l’esistenza» che è in grado di stabilire, attraverso la «selezione naturale», il rapporto tra numero degli individui e risorse disponibili. Darwin, figlio di un’epoca intrisa di fiducia nel progresso, è ragionevolmente ottimista: la selezione naturale condurrà a forme di vita superiori, capaci di gestire al meglio le risorse disponibili. Leggiamo alcuni passi del celebre trattato di Darwin Sull’origine delle specie. Non vedo nessun limite a questo potere [della natura] di adattare lentamente e magnificamente ciascuna forma alle più complesse relazioni della vita. [...] Poiché tutte le forme attuali della vita sono le discendenti in linea diretta di quelle che vissero molto tempo prima dell’età cambriana,1 possiamo essere sicuri che l’ordinaria successione per generazione non è mai stata spezzata e che nessun cataclisma2 ha devastato il mondo intero. Possiamo dunque guardare con qualche fiducia verso un sicuro avvenire di grande durata. E poiché la selezione naturale lavora esclusivamente mediante il bene e per il bene3 di ciascun essere, tutte le qualità del corpo e della mente tenderanno a progredire verso la perfezione. [...] Così, dalla guerra della natura, dalla carestia e dalla morte, direttamente deriva il più alto risultato che si possa concepire, cioè la produzione degli animali superiori. Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue diverse forze, originariamente impresse dal Creatore4 in poche forme, o in una forma sola; e nel fatto che, mentre il nostro pianeta ha continuato a ruotare secondo l’immutabile legge della gravità, da un così semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano a evolversi. C. Darwin, Sull’origine delle specie, trad. di L. Fratini, Boringhieri, Torino 1967 1. età cambriana: una fase dell’era primaria, risalente a circa 600 milioni di anni fa. 2. cataclisma: ammettendo la possibilità di queste grandi catastrofi, Darwin comprometterebbe tutta la propria teoria fondata sull’idea di un’ordinata progressione verso il futuro.

3. per il bene: da intendersi non nel senso del “finalismo” (ovvero: i processi naturali tendono a uno scopo finale), ma come migliore risposta all’ambiente, il che può implicare il danno di qualche altra specie.

4. Creatore: in altri testi Darwin si dichiarava agnostico; l’esistenza di Dio non si può né affermare né negare con i soli strumenti scientifici.

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Monografia Raccordo

in un sistema generale, al vertice del quale sta la sociologia, o «fisica sociale». Essendo la società la realtà più complessa, la scienza che se ne occupa è anche la più evoluta. Alla base di questa scelta stava l’idea, caratteristica del Positivismo, che la realtà sociale fosse analizzabile con metodi scientifici, al pari di quella naturale. Il Positivismo si affermò soprattutto in Francia e in Gran Bretagna (con J.S. Mill e H. Spencer), ma in tutta Europa, nella seconda metà dell’Ottocento, vi furono intellettuali, scienziati, filosofi che svilupparono ricerche e teorie legate al clima culturale del Positivismo.

Contesto

Idee

Tra Ottocento e Novecento

teri alle generazioni successive. In questa «lotta per la sopravvivenza», dunque, è la natura stessa a fornire il meccanismo selettivo perché sopravvivano e si riproducano certe specie, dotate di caratteri «vincenti», e non altre, che invece sono destinate a estinguersi. L’approccio di Darwin metteva in discussione la convinzione, dominante da secoli, per cui le specie sono tali sin dall’inizio dei tempi, essendo frutto della creazione divina («creazionismo»). Perciò, almeno in un primo momento, le sue teorie furono all’origine di accese discussioni.

Le basi del Positivismo fiducia nella ragione umana

primato di scienza e tecnica

esaltazione dell’industria

ottimismo nel progresso









◗ può conoscere con certezza la realtà ◗ elabora un metodo che si può applicare a ogni ambito

◗ assicurano il dominio dell’uomo sul mondo ◗ collaborano con lo sviluppo economico

◗ facilita la vita umana sulla Terra ◗ moltiplica il benessere

◗ gli uomini possono costruirsi un mondo migliore risolvendo difficoltà e problemi

2 La crisi del modello razionalista 1

Un nuovo clima culturale

Negli ultimi anni dell’Ottocento il Positivismo dominante fu attaccato da una ben diversa sensibilità culturale, che metteva in dubbio la fiducia nel fatto che scienza e tecnica potessero dominare il mondo. Contrapponendo i concetti di «crisi» e di «decadenza» alla fiducia nella scienza e nel progresso, tipica del Positivismo, questa nuova sensibilità nutriva l’affermarsi del Decadentismo letterario (E p. 48) e preparava i successivi sviluppi novecenteschi. Un evento sintomatico fu l’eco suscitata dall’articolo «Dopo una visita in Vaticano» (Après une visite au Vaticano) del critico letterario francese Ferdinand Brunetière (1849-1906), pubblicato il 1° gennaio 1895 sulla «Revue des deux Mondes» (Rivista dei due Mondi). Brunetière, seguace di Darwin, era reduce da un’udienza particolare che gli era stata concessa da papa Leone XIII e che lo lasciò assai scosso. Nel suo resoconto scrisse che l’atmosfera generale stava cambiando: dopo decenni di supremazia, il Positivismo stava arretrando; s’intravvedevano, a suo giudizio, i segni della «bancarotta della scienza», non per una disfatta generale, ma per numerosi fallimenti parziali. Parallelamente, Brunetière registrava la diffusione di un nuovo clima spiritualistico e una generale riconquista di prestigio da parte della religione, per anni bersagliata dalle critiche dei positivisti.

2

Il crepuscolo di una civiltà

Man mano che si avvicinava la fine del secolo, si tracciavano bilanci che rimettevano in discussione le basi della precedente cultura. Il progresso sociale, dato per sicuro, appariva largamente minacciato dai conflitti sociali e dagli antagonismi tra gli stati. La vecchia Europa, con la sua prestigiosa e millenaria cultura, appariva sull’orlo del disfacimento. Numerosi intellettuali iniziarono a parlare apertamente di «tramonto», di «crepuscolo», di «fine della società»: • era Il crepuscolo degli dèi cantato nell’omonimo melodramma (1876) dal grande compositore tedesco Richard Wagner (1813-83); 36

Idee

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Contesto

La svolta di fine secolo fine Ottocento sono messi in dubbio: ◗ la concezione positivistica del progresso

Monografia Raccordo

• era la «degenerazione» della società e della cultura giudicata irreversibile da Max Nordau (1849-1923) nel suo romanzo-saggio Degenerazione (1892); • era la «fine dell’età dell’oro della sicurezza», che sarà descritta dallo scrittore austriaco Stefan Zweig nel suo libro Il mondo di ieri (1942); • era Il tramonto dell’Occidente preconizzato dal libro (1918-22) del filosofo Oswald Spengler (1880-1936): a suo giudizio ogni civiltà, per necessità biologica, si irrigidisce, declina e poi muore, provocando un generale «rovesciamento dei valori». Scienza e ragione poco o nulla potevano contro un ciclo degenerativo a cui non esiste rimedio: Sembrava di essere giunti alla fine non di una civiltà, bensì della civiltà in generale. Saliva così alla ribalta il tema della “decadenza” che colpisce gli uomini, le loro culture e tutto ciò che esiste; “decadente” viene chiamata, non a caso, la tendenza letteraria più tipica dell’età di passaggio tra Otto e Novecento.

◗ i risultati e le certezze della scienza



nuovo clima culturale imperniato su CRISI/DECADENZA della ragione

La fine delle certezze tradizionali: Nietzsche e Freud

La perdita nella capacità della ragione di descrivere il mondo esterno alimentò forme di pensiero che si usa etichettare con il termine «irrazionalismo»: l’atteggiamento di chi giudica la ragione insufficiente a interpretare la realtà e si affida perciò ad altre forze: l’istinto, il sentimento, l’intuizione. Un atteggiamento irrazionalistico era già stato elaborato da precedenti filosofi come il tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860) e il danese Sören Kierkegaard (1813-55): critici verso i filosofi del loro tempo i quali, come Hegel, credevano nella razionalità della storia e nella comprensibilità del mondo reale, essi avevano invece sottolineato che l’uomo si muove in una dimensione di finitezza e precarietà, e dunque non può comprendere e padroneggiare una realtà complessa e infinita. Il maggiore filosofo della crisi di fine Ottocento fu il tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900). Il suo pensiero non accetta più né verità certe, né valori morali: i valori tradizionali sono, a suo giudizio, menzogne. Non c’è più nulla di sicuro, di stabile, di oggettivo (è il «relativismo» di Nietzsche). La storia non si sviluppa in modo lineare; riproponendo l’antica legge dell’«eterno ritorno», cara agli antichi greci, Nietzsche afferma che l’uomo contempora-

L’emancipazione femminile Un posto nuovo, nella società di massa, spettava alle donne. Per la verità esse rimanevano ancora escluse dalla partecipazione diretta alla vita politica per mezzo del voto. Solo dopo la lunga pressione e insistenza delle suffragiste (le donne che si battevano per il diritto di voto) capeggiate da Emmeline Pankhurst (1858-1928), arrestata e processata diverse volte, le donne inglesi (quelle sposate, perlomeno, precedute solo dalle donne neozelandesi, nel 1893) ottennero il diritto di voto alle elezioni per la Camera dei Comuni del 1918.

Queste pioniere dell’emancipazione femminile vennero chiamate «suffragette», un termine ironico, usato per dileggio dagli uomini, che trovavano strano, se non addirittura «contro natura», il desiderio delle donne di avere voce in politica. Stando alla mentalità tradizionale, infatti, la donna doveva occuparsi della casa e della famiglia, rimanendo nell’ombra, in silenzio. Una condizione che pesò a lungo anche in paesi avanzati: il diritto di voto alle donne in Francia sarà sancito solo nel 1944; in Italia verrà esercitato per la prima volta nel 1946,

in occasione del referendum che dovrà decidere tra monarchia e repubblica. La parità della donna era però una questione sociale assai più ampia del solo diritto di voto: coinvolgeva il lavoro e la giusta retribuzione, l’accesso all’università, la parità con il marito nell’istituto matrimoniale ecc. Furono tutte conquiste realizzate lentamente e con difficoltà dal movimento di emancipazione femminile (cioè di liberazione della donna), nato dall’iniziativa di poche coraggiose e divenuto poi, gradualmente, un movimento di massa in grado d’incidere sulla mentalità collettiva. 37

Tra Ottocento e Novecento

neo è l’ultimo prodotto di un inarrestabile processo di decadenza, incapace di produrre nuova storia. È la posizione detta «nichilismo» (da nihil, “nulla” in latino). La «morte di Dio» preconizzata nel saggio Così parlò Zarathustra (1883-85) significa la fine delle certezze e dei valori assoluti che la cultura occidentale aveva per millenni condensato nella figura di Dio. Solo il «superuomo», incarnazione della libertà e della volontà di potenza, potrà sottrarsi al destino della decadenza e proporsi quale rifondatore della storia dell’umanità. All’irrazionalismo di primo Novecento fornì un contributo decisivo anche Sigmund Freud (1856-1939), fondatore della psicoanalisi: una dottrina che costituì il retroterra teorico di molte opere letterarie incentrate sulla soggettività umana. A partire dall’Interpretazione dei sogni (1899), per continuare con Psicopatologia della vita quotidiana (1901), Totem e tabù (1912-13) e altre opere, Freud affermava che la psiche umana è divisa; c’è in essa una parte cosciente (l’«Io»), ma c’è anche una larga zona (l’«inconscio») di cui non abbiamo né la coscienza né il controllo. Ogni individuo possiede una natura «multipla»: è un campo di tensioni tra forze inconsce e atti di coscienza. Freud veniva a distruggere la certezza che ciascuno di noi abbia uno e un solo «carattere», ben determinabile e conoscibile, per sostenere, al contrario, che dobbiamo accontentarci di poter controllare solo parzialmente la nostra volontà. Freud, per la verità, partiva da un assunto positivistico: la psiche umana può essere conosciuta e perciò può essere curata. Senza questa fiducia non avrebbe senso la stessa psicoanalisi da lui fondata, che è un metodo di conoscenza della psiche finalizzato alla cura, alla terapia. Ma l’approccio

Il documento Nietzsche: «Dio è morto!» Così parlò Zarathustra è l’opera più celebre di Friedrich Nietzsche. Nella pagina che proponiamo l’autore si rivolge agli «uomini superiori» affinché reagiscano contro la massa ignorante e realizzino una stirpe umana diversa, indipendente dalla moralità corrente. La figura emblematica del «superuomo» riassume l’auspicio di questa nuova umanità «eroica», capace di prendere in mano il proprio destino. L’affermazione «Dio è morto!» va intesa soprattutto nel senso che Dio è «filosoficamente» morto, visto che ormai nessuna regola morale si può più giustificare con il fatto che essa discende dalla volontà divina. I. «Voi1 uomini superiori, – così ammicca la plebe – non vi sono uomini superiori, noi siamo tutti eguali, l’uomo è uomo; davanti a Dio – siamo tutti eguali!» Davanti a Dio! – Ma questo Dio è morto. Davanti alla plebe, però, noi non vogliamo essere eguali. Uomini superiori, fuggite il mercato! II. Davanti a Dio! – Ma questo Dio è morto! Uomini superiori; questo Dio era il vostro più grave pericolo. Da quando egli giace nella tomba, voi siete veramente risorti. Solo ora verrà il grande meriggio,2 solo ora l’uomo superiore diverrà padrone. Avete capito queste parole, fratelli? Voi siete spaventati: il vostro cuore ha le vertigini? Vi si spalanca, qui, l’abisso? Ringhia, qui, contro di voi il cane dell’inferno? Ebbene! Coraggio! Uomini superiori! Solo ora il monte partorirà il futuro degli uomini. Dio è morto: ora noi vogliamo, – che viva il superuomo. III. I più preoccupati si chiedono oggi: «come può sopravvivere l’uomo?». Zarathustra invece chiede, primo e unico: «come può essere superato3 l’uomo?». Il superuomo mi sta a cuore, egli è la mia prima e unica cosa, – e non l’uomo: non il prossimo, non il miserrimo, non il più sofferente, non il migliore. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1998 1. Voi: sta parlando Zarathustra o Zoroastro, antico filosofo religioso persiano, vissuto circa 700-800 anni prima di Cristo; Nietzsche immagina che sia tornato

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fra gli uomini a esporre il frutto delle sue riflessioni. 2. il grande meriggio: l’età contemporanea, nella quale si esauriscono le certez-

ze e gli ideali di un tempo. 3. superato: trasceso in un’umanità superiore.

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I «maestri del sospetto»

Per la forza rivoluzionaria delle loro idee, Nietzsche e Freud sono stati inclusi, assieme a Karl Marx, fra i tre «maestri del sospetto»: così li chiamò, nel 1966, il filosofo francese Paul Ricœur (1913-2005). A suo giudizio, infatti, tutti e tre partirono da una comune convinzione, secondo cui la verità (apparente) è menzogna: • è menzogna la giustizia borghese nei rapporti sociali e di lavoro (Marx); • è menzogna l’idea di Dio, della sua provvidenza e della morale che ne scaturisce (Nietzsche); • è menzogna la capacità di dominare i nostri istinti e le pulsioni più profonde (Freud). Si trattava di concezioni radicalmente nuove nello scenario filosofico dell’epoca.

Il documento Freud: «L’Io non è padrone in casa propria» Parecchie furono le novità recate dalla psicoanalisi rispetto alle certezze tradizionali: novità tali da produrre un vero sconvolgimento culturale, un «cambio di paradigma», come diremmo oggi. In questo scritto del 1916, Una difficoltà della psicoanalisi, Freud riflette sul perché la sua dottrina incontri tante resistenze per essere accettata; e conclude che non è strano. Infatti la psicoanalisi sottrae all’individuo il dominio di quanto più sembrerebbe appartenergli, ovvero l’intimità dello spirito: mente, carattere, volontà. L’uomo, anche se degradato al di fuori, si sente sovrano nella propria psiche. Ma in determinate malattie, e specialmente nelle nevrosi1 che noi abbiamo studiato, le cose vanno diversamente. L’Io si sente a disagio, incontra limiti al proprio potere nella sua stessa casa, nella psiche. Appaiono improvvisamente pensieri di cui non si sa donde provengano; e non si può far nulla per scacciarli. Questi ospiti stranieri sembrano addirittura più potenti dei pensieri sottomessi all’Io, e tengono testa a tutti quei mezzi, pur già tante volte collaudati, di cui dispone la volontà; non si lasciano turbare dalla confutazione logica, né li tange la testimonianza opposta della realtà. Oppure sorgono impulsi che sono come quelli di un estraneo, talché l’Io li rinnega, pur esso però costretto a temerli e a prender le proprie misure contro di essi. L’Io dice a se stesso che si tratta di una malattia, di una invasione straniera, e accentua la propria vigilanza; ma non può capire perché gli accada di sentirsi inceppato in una maniera tanto strana. La psicoanalisi si propone di spiegare queste inquietanti forme morbose. [...] Ma le due spiegazioni – che la vita pulsionale della sessualità non si può domare completamente in noi, e che i processi psichici sono per se stessi inconsci e soltanto attraverso una percezione incompleta e inattendibile divengono accessibili all’Io e gli si sottomettono – equivalgono all’asserzione che l’«Io non è padrone in casa propria». [...] Non c’è quindi da meravigliarsi se l’Io non concede la propria benevolenza alla psicoanalisi e continua ostinatamente a non crederle. S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, in Opere, a cura di C. Musatti, vol. 8, Boringhieri, Torino 1989

1. nevrosi: disturbi nervosi e affettivi, meno gravi delle psicosi.

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Monografia Raccordo

freudiano conteneva tre novità sconvolgenti per l’epoca: • la prima è che l’individuo, anche l’individuo «normale», è sempre teatro di un conflitto fra diverse pulsioni, e tra queste e la razionalità; • la seconda è che il confine tra salute mentale e malattia è assai più sfuggente di quanto non si creda comunemente; • la terza è che la psiche umana va analizzata non a partire dalle sue espressioni coscienti, ma indagando le forme in cui si manifesta l’inconscio. La principale di queste forme è il sogno, nel quale conflitti e tensioni si possono rivelare, sia pure in una forma non esplicita, e che dunque va interpretata.

Contesto

Idee

Sguardi sulla società Mass media e industria culturale

■ Manifesto pubblicitario per il quotidiano bolognese «Il Resto del Carlino», 1908.

■ Manifesto della rivista statunitense «Harper’s Magazine» (1895).

Nuove forme di comunicazione Nel Novecento trionfa la cultura di massa, cioè la cultura (idee, testi, spettacoli ecc.) prodotta per essere fruita da un numero sempre più ampio di persone. Con il Novecento si apre il secolo dei mass media, cioè di quelle nuove forme di comunicazione destinate al grande pubblico: fumetti, riviste periodiche, giornali, cinema, programmi radiofonici e televisivi, dischi. Non si tratta più di prodotti «unici», com’è, per esempio, un quadro, ma riproducibili su scala industriale, attraverso la stampa, la fotografia ecc. E poiché lo scopo è che questi prodotti abbiano una vastissima diffusione, si afferma il fenomeno del «divismo», ovvero l’identificazione del grande pubblico con «superuomini» e «superdonne». La cultura di massa aveva fatto la sua comparsa intorno al 1850-60 in Francia e in Inghilterra, patrie del romanzo d’appendice o feuilleton. Ora, nel Novecento, il fenomeno si generalizza, grazie all’istruzione più diffusa e grazie al sorgere di una vera «industria», che produce cultura (secondo alcuni, una «sottocultura») in serie e su vasta scala e la mette sul mercato. 40

■ Copertina del romanzo Il corsaro nero (1898) di Emilio Salgari.

■ «La domenica dei fanciulli», un settimanale illustrato per ragazzi che iniziò le sue pubblicazioni nel 1900.

La cultura come «merce»

ri difficili da interpretare, ma ricche di significati e problemi; il loro fine è esprimere uno sguardo critico sul mondo. Invece l’arte e la cultura di massa raccontano trame avvincenti, ma tutte simili le une alle altre; inscenano personaggi standard, allineati alla mentalità comune; le opere sono merce da vendere, che deve risultare appetibile da tutti. Anche gli autori dell’industria culturale divengono semplici ingranaggi nel circuito della produzione e del consumo.

L’idea che la cultura sia una «merce», anziché un bene spirituale o un messaggio di verità, come da sempre si pensava, generò all’inizio un vero shock. Gli autori tradizionali, quelli della cultura «alta», producono opere curatissime, pensate per fruitori selezionati. Al contrario, la cultura di massa produce oggetti di basso impegno artistico e di largo consumo. Le opere dell’arte e della letteratura tradizionali risultano maga-

1

Croce e Bergson

La perdita di fiducia nel mondo esterno spostava l’attenzione verso il soggetto, verso l’io interiore: ne emergeva però un io in crisi, conflittuale, sofferente per la perdita di stabili punti di riferimento, come insegnava la psicoanalisi di Freud. Molto indicativi, in proposito, sono anche il pensiero del francese Henri Bergson (1859-1941) e quello dell’italiano Benedetto Croce (1866-1952). Entrambi ponevano l’accento sull’intuizione individuale come strumento di conoscenza del reale; mettevano dunque in discussione uno dei principi cardine del Positivismo, cioè la convinzione che si possono conoscere le cose, il mondo, la vita solo partendo da dati certi, dall’evidenza empirica. Invece per Bergson la conoscenza che si ottiene per via d’intuizione è superiore a quella raggiungibile con gli strumenti della scienza; mentre Croce esalta la conoscenza a cui si arriva attraverso l’arte e la poesia. Grande, come si vede, è la distanza rispetto al razionalismo ottocentesco e positivistico: l’intuizione, infatti, è «misurabile» scientificamente. In particolare Bergson, nel Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), si allontanò con decisione dal Positivismo, proponendo un’idea di tempo e di «durata» molto soggettiva, profondamente diversa da quella misurabile con gli orologi. Sarà lui a dare la base filosofica per il grande ciclo romanzesco di Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto (pubblicato a partire dal 1913: E p. 698).

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Tra soggettivismo e razionalismo

Ma la dimensione individualistica e soggettivistica emerge un po’ in tutte le correnti di pensiero d’inizio secolo: per esempio nello storicismo del tedesco Wilhelm Dilthey (1833-1911) e nel pragmatismo dello statunitense William James (1842-1910), che elaborarono un’idea di storia come prodotto dell’uomo, che sfugge alle rigide determinazioni dei «fatti» e delle leggi scientifiche. Anche la fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938) sottolineava la centralità della coscienza soggettiva come autentico «mondo della vita». Rimasero invece fedeli a un’impostazione materialistica altre scuole culturali, in particolare il marxismo, soggetto a importanti riletture da parte dei pensatori cosiddetti neomarxisti, come l’italiano Antonio Gramsci (1891-1937), tra i fondatori nel 1921 del Partito comunista italiano, e come il critico letterario ungherese György Lukács (1885-1971).

Le filosofie della crisi Nietzsche

Freud

Bergson e Croce







contro la morale tradizionale: ◗ «morte di Dio» ◗ la storia non evolve affatto in modo lineare

contro la stabilità e la trasparenza dell’Io: ◗ ruolo dell’inconscio ◗ conflitto fra pulsioni e razionalità

contro la fiducia nella scienza sperimentale: ◗ l’intuizione individuale è lo strumento fondamentale per conoscere la realtà

◗ «L’Io non è padrone in casa propria»

superamento della cultura positivistica di fine Ottocento 41

Monografia Raccordo

3 Intuizione e vita interiore nelle filosofie d’inizio Novecento

Contesto

Idee

Tra Ottocento e Novecento

SINTESI VISIVA

Due modelli culturali

CULTURA OTTOCENTESCA

CULTURA NOVECENTESCA

nucleo centrale

■ Positivismo, razionalismo

■ crisi del Positivismo, irrazionalismo

contesto storico-sociale

■ espansione della grande industria ■ sviluppo di scienza e tecnica ■ Europa dominatrice del mondo

■ tensioni internazionali ■ Prima guerra mondiale

finalità

■ dominio della realtà da parte dell’uomo

■ testimoniare la crisi e la debolezza della condizione umana

strumenti per la conoscenza

■ metodo scientifico galileiano (osservazione empirica leggi generali) ■ applicazioni tecniche e nuove invenzioni

■ critica delle certezze tradizionali ■ l’intuizione, l’interiorità umana

tematiche prevalenti

■ primato della ragione scientifica ■ certezza di poter conoscere e dominare la realtà ■ fiducia nel progresso ■ rapporto molto stretto fra industria e ricerca scientifica

■ impossibilità della scienza di conoscere la realtà in modo esauriente ■ finitezza e precarietà della condizione umana ■ crisi, decadenza, degenerazione della civiltà europea ■ l’Io diviso: noi non ci apparteniamo (Freud)

protagonisti

■ Auguste Comte ■ Charles Darwin

■ Friedrich Nietzsche ■ Sigmund Freud

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Contesto

Storia

1 Naturalismo e Verismo 1

Dalla Francia la novità del Naturalismo

La grande novità del clima culturale diffuso dal Positivismo fu il Naturalismo. La sua versione italiana fu, con qualche aggiustamento, il Verismo. Nacque in Francia intorno al 1865-70, ma non rappresentava una novità assoluta, perché s’innestava, in realtà, sul tronco del romanzo realista di Balzac e Dickens. Teorizzato da Émile Zola (E p. 72), il Naturalismo si diffuse rapidamente e divenne, per almeno un ventennio, la tendenza letteraria dominante in Europa, anche se fin dagli inizi, o quasi, dovette convivere con un progetto di arte e letteratura molto differente, quello elaborato dal Decadentismo.

2

La poetica naturalistica

In comune con il Realismo di metà Ottocento, il Naturalismo manifestava l’attenzione per la realtà e per il «vero», oltreché la preferenza per la prosa: adottò il romanzo come strumento privilegiato per una letteratura «sperimentale», capace cioè di analizzare in maniera oggettiva e «scientifica» la realtà, con l’ambizione di proporre uno studio di essa a 360° (da qui il progetto dei grandi cicli romanzeschi: quello dei Rougon-Macquart di Émile Zola o l’interrotto «ciclo dei Vinti» di Giovanni Verga). Accanto al romanzo, naturalisti e veristi predilessero anche la novella, che essi chiamarono «bozzetto»: un racconto breve, che inquadrava con precisione una condizione umana, un ambiente sociale. Le origini culturali del Naturalismo risiedevano nella diffusione del Positivismo. A guidare i narratori naturalisti era l’ambizione di poter conoscere «oggettivamente» il mondo (e contribuire così al suo progresso tecnico-scientifico); li ispirava, dunque, un criterio «positivo», così come positivista era il loro proposito di avvicinare i metodi dell’arte a quelli tipici delle scienze naturali, le scienze appunto «positive». In tal modo il romanziere si poneva come conoscitore privilegiato dei meccanismi della realtà, come «osservatore» attento delle vicende sociali; una sorta di medico, come i naturalisti amavano presentarsi

L’arte secondo il Naturalismo modello culturale “

lo scopo dell’arte

il ruolo dell’artista





l’opera d’arte “

Positivismo

contribuire alla conoscenza della realtà

è uno scienziato

è un «documento umano»

fiducia nella scienza e nella ragione umana

l’arte non abbellisce, ma ritrae dal vero

osserva, scompone, ricostruisce i fatti umani

vale per i suoi contenuti, non per la forma

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Monografia Raccordo

Contesto

Poetiche

Tra Ottocento e Novecento

(l’atteggiamento dell’artista è, scrisse Edmond de Goncourt (1822-96), quello «di un medico, di uno scienziato, di uno storico»). Tali convinzioni furono espresse da Émile Zola nel saggio teorico Il romanzo sperimentale (1880). Il romanziere, secondo Zola, ha un compito analogo a quello dello scienziato: deve osservare la realtà e condurre esperimenti su di essa, scomponendo i fatti e poi ricostruendo il loro interno meccanismo psicologico. La sua opera sarà un «documento», un «documento umano», utilizzabile come fonte diretta dagli scienziati che studiano la società e la psicologia umana. Se i romantici avevano accordato il primato alla fantasia, all’immaginazione, al ricordo, cioè ai lati soggettivi e sentimentali dell’uomo, i naturalisti aspiravano invece al «vero» – il vero della scienza, però, non quello della filosofia o della religione. In questo vero c’era spazio anche per il brutto: anch’esso aveva valore estetico, in un’arte che voleva rappresentare la realtà così com’è. Soprattutto l’artista non doveva interferire con la sua opera

Il documento Zola: letteratura e analisi scientifica Nel 1867, per difendere dalle critiche la seconda edizione del suo romanzo Thérèse Raquin, Zola scrisse un’importante Prefazione. Al centro della letteratura vengono messi scopi puramente conoscitivi e «scientifici», non più artistici o d’intrattenimento. Come un «chirurgo» all’opera sul «tavolo anatomico», così – scrive Zola – il romanziere viviseziona ciò che esiste, attento solo alle reazioni fisiologiche che caratterizzano l’esistenza degli individui. Tali reazioni potranno meglio evidenziarsi in ambienti sociali bassi, moralmente spregevoli, dove la vita umana regredisce quasi al suo stadio primario. In Teresa Raquin ho voluto studiare indoli, non caratteri.1 In ciò è tutta l’essenza del libro. Ho scelto personaggi dominati superlativamente dai nervi e dal sangue, privi di libero arbitrio,2 sospinti in ogni atto della vita dalla fatalità della loro carne. Teresa e Lorenzo sono due esseri bestiali e null’altro. In questi due bruti3 ho voluto seguire, a passo a passo, il sordo travaglio delle passioni, gli impulsi dell’istinto, i turbamenti cerebrali che susseguono a tutte le crisi nervose. Gli amori dei miei due protagonisti non sono che la soddisfazione di un bisogno. [...] L’anima è perfettamente assente, ne convengo, poi che ho voluto proprio che così fosse. [...] Si legga il romanzo con attenzione, e si vedrà che ogni capitolo è lo studio di uno strano caso di fisiologia. In una parola, non mi sono proposto che questo: dato un uomo vigoroso e una donna insoddisfatta, cercare in loro la bestia, non veder altro che la bestia, inserire entrambi in un dramma violento, e annotare scrupolosamente le sensazioni e gli atti di questi due esseri. In definitiva, ho fatto su due corpi vivi il lavoro di analisi che i chirurghi fanno sui cadaveri [...]. Quando ho scritto Teresa Raquin mi sono appartato dal mondo e ho copiato, con minuziosa esattezza, la vita, dedicandomi esclusivamente all’analisi del meccanismo umano. Vi assicuro che gli amori crudeli di Teresa e di Lorenzo non avevano per me nulla d’immorale, nulla che possa spingere a turpi passioni. [...] L’analisi scientifica tentata in Teresa Raquin non sorprenderà [i lettori più attenti]. Essi vi riconosceranno il metodo moderno, lo strumento di indagine universale di cui il secolo si serve con tanto fervore per penetrare l’avvenire. A qualunque conclusione dovessero giungere, ammetteranno il mio punto di partenza: lo studio dei caratteri e delle profonde modificazioni dell’organismo sotto l’influsso dell’ambiente e delle circostanze. E. Zola, Thérèse Raquin, trad. di E. Tombolini, Rizzoli, Milano 1949 1. caratteri: fisionomie psicologiche, dotate di una normale complessità. 2. privi di libero arbitrio: impossibilitati

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a scegliere tra bene e male, a causa delle loro umilissime condizioni. 3. bruti: esseri primitivi, del tutto privi di

«cultura», fermi al livello puramente «naturale».

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Il Verismo italiano

Al Naturalismo francese si riallacciarono direttamente gli autori del Verismo italiano. I tre principali furono tutti siciliani: Capuana, Verga, De Roberto. ■ Il teorico del movimento fu Luigi Capuana (1839-1915). Fu lui a divulgare l’esperienza di Zola e dei naturalisti con molti articoli e saggi critici (raccolti in Il teatro italiano contemporaneo, 1872), in cui tuttavia, rispetto a Zola, sottolinea maggiormente l’autonomia dell’arte rispetto alla scienza (E p. 46). Oltre che un teorico del Verismo, Capuana fu un notevole narratore. Dopo il romanzo Giacinta (1879), che suscitò all’apparire vivaci discussioni, scrisse diversi volumi di novelle e Il marchese di Roccaverdina (1901): ambientato nella campagna siciliana, esso racconta la segreta inquietudine e i rimorsi di un nobile egoista, che lo condurranno fino alla follia. ■ Come Capuana, anche Giovanni Verga (1840-1922) era siciliano d’origine, pur se visse a lungo a Firenze e poi a Milano, allora capitali della cultura italiana. Verga esordì con romanzi tardo-risorgimentali, ambientati nell’alta società borghese (come Storia di una capinera, 1870). Successivamente si “convertì” al Verismo: nel 1874 pubblicò la novella Nedda, un «bozzetto siciliano» rivoluzionariamente ambientato nelle campagne della natía Sicilia e la cui protagonista (Bastianedda, detta Nedda «la varannisa») è una «povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana». La conquista del Verismo da parte di Verga appare completa nella raccolta di racconti Vita dei campi (1880) e quindi nei suoi grandi romanzi, I Malavoglia (1881) e Mastro-don Gesualdo (1889). ■ All’elaborazione della poetica del Verismo Verga diede anche contributi teorici. 1. Il primo fu la novella Fantasticheria (1879): in essa manifestava l’intenzione di raccontare un giorno il dramma di «uno di quei piccoli» che si stacca dal paese, per «vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio». Era il preannunzio dei Malavoglia (1881). 2. Poco dopo fu la volta di una lettera (1880) all’amico Salvatore Farina, lettera che Verga volle poi premettere alla novella L’amante di Gramigna. In essa l’autore teorizzava il desiderio di narrare il «fatto nudo e schietto» con le «medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare», rinunciando alla «lente dello scrittore»; in tal modo, aggiungeva, «la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile» e «l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale». 3. Infine, nella Prefazione dei Malavoglia, datata 19 gennaio 1881, Verga tracciava il programma di un ciclo di romanzi, aperto dai Malavoglia e proseguito da altri quattro racconti (ne portò a termine solo un altro, Mastro-don Gesualdo). Era però non il ciclo dei vincitori nella «lotta per la vita», bensì il «ciclo dei Vinti», dei «fiacchi che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti...», cioè di chi viene dopo di loro e li schiaccia. In questa Prefazione, la dottrina positivistica dell’evoluzione si colora di tinte negative: il progresso è una «fiumana» e si lascia dietro «deboli che restano per via», i «vinti che levano le braccia disperate». ■ Proprio in questo pessimismo verghiano risiede la principale differenza tra Verismo e Naturalismo francese: • Zola racconta vicende ambientate nelle città della grande industria e crede ancora alla possibilità d’indirizzare il progresso verso esiti positivi; • Verga invece non ci crede più: il suo mondo delle campagne appare chiuso di fronte a una prospettiva veramente «positiva». Del resto, si era negli anni in cui scoppiò la questione meridionale, destinata a segnare in profondità un po’ tutta la storia dell’Italia contemporanea (E scheda a p. 90). ■ Accanto a Verga e a Capuana, il terzo autore del verismo siciliano fu Federico De Roberto (1861-1927). Studioso di Flaubert e amico di Verga, pubblicò nel 1897 il romanzo I Viceré: un vasto affresco ambientato a Catania, nel passaggio dal governo borbonico all’Italia unita. La crisi storica e sociale è rappresentata dal narratore con grande precisione; una ridda di personaggi si affolla in caotiche scene di massa, mentre il ciclo familiare dei nobili Uzeda sembra rappresentare una razza degradata dalla follia.

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Monografia Raccordo

e con i suoi personaggi: doveva rimanere il più possibile un osservatore imparziale ed esterno. Era il «criterio dell’impersonalità». Verga lo tradurrà così: bisogna, scriverà nella prefazione al racconto L’amante di Gramigna, che l’opera «sembri essersi fatta da sé».

Contesto

Poetiche

Tra Ottocento e Novecento

Dal Naturalismo francese al Verismo italiano Naturalismo francese

Verismo italiano





◗ approccio scientifico: • l’artista come uno scienziato

◗ sottolinea l’autonomia dell’arte rispetto alla scienza

• l’opera come un «documento umano» ◗ interesse per il «vero» (incluso ciò che è «brutto») colto in particolare nelle periferie delle città industriali ◗ fine sociale

= l’arte deve migliorare la società 4

◗ ritrae il «vero» delle campagne ◗ denuncia della questione meridionale

◗ non crede di poter migliorare le condizioni del Sud d’Italia

Naturalismo e Verismo sulle scene teatrali Un genere assai praticato dai naturalisti fu quello del teatro.

■ Punto di partenza fu, nel 1887, la fondazione a Parigi del Théâtre Libre (Teatro libero), voluto dal regista francese André Antoine (1858-1943). Il suo scopo era svecchiare il repertorio e le forme della recitazione, superando la fase dei «mattatori» (i grandi attori protagonisti) e portando sulla scena la vita reale. Secondo Antoine, gli attori non devono recitare ma vivere come nell’esistenza quotidiana. In scena doveva andare una tranche de vie, un «pezzo di vita»; il pubblico vi avrebbe assistito come guardando da una «quarta parete, trasparente per il pubblico, e opaca per l’attore». Il teatro si proponeva, in sostanza, come illusione di una vita reale. ■ Tra i drammaturghi naturalisti, ricordiamo i principali: • Vittorio Bersezio (1828-1900), la cui commedia in dialetto piemontese Le miserie d’monssù Travet (1863), drammatica e comica a un tempo, raffigura nello sfortunato ma dignitoso protagonista (un impiegato abitudinario e infelice) l’emblema di una condizione sociale oscura e opprimente, quella appunto del «travet»; • il tedesco Gerhardt Hauptmann (1862-1946), che con il suo dramma I tessitori (1892), scritto in dialetto slesiano, portò in scena una problematica sociale di grande attualità, rappresentando l’insurrezione dei tessitori della Slesia nel 1844 e la graduale presa di coscienza, negli operai, dei propri diritti; • anche Giovanni Verga scrisse opere per il teatro, ricavandole dalle sue precedenti novelle e ottenendo molta fortuna presso il pubblico dell’epoca: il più famoso dramma verghiano è Cavalleria rusticana, allestito a Torino nel 1884 e ambientato tra i contadini della campagna siciliana (E p. 141); • al mondo del proletariato urbano guardava invece El nost Milan (1893-95) di Carlo Bertolazzi (1870-1916), un lavoro in due parti scritto in dialetto milanese e che ritraeva, nella Milano dell’epoca, la vita della povera gente. ■ Il genere più vicino al Naturalismo fu il dramma borghese, pure ispirato alla rappresentazione della realtà contemporanea. I suoi maggiori autori furono: • il norvegese Henrik Ibsen (1828-1906), che con Casa di bambola (1879) portava per la prima volta sulle scene, con grande successo e scalpore, la questione dell’emancipazione femminile nel matrimonio e nella società; • lo svedese August Strindberg (1849-1912), che affrontò in Danza macabra (1901) il tema della crisi dell’istituto matrimoniale e del conflitto tra coniugi facendolo esplodere nell’angoscia: non è più possibile alcuna comunicazione tra marito e moglie, se non nelle forme del rancore e dell’odio reciproco; • il russo Anton Cˇechov (1860-1904), che con Il gabbiano (1895-96) porta in scena le sconfitte esistenziali, le speranze tradite, l’incomunicabilità tra le generazioni, l’impossibilità di un vero colloquio tra i personaggi. Al tema dell’adulterio, prediletto dagli autori citati, s’ispirarono anche alcuni drammaturghi italiani di quest’epoca, come Giuseppe Giacosa (Tristi amori, 1887) e Marco Praga (La moglie ideale, 1890). 46

Sguardi sulla società La fotografia

■ Due modelli di macchina fotografica della Kodak, l’industria che a partire dagli anni ottanta dell’Ottocento iniziò la produzione in serie di questi apparecchi. ■ Una via di Parigi in un dagherrotipo: si tratta probabilmente della prima fotografia in cui appare una persona (in basso a sinistra).

Una nuova forma espressiva Nel 1839 venne presentato alla camera dei deputati e all’Accademia delle Scienze e Belle Arti di Parigi un nuovo procedimento di riproduzione delle immagini: nasceva così ufficialmente la fotografia, dapprima chiamata dagherrotipo dal nome del suo inventore, LouisJacques Daguerre (1787-1851). In breve tempo la qualità delle riproduzioni migliorò moltissimo, mentre gli apparecchi di ripresa cominciavano a essere prodotti su scala industriale. Infine – negli ultimissimi anni dell’Ottocento – si svilupparono le tecniche con cui registrare le immagini in movimento (cinema) e la loro diffusione commerciale. Con la fotografia cambiarono alla radice le condizioni dell’arte visiva. Fino ad allora la realtà era stata mediata dalla sensibilità e abilità del pittore; da allora in poi, il reale poteva essere non solo fis-

■ Dagherrotipo canadese risalente al 1855.

sato con perfezione dalla macchina fotografica, ma anche essere comodamente riprodotto in migliaia e migliaia di copie, tutte esattamente uguali. Tutto ciò ebbe forti ricadute sulla pittura. Molte attività prima affidate ai pittori (ritrattistica, reportage, vedutistica, illustrazione) passarono nelle competenze del fotografo. La pittura cominciò a trasformarsi in un’attività d’élite, in uno sguardo fortemente soggettivo e simbolico, sempre più lontano dalla riproduzione oggettiva della realtà. All’inizio la fotografia fu considerata

un mezzo di riproduzione solo meccanico, neutrale, non artistico. A fine Ottocento si diffuse la «fotografia artistica», realizzata con pose studiate e manierate: emblematiche le foto del norvegese A. Beer Wilse, simili a quadri di genere. Successivamente, nel corso del Novecento, crescerà la consapevolezza che a manovrare l’occhio fotografico è comunque il fotografo: la fotografia, cioè, ci dà uno sguardo sempre soggettivo sul mondo. Essa, perciò, può essere anche un linguaggio artistico e non solo meccanico. 47

Tra Ottocento e Novecento

2 Il Decadentismo e la letteratura d’inizio Novecento 1

Oltre il Naturalismo

Per Decadentismo si intende quella corrente letteraria che comprende le manifestazioni letterarie più importanti fra 1880 e 1925 circa (le date sono solo indicative). Precisamente si parla di Decadentismo in Italia, Estetismo o Modernismo in Inghilterra, Simbolismo in Francia. Al di là di queste definizioni, è chiara la matrice della tendenza: promuovere un’arte antinaturalista, che si fondi cioè non sulla rappresentazione al «vero» della realtà, ma sui lati oscuri del mondo e della vita, su quanto sfugge alla ragione (l’inconscio, l’enigma). Insiste perciò su elementi irrazionali, come la sensazione o l’intuizione.

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Le diverse fasi del Decadentismo

Nella corrente letteraria del Decadentismo dobbiamo distinguere due fasi principali: • la prima, indicativamente, va dal 1875-80 circa fino al 1910; • la seconda si prolunga fin verso il 1920-25 (anche queste date sono solo indicative). ■ La prima fase corrisponde al Decadentismo più irrazionale e ribelle: esso è caratterizzato dall’estetismo, dal culto della sensazione, vissuta quale alternativa al generale disfacimento, alla «decadenza» del mondo, uno stato d’animo assai diffuso tra gli intellettuali di fine Ottocento, come si è detto a p. 36. La «sensazione» decadente è profondamente diversa dal «sentimento» romantico: implica il primato non del cuore, degli affetti, ma degli istinti, delle pulsioni individuali, dell’inconscio. Sono tutte zone che i poeti decadenti esplorano volentieri, affidandosi a un linguaggio alternativo, quello dei simboli. È la fase segnata in Francia dai poeti simbolisti (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud: E p. 254), e in Italia dagli scrittori della Scapigliatura milanese (E p. 235): quest’ultima è l’avanguardia degli scrittori antiborghesi e ribelli (Arrigo Boito, Iginio Ugo Tarchetti, Emilio Praga e altri) attivi tra Milano e Torino intorno al 1870. Più duratura e qualitativa fu la partecipazione al Decadentismo di Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio. Punto d’arrivo di questa prima fase, infine, sarà l’esperienza delle avanguardie di primo Novecento (E p. 54: Futurismo, Espressionismo, Surrealismo ecc.), le quali condividono con il primo Decadentismo diversi aspetti: l’atteggiamento della ribellione, l’affidarsi all’inconscio, agli istinti, e anche la fiducia che la protesta degli intellettuali possa migliorare la realtà. ■ La seconda fase è quella del Decadentismo di Italo Svevo e Luigi Pirandello, e, in senso europeo, di James Joyce, Marcel Proust, Thomas Mann, Robert Musil. Questo più maturo Decadentismo è orientato non a crogiolarsi nella crisi, ma a conoscerla criticamente: la letteratura deve attestare la mancanza di certezze e di prospettive, deve rappresentare la debolezza degli individui e della loro coscienza. Quanto al letterato, egli non può mutare la realtà di fatto: la rivela, senza più illudersi di poterla migliorare. L’artista insomma si separa definitivamente dalla società: non è più un ribelle, come accadeva ai romantici, ma, più dolorosamente, un «inetto» (Svevo), un «uomo senza qualità» (Musil), un «indifferente» (dal romanzo d’esordio di Alberto Moravia, Gli indifferenti, del 1929). Se il primo Decadentismo si orientava per lo più alla poesia, questo secondo privilegia la prosa, il romanzo, come strumento primario per conoscere le storture del mondo. Con esso ci troviamo, di fatto, nel vivo della più matura letteratura del Novecento.

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Simbolismo e rinnovamento del linguaggio poetico

Le origini del Decadentismo risalgono agli ultimi decenni dell’Ottocento. Già intorno al 1860-70 si manifesta, in numerosi scrittori europei, una diffidenza nei confronti del Positivismo e della sua fiducia nella scienza e nella ragione. Tale concezione si espresse nell’opera di alcuni poeti francesi, a cominciare da Charles Baudelai48

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Gli sviluppi del Simbolismo

Le prime manifestazioni del Simbolismo risalgono agli anni settanta dell’Ottocento, con le raccolte di Arthur Rimbaud (Il battello ebbro, 1871, Una stagione all’inferno, 1873, Illuminazioni, 1874) e di Paul Verlaine (1844-96), il quale divulgò la nuova poetica pubblicando nel 1884 l’antologia I poeti maledetti. La figura più consapevole del Simbolismo fu Stéphane Mallarmé (1842-98), il poeta di Il pomeriggio d’un fauno (1876) e di Un colpo di dadi non abolirà mai il caso (1897). Il nuovo linguaggio dei simbolisti divenne presto un punto di riferimento per la poesia europea tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Ricordiamo tra loro: • in Europa, i francesi Paul Valéry (1871-1945) e Guillaume Apollinaire (1880-1918), gli austriaci Reiner Maria Rilke (1875-1926) e Georg Trakl (1887-1914), l’anglo-americano Thomas Stearns Eliot (1888-1965) e gli spagnoli Antonio Machado (1875-1939) e Federico García Lorca (1898-1936); • in Italia guardano al linguaggio del Simbolismo alcuni dei maggiori poeti di primo Novecento: oltre a Pascoli (Myricae, 1891) e a D’Annunzio (Alcyone, 1903), si ricordano i poeti «vociani» (così chiamati perché collaborano alla rivista «La Voce») Clemente Rebora e Dino Campana. Giungeremo per questa via a Giuseppe Ungaretti e a Eugenio Montale, i maestri dei poeti ermetici degli anni trenta.

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La narrativa decadente: i romanzi dell’Estetismo e la venerazione per il «bello»

La concezione secondo cui qualsiasi rappresentazione «oggettiva» della realtà è, inevitabilmente, limitata si traduce anche sul versante della narrativa: i narratori del Decadentismo rinunciano al ruolo pubblico di «missionari» dei valori del progresso scientifico e sociale e rivolgono, piuttosto, la loro attenzione al culto della bellezza intesa come fine a se stessa. Nasce da qui la tendenza all’estetismo (dal greco áisthesis, “sensazione”), cioè la tendenza all’«arte per l’arte», che è uno dei temi maggiori della letteratura decadente; un motivo spesso associato alla contemplazione di una bellezza sfiorente, che ha ormai raggiunto l’apice e sta ora spegnendosi lentamente. Un primo divulgatore dell’Estetismo fu il critico d’arte inglese Walter Pater (1839-94), che fece conoscere al pubblico d’Oltremanica le raffinatezze dell’arte rinascimentale italiana. Il primo personaggio figlio della narrativa decadente fu Des Esseintes, protagonista di Controcorrente o A ritroso (titolo originale in francese: À rebours, 1884), opera dello scrittore francese Joris-Karl Huysmans (1848-1907). Il romanzo incontrò vivo successo, tanto da essere ribattezzato «la Bibbia del Decadentismo»; Des Esseintes divenne il prototipo del dandy, l’esteta, malato di bellezza, e perciò isolato dal mondo comune, che egli giudica troppo volgare. Questa figura dell’esteta fu poi rapidamente replicata in altri due tipici «esteti»: • Andrea Sperelli, protagonista del romanzo Il piacere (1889) di D’Annunzio; • Dorian Gray, il gentiluomo demoniaco dell’omonimo romanzo (Il ritratto di Dorian Gray, 1890) di Oscar Wilde (1854-1900). I romanzi citati, improntati a un culto della sensazione raffinata, estraneo a ogni scopo realistico, diffusero in tutta Europa l’idea che sono le sensazioni estetiche, ben più dei convincimenti morali, il modello cui confor49

Monografia Raccordo

re (1821-67), l’autore dei versi raccolti in I fiori del male (1857). A suo giudizio, lo scrittore deve porsi non il compito di annunciare la verità, quanto quello di svelare i segreti legami che s’instaurano tra le cose e nella natura, indagando nelle zone più profonde e misteriose della vita umana. La poesia diviene allora uno strumento utile a rivelare il significato dei simboli presenti ovunque intorno a noi. Nel celebre sonetto Corrispondenze, Baudelaire descrisse il poeta come uno che sa muoversi nella «foresta di simboli» che è il mondo. Per gli altri «tutto è geroglifico», incomprensibile: il poeta invece è un «decifratore», un «veggente» (per il suo seguace Rimbaud). I maggiori esponenti del Simbolismo – la corrente poetica che inaugurò la stagione della poesia moderna – furono tutti eredi di Baudelaire e della sua novità. Se Émile Zola con il suo romanzo naturalista (che si stava affermando proprio in quegli anni e nella medesima città, Parigi) intendeva rinnovare il rapporto letteratura-realtà, i poeti simbolisti hanno invece l’obiettivo di trasformare radicalmente il linguaggio poetico, proprio per raggiungere quelle zone nascoste della natura e della vita umana che l’indagine scientifica non può toccare, quelle che nessuna resa «oggettiva» o fotografica del mondo può raggiungere. La poetica del Simbolismo si fonda sul valore della parola: la parola «pura», che, indipendentemente dal suo significato primo e superficiale, rinvia a una realtà più profonda. Per raggiungerla, i simbolisti valorizzano alcune figure retoriche, come la sinestesia (cioè l’accostamento simultaneo di percezioni provenienti da sensi diversi) o l’analogia (la messa in relazione di due o più cose distanti fra loro nella realtà). Nello stesso tempo essi rinnovavano la metrica e il ritmo dei versi, per raggiungere un’insolita musicalità.

Contesto

Poetiche

Tra Ottocento e Novecento

Il documento Rimbaud: Lettera del «poeta veggente» Conosciuta come Lettre du voyant, «Lettera del veggente», questa lettera (pubblicata solo nel 1912) fu indirizzata da Arthur Rimbaud, appena diciassettenne, all’amico Paul Demeny. Essa costituisce una sorta di manifesto programmatico della poetica simbolista, in quanto esprime alcuni concetti decisivi: a) l’«Io è un altro», nel senso che esiste una forza (l’inconscio, dirà Freud) che l’Io non può conoscere né dominare; b) il poeta deve protendere la sua capacità percettiva, per conoscere attraverso i sensi, al di là di ogni controllo razionale (è un veggente, dice Rimbaud); c) in tal modo egli giunge alla verità assoluta e trascendente (il fuoco), là dove nessun altro può arrivare, e poi dona (riporta) all’umanità quanto ha scoperto; d) infine, Rimbaud auspica che il poeta trovi «un linguaggio universale» adatto a esprimere l’anima universale, cioè quell’insieme di stimoli e di energie nascosto dietro la superficie delle cose visibili. Charleville, 15 maggio 1871 [...] Poiché Io è un altro. Se l’ottone1 si sveglia tromba, non è affatto colpa sua. Per me è evidente: assisto allo schiudersi del mio pensiero: lo osservo, lo ascolto [...]. Il primo studio dell’uomo che si vuole poeta è la propria conoscenza, intera; cerca la sua anima, la scruta, la saggia, la impara. Quando l’ha saputa deve coltivarla [...]. Dico che bisogna essere veggente,2 farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi3 di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; cerca egli stesso, esaurisce in se stesso tutti i veleni, per conservarne soltanto la quintessenza.4 Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il gran malato, il gran criminale, il gran maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all’ignoto! Avendo coltivato la propria anima, già ricca, più di ogni altro! Giunge all’ignoto, e anche se, sbigottito, finisse col perdere l’intelligenza5 delle proprie visioni, le avrebbe viste! [...]. Dunque il poeta è veramente rubatore di fuoco.6 A suo carico sono l’umanità e perfino gli animali; egli dovrà sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se quello che riporta da laggiù ha forma, darà forma; se è informe, darà l’informe. Trovare una lingua7 [...]. Questa lingua sarà anima per l’anima,8 riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e tira. Sarebbe compito del poeta definire la quantità d’ignoto che si ridesta nell’anima universale9 del suo tempo. A. Rimbaud, Opere, a cura di D. Grange Fiori, intr. di Y. Bonnefoy, A. Mondadori, Milano 1975 1. l’ottone: strumento musicale a fiato. 2. veggente: i veggenti sono individui dotati di poteri paranormali e che hanno visioni rivelatrici del futuro. 3. ragionato sregolarsi: l’aggettivo sembra contraddittorio. Come si può esercitare il controllo della ragione su un’esperienza irrazionale? Rimbaud vuole dire che la poesia visionaria non è solo istintiva e immediata, ma richiede anche la capacità tecnica e formale dello scrittore. E poi è solo con la ragione che il poeta giunge alla sapienza della visione, se ne rende cioè consapevole. L’immagine dello «sregolamento» allude tuttavia anche all’uso della droga, che all’epoca di Rimbaud s’identificava con il consumo dell’oppio.

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4. la quintessenza: la parte più pura, nobile e raffinata. 5. l’intelligenza: la capacità di comprendere. 6. rubatore di fuoco: nel mito greco, Prometeo era il Titano che, avendo rubato il fuoco (simbolo di conoscenza) agli dèi per farne dono all’umanità, fu incatenato da Giove a una montagna e condannato a vedersi divorare il fegato da un’aquila. Come il ribelle Prometeo, neppure il poeta-veggente teme il divieto che ci esclude dall’ignoto. 7. una lingua: intende la lingua dell’ignoto, il linguaggio autentico e incontaminato dell’interiorità individuale. 8. Questa lingua... per l’anima: questa

lingua universale non è la lingua comune e primordiale che gli illuministi ipotizzavano all’origine dell’umanità. Qui Rimbaud intende un’altra lingua, la «lingua dell’anima», articolata non dall’Io del poeta, ma dall’«altro Io»; essa direttamente parla all’anima di ogni uomo. L’immagine della «lingua dell’anima» suggerirà, all’inizio della Ricerca di Proust, le pagine sul sapore dell’infuso di tiglio, dal quale si ridestano i ricordi e le sensazioni dell’infanzia. 9. si ridesta nell’anima universale: secondo la filosofia antica, l’anima universale è una specie di energia vitale, infusa anche nelle più piccole parti dell’universo, che dà a tutti gli esseri la loro forma e il loro movimento.

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La posizione di Pascoli e D’Annunzio I due principali autori del Decadentismo italiano, almeno nella prima fase, furono D’Annunzio e Pascoli.

■ Entrambi, lo abbiamo detto (E p. 48), vanno ascritti all’Estetismo di fine Ottocento. Infatti in Gabriele D’Annunzio (1863-1938) l’estetismo si manifesta con il connubio fra arte e vita, nell’ambizione cioè a «fare» la vita come un’opera d’arte: è il significato fondamentale del romanzo Il piacere, il romanzo del superuomo. Andrea Sperelli, il suo protagonista, afferma se stesso e la propria volontà di potenza (c’è qui un’eco della filosofia di Nietzsche: E p. 37), senza riguardo per le regole sociali o per la morale corrente. Tale soggettivismo, l’attenzione spasmodicamente fissata su di sé, contrassegna un po’ tutte le opere di D’Annunzio, in prosa e in versi, anche quando, come in Notturno (1916-21), lo scrittore metterà in scena un io debole e malato. Non un «superuomo», ma un «fanciullino», è invece l’io poetico in cui si riconosce Giovanni Pascoli (1855-1912). La differenza è grande, eppure il «fanciullino» pascoliano condivide con il superuomo dannunziano l’esasperato individualismo: tutto nasce dall’io-poeta, che si pone come centro del mondo. È infatti dallo sguardo incantato sulle cose del «fanciullino» che scaturisce la novità delle poesie di Myricae (1891). Il poeta-fanciullo di Pascoli però, benché diminuito nella sua dignità rispetto ai poeti-vati di un tempo, non si «vergogna» di essere un poeta, come invece accadrà, di lì a pochissimo, ai crepuscolari. ■ Per altri aspetti, tuttavia, sia D’Annunzio sia Pascoli escono dai confini ristretti dell’Estetismo di fine Ottocento. Basti pensare, per quanto riguarda D’Annunzio, all’ambizione di conoscenza che rivelano i suoi romanzi (per esempio Le vergini delle rocce, un vero e proprio romanzo «politico»); oppure all’anticipazione della «prosa d’arte» (E p. 346) nei capitoli di Notturno. Quanto a Pascoli, la nuova poesia novecentesca sarebbe impensabile senza l’operazione di «rottura» da lui esercitata sulle forme della tradizione. Dunque, quando collochiamo Pascoli e D’Annunzio un po’ prima del vero e proprio Novecento letterario, compiamo un’operazione legittima per certi aspetti, ma meno plausibile per altri. È il limite di tutte le classificazioni scolastiche.

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Il Decadentismo di Svevo e Pirandello e la nuova narrativa psicologica

Molto chiara è l’appartenenza alla fase più matura del Decadentismo di altri due importanti autori di primo Novecento, il triestino Italo Svevo (1861-1928) e il siciliano Luigi Pirandello (1867-1936). Diversi elementi li accomunano e li rendono, entrambi, fortemente innovatori: • sia Svevo sia Pirandello prediligono la prosa (anche nella forma del dialogo teatrale) rispetto alla poesia; • entrambi sperimentano nuove soluzioni per il romanzo: utilizzano infatti un linguaggio letterariamente dimesso e povero, una lingua della realtà, rispetto ai simboli preziosi di D’Annunzio; • inoltre raccontano le disavventure di personaggi sconfitti dalla vita: quelli di Svevo sono «inetti» (il più famoso è lo Zeno Cosini tragicomico protagonista della Coscienza di Zeno, 1923); quelli di Pirandello sono addirittura privi di identità (è la condizione del protagonista del Fu Mattia Pascal, 1904); • infine, e soprattutto, sia Svevo sia Pirandello narrano vicende in cui l’intreccio e le avventure tendono a scomparire: tutta l’attenzione si focalizza sull’individuo protagonista, perno di una minuziosa analisi psicologica. Come ha scritto il critico Mario Sansone, il romanzo novecentesco «da esame, [...] disegno della società e dell’uomo, tende sempre più a diventare ritratto, [...] analisi interiore». 51

Monografia Raccordo

mare i comportamenti individuali. In base a questa concezione, non importa compiere azioni «buone», bisogna invece che le proprie azioni siano sempre «belle». Scrittori come D’Annunzio e Wilde sono stati così coerenti nel loro immoralismo da trasformare la propria vita in un seguito di scandali. A tale venerazione per il «bello», per una perfezione artistica da raggiungersi con una preziosa ricerca tecnica, si richiamavano in quegli anni anche altre esperienze artistiche, come: • le teorie del critico inglese John Ruskin (1819-1900), polemico con la civiltà industriale, e la pittura «preraffaellita» dell’inglese Dante Gabriel Rossetti (1828-82), che aveva quindi recuperato il modello degli «ingenui» pittori vissuti prima (pre-) di Raffaello; • un gruppo di poeti francesi, emuli di Baudelaire e chiamati parnassiani per il loro desiderio di allontanarsi dalla realtà volgare e immergersi nella remota sfera del bello (il Parnaso era, nell’antichità, il monte delle Muse, dee della poesia); • il raffinato lavorio tecnico sulla parola compiuto da Pascoli e D’Annunzio nelle loro raccolte liriche. Ben diversa posizione assumeranno le avanguardie di primo Novecento: esse semmai si sforzano di «smontare» l’involucro della bellezza tradizionale, utilizzando linguaggi non figurativi.

Contesto

Poetiche

Tra Ottocento e Novecento

A Svevo e Pirandello si può accostare anche il senese Federigo Tozzi (1883-1920): il suo romanzo Con gli occhi chiusi (1919; E Tomo 3B) narra una storia d’amore che diviene, in realtà, l’ossessiva esplorazione dell’io debole del protagonista maschile, Pietro: un individuo del tutto incapace di adattarsi al mondo reale (in questo senso vive «con gli occhi chiusi», tutto ripiegato su di sé) e dietro al quale si nasconde la nevrosi dell’autore.

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Romanzo italiano e romanzo europeo: i maestri del Novecento

Svevo, Pirandello, Tozzi sono le voci più moderne della narrativa italiana di primo Novecento, degne di stare alla pari con le grandi esperienze del romanzo europeo dell’epoca; con la narrativa, cioè, che elabora la forma più matura di romanzo psicologico e ha i suoi protagonisti in: • James Joyce (1882-1941), l’irlandese autore dell’Ulisse (1922); • Marcel Proust (1871-1922), l’autore francese del ciclo di romanzi Alla ricerca del tempo perduto (1913-27); • Franz Kafka (1883-1924), l’autore praghese di lingua tedesca che scrisse La metamorfosi (1915) e Il processo (1925); • Thomas Mann (1875-1955), l’autore tedesco dei Buddenbrook (1901) e della Montagna incantata (1924); • l’austriaco Robert Musil (1880-1942), autore del romanzo L’uomo senza qualità (1930-34). Quest’ultima opera, con il suo titolo emblematico, rappresenta un po’ la sigla della «debolezza» dei personaggi novecenteschi e dell’ultima funzione rimasta all’autore (testimoniare la crisi dal di dentro, senza pensare di poterla più risolvere). Tutti gli autori citati operano in un mondo che, segnato dalla crisi del Positivismo (E p. 36), ha perduto ogni stabile certezza. Perciò i loro personaggi si aggirano come individui deboli, nevrotici, annullati nella loro dignità, massificati dai rapporti sociali: la vita collettiva appare un ambito inautentico, fonte d’insincerità e di fallimenti. Da qui la sensazione di questi personaggi di essere sottratti a loro stessi (è l’«alienazione», cioè la riduzione ad altro) e snaturati in «cose» («reificazione»: E p. 200). Ne nasce un malessere interiore a cui non vi è rimedio e che i maestri della narrativa contemporanea raffigurano dall’«interno»: il centro focale della loro narrazione si sposta sui processi psicologici interni al personaggio, sulla vita intima e sulle sue continue, dolorose contraddizioni. Va tuttavia sottolineato un punto: l’analisi condotta dal grande romanzo d’inizio Novecento rimane finalizzata alla conoscenza (di sé e del proprio mondo). Siamo nel tempo in cui la filosofia rinunciava alle grandi sintesi, alla sua vocazione a rispondere alle grandi domande di sempre (perché esiste il mondo? chi è l’uomo? qual è il senso delle cose?): a questi temi i filosofi del Novecento preferivano dare risposte parziali, o non darne affatto. Ebbene, toccò precisamente alla letteratura (in primo luogo al romanzo) farsi carico di queste domande: nel crollo generalizzato delle conoscenze e delle certezze, essa veniva avvertita come un ultimo, anche se precario, strumento di conoscenza.

Le due fasi del Decadentismo prima fase 1875-1910 circa

poeti simbolisti francesi

romanzi estetizzanti





Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, Mallarmé

Huysmans, A ritroso, Wilde, Il ritratto di Dorian Gray

in Italia: D’Annunzio, Il piacere

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seconda fase dal 1900 al 1925 circa

in Italia: Svevo, Pirandello, Tozzi



in Italia: Pascoli, Myricae

in Europa: Mann, Proust, Kafka, Joyce, Musil

forma preferita: romanzo psicologico

Poetiche Contesto

LA GEOGRAFIA LETTERARIA

• William Butler Yeats (1865-1939) • James Joyce (18821941)

Monografia Raccordo

Centri e autori del Decadentismo

• John Ruskin (1819-1900) • Dante Gabriel Rossetti (1828-82) • Walter Pater (1839-94) • Oscar Wilde (1854-1900) • Thomas S. Eliot (18881965) • • • • •

Richard Wagner (1813-83) Friedrich Nietzsche (1844-1900) Max Nordau (1849-1923) Thomas Mann (1875-1955) Oswald Spengler (1880-1936)

• IRLANDA •

GRAN BRETAGNA

• GERMANIA FRANCIA



SPAGNA



IMPERO ASBURGICO•

• Sigmund Freud (1856-1939) • Arthur Schnitzler (1862-1931) • Hugo von Hofmannsthal (18741929) • Reiner Maria Rilke (1875-1926) • Robert Musil (1880-1942) • Franz Kafka (1883-1924) • Georg Trakl (1887-1914)

ITALIA •

• Antonio Machado (1875-1939) • Federico García Lorca (1898-1936)

• Charles Baudelaire (1821-67) • Stéphane Mallarmé (1842-98) • Joris-Karl Huysmans (18481907) • Paul Verlaine (1844-96) • Arthur Rimbaud (1854-91) • Paul Valéry (1871-1945) • Guillaume Apollinaire (18801918) • Marcel Proust (1871-1922)

• Iginio Ugo Tarchetti (1839-69) • Emilio Praga (1839-75) • Arrigo Boito (1842-1918) • Giovanni Pascoli (1855-1912) • Gabriele D’Annunzio (1863-1938) • Federigo Tozzi (1883-1920) • Italo Svevo (1861-1928) • Luigi Pirandello (1867-1936) • Dino Campana (1885-1932) • Clemente Rebora (1885-1957)

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Tra Ottocento e Novecento

3 Le avanguardie 1

Il concetto di avanguardia

«Avanguardia» è, nel linguaggio militare, un reparto che precede il grosso dell’esercito, per proteggerlo da attacchi di sorpresa. Nell’Ottocento la parola acquistò anche un significato politico, designando quei gruppi estremisti che predicavano la lotta per liberare gli oppressi. Il termine «avanguardie» fu poi esteso (1864) dal poeta Charles Baudelaire, con senso ironico, agli artisti più rivoluzionari del suo tempo. Agli inizi del Novecento il termine indica scrittori e artisti assai polemici verso tradizione, regole, forme e contenuti abituali delle opere d’arte. Sulla scia del pensiero distruttivo di Nietzsche (il filosofo tedesco profeta della «morte di Dio»: E p. 38) essi rifiutavano la «civiltà», quella occidentale, in ogni forma. Si battevano per un linguaggio più istintivo e diretto, rigettando l’idea «borghese» dell’opera d’arte come prodotto da vendere e consumare. Si disinteressavano del «bello» e del «buono», anzi, cercavano di provocare disgusto e scandalo. Il desiderio di un’assoluta originalità espressiva portò le avanguardie a un’idea di arte «totale», capace di fondere tutti i generi e tutti gli stili. Il suo scopo non era più dire qualcosa di comprensibile, ma sperimentare un modo diverso di vivere e creare.

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Le avanguardie storiche del primo Novecento

Le avanguardie di primo Novecento (le cosiddette avanguardie storiche) sorgono nell’ambito del Decadentismo, come gruppi di contestazione ancor più radicale (rispetto alle novità di Simbolismo ed Estetismo) dell’arte e della cultura tradizionali. • In alcuni casi l’elaborazione delle singole avanguardie interessa tutte le arti (pittura, letteratura, musica, teatro): è il caso di Futurismo, Surrealismo, Espressionismo. Alla loro base c’è infatti una visione complessiva, una «filosofia» del mondo, che dà vita poi a modi e linguaggi diversi di sperimentazione. • Altri movimenti d’avanguardia si sono limitati invece a un solo ambito: il Fauvismo e il Cubismo riguardano per esempio la sola pittura; l’acmeismo russo la poesia; la scuola dodecafonica (o «scuola di Vienna», dei compositori Schönberg e Webern) la sola musica. Comune a tutte queste avanguardie è il lavoro collettivo, per gruppi, spesso in senso organizzato e omogeneo; ciò implica il focalizzarsi di uomini e tendenze in alcuni centri (Parigi, Vienna, Zurigo, Monaco, San Pietroburgo, Berlino, Milano), le capitali europee dell’avanguardia. Alle origini di ogni movimento c’è di solito un piccolo gruppo o anche un solo intellettuale che promuove un manifesto, in cui viene delineato il programma attorno al quale si coagulano altri artisti. Ogni avanguardia, inoltre, gestisce una o più riviste, su cui viene approfondito il programma teorico e sono pubblicate alcune opere esemplari. Si verifica però anche il caso di alcuni grandi autori, come Joyce o Kafka, che rimangono isolati, non collegati a un gruppo esistente: tuttavia le loro proposte risultano così nuove e importanti da potersi senz’altro definire «scrittori d’avanguardia».

rottura rispetto all’arte tradizionale

sperimentazione di forme e linguaggi nuovi

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primato della creatività



Lo strappo delle avanguardie SCANDALO del pubblico borghese

elaborazione di gruppo, riassunta in un MANIFESTO

Il Futurismo

Il Futurismo fu l’unico movimento d’avanguardia nato in Italia a ottenere diffusione internazionale; un grande sviluppo ebbe il Futurismo russo, rappresentato da poeti come Vladimir Majakovskij (1893-1930) e Aleksandr Blok (1880-1921). Il Futurismo italiano generò, inoltre, altre esperienze d’avanguardia europee, come il Vorticismo inglese e alcune correnti russe (raggismo, suprematismo ecc.). Il Futurismo nacque nel 1909 con il Manifesto di Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) pubblicato sul quotidiano parigino «Le Figaro»; a questo primo manifesto ne fecero seguito molti altri, scritti per lo più da Marinetti, ma firmati da altri intellettuali e dedicati a un po’ tutte le arti. La poetica futurista si fondava sull’accettazione entusiastica del «futuro», del nuovo; i temi della modernità trovarono incarnazione nell’automobile, nell’aeroplano, nella velocità, nell’elettricità, nelle fabbriche. Le opere futuriste utilizzavano i canoni di dinamicità, simultaneità, disordine formale e celebravano temi di lotta e aggressione. Gli slogan più conosciuti sono l’«immaginazione senza fili» (la fantasia libera cioè di associare qualsiasi contenuto) e le «parole in libertà», al di fuori di ogni schema, così da esprimere gli istinti nella maniera più diretta. Gli esiti migliori il Futurismo italiano li diede nell’ambito della pittura, grazie a Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Carlo Carrà. In letteratura, accanto alle opere di Marinetti e di altri poeti futuristi (tra cui Paolo Buzzi, Luciano Folgore e altri), va ricordato l’apporto della rivista «Lacerba», che Giovanni Papini e Ardengo Soffici aprirono nel 1913 ai futuristi milanesi. Al Futurismo si collega inoltre la carriera giovanile di scrittori come Corrado Govoni (1889-1965) e Aldo Palazzeschi (1885-1974). In generale, il Futurismo non produsse capolavori, ma molte idee, che stanno alla base di quasi tutte le sperimentazioni dell’arte novecentesca. Per esempio in campo teatrale il Futurismo avanzò la proposta di un teatro «sintetico», e cioè dinamico, alogico, provocatorio: un programma «bruciato» in brevi drammi (scritti da Marinetti e altri) di scarso valore intrinseco, ma assai importanti per la serie di esperimenti cui dettero vita in tutta Europa. Ritroveremo infatti in molte successive forme di spettacolo novecentesco l’idea di uno spettacolo «totale» (anche nella forma non letteraria del «varietà»), capace di eccitare il pubblico e aperto alla sorpresa e all’imprevisto fantastico, ai contributi dell’attore «creante», alle suggestioni derivate dalla nuova arte cinematografica (come gli effetti di sovrimpressione e di dissolvenza).

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L’Espressionismo

L’Espressionismo come movimento pittorico nacque in area tedesca attorno al 1905, allorché fu fondata a Dresda la rivista «Die Brücke» (“Il ponte”), mentre in Francia si facevano conoscere i pittori fauves (“belve”), per i loro colori accesissimi e le tonalità intense. I primi pittori espressionisti partirono dal rifiuto dell’«armonia» classica, rinunciando all’equilibrio tra le parti dell’opera, alla cura della forma ecc.; per «esprimere» realtà profonde e indicibili, cercavano invece la deformazione della linea (contorni marcatissimi) e del colore (pennellate violente). La ricerca dell’effetto esasperato, del grottesco, dell’«urlo» disperato, da un celebre dipinto di Edvard Munch, si condensa nella celebre definizione per la quale «L’Espressionismo è un grido». Su queste basi nacque la letteratura espressionista; tra i suoi autori citiamo il poeta austriaco Georg Trakl (1887-1914) e lo scrittore tedesco Alfred Döblin (1878-1957). Essa usava «proiettili verbali», mescolanze di ogni tipo, contenuti bizzarri e paradossali, la scomposizione dei piani logici; i suoi temi preferiti erano incubi e ossessioni. L’eredità più feconda dell’Espressionismo si avverte nelle opere di alcuni scrittori europei influenzati da questi fenomeni, ma che ancora non possono essere definiti «espressionisti»: tra loro, il drammaturgo svedese August Strindberg, l’autore di Danza macabra (1901), il narratore irlandese James Joyce, il discusso scrittore francese Louis-Ferdinand Céline. In Italia i più vicini all’Espressionismo furono il già citato Federigo Tozzi e, più avanti, il romanziere Carlo Emilio Gadda; ma anche il gruppo degli scrittori «vociani» (Slataper, Jahier, Rebora, Boine: E p. 486), aderenti cioè alla rivista fiorentina «La Voce» (1908-16), manifesta alcuni caratteri espressionistici. L’Espressionismo suggerì soluzioni feconde anche in campo teatrale. Un precursore fu il tedesco Frank Wedekind (1864-1918), l’autore di Lulù (1904), musicato da Alban Berg e di cui il regista Georg Wilhelm Pabst diede nel 1929 una famosa versione cinematografica. Lulù è un fantoccio senza umanità, simbolo del vuoto delle coscienze e della stupidità del male. All’Espressionismo si ispira il teatro «grottesco» dell’italiano Rosso di San Secondo (Marionette, che passione!, 1918). A esso, almeno in parte, si richiama anche l’impietosa messa a nudo delle mille contraddizioni del vivere operata da Luigi Pirandello nel teatro delle sue «maschere nude». La sua espressione più famosa sarà Sei personaggi in cerca d’autore (1921), un dramma non a caso concluso con la morte «in diretta» di uno dei personaggi e la «stridula risata», beffardamente grottesca, dell’ambigua protagonista, la Figliastra. 55

Monografia Raccordo

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Contesto

Poetiche

Tra Ottocento e Novecento

Il documento Il Manifesto del Futurismo Il famoso Manifesto di Marinetti apparve il 20 febbraio 1909 sulla prima pagina del quotidiano parigino «Le Figaro», nella sua originaria stesura in francese. Rappresentava il frutto di un’elaborazione in parte collettiva, essendo stato discusso da Marinetti con gli amici Paolo Buzzi (1874-1956) ed Enrico Cavacchioli (1885-1954). Già diversi gruppi d’avanguardia d’inizio secolo avevano lanciato un appello alla rivolta contro le arti del passato, ma nel Manifesto del Futurismo questo motivo risuona con accenti dirompenti: nessuna scuola, nessun ambiente culturale o disciplina si salva dalle feroci critiche di Marinetti. Si delinea intanto il nuovo oggetto dell’arte «futurista»: la vita moderna, riassunta nell’immagine dell’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo, o nella vita agitata delle capitali moderne. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.1 Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile2 da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo [...] un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.3 [...] Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!4 [...] Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente. Noi vogliamo glorificare la guerra sola igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo per la donna. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa; canteremo le maree multicolori o polifoniche5 delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche;6 le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole... Manifesto del Futurismo, cit. in I. Gherarducci, Futurismo. Materiali e testimonianze critiche, Editori Riuniti, Roma 1984

1. temerità: coraggio. 2. Un automobile: al maschile, secondo la grafia corrente d’inizio Novecento. 3. Vittoria di Samotracia: celebre statua

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del II secolo a.C., presa a simbolo dell’arte tradizionale. 4. dei secoli: cioè sulla frontiera più avanzata della storia; siamo insomma,

dice Marinetti, protesi verso il futuro. 5. polifoniche: dalle molte voci (e opinioni). 6. lune elettriche: i fari e i fanali elettrici.

Poetiche Intorno al 1916, in piena Prima guerra mondiale, nacque a Zurigo il Dadaismo. Sorse non a caso in territorio neutrale, come reazione contro la guerra e contro i nazionalismi imperanti, per iniziativa di alcuni artisti, quali lo scrittore tedesco Hugo Ball (1886-1927), lo scultore alsaziano Hans Arp (1887-1966), il pittore rumeno Marcel Janco (1895-1984) e il poeta Tristan Tzara (1896-1963), anch’egli rumeno. Sempre nel 1916 fu fondata una prima rivista, il «Cabaret Voltaire», espressione dell’omonimo circolo culturale al quale partecipava saltuariamente anche James Joyce, residente in quegli anni a Parigi. Nel 1917-18 uscì l’altra rivista «Dada». «Dada» è una parola scelta a caso e che non significa di per sé nulla; suggerisce l’idea di un’espressione primordiale, anarchica, incontrollata. Hugo Ball, uno dei fondatori, definì il Dadaismo «buffonata uscita dal nulla che abbraccia tutte le questioni supreme». Esso si caratterizza come avanguardia radicale, polemica anche nei confronti delle precedenti avanguardie, giudicate troppo prudenti e ancora «borghesi». L’avanguardia dadaista gioca con gli oggetti e le parole in totale libertà; ama esporre con la solennità dell’arte tradizionale i ready mades (oggetti d’uso comune), realizzati dal francese Marcel Duchamp e dallo statunitense Man Ray con ruote di bicicletta, spago, scatole ecc. Tutto ciò suscitava disgusto e ilarità nel pubblico.

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Il Surrealismo

Fondato dallo scrittore francese André Breton (1896-1966) con il Manifesto del Surrealismo, pubblicato nel 1924, il Surrealismo rappresenta, nella vita delle avanguardie, un momento successivo. Chiusa infatti la fase della dissacrazione e del rifiuto di ogni forma, Breton raccoglieva la sfida della modernità, cercando di dare vita a un’arte capace di «cambiare la vita», in chiave libertaria. Il Surrealismo si fondava su due presupposti: l’ideologia rivoluzionaria del comunismo e l’inesplorata energia psichica dell’inconscio, che offriva i nuovi temi: il lapsus, la magia, incubi, angosce e pulsioni sessuali. Questa attenzione per i fenomeni psichici differenziava nettamente il Surrealismo da precedenti avanguardie, come il Futurismo e il Dadaismo. Al movimento di Breton aderirono • pittori: Alberto Savinio (1891-1952), Max Ernst (1891-1976), Joan Miró (1893-1983), René Magritte (1898-1967) e Salvador Dalí (1904-89); • poeti: Paul Éluard (1895-1952) e Louis Aragon (1897-1982); • registi cinematografici: René Clair (1898-1981) e Luis Buñuel (1900-83); • un regista teatrale come Antonin Artaud (1896-1948), con il suo «teatro della crudeltà» (E Tomo 3B). Come già le serate futuriste, anche le furibonde serate teatrali dei surrealisti prefiguravano una nuova forma del comunicare: ombrelli e macchine da cucire assumevano forme e atteggiamenti umani, mentre l’automatismo psichico (cioè il libero affiorare dell’inconscio) accostava, simultaneamente, luoghi e momenti diversissimi. Sintassi e grammatica erano stravolte in una nuova lingua, retta da regole proprie e incurante della logica: il nuovo linguaggio dell’écriture automatique, la “scrittura automatica”, che intendeva trascrivere il linguaggio dei sogni e dell’inconscio. Il modello era offerto dai capitoli più sperimentali del romanzo Ulisse (1922) di Joyce. ■ Il Surrealismo è rimasto l’avanguardia storica più duratura in Europa: esso giungerà a ispirare, dopo il 1945, i «giochi di lingua» dello scrittore francese Raymond Queneau (1903-76) e il «teatro dell’assurdo» di Eugène Ionesco (1912-94). ■ Per quanto riguarda gli scrittori italiani, si può rintracciare una vena surreale in alcune esperienze degli anni trenta e quaranta: tra questi • il «realismo magico» di Massimo Bontempelli; • la narrativa del «fantastico» di Dino Buzzati e Tommaso Landolfi; • la poesia «accesa» e sensuale di un ermetico come Alfonso Gatto.

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Contesto

Il Dadaismo

Monografia Raccordo

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Tra Ottocento e Novecento

Il documento Il Manifesto dada 1918 e il Manifesto del Surrealismo Il Primo manifesto del dadaismo uscì nel 1918; ne erano autori Tristan Tzara e il pittore Francis Picabia, quest’ultimo attivo a New York. Come essi stessi spiegano, «dada non significa nulla»: la parola è cioè un non senso, simbolo della negazione che il Dadaismo opera nei confronti della cultura precedente. La rivolta contro la tradizione è ribellione agli pseudo-valori della società di allora (patria, morale ecc.) che non avevano saputo impedire lo scoppio della guerra mondiale; ed è anche presa di distanza da valori genericamente umanitari («sputiamo sull’umanità», scrive Tzara). Anche l’arte e la letteratura sono investite dall’anticonformismo dadaista: poiché «l’arte non è una cosa seria», ogni materiale della vita comune (per esempio parole accoppiate a caso) può servire a forgiare nuovi prodotti artistici. Ogni forma di disgusto suscettibile di diventare una negazione della famiglia è Dada; la protesta a pugni di tutto l’essere intento a un’azione distruttiva è Dada; la conoscenza di tutti i mezzi sino a oggi rigettata dal pudore sessuale, dal compromesso troppo comodo e dalla cortesia è Dada; l’abolizione della logica, la danza degli impotenti della creazione è Dada; l’abolizione della gerarchia e di ogni equazione sociale di valori stabilita fra i servi che sono tra noi servi è Dada; ogni oggetto, tutti gli oggetti, i sentimenti e le oscurità, le apparizioni e l’urto preciso delle linee parallele sono mezzi di lotta Dada; abolizione della memoria: Dada; abolizione dell’archeologia: Dada; abolizione dei profeti: Dada; abolizione del futuro: Dada; fiducia indiscutibile in ogni dio prodotto immediato della spontaneità: Dada [...]. Libertà: dada dada dada, urlio di colori increspati, incontro di tutti i contrari e di tutte le contraddizioni, di ogni motivo grottesco, di ogni incoerenza: la vita. T. Tzara, Manifesti del dadaismo e Lampisterie, trad. di O. Volta, Einaudi, Torino 1964

Rispetto al Dadaismo, il Surrealismo di Breton (presentiamo qui un estratto del famoso Manifesto del novembre 1924) evidenzia una volontà più costruttiva, che sul piano ideologico più generale propugna l’attivo «impegno» dell’intellettuale nella società. Se per il Dadaismo la poesia era un accostamento di parole governato dal caso, Breton suggerisce una procedura differente, incentrata sulle libere associazioni e sul racconto dei sogni. Nasce così, influenzata dalle teorie dell’inconscio freudiano, la «scrittura automatica» dei surrealisti, concepita come «tecnica liberatoria» che vuole esprimere la creatività più segreta degli uomini. SURREALISMO n.m. Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale. ENCICL. Filos. Il surrealismo si fonda sull’idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme d’associazione finora trascurate, sull’onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero.1 Le immagini surrealiste funzionano come quelle dell’oppio che non è più l’uomo a evocare, ma che «gli si offrono spontaneamente, dispoticamente. Egli non può congedarle; perché la volontà è senza forza e non controlla più le facoltà».2 Resterebbe da vedere se qualcuno abbia mai «evocato» le immagini. Se ci si attiene, come io faccio, alla definizione di Reverdy,3 non sembra che sia possibile accostare volontariamente ciò che egli chiama «due realtà distanti». Manifesto del Surrealismo, cit. da F. Fortini, Il movimento surrealista, Garzanti, Milano 1959 1. pensiero: dell’inconscio.

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2. gli si offrono... le facoltà: è una citazione da Baudelaire.

3. Reverdy: Pierre Reverdy (1889-1960) fu tra i principali teorici del Surrealismo.

Poetiche Contesto

LA GEOGRAFIA LETTERARIA

DADAISMO (1918) Picabia, Breton, Aragon FAUVISMO (1905) Matisse, Derain CUBISMO (1906-07) Picasso, Braque SURREALISMO (1924) Breton, Dalí, Savinio, Ernst, Miró, Éluard, Aragon, Clair, Buñuel, Artaud

FUTURISMO (1914) Majakovskij, Blok ACMEISMO (1912) Madel’stam, Achmatova



San Pietroburgo RUSSIA ESPRESSIONISMO (1905) Rivista «Die Brücke»

• •Parigi DADAISMO (1916) Ball, Tzara, Arp

Monografia Raccordo

Le avanguardie storiche in Europa

FRANCIA



Mosca

ESPRESSIONISMO (1905) Wedekind

Dresda

GERMANIA

DER BLAUE REITER (Il cavaliere azzurro): Kandinskij

Monaco



• Zurigo • Milano

Vienna •

ITALIA

DODECAFONIA (1920) Schönberg, Webern ESPRESSIONISMO (1905) Trakl

FUTURISMO (1909) Marinetti, Folgore, Buzzi, Balla, Boccioni, Carrà ESPRESSIONISMO (1918) Rosso di San Secondo

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Tra Ottocento e Novecento

SINTESI VISIVA

Tre proposte per la modernità

NATURALISMO E VERISMO

DECADENTISMO

AVANGUARDIE

epoca di sviluppo

■ dal 1865 al 1885 circa

■ dal 1875 al 1920 circa

■ dal 1905 al 1930 circa

centri di diffusione

■ Parigi ■ Milano ■ la Sicilia

■ Parigi ■ Vienna ■ Milano ■ Roma

■ Parigi, Vienna, Zurigo, Monaco, San Pietroburgo, Berlino, Milano

pubblico coinvolto

■ lettori borghesi

■ lettori in cerca di raffinatezze ■ lettori desiderosi di autoanalisi

■ giovani, anticonformisti ■ spettatori amanti di più forme d’arte

autori principali

■ Gustave Flaubert ■ Émile Zola ■ Luigi Capuana ■ Giovanni Verga

■ Charles Baudelaire ■ Arthur Rimbaud ■ Gabriele D’Annunzio ■ Giovanni Pascoli ■ Italo Svevo ■ Luigi Pirandello ■ Thomas Mann ■ Marcel Proust ■ Franz Kafka ■ James Joyce ■ Robert Musil

■ Filippo Tommaso Marinetti ■ Vladimir Majakovskij ■ Georg Trakl ■ Rosso di San Secondo ■ Tristan Tzara ■ André Breton ■ Antonin Artaud

generi e forme prevalenti

■ romanzo ■ bozzetto (novella) ■ teatro

■ lirica simbolista ■ romanzo

■ poesia ■ pittura e scultura ■ teatro ■ cinema ■ musica (dodecafonica)

linguaggio e stile

■ ricerca di oggettività, di un’arte «fotografica» ■ sforzo d’impassibilità e «impersonalità» da parte dell’autore

■ stile allusivo, per decifrare la «foresta di simboli» della realtà ■ eleganza formale ■ prosa dimessa e senza retorica per testimoniare la realtà così com’è

■ dinamicità, disordine formale ■ «parole in libertà» ■ esasperazione e deformazione ■ creatività istintiva e immediatezza ■ gioco e ironia

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SINTESI OPERATIVA

L’età contemporanea

Storia ■ La fine dell’Ottocento è segnata da un lungo periodo di pace in Europa, bilanciato però da politiche sempre più aggressive da parte dei governi europei in Africa e Asia: è la fase detta dell’imperialismo, ispirato da una volontà coloniale di conquista e di sfruttamento dei territori oltremare. Anche l’Italia partecipa alla corsa alle colonie, benché al suo interno debba ancora risolvere gravi problemi dal punto di vista politico (questione romana), economico (pareggio del bilancio) e sociale (questione

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Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. 2. 3. 4.

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meridionale). ■ Il primo quindicennio del XX secolo è la Belle époque: un mondo di (relativo) benessere economico, di miglioramenti del tenore di vita quotidiano, grazie a nuove scoperte e invenzioni, ma in cui ormai l’equilibrio politico sta franando. Le contraddizioni esplodono nell’immane tragedia della Prima guerra mondiale (1914-18), che di fatto chiude un’epoca della storia europea e mondiale e ne apre una completamente nuova.

La Sinistra salì al governo dopo l’Unità d’Italia e fino al 1876. La Triplice alleanza comprendeva Italia, Germania e Austria. L’annessione di Roma si realizzò nel corso della Terza guerra d’indipendenza. Giolitti riuscì a placare le tensioni sociali con una politica di neutralità da parte del governo.

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Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. Con l’espressione Belle époque si intende a un movimento artistico sviluppatosi all’inizio del Novecento b il prodigioso progresso di scienza e tecnica che si diffuse all’inizio del Novecento c la civilizzazione di Asia e Africa da parte della cultura europea d il periodo di pace e benessere goduto dall’Europa all’inizio del Novecento 2. Il movimento nazionalistico fu particolarmente aggressivo, in Italia, in occasione a della guerra di Libia del 1911 b dell’uccisione del re Umberto I in un attentato c della sconfitta coloniale di Adua del 1896 d dell’annessione di Roma come capitale d’Italia nel 1870

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Collega ciascuna data al corrispondente avvenimento. 1 2 3 4 5 6

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1876 1889 1913 1912 1898 1917

a. b. c. d. e. f.

prima catena di montaggio tumulti a Milano repressi da Bava Beccaris la Sinistra al governo in Italia rivoluzione d’ottobre in Russia suffragio universale maschile in Italia abolizione della pena di morte in Italia

Rispondi alle seguenti domande. 1. 2. 3. 4. 5.

Che cos’era il non expedit? Che cosa vietava e a chi si rivolgeva? Quale fu la scintilla che fece scoppiare la Prima guerra mondiale e quando scoccò? Che cosa s’intende per «questione romana»? Che cosa s’intende per «questione meridionale»? Chiarisci le vere ragioni del colonialismo europeo di fine Ottocento (max 10 righe). 61

6. Riassumi i caratteri salienti dell’età giolittiana (max 15 righe). 7. Riassumi le conseguenze sociali, politiche ed economiche della Prima guerra mondiale (max 15 righe).

PER L’ESAME DI STATO 1.

Scrivi una relazione che illustri i mutamenti sociali, politici ed economici avvenuti in Italia tra il 1861, anno di proclamazione del nuovo Regno, e il 1918, anno in cui si concluse la Prima guerra mondiale. Hai a disposizione due facciate di foglio protocollo (circa 3500-4000 battute).

Idee ■ L’espansione della grande industria dopo la metà dell’Ottocento viene accompagnata e sostenuta dai nuovi ritrovati di scienza e tecnica: sembra spalancarsi per l’umanità un periodo di progresso illimitato. La cultura del Positivismo trionfante riceve però un brusco ridimensionamento nello scorcio finale del XIX secolo e poi all’inizio del Novecento: si diffonde l’idea della «decadenza», della «fine» della civiltà eu-

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ropea. Intanto nuove teorie scientifiche e una visione più incerta e sfumata fanno apparire più labili e sfuggenti non solo i contorni del mondo esterno, ma anche lo stesso io interiore del soggetto, che – soprattutto per influsso della psicoanalisi di Freud – comincia a essere percepito come un ambito ben poco comprensibile e dominabile.

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. Nella seconda metà dell’Ottocento accanto al sapere scientifico furono esaltate anche la religione, la filosofia e la poesia. 2. La visione positivistica è erede diretta di quella illuministica. 3. Il progresso fu salutato con accenti entusiastici da tutti gli intellettuali di fine Ottocento. 4. Le origini del termine positivismo risalgono al 1820. 5. Il maggiore interprete della stabilità e oggettività positivista fu il filosofo tedesco Nietzsche. 6. Auguste Comte fu un biologo, diretto precursore dell’evoluzionismo darwiniano. 7. Secondo i critici del Positivismo, esaltando i fatti si perdono di vista altre dimensioni della realtà.

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Collega ciascuna opera al suo autore. 1 2 3 4 5 6 7

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Il crepuscolo degli dèi Corso di filosofia positiva Degenerazione L’interpretazione dei sogni Il tramonto dell’Occidente Così parlò Zarathustra Sull’origine delle specie

a. b. c. d. e. f. g.

Oswald Spengler Charles Darwin Max Nordau Friedrich Nietzsche Richard Wagner Sigmund Freud Auguste Comte

Rispondi alle seguenti domande. 1. Che cosa s’intende per ideologia del progresso? (max 5 righe) 2. Illustra il collegamento esistente tra Illuminismo settecentesco e Positivismo ottocentesco (max 5 righe). 3. Quale ruolo assegnano alla ragione, rispettivamente, Positivismo e cultura antipositivistica? (max 5 righe)

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SINTESI OPERATIVA

L’età contemporanea

4. Quali sono, secondo Comte, le fasi di sviluppo della civiltà umana e di che cosa, a suo avviso, si avvertiva soprattutto il bisogno nel suo tempo? (max 10 righe) 5. Riassumi la teoria dell’evoluzionismo secondo Darwin (max 10 righe).

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Definisci con le tue parole i seguenti termini ed espressioni. a. evoluzionismo ........................................................................................................................................................ b. selezione naturale .................................................................................................................................................. c. nichilismo ................................................................................................................................................................ d. alienazione ............................................................................................................................................................. e. principio d’indeterminazione ................................................................................................................................. f. inconscio ..................................................................................................................................................................

PER L’ESAME DI STATO 1.

Esponi, con gli opportuni riferimenti ad autori ed eventi culturali, le tue idee a proposito della seguente affermazione: «La ragione è insufficiente a conoscere e interpretare il mondo, e allora ci si appella alle forze dell’istinto, del sentimento, dell’intuizione». Hai a disposizione una facciata di foglio protocollo (1500-2000 battute).

Poetiche ■ L’età del Positivismo, con le sue concezioni oggettive e scientifiche del reale, è segnata dalla poetica del Naturalismo e del Verismo, che si affida al romanzo per promuovere un’indagine della realtà (sia sociale sia individuale) il più possibile obiettiva e documentata. Parallelamente, però, si sviluppa la nuova poetica del Decadentismo, ispirata da una parte al senso della fine e della decadenza, dall’altra alla fuga del letterato in un mondo di preziose sensazioni. Il primo Decadentismo è caratterizzato soprattutto dall’uso di un

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linguaggio nuovo, quello della poesia simbolista. Il secondo Decadentismo ha un intento più conoscitivo e si esprime essenzialmente nel romanzo psicologico, che rappresenta dall’interno le contraddizioni e i dubbi dell’«Io». A partire dal 1905 si affermano in tutta Europa le avanguardie storiche, ferocemente critiche nei confronti dell’arte borghese e intente a divulgare un’idea di creatività immediata, istintiva, spesso frutto di un’elaborazione collettiva e tesa a sfruttare una pluralità di forme e linguaggi artistici.

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Intorno al 1880, a Parigi, convivevano due tendenze opposte, Naturalismo e Decadentismo. Con gli autori del primo Novecento cessa ogni rapporto fra letteratura e filosofia. Il «dramma borghese» fu un genere teatrale molto vicino alla poetica del Naturalismo. La poetica del Surrealismo si fonda sulla deformazione grottesca, sull’urlo, sull’angoscia. Il Futurismo si prefiggeva come scopo principale quello di esprimere la vita dell’inconscio e dell’interiorità individuale. La letteratura novecentesca si assume il compito di riscattare la condizione umana e di costruire ipotesi più positive per la società. Il fondatore dell’Espressionismo fu André Breton. I naturalisti francesi preferivano ricorrere al romanzo, i veristi italiani alla novella e al teatro. Il Simbolismo influenzò a lungo la lirica europea del Novecento.

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SINTESI OPERATIVA 2

Collega ciascuna opera al suo autore. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13

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L’uomo senza qualità Il romanzo sperimentale I fiori del male Con gli occhi chiusi Il fu Mattia Pascal Il marchese di Roccaverdina Mastro-don Gesualdo Myricae I Viceré Il piacere Il ritratto di Dorian Gray A ritroso Casa di bambola

a. b. c. d. e. f. g. h. i. l. m. n. o.

Giovanni Pascoli Joris-Karl Huysmans Federigo Tozzi Émile Zola Henrik Ibsen Robert Musil Gabriele D’Annunzio Charles Baudelaire Oscar Wilde Luigi Pirandello Federico De Roberto Giovanni Verga Luigi Capuana

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. Nella prefazione dei Malavoglia Verga a esclude che anche i miseri e i deboli possano godere del progresso in atto b inneggia all’infinito progresso umano nel tempo c maledice il progresso, che a suo avviso porta solo dolore e distruzione d afferma che anche i miseri e i deboli potranno godere del progresso in atto 2. I poeti simbolisti a affermavano l’importanza del sentimento b cercavano di decifrare i segreti legami che si annidano nella natura c esaltavano le sensazioni raffinate ed esclusive dell’esteta d si sforzavano d’immergersi nella sfera del bello 3. Le avanguardie di primo Novecento a costituirono un momento di sintesi fra le opposte poetiche di Naturalismo e Decadentismo b teorizzarono e praticarono un’arte violentemente ribelle rispetto a tutte le regole e convenzioni c per rispondere alla massificazione della società offrirono prodotti culturali per il grande pubblico d costituirono il naturale sviluppo della poetica del Decadentismo

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Rispondi alle seguenti domande. 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Che cosa s’intende con «criterio dell’impersonalità»? Quali sono le figure retoriche a cui maggiormente ricorrevano i poeti simbolisti e perché? In che senso, secondo Rimbaud, il poeta deve essere «veggente»? (max 5 righe) Qual è il fine dell’arte, secondo il Naturalismo? (max 5 righe) Chiarisci affinità e diversità fra Naturalismo francese e Verismo italiano (max 10 righe). Illustra l’eredità lasciata al teatro del Novecento rispettivamente da Futurismo ed Espressionismo. (max 15 righe)

PER L’ESAME DI STATO 1.

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Illustra in una relazione gli elementi che riportano D’Annunzio e Pascoli al clima dell’Estetismo di fine Ottocento e i caratteri che, invece, li collegano direttamente alla letteratura novecentesca. Hai a disposizione due facciate di foglio protocollo (3500-4000 battute).

I linguaggi dell’arte

Storia

L’Impressionismo CARTA D’IDENTITÀ { epoca: fine del XIX secolo { caratteri: immediatezza espressiva, soggettività della rappresentazione, realismo dei soggetti { principali autori: Degas, Monet, Renoir

■ Giovani pittori fuori dalle regole Nel 1874 alcuni giovani pittori (Degas, Monet, Pissarro, Renoir, Cézanne, la pittrice Berthe Morisot ecc.) esposero i propri quadri a Parigi, nello studio dell’amico fotografo Nadar. Per la prima volta un gruppo organizzato rifiutava le periodiche mostre del Salon (allestite al Louvre ogni due anni). I visitatori furono pochi e le vendite scarse: il pubblico non apprezzò quella pittura che mostrava scene quotidiane, interni di caffè, strade affollate, lavandaie al lavoro ecc. I paesaggi effigiavano i dintorni della capitale, campagne solcate da ciminiere e rotaie, segni di una modernità che quei pittori non occultavano affatto.

 Claude Monet, Impressione – levar del sole, 1872, olio su tela, 48x63 cm, Parigi, Musée Marmottan.

■ Il realismo soggettivo dell’«impressione» Il critico Louis Leroy li chiamò «impressionisti», ispirandosi al quadro di Claude Monet Impressione – levar del sole. La definizione era polemica, ma ebbe fortuna: in effetti quei giovani pittori desideravano ritrarre l’immediatezza della vita quotidiana. La loro rapida pennellata aderiva ai mutevoli fenomeni della natura, a quelle vibrazioni e riflessi che la pittura accademica trascurava, in quanto provvisori. L’Impressionismo è dunque una forma di realismo nell’arte, ma un realismo particolare, perché tutto soggettivo.

■ La percezione del paesaggio I soggetti dell’Impressionismo sono quasi inesistenti. In Impressione – levar del sole  Monet dipinge una barca in primo piano; un’altra s’intravede appena, fasciata della luce dell’alba, vera protagonista del quadro. Il paesaggio si rivela nel suo assieme, non nei dettagli: ciò che conta è la percezione che esso suscita su chi assiste allo spuntare del sole. In La Grenouillère  vediamo un’isoletta sulla Senna, meta delle gite domenicali dei parigini. L’acqua domina la scena, con il riflesso dei raggi sul fogliame, l’ondeggiare delle barche in primo piano, i movimenti dei bagnanti. La resa è immediata e spontanea, le figure solo abbozzate. Il pittore, seduto davanti all’isoletta, ritrae ciò che vede nel modo più veloce, stendendo direttamente i colori sulla tela, con larghe pennellate orizzontali, secondo la nuova tecnica del dipingere all’aria aperta.

 Claude Monet, La Grenouillère, 1869, olio su tela, 100x75 cm, New York, The Metropolitan Museum of Modern Art. 65

I linguaggi dell’arte

Tra Ottocento e Novecento

I macchiaioli CARTA D’IDENTITÀ { epoca: metà-fine del XIX secolo { caratteri: immediatezza espressiva, accostamento di colori per «macchie», realismo dei soggetti { principali autori: Fattori, Lega, Signorini

■ Macchie di colore per dipingere la realtà Mentre in Francia fioriva l’Impressionismo, in Italia si diffondeva (una decina d’anni in anticipo) la pittura dei macchiaioli. Insofferenti verso le regole accademiche, i macchiaioli vennero così battezzati con disprezzo da un critico d’arte. Uno di loro, Telemaco Signorini, accettò però quel nomignolo e lo rivendicò: la «macchia» di colore era un mezzo per dipingere le immagini così come si presentano all’occhio, rinunciando ai contorni nitidi e precisi della pittura tradizionale. Per creare le forme e i volumi bastano gli accostamenti di colore, che colgono le luci e le ombre naturali; sono eliminati i particolari in eccesso e le rifiniture dei pittori accademici. Tra i maggiori esponenti di questa esperienza artistica, oltre a Signorini, ricordiamo Giovanni Fattori (1825-1908) , Silvestro Lega (1826-95)  e Raffaello Sernesi (1838-66).

 Giovanni Fattori, La libecciata, 1880, olio su tela, 27,5x66 cm, Firenze, Palazzo Pitti.

■ Pascoli a Castiglioncello di Signorini Osserviamo Pascoli a Castiglioncello  di Telemaco Signorini (1861 circa). Il formato largo (cm 31x76 cm) consente all’orizzonte di dispiegarsi liberamente nella sua ampiezza. Il soggetto è volutamente semplice: un paesaggio non certo ideale o solenne, ma animali miti e dimessi, e una contadinella quale unica figura umana. Mancano gli espedienti tipici della pittura accademica, come per esempio alberi a lato, per incorniciare la tela. La luce calda e solare inonda i campi del pascolo; le figure sono definite da linee veloci, i volumi creati da pennellate libere e rapide.

 Silvestro Lega, Il pergolato, 1866, olio su tela, 74x94 cm, Milano, Pinacoteca di Brera.  Telemaco Signorini, Pascoli a Castiglioncello, 1861, olio su cartone, 31x76 cm, collezione privata. 66

I linguaggi dell’arte

Storia

Il Postimpressionismo CARTA D’IDENTITÀ { epoca: fine del XIX secolo { caratteri: ricerca di essenzialità, volumi e forme squadrate { principali autori: Cézanne, Gauguin, Van Gogh

■ In cerca degli aspetti essenziali della realtà Il Postimpressionismo, sviluppatosi in Europa dopo il 18801890, superò l’idea (cara agli impressionisti) della rappresentazione spontanea della natura. Nei dipinti postimpressionisti non troviamo pennellate veloci e tremolanti, con cui raffigurare le «impressioni» suscitate dalla realtà; incontriamo una rappresentazione più rigorosa, volumi definiti, così da cogliere gli aspetti essenziali della realtà e non più quelli transitori.

■ Cézanne, Van Gogh, Gauguin Iniziatore del «postimpressionismo» fu il francese Paul Cézanne (1839-1906). All’inizio partecipò alle esposizioni degli impressionisti, ma presto si allontanò dalle composizioni leggere e spontanee di Monet o Renoir. Cézanne crea dipinti più strutturati, rigorosi nella composizione; non vuole rappresentare le impressioni momentanee e fuggenti, ma fissare gli elementi immutabili delle cose, la struttura interna degli oggetti . Questi tratti ispirano anche l’arte di Paul Gauguin (18481903) e Vincent Van Gogh (1853-90).

 Paul Cézanne, Cava di pietra a Bibémus, 1898, olio su tela, 92x72,8 cm, Essen, Museum Folkwang.

■ Il paesaggio bidimensionale di Cézanne Cava di pietra a Bibémus (1898)  ritrae un paesaggio della terra natale di Cézanne, la Provenza, presentato in modo bidimensionale, senza profondità: rocce, piante, la cava di pietra sulla destra si sviluppano in altezza, tutte sullo stesso piano. All’artista non preme imitare la realtà naturale, dare l’illusione della profondità, ma cogliere la struttura delle forme naturali: una serie di piani che s’intersecano tra loro. Le figure sono costruite attraverso blocchi di colore, pennellate a riquadro. La varietà di tinte degli impressionisti viene ridotta ai contrasti fra le tre coppie di colori complementari: l’arancio e l’azzurro, il giallo e il viola, il verde e il rosso. Ogni elemento del dipinto trasmette un’idea di essenzialità, di scomposizione delle forme, quasi a voler raggiungere l’ordine elementare delle cose. Ancora un passo e verranno le scomposizioni del Cubismo.

 Paul Cézanne, Natura morta con mele e arance, 1899, olio su tela, 74x93 cm, Parigi, Musée d’Orsay. 67

I linguaggi dell’arte L’Espressionismo CARTA D’IDENTITÀ { epoca: fine del XIX-inizio del XX secolo { caratteri: violenza espressiva, deformazione delle linee, forte emotività { principali autori: Munch, Kokoschka, Schiele

■ La novità dell’Espressionismo La pittura espressionista fu incarnata da artisti come il norvegese Edvard Munch (1863-1944), come gli austriaci Oskar Kokoschka (1886-1980) 1 ed Egon Schiele (1890-1918), come il tedesco Franz Marc (1880-1916). Essi rivendicavano il primato della soggettività nell’espressione sia artistica sia letteraria, e quindi la necessità che ogni composizione trascriva pensieri ed emozioni del tutto individuali. Non rifiutavano i soggetti figurativi – persone o paesaggi – ma li sottoponevano a una violenta deformazione, raggiunta con l’impiego di colori molto forti o con lo stravolgimento dei tratti del disegno.

1 Oskar Kokoschka, Due nudi (Gli amanti), 1913, olio su tela, 163,2x97,5 cm, Boston, Museum of Fine Arts.

■ L’angoscia esistenziale: Il grido Precursore dell’Espressionismo fu Munch, che sostituì alla rappresentazione delle cose materiali l’interesse per le angosce esistenziali, le sofferenze, la drammaticità della morte, le oscure pulsioni della sessualità. Così Munch rievoca l’origine del suo quadro più famoso, Il grido (1893) 2: «Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. [...] Mi fermai e guardai al di là del fiordo – il sole stava tramontando – le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando».

L’angoscia dell’esistere, tema centrale di Munch Le angosce esistenziali, la drammaticità della morte, la pulsione sessuale caratterizzano un po’ tutte le opere di Munch. Adolescenza (1893) 3 raffigura il passaggio dalla condizione di ragazza a quella di donna nello smarrimento stupito di una giovinetta seduta nuda sopra il letto. Una sintesi formale ancora più radicale e audace caratterizza Il bacio 4 un quadro del 1899, con i volti degli innamorati letteralmente fusi in una sola macchia di colore.

2 Edvard Munch, Il grido, 1893, tempera

3 Edvard Munch, Adolescenza, 1894,

4 Edvard Munch, Il bacio, 1897, olio su

e pastello su cartone, 91x73,5 cm, Oslo, Nasjonalgalleriet.

olio su tela, 151,5x110cm, Oslo, Nasjonalgalleriet.

tela, 99x81 cm, Oslo, Munch-Museet.

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I linguaggi dell’arte Il Cubismo e Picasso CARTA D’IDENTITÀ { epoca: inizio del XX secolo { caratteri: scomposizione delle forme, rinuncia alla tridimensionalità, anti-armonia { principali autori: Picasso, Braque

■ Oltre la realtà, la scomposizione delle forme Pablo Picasso (1881-1973) ha rivoluzionato più di tutti l’idea tradizionale dell’arte come rappresentazione e imitazione della realtà. Il suo nome è soprattutto legato al Cubismo, il linguaggio della scomposizione delle forme : esso ispira i quadri dipinti da Picasso tra 1907 e 1914, fianco a fianco con l’amico Georges Braque . In queste opere le figure perdono la loro naturale morbidezza e vengono scomposte in figure geometriche (cubi, per lo più). Viene meno la classica unità delle forme: di ogni oggetto, volto, corpo, l’artista mostra simultaneamente diversi punti di vista. E così la tela non riproduce ciò che vediamo con gli occhi, ma le varie parti di cui sappiamo che un corpo è composto.

■ Les demoiselles d’Avignon In Les demoiselles d’Avignon  sono raffigurate cinque demoiselles (signorine) della rue d’Avignon di Parigi, una strada frequentata da prostitute. Il soggetto era provocatorio, ma i primi spettatori del quadro furono colpiti soprattutto dal modo in cui Picasso scompone le figure, togliendo loro morbidezze e armonie anatomiche, per ridurle a figure spigolose e taglienti. I lineamenti dei volti sono schiacciati e grotteschi, simili a quelli delle maschere africane che Picasso amava. I corpi si contorcono in pose impossibili: per esempio la donna seduta a destra è vista di spalle, ma ha il viso rivolto verso di noi, quasi che ruotasse di 180° sul collo.

■ Oltre ogni armonia Picasso non ha raffigurato cinque donne così come le ha viste, ma ha proposto un’immagine di pura invenzione, deformata, lontanissima dall’armonia tipica dei ritratti tradizionali: ciò che gli interessava era evidenziare gli aspetti più duri e brutali della realtà. Perciò ha scomposto le figure in «pezzi» quasi autonomi, che ha poi inserito in un dipinto senza profondità, totalmente bidimensionale. Anche il cielo che affiora è fatto di superfici geometriche, come pezzi di vetro sovrapposti.

 Pablo Picasso, Ritratto di Ambroise Vollard, 1910, olio su tela, 92x65 cm, Mosca, Museo Puskin.

 Georges Braque, La musicista, 1917-18, olio su tela, 221,5x113 cm, Basilea, Offentliche Kunstsammlung.

 Pablo Picasso, Les demoiselles d’Avignon (part.), 1907, olio su tela, 244x233,7 cm, New York, Museum of Modern Art. 69

I linguaggi dell’arte Il Futurismo CARTA D’IDENTITÀ { epoca: primi decenni del XX secolo { caratteri: dinamismo estremo, scomposizione delle linee e delle forme, anti-realismo { principali autori: Boccioni, Balla

■ La forza centrifuga della «velocità» Il Manifesto del futurismo (1909) raccomandava la «velocità» e questo invito venne raccolto da diversi artisti, come Umberto Boccioni (1882-1916) e Giacomo Balla (1871-1958). Le loro opere, di pittura come di scultura, sembrano nascere dall’esplosione di una dirompente forza centrifuga; linee oblique, dinamiche traducono l’energia, lo sforzo, il movimento, fino a frantumare lo spazio 2.

■ L’energia che modifica l’ambiente Forme uniche nella continuità dello spazio 3 è il titolo di una serie di sculture in bronzo, in cui Boccioni rappresenta un tema caro all’arte di ogni tempo, ovvero il corpo umano in movimento. A fine Ottocento il tema era stato analizzato dalla nuova tecnica fotografica, che volentieri si era soffermata a scomporre il movimento corporeo in sequenze di fotogrammi 1. Boccioni non si accontenta di rappresentare una figura di uomo che avanza a grandi passi, così come ognuno di noi può osservarla nella realtà. La sua scultura coglie contemporaneamente il corpo umano e l’ambiente che lo circonda, che fa tutt’uno con esso: il corpo infatti modifica lo spazio con la sua presenza e il suo movimento, e lo spazio modifica con la sua pressione l’anatomia umana. Le membra (testa, braccia, busto, gambe) sembrano uscire dai propri limiti corporei, espandersi in spigoli, scomporsi in piani diversi che si compenetrano. Tutta la figura è strutturata

1 Etienne-Jules Marey, Uomo che corre spingendo un carro (part.), 1891 ca, cronofotografia, 14x35 cm, Beaune, Musée E.J. Marey. 2 Giacomo Balla, Bambina che corre sul balcone, 1925, olio su tela, 125x125 cm, Milano, Civiche raccolte d’arte, collezione Grassi.

secondo linee diagonali che paiono «tagliare» l’atmosfera, occupandola con energia e dinamismo. Non è dunque l’uomo in se stesso il tema della rappresentazione, quanto, piuttosto, la sua capacità di modificare l’ambiente intorno e di esserne modificato.

3 Umberto Boccioni, Forme uniche di continuità nello spazio, 1913, sculture in bronzo, 110x89,5x40 cm, Milano, Civico Museo di arte contemporanea.

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Raccordo Il Naturalismo francese

Una letteratura del «progresso» Positivismo

fiducia nella scienza

romanzo naturalista e verista



1

raffigurazione oggettiva e scientifica della realtà

ruolo sociale dello scrittore

Zola interviene con le sue proposte

Positivismo e letteratura ■ Intorno al 1865-70 si affermò, in Francia e in Italia, un nuovo tipo di narrativa «scientifica», legata al Positivismo (E p. 34) e all’ideologia del progresso. Naturalismo

Verga interviene come coscienza critica

e Verismo dominarono il panorama letterario per un paio di decenni, prima che emergessero Simbolismo e Decadentismo, le poetiche alternative della «crisi». Pur in questo limitato lasso di tempo, essi lasciarono una traccia permanente nella letteratura successiva. 71

Tra Ottocento e Novecento

Il ruolo sociale dello scrittore ■ Gli autori principali dei due movimenti, Zola per il Naturalismo e Verga per il Verismo, incarnavano una nuova figura di intellettuale, presente nella società con un ruolo attivo di proposta e d’indirizzo (Zola) oppure con una funzione di coscienza critica dei danni che i recenti rivolgimenti politici del Risorgimento italiano avevano prodotto sulle fasce deboli della società (Verga). ■ In effetti, nonostante la tanto sbandierata diffusione del «progresso», il panorama sociale di fine Ottocento era tutt’altro che idilliaco: urbanizzazione ed emigrazione si traducevano nello sradicamento di intere popolazioni dalle zone di origine verso la città, o verso altre nazioni. Erano fenomeni di dimensioni bibliche, destinati a produrre conseguenze indelebili nel tessuto sociale di tutta Europa; anche perché il numero sempre più grande di lavoratori salariati ammassati nelle grandi fabbriche portò al formarsi di una co-

Due diversi punti di vista ■ Di fronte alle mutate condizioni sociali, i naturalisti francesi si assunsero il compito di rappresentare nel modo più scientifico possibile gli ambienti cittadini, miseri e sordidi, in cui vivevano i lavoratori, sui quali intendevano richiamare l’attenzione dei governanti. Fiduciosi nel progresso inarrestabile della società e della scienza, essi ponevano la letteratura al servizio della trasformazione del mondo: descrivere la vita dei ceti più poveri poteva aiutare a trovare strumenti utili a un intervento sociale. Su questo punto si mostreranno decisamente più pessimisti gli autori del Verismo italiano, poco fiduciosi nell’assoluta positività del «progresso», anche perché il loro campo privilegiato d’osservazione erano le arretrate campagne del Sud d’Italia.

sfondo culturale

metodo d’indagine

Positivismo

Taine

“ esiste un metodo scientifico per esaminare/comprendere tutta la realtà

il metodo scientifico può essere esteso anche a letteratura, arti e psicologia

analizzando la realtà umana bisogna sempre considerare:

◗ le origini (race) ◗ l’ambiente (milieu) ◗ il contesto storico (moment)

La letteratura come una scienza esatta ■ Dal punto di vista del metodo, il Positivismo ottocentesco suggerì di estendere i procedimenti della scienza ad ambiti che in precedenza ne rimanevano estranei, come la letteratura, le arti, lo studio dell’animo umano. I romanzieri del Naturalismo si sforzarono perciò di assimilare alla letteratura i metodi delle scienze «esatte», quelle che si giovano di modelli matematici e 72



Un metodo scientifico per la letteratura “

2

scienza di classe e, quindi, alla nascita di sindacati e partiti di massa.

riflessi letterari

Zola: romanzo sperimentale

“ CONTENUTO accurata osservazione dei meccanismi sociali a ogni livello FINE fornire nuovi dati («documenti umani») alle scienze sociali

si fondano sul metodo sperimentale. Nella loro ottica, il romanziere era un conoscitore privilegiato dei meccanismi della realtà, un «osservatore» attento (ma distaccato) delle vicende e dell’evoluzione sociale. Diveniva insomma una sorta di medico, come i naturalisti amavano presentarsi. Dalla teoria dell’evoluzione di Darwin i naturalisti ricavarono poi la convinzione che esistono fattori che condizionano con certezza il comportamento degli in-

La teoria di Taine ■ A fornire un compiuto metodo d’indagine ai narratori naturalisti fu il filosofo e critico HippolyteAdolphe Taine (1828-93). Fu lui tra l’altro il primo a usare, in un saggio del 1858 su Balzac, il termine «naturalismo»; tale definizione venne successivamente ripresa da Émile Zola, nella prefazione alla seconda edizione del romanzo Teresa Raquin (1867). Nei suoi saggi (l’introduzione alla Storia della letteratura inglese, 1863, e poi la Filosofia dell’arte, 1865) Taine parlò dell’artista come di uno scienziato, che studia e rappresenta gli uomini e la società alla luce di tre fattori generali: • la race: l’ereditarietà della «razza», ovvero le radici etniche, le derivazioni familiari ecc.; • il milieu: l’ambiente sociale che sta intorno al personaggio e nel quale una certa situazione s’inquadra; • il moment: il particolare «momento» storico, l’epoca contingente che influisce con i suoi caratteri peculiari. Analizzando le origini (race) di un individuo, l’ambiente (milieu) in cui vive, il contesto storico-sociale (moment) che influisce su di lui, il romanziere può dare un ritratto

completo ed esaustivo di ciascuno dei suoi personaggi. I medesimi fattori, a parere di Taine, condizionano anche l’autore, così che l’opera d’arte è una sorta di organismo (il concetto ha chiare radici biologiche), del quale possiamo conoscere le leggi; ed è il prodotto delle circostanze esterne in cui l’artista opera. Cade perciò l’idea romantica dell’artista, visto come il genio che, creando, trasfigura liberamente la realtà. Al contrario, è la realtà che condiziona lo scrittore.

La sintesi di Zola: il «romanzo sperimentale» ■ Émile Zola riprese e rielaborò queste idee nel saggio Il romanzo sperimentale (1880). «Il romanziere – scrive Zola – è insieme un osservatore ed uno sperimentatore». Il suo compito è analogo a quello dello scienziato illustrato dall’insigne medico Claude Bernard (E scheda qui sotto): deve osservare la realtà e condurre esperimenti su di essa, scomponendo i fatti e poi ricostruendoli nel loro interno meccanismo psicologico. Su queste basi, continua Zola, il nuovo romanzo offrirà «documenti umani» plausibili e quindi grandi vantaggi alle «scienze politiche ed economiche»: «Essere in grado di controllare il bene ed il male, regolare la vita, guidare la società, risolvere alla lunga tutti i proble-

La penna come un bisturi: romanzo naturalista e medicina Profonda influenza esercitò su Zola un’opera pubblicata nel 1865, l’Introduzione allo studio della medicina sperimentale del medico Claude Bernard (1813-78). Clinico e fisiologo, Bernard era stato drammaturgo, prima d’insegnare fisiologia alla Sorbona di Parigi e poi al Collège de France; fu tra i grandi fondatori della medicina contemporanea e teorizzò, in particolare, l’importanza dell’esperimento come ambito di studio delle manifestazioni vitali. Anche per l’influsso di Bernard, Zola indirizzò il Naturalismo verso l’analisi «sperimentale» delle varie patologie sociali: sia nell’ambito della vita individuale (in particolare i comportamenti alterati da follia o da tare ereditarie), sia in quello più vasto della vita sociale. Qui la prospettiva prevalente divie-

ne la rappresentazione degli ambienti più deteriorati della società: quelli sui quali – scrive Zola – occorrerebbe agire con un bisturi, per eliminare dal corpo sociale la parte infetta così come il chirurgo elimina l’infezione dal corpo. Il sogno del fisiologo e del medico sperimentale, cioè «penetrare il come delle cose per dominarle e ridurle allo stato di meccanismo ubbidiente», è, secondo Zola, anche quello del romanziere. «Il nostro scopo è medesimo; anche noi vogliamo essere padroni dei fenomeni della vita intellettuale e passionale per poterli guidare. In una parola siamo dei moralisti sperimentali che mettono in luce mediante l’esperimento come si comporta una passione in un dato ambiente sociale. Il giorno in cui ci impadroniremo del suo meccani-

smo, si potrà curarla e placarla o almeno renderla il più inoffensiva possibile». Uno dei romanzi più fortunati del ciclo dei Rougon, Il ventre di Parigi (1873), esprime fin nel titolo quel richiamo quasi anatomico al corpo. La narrazione si svolge nell’età contemporanea, collocata sullo sfondo dei mercati di Parigi, le Halles: Zola li definisce «una macchina moderna, smisurata, una specie di macchina a vapore, di caldaia destinata alla digestione di un popolo; un gigantesco ventre di metallo, inchiavardato, saldato, fatto di legno, vetro e ferro...». È in luoghi come questi, emblematici della modernità, che si confrontano la ricchezza e la miseria. Qui si manifestano l’avidità e l’ambizione dei componenti della famiglia Rougon-Macquart. 73

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dividui e della società; allo scienziato-artista spettava il compito di riconoscerli e rappresentarli.

Contesto

Il Naturalismo francese

Tra Ottocento e Novecento

mi del socialismo, conferire soprattutto solide basi alla giustizia dando una risposta con l’esperimento ai problemi della criminalità, non è forse essere gli operai più utili e più morali del lavoro umano?». È così che, secondo Zola, la letteratura può davvero porsi al servizio dell’umanità. Perciò egli conclude di non conoscere «un lavoro più nobile».

Il ciclo dei Rougon-Macquart ■ Date queste premesse, il romanzo naturalista diviene un laboratorio in cui il romanziere «esperimenta» il determinismo, cioè mette alla prova l’esistenza di una

romanzo realistico ottocentesco

Balzac, Dickens, Maupassant

Flaubert, Madame Bovary, 1857

collegamento tra Realismo e Naturalismo

Tra Realismo e Naturalismo ■ Prima del Naturalismo e di questo suo metodo scientifico, era fiorita in tutta Europa una stagione di Realismo letterario, che aveva dato le migliori espressioni con i romanzi di Dickens, di Balzac e di Maupassant, autore di opere di grande successo (i romanzi Boule de Suif, Una vita, Bel Ami e numerosi racconti). Il Realismo amava rappresentare la realtà – anche nel suo contesto sociale – pur senza disporre ancora di un metodo davvero scientifico di analisi, paragonabile a quello fornito, al Naturalismo, dalla cultura positivistica. Al culmine di tale stagione realistica di metà Ottocento apparve, nel 1857, il romanzo Madame Bovary di Gustave Flaubert, un’opera che funse da tramite tra Realismo e Naturalismo.

Testi • Maupassant, Sull’acqua (La casa Tellier)

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Un anticipatore: Flaubert “

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necessaria concatenazione dei fenomeni umani e sociali, attraverso l’esame dei fatti e dei rapporti tra i personaggi. Questa concatenazione suggerisce di «legare» i personaggi gli uni agli altri, nell’arco di diverse generazioni: nasce da qui il ciclo di venti romanzi (iniziato nel 1871 con La fortuna dei Rougon e conclusosi nel 1893 con Il dottor Pascal) che Émile Zola dedicò alla famiglia dei Rougon-Macquart. Ambientati nei più diversi strati sociali, essi ripercorrono le vicende di una famiglia nel corso di cinque generazioni. Ne esce, alla fine, il memorabile affresco di un’intera società, incline ai «bagordi, dimentica delle sofferenze degli umili e dedita al vizio come sua unica divinità».

Naturalismo

NOVITÀ un metodo scientifico applicato alla letteratura

Oggettività e soggettività: la rivoluzionaria miscela di Flaubert ■ Il finissimo scavo psicologico che Flaubert conduceva nell’animo della protagonista si avvaleva di un Realismo precisissimo e, per così dire, «oggettivo». Lo scopo di Flaubert, infatti, era far conoscere la realtà senza le distorsioni tipiche, a suo giudizio, dell’arte «falsa», esagerata, «romantica»; fornire ai lettori un’obiettiva raffigurazione delle cose; giudicare la vita, come leggiamo in una sua lettera, semplicemente «dipingendola». L’autore è sempre presente, ma fa in modo che il lettore non se ne accorga. In Madame Bovary Flaubert ha lasciato che fossero le cose a «parlare», ma sempre attraverso la percezione che ne hanno i personaggi. Ha coniugato cioè oggettività e soggettività, in una miscela difficilissima, che solo i grandi scrittori riescono a realizzare. ■ Dopo di lui, per restare nell’ambito del Naturalismo, soltanto Verga riuscirà a riproporla con altrettanta forza umana e artistica nei suoi racconti «veristi» e nei suoi due grandi romanzi, I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo.

GUSTAVE FLAUBERT ◗ Flaubert nacque a Rouen, in Francia, nel 1821 e morì a Croisset nel 1880. Il padre era uno stimato medico chirurgo, la madre una ricca proprietaria terriera. Visse un’esistenza appartata, quasi monotona, senza eventi significativi che non riguardassero la sua attività di scrittore. Il carattere scontroso e, in seguito, le conseguenze di una malattia nervosa (soffriva di crisi d’epilessia) lo rinchiusero in un isolamento quasi totale nella villa di Croisset, sobborgo di Rouen. Di lì non di mosse mai, tranne per alcuni soggiorni invernali a Parigi e per due viaggi in Oriente (1849-51) e in Africa (1858). A Croisset Flaubert perseguì in modo assoluto il suo ideale di vita artistica, tutto dedito al sofferto me-

L’OPERA

stiere dello scrittore: proverbiali sono le interminabili stesure delle sue opere, scritte su carte tormentate di correzioni e ripensamenti. ◗ La produzione letteraria di Flaubert non fu ricca: in vita pubblicò solo quattro romanzi, tutti di lunga gestazione: Madame Bovary (1857), Salammbô (1862), L’educazione sentimentale (1869) e La tentazione di Sant’Antonio (1874), oltre alle novelle raccolte nel volume Tre racconti (1877). Postumo uscì, incompiuto, il romanzo satirico Bouvard e Pécuchet. Flaubert lasciò inoltre molte lettere, interessanti per la ricchezza di notazioni di carattere estetico, che rivelano la sua eccezionale coscienza dell’arte.

MADAME BOVARY ◗ Flaubert scrisse Madame Bovary nel 1851, ma passarono quasi cinque anni prima che il romanzo fosse pubblicato a puntate sulla «Revue de Paris». L’editore, Maxime Du Camp, vi apportò diversi tagli, per prevenire la prevedibile reazione della censura. Non bastò, tuttavia: l’opera fu messa sotto processo nel gennaio del 1857, con l’accusa di oltraggio alla morale e alla religione. Lo scrittore ne uscì però assolto. In seguito il libro poté essere stampato in volume, ed ebbe grande successo di pubblico. ◗ Protagonista del romanzo è Emma Rouault, figlia di un proprietario terriero. Emma sposa Charles Bovary, un insignificante medico di provincia, ma presto si accorge che il matrimonio non potrà mai farle vivere le emozioni e le aspirazioni di cui si era nutrita con le letture romantiche dell’adolescenza. La mediocrità del marito e l’immobile vita del piccolo villaggio normanno di Tostes non offrono che noia e tristezza. La coppia si trasferisce a Yonville: qui Emma viene prima corteggiata dal giovane Léon, praticante notaio, che però parte per Parigi senza trovare il coraggio di confessarle il suo amore; poi si fa sedurre da Rodolphe, uno squallido dongiovanni di provincia, che presto però si stanca delle pretese sempre più pressanti della donna. Abbandonata dall’amante, Emma cade in preda a una

forte depressione. Si risolleva quando a Rouen ritrova Léon e gli si concede. Le sue frequenti fughe con Léon e i soggiorni in lussuosi alberghi di Rouen obbligano Emma a indebitarsi, all’insaputa del marito, con un usuraio le cui richieste la mettono sempre più alle strette. Infine anche Léon si stanca di lei. Disperata, Emma si uccide. Anche il povero Charles si lascia morire, dopo aver però perdonato alla moglie i suoi tradimenti. ◗ Emma è combattuta tra due spinte contrastanti: da una parte l’impulso erotico e sensuale, che si fa talora prorompente; dall’altra il rimpianto nostalgico per l’innocenza perduta, che carica il motivo erotico di connotazioni malinconiche e drammatiche. Alla fine Emma diviene un simbolo; dolore e sconfitta la trasformano in quell’eroina letteraria che ella stessa sognava, all’inizio, di diventare: l’eroina dell’amore romantico, delle sue sognanti passioni, sconfitte dal prosaico mondo borghese. Flaubert raffigura con minuziosi dettagli il romanticismo di Emma, ma intanto ne prende criticamente le distanze: il significato del romanzo sta proprio nel ritratto che dipinge la rovina di una donna tenera e immatura, che scambia la vita con la letteratura e viene così a perdersi dietro ai suoi sogni, senza mai giungere a misurarsi davvero, in modo adulto, con la realtà. 75

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L’AUTORE

Contesto

Il Naturalismo francese

Tra Ottocento e Novecento

Gustave Flaubert

1

Il matrimonio fra noia e illusioni Madame Bovary, parte I, capitolo VII Anno: 1857 Temi: • la mediocrità della piccola borghesia di provincia • la noia come malessere costante • il sogno «romantico» di poter evadere dalla grigia quotidianità Leggiamo un brano tratto dal VII capitolo della prima parte del romanzo. Il matrimonio fra Emma e Carlo si è celebrato nel IV capitolo e ora Flaubert li ritrae nell’intimità della vita domestica, separati da un’incomprensione totale: lui concreto e di vedute ristrette, lei sognatrice e sospirosa, incapace di accettare la mediocrità del marito e l’ordinarietà della vita quotidiana.

la rivelazione della incomunicabilità tra i due coniugi

«dovrebbe» secondo quel prototipo letterario e romantico a cui Emma si attiene

il narratore si sofferma ironicamente sugli oggetti di un piccolo mondo di provincia, che Emma sta già respingendo con disgusto

Via via che l’intimità della loro vita si rinserrava, essa sentiva accentuarsi un distacco interno che la slegava da lui. La conversazione di Carlo era piatta come un marciapiede di strada, e le idee di tutti vi sfilavano, nella loro veste ordinaria, senza destar commozione alcuna, d’allegria o di sogno. Egli non aveva mai avuto la curiosità, diceva, d’andar a sentire 5 a teatro gli attori di Parigi, mentre abitava a Rouen.1 Non sapeva nuotare, né tirar di scherma, né adoperar la pistola; e un giorno non seppe spiegarle un termine d’equitazione ch’essa aveva letto in un romanzo. Non doveva, invece, un uomo saper tutto, eccellere in molte forme d’attività, iniziare la sua donna alle energie della passione, ai raffinamenti della vita, a tutti i mi- 10 steri? Ma quello là non insegnava niente, non sapeva niente, non desiderava niente. Egli la credeva felice; e lei gli teneva rancore per quella calma così posata, per quella pesante serenità, e perfino per la felicità ch’ella stessa gli dava. Disegnava, qualche volta; ed era per Carlo un divertimento grande restar là in piedi a guardarla, curva sul suo cartone, mentre socchiudeva gli occhi per veder meglio 15 il suo lavoro o arrotondava sul pollice delle pallottoline di mollica di pane.2 Quanto al pianoforte, più le dita vi correvano sopra veloci, più egli si meravigliava. Picchiava sui tasti con sicurezza, e percorreva da un’estremità all’altra la tastiera senza interrompersi. Scosso in quel modo, il vecchio strumento, tutto vibrante, faceva sentir la sua voce fino in fondo al villaggio, se la finestra era aperta, e spesso lo scrivano del- 20 l’usciere che passava per via, senza cappello e in pantofole, si fermava ad ascoltare, col foglio di carta in mano. [...] Carlo finiva per stimarsi di più, lui stesso, per il fatto di possedere una donna simile. Mostrava con orgoglio, in sala, due piccoli schizzi disegnati da lei a matita, e ch’egli aveva fatto inquadrare in cornici larghissime e appesi contro la carta del muro per 25 mezzo di lunghi cordoni verdi. All’uscita da messa, lo si vedeva sulla porta di casa, con certe belle pantofole ricamate. Egli rincasava tardi, alle dieci, a mezzanotte qualche volta. Chiedeva allora da mangiare, e, poiché la serva era a letto, era Emma stessa che lo serviva. Si toglieva la prefet-

1. mentre... Rouen: quando, cioè, era studente.

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2. arrotondava... pane: la mollica del pane serviva per cancellare.

un amore così, nell’ottica di Emma, è il contrario dell’amore

Emma sostituisce il sogno letterario alla realtà; per questo la realtà le ripugna, ed è infelice

tizia3 per pranzare più comodamente. Enumerava tutte le persone che aveva incontra- 30 to, i villaggi dov’era stato, le ricette che aveva scritto, e, soddisfatto di sé, mangiava il resto dello stracotto, levava via la crosta al formaggio, rosicchiava una mela, vuotava la sua caraffa, e poi si cacciava in letto, coricandosi sul dorso, e russava. [...] Intanto Emma tentava, secondo un metodo che le pareva buono, di darsi dell’amore.4 In giardino, al chiaro di luna, recitava al marito tutte le rime appassionate che 35 sapeva a memoria, e gli cantava, sospirando, degli adagi5 malinconici; ma alla fine si sentiva calma come prima, e Carlo non pareva né più amoroso né più turbato. Quand’ebbe, per un poco, battuto così l’acciarino6 sul proprio cuore senza farne sprizzare una sola scintilla, essendo incapace, del resto, di comprendere ciò che non provava e di credere a ciò che non si manifestasse in forme convenzionali, si persua- 40 se facilmente che la passione di Carlo non aveva nulla di eccessivo. Le sue espansioni eran diventate regolari; la baciava a certe ore fisse. Un’abitudine come le altre, quasi un dolce, previsto in anticipo, dopo la monotonia del pranzo. Un guardacaccia, guarito dal dottore d’una flussione7 di petto, aveva regalato alla signora una piccola levriera italiana; ed essa la portava fuori con sé, a passeggio. Per- 45 ché anche lei qualche volta usciva, desiderando di stare un momento sola e di non avere più sotto gli occhi quell’eterno giardino, e, di là da esso, la strada polverosa. Andava fino al faggeto di Banneville, fin presso al padiglione abbandonato che forma l’angolo delle mura, dalla parte dei campi. [...] I suoi pensieri, senza meta dapprima, vagavano a caso, come la cagnetta, che faceva dei giri tondi per la campagna, 50 guaiva dietro alle farfalle gialle, dava la caccia ai topi, o mordicchiava i rosolacci8 sull’orlo d’un campo di grano. Poi le sue idee a poco a poco si fissavano, e, seduta sull’erba, frugando il suolo a piccoli colpi con la punta dell’ombrellino, si ripeteva: «Perché, Dio mio, mi sono sposata?» Poi si chiedeva se, per altre combinazioni del caso, non avrebbe potuto incontrare, 55 invece, un altro uomo; e cercava d’immaginare come sarebbero andate allora le cose: una vita differente, un marito ch’essa non conosceva. In realtà non tutti somigliavano a quello là. Avrebbe potuto essere bello, intelligente, distinto, attraente, com’erano certamente gli uomini sposati dalle sue antiche compagne di convento. Che cosa facevano esse, ora? In città, tra il rumore delle vie, il mormorio dei teatri e gli splen- 60 dori dei balli, esse facevano una vita in cui il cuore si dilata e i sensi trovano libero sfogo. Ma lei, la sua vita era fredda come una soffitta che abbia il finestrino a tramontana,9 e la noia, ragno silenzioso, filava la sua tela nell’ombra, in tutti gli angoli del suo cuore. G. Flaubert, Madame Bovary, trad. di D. Valeri, A. Mondadori, Milano 1993

3. prefettizia: tipo di giacca a doppio petto e falde lunghe, che si usava nelle cerimonie. 4. darsi dell’amore: ricostruisce insomma le situazioni che a suo avviso possono su-

scitare effusioni e comportamenti sentimentali. 5. adagi: un movimento musicale, tra l’andante e il largo. 6. acciarino: un accendino con pietra fo-

caia. Emma cerca di accendere in sé la passione. 7. flussione: flusso eccessivo di sangue. 8. rosolacci: papaveri selvatici. 9. a tramontana: a nord.

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il verbo, alla fine del periodo, raffigura l’esatto contrario del mondo immaginato da Emma, fatto di notti d’amore e di travolgenti passioni

Contesto

Il Naturalismo francese

Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Ciò che caratterizza la protagonista Emma è il suo non accettare se stessa e il mondo in cui vive. Quell’esistenza, a suo giudizio piatta e insignificante, si scontra con i sogni e le aspirazioni da lei coltivate. Di tale mondo fa parte anzitutto il marito: con i suoi gusti, la sua personalità, la sua semplicità, Carlo rappresenta per Emma l’esatto opposto di quanto, a suo avviso, una donna dovrebbe aspettarsi da un uomo. Ma tanto Emma è insoddisfatta di Carlo e del matrimonio, tanto Carlo si ritrova benissimo nei panni di marito, di medico di campagna, di provinciale benestante e senza problemi. Così soddisfatto di se stesso, egli è la mediocrità personificata, l’antiromanticismo allo stato puro. ■ Emma Bovary è divenuta, nel tempo, un simbolo di un più generale modo di essere, il cosiddetto «bovarismo». È stato il narratore a caratterizzarla come un «tipo» sociale, sottolineando in lei pensieri, parole e atti che qualificano Emma come l’incarnazione di un tipo particolare di donna: la piccolo-borghese di provincia, delusa dalla realtà quotidiana e continuamente frustrata nel suo desiderio di migliorarla. Su di lei esercitano un profondo influsso le letture sentimentali di cui si è nutrita nell’adolescenza. Tali letture le hanno rivelato un mondo fatto di sentimento, poesia, straordinarietà: un mondo «romantico», tutto immaginario e falso, in stridente contrasto con la vita di Tostes. Il disagio nasce dal divario tra ciò che Emma ha ed è e ciò che vorrebbe avere e/o essere. Nel corso del romanzo l’inquietudine assumerà via via proporzioni patologiche. Diverrà una vera e propria malattia psicologica, da cui Emma non guarirà più. ■ Già in questo brano matura in Emma la coscienza di una vita fredda come una soffitta (r. 62), della noia che come un ragno silenzioso tesse la propria tela anche negli angoli più riposti dell’anima. Da sognatrice qual è, la donna non può non fantasticare sulla vita attuale delle sue compagne di collegio, alle quali assegna senz’altro un’esistenza fatta di balli e di teatri, di ardenti passioni. In lei il bisogno di evasione è irresistibile. Quando infine potrà concretizzarlo, si avvierà rapidamente alla propria rovina. ■ Flaubert è un maestro del Realismo letterario; il criterio a cui si attiene è l’impersonalità della narrazione. Offre dunque al lettore una ricostruzione minuziosa e sapientemente dosata dei dettagli, che evita ogni commento o giudizio su fatti e personaggi. Evita accuratamente di far trapelare atteggiamenti di simpatia o antipatia, lasciando che sia il lettore a prendere di volta in volta posizione di fronte a

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quanto narrato. L’autore assume il punto di vista del personaggio (focalizzazione interna), attraverso il ricorso al discorso indiretto libero (quando si riferiscono parole di qualcuno senza usare le virgolette e senza introdurle con verbi del dire). Nel brano letto si passa improvvisamente e quasi senza accorgersene dal piano di chi racconta a quello del personaggio, dal punto di vista dell’uno a quello dell’altro. Frasi come Non doveva, invece, un uomo saper tutto..., o Ma quello là non insegnava niente... esprimono il pensiero di Emma non meno di quanto faccia l’interrogativa finale virgolettata «Perché, Dio mio, mi sono sposata?» (r. 53). LAVORIAMO SUL TESTO 1. Che cosa sogna Emma nel periodo della sua luna di miele? E che cosa le manca? 2. Spiega con le tue parole questa frase: Le pareva che certi luoghi della terra dovessero da soli produrre la felicità, come una pianta propria di quel dato suolo, che cresca male da ogni altra parte. 3. Nell’immaginazione di Emma, quali doti, caratteristiche, virtù dovrebbe avere l’uomo ideale? E quale concezione ha dell’amore? 4. Soffermati sui modi con cui il narratore ha costruito il personaggio di Emma. Flaubert si limita, o sembra limitarsi, a registrare con obiettività pensieri, comportamenti, parole del personaggio: è il lettore a dover fare le proprie deduzioni e a dare quindi un giudizio su Emma. Attraverso quali comportamenti e particolari descrittivi l’autore l’ha caratterizzata come una provinciale frustrata e insoddisfatta? Rintracciali nel testo. 5. Illustra il carattere di Carlo, cercando nel brano le informazioni utili. 6. Identifica gli elementi costitutivi del testo: • dialoghi; • sequenze descrittive; • narrazione di episodi precisi. Quale tra questi elementi prevale? Come ti spieghi tale prevalenza? 7. Un tratto stilistico tipico di Flaubert è l’uso insistito dell’imperfetto verbale. Esso vuole riprodurre una situazione in cui non succede assolutamente nulla; a parte, s’intende, una serie di azioni e gesti continuamente ripetuti nella loro totale immutabilità. La presenza di questo imperfetto «iterativo» è una caratteristica della prosa flaubertiana, riscontrabile in quasi tutte le pagine del romanzo. Individua nel brano esempi di questo uso.

Testi • Il romanzo come «studio di fisiologia» (Teresa Raquin, Prefazione)

L’OPERA

ÉMILE ZOLA ◗ Nato a Parigi nel 1840, dopo la morte del padre (1847) Zola fu costretto dalle precarie condizioni economiche della famiglia a impiegarsi come fattorino presso la casa editrice Hachette, senza completare gli studi superiori. In pochi anni divenne dirigente del reparto pubblicità e poté così studiare i meccanismi del mercato editoriale. In seguito preferì dedicarsi al giornalismo e alla letteratura. ◗ Dopo i primi libri (Racconti a Ninetta, 1864, Il voto di una morta, 1866, I misteri di Marsiglia, 1867) elaborò la poetica naturalista, illustrata negli scritti teorici di Il romanzo sperimentale, 1880. Compose quindi una serie di romanzi nei quali indagò gli ambienti sociali più diversi. Dopo Teresa Raquin (1867) nacque così nel 1871 il ciclo dei Rougon-Macquart, «Storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero». Il ciclo raggiunse i venti romanzi nel 1893; tra i maggiori vi sono Il ventre di Parigi (1873, sulla vita dei quartieri operai della città), L’ammazzatoio (o Scannatoio, 1877, sulle conseguenze abbruttenti dell’alcolismo: il titolo francese è L’assommoir, e si riferisce al nomignolo dato alla taverna dove i più miseri vanno a ubriacarsi), Nanà (1880, sulla prostituzione e la piccola borghesia), Germinale (1885,

sulla vita dei minatori), La terra (1887, cruda rappresentazione del mondo contadino), La bestia umana (1890, sulla follia omicida). A questo ampio ciclo ne seguono altri due, più brevi: quello delle Tre città (1894-98), con romanzi intitolati rispettivamente Lourdes (1894), Roma (1896), Parigi (1898), e il ciclo incompiuto dei Quattro vangeli, formato da Fecondità (1899), Lavoro (1901), Verità (1903, postumo). ◗ L’impegno politico e civile di Zola è riassumibile nella battaglia condotta contro gli accusatori del capitano Alfred Dreyfus: quest’ultimo, a causa della sua origine ebraica, era stato ingiustamente accusato di spionaggio e condannato ai lavori forzati a vita. Zola nel 1898 pubblicò sul quotidiano «L’Aurore» un esplicito atto d’accusa – il famoso articolo J’accuse (“Io accuso”) – in seguito al quale fu lui stesso condannato a un anno di reclusione. Fuggito in Inghilterra, rientrò a Parigi nel 1899, accolto trionfalmente. Qui morì nel 1902 asfissiato dalle esalazioni di una stufa: le circostanze della sua morte suscitarono forti sospetti, e si arrivò a pensare che fosse stata provocata dai circoli conservatori, suoi nemici politici.

GERMINALE ◗ Il titolo ricorda la rivoluzione francese: i rivoluzionari avevano chiamato Germinale un particolare periodo dell’anno, tra marzo e aprile, lo stesso in cui nel 1869 si erano verificati moti popolari. La vicenda del romanzo s’ispira appunto agli scioperi e alle lotte dei minatori che tra il 1866 e il 1869 avevano protestato accanitamente contro la riduzione dei salari decisa dai proprietari delle miniere. Zola rappresenta realisticamente le disumane condizioni di vita e di lavoro dei minatori ma, a differenza che in altre opere, lascia aperta in Germinale la speranza in un possibile, prossimo miglioramento di quelle condizioni. ◗ Protagonista del racconto è Stefano Lantier, giovane operaio delle ferrovie, licenziato per contrasti con il capofficina. Trova impiego allora nella miniera di carbone di Voreux. Quando i minatori si organizzano per miglio-

rare le loro condizioni di lavoro, diviene uno dei capi. Le sue idee moderatamente socialiste lo mettono in contrasto con Souvarine, un compagno di lavoro russo, seguace dell’anarchismo. I proprietari delle miniere, colpiti dalla crisi economica, abbassano i salari e gli operai entrano in sciopero. Dopo mesi di sacrifici e di fame, si scatena il dramma: l’esercito interviene per stroncare lo sciopero e alcuni lavoratori restano uccisi. Gli altri decidono di riprendere il lavoro. Souvarine fa però saltare in aria la miniera, nella quale rimangono intrappolati il protagonista insieme a Catherine, di cui è innamorato, e al violento ex amante di lei. Durante una lite, Stefano uccide l’uomo. Giungono finalmente i soccorritori a liberarli, ma Catherine è già spirata. Stefano lascia la miniera per andare a Parigi, dove riprenderà le sue battaglie per la giustizia sociale. 79

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L’AUTORE

Contesto

Il Naturalismo francese

Tra Ottocento e Novecento

Émile Zola

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La miniera Germinale, capitolo I Anno: 1885 Temi: • il rapporto tra l’uomo e l’ambiente • la descrizione del distretto minerario Leggiamo l’incipit del romanzo, che coincide con l’ingresso sulla scena del suo protagonista, Stefano Lantier. Attraverso i suoi occhi di operaio cittadino, l’autore descrive il paesaggio del distretto minerario, con i bagliori e i fumi, le tozze costruzioni della cava, il trenino e le altre macchine.

ecco la condizione del protagonista

l’anonimo panorama del villaggio industriale un inserto di discorso indiretto libero

Partito verso le due da Marchiennes, l’uomo camminava a passi affrettati, rabbrividendo sotto la giacchetta logora di cotone e le brache di velluto; impacciato da un pacco1 avvolto in un fazzolettone a quadri che si stringeva contro e mutava spesso di fianco per ficcare in tasca le mani intirizzite che la sferza del vento scorticava. Nel suo capo vuoto di operaio senza lavoro e senza tetto rimuginava un unico pensiero: 5 la speranza che col sorgere dell’alba il freddo si farebbe sentir meno. Camminava così da un’ora quando, a due chilometri da Montsou, scorse a sinistra, come sospesi a mezz’aria, rosseggiare tre fuochi, simili a bracieri che ardessero all’aperto. Subito esitò; poi, tant’è, non poté resistere alla tentazione di scaldarsi un momento le mani. 10 Il sentiero incassato che prese gli sottrasse i fuochi alla vista. Ora l’uomo aveva a destra una palizzata, una specie di paratia2 di grosse tavole che costeggiava una strada ferrata;3 a sinistra un argine erboso oltre il quale si distinguevano in confuso4 dei tetti: una borgata di case basse, uniformi [...], un tozzo agglomerato5 di edifizi, di dove si slanciava il camino d’una fabbrica. [...] 15 6 Ah, una miniera! Presentarsi? per sentirsi dire di no? L’uomo si sentì riprendere dall’avvilimento. Invece di dirigersi verso il fabbricato, si decise a salire sul terrapieno,7 sul quale ardevano, in bracieri di ghisa, i tre fuochi che aveva avvistati per primi e che servivano a far luce agli operai nel loro lavoro e a riscaldarli. I terrazzieri8 dovevano aver finito il turno da poco, perché stavano sgombrando lo 20 sterro. Già i manovali avviavano i trenini sulle rotaie che correvano sui cavalletti e presso ogni fuoco si scorgevano ombre umane occupate a ribaltare berline.9 – Buon giorno, – fece, avvicinandosi a uno dei bracieri. Colui che aveva salutato voltava le spalle al fuoco; era un carrettiere; un vecchio vestito d’un maglione violetto, con in capo un berretto di pelo di coniglio; il suo caval- 25 lo, un grande cavallo fulvo,10 aspettava, fermo come un macigno, che si scaricassero i sei vagoncini che aveva trainato sin lì. Il manovale addetto alla manovra di scarico, un ragazzone di pelo rosso, sfiancato, non mostrava fretta: manovrava la leva così

1. un pacco: la valigia con le sue povere cose. 2. paratia: la parete che divide gli scompartimenti nello scafo di una nave. 3. strada ferrata: vi passano i treni della miniera, con il loro carico di carbone.

80

4. in confuso: confusamente. 5. tozzo agglomerato: raggruppamento basso e disordinato. 6. Presentarsi?: per chiedere lavoro. 7. terrapieno: rialzo artificiale del terreno, dove stanno lavorando i minatori.

8. terrazzieri: gli operai sterratori, che portano via la terra scavata, o sterro. 9. berline: i vagoncini del treno minerario. 10. fulvo: di pelo rossiccio.

i contorni della realtà stanno gradualmente delineandosi anche per iI lettore

emerge finalmente la storia personale del protagonista, finora tutta riassorbita dai piccoli eventi e dai dettagli dell’ambiente

11. tramontana: vento freddo del nord. 12. una raffica: di vento. 13. un impeto di tosse: è la malattia professionale dei minatori: i loro polmoni sono ostruiti dalla polvere di carbone che sono costretti a respirare. 14. nerastra: nera come il carbone, appunto. 15. la berlina: il trenino minerario. 16. armeggiando: sistemando. 17. capannone della cernita: dove si fa la

scelta (cernita) del minerale estratto. 18. castello del pozzo: una specie di torre, in corrispondenza del pozzo della miniera: sorregge le funi dell’ascensore che porta su e giù nella cava i minatori. 19. pompa di eduzione: macchina per rimuovere l’acqua che si infiltra tra le gallerie della miniera. 20. fabbricati: edifici. 21. gli aveva: gli sembrava avere. 22. menava: conduceva.

23. Lilla: città industriale nel nord della Francia. 24. ferriere: stabilimenti in cui si lavora il ferro. 25. Sonneville: sede di altri cantieri operai. 26. poc’anzi: poco prima che cominciasse il racconto. 27. cantuccio: angolo, pezzetto. 28. a che... strade: per quale scopo continuare a percorrere le strade.

81

Monografia Raccordo

il romanziere non ha premesso un ritratto del suo protagonista; solo adesso, allorché ce lo fa vedere in piena luce, ne indica l’età e l’aspetto

fiaccamente che pareva dormisse. E qui in alto il vento soffiava più impetuoso che 30 mai; una tramontana11 ghiacciata che investiva con la violenza d’una falciata. Il vecchio rese il saluto. Vi fu una pausa. Avvedendosi dello sguardo diffidente dell’altro, il nuovo venuto si affrettò a presentarsi. – Mi chiamo Stefano Lantier, meccanico... Non ci sarebbe lavoro per me, qui? Ora, in luce, mostrava ventun anno; bell’uomo, bruno, piuttosto smilzo ma 35 d’aspetto robusto. Rassicurato, il carrettiere scosse il capo: – Da meccanico, no... Ancora ieri se ne sono presentati due inutilmente. No, no. Lasciata passare una raffica12 che mozzava le parole in bocca, Stefano, indicando la 40 macchia scura del fabbricato lì sotto: È una miniera, non è vero? Questa volta, a impedire all’altro di rispondere, fu un impeto di tosse13 che lo strangolò. Quando poté sputare, lo sputo lasciò sul terreno imporporato dal braciere una chiazza nerastra.14 – Sì, una miniera; il Voreux. Ed ecco, là, le case operaie... – e tendeva il braccio a 45 indicare nella notte la borgata di cui l’altro aveva intravisto i tetti. S’era finito di scaricare; da sé, senza che il carrettiere avesse neanche da schioccare la frusta, il grosso cavallo fulvo ripartì, camminando tra le rotaie e trainando pesantemente la berlina15 vuota, il pelo arruffato sotto una nuova raffica; mentre il vecchio gli si metteva dietro, armeggiando16 a fatica le gambe irrigidite dai reumatismi. Ormai, agli occhi del giovane, il Voreux aveva perso il suo aspetto fantastico. Indu- 50 giandosi a scaldarsi le mani scorticate dal freddo, ora Stefano riconosceva la tettoia incatramata del capannone della cernita,17 il castello del pozzo,18 lo stanzone del macchinario per l’estrazione, la torretta quadra della pompa di eduzione.19 La miniera, pigiata a quel modo in una piega del terreno, coi suoi tozzi fabbricati20 in mattone, col camino che ne sporgeva come un corno minaccioso, gli aveva21 l’aria 55 malvagia d’un animale ingordo, appiattato lì per divorare gli uomini. Contemplandola, pensava a sé; all’esistenza di vagabondo che da otto giorni menava22 in cerca di lavoro; si rivedeva nelle Officine delle Ferrovie dove lavorava, il giorno che aveva schiaffeggiato il suo capo. Scacciato da Lilla,23 scacciato dappertutto, il sabato prima era arrivato a Marchiennes, attrattovi dalla speranza di trovar lavoro in quelle ferrie- 60 re;24 ma nulla: né alle ferriere, né da Sonneville.25 La domenica l’aveva passata nascosto tra le cataste di legname d’una fabbrica di carri, donde poc’anzi26 – quella stessa notte alle due – un sorvegliante l’aveva scoperto e scacciato. Non aveva più un soldo né un cantuccio27 di pane: a che seguitare a battere le strade,28 senza una meta, senza 65 neppure un luogo dove ripararsi dalla tramontana?

Contesto

Il Naturalismo francese

Tra Ottocento e Novecento

la narrazione si arricchisce di dettagli realistici, man mano che l’occhio del personaggio si posa su ciò che lo circonda

la crisi economica attuale, raffigurata dal punto di vista del vecchio minatore

Sì, ora la vedeva bene; era proprio una miniera. Le rade lanterne rischiaravano il locale delle macchine: l’improvviso schiudersi d’una porta gli aveva permesso di intravedere, in un lampo accecante, i fuochi delle caldaie. Ora si spiegava tutto; anche lo scappamento della pompa, quel lungo affannoso soffio incessante che si sarebbe 70 detto la respirazione strozzata del mostro. 29 L’addetto allo scarico dei vagoncini, occupato a schermirsi dal freddo, non aveva neanche alzato gli occhi su Stefano; e questi già si chinava a raccattare da terra l’involto30 cadutogli e si disponeva ad andarsene, quando una tosse stizzosa31 gli annunciò il carrettiere di ritorno. A poco a poco si vide il vecchio emergere dall’ombra, 75 seguito dal cavallo fulvo che trainava altre sei berline colme. – Ci sono delle fabbriche a Montsou? Il vecchio sputò nero, poi rispose con una voce che il vento lasciava appena udire: – Oh mica sono le fabbriche che mancano! Bisognava essere qui tre o quattr’anni or sono! Tutte le fabbriche lavoravano; non si trovavano uomini;32 non s’era mai guadagnato tanto... Ed ecco che ora si ricomincia a stringere la cintola... Uno strazio da 80 queste parti! si licenziano le maestranze,33 le fabbriche chiudono una dopo l’altra... La colpa non sarà forse sua; ma perché mai l’Imperatore34 va a battersi in America?35 Senza contare che le bestie muoiono di colera, tale e quale come i cristiani. Toccato questo tasto, tutti e due, a frasi smozzicate per via del vento che portava via le parole di bocca, presero a lamentarsi. Stefano raccontava tutti i passi che da 85 una settimana faceva inutilmente per trovare lavoro: bisognava dunque crepar di fame? presto per le strade non si vedrebbero che accattoni.36 Il vecchio gli dava ragione; sì, non poteva che finir male; non era permesso, perdìo, gettare tanti cristiani sul lastrico. É. Zola, Germinale, trad. di C. Sbarbaro, Einaudi, Torino 1951

29. schermirsi: ripararsi. 30. l’involto: il misero pacco con le sue cose, avvolto nel fazzolettone a quadri (E nota 1).

31. 32. 33. 34.

stizzosa: insistente, fastidiosa. uomini: operai. le maestranze: i lavoratori. l’Imperatore: Napoleone III.

35. in America: all’epoca la Francia era impegnata nella spedizione in Messico a fianco di Massimiliano d’Asburgo. 36. accattoni: mendicanti.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Al centro della narrativa di Zola vi è il rapporto uomoambiente: infatti apparteneva alla poetica originaria del Naturalismo l’idea secondo cui i comportamenti dell’uomo sono influenzati dall’ambiente (il milieu), oltre che da fattori ereditari (la race) e dal momento storico particolare (il moment). Così scrisse lo stesso Zola: «Questa è la mia preoccupazione più importante: studiare la gente con cui il personaggio avrà a che fare, i luoghi in cui dovrà agire, l’aria che dovrà respirare, la sua professione, le sue abitudini. Frequento quei luoghi per un po’ di tempo. Osservo, faccio domande e ipotesi». Perciò, prima di scrivere il romanzo Germinale, l’autore volle documentarsi accuratamente sull’ambiente di lavoro dei minatori protagonisti dell’opera. Nella primavera del 1884 si recò personalmente nella zona mineraria della Francia set82

tentrionale per avere una conoscenza diretta di ciò di cui avrebbe parlato. ■ Nel brano il lettore si avvicina alla miniera attraverso il passo lento e l’occhio indagatore del protagonista, Stefano; assieme a lui viene a conoscere la realtà della miniera, che si riflette nei dettagli realistici che man mano impressionano lo sguardo del giovane. Fedele ai canoni del Naturalismo, Zola offre una descrizione dall’«esterno», proponendo al lettore solo ciò che l’occhio di un occasionale spettatore potrebbe individuare e tralasciando qualsiasi commento. Perciò evita di presentare il protagonista con un ritratto tradizionale; lascia che la sua fisionomia emerga poco a poco nel corso della narrazione. ■ A ben vedere, però, la narrazione oscilla tra una rappre-

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Qual è lo stato d’animo del protagonista quando giunge alla miniera? Da che cosa è determinato? 2. Ti sembra che nel corso del brano questo stato d’animo evolva oppure no? Motiva la risposta con opportune citazioni dal testo. 3. Arrivato alla miniera, quali incontri fa il protagonista? Quale interlocutore emerge tra gli altri? 4. Da alcuni particolari del testo possiamo cogliere le concrete condizioni del lavoro in miniera, e in particolare la sua pericolosità. Rilevali nel brano. 5. Individua nel testo tutti gli elementi utili a comporre un ritratto di Stefano, relativamente a: • età; • provenienza; • lavoro esercitato; • ragioni per cui si trova nel Voreux; • fisionomia esteriore (aspetto, indumenti ecc.); • carattere e personalità. Scrivi ora un ritratto del protagonista (max 10 righe).

6. Partito verso le due da Marchiennes, l’uomo camminava a passi affrettati, rabbrividendo sotto la giacchetta logora di cotone e le brache di velluto; [...] mutava spesso di fianco per ficcare in tasca le mani intirizzite che la sferza del vento scorticava. Quale idea del personaggio il lettore può farsi, a partire da questa notazione iniziale? Rintraccia le altre sequenze di taglio descrittivo-narrativo presenti nel brano e riferibili all’ambiente naturale e/o al lavoro dei minatori. Ti sembra che esse confermino o smentiscano l’impressione iniziale? 7. Oggettività e impersonalità del narratore sono i canoni del Naturalismo. Attraverso quali elementi essi si mostrano in questo passo? Il rispetto di tali canoni è però, nell’incipit di Germinale, solo parziale: per esempio alcune descrizioni non sono «oggettive», ma «soggettive». Compila la tabella con citazioni tratte dal testo. elementi di oggettività

elementi di soggettività

termini tecnici della vita mineraria ................................................. ................................................. ................................................. .................................................

metafore riferite alla miniera ................................................. ................................................. ................................................. .................................................

descrizione neutra dell’ambiente ................................................. ................................................. ................................................. .................................................

paragoni e aggettivi «emotivi» ................................................. ................................................. ................................................. .................................................

altri elementi ................................................. ................................................ ................................................. .................................................

altri elementi ................................................. ................................................. ................................................. .................................................

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Monografia Raccordo

sentazione cruda e realistica della miniera, descritta anche con l’ausilio di termini tecnici, e certi aspetti più fantastici, che introducono nel racconto una dimensione simbolica. Si veda, per esempio, il rumore del motore paragonato a un respiro lungo e affannoso, oppure la miniera confrontata a un animale ingordo che inghiotte chi vi si avventura. Allo stesso modo lo scappamento della pompa viene paragonato al lungo affannoso soffio incessante che si sarebbe detto la respirazione strozzata del mostro. Questi elementi finiscono per ingigantire il coraggio e il sacrificio dei minatori, piccoli uomini che non hanno paura di quella tremenda cavità divoratrice. In questo modo la miniera e chi vi lavora acquistano sulla pagina un risalto epico. ■ La narrazione è condotta con una prosa analitica, «oggettiva». Nel finale osserviamo un esempio di discorso indiretto libero (più articolato rispetto al breve inserto della riga 16), la tecnica che sarà ampiamente utilizzata da Verga: bisognava dunque crepar di fame? presto per le strade non si vedrebbero che accattoni (rr. 86-87). È un’osservazione pronunciata a voce alta da Stefano e ripresa dal narratore senza didascalie esplicative, in forma «libera», appunto, per restituire con maggiore immediatezza il pensiero del personaggio. Anche la risposta del suo interlocutore (Il vecchio gli dava ragione; sì, non poteva che finir male; non era permesso, perdìo, gettare tanti cristiani sul lastrico rr. 87-89) segue la stessa tecnica.

Contesto

Il Naturalismo francese

Sguardi sulla società Vivere nella moderna città industriale La crescita delle città Nel 1810 solo 12 europei su 100 vivevano in città, cifra salita a 41 su 100 nel 1910. L’inurbamento produce una crescita mai vista dei centri urbani. Tra il 1840 e il 1880 Vienna passa da 400 mila abitanti a 700 mila; Parigi da 1 a 1,9 milioni; Londra da 2,5 a 3,9 milioni; Berlino da 378 mila a oltre un milione. Il fenomeno tocca molte altre città: nel 1810 le città europee con più di 100 mila abitanti erano solo 24; nel 1900 sono diventate 128. Nelle periferie di questi centri nascono vasti quartieri operai. In Inghilterra essi vengono per lo più edificati sul modello della piccola casa unifamiliare; invece in Francia, in Germania, così come nel «triangolo industriale» italiano (Milano, Torino, Genova), si adotta la forma di grandi edifici a molti piani, progenitori degli attuali condomini. Le città crescono troppo in fretta e le condizioni igieniche risultano precarie. Solo dopo il 1850-60 i nuovi quartieri si dotano di fognature; poi, via via, nelle strade e nelle case entra l’illuminazione a gas. Solo dopo il 1900 essa è sostituita dall’illuminazione elettrica. Intanto nascono i trasporti pubblici, necessari a spostare le masse dei lavoratori. All’inizio si utilizzano tram trainati da cavalli, poi si passa ai tram elettrici. Infine a Londra e a Parigi, compaiono le prime ferrovie metropolitane, con percorsi per lo più sotterranei (underground). La rete sotterranea di Londra fu inaugurata nel 1863, quella di Parigi nel 1900.

■ Illuminazione elettrica in place du Carrousel a Parigi nel 1889.

■ Una via di Londra nella seconda metà dell’Ottocento: i nuovi mezzi di trasporto, come i tram e le automobili, accanto a uno strano calessino trainato da una zebra.

nutre uno spiccato interesse per il mondo del lavoro e per la vita urbana. In quadri come Mattino e come Officine a Porta Romana, entrambi del 1909, egli dipinge la nuova atmosfera della città, che si ridesta segnata dal fluire lento degli operai che vanno al lavoro. È la città delle periferie attraversate dalle ombre lunghe del mattino e dai carretti che trasportano materiale edilizio per uno spazio urbano che si sta allargando. ■ Un’affollata via di Parigi in una fotografia della seconda metà dell’Ottocento.

La città nella rappresentazione artistica Molti artisti dell’epoca sono particolarmente attenti a cogliere le trasformazioni in atto nella società di inizio Novecento e a proporre nelle loro opere la rappresentazione dei protagonisti e dei luoghi che caratterizzano lo sviluppo industriale delle città. Fra questi, per esempio, Umberto Boccioni (1882-1916) 84

■ Umberto Boccioni, Officine a Porta Romana (particolare).

VERIFICA L’età contemporanea

Il Naturalismo francese

1

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.

1.

Il vero a cui aspirava il Naturalismo era un vero soggettivo e sentimentale. Il romanziere naturalista diviene un attento osservatore della realtà. Il maggior teorico del Naturalismo fu Hippolyte Taine. Émile Zola, fondatore del Naturalismo, fu una figura molto appartata e poco attenta al contesto sociale e politico. Secondo i naturalisti, l’arte, denunciando i mali che affliggono la società, può contribuire a migliorarla.

2. 3. 4.

5.

V

F

V

F

V

F

V

Svolgi i collegamenti corretti.

1.

Collega ciascun autore al rispettivo romanzo. 1 Émile Zola a. Il ventre di Parigi 2

Hippolyte Taine

b. La filosofia dell’arte

Gustave Flaubert c. L’educazione sentimentale Metti in relazione ciascuno dei seguenti romanzi di Zola con la tematica corrispondente. 1 L’ammazzatoio a. la prostituzione e le meschinità della piccola borghesia 2 La bestia umana b. l’alcolismo 3 Nanà c. la vita dura e rischiosa dei minatori 4 Germinale d. le componenti fisiologiche e sociali della follia omicida 3

V

F

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte.

1.

Con l’avvento del romanzo sperimentale, il Realismo letterario acquista un’inedita consapevolezza: a il romanzo diviene strumento di divulgazione delle verità della ragione e lo scrittore tende ad assomigliare sempre di più al filosofo b il romanzo deve trarre ispirazione dalla storia del passato per proporre ai lettori contemporanei valori, ideali e tradizioni del proprio paese c il romanzo deve attingere soprattutto alla creatività e all’immaginazione e lo scrittore deve interessarsi alle dinamiche interiori e alle tensioni psicologiche del soggetto d il romanzo diventa uno studio sociale e il romanziere deve essere uno scienziato, per ritrarre dal vero sia i rapporti sociali sia il mondo interiore degli individui

3.

3

F

2

2.

cui dura repressione da parte del governo scatenò il moto popolare della Comune di Parigi c gli scioperi e le lotte dei minatori francesi che protestarono accanitamente contro la riduzione dei salari decisa dai proprietari delle miniere d gli scioperi dei braccianti agricoli che diedero avvio ai moti della Comune di Parigi

Quale nuovo modello d’intellettuale tende ad affermarsi con la cultura positivista? a il poeta vate, guida spirituale del popolo e depositario delle tradizioni nazionali b il filosofo, impegnato a riformare la società diffondendovi la luce della ragione c lo scienziato, artefice del vero sapere e del progresso umano d il letterato umanista, che attinge verità e conoscenza dai classici Quali vicende sono al centro di Germinale? a i moti parigini del 1848, scaturiti dalla protesta popolare contro la sanguinosa repressione inflitta dal governo francese agli operai edili in sciopero b gli scioperi degli operai metallurgici francesi, la

2.

4

Rispondi alle seguenti domande.

1.

Chi era Claude Bernard e quale influsso ebbe sul Naturalismo? Spiega con le tue parole i fattori della race, del milieu e del moment; precisa da chi furono elaborati e perché. Il Naturalismo si può considerare come la traduzione, in letteratura, della cultura del Positivismo. Per quali motivi? (max 15 righe)

2.

3.

PER L’ESAME DI STATO 1.

2.

Naturalismo francese e Verismo italiano: facendo riferimento agli autori e ai testi letti, illustra in max due facciate di foglio protocollo (3500-4000 battute) il loro rapporto, chiarendo: • quale dei due fenomeni nacque per primo e influenzò l’altro; • gli elementi di maggiore affinità, sul piano contenutistico e formale; • gli elementi di diversità. Scrivi una breve relazione che illustri gli elementi (di forma e di contenuto) che differenziano il romanzo di Flaubert da quello di Zola. Hai a disposizione una facciata di foglio protocollo (1500-2000 battute). 85

Raccordo Gli scrittori del Verismo 1

Dal Naturalismo al Verismo ◗ sfiducia nella possibilità di risolvere la crisi del Sud

VERISMO



diffusione delle idee naturalistiche



NATURALISMO ◗ Zola tradotto in Italia dal 1876

◗ Capuana ◗ Verga ◗ De Roberto

◗ rinnovamento di temi e linguaggio della tradizione letteraria

L’attenzione al «vero» ■ I romanzi di Émile Zola furono tradotti in Italia a partire dal 1876. Suscitarono polemiche per la descrizione degli ambienti più desolati e squallidi delle periferie operaie parigine, ma anche ampio interesse per la novità delle riflessioni che erano in grado di alimentare. Nacque così, soprattutto per merito di alcuni autori siciliani (Luigi Capuana, Giovanni Verga, Federico De Roberto), un’originale interpretazione del Naturalismo 86

francese, chiamata «Verismo» per l’attenzione al «vero», alla vita quotidiana della gente, alle problematiche sociali o d’ambiente. Gli scrittori del Verismo si soffermavano specialmente sulle miserie, economiche e sociali, del Mezzogiorno d’Italia all’indomani della raggiunta Unità d’Italia (1861). Ma un’attitudine verista, nei contenuti e nel linguaggio, si travasò anche in opere e autori di altre parti d’Italia, come il milanese Emilio De Marchi, i toscani Mario Pratesi e Renato Fucini, la sarda Grazia Deledda.

Pessimismo contro ottimismo

■ I veristi ripresero alcune esigenze di base del Naturalismo:

■ Sui naturalisti francesi agivano ancora, in buona parte, l’ottimismo positivistico e il mito del «progresso»; i veristi riflettono invece un senso d’impotenza nei confronti della miseria delle plebi contadine. Di fronte a quello spettacolo di disagio sociale, essi accentuano semmai una sensazione di rassegnato pessimismo. In sintesi, il Naturalismo francese ed europeo ha un carattere sociologico e scientifico; il nostro Verismo è più mitico e arcaico, legato alla terra, alle sue tradizioni antiche, ai suoi influssi dialettali, alle voci primordiali di una natura selvaggia e lussureggiante.

■ l’attenzione sistematica all’ambiente sociale (il milieu di cui aveva parlato Taine); ■ l’osservazione rigorosa delle «passioni» umane (come nascono e si manifestano); ■ il desiderio di dare alla letteratura appropriati strumenti d’indagine e di rappresentazione, cioè un’anima scientifica.

Differenza di accenti ■ Ma i nostri veristi interpretarono in modo più elastico il rigore scientifico del Naturalismo francese, il suo metodo dell’assoluto distacco dell’autore (l’«impersonalità»). Accettarono in generale l’idea di Zola secondo cui sono le leggi fisiologiche e le tare ereditarie a determinare i caratteri individuali attraverso la «lenta successione dei fatti nervosi e di sangue che si verificano in una stirpe», come l’autore francese aveva scritto nella Prefazione (1871) a La fortuna dei Rougon; ma, per i veristi italiani, più importante del decadimento individuale è la crisi sociale e culturale di una grande area storicamente messa ai margini: il Mezzogiorno.

La scoperta del Mezzogiorno contadino ■ Se i naturalisti francesi avevano prediletto lo scenario della metropoli parigina e dei suoi sobborghi industriali, il Verismo italiano privilegiò un differente ambito d’osservazione, ovvero la vita delle popolazioni contadine nelle diverse realtà regionali. La scoperta delle zone depresse della nuova Italia postunitaria, e in particolare di quelle rurali, fu il grande merito dei nostri veristi. Soprattutto, le loro pagine ci offrono un’analisi di prima mano della questione meridionale (E scheda a p. 90), che sul finire dell’Ottocento era divenuta un argomento all’ordine del giorno, per i suoi riflessi economici, politici, sociali. ■ Bisogna infatti considerare che Capuana, Verga, De Roberto – i «maestri» del nostro Verismo – erano tutti e tre siciliani: la loro «letteratura del vero» non poteva non essere influenzata dalla personale constatazione della gravità della crisi sociale ed economica in atto, che colpiva soprattutto le condizioni di vita dei loro conterranei. Perciò la loro narrativa si orientò a testimoniare la vita delle campagne, laddove i naturalisti francesi avevano prediletto lo scenario delle grandi città e delle periferie industriali.

Meriti della letteratura verista ■ Nella storia letteraria italiana, il Verismo ebbe un grande merito: non solo seppe dar vita a una produzione letteraria ricchissima, adeguata, in quel preciso contesto storico, al notevole sviluppo dell’editoria e all’allargarsi del pubblico dei lettori; ma soprattutto seppe rinnovare in profondità sia i temi sia il linguaggio tradizionale della letteratura, promuovendo una maggiore semplicità d’espressione e un’inedita concretezza di temi e personaggi. ■ Alle spalle dei veristi c’era, sul piano letterario, quasi il vuoto: l’unico precedente di rilievo era costituito dal realismo di Manzoni e dalla sua scelta in favore degli «umili». I veristi proseguirono con sistematicità e rigore su quella linea, concentrandosi in misura quasi esclusiva sui temi della terra natale, del mondo elementare e primitivo delle plebi rurali. Essi adottarono perciò, in vista di una rappresentazione «sincera» e «oggettiva», forme lessicali più vicine al parlato e generi narrativi nuovi o parzialmente nuovi come il «bozzetto», cioè la novella d’ambiente, che coglie la verità di un personaggio nel suo ambito peculiare di vita.

Il limite del paternalismo ■ Accanto ai meriti, vanno segnalati anche i difetti dei veristi italiani. Il più importante consiste nelle frequenti cadute nel tono paternalistico: il loro era spesso un tono di superiorità, tipico di chi contempla dall’alto le sorti di esseri inferiori, limitandosi quasi solo a compiangere, senza un autentico tentativo di comprensione dal di dentro. ■ Da questo limite seppero tenersi lontani solo gli scrittori maggiori e in particolare Verga, la cui analisi, così lucida, oggettiva e al contempo partecipe, costituì un vertice non riproponibile. 87

Monografia Raccordo

Analogie tra Naturalismo e Verismo

Contesto

Gli scrittori del Verismo

Tra Ottocento e Novecento

2

I veristi siciliani Luigi Capuana

Giovanni Verga

Federico De Roberto







scrive i capolavori del Verismo: divulga il Naturalismo in Italia: ◗ Giacinta

MA salvaguarda l’autonomia dell’arte dalla scienza

◗ Vita dei campi (novelle) ◗ Novelle rusticane (novelle)

◗ L’illusione

◗ I Malavoglia (romanzo)

◗ I Viceré

◗ Mastro-don Gesualdo (romanzo)

◗ L’imperio

applica il «principio dell’impersonalità»

Il contributo di Capuana ■ Il primo e maggiore teorico del Verismo fu Luigi Capuana, che lo divulgò con articoli e saggi critici, oltre che con romanzi e raccolte di novelle. Fin dai saggi raccolti in Il teatro italiano contemporaneo (1872) auspicò il superamento del dramma storico romantico e della tragedia classicistica, a favore di un teatro più semplice, naturale, vicino al «vero». Dal 1880, con gli Studi sulla letteratura contemporanea, Capuana si misurò direttamente con Zola e il Naturalismo. Di Zola apprezzava la concretezza con cui nell’Ammazzatoio e nel Ventre di Parigi aveva descritto «il basso mondo della società parigina»; ne respinse invece il metodo «sperimentale», perlomeno nelle sue applicazioni più radicali: bisogna, scrisse, «mantenere la giustezza delle proporzioni fra gli elementi della scienza e quelli della fantasia». Non basta cioè la fedeltà al «vero» per fare arte: secondo Capuana, il pregio di Zola è proprio quello di aver rielaborato il mondo reale in una viva creazione artistica.

L’impersonalità di Verga ■ Il catanese Giovanni Verga diede nelle sue opere (i racconti di Vita dei campi e di Novelle rusticane, i romanzi I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo) la migliore attuazione del «principio dell’impersonalità» già teorizzato da Capuana. Lo scrittore si nasconde, sforzandosi di far parlare le cose e servendosi di voci altrui, anzi, di un «coro» di voci (i tanti abitanti anonimi del paese). Lascia 88

narra il ciclo familiare degli Uzeda nei tre romanzi:

il metodo verista si trasferisce dallo studio dei ceti più umili a quello dei ceti nobili

che al lettore s’imponga l’evidenza oggettiva della realtà da lui rappresentata, in maniera che l’opera sembri «essersi fatta da sé» (così dice Verga nella lettera-prefazione alla novella L’amante di Gramigna, E Testo 3, p. 132). Sulla scia di questa idea, Pirandello auspicherà non più il «nascondimento», ma addirittura l’«assenza» dell’autore (E Sei personaggi in cerca d’autore, p. 641).

De Roberto e I Viceré ■ Fu poi Federico De Roberto a proseguire, nei suoi tre romanzi maggiori (L’illusione, I Viceré, L’imperio), il disegno ciclico verghiano. Ma De Roberto trasferì il metodo verista dallo studio dei poveri a quello delle classi sociali più elevate. Al centro del ciclo sono le vicende di un’aristocratica famiglia siciliana, gli Uzeda, soprannominati i «Viceré» in memoria degli antenati che avevano avuto quella carica durante il dominio spagnolo. Il ciclo familiare degli Uzeda dà la netta impressione di una razza che si degrada, corrosa da una maligna follia: un tema, questo della stirpe che si logora nel suo ambiente, che ricorda il metodo «scientifico» dei naturalisti. ■ Soprattutto nei Viceré (1894) la vita complessa dei nobili viene ritratta con il medesimo sforzo di obiettività con cui Verga, nei Malavoglia, si era volto ai poveri pescatori di Aci Trezza. Ma il romanzo, ambientato nel difficile momento in cui al regno borbonico si sostituisce lo stato italiano, si allarga poi a una più vasta crisi storica, sociale, psicologica, rappresentata con viva precisione di dettagli nella ridda di personaggi che vi si affollano e nelle memorabili, caotiche scene di massa.

Gli scrittori del Verismo



Matilde Serao



Renato Fucini



Mario Pratesi

Milano



Emilio De Marchi

Genova



Remigio Zena

Sardegna



Napoli

Grazia Deledda

Il ventre di Napoli, 1884

Le veglie di Neri, 1884

L’eredità, 1889

Demetrio Pianelli, 1890

La bocca del lupo, 1892

Canne al vento, 1913

Contesto

Verismo e letteratura regionale

Monografia Raccordo

3

Toscana

«Bozzetti» di vita locale ■ Oltre agli scrittori già ricordati, molti altri sono quelli catalogabili, negli ultimi decenni dell’Ottocento, nell’alveo del Verismo. Per lo più essi portarono in primo piano figure ed episodi di vita locale, entro una dimensione geograficamente circoscritta. Tutti questi autori, pur senza far parte di una «scuola» prestabilita, si richiamavano al «vero»; tutti condividevano l’esigenza di una maggior vicinanza alla realtà dell’Italia postunitaria e umbertina, rappresentata anzitutto nei suoi problemi sociali. Molte loro pagine si presentano sotto la forma del «bozzetto», una descrizione cioè appena prospettata nelle sue linee essenziali, come un quadro d’ambiente, più che come narrazione compiuta. Il primo, decisivo esempio di «bozzetto» era stato fornito nel 1874 da Verga con Nedda.

La Napoli di Matilde Serao ■ La scrittrice e giornalista Matilde Serao (1856-1927) colse con realistica umanità il pittoresco mondo napoletano, nell’inchiesta giornalistica Il ventre di Napoli (1884) e nel romanzo Il paese di Cuccagna (1891): in essi la rappresentazione della vita quotidiana si esprime in una prosa assai colorita.

La Toscana di Fucini e Pratesi ■ Rappresentanti del Verismo in Toscana furono Renato Fucini (1843-1921) e Mario Pratesi (1842-1921). I racconti più noti di Fucini si leggono nella raccolta Le

veglie di Neri (1884), dove risalta al massimo l’arte del «bozzetto»; la sua scrittura è stata accostata alla pittura impressionistica dei macchiaioli toscani Telemaco Signorini e Giovanni Fattori. Pratesi ritrasse la vita dei contadini e della gente senese e grossetana con umana partecipazione (e quindi in modo non «impersonale») alle miserie piccole e grandi dell’esistenza. Una cruda, «veristica» rappresentazione della realtà risalta nel romanzo L’eredità (1889), imperniato sulla divisione di un’eredità e sulla ferocia che essa scatena nell’ambiente campagnolo.

Verismo metropolitano: Zena e De Marchi Altri scrittori di fine Ottocento guardavano alle condizioni di vita dei grandi centri industriali. ■ Il genovese Remigio Zena (pseudonimo di Gaspare Invrea, 1850-1917) descrisse nel romanzo La bocca del lupo (1892) le difficoltà e la «perdizione» di alcune donne in una città ostile, metaforicamente definita, nel titolo, «la bocca del lupo». ■ Il milanese Emilio De Marchi (1851-1901) pubblicò prima a puntate, in appendice al quotidiano «L’Italia del Popolo», e poi (1890) in volume il romanzo Demetrio Pianelli: storia di un modesto impiegato che si prende cura della famiglia lasciata da un fratello suicida. La narrazione procede con toni bassi e in una lingua a volte dimessa, così da avvicinarsi al livello linguistico dei personaggi. Il protagonista di De Marchi 89

Tra Ottocento e Novecento

diviene l’emblema del mondo impiegatizio di una metropoli moderna; ma contemporaneamente l’autore scava con umana verità nella sua psicologia.

La Sardegna «mitica» di Grazia Deledda ■ Al novero degli scrittori tardo-veristi va aggiunta la scrittrice sarda Grazia Deledda (1871-1936), premio Nobel per la letteratura nel 1926 e autrice di romanzi come Elias Portolu (1903), L’edera (1906), Canne al vento (1913). La sua narrativa è stata accostata al Verismo e/o al Decadentismo, ma sfugge in realtà a una

catalogazione precisa. Al centro di essa vi è il mondo «primitivo» della Sardegna; ma invece di approfondire le misere condizioni sociali dell’isola, l’autrice è attratta dai problemi dell’anima umana, dalle vicende spirituali, dai drammi vissuti e sofferti dai personaggi. La Sardegna e la sua gente diventano l’emblema di un’universale condizione umana, sulla quale incombono le leggi severe e immodificabili fissate dal destino. L’elemento più vivo delle pagine della Deledda è l’intenso, emozionante rispecchiarsi nella natura, la corrispondenza fra i personaggi e i luoghi, fra lo stato d’animo dei protagonisti e la terra vergine, arcaica e austera, della Sardegna.

La questione meridionale Il problema più grave che afflisse l’Italia unita dopo il 1861 e che non è stato risolto neppure in seguito è la cosiddetta questione meridionale. Fin dal primo Ottocento era ben visibile l’esistenza di «due Italie», profondamente diverse tra loro: il Nord, con le sue grandi città e l’economia fondata maggiormente su industria e commercio; il Sud agricolo e arretrato, non solo economicamente, ma anzitutto socialmente e politicamente, per lo spadroneggiare dei «baroni». Dopo l’Unità d’Italia questo divario, invece di ridursi, si aggravò. Le regioni del Mezzogiorno, che avevano fatto parte del Regno delle Due Sicilie, vennero infatti penalizzate dalle scelte dei governi prima della Destra e poi della Sinistra storica, che invece di decentrare l’amministrazione e impostare un programma di autonomie federaliste, accentrarono tutte le scelte, favorendo di fatto le aree più sviluppate. Vennero così aggravati i mali endemici del Meridione: • assenteismo dei proprietari terrieri e bassa redditività dei latifondi; • sfruttamento dei braccianti; • mancanza di una dinamica borghesia imprenditoriale; • distacco tra le campagne e le città-capitali come Napoli e Palermo; • scarsità della vita culturale e civile. In questo contesto, alcune crisi agri90

cole (la più grave nel 1886-87) determinarono forti contraccolpi sociali. Un calo dei prezzi provocò una sovrabbondanza di manodopera, con espulsione dei braccianti dalle campagne e crisi della zootecnia. Molti contadini, ridotti in miseria, scelsero la via dell’emigrazione, sia verso gli Stati Uniti, sia verso le fabbriche del Nord, che si avvantaggiarono di questo afflusso di manodopera, retribuita con salari bassissimi. Anche i dazi voluti dal governo per proteggere le merci italiane favorirono le industrie settentrionali, ma svantaggiarono pesantemente i produttori di vino, olio e agrumi del Sud, mentre la stipula della Triplice alleanza, concepita contro la Francia, restrinse di molto le vendite agricole sui mercati esteri. Infine lo smercio interno dei beni agricoli era ostacolato dalla mancanza di banche e di mezzi di trasporto. Conseguenza di tale situazione furono le rivolte contadine, che per il loro carattere spontaneo sfuggivano al controllo dei politici e venivano invece alimentate dal socialismo anarchico e ribellistico di Michail Bakunin (1814-76), lontanissimo dalla logica operaistica e industriale del marxismo classico. Le rivolte inizialmente si manifestarono come brigantaggio filoborbonico nelle regioni del Mezzogiorno. Si formò anche una forte organizzazione antigovernativa,

quella dei Fasci siciliani, sgominati dall’esercito nel 1894. Di fronte a tutti questi problemi, lo stato unitario non trovò di meglio che attribuire ogni responsabilità al precedente malgoverno borbonico e reagire alle violenze con la repressione militare. Poco o nulla fu fatto, invece, per creare nel Sud le infrastrutture necessarie a un primo sviluppo, per difendere il suolo da alluvioni e frane, per impedire che i beni ecclesiastici sottratti alla chiesa venissero accaparrati dai latifondisti; né si protessero i contadini dalle prepotenze dei gabelloti, che subaffittavano le terre dei grandi proprietari. Alcune coraggiose denunce, come le Lettere meridionali di Pasquale Villari (1875) e L’inchiesta in Sicilia (1876) di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, non riuscirono a scalfire il pregiudizio secondo cui il ritardo del Sud dipendeva da condizioni climatiche, geografiche, antropologiche contro le quali non c’era rimedio. Neppure i sindacati e il movimento operaio furono in grado di elaborare un programma adeguato: la politica del Partito socialista (nato ufficialmente nel 1892, ma attivo già da un decennio) privilegiò soprattutto gli operai delle città industriali, considerati, secondo le tesi marxiste, l’avanguardia dell’intero movimento dei lavoratori.

Testi • Il medico dei poveri (Le paesane)

L’OPERA

LUIGI CAPUANA ◗ Capuana nacque a Mineo (Catania) nel 1839, da una famiglia di proprietari terrieri. Non terminò gli studi giuridici, per dedicarsi al giornalismo e alla letteratura. Nel 1864 si trasferì a Firenze, dove collaborò come critico teatrale al quotidiano «La Nazione», dalle cui colonne auspicava una produzione teatrale più nuova e moderna (i suoi scritti teatrali vennero poi raccolti nel volume Il teatro italiano contemporaneo. Saggi critici, 1872). Tornato a Mineo (1869), s’impegnò nell’attività politica, diventando anche sindaco della città. ◗ Nel 1875 si spostò di nuovo al Nord, questa volta a Milano. Qui iniziò a collaborare come critico letterario e teatrale con il «Corriere della Sera» e s’impegnò a diffondere il nuovo credo verista, soprattutto attraverso recensioni di libri contemporanei, italiani e francesi, poi raccolte nelle due serie (1880 e 1882) di Studi sulla letteratura contemporanea. A Milano pubblicò la sua prima raccolta di novelle, Profili di donne (1877), di sapore ancora tradizionale, seguita dal romanzo Giacinta (1879), accolto come il «manifesto» del Verismo. Tornato a Mineo, alternò i soggiorni nella cittadi-

na natale con permanenze a Roma, dove nel 1882-83 diresse l’importante settimanale «Fanfulla della Domenica». Continuò intanto a scrivere testi narrativi: spiccano le novelle raccolte in Homo! (1883) e la seconda edizione di Giacinta (1886). Nei due volumi Le appassionate (1893) e Le paesane (1894) recuperò racconti già editi; in C’era una volta (1882) raccolse fiabe popolari. ◗ Durante la quasi ventennale elaborazione del romanzo Il marchese di Roccaverdina (edito nel 1901) continuò a pubblicare testi critici, raccolti nei volumi Per l’arte (1885) e Gli «Ismi» contemporanei (verismo, simbolismo, idealismo, cosmopolitismo) ed altri saggi di critica letteraria ed artistica (1898). Dal 1902 si stabilì definitivamente in Sicilia, dove insegnò stilistica all’Università di Catania. Tra le ultime opere, il romanzo Rassegnazione (1907) e le raccolte di novelle e di fiabe Coscienze (1905), Nel paese della Zagara (1910), Gli Americani di Rabbato (1912). Negli anni 1911-13 stampò le sue commedie in Teatro dialettale siciliano (due dei cinque volumi uscirono postumi nel 1920-21). Morì a Mineo nel 1915.

GIACINTA ◗ Il romanzo intende ricostruire un «documento umano» vero: la storia cioè delle «aberrazioni di uno strano carattere femminile, quasi legittimate dalla passione e dalle non ordinarie circostanze», come affermò egli stesso nella prefazione alla terza edizione del romanzo (1889). Protagonista è una giovane nobildonna, realmente vissuta, pare, al tempo di Capuana. È segnata da un profondo trauma, ovvero la violenza sessuale inflittale da un servo in età infantile. Ora è vittima di una forte nevrosi e di un angoscioso senso di colpa, alimentato dalle convenzioni morali dominanti nel suo ambiente. Impossibile per lei vivere un normale rapporto d’amore: rifiuta di sposare Andrea, del quale è innamorata, ma lo accoglie poi come amante, non appena si è maritata con l’anziano conte Giulio. La sua nevrosi si manifesta ora come una cieca passione, che incuriosisce e attira anche un medico, il dottor Follini. Man mano la donna precipita nello squilibrio, fino a suicidarsi.

◗ Capuana indaga nell’animo di Giacinta presentandolo, dice, come un «caso patologico»; analizza gli atteggiamenti, i gesti, le contraddizioni della donna, per dimostrare come le aberrazioni del suo carattere provengano da uno stretto intreccio di fattori familiari, sociali, ambientali, psicologici. Per conferire all’analisi la maggiore scientificità, affida al dottor Follini il compito di seguire e di narrare lo sviluppo delle ossessioni di Giacinta fino alla morte. ◗ Durante la prima stesura dell’opera, l’autore non aveva ancora messo perfettamente a fuoco il principio dell’impersonalità della scrittura: in seguito sentì il bisogno di riscrivere il romanzo, per «cancellare qualunque segno, qualunque ombra con cui la personalità dell’autore faceva qua e là capolino». La seconda edizione di Giacinta uscì nel 1886 (una terza nel 1889), trasformata non nella struttura, ma nello stile, che lasciava spazio ai nudi fatti. 91

Monografia Raccordo

L’AUTORE

Contesto

Gli scrittori del Verismo

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Pagina 92

Tra Ottocento e Novecento

Luigi Capuana

1

Giacinta e un «medico filosofo» Giacinta, capitolo X Anno: 1879 Temi: • il medico scienziato e il suo metodo di osservazione empirica • gli insondabili abissi della psiche umana

Leggiamo una sequenza cruciale del romanzo, ovvero un colloquio rivelatore tra la protagonista e il dottor Follini che indaga su di lei per curiosità scientifica. Il testo è tratto dalla prima edizione di Giacinta (1879). non era un materialista assoluto, cioè non spiegava ogni fenomeno psicologico come prodotto da un’alterazione fisiologica dell’organismo i positivisti intendevano creare una scienza anche delle malattie morali e psichiche

L’acuto sguardo del dottor Follini aveva indovinato qualcosa del travaglio della Giacinta. Egli era un medico, filosofo, pel quale i nervi, il sangue, le fibre, le cellule non spiegavano tutto nell’individuo. Non credeva all’anima immortale; però credeva all’anima ed anche allo spirito: combinava Claudio Bernard,1 Wirchoff2 e Molescott3 con Hegel4 e Spencer,5 ma il suo Dio era il De Meis6 della Università di Bologna. Si 5 era impossessato così bene della dottrina del suo maestro, che ne aveva anche preso un po’ lo stile e le maniere, specialmente il risolino caratteristico tra ingenuo e malizioso. La Giacinta lo aveva interessato sin dai primi giorni come un caso di patologia morale degno davvero di attenzione. In quella donna l’eredità naturale,7 l’organismo 10 potevan servire a dipanare appena una metà del problema. E siccome per lui la medicina non consisteva soltanto nella diagnosi e nella cura del morbo, così non lasciava sfuggirsi nessuna occasione di raccogliere elementi scientifici, cioè fatti individuali provati, pel suo gran lavoro sull’uomo ideato sin da quando si trovava all’Uni15 versità Bolognese. Quel giovane medico, ricco di tanta dottrina, aveva un’anima da poeta. La Giacinta, che lo aveva capito, si confessava,8 come ella soleva dire, molto volentieri con lui. I maligni, non potendo penetrare più in là della buccia,9 vedevano in quella intimità un sintomo cattivo per la posizione dell’Andrea.10 Secondo loro, il dottor Follini era in via di soppiantarlo e se ne rallegravano segretamente. Nulla di più falso di questi sospetti. 20 Per quanto grande fosse la simpatia ispiratagli dalla Giacinta, egli conservava rimpetto a lei11 la sua freddezza scientifica. La interrogava destramente,12 s’ingegnava di coglierla alla sprovveduta13 per sorprendere i sintomi nella loro schietta spontaneità;

1. Claudio Bernard: il medico e scrittore Claude Bernard (1813-78), fondatore del «metodo sperimentale» applicato alla medicina. 2. Wirchoff: Rudolf Virchow (1821-1902), biologo tedesco; fondamentali i suoi contributi allo studio delle cellule. Era di orientamento materialistico. 3. Molescott: Jakob Moleschott, fisiologo olandese (1822-93), di orientamento materialistico; a suo giudizio il pensiero e le atti-

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vità spirituali sono prodotti dell’organismo. 4. Hegel: il grande filosofo tedesco dell’Idealismo (1770-1831). 5. Spencer: uno dei maggiori filosofi positivisti (1820-1903). 6. De Meis: Camillo De Meis (1817-91), medico e filosofo, che tendeva a conciliare Positivismo e Idealismo hegeliano. Capuana lo considerava suo maestro. 7. eredità naturale: la legge, uno dei fondamenti del Positivismo, che affermava

come certi caratteri e certe anomalie si trasmettano per via ereditaria. 8. si confessava: si confidava, quasi come si fa con il sacerdote confessore. 9. della buccia: dell’apparenza esterna. 10. un sintomo... Andrea: come se, cioè, il dottore potesse soppiantare nell’affetto della donna l’amante di lei, Andrea. 11. rimpetto a lei: verso di lei, rispetto a lei. 12. destramente: in modo astuto. 13. alla sprovveduta: senza preavviso.

emergono i sintomi del disagio psichico della protagonista

la gelosia è divenuta per lei una sorta di ossessione nevrotica; la trascinerà alla fine nella follia

s’interessava alla evoluzione lenta e misteriosa con cui quel bel caso14 lo procedeva verso uno scioglimento certamente terribile, secondo gli15 pareva potesse indursi 25 dalle premesse; ma arrestavasi16 lì. Il suo cuore di giovane e di poeta non dava segni di vita; la donna non lo tentava. Lo scienziato non voleva perdere, innamorandosi della Giacinta, il benefizio17 di un’osservazione così importante, così difficile a capitare un’altra volta; e si dominava e s’infrenava18 con padronanza tutta sua. Una sera la Giacinta pareva allegrissima. La sua allegria scoppiettava in frasi vibra- 30 te frizzanti che producevano una grande ilarità nella piccola cerchia di persone attorno a lei. Il dottor Follini la osservava, raccolto in un canto,19 senza esser veduto. Però quando ella si accorse di quelle pupille quasi severe che le stavano addosso, si sentì impacciata in tutti i suoi movimenti. Sforzossi a20 continuare ma la sua lingua 35 era legata, la sua mente si distraeva, i suoi pensieri diventavano incoerenti. Poco dopo si levò da sedere e, scambiate alcune parole con due o tre persone venutele incontro, si accostò al dottore. – Soffre? – le chiese il Follini, stringendole la mano. – Quando si soffre non si ride – rispose la Giacinta evidentemente stizzita di ve- 40 dersi letta così bene in fondo al cuore. – Contessa, ella dimentica che chi le parla sia un medico – ripigliò il Follini con dolcezza. – Ha ragione – disse la Giacinta. – Ma, Dio mio! che gliene importa? Perché mi 45 guarda a quel modo? – La studio. – Mi fa più male. E siccome il dottore si mostrò sorpreso di queste parole: – Mi fa più male – ella replicò. – Venga a vedermi domani. Sono sul punto di 50 prendere una gran malattia; mi aiuti a morir presto! Lo attendo: non manchi. Lo lasciò confuso, impensierito, e tornò ad essere allegra come prima. – Dunque la cosa è più grave di quel ch’io credevo! – disse il giorno dopo il dottore andato a visitarla verso le due pomeridiane. – Forse no, – rispose la Giacinta. – Forse è una mia esagerazione. Non so in che modo, ma mi si è fissata qui (e coll’indice toccava la sua fronte nel centro), mi si è 55 fissata un’idea che mi rode la vita. Vi sono dei momenti nei quali mi credo diventata propria matta. Questa idea gira, come un arcolaio;21 m’impedisce di pensare ad altro, mi assorbe, mi succhia il midollo delle ossa. Dell’oppio, dottore, dell’oppio!22 Son parecchie notti che non dormo. – Il medico è come il professore, gliel’ho inteso ripetere più volte – disse il dottor 60 Follini, che non cessava di guardarla negli occhi. – Vorrà dunque permettermi delle domande che per un altro sarebbero certamente indiscrete? – Interroghi – rispose la Giacinta. – Non avrò segreti per lei. – Di che si tratta?

14. bel caso: il medico ha individuato nella passione amorosa di Giacinta una vera e propria malattia, da studiarsi clinicamente. 15. secondo gli: secondo quanto gli. 16. arrestavasi: si fermava.

17. benefizio: vantaggio. 18. s’infrenava: si teneva a freno, non cedeva all’amore. 19. raccolto in un canto: standosene in un angolo, in disparte.

20. Sforzossi a: si sforzò di. 21. un arcolaio: strumento per tessere. 22. dell’oppio: Giacinta chiede al medico di prescriverle degli stupefacenti per aiutarla a prendere sonno.

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Monografia Raccordo

l’attitudine del ricercatore prevale sulle possibili complicazioni sentimentali: così si comporta anche lo scrittore verista

Contesto

Gli scrittori del Verismo

Tra Ottocento e Novecento

è la proporzione tra i sintomi esterni (indagabili dalla fisiologia) e i segreti della vita inconscia (così importanti per il medico e per Capuana)

65 – Di nulla: di sospetti di fantasmi...; ma intravvedo qualcosa di triste! 23 – Ha egli cambiato abitudini? – Sì e no; si sforza di non farmene accorgere, ma ho già scoperto lo sforzo: è stato peggio. – Ma, insomma, quest’uomo è proprio parte della sua vita? 70 – Tutto! – Strano, inconcepibile! – esclamò il dottore abbassando la voce. – Perché? – Mi permette di dirglielo colla mia solita schiettezza? – Altro!24 75 – È un uomo comune, quasi volgare, e... – Mi ama!... Mi ha amato! – lo interruppe vivamente la Giacinta, con due significantissime inflessioni di voce. – Una gran ragione, ne convengo. Però, dopo tutto, ella deve aver sentite delle aspirazioni a qualcosa di più elevato. Ognuno di noi ha un ideale che gli sfugge di80 nanzi. – Oh! la persona amata non è mai qual è, ma quale noi ce la foggiamo.25 Poi le circostanze modificano tutto. A seconda di esse, le piccole qualità possono valere più delle grandi: gli stessi difetti diventare un gran merito. Il maggior predominio dell’Andrea sul mio cuore proviene, me ne sono accorta da poco, dalla sua debolezza. Gli ho immolato tutto. Ormai la mia vita non può avere altro pernio.26 Il disin- 85 ganno mi ucciderebbe; già mi sento ferita. Dall’intonazione della voce, da certe sfumature di reticenze, da tutti i movimenti della persona, il dottore capì che la contessa manifestava appena un terzo della realtà del suo stato; e rimase indeciso sul consiglio da dare. 90 – Vi è un sol rimedio: viaggi27 – egli disse, dopo una breve riflessione. – Mi faccia dormire, non le domando altro! – rispose la Giacinta che aveva le lagrime agli occhi. Il Follini cavò di tasca il portafoglio, scrisse silenziosamente la sua ricetta, e posandola sul tavolo: – Un cucchiaio ogni sera – le disse – prima di mettersi a letto.

L. Capuana, Giacinta, Brigola, Milano 1879

23. Ha egli cambiato abitudini?: si riferisce ad Andrea, l’amante di Giacinta, di cui la donna è diventata ossessivamente gelosa.

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24. Altro!: altro che, certamente. 25. foggiamo: costruiamo mentalmente, immaginiamo. 26. pernio: centro, scopo.

27. viaggi: nell’Ottocento era assai frequente l’idea che viaggiare fosse l’occupazione più utile per guarire, o per diminuire, i pensieri ossessivi, le depressioni ecc.

■ L’aspetto su cui maggiormente si concentra l’attenzione di Capuana è il mondo psicologico di Giacinta, la sua realtà mentale. Il narratore cerca d’illuminare le zone oscure della psiche (l’inconscio, direbbe Freud) che rimangono però nascoste per «due terzi». La vera originalità del libro non consiste dunque nella storia narrata, quanto nel metodo utilizzato per narrare: un metodo simile a quello investigativo dello scienziato che, attraverso certi indizi, esamina con rigore (quasi con il bisturi del medico patologo) gesti, parole, azioni della protagonista. ■ Giacinta è descritta come una donna apparentemente piena di vita (Una sera la Giacinta pareva allegrissima. La sua allegria scoppiettava...) che però soffre di una segreta, profonda ossessione (Questa idea gira, come un arcolaio; m’impedisce di pensare ad altro, mi assorbe, mi succhia il midollo delle ossa). In certi momenti non è ben padrona di se stessa (la sua lingua era legata, la sua mente si distraeva, i suoi pensieri diventavano incoerenti); perciò, più avanti chiede dell’oppio. Ella si rende conto del proprio stato, chiede l’aiuto del medico; ma intuiamo che il rovello della gelosia, questa ossessione che la dilania, non la abbandonerà più, fino alla morte (lo scioglimento certamente terribile intuito dal medico alla r. 25). ■ L’osservatore privilegiato del caso di Giacinta è il dottor Follini, un medico cui l’autore affida il compito di «studiare» da vicino le vicende mentali della donna. Sembra quasi che il romanziere abbia voluto creare, con questo personaggio, una sorta di proprio alter ego. Il «punto di vista» del medico è infatti il medesimo di Capuana: • vale anche per lui quanto si dice del dottor Follini, che cioè a suo avviso i nervi, il sangue, le fibre, le cellule non spiegavano tutto nell’individuo; • e anche Capuana non credeva all’anima immortale; però credeva all’anima ed anche allo spirito, ovvero a qualcosa che assomiglia molto a quello che, più tardi, Freud definirà l’«inconscio». Dunque le scelte «filosofiche» del dottor Follini collimano perfettamente con quelle di Capuana. ■ Il racconto procede a opera di un «narratore onnisciente», che osserva da fuori i fatti e, insieme, li commenta (per esempio alla r. 20: Nulla di più falso di questi sospetti; e alla r. 88: il dottore capì che la contessa manifestava appena un terzo della realtà del suo stato). Dunque siamo a rigore già fuori dal canone dell’impersonalità, che richiederebbe l’eclissi dell’autore (sul tipo di quella realizzata da Verga nei Malavoglia). Ma è appunto il personaggio del dottor Follini che consente all’autore di realizzare l’impersonalità, di farsi cioè in disparte, uscendo dalle vicende narrate, lasciando però in scena qualcuno che costituisce il suo perfetto sostituto.

LAVORIAMO SUL TESTO 1. In che senso Giacinta rappresenta, per il medico, un caso di patologia morale? 2. Perché egli si dedica a tale caso? Che cosa vuole ottenere? 3. Qual è l’ossessione di cui soffre Giacinta? Cerca nel testo la risposta e poi commentala in breve. 4. L’autore qualifica il personaggio del dottor Follini come un medico, filosofo. Compila la seguente tabella. affermazioni scientifiche del medico

elementi «filosofici» (riflessioni, interpretazione della realtà)

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..................................................

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..................................................

...............................................

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..................................................

5. Individua nel testo tutte le riflessioni e i commenti del dottor Follini che a tuo avviso si possono definire riflessioni e commenti dell’autore. 6. Spiega nel loro contesto le seguenti espressioni. • credeva all’anima ed anche allo spirito ............................... .................................................................................................... ................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... • pel suo gran lavoro sull’uomo .............................................. .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... • stizzita di vedersi letta così bene in fondo al cuore ........... .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... • Questa idea gira, come un arcolaio .................................... .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... 95

Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Gli scrittori del Verismo

L’AUTORE

FEDERICO DE ROBERTO ◗ Nato a Napoli nel 1861, De Roberto si trasferì nel 1870 con la madre vedova a Catania, città che non abbandonò più, a eccezione di un decennio (1888-97) di permanenza a Firenze e Milano. In quest’ultima città strinse amicizia con Capuana e soprattutto con Verga, grazie al quale, a Milano, entrò nel novero dei collaboratori del «Corriere della Sera». ◗ I suoi esordi di narratore avvennero all’insegna del Verismo, alla cui poetica continuò a fare riferimento nel corso della sua lunga attività di scrittore. Nel decennio milanese De Roberto pubblicò numerose raccolte di racconti, tra le quali Documenti umani (1888), L’albero della scienza (1890), Processi verbali (1890); pubblicò inoltre il romanzo L’illusione (1891), il primo dedicato dallo scrittore al ciclo della famiglia Uzeda; seguiranno I Viceré (1894), considerato il suo capolavoro, e quindi L’imperio (pubblicato postumo nel 1929).

L’OPERA

I VICERÉ ◗ L’ampio romanzo offre un racconto realmente «corale»: tra i numerosi personaggi, non è possibile individuare un protagonista unico, benché tutta la parte finale converga intorno alla figura di Consalvo. Protagonista della vicenda, che s’inquadra tra il 1850 circa e il 1882, è la grande e ramificata famiglia degli Uzeda di Francalanza, che furono viceré di Sicilia al tempo di Carlo V (Carlo II di Spagna, 1661-1700). La trama non si sviluppa in modo lineare, ma è il risultato di un intreccio vasto e complesso di eventi e di personaggi. L’autore può così delineare una ricca galleria di caratteri e di restituire dal vivo l’idea di un ambiente sociale, quello dell’aristocrazia catanese dopo l’Unità d’Italia. ◗ La trama si avvia dalla morte della dispotica principessa Teresa Uzeda di Francalanza: tutta la città, che dal contesto si arguisce essere Catania, partecipa alla fastosa cerimonia funebre. Intorno al testamento della nobildonna si accendono le interminabili liti dei figli e dei parenti, tutti indistintamente acco-

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◗ De Roberto approfondì inoltre la filosofia del Positivismo in numerosi saggi, sia di argomento letterario (Leopardi, 1898; L’arte, 1901), sia dedicati, con taglio prevalentemente scientifico, alle problematiche dell’amore: La morte dell’amore (1892), L’amore. Fisiologia. Psicologia. Morale (1895) e altri. ◗ Allo scoppio della Prima guerra mondiale De Roberto fu un acceso interventista (come mostrano gli articoli raccolti in Al rombo del cannone, 1919), salvo poi pentirsi della scelta e rivedere le proprie tesi nel racconto La paura, del 1921, in cui fornì una rappresentazione tragicamente realistica della vita in trincea. Nel 1920 uscirono altri due volumi di racconti: La “cocotte” e Ironie. ◗ De Roberto morì a Catania nel 1927. Postumo uscì il volume di scritti critici da lui affettuosamente dedicati all’amico Verga, dal titolo Casa Verga e altri saggi verghiani (1964).

munati da cinismo, affarismo, mancanza di principi morali. In lotta fra loro sono anzitutto il principe Giacomo e suo fratello minore, il conte Raimondo, tra i quali la principessa defunta, contro la tradizione, ha diviso in parti uguali l’eredità dei beni di famiglia. Ma nel complesso gioco per il potere intervengono anche il fratello Lodovico, secondogenito e quindi condannato alla carriera ecclesiastica, e i loro zii, ovvero Gaspare, il potente duca d’Oragua, deputato al parlamento, il monaco don Blasco e la loro sorella, donna Ferdinanda. Il tratto che unifica le azioni dei vari personaggi è l’avidità: il monaco don Blasco non esita ad assicurarsi i beni dei conventi, non appena questi ultimi vengono soppressi dal governo sabaudo; altri Uzeda, da Gaspare al più giovane principino Consalvo, figlio di Giacomo, s’impegnano con ogni mezzo, compresa la corruzione, per farsi eleggere al parlamento italiano e conservare così i privilegi della famiglia.

Gli scrittori del Verismo

Un parto mostruoso e un’elezione al parlamento I Viceré, parte I, capitolo IX Anno: 1894 Temi: • la corruzione di una stirpe familiare • l’inettitudine dei nobili • la politica come strumento per difendere i propri interessi Siamo circa a metà del romanzo. Il duca di Oragua, zio degli Uzeda, durante la spedizione dei Mille aveva acquistato grande popolarità e la fama di amico del popolo. Era una fama usurpata, perché il personaggio era, e rimane, un convinto reazionario e filoborbonico. Contando però su questa popolarità, Gaspare d’Oragua riesce, alle prime elezioni dell’Italia unita (1861), a farsi eleggere deputato nel nuovo parlamento, presentandosi come candidato tra le file dei liberali. Contemporaneamente sua nipote Chiara sta finalmente per dare alla luce il figlio tanto desiderato.

il povero feto non ha un aspetto umano; è un essere mostruoso, frutto dei matrimoni tra consanguinei

Il giorno dell’elezione era vicino; i due Giulente, ma più specialmente Benedetto,1 avevano scovato gli elettori, compiuto tutte le formalità dell’iscrizione; mattina e sera veniva gente a trovare il duca per dichiarargli che avrebbero votato per lui: i Giulente non mancavano mai. La vigilia della votazione, mentre appunto il candidato dava udienza ai suoi fautori, il cameriere del Marchese2 venne di corsa a chiamare il 5 principe3 e la principessa, perché Chiara era sul punto di partorire. Quando Giacomo e Margherita arrivarono in casa di lei, trovarono Federico che smaniava come un pazzo, dall’ansietà, non potendo assistere la sofferente, chiamando però a ogni tratto4 la cameriera, la cugina Graziella o una delle tre levatrici che si davano il cambio al letto della partoriente. Il principe restò con lui e la principessa entrò nella camera 10 di Chiara. Nonostante il travaglio del parto, costei aveva un’aria beata, sorrideva tra due contorcimenti,5 raccomandava che rassicurassero suo marito. «Ditegli che non soffro... Va’ tu stessa, Margherita... Ah!... Poveretto... è sulle spine...» Il suo desiderio6 di tanti anni, il suo voto più ardente, era dunque sul punto d’esser conseguito! I dolori s’attutivano, a quest’idea; ella non soffriva quasi più pen- 15 sando all’ambascia7 del marito... Quando la principessa tornò in camera, la levatrice esclamava: «Ci siamo!... Ci siamo!...» «Presenta la testa?»8 domandò la cugina, che reggeva per le ascelle la marchesa in 20 preda all’ultima crisi. «Non so... Coraggio, signora marchesa... Che è?...» A un tratto le levatrici impallidirono, vedendo disperse le speranze di ricchi regali: dall’alvo9 sanguinoso veniva fuori un pezzo di carne informe, una cosa innominabile, un pesce col becco, un uccello spiumato; quel mostro senza sesso aveva un oc25 chio solo, tre specie di zampe, ed era ancor vivo.

1. Benedetto: giovane avvocato progressista; benché sia di ceto borghese e non nobiliare, aspira a sposare una nipote del duca, perciò s’impegna per facilitargli l’elezione. 2. Marchese: Federico. È il marito di Chiara, la nipote del duca.

3. il principe: il principe Giacomo Uzeda, padre di Chiara. È nipote del duca d’Oragua, primogenito ed erede del titolo principesco. 4. a ogni tratto: con frequenza. 5. tra due contorcimenti: fra una contrazione e l’altra.

6. Il suo desiderio: di avere finalmente un figlio. 7. ambascia: angoscia. 8. Presenta la testa?: riferito al feto. 9. dall’alvo: dal ventre di Chiara.

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Contesto

Federico De Roberto

Tra Ottocento e Novecento

«Gesù! Gesù! Gesù!» [...] [Alla madre, quando rinviene, viene fatto credere che si tratti di una bambina nata morta. La mostruosa creatura, nel frattempo, muore. Chiara chiede di vedere la bambina.]

la pazzia di candidarsi tra i liberali; gli Uzeda sono reazionari e borbonici, contrari alle elezioni democratiche e all’Italia unita

ironia e grottesco rivestono questa terribile conclusione

una delle animatissime scene, ricche di dettagliati particolari, che riempiono il romanzo

[...] Arrivarono frattanto gli altri parenti, don Eugenio, donna Ferdinanda, la duchessa Radalì, i cugini del marchese; tutti si condolevano,10 ma auguravano miglior 30 fortuna per la prossima volta.11 Arrivò anche il duca, verso sera, a fare i suoi convenevoli; ma restò poco, poiché i Giulente lo aspettavano giù, per riferirgli le ultime notizie intorno alle disposizioni del collegio:12 Benedetto pareva Garibaldi quando disse a Bixio: «Nino, domani a Palermo!13...» Il domani14 infatti egli corse su e giù per le sezioni, per le case dei votanti, solleci- 35 tando la formazione dei seggi, interpretando la legge che riusciva nuova a tutti, incitando la gente a deporre nell’urna il nome d’Oragua. Frattanto in casa di Chiara, quasi in segno di protesta contro quell’ultima pazzia del duca, s’erano riuniti tutti gli Uzeda borbonici. [...] In mezzo al cerchio dei parenti stupefatti, fu recato il feto, giallo come di cera, che Ferdinando15 lavò, asciugò e introdusse poi nella boccia do- 40 ve versò lo spirito16 e adattò il tappo. Consalvo,17 con gli occhi spalancati, guardava quel pezzo di grasso diguazzante nello spirito; a un tratto disse a don Lodovico:18 «Zio, non pare la capra del museo?» Al museo dei Benedettini c’era infatti un altro aborto animalesco, un otricciuolo19 45 con le zampe, una vescica sconciamente membrificata; ma il parto di Chiara era più orribile. Don Lodovico non rispose; fatta una breve visita alla sorella, andò via. Anche gli altri a poco a poco se ne andarono, lasciando Chiara sola col marito a guardar soddisfatta quel pezzo anatomico, il prodotto più fresco della razza dei Viceré. Premeva al principe di tornare dallo zio duca e, per fargli cosa grata, prese con sé il 50 figliuolo, quantunque fosse l’ora che il ragazzo doveva tornare al convento. La famiglia era appena arrivata al palazzo, che s’udirono di lontano suoni confusi: battimani, grida, squilli di tromba e colpi di gran cassa. Una dimostrazione di cittadini d’ogni classe con bandiere e musica, capitanata dai Giulente, veniva ad acclamare il primo deputato del collegio, l’insigne patriotta. Il portinaio, vedendo arrivare quella 55 turba vociferante, fece per chiudere il portone; ma Baldassarre,20 mandato giù dal duca, gli ingiunse di lasciarlo spalancato. La folla gridava: «Viva il duca di Oragua! Viva il nostro deputato!» mentre la banda sonava l’inno di Garibaldi e alcuni monelli, animati dalla musica, facevano capriole. I Giulente, il sindaco, altri otto o dieci cittadini più ragguardevoli parlamentavano con Baldassarre, volendo salire a com- 60 plimentare l’eletto del popolo; poiché il duca si trovava su nella Sala Gialla, il maestro di casa ve li accompagnò: Benedetto Giulente, appena entrato, vide Lucrezia21 accanto alla principessa, ancora col cappellino in capo. Il duca, fattosi incontro ai

10. tutti si condolevano: presentavano le condoglianze di rito. 11. la prossima volta: il prossimo parto. 12. del collegio: del collegio elettorale. 13. pareva Garibaldi... a Palermo!: Nino Bixio era il luogotenente di Garibaldi durante la spedizione dei Mille; la frase è detta ovviamente con ironia, tanto è spropositato il paragone.

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14. Il domani: l’indomani. 15. Ferdinando: zio di Chiara e fratello del principe; è un individuo stravagante, che si diletta di scienza e di storia. 16. nella boccia... spirito: nel vaso viene versato l’alcol; la stessa madre ha dato ordine di conservare il mostruoso feto. 17. Consalvo: il giovane figlio del principe; è fratello di Chiara.

18. don Lodovico: fratello del principe, è priore dei Benedettini di Catania. 19. otricciuolo: piccolo otre. 20. Baldassarre: il solerte maggiordomo di casa; in realtà è anche lui un membro, sia pure illegittimo, della famiglia essendo fratellastro del principe. 21. Lucrezia: sorella del principe; Giulente aspira a sposarla.

non sa che dire, è spaventato dalla folla: per lui (e per gli Uzeda) la politica è solo imbroglio e sfruttamento

in realtà le elezioni sono state manipolate, proprio come il patriottismo del neoeletto è tutto e solo di facciata

22. un iettatore: una persona che, nell’immaginario collettivo, «porta iella», sfortuna. 23. discorrere: tenere un discorso. 24. Oracqua: deformazione popolaresca di Oragua.

25. augusto consesso: nobile sede di riunione (il parlamento italiano). 26. il ferito del Volturno: Giulente era stato volontario garibaldino ed era rimasto leggermente ferito al fiume Volturno, du-

rante l’ultima, decisiva battaglia (1-2 ottobre 1860) combattuta dai Mille contro l’esercito borbonico.

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cittadini, strinse la mano a tutti, prodigando ringraziamenti, mentre dalla via veniva il frastuono delle grida e degli applausi, e il principe, visto nel crocchio un iettatore22 65 impallidiva mormorando: «Salute a noi! Salute a noi!» Fu il nuovo eletto, pertanto, quello che presentò Giulente alle nipoti. Il giovane s’inchinò, esclamando raggiante: «Signora principessa, signorina, sono felice e superbo di presentar loro la prima volta i miei omaggi in questo fausto giorno che è di festa per la loro casa come per 70 tutto il paese...» «Viva Oragua!... Fuori il duca!... Viva il deputato!» urlavano giù. E Benedetto, quasi fosse già in casa sua, spalancò il balcone. Allora il duca impallidì peggio del nipote: egli doveva adesso parlare alla folla, aprire finalmente il becco, dire qualcosa. Stringendosi a Benedetto, balbettava: 75 «Che cosa?... Che debbo dire?... Aiutami tu, mi confondo...» «Dica che ringrazia il popolo della lusinghiera dimostrazione... che sente la responsabilità del mandato, ma che consacrerà tutte le sue forze ad adempierlo... animato dalla fiducia, sorretto...» Ma poiché le grida raddoppiavano, egli lo spinse verso il balcone. Appena il deputato apparve, un clamore più alto levossi dalla via formicolante di 80 teste; salutavano coi cappelli, coi fazzoletti, con le bandiere, vociando: «Evviva! Evviva!...» Giallo come un morto, afferrato alla ringhiera con tutte e due le mani, con la vista ottenebrata, immobile in tutta la persona, l’Onorevole cominciò: «Cittadini...» Ma la voce si perdeva nel tumulto vasto e incessante, nel coro assordante degli ap- 85 plausi; l’atteggiamento del deputato non faceva capire che egli volesse discorrere.23 Benedetto alzò un braccio; come per incanto ottenne silenzio. «Cittadini!» cominciò il giovanotto; «in nome di voi tutti, in nome del popolo sovrano, ho comunicato all’illustre patriotta...» «Evviva Oracqua!24... Evviva il duca!...» «la splendida, l’unanime affermazione dell’intero collegio... Alle tante prove 90 d’abnegazione da lui date al paese...» «Evviva! Evviva!...» «il duca d’Oragua aggiunge quest’altra: di obbedire ancora una volta alla volontà del paese e di rappresentarci in quell’augusto consesso25 dove per la prima volta concorreranno i figli...» Ma non poté finire quel periodo. Le acclamazioni, i battimani soffocavano le sue parole; gridavano: «Viva l’unità italiana! Viva Vittorio Emanuele! Viva Oracqua! Viva 95 Garibaldi!...» Altri aggiungevano: «Viva Giulente! Viva il ferito del Volturno!26...» «Lo slancio da cui vi vedo animati,» egli proseguiva, «è la più bella conferma del responso dell’urna... di quell’urna donde ancora una volta esce la libera... la sovrana volontà d’un popolo divenuto padrone di sé... Cittadini! Il 18 febbraio 1861, tra i rappresentanti della nazione risorta noi avremo la somma ventura di veder sedere il 100 duca d’Oragua. Viva il nostro deputato!... Viva l’Italia!...» Uno scroscio finale d’applausi rintronò e la folla cominciò a rimescolarsi. Una seconda volta, con voce strozzata, senza un gesto, senza un moto, il duca aveva cominciato: «Cittadini...» ma giù non udivano, non comprendevano ch’egli fosse per parla105 re. Allora, voltatosi verso le persone che gremivano il balcone, egli disse:

Contesto

Gli scrittori del Verismo

Tra Ottocento e Novecento

cambiano le forme del potere, ma non la sua sostanza

«Volevo aggiungere due parole... ma se ne vanno... Possiamo rientrare...» Sorrideva, traendo liberamente il respiro, come liberato da un incubo, stringendo la mano a tutti, ma più forte a Benedetto, quasi volesse spezzargliela. «Grazie!... Grazie!... Non dimenticherò mai questo giorno...» [...] Quando rientrò, il principe, liberato anche lui dall’incubo della iettatura, rico- 110 minciò a complimentarlo, additandolo come esempio al figliuolo:27 «Vedi? Vedi quanto rispettano lo zio? Come tutto il paese è per lui?» Il ragazzo, stordito un poco dal baccano, domandò: «Che cosa vuol dire deputato?» 115 «Deputati,» spiegò il padre, «sono quelli che fanno le leggi nel Parlamento.» «Non le fa il Re?» «Il Re e i deputati assieme. Il Re può badare a tutto? E vedi lo zio come fa onore alla famiglia? Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!...» F. De Roberto, I Viceré, Garzanti, Milano 1976

27. al figliuolo: il principino Consalvo, destinato anch’egli, come si vedrà nel seguito del romanzo, alla carriera politica.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ L’episodio si compone di due diverse sequenze narrative: • nella prima parte, è narrato il parto mostruoso di Chiara; • nella seconda parte, è descritta l’acclamazione del neoeletto duca d’Oragua. Le due sequenze sono legate da un chiaro filo simbolico. Il feto che è appena venuto alla luce (un pezzo di carne informe, una cosa innominabile, un pesce col becco, rr. 2324) simboleggia la decadenza dell’antica razza nobiliare, che ormai non può che generare mostri. Tuttavia gli Uzeda sono duri a morire: la loro avidità di potere li rende disponibili a ogni trasformismo. Quel parto mostruoso si fa immagine della mostruosità morale della famiglia, del suo cinismo, dell’ossessiva difesa dei propri interessi. ■ Gli Uzeda, antichi «luogotenenti» catanesi di Carlo V, sono il tipico casato nobiliare abituato da sempre a detenere e a gestire il potere come se fosse una prerogativa familiare. L’arrivo dei garibaldini sembrava mettere tutto ciò in discussione: ma è qui che scatta l’innata capacità di conservazione e di autodifesa tipica di una classe abituata al potere. Gaspare Uzeda, un membro della famiglia, passa infatti con disinvoltura dai borbonici alle file liberali; verrà eletto in parlamento, permettendo così alla casata di mantenere intatto il potere. Quando poi, sedici anni dopo, cadrà la Destra storica e si profilerà un nuovo radicale cambiamento, sarà allora il giovane Consalvo, principe ereditario, a passare alle file dei radicali, per sostituire lo zio Gaspare a Roma. Il potere, insomma, muta di mano, ma resta sempre nelle mani degli Uzeda, come esplicita la frase finale (Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!...), rivolta dal principe Giacomo al figlio Consalvo. 100

■ La frase conclusiva ci dà un’eloquente sintesi del significato generale del testo. Vi rintracciamo infatti: • il cinismo di chi è pronto a tutto per conservare il potere; • il senso di superiorità di chi pensa di essere destinato, per natura, a comandare; • la glorificazione di un trasformismo privo di ideali; • infine la coscienza, definitiva e amara, che nulla, in Sicilia, cambierà e meno che mai con il Parlamento. ■ Tutto l’episodio è attraversato da una forte carica d’ironia, che rivela la volontà di commento da parte dell’autore, oltre ogni «impersonalità». La deformazione grottesca giunge, nella scena del parto, a una nota quasi tragica nella descrizione della creatura mostruosa che è nata. Il grottesco di stampo comico domina la scena successiva, quella del discorso del neodeputato Gaspare: • è grottesca la situazione, con la folla che acclama come un salvatore della patria un esponente della stessa famiglia che regnava, odiata da tutti, fino a pochi mesi prima; • è grottesca la figura del neodeputato Gaspare, incapace di dire una sola parola – anzi, di aprire finalmente il becco – senza l’aiuto di Giulente; • grotteschi sono poi i particolari, come l’anonimo iettatore che semina il panico quando si affaccia nella casa degli Uzeda; • grottesca è la conclusione, con la gente giunta per osannare il duca di Oragua che se ne va, senza essersi neppure degnata di ascoltarlo.

1. Chi è il prodotto più fresco della razza dei Viceré? Spiega con le tue parole il commento del narratore. 2. Illustra il significato della frase finale rivolta al giovane Consalvo dal padre (max 5 righe). 3. De Roberto fa un uso «teatrale» dei dialoghi. In che senso? Soffermati su una sequenza a tua scelta. 4. Spicca nel testo l’andamento rapido e concitato di certe scene: di quali, in particolare? 5. Il narratore riesce a delineare in pochi tratti il carattere dei personaggi: • qualcuno è deciso e intraprendente;

• qualcun altro è imbarazzato fino al mutismo; • un altro è scaltro e pragmatico; • un altro è folle nella sua noncuranza. Attribuisci ciascun carattere a ogni personaggio: a. Chiara, b. Giulente, c. Gaspare, d. il principe Giacomo. 6. De Roberto dipinge con efficacia la volubilità della folla, incapace di farsi un esatto giudizio sugli eventi. Dove e come, nel brano, traspare questo elemento? 7. Sottolinea i passaggi, le frasi, gli aggettivi da cui emerge con maggiore vigore l’ironia di De Roberto. 8. Quale concezione della politica traspare dall’episodio? Rispondi facendo riferimento al testo (max 15 righe).

La parola al critico I Viceré e il volto mutevole del potere Il critico Vittorio Spinazzola (1934) mette a fuoco uno dei grandi temi del romanzo, ovvero la sete di potere che si annida nella razza dei «Viceré» e la loro opportunistica abilità nello sfruttare le circostanze mutevoli, pur di continuare a esercitare il dominio. [La sete di potere dei «Viceré»] li porterà naturalmente ad inserirsi nel nuovo assetto che loro Catania, la Sicilia, l’Italia si sono date con il moto risorgimentale. Poiché mutano i termini della lotta, muta la situazione, ma gli obiettivi della stirpe predace non mutano, il sangue dei «Viceré» non si smentisce: la sete di dominio continua a reggerne tutte le azioni – e l’anonima gente della strada continua a riconoscere questa loro vocazione al comando. Così, quando nel 1859 occorrerà eleggere i deputati al primo parlamento italiano, saranno i popolani ad insistere per la candidatura del duca di Oragua, l’opportunista fattosi liberale per interesse e per calcolo; e, per convincerlo, il sarto Bellia, «dei Figli della nazione», dirà: «Duca, l’operaio vuole a Vostra Eccellenza... Ci sono tanti che brigano il voto, ma noi non ci abbiamo fiducia. Vogliamo un buon patriota e un signore come Vostra Eccellenza». Simbolica appare dunque la tripartizione del romanzo: la cui prima parte ha termine con la caduta del regno delle Due Sicilie e l’elezione a deputato di don Gaspare, che ha investito nella rivoluzione i propri quattrini contando di farli rendere al mille per cento; la seconda si chiude con la presa di Roma e la conversione al liberalismo di don Blasco, il monaco benedettino, borbonico e papalino arrabbiato, che ha ricomprati i beni del soppresso convento cui apparteneva e nel nuovo stato vede ora la garanzia di poter continuare a godere della raggiunta ricchezza; la terza con le prime elezioni a suffragio allargato, nelle quali trionfa Consalvo, un altro Uzeda, guidato stavolta non dalla meschina avidità materiale, sibbene da più ambiziose aspirazioni di dominio: egli abbraccia completamente i nuovi princìpi, ma solo per trarne il più ampio profitto, uscendo infine dalla ristretta cerchia familiare e cittadina e affacciandosi sulla più vasta scena nazionale. Se la vecchia generazione viveva per così dire di rendita su un’eredità di grandezza ormai lontana, il rappresentante della nuova – sul quale tutto l’interesse del romanzo viene man mano a concentrarsi – rinverdirà le glorie degli avi, e progettando di sottomettere l’intera nazione vorrà divenire “Viceré” per davvero: tanto può la secolare forza che lo sorregge. V. Spinazzola, Federico De Roberto e il verismo, Feltrinelli, Milano 1961

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LAVORIAMO SUL TESTO

Contesto

Gli scrittori del Verismo

L’AUTRICE

GRAZIA DELEDDA ◗ Grazia Deledda nacque a Nuoro il 27 settembre 1871 da famiglia agiata. Frequentò le classi elementari solo fino alla quarta, mentre i suoi fratelli poterono completare gli studi superiori. Dopo la morte precoce del padre, ancora adolescente seguì in campagna il fratello Andrea, che amministrava il patrimonio familiare. Pur mantenendo forti legami con la natura e con la primordiale società dei pastori sardi, si dedicò a letture appassionate e cominciò a scrivere e a spedire le sue prime novelle ai giornali (Sangue sardo apparve nel luglio 1888 in «L’ultima moda»). Dal 1889 iniziò a collaborare a «La Sardegna» e ad altri periodici sardi. Nel 1890 pubblicò la raccolta di racconti Nell’azzurro, vicini per ispirazione ai modelli della narrativa popolare. ◗ Nel 1892 «Natura ed Arte», la rivista di Angelo De Gubernatis, la coinvolse in un progetto nazionale di studi sul folklore locale: i materiali da lei raccolti apparvero in rivista e poi in volume (Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna, 1895). Sempre nel 1892 uscì il romanzo Fior di Sardegna, ispirato all’opera di Matil-

L’OPERA

CANNE AL VENTO ◗ Il romanzo, pubblicato nel 1913, riassume i temi più tipici della Deledda: l’amara consapevolezza di un destino già segnato; il sacrificio di sé e il senso di colpa che nasce quando ci si scontra con i divieti di antichissimi tabù; il rimorso per il peccato commesso; infine il paesaggio sardo, ritratto come un mondo senza tempo e pervaso di mistero. Il linguaggio e le atmosfere dell’opera appaiono velati di silenzio o di penombra, accendendosi a tratti di segrete inquietudini. ◗ Le tre sorelle Pintor (Ruth, Ester, Noemi), di famiglia nobile, sono ridotte in povertà, con l’unico sostegno del vecchio servitore Efix. Questi è uno strano individuo, che vive in sintonia con le voci segrete della natura, con i defunti e i santi del cielo. Un giorno ritorna tra loro il giovane Giacinto, figlio di Lia, una quarta sorella, più giovane, a suo tempo fuggita sul continente e là poi morta. Efix ha un segreto: per favorire la fuga della ragazza, aveva involontariamente provocato la morte del padre di lei. Ma nessuno conosce questa colpa.

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de Serao e a Storia di una capinera di Giovanni Verga. I successivi romanzi (Anime oneste, 1895, e La via del male, 1896) ebbero prefazioni di Ruggero Bonghi e di Capuana. Man mano la Deledda precisava e approfondiva i suoi temi caratteristici: l’etica patriarcale del mondo sardo e le sue atmosfere ancestrali, fatte di affetti intensi e «selvaggi». Nacquero così altri romanzi (Il tesoro, 1897; Il vecchio della montagna, 1899 ecc.), novelle e poesie. ◗ Nel gennaio 1900 sposò un funzionario ministeriale e si stabilì con lui a Roma, ma non trovò, nella capitale, la vita aristocratica e mondana sognata leggendo i romanzi di D’Annunzio. Visse sempre appartata; uniche eccezioni un viaggio a Parigi nel 1910 e poi il premio Nobel ritirato nel 1926 a Stoccolma. Tra i suoi romanzi ricordiamo Elias Portolu (1903), Cenere (1904), L’edera (1908), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915), L’incendio nell’uliveto (1918), La madre (1920, ripubblicato in inglese nel 1928 con prefazione di D.H. Lawrence). La sua autobiografia romanzata, Cosima, uscì postuma nel 1937. Morì a Roma nell’agosto 1936.

Ora Giacinto sperpera i soldi delle zie e vorrebbe sposare Grixenda, a loro invisa per la bassa condizione sociale. Giacinto trova lavoro alle dogane ma commette un furto, che confessa a Efix. Le vecchie sorelle s’indebitano sempre più per lui. Una, Ruth, muore all’improvviso; le altre due sono costrette a vendere il podere al cugino Predu, che da tempo lo desiderava. Efix spera che ciò preluda al matrimonio tra Predu e Noemi, ma quest’ultima, ostinata, rifiuta. Intanto Giacinto, rimproverato da Efix per il suo comportamento, gli fa capire di conoscere l’antico segreto. Efix abbandona allora la casa e si mantiene mendicando. Quando, tempo dopo, vi fa ritorno, ritrova Giacinto, che lavora come mugnaio e che sposerà Grixenda; anche Noemi, finalmente, accetta le offerte di Predu. Efix è soddisfatto: le anziane padrone non hanno più bisogno di lui e dunque può morire in pace, proprio il giorno delle nozze di Noemi.

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Il pellegrinaggio di Efix tra i mendicanti Canne al vento, capitolo XIV Anno: 1913 Temi: • il pellegrinaggio, la volontà di espiazione • il paesaggio primitivo, l’ascolto della natura • l’immutabile condizione umana La vicenda di Efix, l’anziano servitore di casa Pintor che si macchiò, un giorno, d’un inconfessato delitto, diviene il simbolo di un itinerario di perdizione e poi di salvezza che deve passare attraverso l’ingratitudine e la fuga solitaria dal mondo, prima di approdare a una speranza di finale riscatto. L’episodio che leggiamo raffigura Efix in pellegrinaggio verso il santuario di Nostra Signora del Rimedio. La volontà di espiazione del protagonista s’incontra con il gruppo di pellegrini che gli fanno corona e diviene allegoria sacra della condizione di tutti gli uomini, miseri viandanti che bussano alle porte della grazia di Dio.

il suo volto è atteggiato all’immobile fissità di chi è abituato a «vedere» con lo sguardo interiore

Di là andarono alla Festa dello Spirito Santo. Il cieco1 sapeva bene il tempo d’ogni festa e l’itinerario da seguire ed era lui che guidava il compagno. [...] Appena fuori del paese cominciarono le questioni, perché il cieco, sebbene avesse la bisaccia colma di roba, voleva chiedere l’elemosina ai passanti, mentre Efix osservava: 5 «Perché chiedere, se ce ne abbiamo?2». «E domani? Tu non pensi al domani? E che mendicante sei tu? Si vede che sei nuovo.» Allora Efix s’accorse che non voleva chiedere perché si vergognava, e arrossì della sua vergogna. Il tempo s’era fatto cattivo. Verso sera cominciò a piovere e i due compagni 10 s’avvicinarono a una capanna di pastori; ma dentro non li vollero, e dovettero ripararsi sotto una tettoia di frasche a fianco della mandria. I cani abbaiavano, un velo triste circondava tutta la pianura umida, e la pioggia e il vento smorzavano il fuocherello che Efix tentava di accendere. Il cieco restava impassibile, fermo sotto la sua maschera dolorosa. Seduto – non si 15 coricava mai – con le braccia intorno alle ginocchia, coi grandi denti gialli lucidi al riflesso del fuoco, le palpebre violette abbassate, continuava a raccontare le sue storie. «Tu devi sapere che tredici anni belli e lunghi occorsero per fabbricare la casa del Re Salomone. Era in un bosco chiamato il Libano,3 per le piante alte di cedro che là crescevano. Luogo fresco. E tutta questa casa era fatta di colonne d’oro e d’argento, 20 con le travi di legno forte lavorato, e il pavimento di marmo come nelle chiese; in mezzo alla casa c’era un cortile con una fontana che dava acqua giorno e notte, e i muri erano tutti di pietre fini, segate a pezzi uguali come mattoni. Le ricchezze che c’eran dentro non si possono contare: i piatti erano d’oro, i vasi d’oro, e tutta la casa era ornata di melagrane e di gigli d’oro; anche i collari dei cani eran d’oro e le barda- 25 ture dei cavalli d’argento e le coperte di scarlatto. E venne la Regina di Saba,4 la quale

1. Il cieco: un anziano mendicante, cieco, incontrato da Efix lungo il cammino. 2. ce ne abbiamo?: abbiamo di che sfamarci.

3. il Libano: il Libano non è un bosco, ma un monte; l’imprecisione accresce tuttavia il tono di leggenda sacra, di favola del romanzo.

4. la Regina di Saba: è un personaggio biblico, sovrana di un paese nell’Arabia meridionale; fece visita al re Salomone, ne sperimentò la saggezza e gli lasciò preziosi doni.

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Monografia Raccordo

Grazia Deledda

Contesto

Gli scrittori del Verismo

Tra Ottocento e Novecento

il paesaggio indefinito, primitivo, carico di presagi, che la Deledda predilige

il monologo interiore segue le riflessioni di Efix, che invidia l’insensibilità di questi uomini, mentre lui è tormentato dal rimorso

il fatalismo religioso di Efix sembra rivelare la poetica stessa di Grazia Deledda

aveva sentito raccontare di queste cose fino all’altro capo del mondo, ed era gelosa, perché ricca anche lei, e voleva vedere chi era più ricco. Le donne son curiose...» Uno dei pastori, attirato dai racconti del cieco, s’avvicinò alla tettoia correndo cur30 vo per non bagnarsi. I compagni lo imitarono. 5 Eccitato dal successo il cieco si animò, si sollevò, raccontò la storia di Tamar e delle frittelle. I pastori ridevano, dandosi qualche gomitata sui fianchi: portarono latte, pane, diedero monete al cieco. Ma Efix era triste, e appena furono soli sgridò il compagno per la sua malizia6 e il 35 cattivo esempio. «Tu parli come parlava mia madre», disse il cieco, e si addormentò sotto la pioggia. Alla Festa dello Spirito Santo c’era poca gente ma scelta. Erano ricchi pastori con le mogli grasse e le belle figlie svelte: arrivavano a cavallo, fieri e bruni gli uomini, coi lunghi coltelli infilati alla cintura nelle guaine di cuoio inciso, i giovani alti, coi den- 40 ti e il bianco degli occhi scintillante, agili come beduini: le fanciulle pieghevoli, soavi come le figure bibliche evocate dal cieco. Il tempo era sempre nebbioso, e intorno alla chiesetta, bruna fra le pietre e le macchie della pianura era un silenzio infinito, un odore aspro di boschi. Il correre delle 45 nuvole sul cielo grigio, dava al luogo un aspetto ancora più fantastico. Per tutta la mattina fu uno sbucare di uomini a cavallo, dal sentiero nebbioso; smontavano taciturni, come per un convegno segreto in quel punto lontano del mondo. Ad Efix, seduto col cieco sull’ingresso della chiesa, pareva di sognare. Anche qui non c’erano altri mendicanti, ed egli provava un vago senso di paura quando gli uomini forti e superbi, dalla cui bocca e dalle narici usciva un vapore di 50 vita, gli passavano davanti: un senso di paura e di vergogna, e anche d’invidia. Quelli erano uomini; le loro mani sembravano artigli pronti ad afferrare la fortuna al suo passaggio. Parevano tutti banditi, esseri superiori alla legge: non si pentivano certo delle loro colpe, se ne avevano, non si tormentavano se si erano fatta giustizia da sé, nella vita. Gli pareva che lo guardassero con disdegno, buttandogli la moneta, che si 55 vergognassero di lui come uomo e stessero per rimuoverlo col piede al loro passaggio, come uno straccio sporco. Ma poi guardava lontano: al di là della nebbia gli sembrava cominciasse un altro mondo, e si aprisse la porta di cui parlava il cieco; la grande porta dell’eternità. E si 60 pentiva della sua vergogna. Al suo fianco il compagno continuava a chiedere l’elemosina declamando, o si rivolgeva a lui perché i passanti ascoltassero: «Che facciamo noi in questa vita, di peso ai pietosi che ci danno l’elemosina?». «Che facciamo, fratello caro?» «Ebbene, compagno mio, tutto succede per ordine del Signore: noi siamo stru- 65 menti ed Egli si serve di noi per provare il cuore degli uomini, come il contadino si serve della zappa per smuovere la terra e vedere se è feconda. Cristiani, non guardate in noi due creature povere; più tristi delle foglie cadute, più luride dei lebbrosi; guardate in noi gli strumenti del Signore per smuovere il vostro cuore!»

5. Tamar: personaggio biblico; era la sorellastra di Amnon, figlio primogenito di re David. Amnon, che se ne era innamorato,

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si finse ammalato, chiedendo l’assistenza di lei; Tamar gli portò delle frittelle ed egli riuscì allora a violarla.

6. malizia: il racconto dell’inganno di Amnon contrasta con la morale molto pudica di Efix.

una visione della Sardegna come luogo atavico e incontaminato, ricorrente nelle opere della scrittrice

7. corsetti: i bustini femminili che fasciavano la parte superiore del corpo. Il colore

squillante riflette la passionalità che Efix riconoscerà in queste giovani donne.

8. di luce: cioè della vista. 9. spogliarono: derubarono.

105

Monografia Raccordo

Le monete di rame cadevano davanti a loro come fiori duri e sonanti. C’erano due 70 giovani nuoresi bellissimi che per farsi notare dalle fanciulle cominciarono a buttar soldi al cieco, mirando da lontano al petto, e ridendo ogni volta che colpivano giusto. Poi s’avvicinarono e presero di mira Efix, divertendosi come al bersaglio. Efix trasaliva ad ogni colpo e gli pareva lo lapidassero, ma raccoglieva le monete con una 75 certa avidità, e in ultimo, finito il giuoco, di nuovo si pentì e si vergognò. Intanto le donne preparavano il pranzo. Avevano acceso il fuoco sotto un albero solitario e il fumo si confondeva con la nebbia. La macchia dei loro corsetti7 rossi spiccava fra il grigio più viva della fiamma. Non c’erano né canti, né suoni in questa piccola festa che ad Efix pareva riunione di banditi e di pastori radunatisi là per il 80 desiderio di rivedere le loro donne e di ascoltare la santa messa. A mezzogiorno tutti si riunirono sotto l’albero, intorno al fuoco, e il prete sedette in mezzo a loro. Il tempo si schiariva, un raggio dorato di sole allo zenit filtrava attraverso le nuvole e cadeva dritto sopra l’albero del banchetto: e sotto, i pastori seduti per terra, le donne coi canestri in mano, il sacerdote con una bisaccia gettata sulle spalle a modo di scialle per ripararsi dall’umido, i fanciulli ridenti, i cani che scuote- 85 vano la coda e guardavano fisso negli occhi i loro padroni aspettando l’osso da rosicchiare, tutto ricordava la dolce serenità di una scena biblica. Le donne pietose portavano grandi piatti di carne e di pane ai due mendicanti, e nel sentire il fruscio dei loro passi sull’erba il cieco alzava la voce e raccontava. «Sì, c’era un re che faceva adorare gli alberi e gli animali: e persino il fuoco. Allora 90 Dio, offeso, fece sì che i servi di questo re diventassero tanto cattivi da congiurare fra loro per uccidere il padrone. E così fecero. Sì, egli faceva adorare un Dio tutto d’oro: per questo è rimasto nel mondo tanto amore del denaro, e i parenti, persino, uccidono i parenti per il denaro. Così a me, i miei parenti, vedendomi privo di luce,8 mi 95 spogliarono9 come il vento spoglia l’albero in autunno.» La gente partì presto e i due uomini rimasero un’altra volta soli nella tristezza del luogo deserto. La nebbia si diradava, apparivano profili di boschi neri sull’azzurro pallido dell’orizzonte; poi tutto fu sereno, come se mani invisibili tirassero di qua e di là i veli del mal tempo, e un grande arcobaleno di sette vivi colori e un altro più piccolo e più 100 scialbo s’incurvarono sul paesaggio. La primavera nuorese sorrise allora al povero Efix seduto sulla porta della chiesetta. Grandi ranuncoli gialli, umidi come di rugiada, brillarono nei prati argentei, e le prime stelle apparse al cadere della sera sorrisero ai fiori: il cielo e la terra parevano due specchi che si riflettessero. Un usignuolo cantò sull’albero solitario ancora soffuso di fumo. Tutta la frescura 105 della sera, tutta l’armonia delle lontananze serene, e il sorriso delle stelle ai fiori e il sorriso dei fiori alle stelle, e la letizia fiera dei bei giovani pastori e la passione chiusa delle donne dai corsetti rossi, e tutta la malinconia dei poveri che vivono aspettando l’avanzo della mensa dei ricchi, e i dolori lontani e le speranze di là, e il passato, la patria perduta, l’amore, il delitto, il rimorso, la preghiera, il cantico del pellegrino 110 che va e va e non sa dove passerà la notte ma si sente guidato da Dio, e la solitudine verde del poderetto laggiù, la voce del fiume e degli ontani laggiù, l’odore delle

Contesto

Gli scrittori del Verismo

Tra Ottocento e Novecento

la conclusione del lungo periodo è anche l’ideale conclusione del romanzo: Efix trova un punto d’arrivo e un perché per tutte le cose

euforbie, il riso e il pianto di Grixenda,10 il riso e il pianto di Noemi,11 il riso e il pianto di lui, Efix, il riso e il pianto di tutto il mondo, tremavano e vibravano nelle note dell’usignuolo sopra l’albero solitario che pareva più alto dei monti, con la ci- 115 ma rasente al cielo e la punta dell’ultima foglia ficcata dentro una stella. Ed Efix ricominciò a piangere. Non sapeva perché, ma piangeva. Gli pareva di essere solo nel mondo, con l’usignuolo per compagno. Sentiva ancora le monete dei giovani nuoresi percuotergli il petto e trasaliva tutto 120 come se lo lapidassero; ma era un brivido di gioia, era la voluttà del martirio.12 Il compagno, con le spalle appoggiate alla porta chiusa e le mani intorno alle ginocchia, dormiva e russava. G. Deledda, Canne al vento, in Romanzi e novelle, a cura di N. Sapegno, A. Mondadori, Milano 1972

10. Grixenda: la fidanzata di Giacinto; costui è il figlio di Lia, una delle sorelle Pintor,

nobili discendenti di una famiglia in rovina. 11. Noemi: una delle dame Pintor.

12. la voluttà del martirio: l’intenso desiderio di espiazione.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Efix è un personaggio profondamente simbolico, ideato dall’autrice per rappresentare non solo la tempra antica dei vecchi contadini sardi, saggi e testardi, ma anche e soprattutto la coscienza morale che, macchiatasi di un delitto, anela all’espiazione e alla penitenza liberatrice. Anche le storie bibliche (la casa del Re Salomone, la Regina di Saba ecc.) raccontate dal cieco compagno di Efix si pongono, nella pagina, come costante richiamo a un significato ulteriore, come messaggio di purificazione e di quel sollievo che seguirà l’umiliazione estrema del mendicare. Alla fine, infatti, la pietà giunge sotto la forma di un canto di usignolo (Un usignuolo cantò...), che scuote l’anima di Efix e spazza via ogni triste ombra del passato. ■ I personaggi di Grazia Deledda non sono mai come i «vinti» di Verga, neppure quando si sentono «canne» sbattute dal «vento»: essi si tormentano, soffrono, amano, ma sono anche capaci di trasformare il dolore e la consapevolezza del male compiuto o ricevuto, in un atto di penitenza, in un’occasione di purificazione e di riscatto. Dunque è la purezza la loro essenziale caratteristica, proprio come dimostra la storia di Efix, che sconta passo passo il proprio delitto, finché la sofferenza non diviene per lui il modo consueto di vivere e dare significato all’esistenza. ■ Grazia Deledda s’identifica con i suoi personaggi, in una sorta di «realismo coscienziale», come è stato chiamato. Esso ha ben poco dell’oggettività o impassibilità tipica del Naturalismo. Il viaggio di Efix è intimamente pervaso dalla visione del paesaggio nuorese, una montagna dall’odore aspro di boschi, trasfigurata dallo sguardo febbrile della narratrice: Un velo triste circondava tutta la pianura umida; La primavera nuorese sorrise allora al povero Efix ecc. Notevole, soprattutto, il periodo (nel finale) che comincia con Tutta la 106

frescura della sera, tutta l’armonia delle lontananze serene: è il periodo più lungo del passo antologizzato e, con il suo prolungato polisindeto, le iterazioni e la sapiente interpretazione del pensiero di Efix, è anche uno dei più belli e musicali dell’autrice. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Ricostruisci i vari stati d’animo che il protagonista Efix vive nel brano letto: secondo te subiscono un’evoluzione? E se sì, da quale punto di partenza a quale approdo? 2. Quale ruolo giocano, nel testo, il mendicare e le monete ricevute da Efix e dal suo compagno cieco? 3. Rifletti sulle storie narrate dal cieco rispondendo alle seguenti domande. Di che tipo sono tali storie, a quale contesto si riallacciano? Quale messaggio vogliono esprimere? Che tipo di gradimento suscitano negli ascoltatori? E perché, infine, a un certo punto Efix sgrida il suo compagno? 4. Cerca di definire con non più di tre aggettivi (motivando la tua scelta) il paesaggio in cui la narratrice ambienta le vicende. Quali sensazioni e impressioni esso suscita? 5. Le lacerazioni interiori dell’individuo, l’eredità morale di ancestrali tabù, l’orrore per la colpa commessa, l’intensità emotiva del rispecchiamento nella natura sono i temi di Canne al vento. Ritrova questi elementi nel passo letto e illustrali in una breve relazione di max una facciata di foglio protocollo (1500-2000 battute). 6. Un dialogo di Efix con Ester, nel finale del romanzo, chiarisce il senso del titolo: «Siamo canne, e la sorte è il vento», dice Efix; la vecchia padrona insiste: «Ma perché questa sorte?», e lui risponde: «E il vento perché? Dio lo sa!». Esplicita il significato di queste battute facendo riferimento al brano letto (max 10 righe).

VERIFICA L’età contemporanea

1

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.

1.

Il più importante elemento di vicinanza al vero fu, per i veristi italiani, l’adozione del dialetto. V I veristi italiani avevano alle spalle, come precedente letterario, soltanto Manzoni V e i Promessi sposi. Il primo esempio di «bozzetto» fu fornito V da Verga con Nedda. Il primo esempio di romanzo veristico venne V fornito da De Roberto con L’illusione.

2.

3. 4.

2

dell’impersonalità con quello dell’autore che cerca di offrire un insegnamento ai suoi lettori

2 3 4 5 6 7 8

Remigio Zena Giovanni Verga Federico De Roberto Matilde Serao Grazia Deledda Emilio De Marchi Renato Fucini Luigi Capuana

Rispondi alle seguenti domande.

1.

Spiega l’appellativo di «Viceré» e chiarisci a chi fu attribuito. Quali furono i meriti del Verismo sul piano sociale? (max 5 righe) Quali furono i meriti del Verismo sul piano letterario? (max 10 righe) Riassumi la trama e le problematiche dei Viceré (max 10 righe). Riassumi la trama e le problematiche di Canne al vento (max 10 righe). Il Verismo italiano si affermò con alcune varietà regionali: illustrale con riferimenti ad autori e titoli (max una facciata di foglio protocollo, 1500-2000 battute). Illustra in che cosa consisteva la questione meridionale (max 15 righe).

F

2.

F

3.

F

4.

Collega ciascun autore con il rispettivo romanzo. 1

4 F

a. Demetrio Pianelli b. Canne al vento c. Le veglie di Neri d. Mastro-don Gesualdo e. La bocca del lupo f. I Viceré g. Giacinta h. Il ventre di Napoli

5. 6.

7.

PER L’ESAME DI STATO

3

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte.

1.

1.

Il «bozzetto» è a il genere prediletto dai pittori macchiaioli toscani b un particolare tipo di inchiesta giornalistica, in cui sono denunciate le tristi condizioni del Meridione d’Italia c un particolare tipo di novella ambientata nel Sud d’Italia d un tipo di novella appena tratteggiata nelle sue linee essenziali

2.

2.

Il limite maggiore dei veristi italiani fu a l’essersi fidati dei modelli scientifici propri del Naturalismo francese b l’essersi concentrati in misura quasi esclusiva sulla vita quotidiana della povera gente c l’avere offerto una rappresentazione patetica della vita dei poveri d l’avere offerto una rappresentazione troppo spassionata e oggettiva della vita dei poveri

3.

Rispetto ai naturalisti francesi, Capuana a praticò in maniera ancora più radicale il principio dell’impersonalità b abbandonò di fatto il principio dell’impersonalità c cercò di contemperare il principio dell’impersonalità con le leggi specifiche dell’arte d cercò di contemperare il principio

I due più importanti scrittori del Verismo furono Luigi Capuana e Giovanni Verga: l’uno per il contributo teorico dato alla nuova poetica, l’altro per gli esiti artistici. Documenta l’affermazione in una breve relazione (max una facciata di foglio protocollo). Nella prefazione a una raccolta di novelle del 1890, Processi verbali, lo scrittore Federico De Roberto affermava che «l’impersonalità assoluta non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l’ideale della rappresentazione obiettiva consiste nella scena come si scrive pel teatro. L’avvenimento deve svolgersi da sé, e i personaggi debbono significare essi medesimi, per mezzo delle loro parole e delle loro azioni, ciò che essi sono». De Roberto inoltre precisava che «la parte dello scrittore che voglia sopprimere il proprio intervento deve limitarsi, insomma, a fornire le indicazioni indispensabili all’intelligenza del fatto, a mettere accanto alle trascrizioni delle vive voci dei suoi personaggi quelle che i commediografi chiamano didascalie». Illustra in una relazione questi propositi teorici, alla luce di quanto conosci della poetica del Naturalismo e del Verismo. Cerca di convalidare la tua esposizione con opportune citazioni dai testi. Hai a disposizione due facciate di foglio protocollo (3500-4000 battute). 107

Monografia Tra Ottocento e Novecento

Giovanni Verga

Giovanni Verga

1 La famiglia e la formazione Verga nasce il 31 agosto del 1840 a Catania da una famiglia di nobili origini di Vizzini, un borgo agricolo presso Catania; la sua formazione scolastica viene affidata a un parente, Antonino Abate, poeta e patriota, che è il primo a incoraggiarlo alla letteratura. Tra il 1856 e il 1857, ancora giovanissimo, Verga scrive il suo primo romanzo storico, Amore e Patria (rimasto inedito), intriso di romanticismo e amor di patria. Nel 1858 si iscrive alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Catania, che abbandona nel 1861. Accoglie con entusiasmo l’arrivo di Garibaldi nella sua città; subito dopo si arruola nella Guardia nazionale, prestandovi servizio per quattro anni. Fonda, con alcuni amici, il settimanale politico «Roma degli italiani», dal motto «Volere è potere»; su di esso pubblica alcuni articoli di fervente patriottismo.

2 I romanzi giovanili e il periodo fiorentino Il primo romanzo di Verga pubblicato è I carbonari della montagna, nel 1861-62. Intanto cominciava a uscire a puntate, nelle appendici del periodico fiorentino «La Nuova Europa», un altro romanzo, Sulle lagune. Nel febbraio 1863 muore il padre dello scrittore. Al maggio 1865 risale il suo primo viaggio a Firenze, allora capitale d’Italia; qui Verga compone Una peccatrice (1866), romanzo che non gli procura successo ma lo spinge a frequentare più da vicino i salotti mondani della letteratura e dell’editoria. Nel 1869 si stabilisce a Firenze, dove frequenta l’ambiente letterario della città e in particolare conosce i poeti Giovanni Prati, Aleardo Aleardi, Vittorio Imbriani. Compone due nuovi romanzi: Storia di una capinera (1871), che riscuote un notevole successo, ed Eva (poi rivisto a Milano). Si lega intanto d’amicizia con Luigi Capuana, teorico del Verismo e critico teatrale della «Nazione», e s’innamora di Giselda Fojanesi, con la quale compie il viaggio di ritorno in Sicilia narrato, dieci anni dopo, nella novella Fantasticheria.

3 Il periodo milanese Un significativo cambiamento nella vita di Verga avviene nel 1872, quando lo scrittore si trasferisce a Milano per circa un quindicennio (pur con brevi soggiorni in Sicilia) e l’amico siciliano Salvatore Farina lo introduce nei salotti letterari più importanti della città, tra cui quello della contessa Maffei. Verga incontra abitualmente gli scrittori «scapigliati» Arrigo Boito ed Emilio Praga; al caffè Cova frequenta l’editore Treves, lo scrittore Giuseppe Giacosa, infine l’amico Felice Cameroni, con cui tiene una fitta corrispondenza su problemi di teoria letteraria. Nel 1873 Treves pubblica Eva e negli anni a seguire escono altri due nuovi romanzi d’ambiente mondano, Eros (1874) e Tigre reale (1875).

4 La «conversione» letteraria al Verismo Nel 1874 Verga scrive in soli tre giorni Nedda: una novella, anzi un «bozzetto siciliano», di natura completamente diversa dalle opere precedenti, perché ambientata nella natia Sicilia e perché tesa a rivelare la povertà di vita della sua gente. Si avvia in tal modo la «conversione» di Verga al Verismo. Pochi mesi dopo, tornato a Catania per l’abituale soggiorno estivo, comincia a ideare il «bozzetto marinaresco» (racconto di vita di mare) Padron ‘Ntoni, che si amplierà via via fino a divenire il romanzo I Malavoglia. Nel 1878 (anno in cui muore a Catania l’amatissima madre) esce sul settimanale politicoletterario «Fanfulla della Domenica» il racconto Rosso Malpelo. Nel 1880 escono in volume le novelle veriste di Vita dei campi, già apparse in vari periodici. Verga 109

Monografia Raccordo

Contesto

La vita

Tra Ottocento e Novecento

lavora intanto ai Malavoglia, di cui invia a Treves i primi capitoli; il libro esce nel 1881, ma senza successo. Inizia in questi mesi l’amicizia con Federico De Roberto; intanto Verga comincia la stesura di un nuovo romanzo, Mastro-don Gesualdo, seconda opera del progettato «ciclo dei Vinti». Tra il 1882 e il 1883 escono a stampa il romanzo Il marito di Elena, ultima opera dell’antica maniera «mondana», e altri due volumi di racconti veristi: le Novelle rusticane e Per le vie, quest’ultimo ambientato tra le case e le vie della Milano popolare. Nel maggio 1883, in Francia, Verga incontra Émile Zola. Nel 1884 esordisce con successo sulle scene teatrali come drammaturgo: al Teatro Carignano di Torino viene applaudito il dramma Cavalleria rusticana, ricavato da una precedente novella; l’anno successivo, invece, al Teatro Manzoni di Milano il dramma In portineria è accolto freddamente. Verga ne rimane deluso, e il contraccolpo psicologico è aggravato da difficoltà finanziarie e familiari. Dal 1886 comincia a trascorrere lunghi periodi a Roma. Nel 1888 esce a puntate sulla rivista letteraria «Nuova Antologia» il Mastro-don Gesualdo, che poi fu profondamente revisionato e pubblicato in volume da Treves nel 1889; è il suo ultimo capolavoro.

5 Il ritorno in Sicilia e gli ultimi anni Nel 1893 Verga rientra stabilmente a Catania. Le ultime raccolte di novelle pubblicate sono: Vagabondaggio (1887), I ricordi del capitano d’Arce (1891), Don Candeloro e C.i (1894). Nel 1896 al Teatro Gerbino di Torino è rappresentata con successo La Lupa. Verga si mette a lavorare alla Duchessa di Leyra, terzo romanzo del «ciclo dei Vinti», ma – nonostante gli affettuosi incoraggiamenti dell’amico De Roberto – non scrive più del primo capitolo. Nel 1901 vengono allestiti (in contemporanea a Milano e Torino) i due atti unici, o «bozzetti», Caccia al lupo e Caccia alla volpe, sul tema dell’adulterio. Nel 1903 va in scena il dramma Dal tuo al mio, riscritto poi in forma di romanzo (stampato nel 1906). Dalle ultime opere emerge il profilo di uno scrittore ormai isolato, dedito quasi solo alla cura delle terre di famiglia e alla tutela dei figli del fratello. Il distacco dagli ambienti letterari è definitivo: Verga era consapevole di avere ormai dato il meglio di sé. Gli ultimi riconoscimenti sono del 1920, grazie alla nomina (patrocinata da Benedetto Croce) a senatore del Regno d’Italia e grazie all’intenso discorso pronunciato da Luigi Pirandello al Teatro Massimo di Catania per il suo ottantesimo compleanno. Muore a Catania il 27 gennaio 1922.

1840-65



Le fasi della vita di Verga CATANIA

◗ formazione letteraria ◗ entusiasmi patriottici

1865 -69



◗ frequenta i salotti letterari

FIRENZE

◗ opere mondane: Storia di una capinera

dal 1872



◗ amicizia con Capuana

MILANO e soggiorni a ROMA

◗ frequenta gli scrittori scapigliati ◗ inaugura la poetica del Verismo: Nedda ◗ scrive le novelle veriste e I Malavoglia



◗ opere teatrali

dopo il 1893

CATANIA

◗ stanca ripresa del Verismo ◗ silenzio letterario

110

Giovanni Verga

1 La formazione di Verga in un clima patriottico e tardoromantico Quando Verga nacque, nel 1840, l’Italia e l’Europa stavano vivendo un’epoca di profonde trasformazioni politiche e sociali. In Italia, in particolare, sentimenti patriottici uniti al malcontento sociale avrebbero portato, di lì a poco, alle guerre d’indipendenza nazionale. La Sicilia in cui Verga nacque e trascorse gli anni della giovinezza e della formazione culturale era ancora soggetta al dominio borbonico, ma la famiglia dello scrittore, che era proprietaria di case e terreni e apparteneva alla nobiltà catanese, era d’ispirazione e tradizione liberali. Lo stesso Federico De Roberto, lo scrittore verista amico di Verga, ricordò che in quella famiglia «era sempre viva la memoria del nonno paterno, liberale, carbonaro, e deputato per la nativa Vizzini al primo Parlamento siciliano del 1812», e che uno zio materno, Carmelo Di Mauro, aveva partecipato alla rivoluzione del 1848. Il giovane Verga non solo crebbe in quel clima ma fu anche discepolo, come si è detto, di Antonino Abate, maestro, più che di grammatica, di un fervente patriottismo, tanto che mostrava con orgoglio agli allievi la ferita riportata durante i moti del 1848.

2 I romanzi dell’esordio I sentimenti patriottici con cui Verga era cresciuto emersero nel suo primo romanzo storico, Amore e Patria, scritto a soli sedici anni (e rimasto inedito), espressione di un’anima appassionata e ancora immatura. Il lungo racconto storico s’impernia sui temi romantici in voga a quel tempo: l’amore, la morte, la patria; trama e personaggi ricordano i romanzi d’avventure che si stampavano allora in «appendice» ai quotidiani. I miti risorgimentali dell’Unità d’Italia ispirarono i due successivi romanzi giovanili: • I carbonari della montagna, scritto al tempo della seconda guerra d’indipendenza (1859-60) e stampato nel 1862 a spese dell’autore: l’opera ci riporta all’inizio dell’Ottocento, al tempo delle lotte in Calabria tra giacobini e controrivoluzionari, e procede tra colpi di scena, passioni e sventure; • Sulle lagune (1863), ambientato a Venezia al tempo del Risorgimento e delle lotte con l’Austria; il suo epilogo è molto suggestivo: i due amanti scompaiono su una barca all’orizzonte, nelle nebbie delle lagune, non sapremo mai se vittime della polizia austriaca o profughi felici. L’amore e la patria sono i due temi fondamentali di questi primi romanzi giovanili, vicini – dal punto di vista dei contenuti – al primo Romanticismo, quello più vicino all’esempio foscoliano (in particolare alle Ultime lettere di Jacopo Ortis) e all’ideologia patriottico-risorgimentale.

3 Amori tormentati e sperimentazione narrativa Il tema amoroso diventa centrale nelle opere successive, i cinque romanzi «mondani» di Verga (Una peccatrice, Storia di una capinera, Eva, Eros, Tigre reale) scritti a Firenze e Milano tra il 1866 e il 1875. È evidente, in essi, il tentativo di rispondere alle attese del pubblico della media e alta borghesia (cioè, per quell’epoca, il pubblico più numeroso e in grado di determinare il successo di un autore) con racconti sentimentali, ispirati alla moda tardoromantica. Le trame celebrano amori tormentati, passioni trasgressive, desideri frustrati di evasione e di grandezza; lo stile appare spesso sovraccarico e artificioso. Per esempio, in Una peccatrice (1866) il giovane commediografo Pietro Brusio riesce, grazie al suo 111

Monografia Raccordo

Contesto

L’apprendistato del romanziere

Tra Ottocento e Novecento

successo artistico, a farsi notare da una donna (la contessa Narcisa) fino a quel momento vanamente desiderata; ottenuto il suo amore, però, se ne stanca presto, fino a che lei non si suicida, mentre l’artista rimane in un’arida solitudine. Per la prima volta, in questo romanzo, Verga abbandonò la tematica risorgimentale per tentare la difficile via del romanzo psicologico moderno, con un proposito di realismo, di scrupolo documentario: «Dal canto mio – si legge nell’introduzione – non ho fatto che coordinare i fatti, cambiando i nomi qualche volta...». Il primo successo di Verga fu Storia di una capinera (1871), dove l’amore descritto è quello nutrito segretamente da una giovane novizia, Maria, destinata al monastero, verso lo sposo della sorellastra, un giovane uomo con il quale in passato la protagonista aveva avuto una relazione; anche questa passione condurrà alla follia e alla morte. Sul piano strutturale, il narratore tenta la via, per lui inconsueta, del romanzo epistolare: il racconto si sviluppa attraverso le lettere che Maria scambia con una sua compagna. Eva (1873) affronta ancora la relazione tra amore e arte, sensualità e scrupoli psicologici; protagonisti sono un pittore, Enrico Lanti, e la ballerina Eva: il sogno romantico del loro amore si scontra con la brutale realtà quotidiana, e il finale sarà tragico. Anche in Eva Verga sperimenta nuove strutture narrative: l’intero racconto, infatti, procede come una confessione autobiografica del protagonista.

4 Due romanzi «mondani»: Eros e Tigre reale Ambientati nel bel mondo dell’alta borghesia (diverso dunque da quello della Scapigliatura da cui proveniva Enrico Lanti) sono i due successivi romanzi verghiani, Eros e Tigre reale, pubblicati il primo nel 1874 e il secondo nel 1875 ed entrambi legati al periodo milanese di Verga e alle sue avventure amorose. Sono le due opere più tipiche della fase «mondana» dello scrittore: i due protagonisti cercano in ogni modo di conquistare il lussuoso mondo borghese che li circonda; accanto a loro compare la figura della «donna fatale», che di quel mondo è l’espressione più affascinante e peccaminosa. Il motore delle due narrazioni è sempre l’amore (l’eros), trattato qui con sfumature complesse che denotano un atteggiamento più maturo da parte dello scrittore. Soprattutto in Eros la narrazione, condotta questa volta tutta in terza persona, raggiunge un alto livello di «oggettività» e distacco: non è lontana l’adozione dell’«impersonalità» propria del Naturalismo. Siamo così giunti alla conclusione dell’apprendistato del romanziere e della sua fase pre-verista (cioè precedente al Verismo): Verga era pronto a nuove e più significative esperienze letterarie.

Verga pre-verista ROMANZI

TEMI

STILE





“ ◗ linguaggio sovraccarico e artificioso

◗ Amore e Patria, inedito ◗ I carbonari della montagna, 1862 ◗ Sulle lagune, 1863 ◗ Una peccatrice, 1866 ◗ Storia di una capinera, 1871 ◗ Eva, 1873 ◗ Eros, 1874 ◗ Tigre reale, 1875

112

◗ patriottismo giovanile ◗ amori romantici ◗ poi: amori tormentati, passioni sregolate ◗ frustrazione, solitudine ◗ ambientazione nell’alta borghesia

◗ primi tentativi, molto incerti, di realismo ◗ sperimentazioni narrative • Una peccatrice: romanzo psicologico • Storia di una capinera: romanzo epistolare • Eva: autobiografismo • Eros: distacco del narratore

Giovanni Verga

1 La «conversione» al Verismo: Nedda La cosiddetta conversione di Verga al Verismo risale al 1874, l’anno in cui pubblicò su un periodico milanese la novella Nedda: un «bozzetto siciliano», cioè un racconto che ritraeva una situazione, un destino, prima che una vicenda. Protagonista è un’umile raccoglitrice di olive, Bastianedda detta Nedda «la varannisa» perché viene da Viagrande: una «povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana». Lo scrittore cercava un’adesione anche linguistica al suo ambiente di vita e di lavoro. Nel racconto si leggono espressioni modellate su una sintassi dialettale: «A te non ti fanno nulla tre o quattro soldi, non ti fanno». Una patina sicilianeggiante colora anche il lessico e sembra portare per la prima volta, nelle pagine di Verga, l’architettura della sintassi dialettale. Si avviava così la «conversione» di Verga al Verismo, influenzata dalle letture dei naturalisti francesi e dagli scambi intellettuali con gli amici letterati Luigi Capuana e Felice Cameroni. Tale evoluzione era in parte già visibile nella condizione di scontentezza in cui finiscono i personaggi degli ultimi romanzi mondani: in Tigre reale, per esempio, il protagonista cercava rifugio nel «ritorno» alla provincia natia, dopo le avventure erotico-mondane nella città borghese.

2 I racconti di Vita dei campi Dopo le novelle pubblicate nell’autunno del 1876 con il titolo di Primavera e altri racconti, ancora oscillanti tra il vecchio e il nuovo stile, Verga iniziò a coltivare il filone siciliano e «primitivo» sperimentato in Nedda. Compose i racconti che confluiranno nella raccolta Vita dei campi e contemporaneamente iniziò a elaborare e ampliare un abbozzo narrativo di ambiente marinaresco, Padron ‘Ntoni, che si svilupperà nel romanzo I Malavoglia. Per Verga era importante non cadere nell’errore (commesso, almeno in parte, da Capuana) di soddisfare semplicemente la superficiale curiosità dei suoi lettori verso l’esistenza così diversa e lontana dei suoi personaggi siciliani. Si sforzò quindi di: • ripudiare il gusto per l’aneddoto folkloristico, per il «colore locale»; • rinunciare a commentare e a impietosire il suo pubblico. Con queste accortezze la poetica del Verismo (lucidamente esposta nella lettera-prefazione a L’amante di Gramigna: E Testo 3, p. 132) superava decisamente il livello raggiunto in Nedda, in quanto cadeva ogni ricercatezza letteraria nelle descrizioni paesaggistiche e scomparivano anche certe ridondanze, certi elementi superflui che invece affioravano in Nedda. Le otto novelle di Vita dei campi, pubblicate in volume nel 1880, non sono semplicemente «letteratura»: presentano da vicino la vita, nella sua cruda, quasi oltraggiosa verità. Rispetto alla narrativa tradizionale, in esse si compie dunque una vera rivoluzione: • i personaggi sono colti al grado più basso e primitivo della vita sociale; • scompaiono quasi del tutto i commenti, di polemica sociale e morale, da parte dell’autore; • gli eventi sono presentati in modo netto e crudo; • si riducono al minimo descrizioni e antefatti; • manca una raffigurazione della fisionomia e dell’interiorità dei personaggi, che Verga invece coglie nel vivo dell’azione; • i dialoghi sono concisi, privi di eleganza formale, intessuti di «fatti» e «cose»; • quanto ai temi, i racconti di Vita dei campi narrano vicende cupe e tragiche, originate da passioni elementari, e sfociano in soluzioni emotive e psicologiche sempre estreme. 113

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Contesto

La stagione del Verismo

Tra Ottocento e Novecento

Ma la maggiore novità dei primi racconti veristi di Verga (poi riproposta nelle opere successive) è la creazione di una figura di «narratore popolare», appartenente al mondo in cui viene ambientato il racconto: Verga narra cioè attraverso una voce che, rimanendo «fuori campo» (come quella che accompagna le immagini di un documentario) ed evitando di dare giudizi personali, si limita a riferire i fatti dal punto di vista della comunità di villaggio e a farsi portatrice della mentalità popolare, quella della gente umile e semplice che vive in piccoli paesi del Mezzogiorno d’Italia, all’interno di comunità chiuse e tradizionaliste (in questo senso useremo d’ora in poi l’aggettivo «paesano»).

3 Il «ciclo dei vinti» e I Malavoglia Da Émile Zola e dai suoi romanzi del ciclo dei Rougon-Macquart, Verga derivò poi il proposito di un ciclo romanzesco che analizzasse le varie condizioni sociali, dai livelli più infimi a quelli più elevati. Il proposito fu enunciato in una lettera del 21 aprile 1878 all’amico Salvatore Paola Verdura. Verga pensava di daLe cinque tappe del ciclo re al ciclo di opere il titolo complessivo di Marea, per indicare il flusso e il riflusso inarrestabile delle vicende umane e anche l’impossibilità di resistervi: in questo senso siamo tutti, a qualsiasi livello sociale si viva, dei «vinti». 1° livello, il più basso I Malavoglia Il primo romanzo del ciclo, dal titolo I Malavoglia, pescatori analfabeti uscì nel 1881, con una prefazione che illustrava l’idea ciclica. Verga dichiarò di volersi dedicare allo «studio “ sincero e spassionato» dei modi attraverso cui la ricer2° livello Mastro-don ca del benessere economico diventa fonte del progresil contadino arricchito Gesualdo so: un programma strettamente naturalistico. Alla cultura positivistica, diffusa all’epoca, rispondeva infatti “ l’analisi degli effetti provocati nella società da una cau3° livello sa materiale (in questo caso, la brama di arricchirsi); La duchessa la figlia del contadino Verga lascia invece in ombra il principio dell’ereditadi Leyra sposa un nobile rietà caro a Zola e ai francesi. Dopo I Malavoglia, dedicato ai miseri pescatori della “ 4° livello Sicilia orientale, il ciclo sarebbe proseguito con Mastroil figlio dei Leyra intraprende L’onorevole don Gesualdo, incentrato sulla storia di un muratore che con successo la carriera Scipioni riesce a diventare «don», cioè nobile, e a farsi ricco con il politica suo lavoro. Il terzo romanzo, La duchessa di Leyra, dedicato alla figlia di Gesualdo, doveva ambientarsi a un li“ 5° livello, il più alto vello ancora più elevato, quello della nobiltà. Più avanti, L’uomo il figlio dell’onorevole e più in alto, sarebbero venuti L’onorevole Scipioni, su di lusso Scipioni è l’esteta che un personaggio della politica e dell’alta finanza, e dilapida tutto L’uomo di lusso, cioè l’esteta, colui che trasforma la ricchezza in gusto raffinato e in puro consumo. La «brama di meglio» e la sconfitta nella lotta per la vita. L’argomento dei Malavoglia, il suo «nodo» drammatico, era stato anticipato in Fantasticheria (1880), una delle novelle di Vita dei campi: in essa lo scrittore immaginava di accompagnare un’elegante signora tra i poveri pescatori di Aci Trezza e le manifestava l’intenzione di raccontare, un giorno, il dramma di «uno di quei piccoli» che si stacca dal paese, per «vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio». La «brama di meglio» è ciò che turba l’immobile vita dei Toscano, da tutti chiamati «i Malavoglia»: una famiglia di umili pescatori di Aci Trezza, la cui vicenda è ambientata nei decenni successivi all’Unità d’Italia (1861) e costituisce l’illustrazione di come i più umili possono finire sconfitti nella lotta per la vita. È un tema darwinistico, legato alla cultura del Positivismo, allora così diffusa. Il «coro» dei parlanti e l’«impersonalità» del narratore. Il vero protagonista dei Malavoglia è il mondo popolare degli abitanti di Aci Trezza, che Verga ritrae al «vero» mediante il discorso indiretto libero, una tecnica narrativa aperta agli anacoluti e alle incongruenze sintattiche del parlato: il narra114

4 Novelle di campagna, novelle di città Dopo I Malavoglia, Verga verista pubblicò un’altra raccolta di racconti: le Novelle rusticane (1883). Si tratta di dodici racconti che ritornano al mondo della campagna di Vita dei campi, ma allargando la prospettiva: nei racconti del 1880 l’attenzione del narratore si fermava di volta in volta sulle vicende di un unico personaggio, eccezionale ed esemplare, mentre in questo caso il narratore è attento alle dinamiche più collettive della società «rusticana», osservata con disincanto, nei suoi costumi di vita e nelle sue contraddizioni. Le necessità economiche e l’ansia (o meglio, l’ossessione) della «roba» obbligano i personaggi all’egoismo, all’amarezza, all’inettitudine morale. Meno riuscite sul piano artistico, pur se interessanti come documento di costume, sono le novelle di Per le vie (1883), un’opera che inizialmente si sarebbe dovuta intitolare Vita d’officina, come se fosse il corrispettivo della «vita dei campi» d’ambientazione contadina. Qui il punto di osservazione Laboratori interattivi dello scrittore verista si sposta infatti dalla Sicilia al microcosmo milanese, soffermandosi sulle • Via Crucis (Per le vie) figure popolari che abitano la grande città: camerieri, operai, disoccupati, prostitute. Anche qui sono dominanti l’ansia del denaro e l’angoscia dell’emarginazione («Tutto sta nei denari a questo mondo», è la sconsolata morale verghiana); ma il risultato artistico è assai meno felice.

5 L’ultimo capolavoro: Mastro-don Gesualdo Il mondo siciliano torna a essere l’ambientazione dell’ultimo capolavoro verghiano, il romanzo Mastro-don Gesualdo (1889). Il protagonista Gesualdo appare come una sorta di antieroe, tragicamente sconfitto, nella sua «ricerca del meglio», sia nella sfera degli affetti sia in quella della «roba», alla quale aveva votato la propria esistenza. Il romanzo cresce sullo sfondo storico della Sicilia borbonica, tra il 1820 e il 1848 (ritrae dunque una generazione precedente a quella dei Malavoglia, la cui vicenda si svolge tra il 1863 e il 1877-78); ma la storia civile e politica è rappresentata come regressione: da carbonaro, cioè rivoluzionario, che era, nel momento della sua ascesa sociale ed economica, Gesualdo si fa poi borbonico e reazionario, quando deve difendere la «roba» che ha faticosamente conquistato. Soprattutto, la terra e la ricchezza appaiono come strumenti non di serenità, ma di tormento interiore. Nel romanzo il tema dell’avidità di ricchezza diviene una parabola esemplare sulla disumanità e sull’insensatezza della corsa all’arricchimento. Quali costi reali comporta il «progresso»? Quale logica lo sostiene, se non quella egoistica e individualistica dell’utile a ogni costo? Di queste e altre domande analoghe sembrano farsi portavoce i personaggi del romanzo, che da questo punto di vista appaiono meno «primitivi» e più evoluti di quelli dei Malavoglia. In particolare, in Mastro-don Gesualdo prevale l’ottica soggettiva di Gesualdo, in virtù della quale l’oggettività propria del Verismo viene meno, in molti punti. La rappresentazione della realtà sembra a tratti muovere dall’interiorità del protagonista, dai suoi giudizi, dai ricordi, dalle speranze frustrate ecc.: il racconto di Verga finisce man mano per coincidere con i pensieri del personaggio espressi ad alta voce. Siamo a un passo dalla nuova tecnica (il «monologo interiore») che caratterizzerà il romanzo psi115

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tore riporta i dialoghi della gente di umili condizioni senza introdurli o commentarli, senza nemmeno segnalarne l’inizio e la fine attraverso l’uso delle virgolette. A riempire le pagine sono dunque i pensieri e le parole di un «coro» paesano, cioè un coro di voci caratterizzato da un periodare difficoltoso, «primitivo», animato da proverbi e immagini del parlato popolare (il lessico invece non è dialettale, benché i numerosi proverbi e modi di dire si ispirino al catanese parlato). In tal modo, lo scrittore pare davvero scomparire dalla sua narrazione, secondo la poetica dell’«impersonalità» propria del Naturalismo; ma se Zola e i naturalisti cercavano di riprodurre la realtà in maniera oggettiva, Verga, per raggiungere lo stesso obiettivo, arriva a scomparire dietro la sua narrazione, in quanto s’identifica nelle abitudini, nei gesti, nelle parole di quel «personaggio ideale» e collettivo che è il coro paesano. Tale ritrarsi di Verga alle spalle dei suoi umili personaggi è chiamato dai critici «l’artificio della regressione» (G. Baldi: E scheda a p. 166): • «regressione», perché l’autore «regredisce» culturalmente al livello dei parlanti; • «artificio», perché Verga si nasconde dietro di loro, senza autocancellarsi (come invece farà Pirandello nella sua poetica del personaggio «senza autore»: E p. 613).

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

cologico di primo Novecento: è già molto forte, da parte di Verga, la ricerca d’immedesimazione psicologica; tuttavia il narratore continua ad attribuire molta importanza allo sfondo d’ambiente, e ciò appartiene ancora alla poetica «oggettiva» del Verismo.

Dal romanzo verista al romanzo psicologico

I MALAVOGLIA

MASTRO-DON GESUALDO

personaggi primitivi

personaggi più evoluti

◗ i fatti e le cose in primo piano ◗ pensieri e parole sempre riferibili a cose e fatti concreti

◗ non solo fatti e cose, ma anche intenzioni e giudizi ◗ Gesualdo perde man mano il controllo della sua «roba»

oggettivismo capolavoro del romanzo verista

soggettivismo primo passo verso il romanzo psicologico



“ impersonalità

(a tratti) monologo interiore

L’ultimo Verga 1 Il Verismo impossibile: La duchessa di Leyra Il «ciclo dei Vinti» si esaurì di fatto con Mastro-don Gesualdo. Successivamente, infatti, Verga intraprese la stesura del terzo romanzo della serie, La duchessa di Leyra, ambientato nel mondo aristocratico (la protagonista è la figlia di Gesualdo, divenuta, appunto, duchessa), ma si arrestò al primo capitolo. Dolorosamente, infatti, Verga si rese conto che una raffigurazione oggettiva, veristica e «impersonale» dei fatti non è più significativa nel momento in cui l’oggetto della narrazione passa dal mondo arcaico e rurale a personaggi più raffinati e complessi, dotati di una psicologia più mobile e contraddittoria. Nella società cittadina dominano la finzione e la dissimulazione; tutti recitano e portano una maschera: non è dunque possibile illustrarne i segreti facendo semplicemente «parlare da sé» le cose, limitandosi a ritrarre lo spettacolo del mondo in superficie.

2 Finzione e inganno in nuove prove narrative Proprio su questo tema della finzione e dell’inganno che reggono l’esistenza umana, ai vari livelli delle società più evolute, insistono le ultime opere verghiane, tutte databili all’ultimo decennio dell’Ottocento. Ricordiamo: • il romanzo I ricordi del capitano d’Arce (1891), un romanzo costruito sulle memorie di un capitano di marina, che ripercorre le diverse vicende sentimentali della moglie di un suo comandante: la narra116

3 Per un teatro «verista» Una costante dell’ultimo Verga fu proprio la sperimentazione teatrale. Esordì a Torino (gennaio 1884) con la rappresentazione di Cavalleria rusticana, seguita nel 1885 dal dramma In portineria, ricavato da una novella (Il canarino N. 15) di Per le vie. Mentre il dramma di Cavalleria rusticana, sanguigno e concentratissimo, ebbe un successo travolgente, In portineria – dramma ben più lieve e amaro, intessuto di solitudini di periferia – non fu apprezzato dal pubblico milanese. Verga attese un decennio prima di riaccostarsi al teatro. Lo fece riproponendo lo stesso mondo primitivo e selvaggio di Cavalleria rusticana, cioè adattando per il teatro il racconto La Lupa; ma il dramma omonimo, messo in scena nel gennaio 1896, ottenne scarso successo. Le cause di questo fiasco possono essere individuate sia nel fatto che il pubblico stava ormai volgendo le spalle al Realismo, affascinato dalle provocanti raffinatezze dell’estetismo dannunziano (E p. 301), sia nel fatto che il teatro verista di Verga chiedeva non solo all’autore, ma anche all’attore di scomparire dietro al suo personaggio: questa poteva sembrare una richiesta eccessiva per i «mattatori» dell’epoca, cioè per i grandi attori assoluti dominatori della scena ottocentesca, abituati a ricorrere a ogni virtuosismo pur di strappare l’applauso della platea. Esito analogo accolse il già citato dramma (o meglio, «bozzetto scenico») Caccia al lupo, storia di seduzione e adulterio, andato in scena nel novembre del 1901 contemporaneamente al dramma gemello Caccia alla volpe. Molto interessante, nel primo dei due drammi, la spietata simulazione con cui il marito tradito mette in trappola la moglie infedele e l’amante di lei: l’ambiguo rapporto tra realtà e finzione costituisce il campo privilegiato delle ultime opere di Verga.

4 L’ultimo romanzo: Dal tuo al mio Sulla scia della sperimentazione teatrale nacque anche l’ultimo romanzo, Dal tuo al mio (1906), ricavato da un precedente e omonimo dramma allestito a Milano nel 1903. Al centro della trama, qui, sono i conflitti sociali in Sicilia, descritti attraverso il personaggio di Luciano, un capo operaio che però, dopo aver sposato la figlia del padrone della solfara in cui lavorava, arriva a sparare sugli ex compagni di lotta in rivolta. Malgrado il tema «impegnato», il romanzo è deludente sul piano letterario. Di fatto, il pessimismo di questi ultimi lavori verghiani («perché ciascuno pensa al suo interesse prima di tutto», recita la prefazione di Dal tuo al mio) nulla poteva aggiungere a quanto di più vivo e nuovo era emerso dai capolavori della maturità.

■ Constantin Meunier, Fabbrica di mattoni (1870). 117

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zione si svolge nel contesto salottiero e mondano di fine secolo e, pur nel suo tono ironico, rispecchia il malessere dei personaggi, in particolare della protagonista Ginevra, ingannatrice e superficiale; • la raccolta di novelle Don Candeloro e C.i (1894; «C.i» sta per «compagni»), in cui con sconsolata sincerità l’autore smaschera le ipocrisie, la miseria etica dei personaggi, il loro supremo egoismo; • infine Caccia al lupo, un racconto del 1897, rielaborato in seguito come bozzetto per il teatro.

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

SINTESI VISIVA

Il Verismo di Verga: opere, temi, linguaggio opere

genere

ambientazione

temi

linguaggio

Nedda

■ «bozzetto»

■ campagna siciliana

■ lotta per la sopravvivenza ■ esclusione e sconfitta

■ prima ricerca di un’espressione popolare ■ MA: incertezze espressive, atteggiamento compassionevole dell’autore

■ novelle

■ mondo dei contadini siciliani, al grado più basso

■ lotta per la sopravvivenza ■ vicende primitive, violente ■ il destino di singoli personaggi

■ ricerca di assoluta oggettività ■ mancanza di ritratti, di digressioni, di descrizioni letterarie ■ dialoghi concisi ■ introduzione di un narratore popolare

■ romanzo

■ pescatori siciliani semianalfabeti

■ la fedeltà alle antiche tradizioni (l’«ideale dell’ostrica») ■ l’ingresso del progresso in una società arcaica ■ la «brama di meglio» di sconfitta e di dispersione

■ narrazione filtrata attraverso l’ottica degli abitanti di Aci Trezza ■ scomparsa dell’autore: «artificio della regressione» ■ discorso indiretto libero

■ novelle

■ contadini e proprietari siciliani

■ attenzione rivolta a una società contadina più complessa ■ egoismo, ossessione della «roba», sopraffazione

■ narrazione «oggettiva», riferita dal punto di vista dei personaggi

■ novelle

■ vita popolare di una grande città (Milano)

■ figure ai margini di una società industriale ■ ansia per il denaro ■ senso di esclusione

■ oggettività verista ■ MA: resa artistica meno felice (manca la «sintassi paesana»)

■ romanzo

■ mondo della campagna, ai vari livelli (contadini, borghesi, nobili)

■ scalata sociale ed economica di un manovale che diventa ricco ■ solitudine e doppia sconfitta (nella «roba» e negli affetti) ■ dinamiche sociali della Sicilia borbonica (dal 1821 al 1848)

■ la ricerca di oggettività narrativa convive con l’emergere della soggettività di Gesualdo ■ tecnica del monologo interiore ■ il Verismo si arricchisce: verso il moderno romanzo psicologico

1874

Vita dei campi 1880

I Malavoglia 1881

Novelle rusticane 1883

Per le vie 1883

Mastro-don Gesualdo 1889

118

Sguardi sulla società La nascita del cinema ■ Auguste (18621954) e Louis-Jean (1864-1948) Lumière.

■ L’ingresso di un cinema a Toronto (Canada) nel 1908. ■ Una locandina che pubblicizzava i primi spettacoli cinematografici dei fratelli Lumière.

■ Un’immagine dal film Viaggio sulla luna di Georges Méliès.

Una nuova «arte» Il 28 dicembre 1895 i fratelli francesi Auguste e Louis-Jean Lumière, fotografi di professione, presentarono a un gruppo di amici e possibili finanziatori il loro apparecchio, che riproduceva immagini in movimento. Nel gruppo vi era un direttore di teatro, Georges Méliès. Una ventina d’anni dopo egli rievocò quella prima, memorabile proiezione: «Mi trovai, con gli altri invitati, di fronte a un piccolo schermo […]. Un poco sorpreso, ebbi appena il tempo di dire al mio vicino: “Ci hanno scomodato per delle proiezioni. Sono dieci anni che le faccio”. Avevo appena finito la frase, quando un cavallo che tirava un carro cominciò a muoversi verso di noi, seguito da altre carrozze e passanti. Insomma, tutta

l’animazione di una strada. Lo spettacolo ci lasciò a bocca aperta, stupefatti, senza parole». Al cavallo con il carro seguirono altre sequenze, tra cui Il muro, che si abbatteva in una nuvola di polvere, L’arrivo di un treno alla stazione e altre. La nuova «arte» cinematografica incontrò un immediato successo di massa: la gente, sbalordita, faceva la fila per assistere agli spettacoli prodigiosi dell’apparecchio appena inventato, che pareva possedere poteri magici.

Raccontare storie Fu lo stesso Georges Méliès il primo a fare del cinema un’«arte», e non solo una tecnica più sofisticata per riprodurre

la realtà: lo utilizzò infatti per narrare delle storie, ambientate secondo messinscene teatrali. Nacquero i primi generi espressivi, come le comiche, le scene con trucchi, le attualità ricostruite. Il Voyage dans la lune di Méliès, prototipo del genere «fantastico», risale al 1902; l’anno dopo uscì The Great Train Robbery dell’americano Edwin S. Porter. Poco dopo sorse l’astro del regista statunitense David Wark Griffith. Tutti loro utilizzavano il montaggio, che consente di «legare» le immagini in una storia coerente. Ebbe origine così il photoplay, come allora venne chiamato, o «dramma cinematografico», erede naturale del grande romanzo ottocentesco. 119

Tra Ottocento e Novecento

L’OPERA

STORIA DI UNA CAPINERA

La prima opera di successo: un romanzo tardoromantico ◗ Il primo romanzo che procurò al giovane Verga notorietà e successo fu Storia di una capinera. Composto nell’estate del 1869, dapprima fu stampato a puntate nel 1870 sul periodico «La ricamatrice»; quindi venne pubblicato in volume a Milano nel 1871 dall’editore Lampugnani, dopo essere stato rifiutato da Treves. ◗ Nella Lettera-prefazione introduttiva, Francesco Dall’Ongaro (1808-73) definì il romanzo come «lettere di una monachella siciliana scritte e scambiate con una sua compagna [...] pagine d’una vita di dolore e di abnegazione», riprodotte dal narratore «al vivo», con il fine di commuovere e di emozionare. Il libro racconta infatti la drammatica storia dell’impossibile amore tra la diciannovenne Maria, che la famiglia ha destinato al convento, e il giovane Nino; Maria non riesce a dimenticare il proprio amore e muore perciò di consunzione nel convento dove è stata rinchiusa. La figura della protagonista, che rimane vittima dell’esaltazione amorosa fino alla pazzia e alla morte, ci mette di fronte a una storia di passione, dunque, alla maniera di Una peccatrice, a un racconto tipicamente tardoromantico. ◗ Al clima del Romanticismo appartiene anche il tema della monacazione forzata, che aveva alle spalle opere famose come La monaca (1796) di Denis Diderot e I promessi sposi manzoniani per la celeberrima figura della monaca di Monza. Del resto l’abitudine di spingere al convento giovani privi di vocazione (lo scopo era quello di passare al primogenito l’intero patrimonio indiviso) era ancora molto diffusa nella Sicilia dell’epoca di Verga, malgrado la legge del 1867 che aveva soppresso le corporazioni religiose.

Verga e la «capinera» ◗ Dal romanzo trapelano notevoli riflessi autobiografici. Tra il 1854 e il 1855 la famiglia Verga, lasciata Catania durante un’epidemia di colera, si era ritirata nel suo podere di Vizzini; e qui il quindicenne Giovanni si era invaghito di una giovanissima educanda, Rosalia, «una creatura soave, una figura ideale, una bellezza pallida e bruna, un fiore di simpatia», come annoterà Federico De Roberto. Va aggiunto che la madre di Verga, Caterina, era stata educata in convento, e che ben due zie dello scrittore avevano preso i voti. ◗ Tuttavia, oltre il semplice autobiografismo, l’opera rivela una genesi più complessa. Il giovane Verga, che aveva lasciato la Sicilia per Firenze, in cerca di fortuna letteraria, s’identificava in Maria la «capinera», che d’estate lascia il convento dov’è educata per trascorrere le vacanze in campagna. Fin dalle prime pagine il romanzo raffigura il contrasto tra la vita chiusa del convento, fatta di tristezza e di mancanza di affetto, e la nuova vita, libera, fatta di affetti e di colori. Maria vive un doloroso dilemma: • desidera l’aria aperta, il mondo di tutti, dove può essere libera e felice; • insieme, però, desidera la protezione di un mondo chiuso, che la difenda da quello aperto, di cui ha anche paura. Maria in sostanza soffre di claustrofobia (paura del chiuso) ma anche di agorafobia (paura dell’aperto): all’aperto non sopravvive, al chiuso morirà. È un circolo vizioso: vivere e amare, per lei, è peccato, ma anche il non sapersi adattare alla propria sorte è una colpa. Non riuscendo a trovare un equilibrio che le consenta la ribellione o la rassegnazione, non sapendosi accettare, Maria si «autopunisce»: si ammala e muore.

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◗ Storia di una capinera è un romanzo epistolare, genere che aveva conosciuto illustri precedenti, da Rousseau a Foscolo. Nel romanzo di Verga la protagonista Maria scrive all’amica Marianna, che i lettori non conosceranno mai; le sue lettere coprono un arco di circa due anni, dal 3 settembre 1854 al 24 settembre 1856. Sono seguite da due lettere senza data e dall’annuncio della morte di Maria siglato da suor Filomena. ◗ Maria, orfana di madre, trascorre l’estate del 1854 in una tenuta alle pendici dell’Etna, con il padre e la matrigna, fuori del convento dove abitualmente risiede. Qui ella incontra il giovane Nino, come lei sfollato assieme alla fami-

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glia per sfuggire all’epidemia di colera che incombe su Catania. La vita libera e spensierata all’aria aperta, nell’incanto dei boschi e delle campagne, avvicina i due giovani. Nella lettera del 10 novembre 1854 Maria confida a Marianna di essersi innamorata del giovane Nino; ora però vorrebbe ritornare al raccoglimento e al silenzio claustrale. ◗ La storia d’amore tra i due giovani prosegue: s’incontrano, si sfiorano, si baciano. Nella lettera del 21 novembre Maria è consapevole di essere amata e ciò la trasforma: la vita del convento le sembra adesso soffocante e vuota. Viene separata a forza dal giovane Nino; si ammala e, una volta guarita,

viene rinchiusa definitivamente in convento. ◗ La terza parte si apre, un anno dopo, con la lettera dell’8 febbraio 1856. Maria sta per fare la promessa dei voti perpetui, ma è molto malata. Intanto le annunciano che la sorella Giuditta sposerà Nino. Per il dolore, Maria entra in un delirio quasi folle. Tenta la fuga, ma senza successo: perciò viene reclusa nella cella delle monache pazze. Lì, l’unica ad avere compassione di lei è suor Agnese, ridotta a una sorta di larva umana. In una lettera conclusiva suor Filomena rievoca gli ultimi giorni di Maria, i commoventi funerali, le sue ultime volontà.

C’era un profumo di Satana in me Storia di una capinera, lettera del 26 agosto 1856 Anno: 1870 Temi: • un amore negato e la passione che esso suscita • la solitudine e la gelosia, fino alla follia Siamo quasi alla fine dell’infelice storia di Maria, la «capinera». Un giorno, poco dopo esser divenuta monaca per sempre, Maria scopre in maniera fortuita che in una casa vicina al monastero sono venuti a vivere Nino, il ragazzo di cui era stata innamorata, e la sorella Giuditta, felicemente sposati. Maria li osserva di nascosto da un terrazzino: li spia nella loro intimità, struggendosi di gelosia e disperazione. Il precario equilibrio su cui si reggeva la sua psiche va così in frantumi. Nella lettera all’amica Marianna, il sogno si mescola ormai alla realtà, e la febbre del delirio alimenta il ricordo e lo strazio di una follia visionaria.

è la dimensione psicologica fondamentale in cui si muove il personaggio

26 agosto Oh, Dio mio! perché mi avete abbandonata! Quello che io provo non ha nome! sentirsi colpevole a tal segno...1 aver tal paura del proprio peccato! e non potersene staccare!... Quella predica!2 quella predica!... sempre quella voce terribile3 nelle orecchie!... 5 Che orrore! Veggo4 l’inferno che mi attende spalancato... mi sento perduta come Satana nell’immensità dell’abbandono di Dio... e amo sempre il Nino! ho paura dei demoni, e penso a lui!... oso levare gli occhi supplichevoli verso l’altare e penso a lui!... ho la testa piena di larve, di fiamme, di visi atroci...5 e sorrido, ardo, con lui!... 10 lui ch’è il peccato, la tentazione, il demonio!!...

1. segno: punto. 2. Quella predica!: l’ha udita in convento.

3. quella voce terribile: del predicatore. 4. Veggo: vedo.

5. larve... visi atroci: immagini che richiamano l’inferno.

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Monografia Raccordo

LA TRAMA E LA STRUTTURA

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

l’idea che il pensiero sia un nemico, un demonio tentatore, è un primo segnale di squilibrio mentale

l’inaspettata rivelazione ci mette davanti a una trama costruita da Verga nel modo più patetico e drammatico

amore e odio s’intrecciano, nella folle gelosia della monaca

Senti quel ch’è accaduto, Marianna!6 Ero sul belvedere,7 seduta presso quella cappelletta8 che noi9 ornavamo di ghirlande e fiori: il sole era levato da poco; si udivano i mille rumori delle vie, e il canto degli uccelli; il cielo era azzurro, il mare risplendente, spirava un’aria imbalsamata di fragranza che faceva sollevare il mio povero petto tanto malato... io pensava,10 pensava... vedi per quali vie questo demonio ten- 15 tatore che si chiama pensiero s’insinua a tradimento in noi da tutti i pori e s’infigge ferocemente nel cervello! io pensava al fiorellino che scuoteva le sue perle di rugiada, al fumo che si levava dai camini, alla vela che si perdeva negli splendori del mare, al canto che saliva dalla via. Era sogno? non lo so. [...] Poi si udì una carrozza; i cavalli avevano le sonagliere:11 sai come è allegro il rumore delle sonagliere; ti parla 20 della campagna, del verde dei prati, delle strade polverose, delle siepi fiorite, delle allodole che saltellano dinanzi ai cavalli. [...] Tutte quelle cose avevano una parola12 e dicevano: Nino!13 Nino! lo cercavo cogli occhi intorno a me e lo vidi, lo vidi alla finestra di una casa14 poco lontana... Era lui! proprio lui!... coi gomiti appoggiati al davanzale, colla pipa in bocca, e respirava tut- 25 ta quella festa di un bel mattino. Oh! il mio povero cuore! il mio povero cuore! Mi parve che altra volta15 mi avessero detto che mia sorella era andata ad abitare una casa vicino al convento, ma Dio mi aveva fatto la grazia di non farmici pensare... Ora lo vedevo lì, oh Dio! perché? perché?... che faceva? che pensava?... mi vedeva? no! no! i suoi occhi erano distratti... eppure avrebbero dovuto vedermi, col mio vestito 30 nero, il mio velo bianco, le braccia distese... Che aveva in cuore quell’uomo? – Qual pianto! qual pianto! Oh Signore! se vi potessi ringraziare per averlo veduto... solo! Oh! Dio mio, non mi fate vedere mia sorella! non mi fate vedere mia sorella! Nino! Nino! son qui! son io! non mi vedi? non ti rammenti?16 che hai? che ti ho fatto?... Oh! la mia testa! Nino! guardami! vedi come son pallida! senti come il pet- 35 to mi duole!... Oh Nino! fammi la carità di guardarmi!... Egli si è voltato; ho veduto un’ombra dietro di lui... una veste...17 son fuggita perché la ragione mi vacillava!... Dio! Dio! che spasimo! Sono andata a rintanarmi nella mia cella come una belva ferita... Oh! che fiamme! che dolori! La mia testa! la 40 mia povera testa!... Che giornata! che giornata orribile! Quel fantasma sempre dinanzi agli occhi; quello spasimo sempre inchiodato nel cuore! Son quasi pazza. Sento qualche cosa che mi afferra per le carni e mi trascina lassù sul belvedere... per tornare a vedere quello18 di cui la sola idea mi lacera il cuore... Vorrei passarvi tutti i miei giorni e morire là di dolore, cogli occhi fissi su quella finestra. 45 Ho voluto pensare a Dio, e Dio mi è sembrato crudele; ho voluto pensare a quella

6. Marianna: l’amica a cui Maria scrive. 7. sul belvedere: un punto panoramico, rialzato, all’interno del convento. 8. quella cappelletta: del convento. 9. noi: noi monache. 10. pensava: pensavo (anche in seguito). 11. le sonagliere: strisce di cuoio o tela, a forma di collare, fornite di sonagli; avvisavano i passanti del prossimo arrivo della carrozza. 12. Tutte quelle cose... parola: Maria antropomorfizza gli oggetti inanimati, cioè attribuisce loro sentimenti umani.

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13. Nino: il giovane con cui Maria aveva avuto una relazione. 14. di una casa: dove abita da poco con sua moglie Giuditta, sorella di Maria. 15. altra volta: in una qualche occasione, che ora non ricorda. 16. non ti rammenti?: Maria intende dire: “non ricordi i giorni felici del nostro amore?”. 17. una veste: evidentemente quella della sorella. 18. quello: Nino. A proposito del personaggio di Nino, va considerato che il romanzo

epistolare ci pone nella condizione, come lettori, di sapere tutto di Maria attraverso le sue intime confessioni, mentre non sappiamo quasi nulla di ciò che il giovane provi nei confronti di lei. Maria non può comunicare ciò che con certezza egli sente, nei suoi confronti, ma solo frammenti, ipotesi, desideri; non conosciamo per esempio i motivi che lo turbano fino ad allontanarlo da lei, che egli ha abbandonato al suo destino senza nessuna spiegazione.

un’immagine da incubo, o da follia, quella nella quale Maria sta precipitando

Maria sta vivendo il ricordo come un incubo: in esso sogno e realtà s’intrecciano e le cose inanimate, come la camera, prendono vita

la tortura consiste nel vedere i segni della felicità altrui mentre si è consapevoli della propria infelicità

predica,19 e mi è sembrata ingiusta. Tutte le furie dell’inferno si dilaniano il mio cuore... Senti, Marianna!... senti20 la dannata... poiché io voglio perdermi! voglio dannarmi!... La notte, quando tutti dormivano, sono andata lassù, sulla terrazza, a piedi nudi, premendomi il petto perché le monache non udissero il battito del mio cuore 50 che aveva paura, il vigliacco! strisciando fra le tenebre come un fantasma. Quel tragitto è durato mezz’ora; mezz’ora di terrori, di ansie, di lotte interne; spaventandomi al minimo rumore, trattenendo il respiro ad ogni porta, lasciandomi cadere sfinita ad ogni scalino... S’egli avesse potuto scorgermi!... Poi, quando son giunta lassù, e ho visto le stelle sul mio capo... e quella finestra illuminata... ciò che si è passato 55 dentro di me io stessa non saprei dirtelo... Senti!... ti dirò quello che vidi... tu soffrirai come me... vorrei che tutti quelli che amo soffrissero... Suonavano21 le undici... quelle squille22 avevano vibrazioni acute che ferivano come un coltello... le vie erano ancora popolate... c’era gente che passeggiava, che rideva; si sarebbero potuti udire i discorsi che si tenevano da quelli che erano più vicini... nel buio si vedeva quella fi- 60 nestra illuminata che mi guardava col suo occhio spalancato... Cento volte ho passato la sera a fantasticare fissando da lungi23 qualche lume che brillava in qualche camera24 lontana... e tentare d’indovinare tutti gli affetti, tutte le cure,25 tutti quei piccoli dispiaceri che alla povera anima mia26 sembrano un’altra delle felicità domestiche, i discorsi, le parole che probabilmente si passavano attorno a quel lume solita- 65 rio... Ma quella finestra aveva un riverbero infuocato... non poteva fissarla senza sentirmi ardere tutte le vene... Lui! lui! la sua casa... tutto quello che c’è nella sua casa, nella sua vita, nel suo affetto, tutte le serenità della pace, tutte le benedizioni della famiglia.27 Quella camera aveva la tappezzeria a gran fiori azzurri: vicino alla finestra c’era una poltrona; più in là, su di un tavolino, mille oggetti che non potevo distin- 70 guere, ma dei quali alcuni luccicavano al lume della candela... se volessi immaginare il tabernacolo, non saprei idearlo altrimenti: ognuno di quei piccoli oggetti avea l’impronta della sua mano; su quella poltrona si era seduto cento volte. Perché era deserta quella camera?... sembrava che avesse paura, e ne faceva anche a me... poi si aprì una porta ed entrò una donna... lei!... mia sorella!... mia sorella! com’era bella! 75 poteva toccare ognuno di quegli oggetti, mettersi a sedere su quella seggiola!... Si accostò alla finestra e fece ombra al lume... crudele! crudele!... e si appoggiò al davanzale. Pareva che mi guardasse... ebbi paura di quel viso rivolto verso di me e che rimaneva nell’ombra... mi celai28 dietro la cappelletta... Come tremavo! come batteva il mio cuore! Poco dopo ella si ritirò bruscamente; e andò ad aprire la porta per la 80 quale29 era entrata... Era lui!30 lui!... le prese la mano... la baciò sulle labbra... Dio! Dio! Dio!... fatemi morire!... anche maledetta!31 Tu non puoi sapere quello che ci sia di ebbrezza, di rabbiosa voluttà nell’imporsi un’atroce tortura... si divora sé stessi poiché non si può divorar altri... io ho visto quell’uomo abbracciare quella donna... quell’uomo, Nino! lei, mia sorella! li ho vi- 85 sti sedersi accanto, parlarsi tenendosi per le mani, sorridersi, rubarsi i baci a vicen-

19. quella predica: E nota 2. 20. senti: ascolta, cioè leggi (anche in seguito). 21. Suonavano: dal campanile vicino. 22. squille: rintocchi di campana. 23. lungi: lontano. 24. qualche lume... camera: di altre case,

non identificate; ma ora è il lume di Nino che Maria scorge, è la sua casa. All’epoca nelle case non esisteva illuminazione elettrica. 25. cure: ansie, preoccupazioni. 26. povera anima mia: di reclusa, di prigioniera.

27. tutte le benedizioni della famiglia: che a lei sono negate. 28. celai: nascosi. 29. per la quale: attraverso la quale. 30. Era lui!: arguiamo che Nino è entrato. 31. anche maledetta!: anche se andrò all’inferno.

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Monografia Raccordo

l’esclamazione è rivolta al proprio cuore, come in uno sdoppiamento psicologico: Maria, di fatto, non è padrona di se stessa

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

dunque si è tolta il velo che copre il capo delle monache: è un nuovo segno di perdita d’identità

da... ho indovinato tutte quelle dolci parole che si dicevano, ho visto, per un miracolo di intuizione, i più piccoli moti della sua32 fisionomia, quello che c’era nei suoi occhi; nessuno ha potuto vedere quello che ho io visto... i miei occhi asciutti si dilatavano; il mio cuore non batteva più; c’era un profumo di Satana in me... E questo 90 spettacolo è durato quasi un’ora! Un’ora là, a piedi nudi, arsa di febbre, tremante di ribrezzo, respirando l’angoscia, le furie a pieni polmoni... Mi sono imposta questa terribile gioia, questa gioia che ha denti di fiamma come lo spasimo, per vederlo... e sono andata là tutte le sere, con quel pericolo, quella febbre, quel delirio... l’ho visto!... che monta33 il come? l’ho visto! Ho passato i giorni sulla terrazza con un sole 95 ardente che mi dardeggiava sul capo nudo, piena la mente di bagliori, di smarrimenti, di vertigini, e gli occhi di fiamme, e il corpo arso di febbre, per vederlo un solo istante passare da una stanza all’altra e nulla più! Ah! se il dolore uccidesse!!... G. Verga, Storia di una capinera, in Tutti i romanzi, a cura di E. Ghidetti, Sansoni, Firenze 1983

32. sua: di Nino. 33. monta: importa.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ All’inizio della lettera, Maria raffigura la tersa giornata primaverile in cui riassapora come un tempo la gioia della natura e della libertà. Si succedono immagini di semplice felicità, quella che a lei, rinchiusa nel convento, è ormai preclusa: la vastità del paesaggio, tra sole, cielo e mare, il fiorellino, le sonagliere dei cavalli, tutto sembra, per antitesi, parlare del mondo felice da cui Maria è esclusa. La visione è soggettiva e intima: il ricordo dei fatti reali si mescola ai «pensieri» di Maria (io pensava, pensava...). Nella febbre visionaria della ragazza ogni cosa sembra personificarsi in un individuo, un volto preciso: Tutte quelle cose avevano una parola e dicevano: Nino! Nino! (r. 23). ■ Nella seconda sequenza Maria s’imbatte in una visione inattesa, quella di Nino e della sorella Giuditta, divenuta sua sposa, che Maria sorprende nell’intimità della loro casa. L’imprevista rivelazione scava dentro l’animo di Maria come una trivella. La giovane suora, di notte, quando tutti dormivano, si reca lassù, sulla terrazza, a piedi nudi, con il cuore in tumulto, strisciando al buio come un fantasma. Attraverso una finestra illuminata spia le effusioni amorose di Nino e di sua moglie: Ah! se il dolore uccidesse!!... ■ Man mano che lo sguardo si addentra nella casa, si precisano i particolari, la tappezzeria a gran fiori azzurri, la poltrona vicina alla finestra ecc. La situazione è avvolta dall’ambiguità: c’era un profumo di Satana in me, scrive Maria; il tavolino dell’ex fidanzato le appare un tabernacolo. La coscienza del peccato (scrive Maria: io voglio perdermi! voglio dannarmi!...) avvolge la scena: nel testo ricorrono immagini cruente, attinte dall’immaginario popolare dell’inferno e delle sue pene (le furie; denti di fiamma ecc.). 124

■ La descrizione che la protagonista fa del mondo esterno non è certo «oggettiva», ma si colora di toni soggettivi: una profusione di aggettivi, avverbi, esclamazioni avvicina la prosa del primo Verga alla letteratura melodrammatica tanto in voga al tempo. Lo scrittore ricorre a uno stile «acceso», trapunto di immagini forti, di antitesi, di espressioni liricheggianti e termini cruenti (qualche cosa che mi afferra per le carni; quelle squille avevano vibrazioni acute che ferivano come un coltello) o pervaso da intenso patetismo (come batteva il mio cuore!; respirando l’angoscia). LAVORIAMO SUL TESTO 1. In quale punto del romanzo si colloca il brano? Vi sono, in esso, riferimenti all’antefatto utili a ricostruire almeno in parte la vicenda? Se sì, individuali nel testo. 2. Quali personaggi agiscono nel testo e quali altri sono solo nominati? 3. Maria è una suora e appare, qui, come divorata dal senso del peccato. Da che cosa esso è motivato? In quali punti del testo si esprime? 4. Nel passo sono frequenti esclamazioni e domande. Rintracciale nel testo. A tuo giudizio, quale funzione svolgono? 5. Che cosa suggerisce la ragione a Maria e che cosa, invece, la spingerebbero a fare i suoi sentimenti? Motiva la risposta. 6. Dove si svolge la vicenda riferita da Maria? Distingui nella risposta i luoghi in cui la ragazza si trova dai luoghi in cui accade ciò che racconta. Ora rifletti: quale conseguenza psicologica deriva da tale distanza?

Giovanni Verga

Contesto

NEDDA Testi • Nedda e Jannu

La novità del «bozzetto siciliano» ◗ Il «bozzetto siciliano» che inaugura la stagione verista di Verga nacque quasi occasionalmente, senza essere stato concepito sulla base di specifiche riflessioni su tecniche narrative. Fu pubblicato per la prima volta sulla «Rivista italiana di scienze, lettere e arti» il 15 giugno 1874, e quindi in volumetto autonomo dall’editore Brigola alla fine di quell’anno, ottenendo un successo che neppure l’autore si attendeva. ◗ In realtà Nedda segnava, per Verga e per la narrativa italiana nel suo complesso, un’autentica rivoluzione letteraria, per quanto silenziosa e – in un primo momento – passata inosservata. Come scrisse il critico Luigi Russo, con Nedda «cambia la visione della vita, cambia anche il contenuto della nuova arte: non più duelli, non più amori raffinati di artisti e ballerine [come in Eva, n.d.r.], ma passioni semplici, tragedie silenziose e modeste di povere contadine; guerre sanguinose di uomini primitivi, che chiudono in petto un vigoroso senso dell’onore e una barbara violenza di passioni. La vita è dove pulsa un cuore e soffrono dei corpi sotto il peso ingiusto delle fatiche, più schietta che non dove battono polsi febbrili di un amore di moda o di società».

Disgrazia e ingiustizia: il pessimismo verghiano ◗ L’attenzione del lettore si concentra soprattutto sulla figura di Nedda «la varannisa» (così chiamata perché viene dal borgo di Viagrande): la prima di una lunga galleria di umili protagonisti verghiani, costretti dalla propria misera nascita a una vita di stenti e ai quali neppure l’amore riesce a dare più che un barlume di speranza. La storia dell’umile raccoglitrice di olive s’inserisce in un più vasto sfondo sociale – le campagne siciliane dopo l’Unità d’Italia – che contiene in sé i germi dell’indignazione e della denuncia da parte dell’autore. ◗ Nedda, che Verga colloca «raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana», è la povertà personificata; «dei suoi fratelli in Eva – dice lo scrittore – bastava che le rimanesse quel tanto che occorreva per comprenderne gli ordini e per prestar loro i più umili, i più duri servigi». La sua figura e la sua storia diventano la personificazione del pessimismo verghiano. La sorte infierisce con particolare crudeltà su di lei, eppure le sue sventure non sono casuali o immotivate: nascono, piuttosto, da una radicale e profonda ingiustizia di partenza, alla quale peraltro Nedda è talmente assuefatta che ogni nuovo colpo del destino riesce soltanto a dilatare i margini della sua sofferenza: «Il cuore ebbe un’altra strizzatina, come una spugna non spremuta abbastanza, nulla più».

LA TRAMA ◗ Nel prologo, parlando in prima persona, Verga narra come un giorno, standosene pigramente dinanzi al caminetto con il fuoco acceso, mentre fantasticava oscillando fra sogni e ricordi, fosse riemersa nel pensiero un’altra fiamma, da lui vista ardere un giorno nel camino della fattoria del Pino alle pendici dell’Etna. ◗ Intorno a quella fiamma, così ridestata nel ricordo, sono ad asciugarsi una ventina di ragazze, raccoglitrici di olive, fradice di pioggia. Una sola tra loro resta solitaria in disparte, Nedda (diminutivo

di Bastianedda). Alle domande delle compagne, la fanciulla, umile, povera e timida, narra della sua miseria e della madre gravemente malata. Alla fine della settimana, con i pochi soldi della paga, Nedda parte per ritornare a casa. ◗ Lungo il faticoso cammino, Nedda incontra Janu, un giovane del suo paese che è stato a lavorare a Catania. Giunta a casa, trova la madre quasi agonizzante: a nulla servono l’intervento del medico e l’estrema medicina procurata dallo zio Giovanni. L’anziana donna muore.

Dopo averla seppellita, Nedda accetta una nuova occupazione ad Aci Catena. ◗ Il lavoro è ora più redditizio e consente alla ragazza maggiore serenità; Janu le regala un fazzoletto di seta lucente e, dopo pochi incontri, le chiede di sposarlo. Fra i due giovani nasce un rapporto passionale e gioioso, ma esso non porta alla felicità. Nedda infatti mostra presto i segni infamanti di una gravidanza prematrimoniale; Janu si ammala di malaria e tuttavia, per affrettare le nozze, non rinuncia a lavorare. Cade

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Monografia Raccordo

L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento però da un ulivo e viene consegnato morente a Nedda. ◗ La fanciulla rimane sola: abbandonata, disprezzata, sfruttata; presto le muo-

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re anche la figlioletta «rachitica e stenta» che ha avuto da Janu e che Nedda aveva accolto come illusione di un conforto. La battuta che conclude la novella riassume il significato della conce-

zione del vivere maturata da Nedda: «Oh! benedette voi che siete morte! [...] Oh benedetta voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me!».

Nedda «la varannisa» Nedda Anno: 1874 Temi: • degradazione e miseria nell’ambiente di lavoro • il ritratto dell’umile protagonista del racconto Leggiamo l’inizio del «bozzetto siciliano», equivalente a quasi un terzo dell’intera novella; Verga presenta l’umile protagonista nel suo ambiente di lavoro.

Verga parla qui in prima persona, utilizzando ancora linguaggio e immagini del Romanticismo

questa presenza molto forte dell’io dell’autore è l’opposto dell’impersonalità propria del Naturalismo

Io lascio il mio corpo su quella poltroncina, accanto al fuoco, come vi lascerei un abito,1 abbandonando alla fiamma la cura di far circolare più caldo il mio sangue e di far battere più rapido il mio cuore; e incaricando le faville fuggenti, che folleggiano come farfalle innamorate, di farmi tenere gli occhi aperti, e di far errare2 capricciosamente del pari3 i miei pensieri. Cotesto spettacolo del proprio pensiero che svo- 5 lazza vagabondo senza di voi, che vi lascia per correre lontano, e per gettarvi a vostra insaputa come dei soffi, di dolce e d’amaro in cuore, ha attrattive indefinibili. Col sigaro semispento, cogli occhi socchiusi, le molle4 fuggendovi dalle dita allentate, vedete l’altra parte di voi andar lontano, percorrere vertiginose distanze: vi par di sentirvi passar per i nervi correnti di atmosfere sconosciute; provate, sorridendo, l’effetto 10 di mille sensazioni che farebbero incanutire5 i vostri capelli e solcherebbero di rughe la vostra fronte, senza muovere un dito, o fare un passo. E in una di coteste peregrinazioni vagabonde6 dello spirito la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un’altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere nell’immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna. Piove- 15 va, e il vento urlava incollerito; le venti o trenta donne che raccoglievano le olive del podere, facevano fumare le loro vesti bagnate dalla pioggia dinanzi al fuoco; le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o quelle che erano innamorate, cantavano; le altre ciarlavano7 della raccolta delle olive, che era stata cattiva, dei matrimoni della parrocchia, o della pioggia che rubava loro il pane di bocca. La vecchia castalda8 fila- 20 va, tanto perché la lucerna appesa alla cappa del focolare non ardesse per nulla;9 il grosso cane color di lupo allungava il muso sulle zampe verso il fuoco, rizzando le

1. come vi lascerei un abito: cioè abbandona il corpo ed entra in un’altra dimensione, in cui i pensieri svolazzano vagabondi (come si legge poco oltre). 2. errare: vagare qua e là. 3. del pari: allo stesso modo.

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4. le molle: gli attrezzi del camino per spostare la legna e attizzare il fuoco. 5. incanutire: imbiancare. 6. peregrinazioni vagabonde: vagabondaggi. 7. ciarlavano: chiacchieravano.

8. castalda: vocabolo dotto, che indica la moglie del fattore, o meglio, del massaro siciliano, il capo di una casa colonica, di una masseria, il cui proprietario è un padrone che, generalmente, vive in città. 9. per nulla: inutilmente.

tutta la narrativa verista di Verga mette al centro la dura necessità economica

10. pizzicava le gambe: faceva venir voglia di muoversi, di ballare. 11. ammattonato: pavimento rustico, fatto di mattoni. 12. varannisa: Nedda è del paese di Viagrande, in dialetto Varanni (come spiega

Piero Nardi, Va in Siciliano è “via”, e ranni sta per “grande”). 13. O che fai tu costà?: la battuta risulta stonata, per l’intonazione tipicamente toscana. 14. zio Giovanni: zio e zia sono appellativi

che si usano in Sicilia per indicare conoscenti, e non necessariamente parenti. Questo «zio» Giovanni è un vicino caritatevole.

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Monografia Raccordo

gli aggettivi denotano una forma di compassione, da parte dell’autore, nei confronti della protagonista che sta per presentare

orecchie ad ogni diverso ululato del vento. Poi, nel tempo che cuocevasi la minestra, il pecoraio si mise a suonare certa arietta montanina che pizzicava le gambe,10 e le ragazze incominciarono a saltare sull’ammattonato11 sconnesso della vasta cucina 25 affumicata, mentre il cane brontolava per paura che gli pestassero la coda. I cenci svolazzavano allegramente, e le fave ballavano anch’esse nella pentola, borbottando in mezzo alla schiuma che faceva sbuffare la fiamma. Quando le ragazze furono stanche, venne la volta delle canzonette: – Nedda! Nedda la varannisa! – esclamarono 30 parecchie. – Dove s’è cacciata la varannisa?12 – Son qua – rispose una voce breve dall’angolo più buio, dove s’era accoccolata una ragazza su di un fascio di legna. – O che fai tu costà?13 – Nulla. 35 – Perché non hai ballato? – Perché son stanca. – Cantaci una delle tue belle canzonette. – No, non voglio cantare. – Che hai? 40 – Nulla. – Ha la mamma che sta per morire, – rispose una delle sue compagne, come se avesse detto che aveva male ai denti. La ragazza, che teneva il mento sui ginocchi, alzò su quella che aveva parlato certi occhioni neri, scintillanti, ma asciutti, quasi impassibili, e tornò a chinarli, senza 45 aprir bocca, sui suoi piedi nudi. Allora due o tre si volsero verso di lei, mentre le altre si sbandavano ciarlando tutte in una volta come gazze che festeggiano il lauto pascolo, e le dissero: – O allora perché hai lasciato tua madre? – Per trovar del lavoro. 50 – Di dove sei? – Di Viagrande, ma sto a Ravanusa –. Una delle spiritose, la figlioccia del castaldo, che doveva sposare il terzo figlio di massaro Jacopo a Pasqua, e aveva una bella crocetta d’oro al collo, le disse volgendole le spalle: – Eh! non è lontano! la cattiva nuova dovrebbe recartela proprio l’uccello –. Nedda le lanciò dietro un’occhiata simile a quella che il cane accovacciato dinanzi 55 al fuoco lanciava agli zoccoli che minacciavano la sua coda. – No! lo zio Giovanni14 sarebbe venuto a chiamarmi! – esclamò come rispondendo a se stessa. – Chi è lo zio Giovanni? 60 – È lo zio Giovanni di Ravanusa; lo chiamano tutti così. – Bisognava farsi imprestare qualche cosa dallo zio Giovanni, e non lasciare tua madre, – disse un’altra. – Lo zio Giovanni non è ricco, e gli dobbiamo diggià dieci lire! E il medico? e le

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

espressione dell’uso toscano, quindi letteraria e non intonata all’ambiente siciliano del racconto

Nedda finora è stata descritta solo attraverso i suoi sguardi e la sua voce; ora appare in piena luce: il suo ritratto comincia propriamente adesso

gli occhi rivelano la rassegnazione, l’impotenza e l’accettazione per inerzia della propria infelicità

la sintesi offerta dal narratore è fin troppo esplicita e didascalica

medicine? e il pane di ogni giorno? Ah! si fa presto a dire! – aggiunse Nedda scrollando la testa, e lasciando trapelare per la prima volta un’intonazione più dolente nella 65 voce rude e quasi selvaggia: – ma a veder tramontare il sole dall’uscio, pensando che non c’è pane nell’armadio, né olio nella lucerna, né lavoro per l’indomani, la è una cosa assai amara, quando si ha una povera vecchia inferma, là su quel lettuccio! – E scuoteva sempre il capo dopo aver taciuto, senza guardar nessuno, con occhi aridi, asciutti, che tradivano tale inconscio dolore, quale gli occhi più abituati alle lagri- 70 me non saprebbero esprimere. – Le vostre scodelle, ragazze! – gridò la castalda scoperchiando la pentola in aria trionfale. Tutte si affollarono attorno al focolare, ove la castalda distribuiva con paziente parsimonia le mestolate di fave. Nedda aspettava ultima, colla sua scodelletta sotto il 75 braccio. Finalmente ci fu posto anche per lei, e la fiamma l’illuminò tutta. Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell’attitudine15 timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, ap- 80 pena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza16 di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati 85 stupidi per una triste e continua rassegnazione. Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi, erano diventate grossolane, senza esser robuste. Ella faceva da manovale,17 quando non aveva da trasportare sassi nei terreni che si andavano dissodando;18 o portava dei carichi in città per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi inferiori al 90 còmpito dell’uomo. La vendemmia, la messe,19 la ricolta20 delle olive per lei erano delle feste, dei giorni di baldoria, un passatempo, anziché una fatica. È vero bensì che fruttavano appena la metà di una buona giornata estiva da manovale, la quale dava 13 bravi soldi! I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano grottesca21 quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza muliebre.22 L’immaginazione più vi- 95 vace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un’aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l’aveva schiacciata da bambi- 100 na con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza. – Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. – E dei suoi fratelli in Eva23 bastava che le rimanesse quel tanto che occorreva per comprenderne gli ordini, e per prestar loro i più umili, i più duri servigi.

15. attitudine: atteggiamento. 16. avvenenza: bellezza. 17. manovale: operaio generico, addetto a lavori di fatica, soprattutto nelle imprese di costruzioni.

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18. dissodando: preparando, ripulendo perché potessero essere coltivati. 19. messe: voce dotta per «mietitura». 20. ricolta: raccolta, qui secondo grafìa ormai disusata.

21. grottesca: ridicola perché strana o deforme. 22. muliebre: femminile. 23. fratelli in Eva: gli uomini, secondo un’espressione biblica.

G. Verga, Vita dei campi, a cura di C. Riccardi, Le Monnier, Firenze 1987 24. l’ultima: per ultima.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Rispetto alla precedente produzione verghiana, le novità recate da Nedda sono evidenti, perché riguardano contemporaneamente: • il genere: dal romanzo si passa alla novella; • l’ambientazione: dallo sfondo mondano e cittadino si passa alla campagna, con una degradazione sociale ed economica dei personaggi; • il tono psicologico: dal sentimentalismo romantico si passa al giudizio morale; • l’atteggiamento complessivo dello scrittore; il racconto è infatti presentato, nel prologo, come una «favola», come una «fantasticheria», di cui pure si garantisce la veridicità. L’insieme di queste novità consente a Verga di esplorare una soluzione letteraria ben diversa da Eros e Tigre reale, opere contemporanee a Nedda: egli approda a un racconto di taglio insieme realistico e didascalico, certo ancora ingenuo e imperfetto, ma che lascia intuire strade della scelta letteraria che sta intraprendendo. ■ Nella premessa l’autore presenta il racconto come un riaffiorare di un ricordo del passato. Verga, parlando in prima persona, ricorda che un giorno se ne stava pigramente dinanzi al caminetto con il fuoco acceso; e mentre il suo spirito era in bilico fra i sogni e i ricordi, riemerge nel pensiero un’altra fiamma, che egli aveva già visto ardere nell’immenso focolare della fattoria del Pino alle pendici dell’Etna. ■ Si passa quindi al ritratto dell’ambiente, sullo sfondo del quale si svolgeranno le vicende, e in particolare tra le venti o trenta donne che lì si riparano dal vento e dall’acqua, una sera, dopo il lavoro, in attesa dell’umile cena. ■ Infine viene delineato l’ampio ritratto della protagonista. Il lungo paragrafo descrittivo (Era una ragazza bruna, vestita miseramente...) rappresenta anche i particolari fisici del personaggio, ma accompagnandoli con considerazioni di natura sociologica. Presentare Nedda come un essere ai limiti del subumano sarebbe una pura crudeltà, da parte di Verga, se egli non avesse attribuito esplicitamente la ragione di tale degrado alle condizioni di vita imposte dal misero contesto sociale (la miseria l’aveva schiacciata da bambina con

tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza). ■ Il ritratto di Nedda non è dunque una descrizione «neutra». Esprimendo il proprio giudizio, che è di pietà per l’essere umano di umile condizione, il narratore invita chi legge a un rapporto di «complicità» con lui: il lettore può e deve porsi sullo stesso livello di chi narra, provandone gli stessi sentimenti. Si tratta, a ben guardare, di un atteggiamento ancora paternalistico, in cui Verga si trova, suo malgrado, invischiato. Per uscirne, dovrà dopo Nedda sperimentare una ben diversa ricerca di «oggettività». LAVORIAMO SUL TESTO 1. Quando è stato scritto il bozzetto di Nedda? Perché si tratta di un testo di fondamentale importanza nella produzione di Verga? 2. Cosa differenzia questo racconto dalle precedenti opere verghiane? 3. Quali elementi rendono Nedda un tipico «bozzetto siciliano»? 4. Riassumi con le tue parole i caratteri salienti della protagonista, dal punto di vista sia fisico sia psicologico (max 15 righe). 5. Sottolinea nel testo tutti gli elementi da cui emergono gli interventi, espliciti o impliciti, da parte dell’autore. Ora rifletti: sono tanti, pochi o nessuno? 6. Ti sembra che Nedda sia integrata con le compagne di lavoro oppure no? Rispondi con opportuni riferimenti al testo. 7. Così come viene presentata dal narratore, la protagonista Nedda incarna a il tipo di un essere umano raggomitolato sull’ultimo gradino della scala umana, tranne che per gli occhi b una sorta di regina, ma purtroppo le circostanze le danno un aspetto esteriore ben diverso c una sorta di regina, come gli occhi della ragazza evidenziano d una povera creatura ai limiti della condizione umana, come gli occhi rivelano apertamente. Scegli la risposta corretta e motivala. 129

Monografia Raccordo

Nedda sporse la sua scodella, e la castalda ci versò quello che rimaneva di fave nel- 105 la pentola, e non era molto! – Perché vieni sempre l’ultima?24 Non sai che gli ultimi hanno quel che avanza? – le disse a mo’ di compenso la castalda.

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

La parola al critico Verga tra vecchio e nuovo Ecco su Nedda le pungenti osservazioni di Luigi Russo (1892-1961), uno dei maggiori studiosi di Verga. Il critico sottolinea da una parte l’interesse di Verga per un soggetto così nuovo, dall’altra i limiti della sua arte alle prese con l’argomento del «bozzetto siciliano». Ma è proprio nei dialoghi di Nedda che si può cogliere, secondo il critico, il valore delle novità artistiche che porteranno Verga a maturare un «nuovo metodo». Un artificio di impacciato narratore è l’esordio, con quella digressione sul caminetto: quelle pagine sono come una confidenza d’autore ad un amico, interessanti per la genesi psicologica del racconto, ma estranee alla sostanza artistica del racconto stesso. Assai prolisso, e condotto alla maniera manzoniana, è il ritratto di Nedda: “Era una ragazza bruna”, che continua per due buone pagine: Verga non è un ritrattista, ché il ritratto richiede qualità d’arte, ma appoggiate a un fondo critico. Egli è piuttosto il poeta della melodia e della macchia.1 Ma il difetto di questo ritratto si giustifica e procede da una certa distanza di affetti, con cui egli viene raccontando le vicende della protagonista: l’artista è ancora un uomo di un’altra società, che si interessa alla vita dei poveri diavoli, e vuole come vederli in posa, per farne la pittura completa. E la sua pietà per Nedda è ancora più filantropia2 che umanità: perdura in lui ancora uno stato d’animo polemico, contro l’ipocrisia sociale, contro il rigorismo farisaico.3 “Lo zio Giovanni la soccorreva per quel poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile, e le impedì di morir di fame.” E, parlando della bambina che Nedda ha voluto tener con sé, pur tra gli stenti, per non gettarla alla Ruota,4 lo scrittore annota: “Le comari la chiamavano sfacciata, perché non era stata ipocrita, e perché non era snaturata”. Nedda qui è difesa, non rappresentata, che è quello soltanto che noi vogliamo da un artista [...]. Anche la descrizione di tutte quelle raccoglitrici di ulive ha l’andamento di una delle descrizioni care a Tommaso Grossi e agli altri manzoniani; e si distingue per un guizzo di una umanità più risentita, umanità polemicamente equa, e in cui tutti sono passati in rassegna, le ragazze, la castalda, il pecoraio che si mette a suonare certa arietta montanina che pizzicava le gambe, e il cane stesso che brontolava per timore che gli pestassero la coda. Tutti raffigurati con una equità che è una forma di giustizia incontrovertibile: “Pioveva, e il vento urlava incollerito; le venti e trenta donne ecc.”, e giù per una pagina e mezzo. Il Verga abbandonerà presto questi modi di raccontare, e già in questo racconto stesso5 scoppia la rivoluzione del suo nuovo metodo. O c’è il dialogo diretto, piegato a una inflessione che è un commento interno di chi parla e dell’artista che trascrive per lui; o c’è il dialogo raccontato, in cui lo scrittore, con l’aria di riassumere, presenta in iscorcio i sentimenti dei personaggi mescolandoli a qualche rapida didascalia. L. Russo, Giovanni Verga, Laterza, Roma-Bari 1995

1. il poeta della melodia e della macchia: cioè la sua arte risalta quando riproduce sulla pagina le battute di dialogo come una melodia corale, o quando esprime i forti chiaroscuri (la macchia) di passioni violente e primitive. 2. filantropia: amore per gli altri, ma in

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senso generico. 3. rigorismo farisaico: i giudizi morali di chi (come il curato ricordato poco sotto) si disinteressa delle concrete condizioni dei poveri. 4. Ruota: «una specie di gabbione, girevole su un perno, nella apertura di un muro, in

uso nei conventi di suore, per passarvi cibi o altri oggetti. I trovatelli venivano depositati in uno degli scompartimenti, e poi erano ritrovati dalle suore e rimaneva ignota la madre» (L. Russo). 5. in questo racconto stesso: cioè in Nedda.

Giovanni Verga

Contesto

VITA DEI CAMPI

L’origine della raccolta ◗ Il successo di Nedda (giugno 1874) suscitò richieste di altri racconti da parte degli editori. Già a partire dal luglio del 1874 Verga, ritornato da Milano in Sicilia per la stagione estiva e attirato dalla possibilità di facili e immediati guadagni, scrisse varie novelle, destinate a formare una successiva raccolta, che uscì nell’autunno del 1876 (stampato da Brigola di Milano) con il titolo Primavera e altri racconti. In seguito, l’autore passò a lavorare su due progetti contemporaneamente: i racconti destinati al nuovo volume, Vita dei campi, e il romanzo I Malavoglia. ◗ I racconti furono composti tra l’agosto del 1878 e il luglio del 1880 e uscirono, prima che in volume, su diverse riviste e periodici: sul «Fanfulla della Domenica» apparvero Fantasticheria, Cavalleria rusticana, Guerra di santi e Pentolaccia; sul «Fanfulla» Rosso Malpelo; sulla «Fronda» Jeli il pastore (in una redazione abbreviata rispetto a quella definitiva); sulla «Rivista nuova di scienze, lettere e arti» La Lupa; sulla «Rivista minima» L’amante di Gramigna (con il titolo L’amante di Raja). Infine le otto novelle vennero raccolte con il titolo complessivo di Vita dei campi e stampate dall’editore Emilio Treves di Milano nel 1880. ◗ L’ambientazione è posta nel mondo siciliano: proseguendo sulla falsariga di Nedda, Verga assume definitivamente quale argomento della propria narrativa i ceti sociali più bassi. Influirono su di lui sia l’opera di Émile Zola sia gli spunti di riflessione forniti dall’Inchiesta in Sicilia di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino (1876), in cui si documentavano le durissime condizioni di sfruttamento delle popolazioni siciliane.

Il primo capolavoro del Verismo verghiano ◗ Vita dei campi riscosse interesse e apprezzamento, anche grazie a una lusinghiera recensione di Luigi Capuana sul «Corriere della Sera» (20-21 settembre 1880). Del resto l’opera si presentava molto compatta e omogenea, anche perché Verga aveva sottoposto le novelle (dopo la prima stampa in rivista) a una severa revisione lessicale, così da eliminare le imprecisioni o gli eccessi di letterarietà. Fu un lavoro di concentrazione espressiva grazie a cui sentimenti e giudizi finivano «oggettivati» nella cruda evidenza dei «fatti», secondo la poetica del Verismo. L’attenzione del narratore oscilla fra alcuni elementi tipici della vita siciliana e i lati oscuri della psicologia umana. ◗ Il primo testo, Fantasticheria, che narra il ritorno dell’autore in Sicilia e il suo desiderio di raccontare la vita che si svolge tra la povera gente, ha un valore di prefazione o premessa ai testi seguenti. ◗ Cinque novelle ruotano intorno al motivo dell’amore-passione e presentano tutte una contrapposizione di due personaggi principali e una conclusione drammatica o violenta: • in Jeli il pastore un ingenuo e semplice guardiano di bestiame, dopo aver scoperto che la moglie è stata sedotta da un amante, con «primitiva» spontaneità si vendica tagliando la gola al rivale; • in Cavalleria rusticana Alfio sfida a duello e uccide Turiddu, poiché questi ha osato riaccostarsi a Lola, ora sua moglie ma già amante dello stesso Turiddu; • in La Lupa la protagonista è una donna di grande fascino, la quale non teme di concedersi a diversi spasimanti, fino a che il genero, per liberarsi dal suo malefico carisma, la uccide; • analogamente, in L’amante di Gramigna la giovane Peppa si trasforma in «lupa», assecondando l’istinto che la porta ad amare un bandito (Gramigna, così chiamato dal nome di un’erbaccia) e a seguirlo anche dopo la cattura e la prigionia; • infine, Pentolaccia narra la storia di un marito cieco, che, vittima dei tradimenti della moglie, uccide il rivale per liberarsi dell’onta e della vergogna. Testi • Rosso Malpelo

◗ Dei due racconti rimanenti, Rosso Malpelo ha per protagonista un singolo personaggio, un povero minatore che si perde nella miniera per inseguire il fantasma del padre defunto; l’altro, Guerra dei santi, ha invece come protagonista un intero paese, coinvolto nei conflitti fra bande rivali. 131

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L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento

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Lettera-prefazione a L’amante di Gramigna Vita dei campi Anno: 1880 Temi: • lo sforzo della letteratura di aderire alla realtà • l’opportunità che la scrittura letteraria sia impersonale • l’attenzione costante alle dinamiche psicologiche Il breve testo, che apre la novella L’amante di Gramigna, si presenta come una lettera indirizzata all’amico Salvatore Farina: quest’ultimo era il direttore della «Rivista minima», il periodico sul quale nel febbraio del 1880 la novella fu pubblicata, con il titolo originario di L’amante di Raja. Siamo di fronte alla pagina di poetica più concentrata e rivelatrice dell’intera produzione di Verga, il primo «manifesto» teorico del suo Verismo.

è il presupposto del nuovo linguaggio veristico: lo stile non proviene dall’autore; è (o deve sembrare) costruito e parlato dai personaggi

non l’argomento, ma il «metodo» di approccio, il più possibile «scientifico», distingue il Verismo dalla precedente letteratura

A Salvatore Farina. Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto.1 Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico – un documento umano,2 come dicono oggi – interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore.3 Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a po- 5 co colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto,4 senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato,5 delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne.6 Il misterioso processo per 10 cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello 15 d’arrivo;7 e per te basterà, – e un giorno forse basterà per tutti.8 Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi,9 con metodo diverso, più minuzioso e più intimo.10 Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe11 resa meno impreveduta,12 meno drammatica forse, ma non meno fatale. 20

1. l’abbozzo di un racconto: la novella conterrà solo i nudi fatti, esposti in modo sintetico e sommario, senza pretese di completezza stilistica e formale. 2. documento umano: così i naturalisti francesi definivano l’opera d’arte. Federico De Roberto intitolò nel 1888 Documenti umani una sua raccolta di racconti. 3. gran libro del cuore: per Verga, qualunque sia il «metodo» narrativo adottato, raccontare significa analizzare sentimenti e passioni. 4. col fatto nudo e schietto: l’arte «oggettiva» del Naturalismo vive di soli «fatti». 5. l’efficacia dell’essere stato: il fatto rea-

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le, effettivamente avvenuto, è più persuasivo di ogni invenzione. 6. febbri... carne: studiare il gran libro del cuore non significa, come per i romantici, abbandonarsi liricamente al sentimento, ma analizzare l’«anatomia» e la «fisiologia» degli effetti reali e concreti prodotti, dalla passione, sull’individuo. 7. il punto di partenza e quello d’arrivo: secondo i naturalisti, il comportamento umano non è libero, ma determinato da leggi o fattori cui è impossibile sottrarsi; pertanto, stabiliti l’inizio e l’esito di una vicenda, si possono esaurientemente ricostruire i passaggi intermedi.

8. basterà per tutti: infatti, una volta approfondito lo studio del gran libro del cuore umano, diventerà inutile avviare una ricostruzione dettagliata dei moventi e delle reazioni psicologiche dei personaggi. 9. monumenti gloriosi: i grandi capolavori della letteratura. 10. Noi rifacciamo... intimo: l’arte verista si colloca sulla scia dell’arte del passato, pur se ne muta il metodo, che diviene più minuzioso e più puntuale nel registrare le sfumature (intimo). 11. catastrofe: il colpo di scena finale che risolve la trama narrativa. 12. impreveduta: inaspettata.

ecco il proposito dell’assoluta oggettività o impersonalità dell’arte

Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immagi- 25 nazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?13 Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’arti- 30 sta rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine. Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certo 35 Gramigna, se non erro, un nome maledetto come l’erba che lo porta, il quale da un capo all’altro della provincia s’era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati e militi a cavallo lo inseguivano da due mesi... G. Verga, Vita dei campi, cit.

13. fatti diversi: con tale espressione Zola indicava i romanzi naturalisti; forse Verga si riferisce qui agli articoli di cronaca dei

giornali. In ogni caso il senso è chiaro: allorquando la conoscenza dei meccanismi dei sentimenti sarà perfezionata, e trion-

ferà nel nuovo romanzo, all’arte non resterà che illustrare i casi anomali, le passioni eccezionali.

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ La prefazione sviluppa tre concetti essenziali, che costituiscono il cardine del Verismo verghiano: • in primo luogo, la letteratura deve aderire alla realtà, così da riprodurre il fatto nudo e schietto, il semplice fatto umano che, scrive Verga, avrà sempre l’efficacia dell’essere stato; • inoltre lo scrittore deve essere il più oggettivo e «im-

personale» possibile, in modo che l’opera, dice Verga, sembrerà essersi fatta da sé; • infine bisogna che l’autore verista rimanga attento alle dinamiche psicologiche del cuore: ritrarre il vero non significa abbandonare l’indagine sui moventi psicologici e affettivi; solo, lo scrittore verista li studierà con scrupolo scientifico.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ L’adesione al Naturalismo non significa ancora, per Verga, che l’autore debba realmente scomparire. Sarà Pirandello, qualche decennio più tardi, a teorizzare un’opera d’arte che si fa senza il proprio autore. Verga, per ora, teorizza non la poetica dell’assenza, ma quella del nascondimento dell’autore. Quest’ultimo dovrà rientrare perfettamente all’interno della propria opera, osservare le cose con l’ottica stessa dei suoi personaggi, parlare come i personaggi parlano ecc. Verga auspica insomma che il narratore abbandoni la lente dello scrittore, che a suo giudizio è una lente sempre deformante, perché introduce un elemento soggettivo in quella che de-

ve essere, invece, imparziale e oggettiva riproduzione della realtà. ■ Il testo risale alla prima fase del Verga verista, quando egli ancora dava grande importanza allo studio della vita emotiva dei suoi personaggi. Perciò si dedica qui particolare attenzione al gran libro del cuore. Solo nella successiva produzione verghiana diverrà preponderante lo studio delle dinamiche economiche e sociali. Per adesso l’argomento privilegiato rimane la vita dei sentimenti e delle passioni, come già era stato per i romantici; ciò che cambia è che l’analisi moderna si studia di seguire quelle passioni con scrupolo scientifico. 133

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l’autore verista si accosta ai suoi argomenti con maggiore «umiltà», ma non rinuncia a perseguire i più alti fini artistici

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

ANALISI OPERATIVA

{ I temi 1. Il primo concetto che Verga afferma è l’esigenza di un realismo di stampo nuovo, «scientifico», ispirato ai criteri della cultura positivistica. a. L’argomento di un racconto moderno, secondo Verga, deve essere a il groviglio dei fenomeni psicologici che governa il comportamento degli uomini b le passioni d’amore c la società industriale e le sue trasformazioni d i processi creativi da cui nasce l’arte Motiva in breve la tua scelta. 2. La prefazione contiene un’importante precisazione sul metodo che Verga intende perseguire in campo letterario. L’obiettivo del vero implica infatti il nascondimento dell’autore. a. Adottare in modo sistematico questo metodo, secondo te, porta alla conseguenza che a l’autore deve abbandonare la descrizione di eventi psicologici e soggettivi, per concentrarsi sui soli fatti esteriori b l’insieme dei fatti che costituiscono la narrazione dovrà risultare così ben concatenato, da non lasciare spazio ai sentimenti e alla fantasia dell’autore c le opere d’arte del Verismo finiranno per assomigliare alla realtà al punto da risultare tutte molto simili tra loro. Motiva in breve la tua scelta. b. L’arte, dice Verga, deve diventare un documento umano. Quale altro autore francese aveva affermato lo stesso concetto? ...............................................................................................

LAVORIAMO SU

a. Rifletti sull’espressione lagrime vere... febbri... sensazioni che sono passate per la carne: questi elementi rimangono oppure no l’argomento privilegiato della lettesì no ratura veristica? b. Se hai risposto di sì, spiega in breve che cosa cambia allora rispetto al passato. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

{ Forme e stile 4. La nuova poetica, teorizzata in questa letteraprefazione, ha delle importanti conseguenze anche per quanto riguarda il linguaggio e lo stile. a. Identifica nel testo il punto in cui Verga esprime le sue intenzioni in materia di forma e linguaggio.

LINGUA E LESSICO

1. Il testo contiene alcune espressioni pregnanti, che appartengono al nuovo linguaggio della cultura positivistica e del Naturalismo letterario. a. Spiega con le tue parole il significato delle seguenti espressioni: – un documento umano ............................................................................................... ...............................................................................................

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3. Un obiettivo del Verismo, dice Verga, è indagare nel gran libro del cuore; ma dovrà farlo con scrupolo scientifico.

– la lente dello scrittore ............................................................................................... ............................................................................................... – la scienza del cuore umano ............................................................................................... ............................................................................................... – la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile ............................................................................................... ...............................................................................................

La Lupa Vita dei campi Anno: 1880 Temi: • la preponderanza degli istinti e della passione sessuale • la solitudine e l’emarginazione della protagonista • un mondo popolare e «primitivo» È uno dei racconti più noti del Verga verista. In realtà qui il livello di realismo è, contemporaneamente, molto alto e insieme basso: il testo, infatti, narra una vicenda quasi fuori dal tempo e dallo spazio, circondata da un alone mitico o fiabesco, come certe storie di streghe e di incantesimi della tradizione popolare.

il ritratto resta implicito, perché la Lupa è già nota al coro popolare cui si rivolge, e perché Verga non vuole dare giudizi da narra tore tradizionale la Lupa è un personaggio diabolico, che trascina nella perdizione tutti coloro che le passano accanto la narrazione procede come una fiaba: tempi e luoghi sono lasciati nel vago

Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna – e pure1 non era più giovane – era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai – di nulla.2 Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, 5 con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso,3 fossero stati davanti all’altare di Santa Agrippina. Per fortuna la Lupa non veniva4 mai in chiesa, né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. – Padre Angiolino 10 di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l’anima per lei. Maricchia,5 poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l’avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole,6 come ogni altra ragazza del villaggio. Una volta la Lupa si innamorò di un bel giovane che era tornato da soldato, e mie- 15 teva il fieno con lei nelle chiuse del notaro;7 ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto,8 e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Ma lui seguitava a mietere tranquillamente, col naso sui manipoli,9 e le diceva: – O che avete, gnà10 Pina? – Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, 20 quando il sole batteva a piombo, la Lupa affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco,11 pur di stare sempre alle calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando: – Che volete, gnà Pina? –

1. e pure: eppure. 2. la Lupa... nulla: si sovrappongono qui due allusioni. L’una, popolare, fa riferimento alla proverbiale voracità dei cani e dei lupi; l’altra, letteraria, rimanda a un passo dell’Inferno di Dante Alighieri (canto I, vv. 49-50) in cui è nominata «...una lupa, che di tutte brame / sembiava carca ne la sua magrezza», simbolo dell’avidità insaziabile. 3. satanasso: demonio. 4. non veniva: il verbo riporta il racconto

al punto di vista dei paesani; a loro sembra rivolgersi il narratore popolare. Un autore tradizionale avrebbe scelto “non andava”. 5. Maricchia: diminutivo di Maria. 6. e nessuno... sole: nessuno l’avrebbe presa (tolta) in moglie, benché avesse non solo il corredo, ma anche della terra. L’eccezionalità della Lupa risalta nel confronto con la normalità di Maricchia, che è invece simile a ogni altra ragazza del villaggio. 7. nelle chiuse del notaro: negli appezza-

menti di terreno recintati, di proprietà del notaio. 8. fustagno del corpetto: veste di stoffa grossa, di lana o cotone. 9. manipoli: fasci di grano o di fieno mietuti. 10. gnà: è forma idiomatica del dialetto siciliano (per aferesi dallo spagnolo dueña, “donna”). Si differenzia da «donna», riservato a persone di più elevata condizione. 11. al fiasco: del vino.

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Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

l’esclamazione si ripete in forma di chiasmo, per sottolineare il desiderio sessuale (idea rafforzata dalle immagini del sole e del miele)

la Lupa vuole Nanni, Nanni vuole concludere un buon affare: il mondo di Verga ruota intorno a istinto e interesse Verga ricorre spesso ai proverbi perché esprimono il giudizio popolare sui fatti (qui l’esclusione sociale della Lupa)

indicazioni spaziali generiche: la descrizione è vaga, immersa in un’atmosfera fiabesca o leggendaria

Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell’aia, stanchi dalla 25 lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna nera: – Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te! – Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella12 – rispose Nanni ridendo. La Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andò; né più comparve nell’aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano 30 l’olio,13 perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo scricchiolio del torchio non la faceva dormire14 tutta notte. – Prendi il sacco delle olive, – disse alla figliuola, – e vieni con me. Nanni spingeva con la pala le olive sotto la macina, e gridava – Ohi! – alla mula15 perché non si arrestasse. – La vuoi mia figlia Maricchia? – gli domandò la gnà Pina. – 35 Cosa gli date16 a vostra figlia Maricchia? – rispose Nanni. – Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io le do la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po’ di pagliericcio. – Se è così se ne può parlare a Natale – disse Nanni. Nanni era tutto unto e sudicio dell’olio e delle olive messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto;17 ma sua madre l’afferrò pe’ capelli, davanti 40 al focolare, e le disse co’ denti stretti: – Se non lo pigli, ti ammazzo!18 – La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non andava più di qua e di là; non si metteva più sull’uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia, quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l’abitino della Madonna per segnarsi.19 Maricchia stava 45 in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante20 di gennaio, oppure scirocco21 di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi22 a ridosso del muro a tramontana.23 In quell’ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina 50 buona,24 la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell’afa, lontan lontano, verso l’Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull’orizzonte. – Svegliati! – disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. – Svegliati, ché ti ho portato il vino25 per rinfrescarti la gola –. 55

12. Ed io invece... zitella: Nanni, l’uomo socialmente integrato, inizia con la Lupa una lunga battaglia, nella quale è destinato a rimanere sconfitto. 13. cavavano l’olio: spremevano con il torchio la pasta d’olive, per ottenere l’olio. 14. non la faceva dormire: non per il rumore, ma perché le ricorda Nanni: ciò ridesta in lei il desiderio sessuale. 15. alla mula: era infatti la mula a far muovere la macina. 16. Cosa gli date: la forma corretta sarebbe «le» (= “a lei”), ma dal momento che è seguito dal complemento di termine (a vostra figlia Maricchia), il pronome è del tutto superfluo. È una di quelle deviazioni dalla norma sintattica care al Verga verista, in quanto utili a riprodurre la parlata popolare (cfr. poco dopo a me mi basterà...).

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17. a nessun patto: a nessuna condizione. 18. Se non lo pigli, ti ammazzo!: emerge qui il temperamento selvaggio della Lupa, che utilizza senza esitare la figlia come strumento per i suoi scopi. 19. cavava fuori... per segnarsi: si faceva il segno della croce sull’abitino o “scapolare”, che recava davanti e dietro le spalle l’immagine o il nome della Madonna. È un gesto di scaramanzia popolare: anche le donne del paese si facevano la croce al veder passare la Lupa. 20. fosse stato greco e levante: cioè con qualsiasi condizione atmosferica. Greco e levante sono due venti: il primo, detto anche grecale, soffia da nord-ovest, il secondo da est. 21. scirocco: vento caldo e umido di provenienza africana, che soffia da sud-est.

22. bocconi: a pancia in giù. 23. a tramontana: cioè a nord, per difendersi dallo scirocco che soffia da sud. 24. In quell’ora... buona: una femmina buona, cioè una donna onesta, se ne resta in casa fra vespero e nona, cioè nelle ore più calde del pomeriggio, fra le quindici (nona) e le diciotto (vespero). Andare in volta significa “andare in giro”. Il nuovo proverbio ribadisce la natura popolare del racconto. 25. il vino: diviene lo strumento dell’incantesimo con cui la Lupa vince le ultime resistenze di Nanni. È come un filtro magico, l’equivalente della mela che il serpente offre a Eva nel paradiso terrestre o della mela avvelenata delle fiabe.

si riconferma ulteriormente la natura diabolica della Lupa

chiunque sia legato alla Lupa è emarginato dalla collettività

Nanni spalancò gli occhi imbambolati, tra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani. – No! non ne va in volta femmina buona nell’ora fra vespero e nona! – singhiozzava Nanni,26 ricacciando la faccia contro l’erba secca del fossato, in fondo in fondo, 60 colle unghie nei capelli. – Andatevene! andatevene! non ci venite più nell’aia! – Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe,27 guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone. Ma nell’aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla. Quando tardava a venire anzi, nell’ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in cima alla viotto- 65 la bianca e deserta, col sudore sulla fronte – e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta: – Andatevene! andatevene! Non ci tornate più nell’aia! – Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch’essa,28 allorché la vedeva tornare 70 da’ campi pallida e muta ogni volta. – Scellerata! – le diceva. – Mamma scellerata! – Taci! – Ladra! ladra! – Taci! – Andrò dal brigadiere, andrò! 75 – Vacci! E ci andò davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché adesso l’amava anche lei quel marito che le avevano dato per forza, unto e sudicio delle olive messe a fermentare. Il brigadiere fece chiamare Nanni; lo minacciò sin della galera e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò di scolpar- 80 si. – È la tentazione! – diceva; – è la tentazione dell’inferno! – Si buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera. – Per carità, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! Fatemi ammazzare, mandatemi in prigione! non me la lasciate veder più, mai! mai! – No! – rispose invece la Lupa al brigadiere – Io mi son riserbato un cantuccio del- 85 la cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia; non voglio andarmene.29 Poco dopo, Nanni s’ebbe nel petto un calcio dal mulo, e fu per morire;30 ma il parroco ricusò31 di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se ne andò, e suo genero allora si poté preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; si confessò e 90 comunicò con tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel giorno, prima che il diavolo32 tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell’anima e nel corpo quando fu guarito. – Lasciatemi stare! – diceva alla Lupa – Per carità, lasciatemi

26. singhiozzava Nanni: il narratore passa immediatamente al momento successivo, cioè al pentimento di Nanni. Ripetendo il proverbio popolare (una donna è onesta se sta in casa durante il giorno), egli sancisce il comportamento immorale della Lupa e anche la propria colpa (si è lasciato sedurre).

27. riannodando le trecce superbe: immagine di notevole efficacia nella sua concisione; suggerisce, più che esprimere, il soddisfacimento del desiderio, il risultato ottenuto con l’incantesimo. 28. come una lupacchiotta anch’essa: il comportamento della madre ha infatti risvegliato in lei, più che il sentimento della

famiglia, il senso del possesso: Nanni è suo, e non intende cederlo senza lottare. 29. No!... andarmene: la volontà della Lupa domina gli eventi, costringendo i personaggi ad adattarvisi. 30. fu per morire: fu sul punto di morire. 31. ricusò: rifiutò. 32. il diavolo: cioè la suocera.

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l’atto sessuale è solo alluso; è un caso tipico di reticenza del narratore

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

la novella porta i tratti di una leggenda popolare, in cui la Lupa è una strega che fa malefici e incantesimi

la donna vive solo per appagare i propri desideri, per i quali è pronta a sacrificare la vita

la morte della Lupa viene solo allusa, lasciata alla fantasia del lettore

in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora 95 tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me... – Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne’ suoi gli facevano perdere l’anima ed il corpo. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall’incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio, e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere.33 A Pasqua andò a confessarsi, e 100 fece pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza34 – e poi, come la Lupa tornava a tentarlo: – Sentite! – le disse, – non ci venite più nell’aia, perché se tornate a cercarmi, com’è vero Iddio, vi ammazzo! – Ammazzami, – rispose la Lupa, – ché non me ne importa; ma senza di te non vo- 105 glio starci –. Ei35 come la scorse da lontano, in mezzo a’ seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall’olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi,36 e 110 mangiandoselo con gli occhi neri. – Ah! malanno all’anima vostra! – balbettò Nanni. G. Verga, Vita dei campi, cit.

33. aiuto al parroco e al brigadiere: le due figure incarnano, agli occhi di Nanni, la medesima funzione magica di amuleto. 34. sei palmi di lingua... penitenza: forma primitiva di penitenza, che consisteva

nel passare la lingua sulla pietra del sagrato, procurandosi in tal modo ferite. Compiere questo atto pubblicamente costituisce l’ultima risorsa che Nanni può opporre all’incantesimo.

35. Ei: egli. 36. manipoli di papaveri rossi: i fasci dei fiori appena tagliati sono il simbolo della sensualità e assieme, come in precedenza il vino, strumento magico di seduzione.

■ Teofilo Patini, Bestie da soma (particolare), 1886. 138

IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ Il racconto, concentratissimo nella sua struttura, presenta il seguente schema narrativo: • esiste un contrasto morale fra la donna che tutti chiamano la Lupa e il villaggio nel quale vive; • la Lupa s’innamora di Nanni, un giovane e prestante contadino; • la Lupa rivela a Nanni il proprio desiderio per lui, ma l’uomo si nega: vuole invece sposare Maricchia, la figlia della Lupa; • Maricchia non vuole Nanni, ma sua madre la obbliga a sposarlo;

• approfittando della sua nuova parentela con Nanni, la Lupa riesce a sedurlo; • Maricchia scopre la tresca e denuncia sua madre al brigadiere; ma nessuno può nulla di fronte all’ostinazione della Lupa; • emarginato da tutti a causa della tresca con la Lupa, Nanni cerca aiuto per allontanare la suocera da sé, fa penitenza ecc., ma nulla serve; • Nanni, infine, uccide la Lupa, che muore senza arretrare di un passo.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ La gnà Pina, la Lupa del titolo, è l’incarnazione di una femminilità primitiva, inquietante, incontrollabile; come tanti personaggi femminili della precedente narrativa mondana di Verga (per esempio Narcisa Valderi di Una peccatrice), anche la gnà Pina è, più che donna, maga, maliarda, sirena. Le sue armi non sono più quelle artificiose del fascino o della cultura; in lei il narratore approdato al Verismo disegna invece un’incarnazione delle forze più segrete e potenti della natura.

■ In tal modo la protagonista diviene l’emblema di una sessualità istintiva e animalesca, a cui allude il suo soprannome e il titolo stesso del racconto. Ella appare, in sostanza, una sorta di donna-bestia o di donna-demone, in cui prendono forma e corpo le forze inconsce dell’istinto. Contro di esse non c’è rimedio o esorcismo che tenga: l’uomo (in questo caso il giovane Nanni) non può che rimanerne semplice strumento e, insieme, vittima.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. La novella narra l’amore morboso e patologico della gnà Pina per gli uomini e in particolare per Nanni. a. È significativo anche il titolo del racconto. Che cosa vuole sottolineare? a l’andare randagio della donna, simile a quello di una lupa affamata b la sua protervia e capacità di ottenere ciò che vuole c l’aspetto animalesco di chi, vivendo sempre nella natura, finisce per inselvatichirsi b. Quale risposta preferisci? E ce n’è almeno una che scarteresti senza esitare? Motiva la risposta. 2. Nel descrivere la protagonista, Verga insiste soprattutto sugli occhi, le labbra, il volto, cioè sugli elementi fisici che sottolineano l’avidità di uomini da parte della Lupa. a. Evidenzia nel testo i termini e le espressioni più significative di questa dimensione carica di sensualità. 3. Al contrario della madre, la figlia Maricchia non viene descritta dal narratore né direttamente né

indirettamente: di lei non sappiamo se è bella o meno, se somiglia alla madre ecc. a. Secondo te, perché Verga non offre un ritratto della ragazza? ............................................................................................... ............................................................................................... b. E, a tuo avviso, quale conseguenza produce sul racconto questa mancanza? ............................................................................................... ............................................................................................... 4. Un elemento sul quale insiste il narratore è il suo potere demoniaco di seduzione: la Lupa sembra una creatura dell’inferno, tanto riesce ad attrarre gli uomini a sé, impedendo loro di liberarsi di questo maleficio. a. Evidenzia nel testo i segnali della diabolicità della Lupa, cioè le immagini e le espressioni che associano la gnà Pina al mondo demoniaco. Trascrivile qui sotto. ............................................................................................... ............................................................................................... b. Ora rifletti: che cosa ci rivela questo elemento circa la mentalità dell’epoca e dell’ambiente in cui si svolge la narrazione? 139

Monografia Raccordo

ANALISI DEL TESTO

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

{ Forme e stile 5. La Lupa viene presentata sia direttamente dal narratore, sia, più indirettamente, da ciò che la gente dice e pensa di lei. a. Ritrova nel testo entrambi i tipi di presentazione. – In quali punti emerge la presentazione diretta da parte di Verga? – E in quali altri punti lo scrittore lascia che il personaggio sia raffigurato dalla gente del paese? b. Ora rifletti: quale delle due modalità dipende dalla poetica verista di Verga? Spiega in breve perché. 6. La novella è contrassegnata da un’atmosfera di violenza, di durezza e drammaticità. Tale sensazione dipende sia dall’aspetto esteriore dei personaggi, sia dall’ambiente in cui vivono, sia, infine, dalle loro reazioni psicologiche. a. Sottolinea nel testo tutti gli elementi a tuo avviso significativi che contribuiscono a creare questa atmosfera, suddividendoli in tre gruppi:

LAVORIAMO SU

7. L’autore s’identifica con il narratore popolare, che parla al pubblico dei paesani mimando le scene con il gesto (due occhi grandi così) e vivacizzando il racconto con riferimenti diretti a chi ascolta/legge (labbra... che vi mangiavano). a. Cerca nel testo altri esempi significativi di questa particolarissima modalità di narrazione, per la quale l’autore mette tra parentesi la propria superiorità culturale e regredisce al livello dei suoi personaggi. Trascrivili qui sotto. ............................................................................................ ............................................................................................ ............................................................................................

LINGUA E LESSICO

1. La novella produce nel lettore un vivo effetto di coinvolgimento emotivo, grazie a diverse tecniche espressive. • Le battute di dialogo brevi e incisive, che concentrano al massimo la tensione emotiva; • le ripetizioni ossessive che percorrono il testo, secondo i modi tipici del raccontare popolaresco; • la forte fisicizzazione del linguaggio, che corrisponde alla natura passionale della protagonista; • infine, l’atmosfera fiabesca, che nasce dalla genericità delle indicazioni di spazio e di tempo. a. Sottolinea nel testo frasi ed espressioni significative per documentare ciascuno dei fenomeni citati: – dialoghi – ripetizioni – linguaggio fisicizzato – atmosfera fiabesca 2. Nel riportare i discorsi e i pensieri dei suoi personaggi, il narratore può scegliere fra quattro diverse tecniche. • Il discorso diretto legato, nel quale le parole dei personaggi vengono riferite tra virgolette o lineette, precedute da un verbo dichiarativo; • il discorso diretto libero, nel quale le parole del per140

– aspetto fisico dei personaggi – ambiente naturale – reazioni psicologiche b. Ora rifletti: nel testo prevale l’espressione dei sentimenti, oppure la concretezza materiale e fisica della realtà? Motiva la risposta.

sonaggio sono riportate senza farle precedere dal verbo dichiarativo; • il discorso indiretto legato, nel quale il narratore riferisce le parole dei personaggi senza virgolette, ma facendole precedere da un verbo dichiarativo; • il discorso indiretto libero, nel quale le parole dei personaggi sono riportate senza virgolette e senza verbo dichiarativo: i lettori qui devono «indovinare» la presenza di un dialogo alle spalle del narrato. a. Individua nella novella esempi per ciascuna tipologia testuale. 1. discorso diretto legato (per esempio: – Scellerata! – le diceva, r. 70) ............................................................................................... 2. discorso diretto libero (per esempio: – Taci! –, r. 71) ............................................................................................... 3. discorso indiretto legato (per esempio: la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita, rr. 42-43) ............................................................................................... 4. discorso indiretto libero (per esempio: avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne’ suoi gli facevano perdere l’anima ed il corpo, rr. 97-98) ...............................................................................................

Cavalleria rusticana Vita dei campi Anno: 1880 Temi: • l’importanza dell’interesse economico • l’impulso fatale della gelosia e dell’«onore» • la violenza che caratterizza una società primitiva «Cavalleria» è un comportamento nobile e generoso, tipico dei cavalieri feudali; «rusticana» indica che quel modo di comportarsi, proprio dei cavalieri, viene rivissuto dai contadini della campagna. Pubblicata nel 1880, è una delle novelle più famose di Verga, anche grazie alla sua trasposizione teatrale: nel 1884, infatti, venne portata sulle scene con l’eccellente interpretazione di Eleonora Duse. Racconta una vicenda di adulterio e gelosia con lo stile originale, avvincente e «primitivo» che abbiamo incontrato nella Lupa.

un carrettiere con quattro muli è ricco; nei Malavoglia il carrettiere Alfio ha solo un asino e non appena diventa padrone di un mulo chiede in moglie Mena

la religione è un pretesto per coprire ben altre motivazioni

Turiddu1 Macca, il figlio della gnà2 Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll’uniforme da bersagliere e il berretto rosso,3 che sembrava quello della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini.4 Le ragazze se lo rubavano cogli occhi, mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronzavano attorno come le mosche. Egli aveva 5 portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli5 sul dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata. Ma con tutto ciò6 Lola di massaro7 Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul ballatoio, ché si era fatta sposa8 con uno di Licodia,9 il quale faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino10 in stalla. Dapprima Turiddu come lo seppe, santo 10 diavolone!11 voleva trargli fuori le budella della pancia, voleva trargli, a quel di Licodia! Però non ne fece nulla, e si sfogò coll’andare a cantare tutte le canzoni di sdegno che sapeva sotto la finestra della bella. – Che12 non ha nulla da fare Turiddu della gnà Nunzia, – dicevano i vicini, – che 15 passa la notte a cantare come una passera solitaria? Finalmente s’imbatté in Lola che tornava dal viaggio13 alla Madonna del Pericolo, e al vederlo, non si fece né bianca né rossa14 quasi non fosse stato fatto suo. – Beato chi vi vede! – le disse. – Oh, compare15 Turiddu, me l’avevano detto che siete tornato al primo del mese. – A me mi hanno detto delle altre cose ancora! – rispose lui. – Che è vero che vi 20 maritate con compare Alfio, il carrettiere? – Se c’è la volontà di Dio! – rispose Lola tirandosi sul mento le due cocche del fazzoletto.

1. Turiddu: diminutivo dialettale di Salvatore. 2. gnà: E nota 10, p. 135. 3. berretto rosso: il fez con la nappa dei bersaglieri. 4. quello della buona ventura... canarini: l’indovino che nelle fiere di paese predice il futuro per mezzo di bigliettini estratti a sorte da un uccello con il becco. 5. zolfanelli: fiammiferi. 6. Ma con tutto ciò: nonostante tutto questo. Il Ma iniziale mette in rilievo la

stranezza di un simile comportamento. Infatti Lola, in passato, era stata innamorata di Turiddu. 7. di massaro: figlia di (il massaro è un fattore o mezzadro, che amministra il podere per conto del padrone; genericamente, indica chi ha dei beni o un’attività da gestire). 8. si era fatta sposa: si era fidanzata. 9. Licodia: Licodia Eubea, sui monti Iblei, 80 km a sud-ovest di Catania. 10. Sortino: in provincia di Siracusa, 40 km a ovest di Vizzini.

11. santo diavolone!: imprecazione blasfema siciliana. 12. Che: interiezione interrogativa, tipica della parlata popolare siciliana, e frequentemente ripresa da Verga. 13. viaggio: pellegrinaggio. 14. non si fece né bianca né rossa: senza scomporsi; rimase cioè del tutto indifferente. 15. compare: appellativo del linguaggio familiare (lo stesso di comare); è usato in senso generico.

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Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

Verga non teme gli errori della sintassi (qui, un anacoluto) pur di avvicinarsi il più possibile al linguaggio e al pensiero dei suoi personaggi

la risposta di Turiddu è veritiera: l’ex fidanzata lo ha lasciato per uno più ricco di lui

– La volontà di Dio la fate col tira e molla come vi torna conto!16 E la volontà di Dio fu che dovevo tornare da tanto lontano per trovare ste17 belle notizie, gnà Lola! 25 Il poveraccio tentava di fare ancora il bravo,18 ma la voce gli si era fatta roca; ed egli andava dietro alla ragazza dondolandosi colla nappa19 del berretto che gli ballava di qua e di là sulle spalle. A lei, in coscienza, rincresceva di vederlo così col viso lungo,20 però non aveva cuore di lusingarlo con belle parole. – Sentite, compare Turiddu, – gli disse alfine, – lasciatemi raggiungere le mie com- 30 pagne. Che direbbero in paese se mi vedessero con voi?... – È giusto, – rispose Turiddu; – ora che sposate compare Alfio, che ci ha quattro muli in stalla, non bisogna farla chiacchierare la gente. Mia madre invece, poveretta, la dovette vendere la nostra mula baia,21 e quel pezzetto di vigna sullo stradone,22 nel tempo ch’ero soldato. Passò quel tempo che Berta filava,23 e voi non ci pensate 35 più al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi regalaste quel fazzoletto, prima d’andarmene, che Dio sa quante lacrime ci ho pianto dentro nell’andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del nostro paese. Ora addio, gnà Lola, facemu cuntu ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu.24 La gnà Lola si maritò col carrettiere; e la domenica si metteva sul ballatoio, colle 40 mani sul ventre per far vedere tutti i grossi anelli d’oro che le aveva regalati suo marito. Turiddu seguitava a passare e ripassare per la stradicciuola, colla pipa in bocca e le mani in tasca, in aria d’indifferenza, e occhieggiando25 le ragazze; ma dentro ci si rodeva che il marito di Lola avesse tutto quell’oro, e che ella fingesse di non accor45 gersi di lui quando passava. – Voglio fargliela proprio sotto gli occhi a quella cagnaccia! – borbottava. Di faccia a compare Alfio ci stava massaro Cola, il vignaiuolo, il quale era ricco come un maiale, dicevano, e aveva una figliuola in casa. Turiddu tanto disse e tanto fece che entrò camparo26 da massaro Cola, e cominciò a bazzicare per la casa e a dire 50 le paroline dolci alla ragazza. 27 – Perché non andate a dirle alla gnà Lola ste belle cose? – rispondeva Santa. – La gnà Lola è una signorona! La gnà Lola ha sposato un re di corona,28 ora! – Io non me li merito i re di corona. – Voi ne valete cento delle Lole, e conosco uno che non guarderebbe la gnà Lola, né il suo santo, quando ci siete voi, ché la gnà Lola, non è degna di portarvi le scar- 55 pe, non è degna. – La volpe quando all’uva non poté arrivare...29 – Disse: come sei bella, racinedda30 mia!

16. col tira... conto: cambiando atteggiamento a seconda di ciò che vi conviene. 17. ste: queste. 18. bravo: disinvolto, spavaldo. 19. nappa: E nota 3. 20. col viso lungo: perché triste, demoralizzato. 21. baia: dal mantello rosso bruno. 22. sullo stradone: è tipico del Verismo di Verga presentare i luoghi come se fossero noti a tutti gli interlocutori. 23. che Berta filava: espressione proverbiale, per indicare i tempi passati e i cambiamenti intervenuti nel frattempo.

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24. facemu cuntu... finiu: si tratta di un altro proverbio: “Facciamo conto che sia piovuto e che il tempo si sia rimesso (al bello), e che la nostra amicizia sia terminata”. Cioè: “è passato il tempo della nostra amicizia”, e anche “la nostra amicizia è stata solo una breve parentesi”. 25. occhieggiando: strizzando l’occhio. 26. camparo: custode del fondo; ha un contratto annuale. 27. Santa: la figlia di massaro Cola. 28. un re di corona: un gran signore, quasi un re. L’espressione è ironica. 29. La volpe... arrivare: allude all’antica

favola della volpe e dell’uva. La volpe, affamata, vide dell’uva che non poteva raggiungere e, per non ammettere la propria impotenza, trovò la scusa che il grappolo non era maturo. In altre parole, Santa accusa Turiddu di far la corte a lei solo perché Lola lo ha messo da parte. 30. racinedda: letteralmente “uvetta”; è diminutivo del siciliano racina (dal francese raisin), “uva”. Turiddu capovolge in modo galante la favola: l’uva, da acerba che era nell’antica favola, diviene bella (riferito a Santa).

Verga verista racconta l’amore non in modo sentimentale e sdolcinato, ma con immagini di concretezza materiale: le più adeguate alla mentalità dei personaggi

basta una sola immagine per rivelare l’amore che Lola continua a provare per Turiddu

31. affastellano sarmenti: raccolgono i rami (cioè non servono a nulla). Affastellare significa propriamente “legare in grossi fasci”; i sarmenti sono i tralci della vite e in generale i rami flessibili. 32. gli: le.

33. mise Turiddu fuori dell’uscio: lo licenziò. 34. Vittorio Emanuele: il re d’Italia. Il figlio Umberto di Savoia si sposò nel 1868. 35. uva nera: un segno di malaugurio. Santa in precedenza aveva ricordato a Tu-

riddu la favola della volpe e dell’uva, e questi l’aveva ricambiata chiamandola racinedda; ora Lola ha sognato dell’uva di colore nero, il colore del peccato.

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Monografia Raccordo

– Ohè! quelle mani, compare Turiddu. 60 – Avete paura che vi mangi? – Paura non ho né di voi, né del vostro Dio. – Eh! vostra madre era di Licodia, lo sappiamo! Avete il sangue rissoso! Uh! che vi mangerei cogli occhi. – Mangiatemi pure cogli occhi, che briciole non ne faremo; ma intanto tiratemi su 65 quel fascio. – Per voi tirerei su tutta la casa, tirerei! Ella, per non farsi rossa, gli tirò un ceppo che aveva sottomano, e non lo colse per miracolo. – Spicciamoci, che le chiacchiere non ne affastellano sarmenti.31 70 – Se fossi ricco, vorrei cercarmi una moglie come voi, gnà Santa. – Io non sposerò un re di corona come la gnà Lola, ma la mia dote ce l’ho anch’io, quando il Signore mi manderà qualcheduno. – Lo sappiamo che siete ricca, lo sappiamo! – Se lo sapete allora spicciatevi, ché il babbo sta per venire, e non vorrei farmi tro75 vare nel cortile. Il babbo cominciava a torcere il muso, ma la ragazza fingeva di non accorgersi, poiché la nappa del berretto del bersagliere gli32 aveva fatto il solletico dentro il cuore, e le ballava sempre dinanzi gli occhi. Come il babbo mise Turiddu fuori dell’uscio,33 la figliuola gli aprì la finestra, e stava a chiacchierare con lui ogni sera, che tutto il vicina80 to non parlava d’altro. – Per te impazzisco, – diceva Turiddu, – e perdo il sonno e l’appetito. – Chiacchiere. – Vorrei essere il figlio di Vittorio Emanuele34 per sposarti! – Chiacchiere. 85 – Per la Madonna che ti mangerei come il pane! – Chiacchiere! – Ah! sull’onor mio! – Ah! mamma mia! Lola che ascoltava ogni sera, nascosta dietro il vaso di basilico, e si faceva pallida e 90 rossa, un giorno chiamò Turiddu. – E così, compare Turiddu, gli amici vecchi non si salutano più? – Ma! – sospirò il giovinotto, – beato chi può salutarvi! – Se avete intenzione di salutarmi, lo sapete dove sto di casa! – rispose Lola. Turiddu tornò a salutarla così spesso che Santa se ne avvide, e gli batté la finestra sul muso. I vicini se lo mostravano con un sorriso, o con un moto del capo, quando 95 passava il bersagliere. Il marito di Lola era in giro per le fiere con le sue mule. – Domenica voglio andare a confessarmi, ché stanotte ho sognato dell’uva nera!35 – disse Lola.

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

per indicare l’atto del confessarsi ecco un’immagine corposa e concreta, che sembra scaturire non dallo scrittore, ma dal personaggio stesso

nella società siciliana del tempo la legge dell’onore coinvolge tutti i membri della famiglia

tutto procede secondo le regole della cavalleria tradotte nel mondo contadino, in cui sono finalizzate a difendere e far valere il proprio onore

– Lascia stare! lascia stare! – supplicava Turiddu. – No, ora che s’avvicina la Pasqua, mio marito lo vorrebbe sapere il perché non so- 100 no andata a confessarmi. – Ah! – mormorava Santa di massaro Cola, aspettando ginocchioni36 il suo turno dinanzi al confessionario37 dove Lola stava facendo il bucato dei suoi peccati.38 – Sull’anima mia non voglio mandarti a Roma per la penitenza!39 Compare Alfio tornò colle sue mule, carico di soldoni, e portò in regalo alla mo- 105 glie una bella veste nuova per le feste. – Avete ragione di portarle dei regali, – gli disse la vicina Santa, – perché mentre voi siete via vostra moglie vi adorna la casa!40 Compare Alfio era di quei carrettieri che portano il berretto sull’orecchio,41 e a sentir parlare in tal modo di sua moglie cambiò di colore come se l’avessero accoltella- 110 to. – Santo diavolone! – esclamò, – se non avete visto bene, non vi lascierò gli occhi per piangere! a voi e a tutto il vostro parentado! – Non son usa42 a piangere! – rispose Santa, – non ho pianto nemmeno quando ho visto con questi occhi Turiddu della gnà Nunzia entrare di notte in casa di vostra 115 moglie. – Va bene, – rispose compare Alfio, – grazie tante. Turiddu, adesso che era tornato il gatto,43 non bazzicava più di giorno per la stradicciuola, e smaltiva l’uggia44 all’osteria, cogli amici. La vigilia di Pasqua avevano sul desco45 un piatto di salsiccia. Come entrò compare Alfio, soltanto dal modo in cui gli piantò gli occhi addosso, Turiddu comprese che era venuto per quell’affare e po- 120 sò la forchetta sul piatto. – Avete comandi da darmi, compare Alfio? – gli disse. – Nessuna preghiera, compare Turiddu, era un pezzo che non vi vedevo, e voleva parlarvi di quella cosa che sapete voi. Turiddu da prima gli aveva presentato un bicchiere, ma compare Alfio lo scansò 125 colla mano. Allora Turiddu si alzò e gli disse: – Son qui, compar Alfio. Il carrettiere gli buttò le braccia al collo.46 – Se domattina volete venire nei fichidindia della Canziria47 potremo parlare di 130 quell’affare, compare. – Aspettatemi sullo stradone allo spuntar del sole, e ci andremo insieme. Con queste parole si scambiarono il bacio della sfida. Turiddu strinse fra i denti l’orecchio del carrettiere, e così gli fece promessa solenne di non mancare. Gli amici avevano lasciato la salsiccia zitti zitti, e accompagnarono Turiddu sino a 135 casa. La gnà Nunzia, poveretta, l’aspettava sin tardi ogni sera. – Mamma, – le disse Turiddu, – vi rammentate quando sono andato soldato, che

36. ginocchioni: in ginocchio. 37. confessionario: confessionale. 38. Lola... peccati: stava cioè confessando i suoi peccati (è un’immagine popolaresca). 39. non voglio... penitenza: è un’espressione ironica, infatti alla penitenza provvederà personalmente Santa, avvisando compare Alfio. 40. vi adorna la casa: l’espressione figu-

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rata equivale ironicamente a “vi tradisce”. 41. portano il berretto sull’orecchio: indice di persona violenta e suscettibile. Il berretto (o berretta) era tipico dell’uomo di campagna, mentre il cappello distingueva i borghesi. 42. usa: abituata. 43. il gatto: è naturalmente compare Alfio; l’espressione richiama il detto popolare «Quando il gatto non c’è, i topi ballano».

44. uggia: noia mista a inquietudine. 45. sul desco: sulla tavola. 46. le braccia al collo: un gesto conforme alla regola, come – successivamente – il bacio della sfida e il morso all’orecchio. 47. Canziria: località di campagna a est di Vizzini, vicino a Catania: sono i luoghi in cui verrà ambientato Mastro-don Gesualdo.

il regolamento di conti con la violenza è l’unica forma di giustizia ammessa in una società primitiva, priva di leggi che regolamentino la convivenza civile

credevate non avessi a tornar48 più? Datemi un bel bacio come allora, perché domattina andrò lontano. Prima di giorno si prese il suo coltello a molla,49 che aveva nascosto sotto il fieno, 140 quando era andato coscritto, e si mise in cammino pei fichidindia della Canziria. – Oh! Gesummaria! dove andate con quella furia? – piagnucolava Lola sgomenta, mentre suo marito stava per uscire. – Vado qui vicino, – rispose compar Alfio, – ma per te sarebbe meglio che io non tornassi più. Lola, in camicia, pregava ai piedi del letto, premendosi sulle labbra il rosario che le 145 aveva portato fra Bernardino dai Luoghi Santi, e recitava tutte le avemarie che potevano capirvi.50 – Compare Alfio, – cominciò Turiddu dopo che ebbe fatto un pezzo di strada accanto al suo compagno, il quale stava zitto, e col berretto sugli occhi, – come è vero Iddio so che ho torto e mi lascierei ammazzare. Ma prima di venir qui ho visto la 150 mia vecchia che si era alzata per vedermi partire, col pretesto di governare il pollaio, quasi il cuore le parlasse, e quant’è vero Iddio vi ammazzerò come un cane per non far piangere la mia vecchierella. – Così va bene, – rispose compare Alfio, spogliandosi del farsetto,51 – e picchiere155 mo sodo tutt’e due. 52 Entrambi erano bravi tiratori; Turiddu toccò la prima botta, e fu a tempo a prenderla nel braccio; come la rese, la rese buona, e tirò all’anguinaia.53 – Ah! compare Turiddu! avete proprio intenzione di ammazzarmi! – Sì, ve l’ho detto; ora che ho visto la mia vecchia nel pollaio, mi pare di averla 160 sempre dinanzi agli occhi. – Apriteli bene, gli occhi! – gli gridò compar Alfio, – che sto per rendervi la buona misura.54 Come egli stava in guardia tutto raccolto per tenersi la sinistra sulla ferita, che gli doleva, e quasi strisciava per terra col gomito, acchiappò rapidamente una manata di 165 polvere e la gettò negli occhi all’avversario. – Ah! – urlò Turiddu accecato, – son morto. Ei55 cercava di salvarsi, facendo salti disperati all’indietro; ma compar Alfio lo raggiunse con un’altra botta nello stomaco e una terza alla gola. – E tre! questa è per la casa che tu m’hai adornato. Ora tua madre lascerà stare le 170 galline.56 Turiddu annaspò un pezzo di qua e di là tra i fichidindia e poi cadde come un masso. Il sangue gli gorgogliava spumeggiando nella gola e non poté profferire nemmeno: – Ah, mamma mia! G. Verga, Vita dei campi, cit.

48. non avessi a tornar: non dovessi tornare. 49. a molla: a serramanico. 50. capirvi: starvi, entrarvi (nella corona del rosario). 51. farsetto: giubba imbottita tipica della gente umile.

52. Turiddu toccò: a Turiddu toccò, cioè incassò. 53. anguinaia: inguine. 54. rendervi la buona misura: la pariglia, il contraccambio, ovvero darvi quello che meritate. 55. Ei: egli.

56. lascerà stare le galline: cioè non dovrà più alzarsi all’alba con un pretesto per poter salutare il figlio prima di una partenza. È un’immagine di vita quotidiana, pienamente adeguata alla mentalità paesana dei personaggi di Verga.

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Monografia Raccordo

Turiddu sa di essere in torto e presagisce perciò la propria morte

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ La novella narra la storia di Turiddu Macca, giovane contadino siciliano. Prima di partire per il servizio militare, era fidanzato con Lola; quando torna, scopre che Lola, nel frattempo, si è fidanzata con Alfio, un carrettiere molto più ricco di Turiddu. Roso dalla gelosia, alimentata dalle chiacchiere del paese, Turiddu vuole vendicarsi. Inizia a corteggiare Santa, che abita proprio di fronte a Lola. Quest’ultima spia i due,

rimpiangendo Turiddu: un giorno lo invita a casa sua e il giovane accetta. Santa si sente tradita e si vendica, rivelando ad Alfio il tradimento della moglie Lola. L’offesa è grande e Alfio sfida Turiddu per vendicare l’onore tradito. I due si affrontano in un duello sanguinoso, armati di coltello. Turiddu, pur sapendo di essere nel torto, si batte con fermezza; nel corso del duello, però, rimane ucciso.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Il racconto sembra riferire un fatto di cronaca nera; del resto i resoconti di cronaca erano un tema prediletto dai narratori del Naturalismo, poiché consentivano uno studio diretto e impersonale, «scientifico», delle passioni umane. Verga cala la storia nel caratteristico ambiente siciliano e contadino di Vita dei campi. ■ I comportamenti e i gesti dei personaggi sono fissi e prevedibili, tutti ancorati alla logica dell’«onore». Il racconto viene in gran parte costruito sui dialoghi (da qui la facilità della successiva trasposizione teatrale) e questi ultimi sono dall’autore intessuti di motti e proverbi popolari. Anche il duello finale ricorda certi scontri sanguinosi del teatro dei «pupi», le caratteristiche marionette siciliane che narravano le vicende dei paladini di Carlo Magno: eroi della cavalleria, a cui ci ri-

porta il titolo della novella. Peraltro il comportamento del carrettiere Alfio, nel corso del duello, è tutt’altro che cavalleresco e svela tutta l’amara crudeltà della vicenda. ■ La narrazione procede con un ritmo veloce e incalzante, senza approfondimento psicologico dei personaggi. Il narratore si ferma volutamente al livello dei nudi «fatti», così da sottolineare l’alto grado di fatalità che incombe su tutta la storia: in un mondo elementare e primitivo, dominato dalle leggi di violenza e dell’istinto, l’individuo non ha protezione contro lo scatenarsi di forze infinitamente superiori a lui. I personaggi appaiono davvero delle marionette, spinte alla tragica fine da un burattinaio invisibile, sulla cui natura e intenzioni il narratore preferisce non interrogarsi.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. Uno dei moventi essenziali del mondo di Verga è l’interesse; per esempio, è l’interesse che porta Lola a preferire il benestante Alfio allo spiantato Turiddu. a. Da quale punto del testo possiamo cogliere le motivazioni di Lola? b. Osserva poi il dialogo fra Turiddu e Santa: in quale punto ritrovi altri segnali di questa prevalenza dell’interesse sugli affetti? c. Puoi dire che alla logica spietata dell’interesse risponsì no de l’uso cinico che Turiddu fa di Santuzza? Spiega in breve la tua scelta. 2. La logica «economica» che guida il mondo verghiano si rivela, per contrasto, anche nel momento in cui Lola obbedisce ai sentimenti e decide di avere una relazione con Turiddu: a quel punto, ella infrange il principio dell’interesse che l’aveva invece indotta a sposare compare Alfio. a. Che cosa ottiene Lola da quelle nozze? ............................................................................................... 146

b. A che cosa Lola ha dovuto rinunciare sposando Alfio? ............................................................................................... c. In questo contesto, quale significato ha la ripresa dei suoi rapporti con Turiddu? ............................................................................................... 3. Un sentimento molto importante descritto nel testo è quello della gelosia. Turiddu è geloso di Lola e per farla ingelosire corteggia Santa; Lola per gelosia ristabilisce una relazione con Turiddu; Santa riferisce la cosa a compare Alfio sempre per gelosia. a. La gelosia ha un’importanza così decisiva nel determinare i rapporti tra i personaggi perché a è un movente superficiale: tutti agiscono per ragioni esteriori e anche la gelosia è un fatto esteriore b c’è un rapporto stretto tra gelosia e possesso (gelosia = perdere il possesso di qualcuno), che è uno dei valori più sentiti nel mondo di Verga c i rapporti interpersonali, in Verga, non sono autentici, ma fondati su diffidenza e sospetto d dipende dalle antiche strutture feudali a cui, a quell’epoca, la società siciliana era ancora legata Scegli la risposta che ti sembra più adeguata e motiva in breve la tua scelta.

Giovanni Verga

{ Forme e stile 5. Verga raffigura senza sconti l’atteggiamento spregiudicato e spietato con cui, nel mondo contadino di Vita dei campi, il simile sfrutta il suo simile per il proprio tornaconto. a. Secondo te, il narratore dice esplicitamente il suo giudizio in proposito? Oppure il suo punto di vista rimane implicito? E in quest’ultimo caso, come fa a emergere? Motiva in breve la risposta.

LAVORIAMO SU

Contesto

a. Rifletti sul rapporto che lega l’onore alla vita di società. Rispondi alle seguenti domande. – Come viene vissuto l’onore nel mondo di Verga? ............................................................................................... – Quali sono le caratteristiche dell’uomo onorato? ............................................................................................... – L’onore, in questo contrasto, ha maggiore o minore valore della vita? ............................................................................................... b. Ora rifletti: a chi vanno le simpatie di Verga: a Turiddu oppure ad Alfio? Spiega in breve la risposta. ...............................................................................................

6. Un aspetto tipico dello stile verista di Verga è la rinuncia a descrivere l’interiorità del personaggio, come invece amano fare i narratori onniscienti. Verga infatti tende a risolvere anche la sfera emotiva nel semplice apparire esteriore. Ecco qualche esempio di come il narratore rappresenta gli stati d’animo solo dall’esterno, attraverso l’atteggiamento visibile – e oggettivo – dei protagonisti (gesti, parole, pose ecc.). • Lola replica alle avances di Turiddu tirandosi sul mento le due cocche del fazzoletto; • Turiddu, respinto, fa il viso lungo; • il padre di Santa, accortosi della corte di Turiddu, cominciava a torcere il muso; • quando Santa si avvede del tradimento di Turiddu, gli batté la finestra sul muso. Prosegui tu nell’analisi: cerca altri esempi significativi e trascrivili. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

LINGUA E LESSICO

1. La novella si presenta come narrata non dallo scrittore, ma da una voce collettiva, di stampo popolare; di essa il narratore cerca di imitare le parole, i modi più tipici ecc. Il testo sembra nascere così non dal punto di vista superiore dell’artista, ma da quello dei personaggi: dalle ragazze e dai monelli (rr. 4-5), tra i quali Verga pare volersi confondere. a. A tale criterio obbediscono gli elementi elencati nella tabella: completala con altri esempi che attingerai dal testo.

espressioni come tornò da fare il soldato «basse» e gergali .............................................................. .............................................................. imprecazioni

santo diavolone .............................................................. ..............................................................

forme dialettali

facemu cuntu ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu .............................................................. ..............................................................

proverbi

passò quel tempo che Berta filava .............................................................. .............................................................. 147

Monografia Raccordo

4. Nell’epilogo del racconto, compare Alfio sfida Turiddu per salvare il proprio onore davanti agli occhi di tutti.

Tra Ottocento e Novecento

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Fantasticheria Vita dei campi Anno: 1880 Temi: • l’infinita distanza tra la vita dell’alta società e quella degli umili • la fedeltà dei pescatori di Aci Trezza alle loro arcaiche tradizioni • il loro desiderio di migliorare, e il contrasto che ne scaturisce • il proposito dell’autore di osservare tutto ciò facendosi «piccino» La novella fu pubblicata da Verga sul settimanale «Fanfulla della Domenica» il 2 agosto 1879; successivamente venne raccolta in Vita dei campi. L’autore scrive una lettera a un’amica, una dama dell’alta società, che dopo aver sostato nel villaggio di Aci Trezza, affascinata da quel mondo primitivo di pescatori, dopo soli due giorni ne fugge annoiata, proclamando: «Non capisco come si possa viver qui tutta la vita». La risposta di Verga anticipa il nuovo romanzo dei Malavoglia.

il borgo di pescatori, sulla costa orientale della Sicilia, poi immortalato nei Malavoglia

qui non ci sono il distacco e l’impersonalità propri del Verismo, ma commozione e giudizio da parte dell’autore ecco il metodo verista: scompa rire dietro al proprio soggetto, restringere la visuale dell’analisi, osservare con la massima attenzione i dettagli

Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: «Vorrei starci un mese laggiù!». Noi vi ritornammo e vi passammo non un mese, ma quarantott’ore. [...] Avevate un vestitino grigio che sembrava fatto apposta per intonare coi colori dell’alba. Un bel quadretto davvero! e si indovinava che lo sapevate anche voi dal modo col quale vi 5 modellavate nel vostro scialletto, e sorridevate coi grandi occhioni sbarrati e stanchi a quello strano spettacolo, e a quell’altra stranezza di trovarvici anche voi presente. [...] Diceste soltanto ingenuamente: «Non capisco come si possa viver qui tutta la vita». Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata,1 prima di tutto; e in compenso patire un po’ di tutti gli stenti fra que- 10 gli scogli giganteschi,2 incastonati nell’azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Così poco basta perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole3 sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch’esse, tutto ciò che vi af15 fannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli. [...] Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; ma per poter comprendere siffatta caparbietà,4 che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio5 anche voi, a cotesta lente, voi che guardate la vita dall’altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e per- 20 ciò forse vi divertirà. [...] Vi ricordate anche di quel vecchietto6 che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza, perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù, all’ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando 25 del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai7 che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro.

1. entrata: guadagno. 2. quegli scogli giganteschi: i faraglioni, che secondo la leggenda sarebbero massi scagliati in mare, contro la nave di Ulisse, dal ciclope Polifemo, accecato e rabbioso per essere stato beffato da lui.

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3. casipole: casupole. 4. siffatta caparbietà: la fedeltà di quei pescatori al loro mare e al loro paese. 5. metterci un occhio: cioè fermarvi a guardare (al microscopio). 6. quel vecchietto: padron ‘Ntoni, che

sarà uno dei protagonisti del romanzo I Malavoglia. 7. guai: lamenti; vedi poi guaiolando, lamentandosi.

un’altra espressione densa di significato, per definire l’orizzonte dei valori di questi personaggi

è il preannuncio del nuovo romanzo e del suo significato di dramma: chi si ribella alla religione della famiglia viene severamente punito

Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa, egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero, vicino al focolare,8 dove tanti anni era stata la sua cuccia «sotto le 30 sue tegole», tanto che quando lo portarono via piangeva, guaiolando come fanno i vecchi. [...] – Insomma l’ideale dell’ostrica! – direte voi –. Proprio l’ideale dell’ostrica! E noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la for- 35 tuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano – forse pel quarto d’ora9 – cose serissime e rispettabilissime anch’esse. Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace se- 40 rena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. [...] Mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli at- 45 tori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò,10 e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: – che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza11 dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con 50 lui. – E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d’interesse. G. Verga, Vita dei campi, cit.

8. in quel cantuccio nero, vicino al focolare: cioè a casa sua.

9. pel quarto d’ora: almeno per il momento.

10. vi racconterò: nei Malavoglia. 11. vaghezza: desiderio, attrattiva.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Verga immagina di recarsi ad Aci Trezza, il paese dei Malavoglia, in compagnia di una signora del gran mondo che, appena arrivata, mostra un fatuo entusiasmo per quella vita semplice. Ben presto non ne potrà più e, anzi, dichiarerà di non capire come altri possano condurvi l’intera esistenza. La risposta di Verga è polemica con la frivola superficialità della dama: lo scrittore afferma infatti la propria adesione morale alla rassegnazione coraggiosa che quei pescatori manifestano e con cui affrontano una vita di stenti. ■ L’obiettività veristica fa cogliere però a Verga come neppure Aci Trezza sia un paradiso terrestre: persino lì, malgrado gli apprezzabili valori condivisi (questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, rr. 37-38), giungono le inquietudini, la febbre del progresso e dell’arricchimento. Il travaglio della brama di meglio non risparmia quella società arcaica, sede anch’essa di quella lotta per la vita che costituiva un tema caro alla cultura positivistica dell’epoca. Questo è il nodo del dramma di cui parla Verga rivolgendosi alla sua interlocutrice: chi, tra i paesani di Aci Trezza, vuole staccarsi dai

suoi e mutare stato (così farà il giovane ’Ntoni nel romanzo), mettendo in radicale discussione l’assetto tradizionale dei valori, si espone all’inevitabile sconfitta. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Vorrei starci un mese laggiù!, esclama l’elegante visitatrice, che poco dopo ribalterà questa affermazione: dove avviene questo cambiamento, e perché? 2. Che cosa intende Verga quando scrive: voi che guardate la vita dall’altro lato del cannocchiale? 3. Perché l’autore, per descrivere l’ambiente in cui muore quel vecchietto, ripete più volte l’aggettivo bianco? 4. La rappresentazione della vita di un paese di pescatori non è spensierata o idilliaca, come ci si potrebbe aspettare: perché? 5. Spiega con parole tue il senso della frase: noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi (max 5 righe). 6. In che cosa consiste il dramma di cui parla Verga? 149

Monografia Raccordo

l’ostrica che si abbarbica al suo scoglio simboleggia l’esistenza dei pescatori di Aci Trezza, attaccati alle tradizioni e al loro piccolo mondo

Contesto

Giovanni Verga

L’OPERA

I MALAVOGLIA

Un romanzo sperimentale Testi • Due opposte concezioni di vita: padron ‘Ntoni e ‘Ntoni (cap. XI) La parola al critico • L. Spitzer, L’originalità stilistica dei Malavoglia

◗ Verga cominciò nel 1875 a progettare un «bozzetto marinaresco» (cioè un abbozzo narrativo ambientato nel mondo dei pescatori) da intitolarsi Padron ’Ntoni; nel maggio di tre anni dopo (1878) annunciò all’amico scrittore Luigi Capuana che il «bozzetto» si era trasformato in un romanzo, I Malavoglia. Alla base di questa ambiziosa evoluzione era l’approfondimento della poetica del Verismo, fatta propria da Verga grazie all’amicizia con Capuana e alla comune lettura del romanzo L’assommoir (L’ammazzatoio) di Émile Zola. Fu forse la diffusione (1876) dell’Inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino sulle condizioni della Sicilia postunitaria a suggerire a Verga l’ambientazione del racconto tra i miseri pescatori di Aci Trezza, un borgo vicino a Catania. ◗ I Malavoglia nacque dunque come un «romanzo sperimentale», secondo la nuova poetica del Naturalismo francese. La sperimentazione non riguarda solo la forma e l’impianto narrativo, ma anche i contenuti, i temi sociali, il modo di pensare e di parlare dei personaggi. A tale scopo, Verga consultò gli studi etnografici – sul folklore e le tradizioni locali catanesi – del medico siciliano Giuseppe Pitré (1841-1916), studioso di tradizioni popolari e storia locale, per conferire al racconto un’impronta più «oggettiva». L’opera dunque assume le caratteristiche di uno «studio sociale», con la precisione di un’analisi scientifica. ◗ Così com’è ricostruito nei Malavoglia, il mondo arcaico-rurale di Aci Trezza è certamente «vero»: • è realistico, infatti, l’articolarsi del suo tempo «etnologico», cioè di un ritmo di vita invariabile, legato a una serie di tradizioni: i proverbi (la tradizione della casa, incarnata in padron ’Ntoni, l’uomo-proverbio), il ciclo delle stagioni e il lavoro dei campi (la tradizione della terra), le liturgie (la tradizione religiosa); • anche lo spazio è puntigliosamente «vero»: i luoghi del romanzo sono quelli tipici di un paese tutto «messo in piazza»: la farmacia, dove s’incontrano gli intellettuali; il sagrato, dove si ritrovano i commercianti e gli affaristi; l’osteria di Santuzza, in cui si vedono i proletari e gli sfaccendati; il lavatoio e la fontana, punto di riferimento delle comari. ◗ La ricchezza dei particolari narrativi serve a Verga per mettere in scena una pluralità di piccole storie, individuali e familiari, che s’intrecciano e si sviluppano. Viene così ricostruita il più fedelmente possibile la complessa realtà della vita di un villaggio «tipico», colta nella ricchezza anche contraddittoria delle sue relazioni umane. Lo scrittore assume l’«ottica del microscopio», teorizzata in Fantasticheria: «Bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori» (E Testo 6, p. 148).

Una società arcaica scossa dai primi segni del progresso ◗ Aci Trezza è un mondo povero ma sereno, fedele da sempre alle sue tradizioni. Verga è però consapevole del fatto che anche quella realtà è soggetta a trasformazioni: il suo scopo (dichiarato nella Prefazione del romanzo) è osservare che cosa accade allorché il nuovo, il «progresso», penetra nella quiete di una società arcaica, apparentemente immutabile. Poiché secondo la concezione verghiana il mondo è dominato da una logica di tipo economico, il contrasto tra vecchio e nuovo si pone anzitutto a livello economico e produttivo. ◗ Nei Malavoglia questo motivo viene incarnato da due personaggi tra loro opposti: • da una parte c’è padron ’Ntoni, il vecchio patriarca, capo della «casa del nespolo», immagine di colui che resta fedele al suo lavoro di pescatore tramandato da generazioni; • dall’altra c’è zio Crocifisso, simbolo del nuovo modo di lavorare e guadagnare; è lui – scrive Verga – l’usuraio che «si pappava il meglio della pesca senza pericolo». I due personaggi sono portatori di valori molto diversi: padron ’Ntoni difende l’onestà, incondizionata; zio Crocifisso l’utile, a qualsiasi costo. 150

◗ Verga non si limita a illustrare il contrasto tra due logiche economiche differenti, ma ritrae il conflitto tra nuovo e vecchio mostrando l’arcaico mondo di Aci Trezza alle prese con novità recenti, che sconvolgono la sua staticità. Si tratta di: • novità politiche: l’Italia unita; • novità sociali: la leva militare e la scuola elementare obbligatorie; • novità economiche: il capitalismo dei proprietari e le tasse; • novità tecnologiche: il telegrafo, la nave a vapore. ◗ Di fronte al nuovo che avanza ci sono due risposte possibili: • da una parte la fedeltà verso la tradizione, personificata dall’anziano padron ’Ntoni; • dall’altra, all’opposto, la ribellione, incarnata nel romanzo da zio Crocefisso ma anche dal nipote di padron ’Ntoni, il giovane ’Ntoni. Padron ’Ntoni sa che «il mondo va così, e non abbiamo diritto di lagnarcene»; sa che «bisogna vivere come siamo nati», che «più ricco è in terra chi meno desidera». Il suo è l’«ideale dell’ostrica», il mollusco che vive fedelmente abbarbicato al proprio scoglio, di cui Verga aveva parlato nella novella Fantasticheria (1879). Tocca al suo antagonista, il giovane ’Ntoni, il compito, nel romanzo, di mettere in discussione il proprio nucleo di appartenenza: è lui a fuggire dal paese in cerca di fortuna e di nuove esperienze. Verga ritrae le sofferenze che questa scelta comporta, ma non la condanna interamente: sa infatti che lo slancio verso il nuovo è una spinta ineludibile dell’animo umano.

Il significato del romanzo ◗ Il significato generale del romanzo viene anticipato nella Prefazione dell’opera, che promette d’illustrare «le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio». L’esito di tutto ciò è tragico, come le immagini apocalittiche della Prefazione sottolineano (i «vinti» sono «travolti e annegati, ciascuno colle stimmate del suo peccato»): nel cupo pessimismo verghiano, ogni tentativo di cambiare condizione porta alla sconfitta personale e alla disgregazione del nucleo familiare (E scheda a p. 175). ◗ A cedere alla tentazione è il vecchio patriarca, padron ’Ntoni. Nessuno meglio di lui, il custode della casa e delle tradizioni di famiglia, dovrebbe sapere che «pigliare il cielo a pugni» porta solo alla sconfitta e all’infelicità; eppure, paradossalmente, è proprio lui a impegnarsi nel fatale affare dei lupini. Ciò dimostra, secondo Verga, che dalle storture del progresso non si salva nulla e nessuno. Padron ’Ntoni pagherà il prezzo più alto all’infrazione della norma non scritta che impone di accettare il proprio destino; per il giovane ’Ntoni, invece, sembra prospettarsi un esito diverso, per quanto incerto e appena accennato, nell’ultima pagina del romanzo, in cui si narra la sua partenza all’alba – una specie di ricominciamento – da un’Aci Trezza intorpidita.

La sperimentazione linguistica e il discorso indiretto libero ◗ Sul piano narrativo, il romanzo di Verga si segnala anzitutto per la novità del linguaggio. La lingua dei Malavoglia non è il dialetto siciliano, ma una sorta di italiano dialettizzato. È cioè una lingua che, nella realtà, non esiste e viene per così dire ricostruita a tavolino dallo scrittore. Essa diventa l’espressione viva di una cultura popolare, colta in tutte le sue dimensioni: i proverbi, i modi di dire, le credenze religiose e le usanze tradizionali, i riti religiosi e le pratiche mediche, le favole e le consuetudini riguardanti matrimonio, morte, lavoro dei campi e in mare. ◗ In particolare, Verga utilizza la struttura dell’erlebte Rede, il «discorso rivissuto» o discorso indiretto libero. Si tratta di una tecnica narrativa già nota e sfruttata da altri romanzieri ottocenteschi, ma che 151

Monografia Raccordo

◗ La trama del racconto s’incentra esattamente sul punto di passaggio dal vecchio al nuovo: ritrae infatti la tentazione di cui persino padron ’Ntoni cade vittima. Anch’egli, infatti, cede alla «brama di meglio», al desiderio cioè di migliorare la propria condizione economica: da pescatore vorrebbe farsi piccolo imprenditore della pesca. Per questo motivo s’impegna in un affare (il «negozio» dei lupini) per il quale ha bisogno di un prestito; lo chiede a zio Crocifisso, ma non sarà più in grado di risarcirlo a causa del naufragio della barca (la Provvidenza) e di tutto il suo carico. La disgrazia manderà in rovina ’Ntoni e la sua famiglia.

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

nessuno aveva mai applicato in maniera così sistematica come fa Verga. Il narratore dei Malavoglia, infatti, fa parlare i suoi personaggi in modo diverso da come avviene nel racconto tradizionale: evita di «dare loro la parola» nel discorso diretto (con formule quali Egli disse: «...») o di usare il discorso indiretto (Egli diceva che...) per riferire quanto essi dicono. In questo modo, l’autore annulla la distanza che lo separa dai personaggi: fa sue le loro parole e le confonde con le proprie, l’esteriorità del racconto e l’interiorità dei personaggi vengono a sovrapporsi e a rimescolarsi, e si annulla ciò che Verga chiama la «lente» (sempre deformante) «dello scrittore» (Lettera-prefazione a L’amante di Gramigna, E Testo 3, p. 132). Possiamo esemplificare quanto detto con un passo tratto dal capitolo IV: Compare Cipolla raccontava che sulle acciughe c’era un aumento di due tarì per barile, questo poteva interessargli a padron ’Ntoni, se ci aveva ancora delle acciughe da vendere; lui a buon conto se n’era riserbati un centinaio di barili; e parlavano pure di compare Bastianazzo, buon’anima, che nessuno se lo sarebbe aspettato, un uomo nel fiore dell’età, e che crepava di salute, poveretto!

Le parole di compare Cipolla sono riferite, all’inizio, mediante il discorso indiretto (raccontava che... per barile). Però subito dopo, all’interno di questa stessa costruzione, vengono riprodotte le frasi così come escono dalla bocca di chi parla: questo poteva interessargli a padron ’Ntoni. Il discorso indiretto libero è ancora più evidente nel periodo successivo, che inizia con parlavano pure di compare Bastianazzo e si conclude con l’esclamazione poveretto!, presa dal parlato. Da notare anche l’uso libero del «che» (corrispondente al siciliano «ca»), elemento dal valore variabile: in questo caso, che nessuno se lo sarebbe aspettato significa «la morte del quale nessuno se la sarebbe aspettata», e costituisce dunque un richiamo implicito alla morte (in mare) del personaggio. La prosa verghiana è ricca di allusioni a fatti o aspetti noti ai personaggi ma non al lettore, che quindi deve decifrarli.

Il «coro paesano» ◗ Utilizzando questa tecnica narrativa, Verga asseconda l’esigenza di oggettività: può dunque rappresentare sulla pagina quel «coro dei parlanti» che è il vero protagonista-narratore del romanzo. «Il narratore [...] ha scelto di raccontare gli avvenimenti come si riflettono nei cervelli e nei cuori dei suoi personaggi» (Leo Spitzer). Sono i personaggi del coro ad accollarsi l’iniziativa del racconto, imponendo la loro soggettività. Tuttavia, il narratore non scompare mai del tutto: egli indossa di volta in volta la maschera del personaggio che gli interessa, assume i pensieri e le parole ora dell’uno ora dell’altro, dando l’impressione che sia un’intera comunità a parlare, a pensare, ad agire.

Il capolavoro del Verismo





uso del discorso indiretto libero

◗ la lotta per la vita produce solo sconfitte: è il fatalismo verghiano

un mondo arcaico, immobile

scosso dalle inquietudini e dalle tentazioni del progresso

◗ tale dramma è incarnato da padron ’Ntoni:

ritratto anche linguisticamente con fedeltà al «coro paesano»

“ poetica del Verismo

152

quanto di meglio è possibile ritrarre al «vero», con obiettività fotografica

sempre, in Verga, le ragioni economiche finiscono per prevalere e per peggiorare l’esistente

“ il nuovo viene a sconvolgere una tradizione immutabile: è il «nodo drammatico» del romanzo

• simbolo della tradizione e della casa • ma rovinato dall’affare dei lupini

Giovanni Verga

◗ La seconda parte del romanzo occupa i capitoli dal V al IX; il tempo del racconto interessa una quindicina di mesi, dall’autunno 1865 alla fine del 1866. I Malavoglia cercano di saldare il debito, di ottenere dallo zio Crocifisso una dilazione fino alla raccolta delle olive. Non manca qualche segnale positivo: viene ritrovata la Provvidenza, data a riparare a mastro Zuppiddu; inoltre ’Ntoni ritorna dalla leva (al suo posto parte il giovane Luca) e, seppure senza entusiasmo, per guadagnarsi da vivere affianca il nonno nel lavoro come pescatore a giornata. A Catania l’avvocato Scipioni consiglia di non onorare il debito, ma il vecchio padron ’Ntoni intende rispettare a ogni costo la parola data. Tornati ad Aci Trezza, i Malavoglia pattuiscono con il mediatore Piedipapera che, se non potranno pagare, lasceranno la casa. ’Ntoni s’invaghisce di Barbara, figlia di mastro Zuppiddu, e inizia a corteggiarla, inimicandosi altri preten-

■ La partenza di Mario e Lidda Verga, genitori dello scrittore, da Tebidi, 1896. Fotografia di Giovanni Verga.

denti: Vanni Pizzuto, il barbiere, e don Michele, il brigadiere. Ingannata da don Silvestro, rivale in amore del giovane ’Ntoni, la Longa rinuncia all’ipoteca dotale e permette così a zio Crocifisso di mettere le mani sulla «casa del nespolo». Poiché non riescono a risarcire il dovuto, i Malavoglia devono trasferirsi nella casa del beccaio. Questa scelta ha delle serie ripercussioni sui nipoti: la Mena, che ama il carrettiere Alfio Mosca, era stata promessa dal nonno a Brasi, figlio di padron Cipolla, ma questi ora non vuole che il figlio si sposi con una nullatenente, e viene rotto il fidanzamento; e anche Barbara viene negata a ’Ntoni. In paese i Malavoglia sono abbandonati da tutti e isolati. A conclusione di questa parte, due soldati portano la notizia che Luca è morto nella battaglia di Lissa. ◗ Il capitolo X, dedicato al secondo naufragio della barca, ha una funzione di raccordo con la terza parte del racconto, che va dall’XI al XV capitolo e che copre gli anni dal 1867 al 1877 (o 1878). In questa parte il tempo cronologico si dilata parecchio (a ogni capitolo corrispondono diversi mesi se non addirittura qualche anno), mentre il racconto si concentra attorno al giovane ’Ntoni, che si ribella alla vita di Aci Trezza e parte «a cercar fortuna». Nel capitolo XII lo vediamo ritornare in paese, lacero e senza un soldo; egli conduce una vita sregolata e a nulla valgono i rimproveri del nonno o il pianto delle sorelle: vive all’osteria e si dà al con-

Monografia Raccordo

Il romanzo è costituito da 15 capitoli, raggruppabili in tre grandi parti. ◗ La prima parte, introduttiva, occupa i capitoli dal I al IV e scorre con un ritmo narrativo lento; il tempo del racconto occupa un arco temporale che va dal dicembre 1863 al settembre 1865. Viene presentata la famiglia Toscano, da tutti chiamati «Malavoglia», che è costituita da padron ’Ntoni, il figlio Bastianazzo e la moglie Maruzza detta la Longa, i cinque nipoti: ’Ntoni, Luca, Lia, Alessi e Mena. Abitano nella «casa del nespolo» e sono pescatori. Nel dicembre del 1863 il giovane ’Ntoni parte soldato; dopo qualche tempo, per necessità di guadagno, il nonno acquista a credito una partita di lupini dallo zio Crocifisso, l’usuraio del paese, con la mediazione del sensale Piedipapera. Bastianazzo carica i lupini sulla barca (la Provvidenza) per andare a venderli a Riposto. Il capitolo II è occupato dalle chiacchiere che si fanno in paese su tale negozio azzardato dei lupini. Segue nel capitolo III il naufragio della barca Provvidenza, raccontato non direttamente, ma attraverso le reazioni che suscita ad Aci Trezza; nel IV si celebrano i funerali di Bastianazzo.

Contesto

LA TRAMA E LA STRUTTURA

trabbando. La Longa si ammala di colera e muore; Padron ’Ntoni e Alessi, invece, continuano a impegnarsi nel tentativo di riscattarsi e, venduta la barca, si mettono alle dipendenze di padron Cipolla. Intanto il brigadiere don Michele inizia a corteggiare Lia: tramite Mena, fa sapere al giovane ’Ntoni di conoscere i suoi traffici illeciti. All’osteria i due vengono alle mani. In una notte di pioggia ’Ntoni è sorpreso nei suoi loschi affari insieme a Rocco Spatu, a Cinghialenta e al figlio della Locca; sfuggono alle guardie, ma ’Ntoni colpisce don Michele con una coltellata: è arrestato e finisce in carcere. Padron ’Ntoni, senza badare alle spese, ricorre all’avvocato Scipioni; al processo costui imposta la difesa sul delitto d’onore (’Ntoni avrebbe accoltellato il brigadiere don Michele per tutelare l’onore della sorella Lia). Il risultato è che ’Ntoni è condannato a cinque anni di prigione e Lia, sconvolta e disonorata, scappa di casa per andare in città (capitolo XIV). Padron ’Ntoni, ferito a morte nei suoi sentimenti più profondi, cade in una sorta di istupidimento; finisce i suoi giorni nell’ospedale di Catania, solo e abbandonato da tutti. Alessi, che ha riscattato con il suo duro lavoro la «casa del nespolo», sposa la Nunziata; con loro va a vivere la sorella minore Mena: «una sera» ’Ntoni ritorna, così «mutato» che il fratello non lo riconosce. Ripartirà all’alba «colla sua sporta sotto il braccio», per andarsene per sempre, mentre il paese al risveglio si avvia alle faccende di ogni giorno.

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Tra Ottocento e Novecento

7

Prefazione I Malavoglia Anno: 1881 Temi: • il desiderio di stare meglio e le sue tragiche conseguenze • la comunanza di tutte le classi sociali tanto nella «lotta per la vita» quanto nella sconfitta • l’analisi di tale fenomeno a partire dal livello sociale più basso, perché meno complicato • il progetto di un ciclo romanzesco Il romanzo è introdotto da questa Prefazione, datata dall’autore «19 gennaio 1881». Verga la scrisse, dunque, quando aveva ormai concluso la stesura del romanzo, come accompagnamento all’imminente pubblicazione in volume presso Treves. Il romanzo viene inserito entro una più generale struttura, quella del «ciclo dei Vinti».

è il proposito del Verismo l’ambizione a migliorare il proprio stato soppianta l’«ideale dell’ostrica» e prepara una rovinosa sconfitta

ecco il progetto del «ciclo dei Vinti»: una serie di romanzi pensati per rappresentare, in specifiche figure sociali, le diverse forme assunte dalla bramosìa dell’ignoto e dall’ansia del meglio

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel1 benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che 5 si potrebbe star meglio. Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti,2 nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato,3 e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette4 e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui 10 l’uomo è travagliato5 cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più viva- 15 ci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosie, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto.6 A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i 20 tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale7 nella civiltà. [...] Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi,8 ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola [...]. Perché la riproduzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna [...] esser sinceri 25

1. pel: per il. 2. Il movente... sorgenti: ciò che spinge al progresso tutti, indipendentemente dalla classe sociale, viene considerato dall’autore alla fonte, cioè al livello più basso e originario, quello delle classi più umili (i pescatori di Aci Trezza). 3. Il meccanismo... complicato: il meccanismo che regola le passioni, cioè il lega-

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me tra cause ed effetti, è più facile da scoprire nelle classi umili che in quelle alte perché nelle prime è più istintivo. 4. schiette: pure, incontaminate. 5. travagliato: tormentato. 6. consunto: consumato. 7. artificiale: un modo di vivere non naturale come nei pescatori di Aci Trezza, ma «costruito» secondo le regole del bel mondo.

8. Persino il linguaggio... individualizzarsi: il linguaggio dei borghesi adotta le sfumature più svariate (mezze tinte). È difficile, dice Verga, rappresentare la borghesia: non perché le sue passioni siano troppo complicate (anche se il loro meccanismo è un po’ più complesso), ma perché bisogna trovare lo stile adeguato.

nessun osservatore può essere davvero «neutrale»; anche lo scrittore verista, con il suo studio sincero e spassionato, viene preso dalla corrente del progresso, come chiunque altro nella lotta per la vita non ci sono vincitori: tutti sono, ugualmente, perdenti, a qualsiasi livello sociale conducano la loro battaglia

l’autore deve limitarsi a osservare e rappresentare la vita reale, senza giudicarla; è il fulcro dell’impersonalità verista

per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale. Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi9 le irrequietudini, 30 le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono;10 li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio11 a beneficio di tutti. Ogni 35 movente di cotesto lavorio universale, dalla ricerca del benessere materiale, alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante;12 e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va.13 Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di 40 interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani. I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni, l’Uomo 45 di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù.14 Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione – dall’umile pescatore al nuovo arricchito15 – alla intrusa16 nelle alte classi – all’uomo dall’ingegno e dalle 50 volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini; di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge17 – all’artista18 che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un 55 istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione,19 e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere. Milano, 19 gennaio 1881 G. Verga, Tutti i romanzi, a cura di F. Ghidetti, Sansoni, Firenze 1983

9. dileguansi: si dileguano, spariscono: ma anche se non si vedono più, ci sono ancora. 10. Il risultato... producono: ciò che l’umanità ottiene, nasconde la meschinità degli interessi. 11. cooperante inconscio: che collabora all’avanzamento dell’umanità senza saperlo, non per libera scelta. Poiché ogni individuo insegue per sé interessi parziali e meschini, mette in moto una piccola ruota del meccanismo ma non lo può cogliere nella sua totalità. 12. è legittimato... movimento incessante: a giustificare il cammino del progresso

basta il semplice fatto che esso è in moto. 13. dove vada... va: antitesi significativa; il come è determinante per migliorare la qualità della vita umana! 14. ciascuno... virtù: la sconfitta brucia maggiormente, perché provocata da ciò che sembrava virtù, ovvero l’ambizione di migliorare, di progredire. La brama di meglio si trasforma così in strumento di perdizione (peccato), lasciando su ciascuno il marchio (stimate = ferite non rimarginate sulle mani o sui piedi) della sconfitta, che è un’autodistruzione. 15. umile pescatore... arricchito: i pesca-

tori dei Malavoglia, l’arricchito Gesualdo. 16. intrusa: la figlia di Gesualdo, Isabella, che sposerà un nobile; doveva essere la protagonista del terzo romanzo. 17. uomo dall’ingegno... legge: l’onorevole Scipioni, protagonista del quarto romanzo, figlio illegittimo (= nato fuori del matrimonio) di Isabella. 18. all’artista: il protagonista dell’ultimo romanzo, l’Uomo di lusso, mai scritto e neppure abbozzato da Verga. 19. senza passione: cioè in modo impersonale, secondo i dettami del Verismo.

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Monografia Raccordo

Verga non crede nell’ideologia positivista del progresso; scienza e tecniche progrediscono, ma non riescono a migliorare realmente l’uomo e la qualità della vita sociale

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ Il testo funge da introduzione ai Malavoglia ma, contemporaneamente, serve a Verga per esporre il suo progetto narrativo, relativo ai romanzi del «ciclo dei vinti». ■ Verga scandisce la Prefazione in quattro capoversi, ciascuno dei quali mette a fuoco un’idea di fondo: • le prime irrequietudini pel benessere che nascono ai livelli sociali più bassi, motivate dalla ricerca del meglio;

• il proposito di raffigurare tale ricerca nei diversi stadi della società (viene qui delineato il ciclo dei cinque romanzi, di cui I Malavoglia costituivano la prima tappa); • la scoperta che il cammino del progresso è un processo crudele, che nasconde sofferenze e sconfitte; • il proposito di ritrarre la sconfitta dei tanti vinti, ai diversi livelli, con lo sguardo dell’osservatore e non del giudice.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ A uno sguardo superficiale, dice Verga, sembra che l’umanità, nel suo assieme, sia in marcia verso forme d’esistenza sempre migliori. Ma la realtà è ben diversa. La fiumana del progresso avanza, infatti, con una forza ineluttabile che assorbe tutto e tutti, per poi lasciare ai margini molti individui, dopo essersene servita. Il mondo si popola così di creature sconfitte, di vinti. Pochi primeggiano, mentre tantissimi altri vengono sommersi dalla fiumana del progresso: sono i deboli che restano per via, i fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, i vinti che levano le braccia disperate. Appunto a costoro, ai vinti e non ai vincitori della società

umana, si rivolgerà l’attenzione dello scrittore. ■ Il progetto letterario di Verga assume per protagonista una categoria ben precisa: coloro che sono presi dalla bramosia (individuale e collettiva) di ottenere sempre il nuovo e il meglio. Tutti, in realtà, siamo «travagliati», sollecitati dalla voglia di stare meglio. Ciò vale sia nei ceti più poveri, sia nelle classi sociali più elevate. Ma molti di noi rimangono travolti dai propri stessi desideri. C’è dunque una contraddizione insanabile nel progresso complessivo dell’umanità: esso è il frutto dell’ambizione dei singoli, i quali finiscono però schiacciati dalla loro stessa ricerca del meglio.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi 1. In questo proemio si respira chiaramente il clima della cultura positivistica di fine Ottocento. a. Evidenzia nel testo le espressioni che si ricollegano più direttamente a questo clima culturale. b. Ora rifletti: che cosa pensa lo scrittore del progresso? Perché lo definisce una fiumana? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 2. Secondo Verga, la scelta dell’ambiente degli umili si presta meglio ad analizzare scientificamente l’azione dell’uomo nella società. a. Tale convinzione dipende dal fatto che a gli umili non possono protestare né vendicarsi b solo la sconfitta nella lotta per la vita si presta a un’analisi oggettiva c perché il linguaggio degli umili è il più semplice e immediato d altro (specificare cosa) .................................................. Motiva la risposta sottolineando nel testo la frase di Verga che la giustifica. 156

3. Lo scrittore traccia qui il progetto del «ciclo dei vinti», immaginando una campionatura per strati sociali: nascono così le cinque tappe del progettato ciclo romanzesco, a imitazione, dal basso verso l’alto, delle gerarchie sociali. a. Ciascuno dei cinque progettati romanzi individua i propri personaggi entro una classe specifica: compila la seguente tabella. romanzo

titolo

nome del classe sociale protagonista di appartenenza

1

.................... ........................... ..........................

2

.................... ........................... ..........................

3

.................... ........................... ..........................

4

.................... ........................... ..........................

5

.................... ........................... .......................... b. I protagonisti dei cinque romanzi sono figure assai diverse tra loro per ceto sociale e modo di vivere; tutte, però, evidenziano un tratto in comune: quale? ...............................................................................................

a. Quali sono le caratteristiche fondamentali di tale poetica? Evidenzia nel testo le espressioni più significative. b. Ora riassumi l’idea di Verismo che è possibile ricavare dalla Prefazione ai Malavoglia, utilizzando i termini e le espressioni dell’autore (max 10 righe).

{ Forme e stile 5. Pur esponendo il progetto del Verismo, la Prefazione non rinuncia tuttavia a utilizzare immagini e metafore, come avveniva nella prosa letteraria tradizionale. a. Osserva per esempio alle rr. 14-16 la metafora del quadro: essa serve all’autore per passare in rassegna i vari aspetti dell’ambientazione (la cornice), dello stile e delle scelte linguistiche (i colori) e dell’intreccio (il disegno).

LAVORIAMO SU

b. Rintraccia nel testo altri usi metaforici e trascrivili. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 6. Nell’ultimo capoverso l’autore parla di spettacolo. Questo termine rinvia a due possibili ottiche di osservazione della realtà: un’ottica da lontano e un’altra più ravvicinata. a. C’è un punto della Prefazione nel quale Verga identifica esplicitamente queste due ottiche: sottolinealo. b. Quale delle due ottiche Verga assume? a l’ottica del lontano b l’ottica del vicino c. Perché sceglie proprio questa ottica? d. Aderire all’una o all’altra comporta conseguenze ansì no che linguistiche e stilistiche? Rispondi alla domanda sulla base di questo testo e di ciò che sai della poetica verghiana. Motiva in breve la tua risposta.

LINGUA E LESSICO

1. Il testo si presenta come una Prefazione a un lavoro letterario molto impegnativo. Perciò utilizza un periodare spesso ampio, ricco di frasi coordinate e subordinate. a. Identifica nel testo almeno due periodi che evidenziano tale caratteristica. b. Fai poi l’analisi sintattica di uno di essi, individuando la proposizione principale, le eventuali proposizioni incidentali, le coordinate e le subordinate e i relativi gradi di coordinazione e subordinazione. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

2. Se non nella sintassi, è nel lessico della Prefazione che si può cogliere tutta la novità del Verismo verghiano. Un termine chiave, in questo senso, è l’aggettivo sinceri, utilizzato dall’autore alla r. 25. a. Rileggi la Prefazione, individua i termini caratteristici della poetica verista e trascrivili. ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

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Monografia Raccordo

4. Dal punto di vista letterario, Verga espone nella Prefazione ai Malavoglia alcuni princìpi della propria poetica veristica.

Contesto

Giovanni Verga

Leggere l’arte La dignità di chi lavora: Il quarto stato di Pellizza da Volpedo

■ Pellizza da Volpedo, Il quarto stato, 1901, olio su tela, 293x545 cm, Milano, Civica Galleria d'Arte Moderna.

Nuovi protagonisti della storia Il pittore Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907) respirò a Parigi il clima delle ricerche d’avanguardia; fu, inoltre, influenzato dal socialismo umanitario, molto diffuso a quel tempo: perciò affrontò spesso, con grande partecipazione emotiva, temi legati al lavoro e alle classi sociali umili. Il quarto stato raffigura una massa di proletari («quarto stato» significa la parte più infima della società, ancor più del «terzo stato» che nel 1789 aveva promosso la rivoluzione francese), che avanza in modo fiero e solenne. Sono guidati da tre figure in primo piano, due uomini e una donna con un bambino in braccio. La loro marcia in avanti annuncia che la loro situazione sta per cambiare e migliorare, grazie alle lotte sociali e sindacali così vive nell’Europa d’inizio Novecento. La composizione è molto studia158

ta: l’artista eseguì numerosi bozzetti dal vero per le varie figure, organizzandole poi in una struttura unitaria con un lungo lavoro in studio. Pellizza era interessato dalle nuove teorie scientifiche sul colore e aderì al divisionismo, una tecnica che componeva le immagini attraverso piccoli punti o filamenti di colori complementari (rosso/verde, blu/arancio, giallo/viola) accostati tra loro: l’occhio umano, a una certa distanza, vede quei colori fusi, con gli effetti di vivacità e brillantezza. Il quarto stato è appunto costruito con la tecnica della divisione del colore. Le figure sono create con minuscoli punti accostati gli uni agli altri: così i corpi vengono meticolosamente definiti e risaltano, attraverso la luce, quasi fossero sculture, maestose e possenti. ■ Il quarto stato (particolare).

La famiglia Toscano I Malavoglia, capitolo I Anno: 1881 Temi: • l’attaccamento alla famiglia e ai valori della tradizione • i giudizi della gente di paese e le rivalità interne • sullo sfondo, i cambiamenti sociali ed economici dell’Italia unita L’esordio dei Malavoglia ci introduce quasi con brutalità nel romanzo verista. Subito, ad apertura di pagina, una narrazione che pare monocorde, impoetica; un mondo di poveri pescatori, che costituisce in se stesso una chiara provocazione rispetto alla tradizione letteraria. La voce narrante risuona come un’eco che rimbalza tra i tanti acuti e stridii del «coro» di Aci Trezza: lo scrittore si costringe a una prospettiva bassa, assume un livello conoscitivo di grado zero: non sa nulla, non spiega nulla; i lettori sono buttati in mezzo al romanzo, senza alcuna preparazione. Rivalità, simpatie, invidie, cioè tutti i sentimenti dei personaggi – e gli eventi che li hanno suscitati – all’inizio della narrazione non vengono «raccontati», ma mostrati in atto agli occhi del lettore. In questo modo Verga produce l’effetto dell’«opera che si fa da sé», senza bisogno della mediazione del narratore-letterato.

il paragone radica la famiglia nel suo ambiente, o meglio, la identifica con l’ambiente stesso

il centro, materiale e ideale, attorno a cui ruota la loro esistenza

padron ’Ntoni è il depositario dei valori della vecchia cultura patriarcale; perciò parla abitualmente per proverbi o modi di dire popolari

Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza;1 ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello,2 tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, 5 li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole.3 Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ’Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza4 ch’era ammarrata5 sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio6 Co10 la, e alla paranza7 di padron Fortunato Cipolla. Le burrasche8 che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron ’Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso – un pugno che sembrava fatto di legno di noce9 – Per menare il remo10 bisogna che le 15 cinque dita s’aiutino l’un l’altro. Diceva pure, – Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo.11 E la famigliuola di padron ’Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant’ore;12 poi suo fi-

1. Trezza: Aci Trezza, poco a nord di Catania. 2. Ognina... Aci Castello: tutte località della costa catanese. 3. che avevano... sole: avevano sempre posseduto delle barche e una casa. Nota l’anacoluto, cioè la rottura della regolarità sintattica della frase, introdotto dal che: primo esempio del «discorso indiretto libero» verghiano. La congiunzione presupporrebbe un verbo reggente («si sapeva che...», «era noto che...», o simili), ma Verga rifiuta l’uso di queste forme, per affidarsi al «coro»

della gente di Trezza: la narrazione sembra scaturire dalla loro viva voce. 4. Provvidenza: la barca su cui i Malavoglia escono a pescare. 5. ammarrata: tirata in secco sulla riva. 6. zio: nel linguaggio popolare indica non un vero e proprio parente, ma un individuo anziano a cui viene portato rispetto. 7. paranza: larga e tozza imbarcazione a vela, con un albero, usata per la pesca costiera; stazzava fino a 25 tonnellate. 8. Le burrasche: felice metafora, trattandosi di gente di mare.

9. legno di noce: legno scuro, compatto e duro; sta a simboleggiare l’energia e la saldezza di padron ’Ntoni. 10. menare il remo: condurre il remo, quindi remare. 11. il dito grosso... piccolo: ritorna il motivo dell’unità e coesione familiare espressi nel proverbio precedente. Ciascuno ha un ruolo nella vita, che non va abbandonato per andare in cerca d’avventure: è l’«ideale dell’ostrica» verghiano. 12. quarant’ore: liturgia religiosa in cui il Santissimo Sacramento (l’Eucaristia) viene

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Monografia Raccordo

8

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

anche lui, come il padre, riconosce l’autorità del nonno, ma è un irrequieto, come poi il romanzo mostrerà l’esclamazione pare giungere dal coro della gente che passa in rassegna i vari componenti della famiglia secondo l’«ideale dell’ostrica» bisogna accontentarsi di quel che si è o che si sa fare e che si ha

la sua visione del mondo è tutta racchiusa nei confini della famiglia e del villaggio; perciò è indifferente a quanto accade nel resto d’Italia

glio Bastiano, Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che 20 c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città;13 e così grande e grosso com’era filava diritto alla manovra comandata,14 e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «sòffiati il naso» tanto che s’era tolta15 in moglie la Longa16 quando gli avevano detto «pìgliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe,17 e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordi- 25 ne di anzianità: ’Ntoni, il maggiore, un bighellone di vent’anni, che si buscava tutt’ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l’equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant’Agata»18 perché stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di 30 pollaio, e triglia di gennaio»;19 Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!;20 e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. – Alla domenica, quando entravano in chiesa, l’uno dietro l’altro, pareva una processione. Padron ’Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi, «perché il motto21 degli antichi mai mentì»: – «Senza pilota22 barca non cammina» – 35 «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano»23 – oppure – «Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci24 camperai» – «Contentati di quel che t’ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante»25 ed altre sentenze giudiziose. Ecco perché la casa del nespolo prosperava, e padron ’Ntoni passava per testa quadra,26 al punto che a Trezza l’avrebbero fatto consigliere comunale, se don Silvestro, 40 il segretario,27 il quale la sapeva lunga, non avesse predicato che era un codino marcio, un reazionario28 di quelli che proteggono i Borboni,29 e che cospirava pel ritorno di Franceschello,30 onde poter spadroneggiare nel villaggio, come spadroneggiava in casa propria.31 Padron ’Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschello, e badava 45 agli affari suoi, e soleva dire: «Chi ha carico di casa32 non può dormire quando vuole» perché «chi comanda ha da dar conto».33

esposto ai fedeli e da loro adorato, appunto per quaranta ore consecutive, giorno e notte, in ricordo del tempo trascorso da Gesù Cristo nel sepolcro. «Comandare le feste e le quarant’ore» significa, nel linguaggio popolare figurato, “comandare ogni cosa a bacchetta”; padron ’Ntoni è il capo riconosciuto della casa. 13. città: Catania, la città per antonomasia. 14. filava... comandata: obbediva senza fiatare (nel gergo marinaresco). 15. tolta: presa. 16. la Longa: Maruzza, detta la Longa, era minuta e piccina, tutto il contrario di quanto il soprannome fa supporre, così come dev’essere, ha già detto Verga. 17. salare le acciughe: mettere le acciughe sotto sale, per la conservazione. Era, in un villaggio di pescatori, un compito fondamentale, svolto dalle donne. 18. Sant’Agata: martire siciliana vissuta tra il III e il IV secolo d.C., patrona di Catania. Impersona popolarmente le virtù femminili. Mena è chiamata così perché è una ragazza a modo.

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19. donna... gennaio: ogni cosa al suo posto, dunque, secondo la morale patriarcale. Gennaio, quando il mare è più mosso e infido, è il mese della pesca della triglia, un pesce che vive tra gli scogli. 20. colui: il pronome si riferisce ad Alessi. 21. il motto: la parola, il proverbio come fonte di saggezza. 22. pilota: naturalmente è lui, padron ’Ntoni, la guida (il pilota) della famiglia. 23. Per far da papa... sagrestano: ossia chi vuol comandare deve imparare prima a obbedire. 24. che se non arricchisci: e così, anche se non... Questo che è il tipico ca siciliano, congiunzione con valore variabile, ora causale, ora (come qui) consecutivo. 25. birbante: un poco di buono. 26. testa quadra: uomo di buon senso, serio. 27. don Silvestro, il segretario: segretario comunale, è un intrigante forestiero che di fatto detiene il potere politico in paese, manovrando a proprio piacimento il debole sindaco. Con le sue manovre con-

tribuirà a portare in carcere il giovane ’Ntoni. 28. un codino marcio, un reazionario: un retrivo conservatore. Prima della rivoluzione francese, nel Settecento, gli uomini portavano i capelli acconciati con una lunga treccia (codino) sulla nuca. L’espressione «essere un codino» significa avere nostalgie per l’epoca in cui il potere dei sovrani era considerato indiscutibile. 29. Borboni: la dinastia che regnava sul Mezzogiorno d’Italia, prima della spedizione dei Mille (1860) e dell’Unità d’Italia. 30. Franceschello: Francesco II di Borbone (1836-94), ultimo re delle Due Sicilie. 31. onde poter... in casa propria: don Silvestro non esita a calunniare quel potenziale avversario che potrebbe insidiare il suo potere. 32. Chi ha carico di casa: chi ha la responsabilità di mantenere una famiglia. 33. dar conto: nella visione patriarcale, l’autorità è anzitutto responsabilità e servizio.

nella mentalità tradizionale, è disdicevole che un uomo si commuova

34. la leva di mare: il servizio militare in qualità di marinaio. I marinai erano di preferenza arruolati in paesi di mare. 35. pezzi grossi: gli uomini più potenti. 36. vicario: esercitava le funzioni del parroco, che abitava in un altro paese. Don Giammaria è l’autorità religiosa di Aci Trezza. 37. satanasso: il diavolo. Secondo don Giammaria, la rivoluzione del 1860 è opera del diavolo. 38. sciorinare... campanile: facendo sventolare il fazzoletto tricolore simbolo d’Italia. L’espressione è ironica: la bandiera diventa un fazzoletto, steso ad asciugare in cima ai campanili come un capo di biancheria qualunque. Il vicario è indignato per la profanazione del luogo sacro, ma si sbaglia su padron ’Ntoni, che di certo non era tra gli sventolatori. 39. speziale: farmacista. Don Franco faceva parte dei pezzi grossi del paese e infatti portava il titolo di don (superiore a compare). 40. barbona: folta barba. 41. un po’ di repubblica: a differenza di don Giammaria, lo speziale è di idee re-

pubblicane; si richiama a Mazzini e avversa quindi la monarchia dei Savoia. 42. se bisognava: l’arruolamento sarebbe avvenuto solo in caso di effettivo bisogno. 43. prima che suo nipote: il capofamiglia è preoccupato, perché prevede il danno che porterà ai Malavoglia la partenza di ’Ntoni. 44. ce l’avesse in tasca: la repubblica, sottinteso. 45. collera: lo speziale si arrabbia, forse perché riceve da padron’ Ntoni la dimostrazione della propria impotenza: dietro alle sue chiacchiere politiche, infatti, non c’è nulla di concretamente realizzabile. 46. un certo gruzzoletto: una tangente. 47. riformarlo: scartarlo dal servizio militare per inidoneità. 48. era fatto con coscienza: era sano e robusto. 49. pale di ficodindia: i rami del fico d’India sono larghi e appiattiti come le pale di un remo; la similitudine trae spunto dagli elementi della vita quotidiana del paese. 50. stivalini stretti: dei giovani soldati di

città, eleganti. 51. certe giornataccie: quando il mare è in tempesta o durante una battaglia navale. 52. permettete: scusateci tanto. 53. coscritti: i soldati di leva. 54. in quartiere: in caserma, a Catania. 55. trafelata: la madre del giovane ’Ntoni, piccola e minuta, trotterella accanto al figlio, senza riuscire a staccarsi da lui. Prevede i pericoli (anzitutto morali) in cui il suo ragazzo incorrerà, dal momento che verrà sradicato dalla sua gente. 56. l’abitino della Madonna: o “scapolare”, era formato da due pezzi di stoffa con l’immagine o il nome della Madonna; i due pezzi venivano posti dai devoti l’uno sulle spalle e l’altro sul petto. 57. che poi: altro esempio di discorso indiretto libero; sottintendi: «la Longa aggiunse che...». 58. la carta: da lettera. 59. gruppo: nodo. 60. quasi... lei: per evitare che la nuora, cioè la Longa, pensasse che lui fosse in collera con lei.

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Monografia Raccordo

l’Italia unita si rende presente con questi due elementi odiati dalla gente: il servizio militare obbliga torio (prima inesistente) e la riscossione delle tasse

Nel dicembre 1863, ’Ntoni, il maggiore dei nipoti, era stato chiamato per la leva di mare.34 Padron ’Ntoni allora era corso dai pezzi grossi35 del paese, che son quelli che possono aiutarci. Ma don Giammaria, il vicario,36 gli avea risposto che gli stava be- 50 ne, e questo era il frutto di quella rivoluzione di satanasso37 che avevano fatto collo sciorinare il fazzoletto tricolore dal campanile.38 Invece don Franco lo speziale39 si metteva a ridere fra i peli della barbona,40 e gli giurava fregandosi le mani che se arrivavano a mettere assieme un po’ di repubblica,41 tutti quelli della leva e delle tasse li avrebbero presi a calci nel sedere, ché soldati non ce ne sarebbero stati più, e invece 55 tutti sarebbero andati alla guerra, se bisognava.42 Allora padron ’Ntoni lo pregava e lo strapregava per l’amor di Dio di fargliela presto la repubblica, prima che suo nipote43 ’Ntoni andasse soldato, come se don Franco ce l’avesse in tasca;44 tanto che lo speziale finì coll’andare in collera.45 Allora don Silvestro il segretario si smascellava dalle risa a quei discorsi, e finalmente disse lui che con un certo gruzzoletto46 fatto 60 scivolare in tasca a tale e tal altra persona che sapeva lui, avrebbero saputo trovare a suo nipote un difetto da riformarlo.47 Per disgrazia il ragazzo era fatto con coscienza,48 come se ne fabbricano ancora ad Aci Trezza, e il dottore della leva, quando si vide dinanzi quel pezzo di giovanotto, gli disse che aveva il difetto di esser piantato come un pilastro su quei piedacci che sembravano pale di ficodindia;49 ma i piedi 65 fatti a pala di ficodindia ci stanno meglio degli stivalini stretti50 sul ponte di una corazzata, in certe giornataccie;51 e perciò si presero ’Ntoni senza dire «permettete».52 La Longa, mentre i coscritti53 erano condotti in quartiere,54 trottando trafelata55 accanto al passo lungo del figliuolo, gli andava raccomandando di tenersi sempre sul petto l’abitino della Madonna,56 e di mandare le notizie ogni volta che tornava qual- 70 che conoscente dalla città, che poi57 gli avrebbero mandato i soldi per la carta.58 Il nonno, da uomo, non diceva nulla; ma si sentiva un gruppo59 nella gola anch’esso, ed evitava di guardare in faccia la nuora, quasi ce l’avesse con lei.60 Così se ne tornarono ad Aci Trezza zitti zitti e a capo chino. Bastianazzo, che si era sbrigato

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

in fretta dal disarmare61 la Provvidenza, per andare ad aspettarli in capo62 alla via, co- 75 me li vide comparire a quel modo, mogi mogi e colle scarpe in mano,63 non ebbe animo64 di aprir bocca, e se ne tornò a casa con loro. G. Verga, Tutti i romanzi, cit. 61. disarmare: togliendole le attrezzature per la pesca e mettendola al riparo sulla spiaggia.

62. in capo: in fondo. 63. colle scarpe in mano: le avevano indossate per recarsi in città; ma in paese

non servono più e dunque se le sono tolte, per non consumarle invano. 64. animo: coraggio.

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ La prima pagina del romanzo assolve a due funzioni narrative: • presenta la famiglia Toscano, da tutti chiamata, chissà perché, Malavoglia, e la presenta nel contesto del suo paese, un borgo di pescatori sulla costa catanese;

• narra la partenza del giovane ’Ntoni per la leva militare: egli parte malgrado gli sforzi di suo nonno, padron ’Ntoni, che aveva cercato in ogni modo d’impedire la sottrazione di braccia tanto preziose per l’economia familiare.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Tutto lo sforzo di Verga consiste nel nascondersi, nello sprofondarsi entro l’ambiente paesano, fino a scomparire. Osserva il primo capoverso: Verga parla dei borghi della costa siciliana come se tutti li conoscessero da sempre; né sente il bisogno di spiegare dove sia o che cosa sia la strada vecchia di Trezza, che si suppone arcinota al pubblico. Anche in seguito l’autore non presenta né descrive i suoi personaggi, ma, più semplicemente, li nomina, li fa esistere nel momento stesso in cui li colloca nella rete di relazioni, personali e sociali, del villaggio. È la comunità paesana a definire la famiglia dei Malavoglia, anche con le perifrasi che ne definiscono la condizione sociale: barche sull’acqua, e delle tegole al sole. ■ Ciò che connota la famiglia sono precisamente il lavoro (barche sull’acqua) e la casa (tegole al sole): i Malavoglia oc-

cupano, nella scala sociale, un gradino intermedio, perché sono piccoli proprietari, padroni della casa in cui vivono e della barca da pesca, la Provvidenza, che assicura loro un’esistenza decorosa. Non possono considerarsi ricchi, perché non vivono di rendita, ma sono in grado di bastare a se stessi con il proprio lavoro. La casa simboleggia l’unità della famiglia, la barca la sua attività: le due condizioni s’intrecciano strettamente, riassunte nella figura del patriarca della famiglia, padron ’Ntoni. ■ Proprio questi segni di identificazione verranno meno a uno a uno, nel seguito del racconto: affondata prima e poi recuperata e venduta la barca, abbandonata la «casa del nespolo», dopo che padron ’Ntoni muore all’ospedale, la famiglia Toscano cessa di esistere. Dovrà ricominciare da capo, con Alessi, la propria storia.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. L’inizio del romanzo getta di colpo il lettore nel pieno degli eventi: senza mediazioni né spiegazioni, il pubblico si ritrova in un mondo (quello di Aci Trezza) e in un tempo molto speciali, di cui ancora non conosce nulla. a. Rispondi a queste domande, indicando la riga del testo che giustifica la tua risposta. – Qual è il vero nome dei Malavoglia? A che cosa si deve il loro soprannome? ............................................................................................... 162

– Quali sono i componenti della famiglia? Riconoscili nel testo. ............................................................................................... – Quali sentimenti politici sono attribuiti a padron ’Ntoni? Da chi e perché? ............................................................................................... – Che cos’è la leva di mare? Quale personaggio deve rispondere e quando? ............................................................................................... – Quali riferimenti consentono d’identificare il periodo storico in cui si svolgono i fatti? ...............................................................................................

a. Rintraccia nel testo i proverbi a cui il personaggio si richiama, poi compila la tabella classificandoli in base al loro contenuto. proverbi che raccomandano obbedienza a una gerarchia

.................................................................. .................................................................. .................................................................. ..................................................................

raccomandano unità d’intenti

.................................................................. .................................................................. .................................................................. ..................................................................

rivelano .................................................................. l’accettazione del .................................................................. proprio destino .................................................................. .................................................................. b. Verga però fa parlare padron ‘Ntoni per proverbi non a scopo comico, per creare una «macchietta», ma con assoluta serietà d’intenzioni. Sintetizza il ritratto psicologico del personaggio così come emerge da ciò che fa e che dice (max 10 righe).

LAVORIAMO SU

{ Forme e stile 3. L’autore dei Malavoglia rinuncia a interpretare la vicenda con i suoi parametri di letterato: al contrario, si «nasconde» tra le mille voci di un piccolo paese di pescatori della Sicilia orientale. a. Questo modo di procedere si chiama a artificio del narratore popolare b artificio del narratore onnisciente c tecnica del discorso indiretto libero Scegli l’opzione giusta e spiegala in breve con le tue parole. 4. L’io narrante dà tutto per scontato: il luogo dove si svolgerà la vicenda non viene descritto e contestualizzato e anche i personaggi irrompono sulla scena del romanzo senza che di essi sia stato preventivamente spiegato nulla. a. Osserva la prima frase del romanzo. «Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere». Questo periodo presuppone non un lettore generico, ma un interlocutore a conoscenza dei fatti e dell’ambiente. Spiega il perché, commentando i tre elementi elencati. • come i sassi della strada vecchia di Trezza • persino • come dev’essere b. Ora prova a descrivere con le tue parole l’effetto che questo metodo narrativo produce sul lettore.

LINGUA E LESSICO

1. Un aspetto saliente del brano è il realismo con cui il narratore parla non di concetti astratti, ma di cose, di oggetti: gli oggetti della vita quotidiana (il libro della parrocchia, le barche sull’acqua, la barca ammarrata sul greto, sotto il lavatoio) di un povero borgo sulla costa orientale della Sicilia. a. Prosegui tu nell’analisi: – identifica una sequenza a tua scelta; – trascrivi le espressioni più caratteristiche; – proponi un tuo commento che metta in luce tutta la concretezza e «materialità» del lessico verghiano. 2. Verga ottiene il desiderato «colore locale» infarcendo la narrazione di modi di dire,

similitudini, riferimenti che riportano il lettore al mondo ristretto, per cultura e linguaggio, degli abitanti di Aci Trezza. a. Osserva per esempio il lungo capoverso che presenta i membri della famigliuola di padron ’Ntoni: quali forme «parlate» vi incontriamo? b. Ora rifletti sull’insieme del brano. In che modo, soprattutto, Verga ottiene l’effetto del «colore locale»? a utilizzando il dialetto siciliano b utilizzando una lingua ibrida italiano-siciliano c utilizzando una lingua intessuta di modi di dire popolareschi Scegli la risposta esatta poi individua nel brano qualche esempio che la giustifichi. 163

Monografia Raccordo

2. L’unico personaggio a mostrare, in questo esordio, un carattere già definito è padron ’Ntoni. Egli viene caratterizzato dal fatto che parla quasi solo per proverbi, le uniche forme di saggezza consentitegli dalla sua mancanza di istruzione. Per padron ’Ntoni parlare per proverbi significa manifestare e vivere la sua completa adesione a un ben preciso universo ideologico (quello degli antichi) e ai suoi valori.

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

CONFRONTI

I promessi sposi e I Malavoglia: due modi assai diversi per cominciare un romanzo Se mettiamo a confronto l’inizio del romanzo di Verga, I Malavoglia, con I promessi sposi di Manzoni, riscontriamo si-

gnificative differenze che permettono di riconoscere le diverse poetiche dei due autori. L’uno e l’altro, infatti, partono da

una volontà di realismo, ma lo declinano poi in forme differenti, corrispondenti alle rispettive visioni della realtà.

MANZONI

VERGA

inizio dei Promessi sposi cap. I

inizio dei Malavoglia cap. I

A. determinazioni di tempo

c’è una data precisa

c’è una data precisa

«... sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628» “

«Nel dicembre 1863, ’Ntoni [...] era stato chiamato per la leva di mare» “

anche I Malavoglia è, a suo modo, un romanzo storico

siamo in un romanzo storico

B. determinazioni di luogo

l’ambiente esterno viene dettagliatamente presentato e descritto, dal lontano al vicino



• «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti...» • «Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago...» • «Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, piú o men ripide, o piane...» • «Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa...» il racconto s’inquadra in una ben precisa cornice geografica

164

dell’ambiente esterno si parla come se il lettore lo conoscesse già

• «Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello...» • «Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ’Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarrata sul greto...» • «Le burrasche [...] erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio» “ i lettori comprendono a poco a poco dove si svolge il racconto

Contesto

Giovanni Verga

C. ritratto dei personaggi don Abbondio



la famiglia Toscano

• «E la famigliuola di padron ’Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant’ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città; e così grande e grosso com’era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto “sòffiati il naso...”» • «Ecco perché la casa del nespolo prosperava, e padron ’Ntoni passava per testa quadra, al punto che a Trezza l’avrebbero fatto consigliere comunale, se...»

Monografia Raccordo

• «Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra [...]. Diceva tranquillamente il suo ufizio...» • «Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da’ primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che...» • «Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro»

“ ◗ è il coro degli abitanti di Trezza a parlare dei vari componenti della famiglia, con mille allusioni e sottintesi

◗ l’attenzione converge gradualmente sul primo personaggio del racconto ◗ poi il romanziere narra il passato e il carattere del personaggio

◗ i fatti sono sempre mescolati a pareri e giudizi della gente su quella famiglia

D. funzione dell’autore

autore onnisciente

narratore popolare

“ ◗ fornisce ai lettori informazioni su luoghi, personaggi e fatti ◗ guida i lettori nel procedere della narrazione

Concludendo, il realismo dell’esordio dei Malavoglia è molto diverso da quello dei Promessi sposi: • quello di Verga è un realismo straniante, perché obbliga i lettori a interrogarsi su che cosa stanno leggendo. E come il pubblico non pos-

◗ non fornisce né informazioni né chiarimenti su luoghi, personaggi e fatti



◗ si confonde tra i suoi personaggi, assumendo il loro punto di vista («basso» rispetto a quello «alto» del letterato)

siede le chiavi di decifrazione del libro, così l’autore non possiede le chiavi per decifrare una realtà che gli appare troppo complessa e sfuggente anche a quel semplice, elementare livello (un mondo di pescatori semianalfabeti);

• quello di Manzoni è un realismo prospettico, in cui la prospettiva (l’«alto» dell’autore onnisciente, il «basso» dei lettori) rivela l’esistenza di un punto di vista superiore (quello di Dio), dal quale giudicare e riassumere tutta la realtà.

165

Tra Ottocento e Novecento

La parola al critico Verga e l’artificio della regressione Il critico Guido Baldi (1942) illustra il particolare artificio tecnico messo in atto da Verga nei Malavoglia, cioè la sua volontà di adottare il punto di vista dei popolani di Aci Trezza. Ciò lo conduce a una volontaria «regressione» al livello culturalmente (e linguisticamente) basso della comunità di villaggio. Si tratta di un’autentica rivoluzione per la letteratura italiana, in cui tradizionalmente l’autore impersona il ruolo del maestro di verità e moralità. Nei Malavoglia Verga resta fedele all’artificio tecnico, già sperimentato in Vita dei campi, di non presentare i fatti dal proprio punto di vista di intellettuale borghese, con i parametri di giudizio, la scala di valori, i moduli espressivi che ad esso competono, bensì di delegare la funzione narrativa ad un anonimo “narratore” popolare, che appartiene allo stesso livello sociale e culturale dei personaggi che agiscono nella vicenda ed è portatore della visione caratteristica di un milieu1 subalterno, provinciale e rurale. Tuttavia la soluzione offerta dal romanzo è sensibilmente diversa da quella delle novelle precedenti, e al tempo stesso più complessa. [...] Nei Malavoglia il “narratore” popolare è una presenza sensibile, [...] poiché [...], lungi dal possedere una funzione sistematica e continua di filtro deformante e lungi dal fornire una prospettiva rigorosamente unitaria sul narrato, sin dalle prime pagine lascia che si affermi la prospettiva dei personaggi singoli e concreti, che nella loro multiforme pluralità gestiscono quantitativamente la parte maggiore del processo affabulativo,2 divenendo il vero e sistematico filtro della narrazione e lasciando alla “voce narrante” una funzione pressoché marginale.3 Questa emergenza vittoriosa del coro reale sul “narratore” virtuale4 si realizza in primo luogo, come è ovvio, attraverso un ampio uso del discorso diretto, che è il mezzo più classico mediante cui si può affermare nel narrato la visione soggettiva dei personaggi, oppure attraverso il discorso indiretto e l’indiretto libero, che del parlato diretto conservano tutte le movenze, le immagini, i costrutti, come ha messo in rilievo lo Spitzer, e consentono in egual modo ai personaggi di assumere l’iniziativa del racconto, imponendo la loro soggettività. Però anche quando è il “narratore” che racconta, l’affinità sociale, culturale e linguistica che lo lega al mondo rappresentato fa sì che, in certi casi, si verifichi un vero e proprio processo di osmosi coi personaggi, e che le rispettive fisionomie si confondano al punto da rendere difficile distinguere a chi appartenga la prospettiva sulla materia narrata. [...] Il “narratore” [dei Malavoglia] non si annulla totalmente nell’ottica del personaggio, ma serba in certa misura la sua identità, e non riporta enunciati verbali o discorsi interiori della cui realtà effettiva si possa essere assolutamente certi, ma più che altro rifà il verso, mimeticamente ed ecolalicamente,5 al modo in genere con cui il personaggio pensa e si esprime, utilizzando magari le sue locuzioni abituali o riproducendo i suoi inconfondibili stereotipi mentali.6 G. Baldi, Società antagonistica e valori nei «Malavoglia», in L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista, Liguori, Napoli 1980 1. milieu: ambiente sociale. Era un termine caro ai naturalisti francesi, studiosi appunto del milieu. 2. processo affabulativo: l’avanzare della narrazione. 3. lasciando... marginale: i personaggi che dialogano tra loro prevalgono netta-

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mente sulla voce del narratore. 4. emergenza... virtuale: la «prospettiva dei personaggi singoli e concreti», secondo Baldi, prevale di gran lunga sul «narratore virtuale»; virtuale nel senso che, invece d’imporsi sui personaggi, legando le loro vicende e parole, il narratore dei Ma-

lavoglia sembra quasi subire l’iniziativa dei personaggi stessi. 5. ecolalicamente: meccanicamente. 6. stereotipi mentali: modi di pensare caratteristici.

Le novità del progresso viste da Trezza I Malavoglia, capitoli II, IV, X passim Anno: 1881 Temi: • i primi segni del progresso • i pregiudizi della gente semplice e la diffidenza verso il nuovo • l’attaccamento alla tradizione Verga sa bene che la fiumana del progresso non si può arrestare e che, presto o tardi, sconvolgerà anche una società arcaica come quella di Aci Trezza: benché emarginato ai limiti del mondo civile, quel villaggio di pescatori dista infatti solo pochi chilometri da Catania. Davanti alle novità della tecnica e della vita politica le pittoresche reazioni degli abitanti del paese possono strapparci un sorriso, ma rivelano in realtà una miope chiusura, preludio alla loro sconfitta nella «lotta per la vita».

l’unico personaggio, nel romanzo, a parlare apertamente di politica e a dirsi rivoluzionario è un uomo succube di sua moglie e terrorizzato da lei il detto popolare rappresenta il modo di pensare dello zio Crocifisso: l’asino a cui si vuole impartire per forza un’istruzione è il popolo

I) Scuole e lampioni [dal capitolo II] Ma lo speziale era della setta,1 si sapeva; e don Giammaria gli gridava dalla piazza: «I denari2 li trovereste, se si trattasse di scuole e di lampioni!». Lo speziale stette zitto, perché si era affacciata sua moglie alla finestra; e lo zio Crocifisso, quando fu abbastanza lontano da non temere che l’udisse don Silvestro il se5 gretario, il quale si beccava anche quel po’ di stipendio di maestro elementare: «A me non me ne importa – ripeteva –. Ma ai miei tempi non c’erano tanti lampioni, né tante scuole; non si faceva bere l’asino per forza, e si stava meglio». «A scuola non ci siete stato voi; eppure i vostri affari ve li sapete fare». «E il mio catechismo lo so», aggiunse lo zio Crocifisso per non restare in debito.3 Nel calore della disputa don Giammaria aveva perso il battuto4 sul quale avrebbe 10 attraversato la piazza anche ad occhi chiusi, e stava per rompersi il collo, e lasciar scappare, Dio perdoni, una parola grossa. «Almeno l’accendessero, i loro lumi!». «Bisogna badare ai fatti propri», disse lo zio Crocifisso. II) Pesci e navi a vapore [dal capitolo II]

riemerge la fedeltà di padron ’Ntoni alla tradizione

Invece compare Tino, seduto come un presidente, sugli scalini della chiesa, sputa- 15 va sentenze: «Sentite a me; prima della rivoluzione era tutt’altra cosa. Adesso i pesci sono maliziati5 ve lo dico io!». «No; le acciughe sentono il grecale6 ventiquattr’ore prima di arrivare – rispondeva padron ’Ntoni –; è sempre stato così; l’acciuga è un pesce che ha più giudizio del tonno. Ora di là del Capo dei Mulini, li scopano dal mare tutti in una volta, colle re- 20 ti fitte».

1. lo speziale era della setta: il farmacista, don Franco, era affiliato a una società segreta; più in generale: era un rivoluzionario, cioè si dava arie di mazziniano, repubblicano convinto (a quell’epoca l’Italia era una monarchia). 2. I denari: don Giammaria, poco prima, si

dispiaceva che nessuno facesse più offerte alla Confraternita della Buona Morte, un’associazione di carità da lui gestita. 3. per non restare in debito: per restituire a don Giammaria la sua battuta bonaria. 4. il battuto: la piazza non è lastricata; vi è un’unica striscia ben battuta dal cammi-

nare della gente, sgombra da sassi ed erbacce. 5. i pesci sono maliziati: si sono fatti furbi. 6. grecale: vento “greco”, che cioè spira da nord-est.

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Monografia Raccordo

9

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

è la norma basilare di una società patriarcale

«Ve lo dico io cos’è!» ripigliò compare Fortunato. «Sono quei maledetti vapori7 che vanno e vengono, e battono l’acqua colle loro ruote. I pesci si spaventano e non si fanno più vedere». Il figlio della Locca stava ad ascoltare a bocca aperta e si grattava il capo. «Bravo!» 25 disse poi. «Così pesci non se ne troverebbero più nemmeno a Siracusa né a Messina, dove vanno i vapori. Invece li portano di là a quintali colla ferrovia». «Insomma sbrigatevela voi!» esclamò allora padron Cipolla indispettito, «io me ne lavo le mani, e non me ne importa un fico, giacché ci ho le mie chiuse e le mie vigne 30 che mi danno il pane». E Piedipapera assestò uno scapaccione al figlio della Locca, per insegnargli l’educazione. «Bestia! quando parlano i più vecchi di te sta zitto». III) Telegrafo e pioggia [dal capitolo IV]

un tipico esempio di discorso indiretto libero, che riferisce la battuta pronunciata da padron Cipolla senza aprire le virgolette e con notevole libertà sintattica

Quelli che stavano fuori nel cortile guardavano il cielo, perché un’altra pioggerella8 ci sarebbe voluta come il pane. Padron Cipolla lo sapeva lui perché non pioveva più come prima. «Non piove più perché hanno messo quel maledetto filo del 35 telegrafo, che si tira tutta la pioggia, e se la porta via». Compare Mangiacarrubbe allora, e Tino Piedipapera, rimasero a bocca aperta, perché giusto sulla strada di Trezza c’erano i pali del telegrafo; ma siccome don Silvestro cominciava a ridere, e a fare ah! ah! ah! come una gallina, padron Cipolla si alzò dal muricciuolo, infuriato, e se la prese con gli ignoranti, che avevano le orecchie lunghe come gli asini. Che non lo 40 sapevano che il telegrafo portava le notizie da un luogo all’altro; questo succedeva perché dentro il filo ci era un certo succo come nel tralcio della vite, e allo stesso modo si tirava la pioggia dalle nuvole,9 e se la portava lontano, dove ce n’era più di bisogno; potevano andare a domandarlo allo speziale che l’aveva detta; e per questo ci avevano messa la legge che chi rompe il filo del telegrafo va in prigione. Allora anche 45 don Silvestro non seppe più che dire, e si mise la lingua in tasca. IV) Acciughe e repubblica [dal capitolo X]

questa è l’opinione degli abitanti di Trezza, come una replica corale a quello sconsiderato di don Franco

Don Franco voleva insegnare una maniera nuova di salare le acciughe, che l’aveva letta nei libri. Come gli ridevano in faccia, si metteva a gridare: «Bestie che siete! e volete il progresso! e volete la repubblica!». La gente gli voltava le spalle, e lo piantava lì a strepitare come un pazzo. Da che il mondo è mondo le acciughe si son fatte 50 col sale e coi mattoni pesti.10 «Il solito discorso! Così faceva mio nonno!» seguitava a gridare dietro lo speziale. «Siete asini che vi manca soltanto la coda! Con gente come questa cosa volete fare? e si contentano di mastro Croce Giufà, perché il sindaco è stato sempre lui; e sarebbero 55 capaci di dirvi che non vogliono la repubblica perché non l’hanno mai vista!». G. Verga, Tutti i romanzi, cit.

7. quei maledetti vapori: a quell’epoca iniziavano a comparire nei mari, per la pesca, le prime imbarcazioni a vapore, dotate di ruote a pale. 8. un’altra pioggerella: dopo la burrasca che ha fatto naufragare la Provvidenza.

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9. e allo stesso modo si tirava la pioggia dalle nuvole: secondo la spiegazione (una credenza popolare, in realtà) di padron Cipolla, il succo racchiuso nei fili del telegrafo era in grado di attirare la pioggia e di trasportarla o deviarla da un luogo all’altro.

10. mattoni pesti: mattoni pestati e ridotti in polvere; quest’ultima serviva ad assorbire il liquido prodotto dalla salatura e a tenere asciutte le acciughe.

■ Verga non ha una visione idilliaca della realtà contadina; inoltre è consapevole che il corso della storia non può essere bloccato o ignorato. La sua tesi è che una società patriarcale come quella di Aci Trezza può sopravvivere fino a quando non intervengono elementi – innovativi – che ne mettono in crisi la struttura profonda. ■ Nel mondo arcaico del romanzo il progresso, con le sue novità, irrompe in modo lento, discontinuo, ma reale. Possiamo classificare tali novità in due categorie: • nuove tecnologie e macchine, come i lampioni alimentati dal gas, le navi a vapore, il telegrafo; • nuove istituzioni, come la scuola (l’istruzione elementare per i primi due anni era stata resa obbligatoria dalla legge Coppino nel 1877) e la repubblica. ■ Scuola, luce a gas ecc. sono i segni d’importanti trasformazioni culturali in corso, di quella «brama di meglio» che s’insinua a tutti i livelli anche nella comunità di villaggio. Emblema di tutto ciò è il giovane ’Ntoni: andando a fare il soldato, egli impara a leggere, vede cose nuove e può così rendersi conto che povertà ed emarginazione non sono affatto un «destino» privo di alternative. Perciò, quando tornerà a Trezza, ’Ntoni sarà un disadattato, perché incarna una qualità – lo spirito critico – che la cultura tradizionale non può tollerare, a nessun costo. ■ Nel brano letto, invece, i vari personaggi mostrano di fronte al progresso un atteggiamento di chiusura preconcetta e arrivano ad attribuire a queste novità i danni più fantasiosi e improbabili, come la scomparsa dei pesci nel mare (brano II) o della pioggia (brano III). ■ Questa mentalità retriva è confermata da molti particolari. Per esempio il figlio della Locca, in quanto figlio di una madre un po’ tarda di mente, ha la triste sorte di essere considerato anche lui sciocco. In realtà il ragazzo, nell’arco di tutto il racconto, fa osservazioni sensate, che però nessuno prende in considerazione. È, questo, un esempio dei pregiudizi che si radicano all’interno di un piccolo gruppo sociale, e anche la riprova che, nella comunità di villaggio, la famiglia è più importante dell’individuo. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Quali personaggi ricorrono nelle quattro scene lette? Fai un rapido censimento, compilando la tabella. brano

personaggi

1

....................................................................................

2

....................................................................................

3

....................................................................................

4

....................................................................................

2. Di questi personaggi, chi appare più attirato dalle novità del progresso? E chi, invece, si mostra assolutamente ostile a esso? ....................................................................................................... ....................................................................................................... 3. I vari brani provengono da capitoli diversi, posti in sequenza. Ti sembra che dall’uno all’altro si registri un’evoluzione rispetto al tema del progresso, oppure no? ....................................................................................................... ....................................................................................................... 4. Sottolinea i punti nei vari episodi in cui meglio si evidenzia la mentalità retriva e tradizionalista che governa la vita del villaggio. 5. Spiega nel loro contesto le seguenti frasi. • non si faceva bere l’asino per forza ....................................................................................................... • si mise la lingua in tasca ....................................................................................................... • Da che il mondo è mondo le acciughe si son fatte col sale e coi mattoni pesti ....................................................................................................... 6. Nei vari brani si evidenzia il modo con cui, ad Aci Trezza, si risolvono le controversie: ogni discussione si tronca allorquando uno degli interlocutori può rinviare all’autorità di qualcuno cui viene riconosciuta una superiore competenza. Illustra questi aspetti con riferimenti ai testi. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 7. Quello che abbiamo appena ricordato è indice di una cultura che rimane pervicacemente uguale a se stessa. Prova a spiegare in questo modo la discussione sul telegrafo. Tieni presente nel tuo commento che don Franco, lo speziale, è uno che legge i giornali e quindi è aggiornato sulle «diavolerie» che vengono da fuori. Ma che cosa succede allorché si parla di acciughe? E perché? ....................................................................................................... ....................................................................................................... .......................................................................................................

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Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

I Malavoglia e la questione meridionale

■ Sopra, contadini (1893) e, a destra, tagliatore di pietra (1897). Fotografie di Giovanni Verga.

In larga parte dei Malavoglia (a partire dal capitolo I) si riflette la «questione meridionale», ovvero l’attenzione posta ai problemi delle regioni del Mezzogiorno negli anni successivi all’Unità (1861) d’Italia (E scheda a p. 90). I contadini del Sud avevano sperato che la rivoluzione garibaldina sfociasse in una riforma agraria che li rendesse proprietari della terra che lavoravano; invece si trovarono all’improvviso a dover affrontare nuovi problemi, come la leva militare, che sottraeva braccia al lavoro. Alcune crisi agricole (la più pesante nel 1886-87) aggravarono la già precaria situazione. La questione meridionale cominciò a divenire un tema di dibattito politico negli stessi anni in cui venne pubblicato il romanzo di Verga (1881). Tra i primi documenti a far luce sull’amara realtà vi furono le Lettere meridionali di Pasquale Villari (1875) e l’Inchiesta in Sicilia di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino (1876), che rivelarono le durissime condizioni di vita della popolazione dell’isola. Queste problematiche si trovano rifles170

se nei Malavoglia; l’usura, le rendite parassitarie degli sfruttatori, la cattiva amministrazione pubblica, le imposte municipali, le opere pie, l’intervento dello stato, il contrabbando, la coscrizione militare sono tutti aspetti che emergono nel romanzo. Già nel capitolo I compare la questione della leva obbligatoria, istituita dal nuovo stato sabaudo, che provoca effetti disastrosi per l’agricoltura; nel capitolo II si accenna all’inferiorità delle condizioni dei pescatori siciliani rispetto agli imprenditori della pesca del Nord; nel III si parla della tassa di successione e del sale; nel capitolo IV è ripreso l’argomento delle tasse, e Turi Zuppiddu commenta preoccupato: «Va a finire brutta, va a finire, con questi italiani!»; il capitolo VI è dedicato in larga parte alla rivolta contro il dazio sulla pece e così via. Il punto di vista di Verga è che l’onesto lavoro di padron ’Ntoni e della sua famiglia è compromesso dal fatto che tale attività si fonda su un’unica fonte di sostentamento: la pesca. Al confronto, zio Crocifisso può ben lavarsene le mani, «giacché – egli dice nel capitolo II – ci ho le

mie chiuse e le mie vigne che mi danno il pane». Egli è l’usuraio che «si pappava il meglio della pesca senza pericolo», il simbolo delle forze sociali che oggi diremmo improduttive: come don Silvestro, segretario comunale e truffatore, o padron Cipolla, latifondista che assolda gli uomini a giornata per la pesca, e Piedipapera, mediatore in combutta con i contrabbandieri. Se lo scrittore francese Émile Zola era il fervido apostolo del rinnovamento della Francia in senso democratico e repubblicano, Verga guarda con molto sospetto al processo di industrializzazione in atto a spese del Mezzogiorno italiano. Perciò sin dalla Prefazione del romanzo è assente qualunque traccia di ideologia evoluzionistica in senso positivo: il progresso per Verga è una «fiumana», e può sembrare «grandioso» solo a chi lo contempli da lontano, nei risultati finali, ma se si osserva con più attenzione si colgono gli egoismi, le lotte feroci, le dolorose sconfitte dei «deboli che restano per via», dei «vinti che levano le braccia disperate».

10 L’addio alla casa del nespolo I Malavoglia, capitolo IX Anno: 1881 Temi: • la perdita della casa vissuta come tragedia familiare • l’ipocrisia dei compagni e il loro finto cordoglio • l’emarginazione sociale provocata dal fallimento economico Con umilianti richieste e preghiere padron ’Ntoni aveva sempre ottenuto dai suoi creditori delle dilazioni per pagare il debito dei lupini. Un giorno però giunge, quasi per caso, la notizia che il giovane Luca è morto nella battaglia navale di Lissa (1866): «Adesso – si commenta in paese – la casa del nespolo fa davvero acqua da tutte le parti», proprio come la nave ammiraglia italiana, affondata con il suo carico di marinai. Nuovi atti di fiducia nei confronti dei Malavoglia non sono più possibili: bisogna che paghino. Per suggerimento del subdolo don Silvestro, il segretario comunale, padron ’Ntoni estingue il debito cedendo ai creditori la casa in cui vive la famiglia, la «casa del nespolo», pulsante di memorie.

intorno a padron ’Ntoni si scatenano gli usurai: fingono di essere solidali e di dargli buoni consigli, ma sono mossi soltanto dall’avidità

Le carte bollate1 allora cominciarono a piovere, e Piedipapera2 diceva che l’avvocato non doveva esser rimasto contento del regalo di padron ’Ntoni per lasciarsi comprare, e questo provava che razza di stitici3 essi fossero; se ci era da fidarsi quando promettevano che avrebbero pagato. Padron ’Ntoni tornò a correre dal segretario4 e dall’avvocato Scipioni; ma questi gli rideva sul naso, e gli diceva che «chi è minchione se ne sta 5 a casa», che non doveva lasciarvi mettere la mano alla nuora,5 e poiché aveva fatto il pasticcio se lo mangiasse.6 «Guai a chi casca per chiamare aiuto!». – Sentite a me, gli suggerì don Silvestro,7 piuttosto dategli la casa, se no se ne va in spese perfino la Provvidenza e i capelli che ci avete in testa; e ci perdete anche le vo10 stre giornate, coll’andare e venire dall’avvocato. – Se ci date la casa colle buone, gli diceva Piedipapera, vi lasceremo la Provvidenza, che potrà sempre guadagnarvi il pane, e resterete padroni,8 e non verrà l’usciere colla carta bollata. Compare Tino9 non aveva fiele in corpo,10 e andava a parlare a padron ’Ntoni come se non fosse fatto suo, passandogli il braccio attorno al collo, e gli diceva: – Scu- 15 satemi, fratello mio, a me mi dispiace più di voi, di cacciarvi fuori dalla vostra casa, ma che volete? sono un povero diavolo; quelle cinquecento lire11 me le son levate

1. Le carte bollate: l’ingiunzione di pagamento che riguarda il vecchio debito dei lupini contratto dai Malavoglia con zio Crocifisso. 2. Piedipapera: Tino Piedipapera, di professione sensale, cioè mediatore; zio Crocifisso ha finto di rivendergli il debito dei Malavoglia. In realtà è lui, lo zio Crocifisso, a trarre guadagno dalla vendita della casa del nespolo. 3. stitici: spilorci. 4. segretario: don Silvestro, il segretario comunale. 5. mettere la mano alla nuora: l’avvocato Scipioni, interpellato da padron ’Ntoni nel capitolo IV, aveva escluso che i Malavoglia fossero obbligati a vendere la

casa del nespolo per ripagare il debito; la casa infatti era sotto ipoteca dotale, cioè apparteneva alla dote di Maruzza la Longa, estranea al debito dei lupini. Ma padron ’Ntoni si era fatto carico ugualmente del debito, per un senso di onestà; aveva perciò persuaso la nuora Maruzza a «mettere la mano» sulla casa, cioè a rinunciare all’ipoteca. Da qui l’irrisione dell’avvocato, che non comprende le ragioni del vecchio. 6. poiché aveva... mangiasse: poiché era stato lui a combinare il guaio, toccava a lui patirne le conseguenze. 7. suggerì don Silvestro: sembra un suggerimento disinteressato, ma in realtà il maligno segretario comunale vuole rovinare i Malavoglia; infatti odia il giovane

’Ntoni, cui vuole sottrarre la fidanzata Barbara. 8. resterete padroni: mantenendo la proprietà sulla barca, i Malavoglia non dovranno andare a lavorare a giornata. 9. Compare Tino: Piedipapera. Tutti sanno che, in realtà, è un prestanome di zio Crocifisso. 10. non aveva fiele in corpo: cercava di rimanere in buoni rapporti con i Malavoglia e manteneva quindi un atteggiamento cortese. 11. quelle cinquecento lire: quelle che, a suo dire, ha speso per comprare dallo zio Crocifisso il debito dei Malavoglia. Ma è una menzogna.

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Monografia Raccordo

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

la patria coincide con il paese, e il paese con la casa e la famiglia; abbandonare la casa equivale dunque a rinunciare alla propria identità e alle proprie radici per pudore, per nascondere la commozione e per sfuggire alla malevola curiosità dei compaesani

essendo il capofamiglia, padron ’Ntoni deve farsi forza, per sé e per gli altri; tuttavia, non riesce a nascondere del tutto i sentimenti di nostalgia e sconforto

dalla bocca, e San Giuseppe prima fece la sua barba.12 Fossi ricco come lo zio Crocifisso non ve ne parlerei nemmeno, in coscienza mia! Il povero vecchio non aveva il coraggio di dire alla nuora che dovevano andarsene 20 colle buone dalla casa del nespolo, dopo tanto tempo che ci erano stati, e pareva che fosse come andarsene dal paese, e spatriare, o come quelli che erano partiti per ritornare, e non erano tornati più, che ancora13 c’era lì il letto di Luca, e il chiodo dove Bastianazzo appendeva il giubbone. Ma infine bisognava sgomberare con tutte quelle povere masserizie,14 e levarle dal loro posto, che ognuna lasciava il segno15 dov’era 25 stata, e la casa senza di esse non sembrava più quella. La roba la trasportarono di notte, nella casuccia del beccaio16 che avevano presa in affitto, come se non si sapesse in paese che la casa del nespolo ormai era di Piedipapera, e loro dovevano sgomberarla; ma almeno nessuno li vedeva colla roba in collo. Quando il vecchio staccava un chiodo, o toglieva da un cantuccio17 un deschetto18 30 che soleva star lì di casa, faceva una scrollatina di capo. Poi si misero a sedere sui pagliericci19 ch’erano ammonticchiati nel mezzo della camera, per riposarsi un po’ e guardavano di qua e di là se avessero dimenticato qualche cosa; però il nonno si alzò tosto20 ed uscì nel cortile, all’aria aperta.21 Ma anche lì c’era della paglia sparsa per ogni dove, dei cocci di stoviglie, delle nas- 35 se22 sfasciate, e in un canto il nespolo, e la vite in pampini23 sull’uscio. – Andiamo via! diceva egli. Andiamo via, ragazzi. Tanto, oggi o domani!... e non si muoveva. Maruzza guardava la porta del cortile dalla quale erano usciti Luca e Bastianazzo, e la stradicciuola per la quale il figlio suo se ne era andato coi calzoni rimboccati, mentre pioveva, e non l’aveva visto più24 sotto il paracqua d’incerata.25 Anche la fi- 40 nestra di compare Alfio Mosca26 era chiusa, e la vite pendeva dal muro del cortile che ognuno passando ci dava una strappata. Ciascuno aveva qualche cosa da guardare in quella casa, e il vecchio, nell’andarsene, posò di nascosto la mano sulla porta sconquassata, dove lo zio Crocifisso aveva detto che ci sarebbero voluti due chiodi e 45 un bel pezzo di legno. Lo zio Crocifisso era venuto a dare un’occhiata27 insieme a Piedipapera, e parlavano a voce alta nelle stanze vuote, dove le parole si udivano come se fossero in chiesa. Compare Tino non aveva potuto durarla a campare d’aria sino a quel giorno, e aveva dovuto rivendere28 ogni cosa allo zio Crocifisso, per riavere i suoi denari.

12. San Giuseppe... barba: il proverbio completo dice: «San Giuseppe prima fece la propria barba e poi quella di tutti gli altri». Cioè: ciascuno deve badare anzitutto ai propri interessi. 13. che ancora: la congiunzione che segnala il discorso indiretto libero. 14. masserizie: mobili e suppellettili. 15. lasciava il segno: non solo il segno di una parete stinta, quanto il ricordo di una persona cara, di momenti dolci o tristi, insomma il segno della storia di una famiglia. 16. beccaio: macellaio. 17. cantuccio: angolino. 18. deschetto: tavolino; l’uso dei diminutivi contribuisce a donare agli oggetti un che di familiare e di commovente al momento della loro rimozione.

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19. pagliericci: sacconi riempiti di paglia e usati come materassi. 20. tosto: in fretta. 21. all’aria aperta: per sfuggire alla commozione. 22. nasse: attrezzi usati nella pesca di crostacei e pesci di scoglio. 23. vite in pampini: una vite solo ornamentale, che ricopriva la porta (l’uscio). 24. e non l’aveva visto più: l’anacoluto segnala l’inserzione di un discorso indiretto libero, che nella narrazione introduce il punto di vista della Longa. 25. paracqua d’incerata: riparo (a forma di mantello o di ombrello) di tela impermeabilizzata, usato comumemente dai pescatori in mare. Luca e Bastianazzo, figlio e marito della Longa, si dividono in ugual

misura i sentimenti della donna. La stradicciuola richiama l’immagine del ragazzo morto a Lissa, commosso e giudizioso nell’addio (cap. VII); il paracqua d’incerata fa ricordare Bastianazzo. 26. compare Alfio Mosca: vicino di casa dei Malavoglia, innamorato di Mena, partito in cerca di fortuna. 27. era venuto a dare un’occhiata: la curiosità è troppo forte; il personaggio ora non si nasconde più dietro la finzione dell’aver ceduto il credito a Piedipapera. 28. aveva dovuto rivendere: la nuova menzogna copre la precedente; Tino Piedipapera dunque avrebbe rivenduto il credito a zio Crocifisso (E nota 2).

i valori dell’utile e dei beni materiali dominano la mentalità del paese

– Che volete, compare Malavoglia? gli diceva passandogli il braccio attorno al col- 50 lo. Lo sapete che sono un povero diavolo, e cinquecento lire mi fanno!29 Se voi foste stato ricco ve l’avrei venduta a voi. – Ma padron ’Ntoni non poteva soffrire di andare così per la casa, col braccio di Piedipapera al collo. Ora lo zio Crocifisso ci era venuto col falegname e col muratore, e ogni sorta di gente che scorrazzavano di qua e di là per le stanze come fossero in piazza, e dicevano: – Qui ci vogliono dei mattoni, 55 qui ci vuole un travicello nuovo, qui c’è da rifare l’imposta, – come se fossero i padroni; e dicevano anche che si doveva imbiancarla per farla sembrare tutt’altra. Lo zio Crocifisso andava scopando coi piedi la paglia e i cocci, e raccolse anche da terra un pezzo di cappello30 che era stato di Bastianazzo, e lo buttò nell’orto, dove avrebbe servito all’ingrasso. Il nespolo intanto stormiva ancora, adagio adagio, e le 60 ghirlande di margherite, ormai vizze, erano tuttora appese all’uscio e alle finestre, come ce le avevano messe a Pasqua delle Rose.31 La Vespa32 era venuta a vedere anche lei, colla calzetta al collo, e frugava per ogni dove, ora che era roba di suo zio. – Il «sangue non è acqua»33 – andava dicendo forte, perché udisse anche il sordo. A me mi sta nel cuore la roba di mio zio, come a lui 65 deve stare a cuore la mia chiusa. Lo zio Crocifisso lasciava dire [...]. D’allora in poi i Malavoglia non osarono mostrarsi per le strade né in chiesa la domenica, e andavano sino ad Aci Castello per la messa, e nessuno li salutava più.34 G. Verga, Tutti i romanzi, cit.

29. mi fanno: mi servono, mi fanno comodo. 30. un pezzo di cappello: un oggetto carico di ricordi per i Malavoglia, ma che per lo zio Crocifisso è utile solo per concimare (all’ingrasso) il terreno dell’orto.

31. Pasqua delle Rose: l’Ascensione. 32. La Vespa: è la nipote del nuovo proprietario. 33. Il «sangue non è acqua»: si dice sicura che lo zio Crocifisso spartirà con lei i suoi averi.

34. andavano... li salutava più: all’atteggiamento di autoemarginazione dei Malavoglia, per l’umiliazione e la vergogna, si aggiunge l’emarginazione della famiglia da parte della comunità.

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO Nel brano si evidenziano tre momenti diversi. ■ Si comincia con la decisione di cedere ai creditori la casa del nespolo: una decisione molto difficile per padron ’Ntoni, ma resa ineludibile dal suo senso di onestà, che lo costringe a far fronte all’impegno assunto. Intorno a padron ’Ntoni si scatenano, più o meno velatamente, gli egoismi e le avidità del piccolo villaggio. ■ Si prosegue con il doloroso abbandono della casa da parte della famiglia Malavoglia, che fatica a lasciare quel luo-

go caro, sede di tanti affetti e ricordi. In particolare il narratore indugia sulla nostalgia di padron ’Ntoni, il vecchio patriarca, che cerca di nascondere i propri sentimenti, e di Maruzza, a cui certi oggetti ricordano il marito Bastianazzo e il figlio Luca, entrambi scomparsi. ■ Si chiude, dopo la partenza dei Malavoglia, con l’avidità dei nuovi proprietari, che prendono possesso della casa, completamente indifferenti al valore affettivo connesso al luogo e ai pochi oggetti superstiti.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO

■ La casa è il simbolo della saldezza incrollabile della famiglia patriarcale e dei suoi valori: perderla è il prezzo che i Malavoglia devono pagare per il negozio sbagliato dei lupini. ■ Sgomberare la casa del nespolo ha per loro il sapore di una rinuncia e di una cacciata:

• rinuncia al loro passato, alle memorie condivise, alla loro stessa identità di famiglia; • cacciata da parte del paese, quasi fossero corpi estranei e malati della comunità. ■ Secondo la mentalità della gente di Trezza, la casa è il be173

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nella casa che prima era stata gelosamente custodita giungono solo estranei, interessati a essa esclusivamente dal punto di vista economico e non da quello affettivo

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

ne primario di una famiglia onorata; l’esserne privati è una colpa sociale imperdonabile, in una società che nulla concede ai sentimenti e che tutto giudica con il metro dell’economia, nella presunzione che ogni uomo «è» quanto possiede, cioè il suo valore coincide con la roba che ha. ■ Vivere senza la casa appare dunque un vivere privo di collocazione (fisica e sociale) e quindi di scopo. Da qui il dram-

ma, la sensazione di profonda vergogna che prende i Malavoglia e che frustra ogni loro possibilità di rientrare nel gruppo. Il trasferimento in un’anonima casetta in affitto equivale all’isolamento sociale. È una condizione nuova, per loro, che sarà vissuta e patita in maniera differente da ciascun membro della famiglia.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi

{ Forme e stile

1. L’episodio ruota intorno alla vendita della «casa del nespolo» e all’esilio volontario dei Malavoglia dal loro paese.

5. Fedele al canone dell’impersonalità verista, Verga rinuncia al ruolo del narratore onnisciente: evita di esprimere direttamente i segreti pensieri e le emozioni che si agitano nel cuore dei protagonisti e si limita a elencare cose, oggetti concreti.

a. Che cos’è la «casa del nespolo»? ............................................................................................... b. Quale significato riveste la casa nella cultura patriarcale dei Malavoglia? ............................................................................................... c. Perché la famiglia deve abbandonarla? ............................................................................................... 2. All’inizio dell’episodio la voce narrante è quella del «narratore popolare», esterno ai fatti. Egli presenta la casa, per il momento, soltanto come una «cosa», come un bene puramente economico, che scatena gli egoismi del paese. a. I vari personaggi appaiono presi unicamente dalla logica dell’interesse: – su quali di loro si sofferma il narratore? – che cosa fanno e che cosa dicono? b. secondo il punto di vista delle classi dominanti, i poveri sono «colpevoli» della loro disgrazia e vanno quindi puniti. Dove emerge questo giudizio, nel testo? 3. Più avanti, il racconto sembra rallentare; l’attenzione si concentra sulle reazioni dei personaggi, a partire dall’anziano patriarca, padron ’Ntoni. a. Da quale frase o capoverso comincia tale rallentamento narrativo? ............................................................................................... b. Riassumi con le tue parole le riflessioni di padron ’Ntoni (max 5 righe). 4. Nel finale la «casa del nespolo», cambiato il proprietario, è degradata a oggetto inerte, privo di valore; una semplice materia bruta, che le riparazioni degli operai trasformano in un’altra realtà. a. Il narratore inscena un gesto che equivale alla definitiva sconsacrazione della casa: di quale gesto si tratta? ............................................................................................... b. In questo epilogo, ritorna in primo piano la logica economica, che ispira l’avidità dei compaesani: come e dove si manifesta? ............................................................................................... 174

a. Sottolinea nel testo gli oggetti che, a tuo avviso, esprimono le emozioni dei vari membri della famiglia. Poi commenta in breve la tua scelta. b. Puoi dire che i lettori rimangano indifferenti a quanto accade? Oppure vengono mossi alla compassione e alla pietà? Motiva la risposta (max 5 righe). ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 6. Attraverso una prosa apparentemente uniforme e distaccata, l’autore riesce a rappresentare la compresenza di giudizi, mentalità, atteggiamenti psicologici. È la polifonicità dello stile verghiano (anche se poi questa ricchezza di prospettive viene riassorbita e integrata nell’unica voce del narratore popolare). Collega le seguenti frasi del testo alla rispettiva connotazione. 1 ma almeno nessuno li vedeva colla roba in collo 2 come se non si sapesse in paese che la casa del nespolo ormai era di Piedipapera 3 Anche la finestra di compare Alfio Mosca era chiusa 4 guardava la porta del cortile dalla quale erano usciti Luca e Bastianazzo 5 Il povero vecchio non aveva il coraggio di dire alla nuora che dovevano andarsene a. un commento del narratore popolare b. il senso orgoglioso della dignità dei Malavoglia c. lo sguardo di Maruzza affonda nella memoria del ricordo d. un commento emotivo del narratore, introdotto quasi di soppiatto e. una battuta legata alla percezione di Mena, che il narratore, per delicatezza, non immette esplicitamente sulla scena

LINGUA E LESSICO

1. Il narratore adotta la nuovissima tecnica del discorso indiretto libero, tipica di una narrazione che si sviluppa come se procedesse dal narratore paesano o popolare.

a. Evidenzia nel testo un paio di punti che esemplifichino bene, a tuo avviso, l’uso di questa forma sintattica. b. Commentali poi in breve, spiegando gli aspetti principali del discorso indiretto libero sulla scorta di questi esempi.

Dal cerchio non si esce: il pessimismo «tragico» di Verga Possiamo ravvisare nel mondo verghiano un vero e proprio «fato», simile a quello dell’antica tragedia greca, che rende impossibile ogni progresso nella scala sociale. Il fato, per gli antichi greci, era il destino, inteso come necessità assoluta e vincolante; era immaginato come divinità, superiore alla volontà degli stessi dèi. La tragedia greca s’imperniava precisamente sulla volontà del protagonista d’infrangere il fato e sull’inevitabile punizione che ne conseguiva. Anche nel mondo di Verga è ben chiara la coscienza che c’è una legge comune a tutti gli uomini, anzi a tutte le creature viventi, e guai a infrangerla. In particolare il romanzo dei Malavoglia sembra ispirarsi ai temi dell’antica tragedia greca e narrare precisamente la sconfitta che attende tutti quelli che varcano il limite. Non possono che mori-

re o affondare: come l’Ulisse dantesco nel canto XXVI dell’Inferno, il quale, diversamente dall’Ulisse di Omero, non torna a Itaca da Penelope, ma per desiderio di conoscenza supera le Colonne d’Ercole, vaga per nave nell’Oceano, finché non giunge in vista di un’altissima montagna (il Purgatorio); lì, travolto da una tempesta, muore con tutti i suoi compagni. Anche Bastianazzo supera, con la sua barca Provvidenza, le Colonne d’Ercole, cioè lo stretto di Gibilterra, che tradizionalmente segnava il confine del mondo conosciuto e l’ingresso nell’ignoto oceano, proibito ai naviganti. Bastianazzo ha infranto le tradizioni di famiglia, ha voluto (d’accordo con il padre, il vecchio padron ’Ntoni) rischiare del suo, e così fa naufragio con il suo carico di lupini. Lo stesso varrà per il giovane ’Ntoni, che sogna le «grosse città» oltre il mare

e che finirà sconfitto anche lui dall’ignoto. In fondo ’Ntoni assomiglia un po’ all’Ulisse di Dante, perché anche lui esce dai confini consueti per amore di conoscenza e d’esperienza del «diverso». Dal cerchio non si deve uscire: è il messaggio di Verga. «Uno che se ne va dal paese è meglio che non ci torni più»: è il pensiero di Alfio Mosca; e la Mena: «Il peggio... è spatriare dal proprio paese, dove fino i sassi vi conoscono». In questo cerchio del paese tutto si ripete, come le costellazioni che tornano sul cielo di Trezza, i Tre Re, la Puddara. Solo la fedeltà alla tradizione è in grado di garantire la sopravvivenza della comunità, ma Verga ci dice che questa fedeltà è sempre più difficile, se non impossibile. La modernità, con le sue tentazioni economiche, è venuta a infrangere quel mondo arcaico e nessuno, adesso, si salva più.

■ Nino Costa, Legnaiole

ad Anzio (1852). 175

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LAVORIAMO SU

Contesto

Giovanni Verga

L’OPERA

NOVELLE RUSTICANE Testi • La roba

Dalle riviste alla raccolta in volume ◗ Dopo aver pubblicato il romanzo I Malavoglia, nell’arco di otto mesi – tra il 1881 e il 1882 – Verga scrisse e stampò su diverse riviste quasi tutti i racconti poi raccolti e stampati in volume con il titolo di Novelle rusticane da Casanova di Torino, nel dicembre del 1882 (uscì però con la data di stampa 1883). Comprendeva in tutto dodici racconti: Il Reverendo, Cos’è il Re, Don Licciu Papa, Il Mistero, Malaria, Gli orfani, La roba, Storia dell’asino di San Giuseppe, Pane nero, I galantuomini, Libertà, Di là del mare. ◗ Nel passaggio dalle riviste al volume, l’autore sottopose i testi a un’accurata «asciugatura» e revisione stilistica, così da alleggerire la narrazione e limare le espressioni più marcatamente dialettali.

L’ingiustizia generale del mondo ◗ L’ambientazione di questi racconti è la stessa di quelli di Vita dei campi, cioè la provincia siciliana della seconda metà dell’Ottocento, che però nelle Novelle rusticane appare meno «primitiva», perché i personaggi e le vicende narrate appartengono a una classe sociale ed economica (contadini e piccoli proprietari, non più braccianti e pescatori) un po’ più elevata. Ciò, tuttavia, non comporta un vero miglioramento della loro vita: cambiano le circostanze e le situazioni, ma rimane inalterata la logica di sfruttamento che governa il mondo. ◗ I racconti delle Novelle rusticane si concentrano sui temi dell’ingiustizia e dell’impotenza delle azioni degli uomini: i protagonisti, infatti, sono inermi di fronte alla crudeltà delle leggi, alle continue occasioni di sopruso, così come all’inesorabile violenza e cecità della natura, che in un attimo può scatenarsi e rovinare ogni cosa. ◗ Il testo più emblematico, in tal senso, è la novella Libertà, che ha come sfondo le vicende storiche della spedizione dei Mille: il significato del racconto è che più nessuno è innocente e nessuno può essere davvero condannato, poiché si sono dissolti i valori morali e sociali ai quali si può far riferimento.

Il tema della «roba» ◗ Nelle Novelle rusticane tende a scomparire, rispetto ai racconti di Vita dei campi, ogni chiara distinzione tra personaggi positivi e negativi: il narratore si limita a mettere crudamente in risalto la natura ferrea della logica egoistica ed economica che determina le scelte di tutti gli uomini. Un motivo onnipresente in questi racconti è quello della «roba», ovvero l’ansia di conquistare beni, diventarne possessori e conservarli nel tempo; questo sarà il tema approfondito da Verga nel successivo romanzo Mastro-don Gesualdo (1889). La misura di questa «roba», in un certo senso, non conta: si può trattare di un tozzo di pane come di vaste distese di terreno; quel che conta è che la «roba» diviene una specie di imperativo assoluto, un criterio di giudizio che governa l’esistenza degli uomini. Non c’è spazio, nella vita dei personaggi, per i sentimenti e le virtù; si vive solo per lavorare, cioè per la «roba»: «Si aiutavano l’un l’altro come due buoi dello stesso aratro. Questo era adesso il matrimonio» (da Pane nero). ◗ Il testo più rappresentativo in questo senso è la novella La roba. Il protagonista Mazzarò è un contadino arricchito, che è diventato schiavo del suo lavoro e della sua «roba». Pur di aumentare ulteriormente i suoi averi, Mazzarò sacrifica ogni momento della propria vita, con una dedizione caparbia e fanatica, fino a sfiorare l’assurdo. In questa figura Verga sembra anticipare i tratti psicologici di Gesualdo Motta, protagonista ossessivo e irrequieto di Mastro-don Gesualdo. Essi testimoniano una medesima interpretazione dell’esistenza, crudamente tesa al conseguimento di un unico fine: «Quanti pensieri – scrive Verga a proposito di Mazzarò – per fare la roba». La medesima «roba» si rivela tuttavia un investimento improduttivo; di qui nasce la ribellione del personaggio dinanzi alla prospettiva della morte, che gli porterà via tutto: «Quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: “Roba mia, vientene con me!”». 176

11 Libertà Novelle rusticane Anno: 1882 Temi: • la confusa aspirazione a rovesciare le gerarchie sociali • la violenza selvaggia e incontrollata • l’indifferenza della legge e della giustizia davanti al malessere profondo degli uomini La novella si rifà a un episodio storico di rivolta popolare avvenuta nell’agosto del 1860 nel paese di Bronte (Catania). Il recente sbarco di Garibaldi in Sicilia, destinato a liberare dai Borbone il Regno delle Due Sicilie, aveva suscitato nel popolo siciliano speranze in un cambiamento politico che favorisse la ridistribuzione delle terre, da sempre attesa. In nome di questa «libertà», a Bronte una folla imbestialita era violentemente e sanguinosamente insorta contro i potenti e i ricchi del paese. Per ripristinare l’ordine, prima erano state inviate le camicie rosse garibaldine guidate da Nino Bixio: uno stato di anarchia, come quello che rischiava di instaurarsi a Bronte, avrebbe infatti pregiudicato le simpatie di chi appoggiava la sollevazione antiborbonica. Poi una delegazione di giudici fu incaricata di istruire un processo e condannare i colpevoli. In questo racconto Verga vuole sottolineare due temi principali: l’amaro destino di chi dalla storia resta sempre escluso, nonostante vani tentativi di partecipazione attiva, e l’insuperabile contraddizione che ogni azione umana, pur compiuta nel segno del progresso e magari della giustizia, porta con sé. Infatti la novella si conclude con un ritorno alla situazione di sempre, come se la rivolta non fosse mai accaduta: i galantuomini, unici possessori della «roba», dettano legge e i contadini, nullatenenti, devono obbedire. un inizio molto brusco proietta subito il lettore nel vivo dei fatti esplode all’improvviso una violenza bruta, impietosa

ridotta alla fame, la folla vuole giustizia e si lancia contro le figure sociali ricche e privilegiate

Sciorinarono1 dal campanile un fazzoletto a tre colori,2 suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: – Viva la libertà! – Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino3 dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette4 5 bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola. 5 6 – A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! – Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. – A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! – A te, ricco epulone,7 che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente!8 – A te, guardaboschi! 10 che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì9 al giorno! – E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! – Ai galantuomini! Ai cappelli!10 Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! – Don11 Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. – Perché? perché mi ammazzate? – 15 Anche tu! al diavolo! – Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. – Abbasso i cappelli! Viva la libertà! – Te’! tu pure! – Al reverendo che predi-

1. Sciorinarono: srotolarono, fecero sventolare. 2. fazzoletto a tre colori: la bandiera italiana. 3. casino: luogo di ritrovo dei proprietari terrieri (i galantuomini). 4. berrette: il copricapo piatto caratteristico dei contadini siciliani, distinto dai cappelli (E nota 10) propri dei galantuomini.

5. nerbare: frustare. 6. campieri: o campari, guardiani dei campi. 7. epulone: persona che ama vivere tra piaceri e divertimenti, viziosa e immorale (il termine compare nella parabola del ricco epulone narrata nel Vangelo secondo Luca: 16, 19). 8. hai fatto la giustizia... niente: hai ap-

plicato il rigore della legge solo a danno dei poveri. 9. tarì: moneta siciliana. Questo guardaboschi ha impedito al popolo di procurarsi nella tenuta padronale, come usava, la poca legna necessaria agli usi domestici. 10. cappelli: simbolo dei ricchi. 11. Don: appellativo dei nobili siciliani.

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Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

l’osservazione pare provenire dal narratore popolare che sta raccontando la vicenda

la morte di un giovane innocente (Neddu) rivela tutta la follia di questa assurda giornata di sangue

cava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. – Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale!12 – La gnà13 Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni; l’inverno del- 20 la fame, e riempiva la Ruota14 e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. – Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse – lo speziale,15 nel 25 mentre chiudeva in fretta e in furia – don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male16 non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. – Paolo! Paolo! – 30 Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello.17 Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro,18 non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: – Ned- 35 du!19 Neddu! – Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante20 il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il 40 taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e tremava come una foglia. – Un altro gridò: – Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui! – Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! – Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie21 45 che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando d’ira in falsetto,22 colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. – Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! – Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! – Te’! Te’! – Nelle case, su per le scale, dentro le alcove,23 lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce in- 50 sanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure! La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la

12. in peccato mortale: prima di morire, avrebbe dovuto confessarsi, per evitare l’inferno; il suo peccato è spiegato subito dopo. 13. gnà: nota 10, p. 135. Era la gnà Lucia il peccato mortale del prete, che se la teneva in casa come concubina. 14. Ruota: nota 4, p. 130. Nel caso specifi-

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co, la gnà Lucia è costretta ad abbandonare i figli illeggittimi avuti dal reverendo. 15. speziale: farmacista. 16. il male: la fillossera, parassita delle viti. 17. al martello: il batacchio per picchiare sulla porta. 18. biondo come l’oro: un intervento di commento del narratore popolare, che sot-

tolinea l’innocenza del ragazzo. 19. Neddu: diminutivo di Sebastiano. 20. nonostante: ciò malgrado. 21. soperchierie: prepotenze, ingiustizie. 22. in falsetto: si dice a proposito di toni di voce più alti del normale, che suonano quindi «falsi» (“cantare in falsetto”). 23. alcove: camere da letto.

la narrazione ha un ritmo veloce: si susseguono frasi brevi e il periodare è incalzante

il carnevale è la festa in cui si scatenano gli istinti gioiosi e si rovescia l’autorità: qui si allude alla brama di sangue della gente

il ritmo adesso rallenta, fin quasi a fermarsi

pena di morte chi tenesse armi da fuoco. – Viva la libertà! – E sfondarono il portone. 55 Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. – I campieri dopo! – I campieri dopo! – Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte24 di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata – e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora 60 colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: – Mamà! mamà! – Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi 65 avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio25 tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato 70 una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria. E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi26 della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria,27 come in paese di turchi.28 Cominciavano a sbandar- 75 si, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti,29 con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e 80 le finestre delle case deserte. Aggiornava;30 una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. – Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! 85 – Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio nella caldura31 gialla di luglio. E come32 l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva 90 a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. – Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! – Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! – Se non c’era 95

24. fatte: nutrite. 25. pel taglio: “per il taglio”, cioè dalla parte della lama. 26. briachi: ubriachi. 27. continuava... avemaria: le campane del campanile non suonano più le ore delle

preghiere (l’angelus a mezzogiorno, l’avemaria a sera): suonano solo a stormo, evidentemente perché il campanaro ha voluto in tal modo dare l’allarme. 28. turchi: miscredenti. 29. canti: angoli.

30. Aggiornava: era ormai giorno. 31. nella caldura: nel caldo intenso e afoso dei mesi estivi. Il giallo è il colore dei campi secchi. 32. come: quando.

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Monografia Raccordo

la parola d’ordine di questa giornata è un tragico equivoco che apre la via agli istinti più bestiali

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

chiamati a costruire un nuovo ordine, i paesani restano incerti, paralizzati: la loro azione si rivela del tutto assurda e «impolitica» la figura di Bixio sembra uscire da una leggenda popolare

i garibaldini portano non la giustizia, ma la caricatura della giustizia, scegliendo a caso, dal «mucchio», i colpevoli

per il narratore popolare, i rivoltosi non sono altro che colpevoli da processare e punire

è l’amara conclusione del racconto: dopo la sfrenata ubriacatura, tutto ritorna come prima

più il perito33 per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa!34 – E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? – Ladro tu e ladro io –. Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! – Il 100 taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.35 36 Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse37 dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, 105 a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo. Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando38 come un turco. Questo era 110 l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schiop- 115 pettate in fila come i mortaletti39 della festa. Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna,40 e dicendo – ahi! – ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva 120 più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito,41 e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li 125 chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate [...]. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovanotta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva 130 vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. [...] Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tem- 135

33. il perito: il geometra. 34. a riffa e a raffa: in qualsiasi maniera, a modo suo, cercando di imbrogliare gli altri. Riffa è un termine toscano che significa “prepotenza”. 35. Il taglialegna... la scure: la situazione è paradossale; senza regole, il paese ri-

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schia di cadere nella stessa situazione precedente alla rivolta; solo che a comandare, adesso, non sono più i ricchi e i nobili, ma i più forti, come il taglialegna. 36. il generale: Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi durante la spedizione dei Mille nel 1860.

37. camicie rosse: le divise dei garibaldini. 38. sacramentando: imprecando. 39. mortaletti: i mortaretti sparati durante la festa del paese. 40. scranna: voce dialettale per “panca”, “sedia”. 41. gomito: un’ansa, una curva.

G. Verga, Novelle rusticane, a cura di C. Riccardi, A. Mondadori, Milano 1979 42. capponaia: letteralmente è un luogo chiuso, dove si tengono i capponi a ingrassare; qui sta a indicare la gabbia del processo. 43. ché... là dentro!: per la forzata astinenza sessuale. 44. mostaccio: parola spregiativa per “viso”, “volto”.

45. che s’era... con lui: evidentemente, lo speziale avrà sposato la figlia di Neli, oppure un suo figlio avrà sposato la figlia, approfittando della lontananza del padre. 46. Di faccia: dirimpetto agli imputati; si tratta dei componenti della giuria. 47. ciangottavano: parlottavano confusamente.

48. quel paesetto lassù: Bronte. 49. Sul mio onore e sulla mia coscienza!: è la frase che introduce il verdetto della giuria. Il processo condannò venticinque imputati all’ergastolo, uno a vent’anni di lavori forzati, due imputati a dieci anni di lavori forzati e cinque imputati a dieci anni di reclusione.

■ Michele Cammarano, Ozio e lavoro (1863).

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Monografia Raccordo

l’egoistico sollievo dei giurati rivela la logica di classe: da una parte i poveri (quelli che avevano fatto la libertà), dall’altra i ricchi (i galantuomini)

po, stipati nella capponaia42 – ché capponi davvero si diventava là dentro!43 e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio44 quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui!45 Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. – Voi come vi chiamate? – E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, 140 facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia46 erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba o ciangottavano47 fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel 145 paesetto lassù,48 quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e 150 disse: – Sul mio onore e sulla mia coscienza!...49 Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!... –

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO Possiamo suddividere il racconto in tre sequenze. ■ La prima raffigura la sanguinosa rivolta dei popolani di Bronte: è un’esplosione di cieca violenza, rivolta contro i nobili, i ricchi e tutti coloro che venivano (come il prete) associati a un’idea di autorità. ■ La seconda sequenza mostra gli insorti sbandati, privi di una linea da seguire e già sospettosi l’uno dell’altro; a ri-

portare l’ordine giungono poi i garibaldini di Bixio, che eseguono le prime fucilazioni sommarie. ■ La terza sequenza narra la reclusione degli imputati in città, il processo e la condanna; intanto in paese si ristabilisce il tacito accordo tra popolani e galantuomini, come se nulla fosse accaduto.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO

■ Il narratore mette a fuoco tutti i particolari cruenti della vicenda di Bronte; il suo intento è mostrare come la rabbia dei rivoltosi sia priva di ogni umanità, perché nasce dalla miseria a cui i contadini sono stati costretti da secoli di angherie e ingiustizie. Quella povertà li ha spogliati del senso della propria e dell’altrui dignità. Perciò le scene accumulano tanti particolari raccapriccianti, che ritraggono (con un linguaggio aspro, spietato, realistico) l’orrore e lo scempio compiuti nel nome della libertà.

■ Verga sa che è assurdo cercare di capovolgere l’ordine esistente, ma all’inizio quel cieco tentativo della folla di distruggere un ordine implacabile, disumano, aveva attratto la sua istintiva partecipazione; sappiamo che in gioventù Verga aveva nutrito simpatie garibaldine. Nel finale però la situazione bloccata e immutabile vuole ribadire che la storia è mossa solo da leggi di sopraffazione e di egoismo; e lo scrittore compiange chi non ha ancora raggiunto tale consapevolezza.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. La rivolta nasce per motivi di giustizia sociale, ma ben presto la violenza pura prende il sopravvento e la folla perde il controllo delle proprie azioni. a. In quali punti di questa prima sequenza l’autore sembra comprendere i motivi che spingono la folla a ribellarsi? b. Come cercano di giustificarsi i personaggi della folla? Che cosa dicono di sé e dei motivi che li inducono alla rivolta? c. Secondo te, Verga crede a tali motivazioni, oppure no? Motiva la risposta. 2. L’uccisione di Neddu, il figlio del notaio, segna il confine tra ricerca della giustizia e violenza pura. a. Compila la tabella, raccogliendo in ordine tutti gli elementi che caratterizzano il comportamento della folla e di Neddu. folla

Neddu

aspetto fisico

.........................

.........................

che cosa fa

.........................

.........................

come uccide/muore

.........................

.........................

182

b. Adesso rifletti sui dati raccolti: quale sentimento vuole creare il narratore? a analogia tra la folla e Neddu b differenza tra la folla e Neddu c l’indifferenza dei lettori d lo sdegno dei lettori Spiega in breve il perché della tua scelta. 3. Il tema centrale della seconda sequenza è l’oscillazione sociale tra ordine e disordine. a. Compila la tabella spiegando che cosa sono l’ordine e il disordine sociale per le tre categorie implicate. l’ordine

il disordine

per i popolani

...............................

...............................

per i galantuomini

...............................

...............................

per Nino Bixio

...............................

...............................

b. Ora rifletti: secondo te, per come lo presenta Verga, Nino Bixio sta dalla parte dei popolani o da quella dei galantuomini? Motiva la risposta (max 5 righe). ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

a. Evidenzia nel testo le frasi e le immagini che ti sembrano più significative per documentare questa immobilità sociale. b. In questo contesto, è importante l’ultima esclamazione del carbonaio, mentre lo portano via in manette. In un certo senso, la frase riassume il significato dell’intero racconto: prova a spiegare perché (max 5 righe). ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 5. Il contrasto fra le classi sociali era un tema caro a Verga, sul quale influivano sia il principio positivistico del darwinismo sociale (la lotta di tutti contro tutti), sia l’ideologia conservatrice, per la quale ciascuno mira solo al proprio tornaconto personale.

sequenze

a. A tuo giudizio, narrando l’episodio di Bronte, il narratore ha inteso affermare che a non bisogna mai infrangere la legge b ribellarsi alle ingiustizie è doveroso c ogni rivoluzione è impossibile Scegli la risposta che ti sembra più corretta e spiega perché (max 5 righe). ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

{ Forme e stile 6. Il tempo interno del racconto evidenzia una sfasatura rispetto alla cornice cronologica in cui avvengono i fatti (tempo esterno, o tempo della storia). Verga si sofferma sulla rivolta (prima sequenza) ma poi narra più velocemente il turbamento della folla e la repressione dei garibaldini (seconda sequenza) e il processo in città (terza sequenza). a. Compila la tabella.

qual è la durata narrativa?

quanto tempo durano i fatti narrati?

1

dalla riga ... alla riga ...

....................................................................

2

dalla riga ... alla riga ...

....................................................................

3

dalla riga ... alla riga ...

....................................................................

b. Ora rifletti: secondo te, perché esiste nel racconto questa sfasatura temporale? ...............................................................................................

LAVORIAMO SU

LINGUA E LESSICO

1. Le tre sequenze presentano una differente dinamicità: la prima narra con frasi brevi e spezzate e con alta dinamicità, così da mettere in risalto gli eventi; la seconda sequenza presenta frasi di media lunghezza e un ritmo assai meno concitato; la terza mostra periodi ampi, con numerose subordinate, e un tempo del racconto dilatato. a. Compila la tabella riportando dal testo esempi significativi.

sequenze

esempi di strutture sintattiche

1

............................................................... ...............................................................

2

............................................................... ...............................................................

3

............................................................... ............................................................... 183

Monografia Raccordo

4. Dopo la mobilità, la dinamicità della prima sequenza, la terza sequenza è, invece, dominata dall’immobilismo, raffigurata con le immagini della vita in carcere e del lunghissimo processo.

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

La parola al critico Rivolta e pietà nella novella di Bronte Romano Luperini (1940) ha scritto una pagina interessante sulla ricca partitura stilistica di Libertà: una novella in cui i mutamenti della forma espressiva riflettono le tappe lungo le quali si evolve la riflessione verghiana sui fatti di Bronte, dalla ribellione (politicamente assurda) dei contadini, alla desolata pietà, nel finale, da parte dell’autore. La rivolta popolare è descritta nelle prime due pagine con una violenta carica impressionistica,1 che non è dato riscontrare nella rappresentazione di analoghe ribellioni nei Malavoglia e nel Mastro don Gesualdo, ove prevale invece la soluzione grottesco-caricaturale. Però il ritmo iniziale si sostiene per poco più di una pagina; ben presto, quasi insensibilmente, Verga ritorna allo stile uniforme ed impassibile che è caratteristico della raccolta. Ora, proprio nella prima parte ritroviamo diversi spunti sociali che erano apparsi qua e là nelle altre Rusticane (le nerbate dei campieri ai contadini, la giustizia applicata solo contro i poveri, la corruzione dei preti) e che servono a giustificare la ferocia della folla, quale qui è descritta, con un furioso vigore ottenuto a forza di ellissi, in periodi brevi, martellati dalle esclamazioni degli omicidi secondo una tecnica narrativa che se risente del Manzoni (si pensi a quella strega coi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie o a certe osservazioni come cominciarono a sbandarsi, stanchi dalla carneficina, mogi mogi, ciascuno fuggendo il compagno), raggiunge un’evidenza, una violenza espressiva, che non è dato ritrovare nei Promessi sposi. La forza della ribellione è una forza naturale ed è appunto presentata come un fenomeno della natura (come il mare in tempesta, la folla spumeggiava e ondeggiava; un mare di berrette bianche; il torrente gli passò di sopra). È come se quello stato di potenziale rivolta e di pericolosità sociale che è espresso dalla figura di Rosso Malpelo,2 e che è adombrato anche dalla simpatia di Verga per ‘Ntoni, esplodesse qui con un moto di ribellione, in istintiva partecipazione al cieco tentativo di distruzione di un ordine necessario, perché immutabile ed eterno ma implacabile e disumano. È il moto di un attimo; Verga sa bene che è assurdo cercare di capovolgere l’ordine esistente. Ma in quest’attimo egli può anche aderire all’immagine della violenza popolare. [...] La folla, come la natura, talora tutto distrugge con analoga, cieca violenza. Lo scrittore aderisce non già ai contenuti e agli obiettivi di questa violenza, ma alla violenza in sé, nella sua carica eversiva e negativa. [...] Ben presto la pietà diventa la nota dominante del racconto (una pietà che non è soltanto per i galantuomini uccisi ma anche per i villani: si veda la seconda parte della novella), e non mancano aperte note di condanna per i contadini scatenati. Infine, quando questi si trovano a dover costituire un nuovo ordine, mostrano tutta l’assurdità «politica» della loro azione: un altro ordine è, semplicemente, impossibile. Così alla fine la vita ripiglia il corso di prima (Verga sottolinea che tutti in paese sono tornati a fare quello che facevano prima e che ai carcerati ormai nessuno ci pensava più, e che gli stessi contadini erano tornati a parlare tranquillamente dei loro affari coi galantuomini), condannando implicitamente ogni azione umana che voglia mutarla. Da questa desolata consapevolezza dell’inutilità di ogni sforzo teso al mutamento delle cose nasce la pietà: è la pietà di chi conosce le leggi della realtà e compiange chi tale coscienza non ha ancora raggiunto. R. Luperini, Simbolo e costruzione allegorica in Verga, il Mulino, Bologna 1989 1. con... impressionistica: con immagini a effetto, che rivelano la partecipazione emotiva da parte dell’autore.

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2. Rosso Malpelo: l’omonimo protagonista di una delle maggiori novelle (1878) di Vita dei campi. È un personaggio istintiva-

mente ribelle, destinato alla sconfitta e alla morte.

Tra Ottocento e Novecento

Contesto

MASTRO-DON GESUALDO

Il romanzo di Gesualdo ◗ In Mastro-don Gesualdo Verga abbandona la visione «corale» dei Malavoglia per concentrarsi su un soggetto individuale e scavare nella sua vita e nella sua interiorità. Gesualdo è il personaggio più complesso mai creato dall’autore: un individuo «mobile», in continuo cambiamento. È una persona povera che riesce ad arricchirsi enormemente, per poi fragorosamente ricadere nell’anonimato; a lui tocca, nel mondo verghiano, assieme al Mazzarò della Roba, il triste destino di solitudine e sconfitta che è insito nel meccanismo dell’arricchimento.

La prima parte: la «roba», l’amore ◗ L’opera si struttura in quattro parti. La più ampia è la prima, quasi un «romanzo nel romanzo»: Verga vi ricostruisce, come in un lungo antefatto, la «biografia» di Gesualdo (e degli altri personaggi), con una precisione analitica che è un chiaro residuo del romanzo naturalista francese. L’attenzione si concentra via via sull’ascesa (sociale e psicologica) del protagonista, che «era sulla strada di farsi riccone». Il racconto procede intorno al duplice asse «roba»/amore: all’assillo della ricchezza corrisponde, in Gesualdo, l’assillo di un matrimonio di prestigio. Tuttavia, chi si consacra alla «roba» non può conoscere una vera vita di sentimento: il matrimonio tra Gesualdo e Bianca, con cui si conclude la prima parte dell’opera, diviene per lui una trappola, in quanto i due sposi si rivelano, l’uno per l’altro, degli antagonisti, presenze estranee e reciprocamente sconosciute.

La seconda parte: ascesa e decadenza del protagonista ◗ La seconda parte del romanzo racconta l’ascesa sociale di Gesualdo. Egli cerca d’inserirsi in un contesto per lui del tutto nuovo: aderisce ai moti carbonari perché il concetto di rivoluzione racchiude anche quello di trasformazione e quindi, per lui, questa diventa un’occasione di acquisizione di potere. ◗ Il povero che diviene ricco – da mastro, cioè umile lavoratore manuale, diventa don, il titolo dei galantuomini, dei possidenti – viene raffigurato, nella terza parte, come un re nel suo regno: il podere di Mangalavite rappresenta il suo potere incontrastato. ◗ Ma proprio al culmine di tale ascesa, comincia il declino di Gesualdo, un declino psicologico e affettivo, ma anche fisico. Nel frattempo si introduce la storia di Isabella, figlia di Bianca e Gesualdo, che sarebbe dovuta diventare la protagonista della Duchessa di Leyra, il terzo romanzo del «ciclo dei Vinti». Il padre non riesce a farsi accettare dalla ragazza, in tutto simile alla madre e assai diversa da lui: come si legge nel capitolo 1 della quarta parte, dalla visita alla figlia in collegio Gesualdo torna «invecchiato di dieci anni». Ciò che resterà a Gesualdo è il titolo di mastro-don, che sarcasticamente allude alla sua condizione di ex manovale arricchito. Il finale, che giunge con un ritmo veloce, è tragico: Gesualdo morirà nella casa della figlia e del genero, solo e disprezzato.

L’antieroe e il racconto interiorizzato ◗ Gesualdo non è un eroe, ma più propriamente un antieroe, simile ai grandi protagonisti della narrativa novecentesca. La sua decadenza si riflette anche nella struttura narrativa del romanzo: il racconto realistico della prima parte si interiorizza, diventando più «soggettivo»; in certi squarci Verga adotta il monologo interiore per mostrare il ripiegarsi del protagonista su se stesso, che lo porta a smarrire il contatto con la realtà. Se nei capitoli della prima parte dominava ancora l’intento «verista» di ricostruire realisticamente l’ambiente, man mano questo proposito viene meno, a causa della percezione sempre più soggettiva della realtà da parte di Gesualdo (e sempre più deformante, per via della sua decadenza, fisica e morale). Verga sembra qui superare il Verismo: gli ultimi capitoli inaugurano un realismo tutto psicologico, che tocca il suo apice nelle ultime pagine del romanzo, in cui si illustrano il delirio e l’agonia visionaria di Gesualdo. 185

Monografia Raccordo

L’OPERA

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

Il senso della morte e della decadenza ◗ La morte, nel romanzo, non è un evento che riguarda solo Gesualdo, bensì un processo ineluttabilmente insito in ogni cosa: tutto muore nel Mastro-don Gesualdo: la casa, la «roba», la campagna, gli uomini. La malattia di Gesualdo così come quella dei due vecchi fratelli di Bianca, la decadenza di casa Motta così come quella dell’antico palazzo Trao sono la rappresentazione di un male che è «nel» vivere e «del» vivere, sintomo di una sconfitta generale e privo di rimedio. «Gesualdo porta la morte dentro di sé sin dall’inizio; il nulla lo accompagna incessantemente, lo segue passo passo anche nel momento del massimo trionfo. Se molti romanzi si chiudono con la morte del protagonista, in pochi essa giunge così dall’interno, così fatale e necessaria» (Romano Luperini). Il male inguaribile di Gesualdo che gli provoca questa «morte dall’interno» è il cancro («Pylori cancer», cancro allo stomaco, sanciscono i medici), di cui egli è la prima vittima della nostra letteratura. ◗ Per questi aspetti, il secondo romanzo verghiano inaugura idealmente la nuova stagione letteraria del Decadentismo.

LA TRAMA E LA STRUTTURA ◗ Il romanzo fu stampato a puntate, dal luglio al dicembre del 1888, sulla rivista «Nuova Antologia». Apparve poi in stesura definitiva, in volume, nel 1889, dopo una meticolosa revisione d’autore, che assunse il carattere di una vera e propria riscrittura; da 16 capitoli l’opera passò a 21, raggruppati in quattro parti. ◗ L’arco temporale coperto dal romanzo è di quasi trent’anni, cioè tra lo scoppio delle prime insurrezioni antiborboniche (1820) e la rivoluzione del 1848; siamo dunque agli albori di quel processo di unificazione nazionale che nei Malavoglia appariva già compiuto. L’opera illustra i meccanismi socioeconomici su cui nasce e comincia a svilupparsi la società moderna, con le sue luci e le molte ombre, attraverso un punto d’osservazione privilegiato (Vizzini, il paese della provincia catanese dove si svolge l’azione) e una figura dominante (Gesualdo). ◗ Parte prima (7 capitoli). L’inizio del racconto (fine 1820/inizio 1821) è assai movimentato. In casa della nobile famiglia Trao è scoppiato un incendio: tutti fuggono, ma non si riesce a rintracciare Bianca; un uomo che non vuole farsi riconoscere approfitta del trambusto per allontanarsi in tutta fretta. Si tratta di Ninì, figlio della baronessa Rubiera e amante di Bianca. Ninì si rifiuta di sposare una donna che egli stesso ha disonorato e che è ormai circondata da cattiva fama. Sua madre, la baronessa Rubiera, agendo d’intesa con il canonico Lupi, propizia le nozze di Bianca con Gesual-

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do Motta, un muratore rapidamente arricchitosi. Sposando Gesualdo, Bianca potrà salvare l’onore della famiglia e impedire che i Trao cadano definitivamente in rovina; sposando una nobile, Gesualdo potrà entrare di diritto a far parte di quella società da cui altrimenti, malgrado le sue ricchezze, rimarrebbe escluso. Gesualdo accetta la situazione e non solleva questioni neppure sulla mancanza di dote di Bianca; gli anziani fratelli di lei, Ferdinando e Diego, sono invece scontenti di questa soluzione, come lo è la stessa Bianca; ma non vi sono alternative. Al matrimonio tra Gesualdo e Bianca i nobili non si presentano, né compaiono i familiari dello sposo (tranne il fratello Santo): anch’essi infatti non approvano questo tentativo di uscire dalla propria condizione sociale e culturale originaria. ◗ Parte seconda (5 capitoli). Gesualdo, ora che ha sposato una nobile, può fregiarsi del titolo di don, secondo l’uso spagnolesco. Si prende la rivincita sui nobili del paese aggiudicandosi l’asta per l’affitto delle terre comunali (agosto 1821): adesso è il più ricco del paese. Vorrebbe approfittare della rivolta antiborbonica contro i nobili: secondo Verga, gli ideali rivoluzionari coprono solo gli interessi egoistici di chi li persegue. Durante un moto popolare, è Nanni l’Orbo a salvare Gesualdo, nascondendolo in casa sua, in cambio di un terreno. Nanni è il marito di Diodata, la serva da cui Gesualdo ha già avuto due figli e che lui stesso ha accasato con quell’uomo. Intanto il nobile Ninì Rubiera, l’ex amante

di Bianca, s’invaghisce di un’attrice e fa debiti su debiti: Gesualdo ne approfitta, gli presta molto denaro e così accumula un ingente credito con lui. ◗ Parte terza (4 capitoli). Racconta gli eventi successivi al 1837. Bianca dà alla luce Isabella, che viene educata in collegio, secondo l’usanza dei figli dei nobili. Quando la ragazza rimane incinta del cugino Corrado La Gurna, con cui intrattiene una relazione, Gesualdo decide di cercare un uomo nobile e ricco che la prenda in sposa: si fa avanti, attratto dalla ricca dote, un anziano pretendente, il gentiluomo Alvaro Filippo Maria Ferdinando Gargantes, duca de Leyra. ◗ Parte quarta (5 capitoli). È ambientata nel 1848. Il matrimonio di Isabella non fa che accelerare la rovina di Gesualdo: il genero spende infatti i denari di Isabella, mentre Bianca si ammala di tisi. Il protagonista appare confuso e stordito. Bianca muore, e Isabella, che non ama i suoi genitori, non va neppure a visitarla. La rivoluzione del 1848 mette in pericolo le proprietà di mastro-don Gesualdo: Nanni l’Orbo, capo dei rivoluzionari, finisce ucciso, forse per responsabilità proprio di Gesualdo. Alla decadenza economica si accompagna quella fisica: ammalatosi di cancro, Gesualdo viene prima trasportato nelle sue terre di Mangalavite, quindi trasferito a Palermo dal genero, che vuole controllare da vicino le sorti dell’eredità. Qui Gesualdo muore (inizio del 1849), in un palazzo non suo, nell’indifferenza generale.

12 Gesualdo e Diodata alla Canziria Mastro-don Gesualdo, parte I, capitolo 4 Anno: 1889 Temi: • uno dei pochi momenti di calma nella giornata di Gesualdo • l’affiorare dei ricordi: i sacrifici per arricchirsi, l’ansia di accumulare «roba», il mantenimento della famiglia • il bisogno di affetto e la sua negazione • la logica economica alla base delle scelte degli uomini Nei primi tre capitoli del romanzo Gesualdo è presentato non direttamente, ma attraverso le parole degli altri personaggi, che lo descrivono come un gran lavoratore, da poco arricchitosi e desideroso di far parte dell’élite sociale del paese. Entra in azione solo nel quarto capitolo, in cui si racconta un’intera giornata del protagonista, che si concentra nella corsa affannosa contro il tempo per riuscire a gestire tutti i suoi affari: prima corre a sorvegliare la costruzione di un frantoio e litiga con gli operai, poi si reca a parlare con il prete del paese, il canonico Lupi, che gli propone (su incarico dei nobili) un matrimonio con Bianca Trao; quindi, passando sotto la desolata gola del Petrajo, va a controllare la costruzione della strada di Cameni. È ormai sera quando Gesualdo, sfinito, giunge al suo podere della Canziria, dove incontra Diodata, una contadina da cui ha avuto due figli (illegittimi) e che ancora gli è fedele.

la serenità per Gesualdo è sempre associata al sicuro senso del possesso

Diodata ha tutte le qualità di un cane: è fedele e riconoscente al padrone che le dà da mangiare e non avanza pretese

Come Dio volle finalmente, dopo un digiuno di ventiquattr’ore, don Gesualdo poté mettersi a tavola, seduto di faccia all’uscio, in maniche di camicia, le maniche rimboccate al disopra dei gomiti, coi piedi indolenziti nelle vecchie ciabatte ch’erano anch’esse una grazia di Dio. La ragazza1 gli aveva apparecchiata una minestra di fave novelle, con una cipolla in mezzo, quattr’ova fresche, e due pomidori ch’era an- 5 data a cogliere tastoni dietro la casa. Le ova friggevano nel tegame, il fiasco pieno davanti; dall’uscio entrava un venticello fresco ch’era un piacere, insieme al trillare dei grilli, e all’odore dei covoni nell’aia: – il suo raccolto lì, sotto gli occhi, la mula che abboccava2 anch’essa avidamente nella bica3 dell’orzo, povera bestia – un manipolo ogni strappata! Giù per la china, di tanto in tanto, si udiva nel chiuso4 il campanac- 10 cio della mandra; e i buoi accovacciati attorno all’aia, legati ai cestoni colmi di fieno, sollevavano allora il capo pigro, soffiando, e si vedeva correre nel buio il luccichìo dei loro occhi sonnolenti, come una processione di lucciole che dileguava. Gesualdo posando il fiasco mise un sospirone, e appoggiò i gomiti sul deschetto:5 15 – Tu non mangi?... Cos’hai? Diodata stava zitta in un cantuccio, seduta su di un barile, e le passò negli occhi, a quelle parole, un sorriso di cane accarezzato. – Devi aver fame anche tu. Mangia! mangia! Essa mise la scodella sulle ginocchia, e si fece il segno della croce prima di comin20 ciare, poi disse: – Benedicite a vossignoria!6 Mangiava adagio adagio, colla persona curva e il capo chino. Aveva una massa di capelli morbidi e fini, malgrado le brinate ed il vento aspro della montagna: dei capelli di gente ricca,7 e degli occhi castagni, al pari dei capelli, timidi e dolci: de’ begli

1. La ragazza: Diodata. 2. abboccava: affondava il muso, strappando dei morsi. 3. bica: mucchio di covoni.

4. chiuso: recinto. 5. deschetto: piccola tavola. 6. Benedicite a vossignoria!: formula tradizionale, che esprime gratitudine e rispetto.

7. capelli di gente ricca: Diodata è una trovatella senza famiglia, dunque è anche possibile che discenda da qualche nobile.

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Monografia Raccordo

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

il ritratto di Diodata procede dal punto di vista, ruvido e affettuoso, di Gesualdo: è l’unica donna che egli ami, ma la sacrificherà in nome della sua logica economica

si apre una sequenza idillica, uno dei pochi momenti di serenità nella vita di Gesualdo

è un momento di intensa commozione (per Gesualdo sempre collegata alla percezione della ricchezza o, come qui, dell’arricchimento)

occhi di cane carezzevoli e pazienti, che si ostinavano a farsi voler bene, come tutto il viso supplichevole anch’esso. Un viso su cui erano passati gli stenti, la fame, le per- 25 cosse, le carezze brutali; limandolo, solcandolo, rodendolo; lasciandovi l’arsura del solleone,8 le rughe precoci dei giorni senza pane, il lividore9 delle notti stanche – gli occhi soli ancora giovani, in fondo a quelle occhiaie livide. Così raggomitolata sembrava proprio una ragazzetta, al busto esile e svelto, alla nuca che mostrava la pelle bianca dove il sole non aveva bruciato. Le mani, annerite, erano piccole e scarne: 30 delle povere mani pel suo duro mestiere!... – Mangia, mangia. Devi essere stanca tu pure!... Ella sorrise, tutta contenta, senza alzare gli occhi. Il padrone le porse anche il fiasco: – Te’, bevi! non aver suggezione! Diodata, ancora un po’ esitante, si pulì la bocca col dorso della mano, e s’attaccò 35 al fiasco arrovesciando il capo all’indietro. Il vino, generoso e caldo, le si vedeva scendere quasi a ogni sorso nella gola color d’ambra;10 il seno ancora giovane e fermo sembrava gonfiarsi. Il padrone allora si mise a ridere. – Brava, brava! Come suoni bene la trombetta!...11 Sorrise anch’essa, pulendosi la bocca un’altra volta col dorso della mano, tutta rossa. 40 – Tanta salute a vossignoria! Egli uscì fuori a prendere il fresco. Si mise a sedere su di un covone, accanto all’uscio, colle spalle al muro, le mani penzoloni fra le gambe. La luna doveva essere già alta, dietro il monte, verso Francofonte. Tutta la pianura di Passanitello, allo sbocco della valle, era illuminata da un chiarore d’alba. A poco a poco, al dilagar di quel 45 chiarore, anche nella costa12 cominciarono a spuntare i covoni raccolti in mucchi, come tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si movevano per la china,13 e a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grosso,14 mentre scendeva passo passo verso il torrente. Di tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello più fresco dalla parte di ponente,15 e per tutta la lun- 50 ghezza della valle udivasi16 lo stormire delle messi ancora in piedi.17 Nell’aia la bica alta e ancora scura sembrava coronata d’argento, e nell’ombra si accennavano confusamente altri covoni in mucchi; ruminava altro bestiame; un’altra striscia d’argento lunga si posava in cima al tetto del magazzino, che diventava immenso nel buio. 55 – Eh? Diodata? Dormi, marmotta?... – Nossignore, no!... Essa comparve tutta arruffata e spalancando a forza gli occhi assonnati. Si mise a scopare colle mani dinanzi all’uscio, buttando via le frasche, carponi, fregandosi gli occhi di tanto in tanto per non lasciarsi vincere dal sonno, col mento rilassato, le 60 gambe fiacche. – Dormivi!... Se te l’ho detto che dormivi!... E le assestò uno scapaccione come carezza. Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi

8. solleone: il sole a picco del mezzogiorno. 9. lividore: macchia livida, verdastra. 10. color d’ambra: color bruno. 11. Come suoni bene la trombetta!: cioè, come tracanni bene dal fiasco.

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12. costa: pendio. 13. china: discesa. 14. bestiame grosso: la mandria delle vacche al pascolo. 15. dalla parte di ponente: cioè da ovest,

dove si trova Vizzini (la famiglia Verga aveva dei possedimenti in quella zona). 16. udivasi: si udiva. 17. ancora in piedi: non ancora falciate.

il padre di Gesualdo, come già padron ’Ntoni, sembra difendere l’«ideale dell’ostrica»: ma i valori tradizionali nulla possono davanti alla logica degli affari

piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! 65 Ragazzetto... gli sembrava di tornarci ancora, quando portava il gesso dalla fornace di suo padre, a Donferrante!18 Quante volte l’aveva fatta quella strada di Licodia, dietro gli asinelli che cascavano per via e morivano alle volte sotto il carico! Quanto piangere e chiamar santi e cristiani in aiuto! Mastro Nunzio19 allora suonava il deprofundis20 sulla schiena del figliuolo, con la funicella stessa della soma... Erano die- 70 ci o dodici tarì21 che gli cascavano di tasca22 ogni asino morto al poveruomo! – Carico di famiglia! Santo che gli faceva mangiare i gomiti sin d’allora;23 Speranza24 che cominciava a voler marito; la mamma con le febbri, tredici mesi dell’anno!...25 – Più colpi di funicella che pane! – Poi quando il Mascalise,26 suo zio, lo condusse seco27 manovale,28 a cercar fortuna... Il padre non voleva, perché aveva la sua superbia an- 75 che lui, come uno che era stato sempre padrone, alla fornace, e gli cuoceva29 di vedere il sangue suo al comando altrui.30 – Ci vollero sette anni prima che gli perdonasse, e fu quando finalmente Gesualdo arrivò a pigliare il primo appalto per conto suo... la fabbrica del Molinazzo... Circa duecento salme31 di gesso che andarono via32 dalla fornace al prezzo che volle mastro Nunzio... e la dote di Speranza anche, 80 perché la ragazza non poteva più stare in casa...33 – E le dispute allorché cominciò a speculare sulla campagna!...34 – Mastro Nunzio non voleva saperne... Diceva che non era il mestiere in cui erano nati. “Fa’ l’arte che sai!” – Ma poi, quando il figliuolo lo condusse a veder le terre che aveva comprato, lì proprio, alla Canziria, non finiva di misurarle in lungo e in largo, povero vecchio, a gran passi, come avesse nelle 85 gambe la canna dell’agrimensore...35 E ordinava “bisogna far questo e quest’altro” per usare del suo diritto,36 e non confessare che suo figlio potesse aver la testa più fine37 della sua. – La madre non ci arrivò a provare quella consolazione, poveretta. Morì raccomandando a tutti Santo, che era stato sempre il suo prediletto e Speranza carica di famiglia com’era stata lei... – un figliuolo ogni anno... – Tutti sulle spalle di 90 Gesualdo, giacché lui guadagnava per tutti. Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva passate delle giornate dure e delle notti senza chiuder occhio! Vent’anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come si mettesse.38 – Quante avemarie, e di quelle proprio che devono

18. Donferrante: località presso Vizzini, in provincia di Catania. 19. Mastro Nunzio: Nunzio Motta, padre di Gesualdo, di professione manovale (da cui l’appellativo di mastro, “maestro”). 20. il deprofundis: celebrava il funerale dell’asino picchiando Gesualdo di santa ragione, ossia scaricava sul figlio la rabbia e la responsabiltà dell’incidente. Il de profundis è il salmo che si recita nelle funzioni funebri. La morte dell’asinello e il successivo sfogo del padre assumono, nel ricordo del protagonista, un carattere nostalgico, che riscatta le fatiche di un tempo. 21. tarì: moneta siciliana. 22. gli cascavano di tasca: perdeva. 23. Santo... d’allora: Santo, scioperato e fannullone fin da ragazzo, faceva disperare (mangiare i gomiti viene dal siciliano

«manciarisi li guvita»). Santo è il fratello del protagonista, uno scialacquatore un po’ sciocco. 24. Speranza: la sorella di Gesualdo. 25. tredici mesi dell’anno!: iperbole che significa “tutto l’anno, senza pause”. 26. il Mascalise: così soprannominato perché nativo di Mascali, in provincia di Catania. 27. seco: con sé. 28. manovale: in qualità di manovale (predicativo dell’oggetto). 29. gli cuoceva: gli bruciava, non lo poteva sopportare. 30. il sangue suo... altrui: non sopportava, cioè, che il figlio Gesualdo lavorasse sotto padrone. 31. salme: la salma è un’antica misura siciliana di capacità, pari a 270 litri circa.

32. andarono via: furono prodotte. 33. perché... in casa: era infatti rimasta incinta e, secondo la mentalità di quell’ambiente e di quell’epoca, doveva sposarsi al più presto. 34. speculare sulla campagna: far compravendita di terreni. 35. la canna dell’agrimensore: la canna era un’unità di misura, corrispondente a circa due metri, ed era anche l’attrezzo della stessa lunghezza con il quale gli agrimensori misuravano i confini dei campi. 36. del suo diritto: per dimostrare cioè di essere lui il capofamiglia. 37. fine: astuta, abile negli affari. 38. per vedere come si mettesse: se cioè annunciasse il buono o il cattivo tempo.

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Monografia Raccordo

il lavoro pesantissimo e le fatiche sfumano e si addolciscono sull’onda del ricordo, portato alla luce dal monologo interiore di Gesualdo

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

è il risultato di rapporti basati solo sulla legge del profitto: la società si trasforma in un branco di lupi pronti a sbranarsi a vicenda

Gesualdo annuncia la notizia, come se fosse «volontà» di altri; e in parte è così, perché sono stati i nobili del paese a combinare il matrimonio tra Gesualdo e Bianca

andar lassù,39 per la pioggia e pel bel tempo! – Tanta carne al fuoco!40 tanti pensieri, 95 tante inquietudini, tante fatiche!... La coltura dei fondi,41 il commercio delle derrate,42 il rischio delle terre prese in affitto,43 le speculazioni del cognato Burgio44 che non ne indovinava una e rovesciava tutto il danno sulle spalle di lui!... – Mastro Nunzio che si ostinava ad arrischiare cogli appalti il denaro del figliuolo, per provare che era il padrone in casa sua!... – Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in pie- 100 di, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave45 di pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio46 della stalla, dietro una siepe, nell’aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all’ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria,47 in 105 mezzo a un nugolo di zanzare. – Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro; mai un’ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi48 in barba sua49 all’osteria! – trovando a casa poi ogni volta il viso arcigno50 di Speranza, o le querimonie51 del cognato, o il piagnucolìo dei ragazzi – le liti fra tutti loro quando gli affari non an- 110 davano bene. – Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fare il suo interesse. – Nel paese non un solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. – Dover celare sempre la febbre52 dei guadagni, la botta di una mala53 notizia, l’impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusa,54 l’occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di ogni giorno; le ambagi55 per dire soltanto “vi saluto”; le 115 strette di mano inquiete, coll’orecchio teso; la lotta coi sorrisi falsi, o coi visi arrossati dall’ira, spumanti bava e minacce – la notte sempre inquieta, il domani sempre grave di speranza o di timore... – Ci hai lavorato, anche tu, nella roba del tuo padrone!... Hai le spalle grosse56 an120 che tu...57 povera Diodata!... Essa, vedendosi rivolta la parola, si accostò tutta contenta e gli si accovacciò ai piedi, su di un sasso, col viso bianco di luna,58 il mento sui ginocchi, in un gomitolo. [...] Tacque un momento intenerito. Poi riprese, dopo un pezzetto, cambiando tono: 125 – Sai? Vogliono che prenda moglie. La ragazza non rispose; egli non badandoci, seguitò: – Per avere un appoggio... Per far lega59 coi pezzi grossi del paese... Senza di loro non si fa nulla!... Vogliono farmi imparentare con loro... per l’appoggio del parentado, capisci?... Per non averli tutti contro, all’occasione... Eh? che te ne pare?

39. devono andar lassù: devono suscitare cioè l’intervento divino; ma sono preghiere un po’ troppo interessate (pioggia... bel tempo). 40. carne al fuoco: possedimenti, poderi, bestie ecc. 41. coltura dei fondi: coltivazione dei terreni. 42. derrate: prodotti agricoli. 43. il rischio... affitto: perdite e guadagni dipendono infatti dall’annata e dall’esito della raccolta. 44. cognato Burgio: il marito di Speranza, la sorella di Gesualdo.

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45. grave: pesante. 46. cantuccio: angolino. 47. nella malaria: cioè nelle zone acquitrinose, dov’era quasi impossibile non prendere la malaria. 48. regalavasi: si regalava, si concedeva. 49. in barba sua: alle spalle di Gesualdo, e a sue spese. 50. arcigno: severo, in collera; la ragazza vuole essere maritata a spese del fratello Gesualdo. 51. querimonie: lamentele. 52. celare... febbre: nascondere l’ansia. 53. mala: cattiva.

54. chiusa: inespressiva, per non rivelare i propri piani o le proprie emozioni. 55. ambagi: giri di parole tortuosi e oscuri, per evitare di compromettersi dicendo qualcosa di troppo. 56. spalle grosse: capaci di portare pesi considerevoli. 57. anche tu: ripetuta due volte a breve distanza, l’espressione suona come una sinistra profezia. Diodata sarà infatti sacrificata da Gesualdo al matrimonio con la nobile Bianca Trao. 58. bianco di luna: illuminato dalla luna. 59. lega: alleanza, accordo.

Gesualdo sembra ammettere di non riuscire più a dominare la logica economica, ma di esserne ormai schiavo

Ella tacque ancora un momento col viso nelle mani. Poi rispose, con un tono di 130 voce che andò a rimescolargli il sangue a lui pure: – Vossignoria siete il padrone... – Lo so, lo so... Ne discorro adesso per chiacchierare... perché mi sei affezionata... Ancora non ci penso... ma un giorno o l’altro bisogna pure andarci a cascare... Per 135 chi ho lavorato infine?... Non ho figliuoli...60 Allora le vide il viso, rivolto a terra, pallido pallido e tutto bagnato.61 – Perché piangi, bestia?62 – Niente, vossignoria!... Così!... Non ci badate... – Cosa t’eri messa in capo, di’? 140 – Niente, niente, don Gesualdo... 63 – Santo e santissimo! Santo e santissimo! – prese a gridare lui, sbuffando per l’aia. [...] Diodata gli andava dietro passo passo, con voce umile e sottomessa: – Perché v’arrabbiate, vossignoria?... Cosa vi ho detto?... – M’arrabbio colla mia sorte!... Guai e seccature da per tutto... dove vado!... Anche 145 tu, adesso!... col piagnisteo!... Bestia!... Credi che, se mai, ti lascerei in mezzo a una strada...64 senza soccorsi?... – Nossignore... non è per me... Pensavo a quei poveri innocenti...65 – Anche quest’altra?... Che ci vuoi fare! Così va il mondo!... Poiché v’è il comune che ci pensa!... Deve mantenerli il comune a spese sue... coi denari di tutti!... Pago 150 anch’io!... So io ogni volta che vo66 dall’esattore!... [...] In tal modo seguitava a brontolare, passeggiando per l’aia, su e giù dinanzi la porta. Poscia vedendo che la ragazza piangeva ancora, cheta cheta67 per non infastidirlo, le tornò a sedere allato68 di nuovo, rabbonito. – Che vuoi? Non si può far sempre quel che si desidera. Non sono più padrone...69 155 come quando ero un povero diavolo senza nulla... Ora ci ho tanta roba da lasciare...70 Non posso andare a cercar gli eredi di qua e di là, per la strada... o negli ospizi dei trovatelli. Vuol dire che i figliuoli che avrò poi,71 se Dio m’aiuta, saranno nati sotto la buona stella!...72 160 – Vossignoria siete il padrone... G. Verga, Tutti i romanzi, cit.

60. Non ho figliuoli: in realtà Gesualdo ha avuto due figli da Diodata; ma non sono legittimi, nati nel matrimonio, e quindi non può lasciare loro in eredità le sue ricchezze. 61. tutto bagnato: questa crudele visione della vita fa piangere Diodata, l’unico personaggio di tutto il romanzo che nutre sentimenti non inquinati dall’interesse economico. 62. bestia: è un rimprovero affettuoso, commisurato al lessico del personaggio. 63. Santo e santissimo!: è il suo modo normale di inveire.

64. ti lascerei in mezzo a una strada: il senso di giustizia di Gesualdo si esaurisce in un corretto rapporto economico: i servizi resi vanno pagati. Perciò ritiene che, per una trovatella come Diodata, sia già un buon affare trovare un marito (Nanni l’Orbo) disposto a sposarla regolarmente. 65. quei poveri innocenti: i figli avuti da Gesualdo, affidati all’orfanotrofio comunale. 66. vo: vado. 67. cheta cheta: sommessamente (toscanismo).

68. allato: a fianco. 69. Non sono più padrone: vuole dire “padrone di fare ciò che voglio”, ma la frase resta incompleta e suona dunque come un involontario capovolgimento della realtà; se c’è un padrone, infatti, è proprio lui! 70. da lasciare: in eredità. 71. che avrò poi: cioè dal matrimonio con Bianca. 72. sotto la buona stella: fortunati (a differenza dei due avuti da Diodata).

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Monografia Raccordo

Gesualdo voleva fare di lei quasi una complice nel suo progetto matrimoniale, ma Diodata ristabilisce le distanze e gli accolla tutte le sue responsabilità

Contesto

Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il brano costituisce uno dei pochi momenti «idillici» dell’intero romanzo. Dopo una dura giornata di lavoro, Gesualdo può finalmente abbandonarsi alla pace del paesaggio, alla coscienza di essersi meritato il riposo, alla compagnia di Diodata. Depone dunque l’atteggiamento del padrone sospettoso, del mercante furbo; ha di fronte la donna che sa tutto di lui e con la quale non ha bisogno di recitare alcuna parte. ■ Da tale rilassatezza scaturisce il lungo soliloquio di Gesualdo. Seduto sull’aia egli ripercorre come in un flashback (ritorno al passato) le tappe della sua esistenza. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! Il monologo di Gesualdo è scandito da poche battute dirette, quasi tutte con il punto esclamativo alla fine, a marcare i momenti salienti. Attraverso numerose espressioni popolari (suonava il deprofundis, cascavano dalla tasca, mangiare i gomiti, tredici mesi dell’anno) e veri e propri proverbi (Fa’ l’arte che sai!), Verga può commentare e giudicare gli eventi senza esporsi in prima persona, ma continuando a restare nascosto dietro al personaggio, con la tecnica dell’impersonalità propria del Verismo. ■ Per Gesualdo è stato molto difficile arricchirsi partendo dall’umile condizione di muratore in cui si trovava. Ha dovuto dissimulare la propria ascesa, compierla con umiltà, rispettando le gerarchie costituite: solo adesso che è in cima alla scala sociale può cominciare a manifestare i propri sentimenti. Da qui l’orgoglio con cui ripensa alla propria scalata ai vertici della società: nel ricordo essa acquista un respiro «epico», quasi fosse realmente dotata di senso e di valore in se stessa, quasi potesse, cioè, procurare la felicità al protagonista. ■ Ma è l’illusione di un istante, che svanisce nel successivo dialogo tra Gesualdo e Diodata. Si tratta in realtà di un «finto» dialogo, perché le parole della donna sono pochissime: Diodata parla con i silenzi, con le lacrime, con i gesti (come il suo stare accovacciata ai piedi dell’uomo). L’affetto che Gesualdo manifesta per lei è simile a quello che lega cane e padrone: un rapporto di sottomissione, di dipendenza, perché non ci si può aspettare più di questo da un cuore inaridito dalla roba com’è il suo. ■ Malgrado la sua posizione dominante, Gesualdo si trova in difficoltà: poche volte – come in questo caso – è messo a nudo davanti alla propria coscienza. Sa benissimo che abbandonare Diodata per sposare un’altra donna è una cattiva azione, e intuisce che solo Diodata può dargli quell’affetto e quella dedizione che non potrà avere dalla nobile Bianca Trao. Malgrado ciò, Gesualdo rifiuta l’amore di Diodata: ha bisogno di sposare una nobile per far lega coi pezzi gros-

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si del paese... Senza di loro non si fa nulla!... Pagherà amaramente questa scelta, con la solitudine e con l’incapacità di comunicare con la moglie e la figlia. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Dov’è ambientato il brano? Rispondi precisando il tempo e il luogo rispetto alla trama del romanzo. 2. Individua nel testo gli attributi fisici e psicologici di Diodata e riassumili (max 10 righe). 3. Ora rifletti: quali valori rappresenta questa figura femminile nel mondo di Gesualdo? È compatibile con la logica economica del protagonista? 4. Come appare la natura agli occhi di Gesualdo? a come sereno paesaggio romantico b come natura primitiva, allo stato vergine c come paesaggio agricolo, natura sottoposta al lavoro dell’uomo d come costruzione mentale o un’illuminazione del protagonista Scegli la risposta e motivala in breve. 5. Quale immagine della famiglia di Gesualdo emerge dal suo monologo interiore? (max 10 righe) 6. Cerca di ricostruire, sulla base delle indicazioni fornite dallo stesso monologo, le tappe del suo arricchimento. 7. Nel romanzo, Gesualdo è sempre visto attraverso gli occhi degli altri, giudicato con malevolenza e astio. Qui, invece, Verga fornisce al lettore un altro punto di vista, perché questi possa giudicare in modo più completo: Gesualdo dice dunque la sua verità su se stesso. Riassumila in max 10 righe. 8. Nel monologo di Gesualdo la realtà viene ora vista dalla parte del soggetto: l’oggettività del Verismo, che abbiamo visto in azione nelle novelle, sta cedendo il passo a un’altra e più complessa modalità rappresentativa. Individua, nel testo, qualche esempio concreto di questa percezione soggettiva, e proponi quindi un tuo breve commento conclusivo. 9. Vossignoria siete il padrone..., ripete Diodata. Ma Gesualdo a un certo punto risponde: Non sono più padrone.... Ritrova nel testo queste battute e spiega il senso della negazione del protagonista. 10. La dura legge dell’interesse guida ogni atto di Gesualdo: di fronte a essa qualsiasi altra realtà perde d’importanza, compresi gli affetti familiari e domestici. • Come e dove tale legge si esprime nel testo letto? • Tale criterio è condiviso da Diodata? • Gesualdo giunge a confessare a Diodata le vere motivazioni che lo spingono al matrimonio con Bianca: quali sono? E come si giustifica?

Contesto

Giovanni Verga

Monografia Raccordo

Il romanzo della «roba»

■ Contadini siciliani. Fotografia di Giovanni Verga.

Il Mastro-don Gesualdo è il romanzo della «roba» e, insieme, della sconfitta che ineluttabilmente essa procura a chi, come Gesualdo, alla «roba» consacra anima e corpo. Infatti il concepire l’esistenza in termini di puro negotium (attività economica) porta al fallimento: è il messaggio fondamentale del romanzo. Il motivo della «roba» era bene in linea con gli interessi di analisi sociale ed economica del Naturalismo: già nei Malavoglia esso assumeva valenze esistenziali (si pensi al personaggio di zio Crocifisso, il cui nomignolo simboleggia la «passione» che egli vive in nome della «roba»); e Mazzarò, il protagonista di La roba (una delle Novelle rusticane), giunge a identificare i propri beni con il proprio stesso corpo, cioè arriva a uccidere gli animali da cortile quando si sente vicino alla morte. L’ossessione della «roba al sole» divora anche mastro-don Gesualdo: da povero muratore è diventato un ricco proprietario, ma non per questo si sente appagato da quanto possiede.

L’attaccamento alla «roba» è inesauribile e il prezzo da pagare a questo dedicarsi totale, anima e corpo, a essa è la sconfitta di Gesualdo nel campo degli affetti. Celebrato il matrimonio con Bianca, che sarà all’origine della sua infelicità, egli ama ancor più follemente la sua «roba» proprio per la coscienza dei sacrifici a cui si è sottoposto per ottenerla; diviene più spietato con i creditori e i rivali, quasi per vendicarsi della solitudine in cui è precipitato: «Era diventato una bestia feroce, verde dalla bile, la malattia stessa gli dava alla testa». Mastro-don Gesualdo è davvero il «romanzo della roba», come lo definì Gaetano Trombatore, o meglio, il romanzo «dell’alienazione e della tragedia della roba» (Romano Luperini). La ricchezza si rivela per Gesualdo inutile e anzi dannosa: non solo non dà pace, ma diviene un tormento, una sorta di metafora dell’inferno, «roba scomunicata, più nera dell’inchiostro, amara, maledetta da Dio», che esalta l’uomo e lo incenerisce.

Già nei Malavoglia il possesso di beni distruggeva i valori tradizionali; nel Mastro-don Gesualdo, esso agisce ancor più in profondità tanto da distruggere la vita: non è infatti Gesualdo a possedere la «roba», ma la «roba» a possedere lui, costringendolo a seguire, fino alle estreme conseguenze, l’aberrante meccanismo da lui stesso innescato. L’esistenza medesima del protagonista viene distrutta dal demonio insediatosi in Gesualdo, che prende pieno possesso della sua anima e alla fine anche del suo corpo: la «cancrena» della «roba», «sangue delle sue vene», infatti, gli somatizza dentro, lo rode senza più dargli tregua, implacabile. «Ci aveva un cane, lì, nella pancia, che gli mangiava il fegato, il cane arrabbiato di San Vito martire, che lo martirizzava anche lui», scrive Verga; e ancora: «E intanto i dolori e la gonfiezza crescevano: una pancia che le gambe non la reggevano più. Bomma, picchiandovi sopra, una volta disse: – Qui c’è roba». 193

Tra Ottocento e Novecento

13 La morte di Gesualdo Mastro-don Gesualdo, parte IV, capitolo 5 Anno: 1889 Temi: • la solitudine del protagonista, la superficialità e l’indifferenza degli altri • l’incomunicabilità padre-figlia • la prevalenza dei moventi economici Siamo al momento conclusivo dell’opera. La quarta parte del romanzo vede dapprima la morte di Bianca Trao, la moglie di Gesualdo, consumata dalla tisi; poi lo stesso Gesualdo si scopre gravemente malato e vicino alla fine. L’avanzare progressivo del tumore lo indebolisce, consegnando il suo animo allo strazio dei ricordi e al tormento dei rimorsi (in particolare i contrasti con il padre Nunzio e l’abbandono di Diodata). Egli si sente «roso dal baco al pari di una mela fradicia, che deve cascare dal ramo». Il penultimo capitolo dell’opera si chiude con la partenza di Gesualdo per Palermo, dove si trasferisce nel lussuoso palazzo in cui vivono la figlia Isabella e il marito, il duca di Leyra. Essi tengono presso di loro il vecchio morente solo per controllarne meglio le proprietà. L’ultimo capitolo, completamente rielaborato rispetto alla prima versione pubblicata nel 1888 sulla rivista «Nuova Antologia», costituisce uno dei vertici del romanzo italiano. anche don Diego, fratello di Bianca, e Nunzio, padre di Gesualdo, erano morti col naso al muro: un gesto polemico per esprimere il rancore verso il mondo

il narratore riporta i pensieri del malato prestandogli voce con il monologo interiore

per controllarlo e non essere diseredata: allo stesso modo Ninì aveva sorvegliato la morte della baronessa sua madre 1. 2. 3. 4. 5.

Appena fu solo cominciò a muggire come un bue, col naso al muro. Ma poi, se veniva gente, stava zitto. Covava dentro di sé il male e l’amarezza. Lasciava passare i giorni. Pensava ad allungarseli piuttosto, a guadagnare almeno quelli, uno dopo l’altro, così come venivano, pazienza! Finché c’è fiato c’è vita. A misura che il fiato gli andava mancando, a poco a poco, acconciavasi1 pure ai suoi guai; ci faceva il callo. Lui aveva le spalle grosse, e avrebbe tirato in lungo, mercè2 la sua pelle dura. Alle volte provava anche una certa soddisfazione, fra sé e sé, sotto il lenzuolo, pensando al viso che avrebbero fatto il signor duca3 e tutti quanti, al vedere che lui aveva la pelle dura. Era arrivato ad affezionarsi ai suoi malanni, li ascoltava, li accarezzava, voleva sentirseli lì, con lui, per tirare innanzi. I parenti ci avevano fatto il callo anch’essi; avevano saputo che quella malattia durava anni ed anni, e s’erano acchetati.4 Così va il mondo, pur troppo, che passato il primo bollore, ciascuno tira innanzi per la sua via e bada agli affari propri. Non si lamentava neppure; non diceva nulla, da villano malizioso,5 per non sprecare il fiato, per non lasciarsi sfuggire quel che non voleva dire; solamente gli scappavano di tanto in tanto delle occhiate che significavano assai, al veder la figliuola che gli veniva dinanzi con quella faccia desolata, e poi teneva il sacco al marito6 [...]. Indovinava che teneva degli altri guai nascosti, lei, e alle volte aveva la testa altrove, mentre suo padre stava colla morte sul capo. Si rodeva dentro, a misura che peggiorava; il sangue era diventato tutto un veleno; ostinavasi sempre più, taciturno, implacabile, col viso al muro, rispondendo solo coi grugniti, come una bestia. Finalmente si persuase ch’era giunta l’ora, e s’apparecchiò7 a morire da buon cristiano. Isabella era venuta subito a tenergli compagnia. Egli fece forza coi gomiti, e si rizzò a sedere sul letto. «Senti» le disse «ascolta...»

acconciavasi: si abituava. mercè: grazie a. il signor duca: il marito della figlia. acchetati: calmati. villano malizioso: calco dall’espressio-

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ne siciliana viddanu ‘gnuranti e maliziusu, “contadino ignorante ma furbo”. 6. teneva il sacco al marito: espressione proverbiale; significa che Isabella collabora al piano del marito, che attende la mor-

te di Gesualdo per potersi impadronire dei suoi beni. 7. s’apparecchiò: si predispose.

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Verga rappresenta un dolore troppo esibito, troppo teatrale per essere autentico

8. accennare del: fare cenni con il. 9. trinciò: tracciò con ampi movimenti delle braccia. 10. e perdonava a tutti: osserviamo l’ellissi di «che», retto da significare; osserviamo anche l’accusativo retto dalla preposizione a, che è un uso tipico dei dialetti

meridionali quando, come qui, si riferisce a esseri animati. 11. come... bambina?: in un episodio della terza parte si mostrava la piccola Isabella tirarsi indietro «istintivamente quando nel baciarla la pungeva colla barba ispida». 12. sospetti odiosi: in paese si vociferava

che Isabella fosse una figlia illegittima, e Verga non fa nulla per smentire tale diceria. 13. corruscava: lampeggiava. 14. tutti quei debiti: dopo nemmeno un anno di matrimonio Isabella, spinta dal marito, aveva ipotecato le proprietà ricevute in dote: la Canziria, l’Àlia e Donninga.

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Monografia Raccordo

diversamente dalla teatralità della figlia, Gesualdo è uomo di poche parole: gli basta un semplice gesto, istintivo, per rivelare il suo affetto

Era turbato in viso, ma parlava calmo. Teneva gli occhi fissi sulla figliuola, e accen- 25 nava col capo. Essa gli prese la mano e scoppiò a singhiozzare. «Taci,» riprese «finiscila. Se cominciamo così non si fa nulla.» Ansimava perché aveva il fiato corto, ed anche per l’emozione. Guardava intorno, sospettoso, e seguitava ad accennare del8 capo, in silenzio, col respiro affannato. Ella pure volse verso l’uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano scar- 30 na, e trinciò9 una croce in aria, per significare ch’era finita, e perdonava a tutti,10 prima d’andarsene. «Senti... Ho da parlarti... intanto che siamo soli...» Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle mani erranti che l’accarezzavano. L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente, senza 35 dire una parola. Di lì a un po’ riprese: «Ti dico di sì. Non sono un ragazzo... Non perdiamo tempo inutilmente». Poi gli venne una tenerezza. «Ti dispiace, eh?... ti dispiace a te pure?...» La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi, s’erano fatti più dolci, e qual40 cosa gli tremava sulle labbra. «Ti ho voluto bene... anch’io... quanto ho potuto... come ho potuto... Quando uno fa quello che può...» Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fissa per vedere se voleva lei pure, e l’abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei capelli fini. 45 «Non ti fo male, di’?... come quand’eri bambina?...»11 Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza e di passione, quei sospetti odiosi12 che dei bricconi, nelle questioni d’interessi, avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli indietro, e cambiò discorso. 50 «Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso...» Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per chiudere gli occhi. «Ma no, parliamone!» insisteva lui. «Sono discorsi serii. Non ho tempo da perdere adesso.» Il viso gli si andava oscurando, il rancore antico gli corruscava13 negli occhi. 55 «Allora vuol dire che non te ne importa nulla... come a tuo marito...» Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto, cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori che gli avevano dati, lei e suo marito, con tutti quei debiti...14 Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla: «Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!... quando tuo marito torna a proporti di firmare delle carte!... 60 Lui non sa cosa vuol dire!» Spiegava quel che gli erano costati, quei poderi, l’Àlia, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava come erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco, le terre seminative, i pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o cattive. Gli tremava la voce,

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Giovanni Verga

Tra Ottocento e Novecento

Gesualdo si commuove sia per l’emozione dei ricordi, sia per il timore che la ricchezza accumulata con fatica venga dilapidata dal genero

Gesualdo cerca un punto di contatto che lo avvicini a Isabella nella sfera degli amori segreti: entrambi, infatti, hanno avuto figli fuori del matrimonio Isabella si ritrae: questa gelida reazione sancisce per sempre la sua estraneità al padre inizia qui la serrata sequenza finale, che rappresenta la morte di Gesualdo «dal di fuori», in modo impassibile il punto di vista narrativo è quello del servitore

gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue in viso, gli spuntavano le la- 65 grime agli occhi: «Mangalavite, sai... la conosci anche tu... ci sei stata con tua madre... Quaranta salme15 di terreni, tutti alberati!... ti rammenti... i belli aranci?... anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca, negli ultimi giorni!... 300 migliaia all’anno, ne davano! Circa 300 onze!16 E la Salonia... dei seminati d’oro... del70 la terra che fa miracoli... benedetto sia tuo nonno che vi lasciò le ossa!...» Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino. «Basta» disse poi. «Ho da dirti un’altra cosa... Senti...» La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l’effetto che avrebbe fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino che 75 esitava e cercava le parole. 17 «Senti!... Ho degli scrupoli di coscienza... Vorrei lasciare qualche legato a delle persone verso cui ho degli obblighi... Poca cosa... Non sarà molto per te che sei ricca... Farai conto di essere una regalìa18 che tuo padre ti domanda... in punto di morte... se ho fatto qualcosa anch’io per te...» 80 «Ah, babbo, babbo!... che parole!» singhiozzò Isabella. «Lo farai, eh? lo farai?... anche se tuo marito non volesse...» Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se l’avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui quell’altro segreto, quell’altro cruccio nascosto,19 in fondo agli occhi della figliuola. 85 E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi in sé, superba, coi suoi guai e il suo segreto.20 E lui allora sentì di tornare Motta, com’essa era Trao, diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia, e non ag- 90 giunse altro. «Ora fammi chiamare un prete» terminò con un altro tono di voce. «Voglio fare i miei conti con Domeneddio.»21 Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio. Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte, peg- 95 giorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella canzone che non finiva più, andò sonnacchioso22 a vedere che c’era. «Mia figlia!» borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la sua. 100 «Chiamatemi mia figlia!» «Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla» rispose il domestico, e tornò a coricarsi. Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva

15. Quaranta salme: la salma è un’unità di misura dei terreni, equivalente a circa 17 m2. 16. Circa 300 onze: l’onza è un’antica moneta siciliana, che nel 1862 aveva il valore (elevato) di 12,75 lire. 17. qualche legato: un lascito, una porzione d’eredità. Gesualdo vuole lasciare qualcosa a Diodata, l’unica donna che lo

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abbia sinceramente amato, e ad altri suoi protetti. 18. una regalìa: un regalo. 19. quell’altro segreto, quell’altro cruccio nascosto: Isabella era nata da una relazione prematrimoniale di sua madre con Ninì Rubiera; l’argomento però non era mai stato affrontato in famiglia. 20. il suo segreto: anche Isabella, prima

di sposare il duca di Leyra, aveva avuto un figlio dalla relazione con il cugino Corrado. 21. fare i miei conti con Domeneddio: sistemare le cose con Dio (Domeneddio dall’invocazione latina «Domine Deus»), cioè confessarsi. 22. sonnacchioso: pieno di sonno.

né all’esterno né all’interno la vita della casa viene mutata dalla morte di Gesualdo: tutto prosegue imperturbabilmente come sempre

un piccolo plotone di estranei circonda il defunto, senza provare alcuna commozione e neanche rispetto per lui

il tono freddo e burocratico di questo cerimoniale sottolinea l’estraneità e l’indifferenza collettiva

G. Verga, Tutti i romanzi, cit. 23. l’uzzolo: il capriccio. 24. passar mattana: fare pazzie; è un’espressione volgare, che allude a qualche capriccio sessuale. 25. tolse: prese, sollevò. Facendo luce, si accorge che Gesualdo sta per morire. 26. udìvasi: si udivano. 27. striglie: spazzole metalliche per pulire il mantello dei cavalli.

28. cortine: i tendaggi del letto a baldacchino. 29. Mattinata: indica il turno di servizio del mattino; o forse è un augurio: “Buona mattina!”. 30. alla chetichella: di nascosto, nell’indifferenza generale e senza far rumore. 31. l’androne: l’area dell’ingresso del palazzo.

32. la pappa: l’impasto di calce e gesso che preparano i muratori. 33. nella battista: in una veste di batista (tessuto di lino pregiatissimo), cioè in un lusso smodato. 34. devo andare a chiudere il portone?: in segno di lutto, come si usava nei palazzi nobiliari del Mezzogiorno.

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pensieri e parole volgari e inadatti alle circostanze per esprimere totale estraneità e indifferenza verso il moribondo

peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno 105 che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce. «Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo23 adesso? Vuol passar mattana!24 Che cerca?» Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse25 il 110 paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto. «Ohi! ohi! Che facciamo adesso?» balbettò grattandosi il capo. Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare un po’ o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottoso- 115 pra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udìvasi26 scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie27 sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare la 120 camera. Tirò le cortine28 del letto, spalancò le vetrate, e s’affacciò a prendere una boccata d’aria, fumando. Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra. «Mattinata,29 eh, don Leopoldo?» «E nottata pure!» rispose il cameriere sbadigliando. «M’è toccato a me questo re- 125 galo!» L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio. «Ah... così... alla chetichella?...»30 osservò il portinaio che strascicava la scopa e le 130 ciabatte per l’androne.31 Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto. [...] «Si vede com’era nato...» osservò gravemente il cocchiere maggiore. «Guardate che 135 mani!» «Già, son le mani che hanno fatto la pappa!...32 Vedete cos’è nascer fortunati... Intanto vi muore nella battista33 come un principe!...» «Allora,» disse il portinaio «devo andare a chiudere il portone?»34 «Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora 140 duchessa.»

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ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO Possiamo suddividere il testo in tre momenti. ■ Nel primo vediamo Gesualdo, solo, subito dopo il consulto con i medici, dal quale ha capito con certezza di essere moribondo. Egli si attacca alla vita con ostinazione (Finché c’è fiato c’è vita, r. 4), convivendo con i suoi malanni; ma è tormentato dalla distanza che continua a separarlo, anche in questi momenti estremi, dalla figlia Isabella. ■ Segue il colloquio tra padre e figlia, accomunati da segreti e sofferenze: infatti Isabella non è la vera figlia di Ge-

sualdo; inoltre aveva amato, prima di sposarsi con il duca, il cugino Corrado; Gesualdo è preso dai rimorsi verso i figli avuti da Diodata. Padre e figlia non riescono a entrare in vera comunicazione tra loro: perciò il loro colloquio si limita alla sfera degli affari, come dice Gesualdo, che chiede a Isabella di poter stornare dall’eredità una piccola parte a vantaggio di persone verso cui ho degli obblighi... Poca cosa... (r. 77). ■ Infine Gesualdo muore, solo, nell’indifferenza e nel disprezzo degli sfaccendati servitori a cui è stato affidato.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO

■ Il testo oscilla fra i tormenti causati al protagonista dalla malattia e gli incubi dettati dall’imminenza della morte. Gesualdo si attacca alla vita e alla «roba» con tutte le sue forze; tuttavia sa che non gli rimangono margini per sperare. Vorrebbe confidare a Isabella i suoi segreti tormenti, informarla circa i figli nati dalla sua relazione con Diodata, ai quali vorrebbe destinare una piccola parte della sua eredità. Tuttavia, nell’istante culminante, i due personaggi si dimostrano reciprocamente incompatibili e inconciliabili: si chiudono l’uno all’altro, ostili e diffidenti. La superbia di Isabella provoca il risentimento di Gesualdo: egli la fissa, ma scorge in fondo ai suoi occhi crucci e gelosie segrete; si sente allora tornare Motta, com’essa era Trao, diffidente, ostile, di un’altra pasta (rr. 89-90). Così l’incontro si risolve nella freddezza di un abbraccio che si scioglie. ■ L’ora della morte di Gesualdo è raccontata da Verga

con lucido disincanto. Il moribondo è scosso dai tremori del trapasso imminente, ma il suo servitore lo assiste con impazienza e fastidio. Intorno a lui si accumulano l’indifferenza, il disprezzo e la derisione dei camerieri sbadiglianti e sfaccendati. Stride, in questo epilogo, il contrasto fra il dramma intimo del protagonista e la misura superficiale e pettegola delle reazioni dei personaggi che gli sono accanto. Attraverso questo dissidio, il narratore sottolinea tutta la vanità di un’esistenza vissuta solo secondo le leggi dell’economia e della ricchezza. Gesualdo, già «vincitore» per l’ascesa economica e sociale, è ora «vinto», umiliato e sconfitto. Di fronte alla morte e al vuoto che essa schiude, la «roba» perde valore e significato; i sacrifici sostenuti e le lotte combattute appaiono inutili, perdono ogni attrattiva: al lettore rimane così l’impressione che tutto si risolve in un fallimento.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. Rispetto al brano precedente (E T 12), ambientato nel momento dell’ascesa sociale di Gesualdo, ora egli è caratterizzato con tratti diversi. a. Che cosa è cambiato nella sua condizione fisica? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... b. E nel suo stato sociale? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... c. E nella sua psicologia? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... d. Infine: che cosa rivelano tali cambiamenti? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 198

2. Secondo il principio positivistico dell’ereditarietà, l’incomunicabilità tra Gesualdo e Bianca, così come tra Gesualdo e Isabella, è giustificata dalla diversa «razza» a cui i personaggi appartengono. a. Anche in questo brano il narratore contrassegna la diversità di «razza» con un preciso indizio fisiognomico: quale? ............................................................................................... ............................................................................................... b. Un altro segnale di estraneità tra padre e figlia è l’utilizzo del cognome Trao. Per mantenere il titolo nobiliare, infatti, Isabella aveva preso il cognome della madre; e quando Gesualdo si recava a trovarla nel collegio di Palermo, oltre a nascondersi le mani mangiate dalla calcina, doveva farsi chiamare «il signor Trao». Anche nel brano letto riemerge il cognome e con esso l’estraneità che divide padre e figlia: evidenzia il punto nel testo. 3. Nella sequenza che descrive la morte di Gesualdo si mescolano due livelli: il gusto analitico dello stile verista, che descrive la patologia dell’agonia, e il punto di vista «basso» dei servitori.

Giovanni Verga

LAVORIAMO SU

Contesto

{ Forme e stile 4. Uno degli obiettivi del Verismo di Verga è quello di esprimere lo stato d’animo dei personaggi senza rivelare il loro movente interiore, ma attraverso la sola manifestazione esterna dei sentimenti. a. Molto indicativa è l’attenzione di Verga allo sguardo di Gesualdo, nel corso del suo colloquio con Isabella. Rintraccia nel testo i punti in cui il protagonista fissa il proprio sguardo indagatore sulla figlia (a partire da: Teneva gli occhi fissi sulla figliuola, r. 25). 5. Uno dei termini chiave del colloquio tra padre e figlia è «segreto», una parola ripetuta per tre volte, in tre momenti chiave della scena. a. Ritrova le tre occorrenze nel testo. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... b. Ora rifletti: perché lo si può definire un termine chiave? E che cosa viene a esprimere? ...............................................................................................

LINGUA E LESSICO

1. Allo scopo di riprodurre la cadenza affannata della voce del malato, l’autore ricorre spesso, nel discorso di Gesualdo a Isabella, alla ripetizione di un medesimo termine. a. Tali ripetizioni o anafore si evidenziano o in frasi distinte (una tenerezza / intenerita) oppure all’interno dello stesso segmento testuale (Ti dispiace, eh?... ti dispiace). Rintraccia altri esempi del medesimo procedimento testuale e trascrivili. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

2. Sempre al medesimo fine, Verga ricorre anche a due altri artifici: a) al ripetuto impiego dei puntini di sospensione; b) all’uso ridondante dei pronomi rafforzati dall’avverbio (a te pure). a. Evidenzia nel testo la presenza dei puntini di sospensione. b. Sottolinea alcuni punti in cui vengono utilizzati i pronomi rafforzati dall’avverbio. c. Ora rifletti: secondo te, queste scelte stilistiche dipendono soprattutto a dalla forte emozione del personaggio b dall’incertezza circa il suo futuro c dal dispiacere di morire d dalla difficile comunicazione con la figlia Scegli la risposta e motivala in breve. 199

Monografia Raccordo

a. Sottolinea nel testo (rr. 94-122) tutti i termini riferibili al decorso della malattia. Trascrivili qui sotto. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... b. Inoltre: in quale punto preciso il narratore enuncia la morte di Gesualdo? Evidenzialo. c. Nell’ottica «bassa» del servitore, Gesualdo, in quanto contadino arricchito, non merita di essere servito come un vero signore. In quale punto, o in quali punti del testo emerge questa ottica volgare del domestico, che sottolinea il fastidio e il disturbo provocati dal malato? ............................................................................................... ............................................................................................... d. Anche in seguito i servi del palazzo sottopongono la memoria di Gesualdo a una grave degradazione. Quale? ............................................................................................... ...............................................................................................

Tra Ottocento e Novecento

La parola al critico L’ottica dell’estraneità A parere di Romano Luperini (1940), i motivi dell’incomprensione e dell’«estraneità» costituiscono la chiave di lettura decisiva per interpretare l’epilogo di Mastro-don Gesualdo. Il capitolo era iniziato col tema della estraneità di Gesualdo, del suo spaesamento nel palazzo del genero: «Parve a don Gesualdo d’entrare in un altro mondo, allorché fu in casa della figliuola. Era un palazzone così vasto che ci si smarriva dentro». Il tempo degli abitanti del palazzo non è quello del proprietario terriero e dei contadini né quello dell’imprenditore o del commerciante: da un lato è scandito da un «cerimoniale di messa cantata» e contrassegnato da una lentezza inconcludente e snervante (i domestici, agli occhi di Gesualdo che li osserva dalla finestra, «perdevano il tempo»); dall’altro conosce accelerazioni improvvise e gratuite quando compare sulla soglia di casa il signor duca o quando arrivano in visita le carrozze della nobiltà. È un tempo improduttivo, che risulta incomprensibile per chi è abituato al ritmo di una vita finalizzata al lavoro e all’accumulo. L’estraneità a questo mondo è persino linguistica, come fa capire l’accenno alla «foresteria»1 («L’avevano collocato in un quartierino al pian di sopra, poche stanze che chiamavano la foresteria»), il cui nome stesso rafforza in Gesualdo la sensazione «d’essere davvero un forestiero». Privato di qualsiasi possibilità di comunicazione autentica con la figlia e col genero, costretto alla passività, egli può solo vedere e ascoltare: la vita del palazzo gli scorre davanti nella sua alterità2 monotona e imprendibile. Così passa «i giorni malinconici dietro l’invetriata» a osservare il movimento ozioso degli stallieri e delle cameriere, la fatuità improduttiva del loro comportamento e del loro chiacchiericcio. Al suo sguardo ogni gesto degli abitanti del palazzo è solo una manifestazione di un’assurda pantomima sociale, quasi essi giochino a togliersi o a mettersi «una maschera»: una «commedia», come si dice a un certo punto. Ebbene, nelle due pagine conclusive, a prendere la parola e a condurre la narrazione dal proprio punto di vista è proprio uno di questi «mangiapane». Ora a essere oggetto di una visione straniante è appunto il soggetto della precedente narrazione e il protagonista dell’intero romanzo. A fare la commedia sembrerebbe l’agonizzante: delle sue smorfie di dolore si sa solo che sono delle «boccacce», dei suoi lamenti che sono dei «capricci», l’«uzzolo» di chi «vuol passar mattana», mentre l’affanno del respiro diventa «una canzone che non finiva più», un «russare» che è «peggio di un contrabbasso». Infine all’ottica di don Leopoldo, che per pigrizia e malanimo si rifiuta d’andare a chiamare la figlia del moribondo, segue quella, non meno indifferente ed estranea, degli altri servitori, sfaccendati e pettegoli, che si affollano intorno al cadavere «in maniche di camicia e colla pipa in bocca» e gli guardano le mani «che hanno fatto la pappa». [...] Attraverso questo gioco di estraneità reciproche e incrociate, la figura dell’incomprensione – la raffigurazione, cioè, della realtà dall’ottica di chi non partecipa a essa e non la capisce – [...] diventa la cifra stessa del romanzo e dell’esistenza che vi è figurata, dunque una rappresentazione della sua sostanziale estraneità al senso. La solidale partecipazione al mondo, l’armonica compenetrazione di particolare e universale non sono più possibili. La corsa verso la morte di una vita sottoposta all’estraneità della reificazione3 può solo sgranarsi in un rosario di frammenti privi di reale significato o valore, di particolari tagliati via da qualsiasi speranza d’universale, mentre allo scrittore non si dà la possibilità di redimerli. R. Luperini, Simbolo e costruzione allegorica in Verga, il Mulino, Bologna 1989 1. «foresteria»: parte della casa destinata ad accogliere gli ospiti di passaggio.

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2. alterità: estraneità. 3. reificazione: trasformazione dell’uo-

mo in cosa (in latino res).

SINTESI OPERATIVA

L’età contemporanea

Verga nel suo tempo ■ Catanese, di famiglia benestante, Verga si forma nel clima fervido delle lotte per l’indipendenza. Trascorre lunghi periodi fuori dalla sua Sicilia, a Firenze e a Milano, capitali culturali del Paese. Negli anni della maturità soggiorna ripetutamente anche a Roma, prima di rientrare a Catania.

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Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. 2. 3. 4. 5.

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■ Scrive numerosi romanzi, cercando una gloria letteraria che però giunge solo quando Verga abbandona vicende e personaggi convenzionali, dedicandosi a ritrarre le tristi condizioni di vita del popolo siciliano dopo l’Unità nazionale.

La famiglia di Verga era di estrazione popolare. Verga si interessò e si batté per il progresso sociale dei ceti più umili. Verga da giovane fu un entusiasta sostenitore del Risorgimento e dell’Unità d’Italia. Inizialmente, appena dopo la stampa, I Malavoglia non ebbero successo. L’autore continuò a scrivere fino alla fine dei suoi giorni.

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Collega ciascuna data al corrispondente evento della vita dell’autore. 2 3 4 5 6 1865 1874 1872 1884 1881 1889 a. pubblica I Malavoglia / b. primo viaggio a Firenze / c. pubblica Mastro-don Gesualdo / d. va in scena, a Torino, Cavalleria rusticana / e. si trasferisce a Milano / f. scrive Nedda 1

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Rispondi alle seguenti domande. 1. Nell’arco della sua vita Verga coltivò diverse amicizie letterarie. Quali, in particolare? 2. Riassumi gli eventi biografici principali che caratterizzarono il decisivo periodo 1869-80 (max 10 righe).

La poetica e il linguaggio del Verismo ■ L’idea di volgersi a un terreno letterariamente inesplorato, qual è la vita della povera gente della sua terra, venne a Verga quasi per caso, nel 1874, allorché scriveva il bozzetto Nedda: la sua prima, pur se acerba, opera verista. Altre ne seguiranno, tali da promuovere una rivoluzione letteraria nell’ambito

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della tradizione italiana, sul piano sia dei contenuti sia del linguaggio, volutamente «antiletterario»: il narratore si nasconde dietro ai pensieri e alle stentate parole dei suoi personaggi, così da realizzare il massimo grado di oggettività e «impersonalità» narrativa.

Scegli l’affermazione corretta tra quelle proposte. 1. Un aspetto tipico del Verismo verghiano è a il vero analizzato psicologicamente b il narratore onnisciente c il nascondimento dell’autore d il vero della scienza illustrato dall’autore 2. In che senso lo scrittore verista assume l’«ottica del microscopio»? a nel senso che si comporta come uno scienziato che osserva minutamente la realtà b nel senso che il suo sguardo si limita all’esistenza di vicende piccole e insignificanti c nel senso che osserva a distanza e quindi ritrae la realtà senza alcuna partecipazione emotiva d nel senso che il suo stile ricerca le frasi e le immagini più umili: appunto quelle del «microscopio» Motiva brevemente la tua scelta; più di una risposta potrebbe essere esatta. 201

L’età contemporanea

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Rispondi alle seguenti domande. 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Chi era Salvatore Farina? Quale ruolo svolse nella vita di Verga? Che cos’era l’Inchiesta Franchetti-Sonnino e quale importanza ebbe per l’attività di Verga? Che cosa s’intende con l’«ideale dell’ostrica»? (max 5 righe) Quale importanza riveste la novella Fantasticheria nell’ambito della poetica verghiana? (max 5 righe) Illustra il principio secondo il quale «l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé» (max 10 righe). Verga, come Zola e i naturalisti francesi, si volge ad analizzare gli effetti sociali del progresso; ma in che cosa si differenzia da quelli? (max 10 righe)

I Malavoglia ■ L’opera è ambientata tra i poveri pescatori di Aci Trezza, vicino a Catania; essa venne concepita come il primo di una serie di romanzi (il «ciclo dei Vinti») in cui l’autore intendeva esplorare le varie forme sociali che assume la sconfitta nella «lotta per la vi-

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ta». Al livello più basso si pongono i poveri pescatori di Trezza: il narratore li ritrae nel momento in cui il «progresso» mostra le sue prime novità, spingendoli quindi a una ricerca del «meglio» che però si rivelerà completamente fallimentare.

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. Il romanzo nacque inizialmente come una semplice novella o «bozzetto». 2. I Toscano sono una famiglia di contadini arricchitisi grazie al duro lavoro di ciascuno. 3. Tra i valori che emergono maggiormente nel romanzo vi sono la fedeltà alla tradizione e alla famiglia. 4. Solo i poveri, secondo Verga, sono i «vinti» che devono combattere contro un destino avverso.

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Scegli l’affermazione corretta tra quelle proposte. 1. Il romanzo è ambientato a a Catania b ad Aci Trezza c prima ad Aci Trezza, poi a Catania d prima a Catania, poi a Vizzini 2. In quale anno Verga concepì la prima idea dell’opera? a 1875 b 1870 c 1880 d 1878 3. La causa principale della rovina dei Malavoglia sono a i primi segni del progresso b la voglia di migliorare c il loro rinchiudersi nell’«ideale dell’ostrica» d le difficoltà poste alla società e all’economia meridionale dalla recente Unità d’Italia 4. La vicenda del romanzo si svolge a durante gli anni del Risorgimento b nei primi anni del Novecento c negli anni precedenti l’Unità d’Italia d nei primi anni successivi all’Unità d’Italia

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Rispondi alle seguenti domande. 1. Illustra con le tue parole la contrapposizione tra zio Crocifisso e padron ’Ntoni e spiega quale importanza riveste nel significato generale del romanzo (max 10 righe). 2. Illustra con le tue parole la contrapposizione tra il vecchio padron ’Ntoni e il giovane ’Ntoni, e spiega quale importanza riveste nel significato generale del romanzo (max 10 righe).

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SINTESI OPERATIVA

L’età contemporanea

3. Come giudica Verga la «ricerca del meglio»? Quali effetti essa produce? (max 10 righe) 4. È giusto, a tuo parere, definire I Malavoglia un «romanzo sperimentale»? Se sì, in che senso? (max 15 righe) 5. Che cos’è la «questione meridionale»? Quale posizione assume Verga in proposito? (max 15 righe) 6. Illustra titoli e contenuti dei romanzi del progettato «ciclo dei Vinti» (max 15 righe). 7. Il pessimismo verghiano: su quali basi ideologiche si fonda e in quali testi si esprime? (max 15 righe)

Le altre opere ■ Per lunghi anni Verga insegue la fama letteraria con romanzi dai temi sentimentali e tardoromantici di moda a quell’epoca. Poi inaugura la fase verista, che comprende, oltre ai Malavoglia, tre raccolte di novelle: Vita dei campi e Novelle rusticane, ambientate nelle campagne siciliane, e i racconti di ambien-

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tazione milanese Per le vie. L’ultimo capolavoro verghiano è il romanzo Mastro-don Gesualdo (1889). Nei romanzi e nei racconti tardi, oltreché nei drammi scritti per il teatro, l’autore illustra i temi della finzione, dell’inganno e dell’irrimediabile egoismo di ciascuno.

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. Dopo I Malavoglia, Verga pubblicò un romanzo mondano dal titolo Il marito di Elena. 2. Il Mastro-don Gesualdo fu stampato nel 1888 in rivista e nel 1889 in volume, in due versioni alquanto diverse.

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Scegli l’affermazione corretta tra quelle proposte. 1. Un tema tipico della prima produzione verghiana è a la realtà siciliana c il mondo dei nobili proprietari terrieri del Meridione 2. Le vicende del Mastro-don Gesualdo si svolgono a tra 1820 e 1848 b tra 1848 e 1861 c tra 1861 e 1870 d tra 1861 e 1888 3. I primi romanzi di Verga sono piuttosto vicini al modello a dei romanzi scapigliati contemporanei b delle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo c delle Confessioni di un italiano di Nievo d dei Promessi sposi di Manzoni

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b d

il mondo della fabbrica l’amore-passione

Rispondi alle seguenti domande. Chi è Mazzarò e di quale opera verghiana è il protagonista? Illustra genere, trama e tematiche del romanzo Storia di una capinera (max 10 righe). Quale esito ebbero le loro aspettative? (max 10 righe) Secondo te ha senso parlare di un’accentuazione del pessimismo verghiano nel Mastro-don Gesualdo rispetto ai Malavoglia? Giustifica la tua risposta (max 10 righe). 5. Riassumi titoli e caratteri della produzione teatrale di Verga (max 15 righe). 6. Riassumi le principali differenze tra le raccolte Vita dei campi, Novelle rusticane e Per le vie (max 15 righe). 1. 2. 3. 4.

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L’età contemporanea

Analisi del testo 1

Leggi e commenta questo brano tratto dal capitolo XIII dei Malavoglia.

Ora ‘Ntoni portava la testa alta, e se la rideva se il nonno gli diceva qualche parola a bassa voce; adesso era il nonno che si faceva piccino, quasi il torto fosse suo. ‘Ntoni diceva che se non lo volevano in casa sapeva dove andare a dormire, nella stalla della Santuzza;1 e già non spendevano nulla a casa sua per dargli da mangiare. [...] povero diavolo per povero diavolo, preferiva godersi un po’ di riposo, finché era giovane, e non abbaiava la notte2 come il nonno. Il sole c’era lì per tutti, e l’ombra degli ulivi per mettersi al fresco, e la piazza per passeggiare, e gli scalini della chiesa per stare a chiacchierare, e lo stradone per veder passare la gente e sentir le notizie, e l’osteria per mangiare e bere cogli amici. Poi quando gli sbadigli3 vi rompevano le mascelle, si giocava alla mora, o a briscola; e quando si aveva sonno, c’era lì la chiusa4 dove pascevano i montoni di compare Naso,5 per sdraiarsi a dormire il giorno, o la stalla di comare suor Mariangela quando era notte. – Che non ti vergogni di far questa vita? gli disse alfine il nonno, il quale era venuto apposta a cercarlo colla testa bassa e tutto curvo; e piangeva come un fanciullo nel dir così, tirandolo per la manica dietro la stalla della Santuzza, perché nessuno li vedesse. – E alla tua casa non ci pensi? e ai tuoi fratelli non ci pensi? Oh, se fossero qui tuo padre e la Longa! ‘Ntoni! ‘Ntoni!... – Ma voi altri ve la passate forse meglio di me a lavorare, e ad affannarvi per nulla? È la nostra mala sorte infame! ecco cos’è! Vedete come siete ridotto, che sembrate un arco di violino,6 e sino a vecchio avete fatto sempre la stessa vita! Ora che ne avete?7 Voi altri non conoscete il mondo, e siete come i gattini cogli occhi chiusi. E il pesce che pescate ve lo mangiate voi? Sapete per chi lavorate, dal lunedì al sabato, e vi siete ridotto a quel modo che non vi vorrebbero neanche all’ospedale? per quelli che non fanno nulla e che hanno denari a palate! – Ma tu non ne hai denari, né io ne ho! Non ne abbiamo avuti mai, e ci siamo guadagnato il pane come vuol Dio; è per questo che bisogna darsi le mani attorno,8 a guadagnarli, se no si muore di fame. [...] – Voglio godermi quel po’ di bene che posso tro204

vare, giacché è inutile logorarmi la pelle per niente! E poi? quando avrete la casa? e quando avrete la barca? E poi? e la dote di Mena? e la dote di Lia?... Ah! sangue di Giuda ladro! che malasorte è la nostra! Il vecchio se ne andò desolato, scuotendo il capo, col dorso curvo... 1. Santuzza: Mariangela, la suora laica che gestisce senza scrupoli l’osteria del paese. 2. non abbaiava la notte: l’anziano padron ‘Ntoni soffre di reumatismi per il duro lavoro di pescatore. 3. gli sbadigli: per la noia. 4. chiusa: terreno recintato. 5. compare Naso: il macellaio. 6. un arco di violino: tutto teso per i dolori reumatici. 7. che ne avete?: che cosa ci avete guadagnato? 8. darsi le mani attorno: darsi da fare in ogni modo.

Comprensione A. Metti il brano in rapporto con la trama generale del romanzo: in quale punto ci troviamo? B. Della giornata di ’Ntoni Verga traccia una sintesi che è anche uno stile di vita: in che senso si può affermare ciò? C. A quali valori lo richiama il nonno? D. Quali considerazioni il giovane ’Ntoni oppone al nonno? E. Il brano allude ad alcuni eventi narrati in precedenza: individuali.

Analisi A. A un certo punto, nel brano, emerge il fatalismo tipico della visione verghiana. Dove? Spiega con le tue parole. B. La narrazione sembra scaturire, come sempre in Verga, da un coro di voci. Illustra questo carattere con opportuni riferimenti al testo. C. Che non ti vergogni di far questa vita? gli disse alfine il nonno. Chiarisci la peculiarità dell’uso di quel che iniziale e cercane eventualmente altri nel brano.

Interpretazione A. Metti a confronto le argomentazioni dei due personaggi e rispondi alle seguenti domande. 1. Ti sembrano due visioni conciliabili? 2. Per quale dei due personaggi sembra parteggiare il narratore, se parteggia per qualcuno? 3. Quale importanza acquista, nella discussione, il movente economico?

PROPOSTE DI LAVORO PER L’ESAME DI STATO

L’età contemporanea

Saggio breve 1

Verga verista e la dimensione economica della vita.

Materiali di lavoro Profilo introduttivo • Il «ciclo dei Vinti» e I Malavoglia, 왘 p. 114 • Novelle di campagna, novelle di città, 왘 p. 115 • L’ultimo capolavoro: Mastro-don Gesualdo, 왘 p. 115 • Introduzione ai Malavoglia: Una società arcaica scossa dai primi segni del progresso, 왘 p. 150, e Il significato del romanzo, 왘 p. 151 • Introduzione alle Novelle rusticane: Il tema della «roba», 왘 p. 176 • Introduzione a Mastro-don Gesualdo, 왘 p. 185

Schede • I Malavoglia e la questione meridionale, 왘 p. 170 • Il romanzo della «roba», 왘 p. 193

Testi • Prefazione ai Malavoglia 왘 Testo 7, p. 154 • Le novità del progresso viste da Trezza 왘 Testo 9, p. 167 • L’addio alla casa del nespolo 왘 Testo 10, p. 171 • Gesualdo e Diodata alla Canziria 왘 Testo 12, p. 187 • La morte di Gesualdo 왘 Testo 13, p. 194

La parola al critico Giovanni Pirodda, Dramma della «roba» e dramma familiare Alla storia di Gesualdo è sotteso un proverbio, mai citato esplicitamente nel testo: ‘la roba è il sangue dell’uomo’. Esso genera un complesso di locuzioni, di immagini, di comportamenti: perciò, per esempio, Gesualdo percepisce ogni perdita economica come svenamento, dissanguamento; si tratta di una metafora standardizzata che acquista densità semantica dalla sua espansione sistematica nel testo, e dai suoi rapporti con altri significati. In particolare, il ‘sangue’ è anche la famiglia, secondo una locuzione anch’essa standardizzata che costituisce un altro Leit-motiv del Mastro. Considerando questa rete di immagini, si coglie il complesso di riferimenti

e di rapporti che sono istituiti nel romanzo tra dramma della roba e dramma familiare, e risulta evidente come essa sia la struttura di significati portante dell’opera. G. Pirodda, Le forme narrative del «Mastro-don Gesualdo», in «Problemi», 85, maggio-agosto 1989

Svolgimento A. Evidenzia anzitutto come Verga fosse ben consapevole dell’importanza del movente economico nella vita di una società: l’interesse economico tende a investire ogni momento dell’esistenza dei suoi personaggi, a regolare i loro sentimenti e il loro linguaggio. B. Passando a considerare i testi, comincia rilevando la centralità del motivo economico già nei racconti di Vita dei campi, al livello sociale, cioè più «primitivo». C. Soffermati quindi sulla Prefazione ai Malavoglia (왘 Testo 7) e illustra in essa l’importanza del tema economico, sia come ricerca del «meglio», sia come condanna e maledizione. D. La rovina dei Malavoglia viene simboleggiata dal loro abbandono della casa (왘 Testo 10), che diviene subito l’oggetto del desiderio dei compaesani. E. Il tema economico si sposa nel romanzo con le novità del progresso, osservate con stupore e sospetto dai paesani di Aci Trezza (왘 Testo 9); 왘 anche la scheda a p. 170. F. Il tema della «roba» si fa centrale nelle Novelle rusticane, specie in quella (non antologizzata) intitolata La roba. Procurati il testo e citane alcuni passi, come per esempio: «Quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera per fare la roba». G. Passando al Mastro-don Gesualdo, illustra come alla «roba» Gesualdo subordini le scelte più sacre (i rapporti con i parenti, la propria vita sentimentale, l’educazione e il matrimonio della figlia): 왘 Testo 12, Gesualdo e Diodata alla Canziria, e 왘 la lettura critica di G. Pirodda. H. Alla fine la «roba» prenderà il sopravvento sulla sua vita, o meglio diverrà la sua stessa vita, con l’inevitabile delusione che ne seguirà (왘 Testo 13, La morte di Gesualdo). I. In conclusione, sottolinea come Verga abbia rappresentato, nelle sue opere, tutta la faccia deteriore della «roba»: in ciò egli è stato una vera «coscienza critica» del suo mondo.

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PROPOSTE DI LAVORO PER L’ESAME DI STATO

L’età contemporanea

Relazione 1

La concezione della famiglia in Verga.

A. Puoi partire dalla famiglia Motta, com’è connotata nei ricordi di Gesualdo nel brano Gesualdo e Diodata alla Canziria (왘 Testo 12). Che cosa rappresentava la famiglia per lui, prima di farsi ricco? Esamina: • l’immagine di mastro Nunzio che suonava il deprofundis sulla schiena del figliuolo; • le successive espressioni riferite agli altri componenti: Santo che gli faceva mangiare i gomiti sin d’allora; Speranza che cominciava a voler marito (e dovrà poi sposarsi incinta); la mamma con le febbri, tredici mesi dell’anno!...; • l’immagine sintetica in cui tutto sembra riassumersi: Più colpi di funicella che pane!; • i rancori e le gelosie che in seguito l’arricchimento di Gesualdo provocherà nei suoi parenti e persino in suo padre. B. Un’idea ben diversa comunicava la famiglia Toscano all’inizio dei Malavoglia, una famiglia unita come le dita della mano (왘 p. 159). Illustra il modo in cui, nei Malavoglia, si presenta l’idea (o l’ideale) di famiglia e come esso evolve di fronte alla dura realtà. C. Verifica anche in altri testi di Verga la presenza dell’elemento familiare: per esempio, in che modo esso viene connotato nella novella La Lupa? D. Proponi le tue considerazioni conclusive • sulla centralità, nel mondo verghiano, dell’istituzione-famiglia; • sulle difficoltà che essa attraversa di fronte alle trasformazioni sociali in atto. Svolgi l’argomento in una relazione di circa 2 facciate di foglio protocollo (3500-4000 battute).

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Verga e gli umili.

Prendi in esame la novità rappresentata da Verga, il quale non si rivolge più al mondo delle classi inferiori con gli atteggiamenti paternalistici, tipici della precedente letteratura «borghese». Infatti, nella sua ottica, non ci può essere nostalgia per una civiltà contadina che scompare, perché anche all’interno di essa, come in ogni altra, agisce inevitabilmente la legge del progresso e dell’evoluzione, che prevede l’eliminazione dei più deboli e dei diversi. Puoi seguire questa traccia. A. Che cos’è il «paternalismo»? B. Quali autori e opere di tua conoscenza esprimono questo atteggiamento? C. Verga e i «vinti»: questo tema emerge, in parte, anche nelle opere giovanili?

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D. L’atteggiamento dello scrittore è quello della compassione o della testimonianza? Perché? E. Illustra i modi in cui nell’opera di Verga matura la sconfitta dei «vinti». Svolgi l’argomento in una relazione di circa 2 facciate di foglio protocollo (3500-4000 battute).

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Verga e Manzoni.

Metti a confronto la narrativa di Verga e I promessi sposi manzoniani, soffermandoti in particolare sui seguenti punti e facendo gli opportuni riferimenti ai testi letti. A. Manzoni racconta dando spazio all’intervento diretto dell’autore nell’opera; invece nella produzione giovanile di Verga si lascia parlare un autore-narratore che è compartecipe della vicenda, mentre nelle opere «veriste» della maturità chi racconta è un personaggio-narratore, individuale o collettivo, non esplicitamente identificato. B. Viene inoltre trasformato profondamente anche il modo in cui la Storia interviene nella narrazione: nell’opera verghiana le vicende storiche sono poste su uno sfondo lontano e nebuloso, e nella vicenda narrata non compare l’azione della Provvidenza divina, che nei Promessi sposi non solo viene a dare risoluzione alle vicissitudini dei due protagonisti, ma prospetta anche, più in generale, il significato e le finalità delle vicende individuali e sociali. Svolgi l’argomento in una relazione di circa 2 facciate di foglio protocollo (3500-4000 battute).

Articolo 1

La ricostruzione delle vicende storiche non era il principale obiettivo di Verga; i suoi non sono romanzi «storici», benché sia nei Malavoglia sia nel Mastro-don Gesualdo, come in molte novelle, si riflettano i fatti della storia, piccola e grande, visti dalla particolare angolatura siciliana. Sviluppa tale argomento in forma di articolo per una rivista di storia e cultura.

Puoi seguire questo schema: • atteggiamento generale di Verga verso la realtà sociale e politica dell’Italia contemporanea; • episodi storici che si riflettono nei Malavoglia; • episodi storici che si riflettono nelle novelle; • episodi storici che si riflettono nel Mastro-don Gesualdo; • in che modo l’autore si pone nei confronti della storia? Come cronista, come giudice, come testimone o in quale altra veste? Rispondi citando episodi e personaggi specifici, con opportuni riferimenti ai testi letti.

Tralocuzioni Le grammatica idiomatiche e linguistica

Preposizioni di ieri, preposizioni di oggi

Le preposizioni nel latino classico Nella lingua latina le preposizioni esistevano, ma erano meno sviluppate di quanto non lo siano oggi in italiano. Infatti, in latino, i rapporti tra le parole erano resi mediante i casi della declinazione: per esempio, MAGISTER SCHOLAE “il maestro della scuola”; la preposizione italiana della viene sostituita dalla desinenza –AE propria del caso genitivo. Talora si ricorreva a un uso combinato di preposizioni e di casi: per esempio, REDEO IN PATRIAM “ritorno in patria”, dove troviamo sia la preposizione IN (rimasta inalterata in italiano) sia la desinenza –AM del caso accusativo. Questo uso (preposizione + desinenza) si affermò via via sempre di più già nel latino classico, fino a quando, come vedremo, nel latino parlato rimarranno solo le preposizioni e scompariranno i casi.

I casi e le declinazioni fonte di ambiguità Il sistema dei casi non era però perfetto. Per esempio, spesso una stessa desinenza rappresentava più funzioni: SCHOLAE è genitivo singolare (= della scuola), ma è anche dativo singolare (= alla scuola), nominativo plurale (= le scuole, soggetto) e vocativo plurale (= o scuole!). In altri casi la distinzione era affidata alla vocale lunga o breve (questa ˘ con distinzione era tipica del latino classico): ROSA la A˘ breve era la forma del nominativo singolare (= ¯ lunga, invece, era ¯ con la A la rosa, soggetto); ROSA la forma dell’ablativo singolare (= con la rosa). Certo, il contesto della frase dirimeva poi i dubbi e aiutava ad attribuire il giusto significato a ciascuna desinenza; ma il fatto che una medesima forma potesse avere due o più valori costituiva in ogni caso una possibile fonte di ambiguità, specialmente quando il contesto non aiutava sufficientemente.

Dal latino classico al latino parlato Tale situazione peggiorò di molto quando si af-

fermò il latino parlato (il sermo vulgaris) e regredì il latino classico. Si produssero allora due fenomeni: a. la caduta delle consonanti finali, cosa che rese, di fatto, irriconoscibili le desinenze; b. la fine della distinzione tra vocali brevi e vocali lunghe. A quel punto si pronunciava ROSA ma per inten˘ (= la rosa, soggetto) sia ROSA ¯ (= con dere sia ROSA la rosa) sia ROSAM (-AM era la desinenza dell’accusativo, il caso del complemento oggetto). Si produsse così un vero e proprio collasso della morfologia. Quindi, per segnalare le funzioni prima indicate dai casi, la lingua (cioè il latino parlato, che si apprestava a trasformarsi nelle varie lingue romanze) ricorse a due mezzi: a. indicò con le preposizioni tutti quei complementi che, nel latino classico, erano indicati soltanto con i casi; per esempio: MAGISTER SCHOLAE (latino classico) ➔ MAGISTRO DE SCHOLA (latino volgare) ➔ il maestro della scuola (italiano); b. indicò con la sola posizione il soggetto e il complemento oggetto: il soggetto precede il verbo, il complemento oggetto lo segue; quindi: MARCUS CECILIAM AMAT (latino classico) ➔ MARCU CECILIA AMA (latino volgare) ➔ Marco ama Cecilia (italiano). Anche la sintassi dunque si rinnovò: si affermò infatti l’ordine diretto «soggetto + verbo + complemento oggetto».

L’evolversi delle preposizioni Il passaggio dal latino classico al latino volgare (e alle lingue romanze) favorì non solo la diffusione di preposizioni già esistenti, ma anche la nascita di nuove preposizioni e, parallelamente, la caduta di vecchie forme. • Diverse preposizioni latine si conservarono (tra queste: AD, DE, CUM, CONTRA, IN, SUPRA ecc.), mentre altre si persero (come AB, APUD, ERGA, OB, PRAE, PRO, PROPTER). • Tra le preposizioni di nuova formazione, ebbero grande diffusione DE + AB ➔ da, AD + ANTE ➔ 207

EDUCAZIONE LINGUISTICA

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Scheda

LE NORME E L’USO

avanti, DE + INTRO ➔ dentro, DE + RETRO ➔ dietro, DE + POST ➔ dopo, IN + ANTE ➔ innanzi. • Infine, alcune preposizioni italiane si svilupparono a partire da avverbi latini (queste due categorie spesso si sovrappongono nella storia delle lingue): per esempio gli avverbi SUBTUS e FORIS, propri del latino classico, si evolvettero nelle forme italiane sotto e fuori, che possono essere sia avverbi sia preposizioni.

Le preposizioni nell’italiano contemporaneo L’evoluzione delle preposizioni non è affatto cessata nell’italiano di oggi. Esso tende a modificare l’uso di diverse preposizioni, specie nella lingua parlata e nei linguaggi più vicini a quest’ultima, come il linguaggio dei giornali. In particolare: • la preposizione a tende a espandersi a danno di con e di altre preposizioni; per esempio: letto a scomparsa, precipitazioni a carattere nevoso, zona vincolata a verde, basta agli sprechi, abito a Corso Ro-

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ma; inoltre tende a essere usata con valore locativo in luogo di in: abito a via Rossi (invece di abito in via Rossi), oppure L’avvocato è a studio invece di ... è in studio; • la preposizione da mostra nell’italiano contemporaneo tutta la gamma dei valori locativi: può indicare il moto da luogo (Vengo da Arezzo), che è poi il suo valore originario, lo stato in luogo (Sono a cena da amici), il moto a luogo (Vado dal giornalaio), il moto per luogo (Sono passato dal centro); • si diffonde anche, in determinati contesti, la preposizione su; per esempio: si riaprono le trattative sull’ok del governo (linguaggio burocratico-politico); segnare su rigore (linguaggio sportivo); vendite diffuse sui titoli finanziari (linguaggio della Borsa); • nel linguaggio burocratico si allarga l’uso di circa; per esempio: i giocatori si dichiarano d’accordo circa la ripresa degli allenamenti. In un’ottica grammaticale molti di questi fenomeni sono da considerarsi «errori». Ma, come teorizzò il linguista svizzero Henry Frei (nel suo saggio La grammatica degli errori), gli «errori» di oggi preannunciano i caratteri che la lingua assumerà domani.

LE NORME E L’USO

1 Sostituisci la preposizione sottolineata in modo da ottenere un significato diverso, come nell’esempio.

per Roma. a. La zia è partita solo un’ora fa da (............) b. La lettera era spedita dal (............) Comune. c. Dimmi se ti piace il regalo di (............) Noemi. d. La signora Iris vive da (............) sua figlia. e. Sul tavolo ho posato un bicchiere da (............) vino. f. Sono tornata in (............) tempo. g. Il libro che mi aveva regalato era su (............) Verga.

2 Completa le frasi con le preposizioni semplici e articolate adatte, come nell’esempio.

da quando hai in casa ............ a. Non c’è più pace ............ deciso di partire. b. Torneremo ............ poco, ma tu fatti trovare ............ casa. c. Attento ............ pneumatici: fanno scherzi ............ quali bisogna avere paura. d. Partiremo dalla stazione ............ Torino ............ un treno Intercity.

h. Per favore, metti i miei quaderni sotto (............) il banco.

e. Non dobbiamo lasciarci influenzare ............ xenofobi, ma piuttosto considerare la realtà ............ problemi drammatici ............ immigrati.

i. Una tovaglia stesa è caduta sul (............) terrazzo della vicina.

f. L’economia italiana è ritardata ............ sprechi politici e ............ evasione fiscale ............ disonesti. g. Ti sto aspettando ............ un’ora! Sei forse andato ............ casa ............ mia cugina? h. ............ spazio antistante la caserma c’era l’auto ............ capitano. i. Passeggiando ............ gli alberi vidi un’aquila che aveva fatto il nido ............ una grande roccia.

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Tra grammatica e linguistica

La «capacità» del pronome

Sostituire e richiamare I pronomi (“parole che sostituiscono i nomi” o altra parte del discorso, come aggettivi e verbi, e persino un’intera frase) consentono di designare qualcuno o qualcosa senza nominarli direttamente: la loro funzione fondamentale è dunque quella della sostituzione. Con un pronome possiamo richiamare più volte cose o persone nella stessa frase, evitando quindi fastidiose ripetizioni. Per esempio: Ho lasciato il libro a scuola; mi presti il tuo libro? («tuo» qui è aggettivo) Ho lasciato il libro a scuola; mi presti il tuo? («tuo» qui è pronome) L’uso di alcuni pronomi può creare qualche difficoltà: esaminiamo le più frequenti.

I pronomi personali • I pronomi personali lui, lei, loro si usano solo per indicare persone: Abbiamo incontrato gli insegnanti e abbiamo discusso con loro. • Riferendosi a cose o animali si usano i pronomi esso, essa, essi, esse: Amo i libri: con essi non mi sento mai sola. • Se il pronome di 3a persona coincide con il soggetto della frase, si deve usare sé: Mara porta l’Ipod sempre con sé. • Gli si usa solo per il maschile, perché vuol dire a lui: Ho parlato al prof e gli ho esposto la richiesta. • Per il femminile (a lei) è errato usare gli; si deve usare obbligatoriamente le: Ho parlato alla prof e le ho esposto la richiesta. • Per il plurale (a essi, a esse) si deve usare loro, che va però collocato dopo il verbo: Ho parlato ai prof e ho esposto loro la richiesta.

I pronomi possessivi Riguardo ai possessivi di 3a persona, occorre tenere presente che: • suo, sua, suoi, sue si usano per indicare il possesso riferito alla 3a persona singolare: Ci sono cellulari di ogni tipo: ogni ragazzo ha i suoi (singolare).

• loro si usa per indicare il possesso riferito alla 3a persona plurale: Qui ci sono i miei disegni, là ci sono i loro (plurale). • proprio può sostituire suo, sua, suoi, sue, loro quando chi possiede è anche soggetto della frase, oppure quando il soggetto è impersonale o indefinito: Viola ha portato la sua racchetta, Marco ha dimenticato la propria. Non badate agli sbagli altrui, ciascuno pensi ai propri.

I pronomi relativi • Per i pronomi relativi che e il quale si può usare indifferentemente l’una o l’altra forma solo quando il pronome ha funzione di soggetto: Vincerà la squadra che farà più punti. Oppure: Vincerà la squadra la quale farà più punti. • È invece obbligatorio usare che quando il pronome ha la funzione di complemento oggetto: Sono belli i fiori che mi hai regalato. • Nelle frasi che possono creare ambiguità conviene usare il quale: Mi ha cercato la cugina di Marco, che vive a Trieste. (chi vive a Trieste? Marco o la sorella?) Mi ha cercato la cugina di Marco, la quale vive a Trieste. • Il relativo che va usato soltanto quando ha funzione di soggetto o di complemento oggetto (La cugina che hai visto vive a Trieste). Negli altri casi vanno usate le forme a cui, di cui, al quale, del quale. Perciò è sbagliato dire o scrivere: La cugina che ti ho parlato vive a Trieste. La forma corretta è: La cugina di cui ti ho parlato vive a Trieste.

La polivalenza del pronome e le possibili ambiguità Come si accennava, la capacità sostitutiva del pronome riguarda non solo il nome, ma anche altre parti del discorso: gli aggettivi (Oggi il cielo è sereno, ma ieri non lo era), i verbi (Aveva studiato e lo dimostrò nella verifica) e anche intere frasi (È atterrato l’aereo? Non lo so). Inoltre in molti casi il significato 209

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del pronome dipende soltanto dal contesto linguistico (Conosco Laura, ma non la sento da tempo) o extralinguistico (Prendi questo!: la frase presuppone un gesto del parlante). Dalla polivalenza del pronome dipendono casi d’incertezza interpretativa. Per esempio, se dico Lapo esce con Elisa; quella sì che è una bella ragazza!, quella si riferisce di certo a Elisa. Invece Simona esce con Elisa; quella sì che è una bella ragazza! è una frase ambigua, che si può interpretare con certezza solo se la si accompagna con un gesto: indice puntato, un cenno del capo ecc. Un altro esempio. Se dico: Dammi questo!, il pronome maschile è un’indicazione generica e può creare ambiguità se intendo Dammi questa penna o un altro oggetto femminile. In un discorso scritto non è però possibile ricorrere a gesti o ad additamenti chiarificatori. Dunque, quando si usa un pronome, è necessario identificar-

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1 Sottolinea gli eventuali errori nelle frasi e correggili. a. Quello è il cane che mi ha morso. .................................. ........................................................................................... b. L’altimetro è uno strumento sul quale misura l’altitudine. ........................................................................ ........................................................................................... c. Ti presento la mia fidanzata, che ti ho parlato. ............. ........................................................................................... d. Oggi si usano dei pesticidi che sono dannosi per le coltivazioni. ...................................................................... ........................................................................................... e. Uso sempre la penna che tu mi hai regalato. ................ ........................................................................................... f. Il commercialista con cui mi rivolgo è un vero esperto in problemi fiscali. ............................................................ ........................................................................................... g. A Giorgio, che gli piace il tennis, ho regalato una racchetta nuova. .............................................................. ........................................................................................... h. La ragazza che stavo parlando è mia cugina. .............. ........................................................................................... i. La mia amica che sto scrivendo abita a Parigi. ............. ........................................................................................... l. Questa camicia la quale indosso è stata fatta da mia madre. .............................................................................. ........................................................................................... 210

lo in modo univoco con la realtà a cui esso si riferisce. A tale scopo si possono utilizzare alcuni strumenti formali. • In primo luogo, la concordanza sintattica secondo il genere e il numero: Li ho guardati in viso e hanno abbassato gli occhi. • Talora, per distinguere due persone o cose, localizzandole con precisione nel discorso, si usa la contrapposizione questo/quello: nella frase Rita lavora con Gianna: questa è medico mentre quella è infermiera, il pronome questa vale “il più vicino nel contesto”, cioè Rita, mentre quella vale “il più lontano nel contesto”, cioè Gianna. • Altre volte si oppone un sostantivo «umano» a un sostantivo «non umano»: Il veterinario e il gatto si guardano; egli lo teme non è la stessa cosa che Il veterinario e il gatto si guardano; esso lo teme. Infatti egli è il veterinario, mentre esso è il gatto.

2 Sostituisci le forme invariabili del pronome relativo con quelle variabili (il quale / la quale, i quali / le quali), in modo da evitare ambiguità nella comprensione. a. Aldo mi presterà le scarpe di suo fratello, con cui disputerò la finale del torneo. ........................................................................................... ........................................................................................... b. L’enciclopedia multimediale di papà, con cui ho preparato la relazione, è fornita di dati molto aggiornati. ........................................................................................... ........................................................................................... c. Abbiamo conosciuto il ragazzo di Maria, con cui ci rivedremo alle gare di nuoto quest’inverno. ........................................................................................... ........................................................................................... d. Il cugino di Rossella, a cui devo il merito del nostro incontro, è un po’ un orso. ........................................................................................... ........................................................................................... e. Ricordo ancora i consigli di mia madre, grazie a cui sono riuscito a evitare troppi errori e stupidaggini. ........................................................................................... ...........................................................................................

Tra grammatica e linguistica

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Il «che» polivalente e l’italiano informale

I molteplici usi di che Il che è una delle parole più utilizzate del lessico italiano. Ricapitoliamo i suoi vari usi. a. Che può essere un pronome relativo: Il libro che (il quale) è sul tavolo è mio. b. Un pronome e aggettivo interrogativo o esclamativo: Che [pronome] hai? Che [aggettivo] titolo scegli? Che [pronome] ci tocca fare!. c. Una congiunzione subordinante che introduce più tipi di frasi subordinate: Ho un’idea, che ce la farò [dichiarativa]; Dicono che vai via [oggettiva]; Si dice che verrai qui [soggettiva]; Mi fermo qui, che sono stanca [causale]; È così stanco che non riesco a svegliarlo [consecutiva]; Ti ho chiesto che giornale vuoi [interr. indiretta]. d. Un elemento di locuzioni congiuntive subordinanti: Prima che arrivassi tu, ci si annoiava; Se ne andò senza che nessuno l’avesse salutato.

L’uso (e l’abuso) del che Molto spesso, nell’italiano parlato e popolare, questo che «multiuso» viene impiegato in modo improprio. Leggiamo qualche esempio.

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1. Manuel è uno che [= di cui] ci si può fidare. 2. È lui il tipo che gli [= a cui, al quale] hanno rubato il cellulare. 3. Stoccolma è una città che [= in cui, nella quale] fa un sacco di freddo. 4. Ci parliamo dopo che [= perché] adesso non posso. 5. Ha chiamato che [= quando] tu eri appena uscito. Nelle frasi 1, 2, 3 il che è errato e va sostituito con la forma analitica del pronome relativo (il quale, del quale, a cui ecc.) o con una congiunzione specifica (perché, quando). Soltanto le frasi 4 e 5 potrebbero essere accettate nella lingua scritta. Questo abuso del che informale non sorprende: rientra nella più generale tendenza dei parlanti a utilizzare un solo mezzo di collegamento, universale e generico. La semplificazione è un fenomeno tipico del linguaggio parlato; si pensi all’uso dei pronomi personali lui, lei, loro sia come oggetto sia come soggetto, in frasi come Lui non è d’accordo; Loro arrivano domani. Ritornando al che, è opportuno sostituirlo con forme più corrette laddove con queste ultime si possono indicare più precisamente i rapporti sintattici tra le frasi.

LE NORME E L’USO

1 Correggi l’uso errato del che, scrivendo la forma corretta. Attenzione: non tutte le frasi contengono errori. a. Sto guardando il libro il quale tu hai appena comprato. ........................................................................................... b. Dal giorno che ci siamo incontrati è nata una grande amicizia. ...........................................................................

g. Non sapevo che la ragazza con che ho ballato fosse già fidanzata. .................................................................... h. È oggi che dobbiamo andare a teatro? ........................................................................................... i. Marco è il solo che gli piacciono i fagioli. ...........................................................................................

c. Penso che torneremo tardi. .............................................

l. Si è messo in una posizione che non lo vedo. ...........................................................................................

d. Voglio vedere quel film che ne hanno detto meraviglie. ...........................................................................................

m.Prendo la valigia che ci ho messo i libri. ...........................................................................................

e. Sono arrivati i ragazzi che gli abbiamo parlato. ...........................................................................................

n. È l’unica che riesca a battere i maschi. ...........................................................................................

f. È quel mio amico che gli hanno rubato il portafoglio. ...........................................................................................

o. È questo il pulsante che si spegne la TV? ........................................................................................... p. È un’ora che ti aspetto. .................................................... 211

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Tra grammatica e linguistica

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LE NORME E L’USO

I valori dell’aggettivo

Dal Preambolo di Svevo Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli di ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora. Abbiamo letto l’inizio del Preambolo che apre La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Dieci parole di questo testo sono definite aggettivi dalla morfologia, ovvero: mia, dieci, miei, presbiti, ogni, vere, alte, miei, qualche, mia. Quale funzione comune essi esercitano?

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Aggettivi qualificativi e aggettivi determinativi L’aggettivo (dal latino adiectivum = “che è aggiunto”) è presentato nelle grammatiche come la parte variabile del discorso che si accompagna al nome, per precisarne una qualità (aggettivi qualificativi) oppure per indicarne alcuni aspetti (aggettivi determinativi o indicativi). Nel brano di Svevo, gli aggettivi «qualificativi» sono presbiti, vere e alte: tutti e tre aggiungono ai nomi (rispettivamente: occhi e montagne) delle qualità, degli attributi. Gli altri aggettivi svolgono una funzione differente: indicano una relazione di possesso (mia, miei, entrambi ripetuti due volte), una quantità (dieci), oppure lasciano nel vago le caratteristiche del nome (ogni, qualche: aggettivi indefiniti). Tutti questi sono detti, dai linguisti, aggettivi «determinativi».

Prima o dopo il nome Questa classificazione appare però incompleta. Per esempio, un aggettivo qualificativo può trovarsi sia prima (vere alte montagne) sia dopo il nome (occhi presbiti). Nel primo caso, serve a descriverlo, cioè ad assegnargli una qualità; nel secondo caso, serve a individuarlo, cioè a identificarlo tra oggetti o situazioni possibili. Paragoniamo due usi diversi di uno stesso aggettivo. 212

a. La dolce espressione di Elisa ha conquistato Lapo. b. Avere un’espressione dolce è normale per Elisa. Nel caso a. all’espressione di Elisa è attribuito un aspetto (la dolcezza), senza contrapporlo ad altri possibili aspetti. Nel caso b., invece, si pone proprio un implicito confronto: l’espressione tipica di quella persona è dolce, e non triste, oppure severa, o spensierata ecc. Collocare l’aggettivo dopo il nome significa, in sostanza, privilegiarlo rispetto ai suoi possibili «concorrenti»: chi parla ritiene che quell’aggettivo, e non un altro, può identificare ciò di cui si sta parlando. Invece l’aggettivo posto prima del nome ha un valore, in genere, di ornamento, di elemento aggiunto, meno importante rispetto al significato generale. Inoltre, in alcuni casi, uno stesso aggettivo può mutare il significato a seconda che si trovi prima o dopo il nome: per esempio pover’uomo significa un uomo mediocre (sul piano intellettivo, delle capacità ecc.), mentre uomo povero significa che è privo di mezzi materiali.

Il ruolo dell’aggettivo in una narrazione E in una narrazione letteraria, quale ruolo rivestono gli aggettivi? A prima vista, del tutto secondario: ben altri sono gli elementi essenziali di un racconto, quelli che non si potrebbero cancellare senza distruggere lo schema narrativo. Infatti, dovendo riassumere in poche parole la trama di un film o di un romanzo, usiamo quasi solo verbi e nomi, i segni linguistici più vicini all’essenzialità dei fatti. Tralasciamo invece gli aggettivi, percepiti come una specie di «lusso» della narrazione, perché riguardano i dettagli, non i fatti. Le cose però non sono così semplici. Alcune storie si imprimono nella nostra memoria più per certi dettagli che non per la trama, intesa come una sorta di riassunto schematico. E poi, quali sono i dettagli in un racconto? Che cosa possiamo considerare necessario e che cosa superfluo? Specie nei testi letterari, bisognerà giudicare caso per caso, in modo flessibile.

In apertura di Madame Bovary (1857), Flaubert descrive così il protagonista Charles: Il “nuovo”, un giovane e robusto campagnolo d’una quindicina di anni circa, alto di statura più di ognuno di noi, rimaneva in un angolo dietro la porta, di modo che lo vedevamo appena. Aveva i capelli tagliati diritti sulla fronte, come un chierichetto di paese: sembrava assennato e molto intimorito. Benché non avesse le spalle larghe, dava l’impressione che la giacchetta di panno verde con i bottoni neri lo stringesse sotto le ascelle; gli spacchi dei risvolti delle maniche lasciavano vedere i polsi arrossati a furia di rimanere scoperti. Le gambe calzate di blu sbucavano da un paio di pantaloni giallastri sostenuti con troppa energia dalle bretelle. Portava scarpe chiodate robuste e mal lucidate. (trad. di B. Oddera)

Il passo vuole presentarci un personaggio importante della storia, e quindi ha una sua funzione informativa. Tuttavia, sullo stretto piano dei «fatti», Flaubert ci dice poco o nulla: sembra indugiare sul suo personaggio più a lungo di quanto non sia necessario. Concentra l’attenzione (e chiede al lettore di fare altrettanto) su numerosi dettagli, in particolare su note di colore. Era davvero importante dire (e leggere) che Charles ha una giacchetta verde con bottoni neri, e delle calze blu che escono dai pantaloni giallastri? Nulla obbligava Flaubert a queste specificazioni: e allora, perché ha voluto farle? La risposta è che questi aggettivi producono un «effetto di realtà». Li possiamo chiamare aggettivi referenziali, perché ci mettono davanti a qualcosa che «è così», come in una fotografia. Grazie a essi Flaubert riesce a creare un senso fortissimo di

realtà e non solo grazie a essi: numerosi dettagli sono infatti espressi non da aggettivi, ma da nomi, complementi, proposizioni subordinate; per esempio calzate di blu è una subordinata che mette in luce un dettaglio. A ben vedere, tutto il periodo a cui essa appartiene è un dettaglio. Anche nomi, complementi, frasi possono svolgere una funzione aggettivale, perché si aggiungono a qualcosa per specificarlo meglio, proprio come fa l’aggettivo.

Fitzgerald e l’aggettivo metaforico Altri scrittori, diversamente da Flaubert, prediligono un uso antireferenziale degli aggettivi. Ecco come Francis Scott Fitzgerald comincia il romanzo Tenera è la notte (1934): Sulla bella costa della riviera francese, a mezza strada tra Marsiglia e il confine italiano, sorge un albergo rosa, grande e orgoglioso. Palme deferenti ne rinfrescano la facciata rosata, e davanti ad esso si stende una breve spiaggia abbagliante. (trad. di F. Pivano)

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Flaubert e l’aggettivo referenziale

■ Paul Cézanne, Il lago di Annecy (1869).

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La descrizione tratta dal romanzo di Fitzgerald ci dà certamente alcune informazioni, ma non è una semplice «fotografia» informativa. L’albergo viene descritto con tre aggettivi: rosa, grande e orgoglioso; i primi due sono aggettivi referenziali, ma il terzo, orgoglioso, no. Qui non c’è più descrizione, ma un effetto del tutto diverso: siamo davanti a un’immagine, una metafora. Fitzgerald trasferisce sull’edificio una qualità prettamente umana, così come fa poco dopo per le palme deferenti. In sintesi, questi due aggettivi sono antireferenziali e metaforici.

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1 Leggi l’incipit di Moby Dick (1857) di Herman Melville, poi svolgi gli esercizi.

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Ishmael – chiamatemi così. Alcuni anni fa – quanti, esattamente, non importa – trovandomi al verde o quasi, senza che nulla a terra destasse in me particolare interesse, mi venne voglia di andarmene un po’ per mare a vedere la parte equorea del globo. Un modo tutto mio di scacciare lo spleen e normalizzare la circolazione. Appena avverto che l’amarezza mi storce la bocca; appena mi s’insinua in cuore un novembre umido e piovoso; appena mi capita di sostare senza volerlo davanti a un deposito di casse da morto e di accodarmi al primo funerale che incontro; appena, soprattutto, cado talmente in preda a umori ipocondriaci da dovermi appellare a un forte principio morale per non piazzarmi deciso in strada a far volare metodicamente il cappello dalla testa dei passanti – mi rendo subito conto che è tempo di prendere il mare al più presto. È la mia alternativa a una palla di pistola. Catone, con un filosofico svolazzo, si scaglia sulla propria spada; io mi trovo un imbarco, lemme lemme. Nulla di sorprendente, in questo. Magari non lo sanno, ma tutti, più o meno, nutrono prima o poi nei confronti dell’oceano, ciascuno a suo modo, i miei stessi sentimenti. (trad. di R. Bianchi)

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Tra i vari tipi di aggettivo finora considerati, questi sono i più superflui: non dicono cose, non producono un senso di realtà. Ciò malgrado, orgoglioso e deferenti posseggono un alto valore informativo. Se grande e rosa ci dicono come è l’albergo dall’esterno, l’aggettivo orgoglioso gli attribuisce un significato soggettivo, dal punto di vista interiore di chi lo guarda. Tutta la descrizione è finalizzata a parlare di questo albergo così orgoglioso: e noi non potremo più considerarlo un aggettivo superfluo, un «lusso» della narrazione.

a. Sottolinea nel brano tutti gli aggettivi qualificativi. b. Ora rintraccia tutti gli aggettivi determinativi e ripartiscili in base alla loro categoria. • identificativi (stesso, medesimo): ................................. • possessivi: ..................................................................... • indefiniti: ........................................................................ • interrogativi ed esclamativi: ........................................ c. Ritrova tutti gli aggettivi posti dopo il verbo. Spiega in breve per ciascuno quale tipo di confronto propongono. ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... d. Quali aggettivi presenti nel brano puoi considerare referenziali? Il loro elenco ti suggerisce qualcosa? ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... e. Rilevi nel brano alcuni usi metaforici dell’aggettivo? Spiega in breve in che senso. ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ...........................................................................................

Raccordo Giosue Carducci

1

La vita 1835

1856

1860

1877 1887

1906

1907

nasce a Valdicastello (Lucca)

si laurea a Pisa

insegna letteratura all’Università di Bologna

pubblica Odi barbare e Rime nuove

riceve il premio Nobel per la letteratura

muore a Bologna

La formazione e l’insegnamento ■ Carducci nacque a Valdicastello, un paese della Versilia toscana, nel 1835. Trascorse l’infanzia a Bolgheri, in Maremma, dove il padre Michele era medico condotto; da lui ereditò la passione patriottica per l’Italia. A quattordici anni si trasferì a Firenze, dove frequentò il ginnasio alla scuola dei padri Scolopi. Passò poi (1853) a Pisa e qui, nel 1856, si laureò in lettere alla Scuola Normale Superiore. ■ Intraprese a questo punto (1856-57) la carriera dell’in-

segnamento nel ginnasio di San Miniato al Tedesco (Pisa). Cominciò intanto a scrivere versi e anche a collaborare alle edizioni dei poeti classici dell’editore Barbèra di Firenze. Nel 1859 sposò la cugina Elvira Menicucci. ■ Nel 1860 venne chiamato dal ministro Mamiani della Rovere a insegnare eloquenza (letteratura italiana) all’Università di Bologna. Tenne tale cattedra per quasi mezzo secolo, svolgendo una lunga attività di filologo e critico, e creando intorno a sé una vasta scuola di allievi, tra i quali si ricorda il poeta e critico Severino Ferrari. 215

Tra Ottocento e Novecento

La poesia, la politica, la vita privata ■ Dopo i versi di Giambi ed epodi (1867-79), Carducci allargò i propri interessi culturali al panorama europeo; intanto mitigava le sue opinioni più radicali in campo politico e ideologico, quelle che gli avevano suggerito nel 1863 l’Inno a Satana. Accolse sia l’idea del Regno d’Italia sia la monarchia sabauda; nel 1878 incontrò la regina Margherita, a cui dedicò una lirica. Accettò anche la funzione civilizzatrice della chiesa cattolica. Nel 1870 gli morì il figlioletto Dante. Nel 1871 strinse una relazione prima epistolare, poi amorosa con Carolina Cristofori Piva, moglie di un ufficiale, che cantò con lo pseudonimo classicheggiante di «Lidia».

2

■ Componeva intanto le grandi raccolte della maturità, Rime nuove (1861-87) e Odi barbare (1873-89; la prima edizione è del 1877), nelle quali assunse il ruolo di poeta «vate» della giovane nazione italiana. La sua vita privata scorreva tra alti e bassi; nel 1890 intrecciò una nuova relazione sentimentale con la poetessa mantovana Annie Vivanti. In quello stesso anno accettò la nomina a senatore del Regno, scatenando le proteste dei suoi ammiratori repubblicani. In seguito divenne un aperto sostenitore della politica coloniale e autoritaria di Crispi. Colpito da apoplessia nel 1904, dovette lasciare l’insegnamento. Nel 1906 l’Accademia di Svezia gli conferì il premio Nobel per la letteratura. Morì nel 1907 nella sua casa di Bologna.

La poetica

legame con la tradizione classica ◗ poeta «artiere» ◗ metri «barbari» (in Odi barbare)

nostalgia verso la sanità morale degli antichi

◗ polemica con l’età presente



CLASSICISMO di Carducci

funzione civile della letteratura

giudicato troppo sdolcinato e poco propositivo

◗ poeta-vate

MA talora si avvicina ai parnassiani francesi: ◗ per le raffinatezze di stile ◗ per il senso di tedio

La scelta del Classicismo ■ La poetica carducciana è segnata da una scelta di fondo a favore del Classicismo e contro il Romanticismo. In Congedo, l’ultima poesia di Rime nuove, egli si raffigurò come il «grande artiere» (artigiano, in senso nobile) che tempra al fuoco del suo crogiuolo, ossia della sua arte, il passato e l’avvenire, le glorie civili e le memorie personali. Per sé il poeta chiede la gloria di lanciare uno «strale d’oro» contro il sole, per carpirgli un po’ di luce. Il compito dell’arte, dunque, è duplice: • far rivivere la grande tradizione poetica del passato, spronando la nazione ai valori e agli ideali collettivi; 216

rifiuta il ROMANTICISMO

MA riprende dai romantici: ◗ amore per la natura ◗ amore per la storia ◗ amore per la libertà

• ritagliarsi un angolo di gloria personale (lo «strale d’oro»); anche questa idea della fama poetica, che dà luce al tempo che passa, è profondamente «classica». ■ A questa scelta fondamentale per il Classicismo obbedì tra l’altro l’originale scelta metrica delle Odi barbare: nei versi di questa raccolta poetica sono assenti le rime e i versi della tradizione italiana, a favore invece di versi e ritmi nuovi, che imitano gli antichi metri grecolatini: peraltro, a un orecchio antico, essi suonerebbero come «barbari», cioè stranieri (E scheda a p. 217). ■ Tale culto della classicità era ispirato, in Carducci, da un sentimento leopardiano, ovvero dalla nostalgia ver-

Gli elementi romantici ■ In realtà dai romantici, specie dai romantici italiani e da Manzoni, Carducci riprese non pochi spunti: • l’amore per il reale, cioè per la natura e per la storia (specialmente per la storia medievale: E Il comune rustico, Testo 4, p. 226); • la tensione alla libertà, in senso politico e morale. Schiettamente romantici appaiono alcuni dei momenti più noti di Carducci, Rime nuove, intonati alla confessione intima e al ricordo della Maremma dell’infanzia. A tale proposito, sono famose le liriche Traversando la Maremma toscana (E Testo 3, p. 224), un intenso autoritratto poetico, e Davanti San Guido, che oppone il mito della natura vergine a città e civiltà. ■ Altri elementi, come la sofferta meditazione sul contrasto fra ideale e reale, fra vita e morte (emblematico è il componimento Pianto antico (E Testo 2, p. 222), dedicato alla memoria del figlioletto Dante), o come il

sentimento del perenne fluire del tempo, ci riportano invece agli amati modelli classici e, più in generale, alla tradizione poetica del passato.

L’avvicinamento al Simbolismo e Carducci prosatore ■ Soprattutto in alcune Odi barbare Carducci seppe presagire le raffinate novità dei nuovi poeti simbolisti e parnassiani, con il loro grigio senso di disfacimento e di tedio (Alla stazione in una mattina d’autunno). La leggerezza di parola conquistata in Nevicata (E Testo 6, p. 232) o in Presso una Certosa sembra portare a esiti nuovi il vecchio poeta, per lungo tempo amante dell’immagine scolpita, del realismo corposo e naturalistico. ■ È questa pluralità di stimoli e di fonti, tra antico e moderno, a fare di Carducci un poeta complesso e un tramite essenziale tra poesia dell’Ottocento (Leopardi) e del primo Novecento (Pascoli). ■ Molto interessanti appaiono oggi anche le prose carducciane: • le numerosissime lettere del suo Epistolario; • i discorsi, molti dei quali pronunciati in occasioni pubbliche e ufficiali; • infine gli scritti critici, in cui il Carducci professore e amante della poesia si sforzò di ricostruire, in accordo con la nuova corrente critica chiamata «scuola storica», l’ambiente e il contesto storico in cui operarono concretamente i poeti dei secoli precedenti.

Carducci e la metrica barbara Nella tradizione poetica italiana la misura metrica dei versi è determinata dal numero delle sillabe contenute in ciascun verso. Invece nelle letterature classiche, greca e latina, la metrica si fonda su un altro principio: sull’alternarsi di sillabe brevi e di sillabe lunghe (il tempo di pronuncia di una sillaba lunga era pari, all’incirca, al doppio del tempo di pronuncia di una sillaba breve). Gli antichi distinguevano le vocali (e quindi le sillabe) in base alla loro «quantità», cioè lunghezza: non tramite un accento intensivo (come quello italiano che, per esempio, distingue e, è o é), ma con un accento musicale, che con-

sentiva di variare la quantità o lunghezza di ogni vocale, con una pronuncia più o meno acuta. In particolare, le sillabe chiuse (che terminano in consonante) erano considerate sempre lunghe, e le sillabe aperte (che terminano con una vocale) brevi o lunghe, a seconda che la vocale fosse appunto breve o lunga. Insomma, per gli antichi in un verso contava non il numero delle sillabe, ma la presenza e la disposizione delle sillabe brevi e delle lunghe: un verso di poche sillabe, ma tutte lunghe, occupava nella pronuncia un’estensione pari a quella di un verso di più sillabe, ma in prevalenza brevi. Il ritmo dei metri clas-

sici aveva dunque una natura melodica, che accostava la pronuncia della poesia al canto. La poesia o metrica «barbara» è quella che intende imitare i versi della poesia latina e greca. Nelle lingue moderne non si può però riprodurre il ritmo musicale o quantitativo degli antichi: bisogna accontentarsi d’imitarne la struttura, con strumenti non di quantità (brevi o lunghe), ma di accenti. Imitare l’esametro classico significherà costruire una successione di questo tipo: una sillaba tonica + due sillabe atone, una tonica + due atone, una tonica + due atone, una tonica + due atone, una tonica + due atone, una tonica + un’atona.

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Monografia Raccordo

so la superiore sanità morale degli antichi. Scaturiva da qui, per reazione, la sua avversione nei confronti della mediocrità contemporanea: Carducci condannava l’«Italietta umbertina», in quanto traditrice dei forti ideali risorgimentali. Sempre dallo stesso Classicismo scaturiva l’opposizione di Carducci sia al Romanticismo, che a suo giudizio abbassava l’arte a cronaca e documento pseudo-scientifico, sia al Naturalismo, troppo compromesso nella diretta effusione sentimentale dello scrittore.

Contesto

Giosue Carducci

L’OPERA

EPISTOLARIO ◗ Carducci, oltre che poeta, fu scrittore in prosa di grande fama, apprezzato da critici e pubblico come autore di lettere, saggi, discorsi, lezioni e articoli. L’Epistolario assomma, nell’edizione nazionale, a oltre seimila lettere, raccolte in ventidue volumi, e inviate ai familiari, agli amici, alle ammiratrici (tra cui Carolina Piva, cantata con lo pseudonimo latineggiante di Lidia, e la giovane poetessa Annie Vivanti), ai colleghi, alle autorità.

◗ Nel complesso, l’Epistolario costituisce uno straordinario documento autobiografico, che ci consente di gettare luce sui pensieri, sulla vita privata del poeta, sulle sue relazioni sociali e letterarie. Carducci si rivela uno scrittore di lettere assai brillante, capace di raffinatezze formali, ma anche di inattesa spontaneità. Inoltre le sue epistole offrono spesso ricordi sull’origine delle sue liriche e spunti di commento a esse.

Giosue Carducci

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Lettera a Felice Tribolati Epistolario Anno: 1856 Temi: • il senso dell’amicizia e del colloquio a distanza • la mancanza di un ambiente culturalmente stimolante • il lamento sulle proprie condizioni e l’ironica rassegnazione Se le epistole ufficiali e accademiche mantengono un’impostazione compassata, con un linguaggio piuttosto freddo e burocratico, quelle indirizzate agli amici e agli intimi sperimentano modi più liberi e vari, con i quali Carducci si abbandona alla serena confidenza e alla confessione personale. Sono i caratteri di questa lettera, scritta sul finire del 1856 all’amico Felice Tribolati, compagno degli anni universitari e pisani (Carducci studiò alla Scuola Normale Superiore tra il 1853 e il 1856). Il giovane scrittore dà sfogo al proprio malumore per ritrovarsi in un ambiente, San Miniato al Tedesco, che giudica anonimo e soffocante. Nella cittadina dell’entroterra pisano Carducci era stato nominato il 25 novembre di quell’anno insegnante di retorica, cioè di lettere classiche.

San Miniato, 4 dicembre 1856. Carissimo Felice, Il silenzio c’ho tenuto con te, amico buono, non è scusabile. Ma, che vuoi? la pigrizia, il lavoro del libro,1 le occupazioni fortissime, e nel medesimo tempo le distrazioni che necessariamente portava seco cotesto nostro tumulto letterario,2 quindi la 5 malattia, poi San Miniato, han congiurato a farmi parere amico pessimo.3 Pazienza: e dalla parte tua perdono. Ora ti dirò che in questa città4 io son rovinato: questa,

1. il lavoro del libro: l’allestimento dell’opera, pubblicata da Carducci nel dicembre del 1856, la Giunta alla derrata: un insieme di poesie e di pagine in prosa, opera di autori vari, nelle quali si criticava la cultura romantica come ispiratrice di costumi cor-

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rotti e di idee estranee all’autentica tradizione italiana. 2. portava... letterario: scaturivano dalle polemiche letterarie sorte sul finire di quell’anno, allorché Carducci e i suoi amici fiorentini, riuniti nella società degli «Amici pe-

danti», si opposero con vigore al Romanticismo in ogni sua forma. 3. a farmi parere amico pessimo: a far sembrare che io mi fossi dimenticato di te. 4. questa città: San Miniato al Tedesco, vicino a Pisa, sulla riva sinistra dell’Arno.

ritratto autoironico: un tempo si cibava d’interessi culturali vivi, pieni di passione, ma qui, a San Miniato, è preda della noia

senza metafora, per me è come un sepolcro, o almeno come una prigione: in cui bisognerà ch’io per forza mi fiacchi, e moia5 di consunzione spirituale. Mancan biblioteche: manca campo6 agli esercizii letterarii: la lezione ch’io debbo fare, bisogna che 10 la limiti all’intelligenza di ragazzi di quattordici anni:7 manca l’anima e la vita che vicendevolmente si comunica dove è8 una società giovenile ben pensante, ben leggente, bene istudiante: com’io avevo in Pisa, come in Firenze. Ahi, ahi, cantatemi il De profundis:9 Giosuè è morto, sì morto; a dispetto della credenza ch’io avevo che in me ci fosse tanta vita da bastare a diecimila degli uomini moderni. E non è morto 15 per vizio10 proprio: ma perché i figliuolacci di Adamo, in quella lor congiura cannibalesca che chiamano società, han preso quest’uccellaccio selvaggio:11 a poco a poco gli han tarpato l’ale: poi l’han chiuso in una gabbia di ferro: e a lui avvezzo a cibarsi di carne fresca o di sangue danno la pappa coll’uovo: poi gli stanno pure attorno facendo rumore come di una bella cosa che abbiano fatto. Birboni e sciocchi. Ma non 20 ho voglia di arrabbiarmi: tanto, son morto. E bene sta: che importa operare e pensare? meglio è mangiare bere e fumare.12 Oh, viva il ponce:13 la sola cosa bella angelica che sia per me nel mondo. Quello che per me ragazzo erano certe idee che mi formavo della felicità anzi beatitudine ch’io avrei conseguito nell’amore di certe donne; ora, sì, quel mistico idealismo poetico mi si è verificato in fatto, realmente, sustan- 25 zialmente, chi il14 crederebbe? nel ponce. [...] Abbiti15 i miei saluti, di cuore veramente; rispondimi: saluta tutti gli amici: amami: e tu scrittor bellissimo di lettere, perdona all’infame epistola del tuo amico. G. Carducci, Opere scelte, vol. II, Prose, commenti, lettere, a cura di M. Saccenti, Utet, Torino 1993

5. moia: muoia. 6. manca campo: mancano le occasioni, lo spazio e il tempo. 7. ragazzi di quattordici anni: Carducci era professore d’italiano presso il ginnasio locale. 8. dove è: negli ambienti in cui vi è. 9. il De profundis: il canto liturgico riservato ai defunti. 10. vizio: colpa, difetto.

11. i figliuolacci... selvaggio: gli uomini mi hanno ingabbiato nelle loro regole sociali. 12. mangiare bere e fumare: sappiamo che a San Miniato il giovane professore si mescolò all’allegria e alla baldoria dei giovani benestanti del paese. La sua casa divenne uno spensierato luogo di ritrovi. Tra l’altro Carducci intrecciò anche una relazione amorosa con una giovane ereditiera del

paese, Emilia Orabuona, per la quale scrisse varie poesie, poi raccolte in Juvenilia, che ne ritraevano il fascino e la bellezza. 13. il ponce: l’inglese punch, una bevanda calda composta da una miscela di rum e di tè o caffè. 14. il: lo. 15. Abbiti: eccoti.

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Monografia Raccordo

nell’ottica classicistica di Carducci, la letteratura nasce in biblioteca, cioè dalla cultura e dagli studi

Contesto

Giosue Carducci

Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Scrivendo all’amico Tribolati, l’autore si lamenta dell’ambiente di San Miniato, privo sia di stimoli sia di risorse. L’insegnamento ai ragazzi non offre speciali soddisfazioni; mancano biblioteche dove studiare e compagni coi quali discutere le proprie idee. San Miniato non propone allettamenti intellettuali adeguati; appare piuttosto come un sepolcro, o almeno come una prigione. ■ Da San Miniato la polemica si allarga un po’ a tutta la società contemporanea (i figliuolacci di Adamo). Il mondo borghese, agli occhi di chi è appena uscito dall’università, carico di studi, ideali, discussioni, sembra una congiura cannibalesca di birboni e di sciocchi, nelle cui trame il poeta, l’individuo di educazione e finezza superiori, è preso come un uccello selvaggio in una trappola. Fin da giovane, insomma, Carducci si mostra polemico verso una società, politica e letteraria, che ha dimenticato i valori autentici e preferisce una poesia sentimentale, leggera, «romantica». Sono le convinzioni che animano le raccolte giovanili di Carducci, fino a Giambi ed epodi, e che erano alla base anche della società degli «Amici pedanti», di spirito razionalista e aderente al Classicismo, di cui anche Tribolati faceva parte. Questo gruppo di amici e il suo programma sono implicitamente presenti nel testo letto: essi rappresentano, nel ricor-

do, l’esatto contrario della sonnecchiante atmosfera sanminiatese. ■ Il giovane autore sembra consolarsi con i piaceri del buon bere, e al più con la possibilità di sfogarsi con qualche verso satirico. Dietro la comicità di questa rappresentazione, cogliamo l’energia vivace di un giovane studioso abituato a pensare in grande, animato da uno spirito fiero e naturalmente combattivo: caratteri che resteranno la componente più naturale e schietta della poesia carducciana. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Quando, a chi e da dove è stata scritta questa epistola? 2. Quale fase della produzione carducciana essa riflette? 3. Prevalgono nello scritto le note di delusione e sconforto: sottolinea nel testo le frasi che spiegano i principali motivi di insoddisfazione. 4. Per reagire al dolore, in che modo Carducci si consola? Ti sembra una consolazione in grado di appagarlo? 5. Di sé l’autore offre una grottesca caricatura: in quale punto del testo? Spiega l’immagine. 6. In questa lettera non trapela la soddisfazione dell’autore per l’impiego rapidamente e brillantemente conseguito: perché, secondo te?

Carducci prosatore Oltre alle numerosissime lettere, Carducci fu autore di altri scritti biografici, dedicati ai diversi momenti della sua vita e raccolti in Confessioni e battaglie (1882-84). Tra questi vi è il famoso Le «risorse» di San Miniato al Tedesco, del 1883, in cui l’autore rievoca i primi anni di insegnamento nella cittadina del Valdarno. Carducci alterna con maestria e disinvoltura accenti briosi e malinconici, argomenti piacevoli o scherzosi e temi eruditi. Intanto, rievocando la stagione trascorsa a San Miniato come insegnante, l’autore può dilungarsi sulle «risorse», sui tesori cioè, di quella fase della sua vita: la giovinezza, la scoperta del mondo, l’amore, la gioia dello stu220

dio, la bellezza dei paesaggi toscani. Tra i numerosi discorsi tenuti in circostanze diverse (Carducci veniva spesso chiamato a celebrare i grandi della letteratura in occasioni varie), ricordiamo gli interventi pubblici su Manzoni: il primo, assai severo, del 1873, in occasione della morte dello scrittore milanese; il secondo pronunciato a Lecco nel 1891 per l’inaugurazione di un monumento manzoniano e che offrì a Carducci l’occasione di ritrattare in parte le critiche precedenti. Non va infine dimenticata l’attività di critico: Carducci è annoverato tra i promotori della «scuola storica», quella corrente di studio e di critica basata sulla ricerca rigorosa delle fonti, dei dati appunto «storici». La sua attenzione era

calamitata dagli aspetti stilistici dei poeti di volta in volta presi in esame; lo si vede bene dai saggi su Parini o dai commenti alle rime di Petrarca e Poliziano. In essi l’autore congiunge sempre l’interpretazione dei testi con il rigoroso studio della loro nascita, delle fonti e delle forme. Il contributo più organico, tra le prose critiche, sono cinque lezioni, in parte pronunciate come prolusioni all’Università di Bologna negli anni 1868-71, dal titolo Dello svolgimento della letteratura nazionale: una sorta di storia complessiva della nostra letteratura, dalle origini fino al Cinquecento.

Giosue Carducci

Laboratori interattivi • Davanti San Guido

◗ La raccolta delle Rime nuove è senz’altro la più importante e significativa di Carducci. Il libro, pubblicato per la prima volta da Zanichelli di Bologna nel 1887, comprende centocinque poesie, composte tra il 1861 e il 1887 e distribuite in nove sezioni. L’autore faticò a trovare l’esatta armonia e la necessaria coerenza fra queste liriche, appartenenti a momenti così diversi; il risultato finale è però molto felice. Nel libro Carducci riuscì a fissare un’immagine ideale di sé e della propria arte, offrendo con essa una compiuta sintesi poetica, nella quale ritroviamo l’evolversi della sua poetica e della sua ideologia, dalle origini giovanili fino agli esiti più maturi. ◗ Tra i filoni tematici più importanti delle Rime nuove, il primo è quello della poesia storica o di celebrazione. Soprattutto in queste liriche Carducci indossa i panni, a lui così congeniali, del poeta-vate, maestro e guida della nazione, per riproporre in chiave positiva episodi, spesso leggendari, del Medioevo italiano (Il comune rustico, La leggenda di Teodorico, Su i campi di Marengo, Faida di comune). Le sue ricostruzioni storiche sono abbastanza rigorose e, soprattutto, riescono a penetrare e far rivivere lo spirito dei fatti narrati. Nelle liriche migliori l’erudizione e la retorica lasciano spazio ad atmosfere ora epiche, ora tragiche, ora persino fiabesche (come accade in La figlia del re degli Elfi o in Il re di Tule). Talvolta la celebrazione investe la storia recente: è il caso dei dodici sonetti di Ça ira (il titolo è ripreso da un inno giacobino), dedicati alla vittoria dei francesi a Valmy (settembre 1792) contro gli austro-prussiani. Trovano posto nella raccolta anche sonetti dedicati a Omero, Virgilio, Dante, Ariosto e altri: essi costituiscono l’omaggio del poetaprofessore ai grandi autori della civiltà letteraria.

■ Rime nuove: frontespizio dell’edizione del 1887 e prove autografe di una prima stesura dell’Idillio maremmano.

◗ Un secondo filone è quello intimistico e autobiografico, che si sviluppa tra memoria, natura e immaginazione poetica. A poesie di tipo nostalgico (Visione, Nostalgia) si accompagnano testi ambientati nella vita della campagna, con i suoi umili quadri di vita animale e vegetale (come avviene nelle liriche Il bove, San Martino, Virgilio). L’ispirazione più sincera si rivela nei testi della «trilogia maremmana» (Traversando la Maremma toscana, Idillio maremmano, Davanti San Guido) e nelle due liriche ispirate alla morte del figlioletto Dante, Pianto antico e Funere mersit acerbo (titolo virgiliano che significa: «travolse una morte acerba, prematura»). ◗ Altre liriche sono dedicate alla celebrazione della bellezza classica: è la linea che ispira le tre bellissime odi delle Primavere elleniche, tutte del 1872, tra le più felici dell’intera produzione di Carducci. ◗ Ma al di là dei vari filoni tematici, molte liriche delle Rime nuove nascono da un motivo comune: l’opposizione tra l’esaltazione della vita (intesa come partecipazione all’armonia della natura e come godimento delle sue bellezze) e il pensiero o sentimento della morte, della caducità e fragilità di ogni esistenza terrena. I due motivi sono complementari, poiché l’amore per ciò che vive rende più incisiva e forte la coscienza dell’ineluttabilità della fine; in tal modo ogni gioia dell’ora presente viene incrinata da note di dolore e da tristi presentimenti. È precisamente questa dialettica che ispira la parte più suggestiva della poesia carducciana.

Contesto

RIME NUOVE

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L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento

Giosue Carducci

2

Pianto antico Rime nuove Anno: 1871 Temi: • l’affetto struggente per il figlioletto scomparso • l’ineluttabilità della morte • il più intenso e straziante dolore, privo di qualsiasi consolazione La poesia fu scritta nel giugno del 1871 e, in seguito, ritoccata più volte. È dedicata al ricordo del figlioletto Dante, scomparso nel novembre del 1870 a soli tre anni. In origine Pianto antico non aveva titolo; Carducci lo coniò nel 1879, in una lettera all’amico Giuseppe Chiarini. «Antico» significa «di ogni tempo», perché gli uomini di tutte le generazioni si trovano di fronte al dramma ineluttabile della morte. Il 1870 fu davvero un anno funesto per il poeta, perché ai primi di febbraio aveva perduto anche la madre.

l’albero è sempre simbolo di vita; il melograno poi, secondo la mitologia antica, nasce dal sangue e raffigura la stirpe, la paternità

il poeta si rivolge al figlio, fiore appena sbocciato, mentre lui, la pianta-padre, è scosso e disperato per il lutto questa terra gelida e buia riassume l’idea totalmente negativa che il poeta ha della morte

L’albero a cui tendevi1 la pargoletta mano,2 il verde melograno3 da’ bei vermigli4 fior, nel muto orto solingo5 rinverdì tutto or ora,6 e giugno lo ristora di luce e di calor.

5

Tu fior de la mia pianta percossa e inaridita, tu de l’inutil vita7 estremo unico8 fior,

10

sei ne la terra fredda,9 sei ne la terra negra;10 né il sol più ti rallegra né ti risveglia amor.11

15

G. Carducci, Opere scelte, vol. I, Poesie, cit. Schema metrico: ode composta da 4 quartine di versi settenari. I primi tre sono piani (il primo verso è libero da rima, il secondo e il terzo sono a rima baciata); il quarto verso, tronco, viene collegato dalla rima agli ultimi versi di ciascuna strofetta. Schema: ABBC, DEEC, FGGC, HIIC. Questo metro di origine classica fu ripreso nel Settecento, in corrispondenza con il gusto arcadico. 1. tendevi: si rivolge al figlio morto. 2. la pargoletta mano: la mano piccina. Da notare l’anticipazione dell’attributo vezzeggiativo, allo scopo di far risaltare tutta la tenerezza del gesto.

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3. melograno: dalle finestre del suo studio Carducci vedeva l’albero nel cortile della casa di Bologna, in via Broccaindosso. 4. vermigli: rossi. 5. muto... solingo: giardino silenzioso e solitario, dopo la morte del bambino. È molto espressivo l’incastro del sostantivo orto tra i due aggettivi che indicano il vuoto lasciato dal bambino scomparso. Lì, in quell’orto, il piccolo Dante giocava allegramente. 6. rinverdì... or ora: rinverdì si collega al soggetto L’albero (v. 1). Il verbo indica in sintesi la continuità del ciclo naturale; è primavera e tutto rifiorisce. Or ora: da pochi giorni.

7. inutil vita: quella del poeta; inutile perché inaridita, senza speranza. 8. estremo unico: nel senso che al poeta saranno negate altre esperienze di paternità. 9. fredda: perché non riscaldata dal sole. 10. terra negra: l’espressione «nera terra» è un topos (cioè un luogo comune, nella poesia) che deriva da Omero. L’anafora dei vv. 13 e 14 è molto espressiva nella sua enfasi: il poeta sottolinea così la condizione di morte, da cui è impossibile ritornare. 11. amor: è il soggetto dell’ultimo verso; l’amore dei familiari non ti può risvegliare dal sonno della morte.

■ La lirica è l’espressione di una crisi profonda, che la poesia non può arginare, ma solo manifestare. La straziante condizione di dolore si esplicita al v. 11, nella dichiarazione dell’inutil vita. Man mano la lirica sembra sprofondare (come un corpo nella tomba) in una visione di cupo materialismo. Non ci sono conciliazioni possibili: la morte è la non vita, e il buio si oppone senza scampo alla luce. Nessuno stupore, di fronte all’ineluttabilità di questo «pianto antico» (Carducci, come i poeti classici, crede nell’ineluttabilità del fato, il destino); ma neppure una qualche consolazione. ■ Il filo conduttore del testo è il contrasto vita/morte (o luce/ombra). Esso si distribuisce tra le prime due strofe e le ultime due: immagini di luce e di vita (vermigli fior, ristora, luce... calor) si contrappongono a quelle di ombra e di morte (inutil vita, terra fredda... terra negra). ■ Il testo si sviluppa in quattro strofe di quattro versi (quartine). Le prime due strofe presentano un ritmo abbastanza piano e narrativo; le ultime due sono scandite dalle ripetizioni (tu / tu; sei ne la terra / sei ne la terra). Nella prima quartina prevale la presenza di certi elementi naturali colti in tutta la loro realtà: il verde dell’albero di melograno, i suoi frutti rossi, sono espressi con toni graziosi ed espressioni gentili (pargoletta, verde, bei, vermigli). Già a partire dalla seconda strofa, però, le cose si complicano; la realtà non appare più tanto scontata (il muto orto, il figliofiore, il padre-pianta). La terza e la quarta strofa battono sulle note dolenti, che si traducono attraverso le metafore e gli aggettivi: • per quanto riguarda le metafore, si evidenzia il nesso figlio = fiore della vita, e padre = pianta inaridita; esso sottolinea la condizione del poeta, che si sente parte del processo biologico-naturale di vita-morte (albero/fiore, padre/figlio);

• gli aggettivi (percossa e inaridita, estremo unico, fredda, negra) rivelano un turbamento che sembra non trovare tregua, e che anzi cresce man mano. Molto espressivo è anche l’uso dei colori: il melograno è verde, i fiori vermigli, mentre la terra è negra. Anche i nessi fonici rimarcano la corrispondenza di significato: verde/vermigli/rinverdì; muto/orto. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Quali punti o particolari del testo rivelano la triste esperienza biografica da cui nacque il componimento? 2. La lirica esprime uno sgomento disperato. Quali espressioni traducono in forma più diretta tale sentimento? 3. Dal punto di vista strutturale, la poesia si presenta nettamente divisa in due parti. Sintetizzane il contenuto in max 5 righe ciascuna. 4. Il soggetto logico delle prime due strofe è l’albero; tuttavia si intuisce che il tema è un altro. a. Quale, secondo te? b. Quali parole chiave lo evidenziano? 5. La poesia si basa su una serie di antitesi (contrapposizioni), di cui la più evidente è quella tra luce-calore e buiofreddo. Individuala nel testo. 6. Il colloquio tra il padre e il figlioletto morto è la nota più suggestiva del componimento; in quali punti si evidenzia? 7. In quale punto (o in quali punti) emerge l’altra contrapposizione fondamentale, quella tra vita e morte? 8. Tipico del genere lirico è il desiderio del poeta di attribuire un valore universale alla propria esperienza individuale. Emerge, secondo te, da questo testo, un simile desiderio? E se sì, in quale punto (o in quali punti) si manifesta?

Un tema classico per un lutto senza speranza Lo spunto di partenza di Pianto antico sembrano i versi di un antico poeta greco del II secolo a.C., Mosco o Mimnermo: Gli alberi ancora in un’altra stagione germoglieranno, ma tu sepolto dentro la terra stai silenzioso. Tali versi alludono a una concezione tipica del paganesimo antico: la pri-

mavera torna a fiorire, ma non ritornano i defunti. La metafora naturalistica indica l’ineluttabilità della morte: alla cultura classica era sconosciuta qualsiasi speranza di resurrezione, che invece cominciò a diffondersi con la cultura cristiana. Carducci, in Pianto antico, sembra volersi rifare precisamente a quell’antica concezione, priva di luce e speranza d’immortalità. Del resto egli visse pro-

prio in questi termini, come una tragedia senza rimedio, la morte di quel figlio cui era affezionatissimo. Così scrisse il 14 novembre 1870 all’amico Chiarini: «Io avevo avviticchiate intorno a quel bambino tutte le mie gioie tutte le mie speranze tutto il mio avvenire: tutto quel che mi era rimasto di buono nell’anima lo avevo deposto su quella testolina».

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Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Giosue Carducci

Tra Ottocento e Novecento

Giosue Carducci

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Traversando la Maremma toscana Rime nuove Anno: 1885 Temi: • la selvaggia bellezza del paesaggio maremmano • la nostalgia del passato e dell’infanzia • la coscienza della vanità della vita adulta Un’intensa commozione trapela da questi versi, fra i più apprezzati del poeta: una mattina d’aprile Carducci percorre in treno l’itinerario tra Livorno e Roma, e dal finestrino osserva il paesaggio dell’amata terra della sua infanzia, la Maremma, luogo d’origine del suo percorso di vita e di poesia. Il testo risente anche di una malattia che lo aveva colpito di recente, come un preannuncio della morte, che lo induce a un bilancio conclusivo della vita.

il paesaggio natio come autoritratto: orgoglio e fierezza contraddistinguono sia i luoghi sia l’animo del poeta

il ricordo dei sogni giovanili

l’amaro disinganno

la dolcezza del paesaggio è un invito alla speranza

Dolce paese,1 onde portai conforme2 l’abito fiero e lo sdegnoso canto e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme,3 pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.4 Ben riconosco in te le usate forme5 con gli occhi incerti tra ‘l sorriso e il pianto, e in quelle seguo de’ miei sogni l’orme erranti dietro il giovenile incanto.6 Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano; e sempre corsi,7 e mai non giunsi il fine;8 e dimani cadrò.9 Ma di lontano

5

10

pace dicono al cuor le tue colline con le nebbie sfumanti e il verde piano10 ridente ne le pioggie mattutine. G. Carducci, Opere scelte, vol. I, Poesie, cit.

Schema metrico: sonetto con schema ABAB, ABAB, CDC, DCD. 1. Dolce paese: è un vocativo (“O dolce paese”). Il poeta visse dal 1838 al 1849 tra Bolgheri e Castagneto, in Maremma. L’aggettivo dolce ha un doppio significato, paesaggistico e sentimentale. 2. onde portai conforme: da cui trassi. 3. l’abito... non s’addorme: la fierezza del carattere (abito), la poesia sdegnosa di compromessi, elementi conformi al pae-

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saggio maremmano; e (da cui trassi) il petto, l’animo, in cui le passioni non si placano mai. 4. pur ti riveggo... in tanto: finalmente ti rivedo, e il cuore mi balza in petto, mi commuovo per un simile evento (e anche “nello stesso momento”). 5. Ben riconosco... forme: ritrovo in te, Maremma, gli aspetti consueti, i profili familiari. Usate forme è un’espressione ripresa da Petrarca. 6. in quelle... giovenile incanto: in quelle

immagini (usate forme) ricerco e ritrovo (seguo) le tracce (orme) dei miei sogni giovanili (giovenile incanto). 7. corsi: mi affannai. 8. non giunsi il fine: non raggiunsi lo scopo che mi ero prefissato. 9. dimani cadrò: domani, cioè presto, morirò. Il poeta esprime la consapevolezza della morte vicina. 10. colline... piano: sono i confini geografici della Maremma, compresa tra gli Appennini e il mar Tirreno.

■ La lirica ritrae le inquietudini che turbano l’animo, simboleggiate dall’assenza di mete sicure o traguardi certi: il ritorno ai tempi dell’infanzia è desiderabile ma impossibile. Il testo ruota intorno ad alcuni nuclei tematici: • la dolcezza della memoria e la nostalgia del passato; • la precarietà del presente, la coscienza della vanità della vita adulta; • la suggestione paesaggistica che riesce, da sola, a riportare la pace nel cuore del poeta deluso. ■ Il sonetto si avvia con un’invocazione, Dolce paese, che sembra promettere un tono di serenità. La memoria riporta ai passi (l’orme / erranti) e agli incanti del tempo giovanile: la Maremma è come un luogo di favola, ammantato del mito personale del poeta. In realtà, però, i sentimenti dell’io-poeta si accavallano in turbate antitesi (opposizioni): odio e amor (v. 3); sorriso e pianto (v. 6); speranza (quel che amai, quel che sognai) e delusione (fu in vano) (v. 9). ■ Il verso 9 (Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano) sembra giungere a una prima, sconsolata conclusione. Si osservi l’andamento spezzato dei vv. 9-11, fino al punto fermo, che interrompe a metà il v. 11. Qui la secca battuta e dimani cadrò dà voce alla tristezza del poeta: il poeta era stato da poco colpito da un primo attacco di paralisi, e teme quindi l’imminenza della morte. L’ultima strofa è legata alla precedente dall’enjambement di lontano // pace: viene messa così in rilievo la parola chiave pace, che sembra riecheggiare la dolcezza iniziale.

■ Poiché il sonetto procede come una confessione, di sapore spontaneo, il tono è (o sembra) dimesso e il vocabolario semplice. In realtà la costruzione poetica è molto calcolata. Per esempio il v. 5 è una ripresa petrarchesca: infatti Ben riconosco in te le usate forme è una citazione dal sonetto CCCI del Canzoniere, dove si dice «Ben riconosco in voi l’usate forme». Anche le orme erranti (vv. 7-8) riecheggiano il Foscolo del sonetto Alla sera: «Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme / che vanno al nulla eterno»). LAVORIAMO SUL TESTO 1. Perché il paesaggio maremmano è, secondo il poeta, conforme al suo carattere? 2. Carducci parla di abito fiero e di sdegnoso canto: che cosa intende dire? 3. Perché il poeta guarda il paesaggio con occhi incerti tra ’l sorriso e il pianto? 4. Nel sonetto vi sono alcuni enjambements. Spiega in che cosa consiste questa figura e rintracciali nel testo. A quale scopo il poeta, qui, vi fa ricorso? 5. Diversi verbi di movimento vogliono indicare metaforicamente il cammino della vita. Individuali nel testo. 6. Il paesaggio maremmano comunica al poeta malato, nel finale, un senso di pace. Come va interpretato tale termine? Ti sembra che questa conclusione sani tutte le contraddizioni e inquietudini precedentemente esposte?

I cipressi di Bolgheri Uno dei luoghi più «carducciani» in Maremma è il celebre Viale dei Cipressi di Bolgheri. Carducci visse tra 1838 e 1849 in questo antico borgo, sito nel comune di Castagneto Carducci (Livorno) ed esteso tra le colline e il mare. Il Viale, che si snoda per quasi 4 chilometri, inizia a valle sulla via Aurelia, davanti alla settecentesca chiesa di San Guido, dedicata a un eremita medievale. Il Viale venne realizzato nel 1799, allorché l’abitato di Bolgheri fu collegato alla via Aurelia. Nel 1832 il conte Della Gherardesca volle fiancheggiare la strada con una ricca piantumazione di ci-

pressi, scelti per portamento, forma e colore delle chiome. Nel 1870 il Viale dei Cipressi era ormai completato. Nel 1874, durante un viaggio in treno a Civitavecchia, Carducci volle fermarsi sulla via Bolgherese per rivedere da vicino «quei cipressetti» rimasti impressi nella sua memoria. Nacque così Davanti San Guido (1874), una delle sue più belle poesie «maremmane»: «I cipressi che a Bólgheri alti e schietti / van da San Guido in duplice filar, / quasi in corsa giganti giovinetti / mi balzarono incontro e mi guardâr. // Mi riconobbero, e – Ben torni omai – / bisbigliaron vèr me co ‘l capo

chino – / perché non scendi? perché non ristai? / Fresca è la sera e a te noto il cammino. / …». Oggi il Viale presenta un duplice filare di 2374 piante di cipresso (Cupressus sempervirens), in gran parte secolari, con altezza di 15-20 metri. Molte di esse però sono state attaccate dal Seiridium cardinale, un parassita fungino necrotrofico, agente del cancro della corteccia. Nel dicembre 1999 fu avviato un progetto di salvaguardia e valorizzazione dei cipressi, che si può dire felicemente concluso.

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Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Giosue Carducci

Tra Ottocento e Novecento

Giosue Carducci

4

Il comune rustico Rime nuove Anno: 1885 Temi: • la vita semplice di un villaggio medievale • la ricerca della libertà civile • il valore positivo del cristianesimo La poesia fu scritta nell’agosto del 1885 a Piano d’Arta, un villaggio delle Alpi Carniche, in Friuli, nel momento in cui il poeta doveva abbandonare i luoghi in cui aveva trascorso le vacanze estive. S’immerge allora nel passato, immaginando con la fantasia come doveva essere la vita in quegli stessi luoghi, durante il periodo medievale: nasce così la rievocazione di un rustico e libero comune italiano, primo e semplice esempio di vita democratica.

la visione naturale (boschi, prati, un villaggio, prima all’alba, poi al tramonto) è l’origine del poetare carducciano

dal presente al passato: una rievocazione storica, scaturita come in sogno

l’argomento del titolo della lirica

la religione come anima del Medioevo cristiano; Carducci ha ormai superato la sua avversione per il cristianesimo

O che tra faggi e abeti erma su i campi smeraldini la fredda ombra si stampi al sole del mattin puro e leggero, o che foscheggi immobile nel giorno morente su le sparse ville intorno a la chiesa che prega o al cimitero che tace, o noci de la Carnia, addio!1 Erra tra i vostri rami il pensier mio sognando l’ombre d’un tempo che fu.2 Non paure di morti ed in congreghe diavoli goffi con bizzarre streghe, ma del comun la rustica virtù accampata a l’opaca ampia frescura veggo ne la stagion de la pastura dopo la messa il giorno de la festa.3 Il consol4 dice, e poste ha pria5 le mani sopra i santi segnacoli cristiani:6 «Ecco, io parto fra voi7 quella foresta

Schema metrico: ode di 6 strofe sestine di versi endecasillabi, con schema AABCCB (nelle strofe pari i versi B sono tronchi). 1. O che tra faggi... addio!: Carducci saluta il paesaggio alpino descrivendolo in due momenti del giorno: al mattino e al tramonto. Costruisci: sia che la fredda ombra si stagli solitaria (erma) sui campi verdi tra faggi e abeti sotto il sole limpido e leggero del mattino, sia che l’ombra si addensi fosca (foscheggi) e immobile nell’ora del tramonto (nel giorno morente) sui casolari

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(ville) sparsi intorno alla chiesa dove si prega o al cimitero immerso nel silenzio, addio, o noci della Carnia! 2. Erra... fu: la mia fantasia vaga tra i vostri rami, facendo rivivere i ricordi di un passato lontano. 3. Non paure... festa: il verbo che regge il periodo è veggo, “vedo”. Costruisci: non vedo (nella fantasia) apparizioni orrende di morti e riunioni (congreghe) di diavoli e streghe, ma la semplice virtù del comune contadino, radunato all’ombra fresca degli alberi nella stagione estiva (la stagione in cui si conduce il bestiame al pascolo: pa-

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stura) in un giorno di festa dopo la messa, dunque di domenica. 4. Il consol: con questo nome si chiamava il supremo magistrato dei comuni. 5. pria: prima. 6. i santi segnacoli cristiani: si allude alla croce e ai Vangeli, i simboli (segnacoli) della fede (e anche della collettività che si stringe intorno a essa). 7. io parto fra voi: io divido tra voi. È il momento della formazione del comune: la terra che è appena stata riscattata dalla servitù feudale viene divisa fra i componenti del comune stesso.

il magistrato popolare aggiunge alla legge la consacrazione religiosa

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Un fremito d’orgoglio empieva13 i petti, ergea14 le bionde teste; e de gli eletti in su le fronti il sol grande feriva.15 Ma le donne piangenti16 sotto i veli invocavan la Madre alma de’ cieli. Con la man tesa il console seguiva:17

Monografia Raccordo

il patriottismo spontaneo di chi difende sé, i propri cari, la libertà

d’abeti e pini ove al confin nereggia.8 E voi9 trarrete la mugghiante greggia e la belante10 a quelle cime là. E voi,11 se l’unno o se lo slavo invade, eccovi, o figli, l’aste,12 ecco le spade, morrete per la nostra libertà».

Contesto

Giosue Carducci

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«Questo, al nome18 di Cristo e di Maria, ordino e voglio che nel popol sia». A man levata19 il popol dicea Sì. E le rosse giovenche20 di su ‘l prato vedean passare il piccolo senato,21 brillando22 su gli abeti il mezzodì.

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G. Carducci, Opere scelte, vol. I, Poesie, cit. 8. ove al confin nereggia: che si vede in lontananza nella sua massa scura, sul limitare del bosco. 9. E voi: cioè i pastori. 10. mugghiante... belante: i buoi e le pecore. 11. E voi: si rivolge ai giovani, che devono essere pronti a respingere con le armi le invasioni degli unni e degli slavi, le cui incursioni spesso colpivano, a quell’epoca, il Friuli. 12. l’aste: le lance. 13. empieva: riempiva.

14. ergea: faceva sollevare. 15. e de gli eletti... feriva: la luce del sole colpiva (feriva), quasi come per una consacrazione, le fronti di quelli scelti (eletti) per combattere in difesa della libertà. 16. Ma le donne piangenti: le donne invece piangono e rivolgono le loro lacrime alla Madre alma de’ cieli, la Madonna, detta in latino alma Mater, “madre che protegge”. 17. seguiva: proseguiva. 18. al nome: nel nome. 19. A man levata: in segno di approvazio-

ne unanime o di giuramento. 20. le rosse giovenche: il particolare ci riporta nell’ambiente agreste in cui si svolge la vita di questa rustica assemblea di popolo. 21. il piccolo senato: sono i membri dell’assemblea che si scioglieva. 22. brillando: mentre brillava. Il paesaggio naturale accompagna l’intero resoconto di questo episodio di vita comunale; e tutto il tono della rievocazione storica resta solare, come il mezzodì in cui la scena si svolge.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Insieme ai ricordi autobiografici, le Rime nuove danno spazio anche ai ricordi storici, alle rievocazioni di momenti del passato, così significative, secondo Carducci, per gli ideali civili e morali che racchiudono. Nasce così questo quadro di vita comunale, ambientato poco dopo l’anno Mille, nei tempi più puri delle origini del libero comune. ■ Il comune rustico qui descritto è ovviamente frutto di fantasia e idealizzazione. Lo stesso poeta parla di una visione (Erra... il pensier mio / sognando l’ombre d’un tempo che fu) in virtù della quale la rievocazione assume un tono leggendario e, insieme, epico: giovani contenti di combattere per la libertà, donne in lacrime nel presagire le battaglie, il console acclamato, il popolo unanime nel pensiero. Nel co-

mune rustico il console distribuisce i compiti alla piccola comunità, per la pace e per la guerra. E contrariamente a quanto Carducci afferma altrove, qui egli attribuisce, con correttezza storica, un valore positivo al cristianesimo, fondamento dell’esperienza comunale. ■ Lo scopo del testo è affermare l’esemplarità di un periodo storico in cui regnava la correttezza politica e morale. Non solo l’epoca, ma anche il luogo è importante: nel villaggio la vita è semplice e schietta, lontanissima dalla confusione, dagli egoismi, dalle trame della vita cittadina. Tutto ciò suona, indirettamente, come un’accusa al mondo contemporaneo: la società che il poeta rievoca non può che vivere in un lontano passato. Il significato del testo è dunque 227

Tra Ottocento e Novecento

la nostalgia di una vita improntata al rispetto dei valori umani, etici e politici, fondati su una democrazia diretta e popolare, ambientata in territorio agreste. ■ Lo stile risulta solenne e di registro elevato. L’esordio presenta una sintassi complessa, con la disgiunzione O che... o che, attraverso cui vengono messe in rilievo le immagini del paesaggio. Nell’intera lirica le scelte lessicali risultano colte, come sempre in Carducci; sono latinismi per esempio i termini erma, ville, segnacoli, parto (per “divido”), alma, ergea ecc. ■ Interessante il ricorso alla personificazione: • osserviamo le due personificazioni della chiesa che prega e del cimitero che tace, utili a rivelare la vitalità del paesaggio; • il procedimento investe anche gli animali: si vedano nell’ultima sestina le rosse giovenche che assistono alla riunione del senato, un particolare non privo di un’implicita sfumatura comica. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Quali argomenti affronta il consol nella sua breve orazione? 2. In quale punto, o in quali punti, emerge nel testo il richiamo all’antica Roma repubblicana? E quale motivo li ispira, secondo te? 3. La rustica virtù si può ritenere il centro tematico della poesia. Rispondi brevemente alle seguenti domande. a. In che cosa consiste tale virtù? b. Quali sono i valori che il poeta attribuisce alla piccola comunità medievale?

c. Si può ritenere che siano i medesimi in cui Carducci si riconosce? d. Soprattutto nella quinta strofa il tono si fa quasi eroico: sei d’accordo? Perché? 4. La scena ha un carattere civile e religioso insieme: in che senso? (max 5 righe) 5. Carducci idealizza una società perfettamente armonizzata con la natura. a. Come viene descritto il paesaggio naturale? b. Dove emerge la serenità della natura? c. E quella della società? 6. Il poeta vede, con gli occhi della fantasia, un’autonoma cittadina comunale di stampo rurale, dove vige un buon governo popolare e dove regnano, ancora, incorrotti valori. Secondo te, si distinguono momenti in cui emerge il carattere ideale, astratto, e non storicamente attendibile, dell’episodio narrato? Motiva la risposta. 7. La poesia fu pubblicata sulla rivista «La Domenica del Fracassa» il 30 agosto 1885, con il titolo Senza storia. Sapresti spiegare il perché di questo titolo apparentemente contraddittorio? 8. Il componimento mantiene dall’inizio alla fine un tono di positività e di solarità; sei d’accordo? Oppure rintracci in esso momenti di tensione e incrinature? Motiva la risposta con riferimenti al testo. 9. In tutta la poesia il poeta crea un andamento narrativo attraverso l’uso insistito dell’enjambement, che lega i versi in più punti; per esempio: campi / smeraldini, giorno / morente. Ritrova nel testo altri esempi.

Il Medioevo di Carducci Il sesto libro di Rime nuove comprende sette poesie di argomento storico; quattro di queste, in particolare, si ambientano nel mondo medievale. • La ballata La leggenda di Teodorico illustra la leggendaria morte del re degli ostrogoti, che precipita con il suo cavallo nel cono vulcanico dell’isola di Lipari; • Il comune rustico celebra la vita pubblica di un libero comune medievale; • L’ode Su i campi di Marengo trae spunto dall’assedio subito a Marengo (presso Alessandria) dall’imperatore Federico Barbarossa nel corso

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della sua lotta contro la Lega lombarda; • nella ballata Faida di comune è rievocato un episodio della storia trecentesca, legato alla guerra fra Pisa e Lucca. Il Medioevo di Carducci è caratterizzato in modo molto diverso dal Medioevo tenebroso caro ai romantici nordici: dunque, non un mondo di spettri, fantasmi, apparizioni demoniache (lo dice lo stesso Carducci ai vv. 10-12 del Comune rustico), ma un’epoca prediletta in quanto tempo «civile» della storia italiana: emblema dei valori etici e politici più nobili, quali la libertà, la fierezza, l’orgoglio

e l’indipendenza coltivati nelle istituzioni comunali. Se teniamo presente il classicismo sempre attivo in Carducci, riconosceremo agevolmente, nella filigrana di questo suo Medioevo, il modello di Roma; più precisamente, della Roma repubblicana delle origini. La sua vita sociale semplice e austera, piena di slanci patriottici e di valori morali, viene indicata a modello per il presente. Trasparente la polemica nei confronti dell’Italia umbertina, caratterizzata, all’opposto, da corruzione, opportunismo, ristrettezza di visioni politiche.

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Giosue Carducci

Laboratori interattivi • Alla stazione in una mattina d’autunno

◗ La prima edizione delle Odi barbare risale al 1877; seguirono stampe intermedie nel 1882 e nel 1889, fino all’edizione definitiva del 1893. Si tratta dell’opera più ambiziosa di Carducci, perché sperimenta una poesia nuova anzitutto sul piano del linguaggio e dei metri. L’autore infatti rinuncia alla rima e ai versi della tradizione italiana, per recuperare i ritmi dell’antico poetare classico. Questi ritmi però risulterebbero «barbari» a un lettore greco o latino. Infatti la metrica classica si basava sull’alternanza tra sillabe brevi e lunghe, era cioè quantitativa, mentre i versi moderni obbediscono a una metrica accentuativa: sono infatti modulati sull’alternanza tra sillabe atone e accentate, cioè sugli accenti, i quali, a loro volta, producono le rime, che erano sconosciute agli antichi (E scheda a p. 217). ◗ Nel complesso le Odi barbare costituiscono la prova più ardita, intransigente e suggestiva del classicismo carducciano, l’esito della grandissima perizia tecnica e della mirabile erudizione dell’autore. La ripresa, sul piano metrico, delle antiche forme poetiche è infatti l’occasione per un viaggio a ritroso nel tempo, in una sfera solenne e magnifica; per un recupero integrale dei valori classici, travestiti con le loro forme più nobili. L’antica civiltà greco-romana diviene molto spesso un severo termine di paragone per il presente, un modello di vita e di stile; la Roma di ieri offre a Carducci l’occasione per diffondere e attualizzare ideali politici e morali perenni, proprio nel tempo in cui Roma era divenuta

(1870) la nuova capitale d’Italia, di un regno giovane e alla ricerca di una propria fisionomia culturale, sociale ed economica. ◗ Ma se la Roma di oggi è l’erede della «dea Roma» di un tempo, questa non è però un’eredità pacifica o scontata. Dall’una all’altra lirica questo motivo viene infatti a simboleggiare ora la decadenza del presente rispetto all’antico splendore, ora le speranze e i germi di riscatto. In questa prospettiva si intendono le venticinque composizioni della prima sezione della raccolta: per esempio, le odi Alle fonti del Clitumno del 1876 e Dinanzi alle Terme di Caracalla del 1877, in cui sono ritratti i ruderi, le sterminate vestigia di Roma. ◗ Le liriche più moderne della raccolta sono però quelle della seconda sezione, pure articolata in venticinque testi. Da molte di esse (Fantasia, Ruit hora, Alla stazione in una mattina d’autunno, Sogno d’estate, Nevicata) trapela una stanchezza spirituale nuova, per Carducci, un senso malinconico della fugacità della vita che ci porta lontani dallo spirito classico più eroico e «olimpico», in cui il bello viene contemplato senza inquietudini. Ma un po’ in tutte le Odi barbare si accrescono, rispetto alle Rime nuove, l’ansia, lo sgomento, l’irrequietezza, cantate con toni morbidi e sensuali, che richiamano Baudelaire e i parnassiani francesi. A tale modello ci riporta anche il titolo del libro, Odi barbare, fissato fin dal 1877 e suggerito dall’ammirazione verso i Poemi barbari (Poèmes barbares) del francese Charles-Marie Leconte de Lisle (1818-94), uno dei più noti poeti «parnassiani».

Giosue Carducci

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Dinanzi alle Terme di Caracalla Odi barbare Anno: 1877 Temi: • la visione delle imponenti rovine del passato • la nostalgia per l’antica grandezza di Roma • la meschinità degli uomini contemporanei Scritta durante un soggiorno a Roma nella primavera del 1877, la lirica s’ispira ai resti imponenti delle più celebri e lussuose Terme della Roma antica, risalenti al principio del III secolo d.C. e che 229

Contesto

ODI BARBARE

Monografia Raccordo

L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento

ancora oggi colpiscono per la complessità e l’audacia delle loro strutture architettoniche. Ma il pregio dell’ode non consiste nell’esaltazione retorica della Città Eterna (che è il difetto dell’ode alcaica Nell’annuale della fondazione di Roma, scritta sempre nel 1877), bensì in una riflessione, di sapore molto attuale, sulla lontananza degli uomini d’oggi dalla grandezza degli antichi. Parafrasi [vv. 1-4] Nubi cariche di pioggia corrono tra i colli Celio e Aventino; il vento soffia umido dalla pianura malsana [tristo, per la malaria]; all’orizzonte si ergono i monti albani carichi di neve.

Corron tra ‘l Celio fosche e l’Aventino1 le nubi: il vento dal pian tristo move umido: in fondo stanno i monti albani2 bianchi di neve. A le cineree trecce alzato il velo verde, nel libro3 una britanna cerca queste minacce di romane mura al cielo e al tempo.

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Continui, densi, neri, crocidanti versansi4 i corvi come fluttuando contro i due muri ch’a più ardua sfida levansi enormi. «Vecchi giganti,5 – par che insista irato l’augure stormo6 – a che tentare il cielo?» Grave per l’aure vien da Laterano suon di campane.7 Ed un ciociaro,8 nel mantello avvolto, grave fischiando tra la folta barba, passa e non guarda. Febbre,9 io qui t’invoco, nume presente. Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti e de le madri le protese10 braccia

Schema metrico: ode di 10 strofe saffiche; ogni strofa è composta da 3 endecasillabi (quinario più senario separati dalla cesura) e da un quinario. Non esistono rime. 1. Celio... Aventino: i due colli di Roma tra i quali sorgono, all’inizio della via Appia, le Terme costruite nel III secolo d.C. dall’imperatore Caracalla. Le Terme erano una vastissima costruzione che poteva contenere più di tremila bagnanti, abbellita da statue e sculture. 2. i monti albani: i monti che si profilano all’orizzonte, sui quali sorse la città di Alba Longa. Nell’immagine dei monti bianchi di neve risuona il ricordo di una celebre immagine del latino Orazio (Odi, I, 9, vv. 1-2:

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10

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[vv. 5-8] Con il velo verde (del cappello) sollevato sui capelli grigi [cineree trecce] una turista inglese cerca nella guida turistica [libro] notizie sulle mura romane, che sembrano sfidare il tempo e minacciare il cielo.

[vv. 9-12] Senza pausa, a stormi fitti, i neri corvi gracchianti [crocidanti] si avventano come un’onda [fluttuando] contro i due muri che si levano imponenti a sostenere una sfida (quella del v. 8) più alta [ardua].

[vv. 13-16] O vecchie mura – pare dire lo stormo di uccelli [augure = da cui gli antichi prevedevano il futuro] – per quale scopo continuate a sfidare il cielo? Dalla basilica di San Giovanni in Laterano giunge per l’aria un lugubre [grave] scampanio.

[vv. 17-20] Un pastore della Ciociaria, avvolto nel suo mantello, fischiando un motivo monotono e triste [grave], passa oltre senza (fermarsi a) guardare (il monumento). O dea Febbre, a questo proposito io invoco il tuo intervento, o divinità propizia [presente]. [vv. 21-24] Se tu (o Febbre) hai mai avuto cari gli occhi spalancati e le braccia protese delle madri,

«Vedi come si erge candido il [monte] Soratte per l’alta neve»). 3. libro: il Baedeker, la guida turistica allora più diffusa tra i viaggiatori stranieri in Italia. 4. versansi: “si riversano”; la posticipazione del pronome riflessivo è tipica dell’italiano antico; si veda qui, al v. 12, levansi per “si levano”. 5. Vecchi giganti: così chiama, nella trasfigurazione letteraria, i resti archeologici. 6. l’augure stormo: dall’inclinazione del volo degli uccelli, gli àuguri (sacerdoti) romani prendevano gli auspici per predire il futuro. 7. Grave... campane: il suono delle campane è un richiamo alla labilità delle ore e del tempo umano. La basilica di San

Giovanni (la cattedrale di Roma) è situata poco oltre il Celio. La forma per l’aure, al plurale, vuole accrescere l’indeterminatezza. 8. un ciociaro: un pastore della Ciociaria, zona del Lazio; egli passa e non guarda, non presta cioè attenzione alle Terme presso le quali conduce il suo gregge a pascolare. 9. Febbre: la dea a cui i Romani avevano eretto un tempio sul Palatino, per invocarne la protezione contro la febbre malarica che imperversava nei dintorni. Il poeta vorrebbe che la malaria colpisse non tanto il pastore, ma coloro che restano inerti o addirittura ostili di fronte alla grandezza della civiltà romana. 10. protese: in atto solenne di preghiera.

che ti scongiuravano [te deprecanti, latinismo] di stare lontana, o dea, dal capo reclinato dei (loro) figli (sfiniti per la malattia);

se ti fu cara su ’l Palazio eccelso l’ara vetusta (ancor lambiva11 il Tebro l’evandrio colle,12 e veleggiando a sera tra ‘l Campidoglio e l’Aventino il reduce quirite guardava in alto la città quadrata dal sole arrisa, e mormorava un lento saturnio carme);13 Febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli quinci respingi e lor picciole cose;14 religïoso è questo orror: la dea Roma qui dorme.15 Poggiata il capo al Palatino augusto, tra ‘l Celio aperte e l’Aventin le braccia, per la Capena i forti omeri stende a l’Appia via.

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[vv. 25-32] se ti fu caro l’antico altare [ara vetusta] costruito sul punto più alto del Palatino [Palazio] – ancora il Tevere [Tebro] bagnava il colle su cui sorgeva il tempio di Evandro, e a sera il cittadino romano [quirite, da Romolo Quirino] che tornava [reduce] in barca [veleggiando] tra il Campidoglio e l’Aventino guardava sul Palatino [in alto] la città a pianta quadrata illuminata e benvoluta [arrisa] dal sole, e intonava una lenta canzone in versi saturni.

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[vv. 33-36] o Febbre, ascoltami. Respingi da qui [quinci] gli uomini di oggi [novelli] e le loro misere cose; l’ammirazione [orror] (verso queste rovine) è cosa sacra; qui dorme l’antica Roma.

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[vv. 37-40] (Roma), con il capo appoggiato al venerando [augusto] colle Palatino, dopo avere aperte le braccia tra il Celio e l’Aventino, stende le forti spalle (omeri) dalla porta Capena (oggi di San Sebastiano) alla via Appia.

G. Carducci, Opere scelte, vol. I, Poesie, cit. 11. ancor lambiva: inizia una digressione che celebra l’incanto dell’antica Roma. 12. evandrio colle: il re Evandro aveva insediato sul Palatino una colonia latina, prima ancora che Romolo fondasse Roma; secondo la leggenda a quell’epoca il Tevere scorreva sotto il Palatino. Carducci trae

quest’ultimo particolare (così come la figura del navigante ai vv. 27 e ss.) dal poeta latino Ovidio (Fasti, VI, vv. 401 e ss.). 13. saturnio carme: il saturnio era il verso della poesia latina arcaica. 14. lor picciole cose: allude agli interessi meschini dei contemporanei, che non por-

tano rispetto alle glorie antiche. 15. la dea Roma qui dorme: lo spirito emblematico della civiltà romana è racchiuso in questo luogo. L’antica Roma, dunque, non è morta, dorme soltanto, e forse un giorno potrebbe risvegliarsi.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Le prime 5 strofe sono dedicate ciascuna a una diversa immagine. La I strofa inquadra un paesaggio livido, nel quale si muovono due personaggi diversissimi, la turista (II strofa) e il pastore (V strofa): la prima curiosa (nel libro cerca) del passato, il secondo totalmente indifferente. Entrambi si muovono in uno sfondo desolato, tra solitudine e minaccia di pioggia (le nubi, la neve), sul quale irrompono i suoni sinistri dei corvi (III strofa). Essi interrogano irati i resti monumentali, mentre un suono cupo, la campana del Laterano, viene ad accrescere l’inquietudine (IV strofa). ■ Le 5 strofe della seconda parte sono dominate dall’invocazione del poeta: Febbre, io qui t’invoco, / nume presente. La dea è invitata (penultima strofa) a tenere lontani gli uomini novelli dalle vestigia della Roma antica. In mezzo si apre però una pausa, una digressione ambientata nel

passato: il poeta offre una visione incantata della Roma che fu, nei primi momenti della sua storia. Siamo in un tramonto dolce e luminoso; l’antico quirite torna sereno dal lavoro «guardando» la sua città; esattamente l’opposto del gesto (passa e non guarda) del pastore ciociaro. Si può concludere che Roma non è morta (ultima strofa): dorme, appoggiata tra i colli. ■ Il tema dell’ode è la nostalgia di un mondo di grandezza perduta. Purtroppo gli uomini di oggi non sanno più rivivere l’orgoglioso senso della potenza di Roma antica: hanno infatti perduto il sentimento sacro del passato. Da una parte, dunque, c’è un passato che fu glorioso; dall’altra, la meschinità degli uomini del tempo presente. Gli ideali della Roma primitiva (la città quadrata / dal sole arrisa) sopravvivono a stento nella grettezza materiale degli uomini novelli: sospin231

Monografia Raccordo

te deprecanti, o dea, da ’l reclinato capo de i figli:

Contesto

Giosue Carducci

Tra Ottocento e Novecento

ti dal desiderio di modernità, essi non esitano a violare la santità dei luoghi su cui ancora aleggia l’antico spirito della dea Roma. Da qui l’invocazione alla Febbre, perché tenga lontano da tali luoghi individui tanto mediocri. ■ Lo stile è ricco di significative scelte formali. Per esempio nella prima strofa i verbi di movimento (corron, move) contrastano con lo stanno dei monti, a suggellare lo sfondo solenne di una scena triste e insieme mossa. Nella terza strofa il participio quasi onomatopeico crocidanti fa risuonare il testo di un sinistro rumore. Nei versi (26-32) della lunga pausa posta tra parentesi, spicca il linguaggio latineggiante dei termini Tebro, reduce quirite, saturnio carme, che accentua il confronto tra il passato glorioso e il presente. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Sintetizza in breve il contenuto di ogni strofa (per esempio, I strofa: descrizione paesaggistica; II strofa: una turista; ecc.).

2. Qual è il tema fondamentale della poesia? 3. In quale punto emerge la funzione polemica del classicismo carducciano? 4. I corvi, le campane, le figure umane: quali significati simbolici sono connessi a tali elementi? 5. Data la metrica «barbara», nel testo non ci sono rime; tuttavia il ritmo (gli accenti si ripetono quasi sempre nella stessa sede) scandisce e lega gli emistichi, cioè i mezzi versi. Documenta questo aspetto nel testo, analizzando una strofa a tua scelta. 6. Individua i termini che evidenziano il gusto classico del poeta e alcuni costrutti sintattici (come la distanza tra soggetto e predicato) che caratterizzano l’ode in senso «alto». 7. Secondo il critico Attilio Momigliano, questa è «la più bella pagina di poesia delle rovine» nella letteratura italiana: «ci senti un’aura di romanità e insieme una tristezza solenne di cosa trapassata». Commenta il giudizio con opportuni riferimenti al testo.

Giosue Carducci

6

Nevicata Odi barbare Anno: 1881 Temi: • il silenzio della città sotto la neve • l’enigmatico richiamo che proviene dalla realtà circostante • il pensiero della morte Leggiamo Nevicata, la penultima poesia di Odi barbare: è un’elegia scritta in concomitanza con l’aggravarsi della malattia dell’amata Lidia, che morì il 25 febbraio 1881. La lirica ritrae un quadro senza tempo; nevica, la città è silenziosa e sembra senza vita; uccelli raminghi si avvicinano ai vetri appannati della finestra, e sono le trasfigurazioni degli spiriti degli amici scomparsi che chiamano il Poeta.

i non ripetuti imitano il lento fioccare della neve (e la vita che si ritrae)

Lenta fiocca la neve pe ’l1 cielo cinerëo:2 gridi, suoni di vita più non salgon da la città,3 non d’erbaiola il grido4 o corrente rumore di carro,5 non d’amor la canzon ilare e di gioventù.6

Schema metrico: per riprodurre il metro distico elegiaco, uno dei più frequenti nella metrica greco-latina, formato da un esametro e un pentametro, il poeta associa un settenario e un novenario per l’esametro (con eccezione al v. 7), e un settenario e un ottonario tronchi per il pentametro (con eccezione al v. 8). 232

1. pe ’l: per il. 2. cinerëo: latinismo, significa di colore grigio come la cenere, plumbeo. 3. gridi... città: non salgono più dalla città né grida né suoni di vita. 4. non d’erbaiola il grido: non (si sente più) il grido con cui la venditrice ambulante di frutta annuncia il suo arrivo.

5. corrente... carro: rumore di carro che corre (è la figura dell’ipallage: a essere corrente è il carro, non il rumore). 6. non d’amor... gioventù: (non si ode più) il canto gioioso (ilare, latinismo) d’amore (cioè: che rivela l’amore) e di gioventù.

Giosue Carducci

Da la torre di piazza7 roche per l’aere le ore gemon,8 come sospir d’un mondo lungi dal dì.9

la morte imminente, ma senza tristezza

Contesto

Picchiano10 uccelli raminghi11 a’ vetri appannati: gli amici spiriti reduci son,12 guardano e chiamano a me.13 In breve,14 o cari, in breve – tu càlmati, indomito15 cuore – giù al silenzio verrò, ne l’ombra16 riposerò.

10

G. Carducci, Opere scelte, vol. I, Poesie, cit. 7. torre di piazza: la torre del palazzo del Comune di Bologna, in piazza San Petronio. 8. roche... gemon: il rintocco delle ore risuona come un gemito nell’aria, con un suono attutito dalla neve (roche). 9. lungi dal dì: lontano dalla vita terrena, dalla luce del sole; è il mondo dei morti.

10. Picchiano: picchiettano, bussano ai vetri appannati. 11. raminghi: che vagano errabondi, senza dimora. 12. gli amici... son: (questi uccelli) sono gli spiriti, le anime degli amici che ritornano (reduci). 13. a me: me. Il senso è che pregano il

(oppure: fanno cenno al) poeta di seguirli. 14. In breve: fra poco. 15. indomito: mai domato, incapace di arrendersi. 16. silenzio... ne l’ombra: il silenzio della tomba.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il poeta si trova nella sua casa di Bologna, dedito agli studi consueti. Fuori nevica: un fioccare continuo e lento, che scende da un cielo color cenere. La neve attutisce ogni rumore. Anche i rintocchi dell’orologio della torre giungono smorzati; finiscono per sembrare sospiri provenienti da un altro mondo. Un nuovo, vago rumore attira quindi l’attenzione: al vetro picchiano gli uccelli, che vanno errando alla ricerca di cibo e di un riparo. Essi riescono infine a scuotere il poeta: quel battere insistito è come un richiamo che le anime degli amici ormai defunti gli lanciano, un richiamo al destino di morte che attende anche lui, e al quale egli si dice pronto. ■ Il tema della lirica è il pensiero della morte, ricorrente nell’opera di Carducci. In molte sue liriche si trova la contrapposizione tra vita e morte, luce e tenebre, tra il sole da una parte e il freddo e l’ombra dall’altra. In questo testo, invece, sembra predominare solo il pensiero della morte, che acquista la forma simbolica degli uccelli, che picchiano sul vetro. In ciò Nevicata ci rivela un Carducci diverso. Un’eco della vita e della gioia che essa suscita riecheggia forse nel grido dell’erbaiola, nel carro che corre e nell’accenno all’indomito cuore. Ma sono solo accenni, smorzati dalla neve e soprattutto dalla pesante tristezza che grava sul cuore. ■ La nota più moderna del testo è la capacità del poeta di animare di una vita misteriosa e segreta il mondo circostan-

te. Gli elementi naturalistici (la neve che cade, i rintocchi del campanile che gemon) non contano per la loro materialità: valgono come simboli enigmatici, nei quali l’autore riflette i propri pensieri o sentimenti. Soprattutto negli uccelli raminghi Carducci proietta i fantasmi di angoscia e di paura che popolano il suo universo interiore. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Descrivi il paesaggio in cui si ambienta la lirica e chiarisci la funzione esercitata dalla neve, a livello letterale e simbolico. 2. Quali personaggi e riferimenti al mondo esterno compaiono nel testo? 3. Quali sensazioni prevalgono nella lirica? Definiscile con le tue parole, con riferimenti al testo (max 10 righe). 4. Coerentemente con la malinconia tematica, il ritmo dei versi si svolge secondo accenti lenti e sommessi. Documenta questo aspetto sul testo. 5. Come potresti definire l’atteggiamento del poeta nei confronti della morte? (max 5 righe) 6. In che cosa consiste, qui, la «metrica barbara»? Illustrala prendendo concretamente in esame una strofetta. 7. Oltre all’adozione di un metro antico, quali altri elementi del linguaggio usato dall’autore ti sembrano tipici di un modo tradizionale di fare poesia? 233

Monografia Raccordo

presenze misteriose vengono a visitare il poeta

5

VERIFICA L’età contemporanea

1

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.

1.

Carducci acquisì a Bologna la cattedra V di letteratura di Severino Ferrari. Inizialmente rifiutò l’idea monarchica e aderì al repubblicanesimo, poi però accettò i Savoia V e volle incontrare la regina Margherita. La composizione delle Rime nuove s’intrecciò cronologicamente a quella delle Odi barbare. V Nei sonetti di Ça ira (in Rime nuove) Carducci si scagliò contro i danni e le violenze V della rivoluzione francese. Almeno in una fase giovanile, Carducci salutò con favore l’emergere del nuovo romanzo V naturalista.

2.

3. 4.

5.

2

F

3. F

F

F

F

Attribuisci le seguenti liriche alla raccolta Rime nuove (a) o Odi barbare (b). Attenzione all’intruso. Davanti San Guido Nevicata Idillio maremmano San Martino Congedo Inno a Satana Il comune rustico Alla stazione in una mattina d’autunno Presso una Certosa

a

b

a

b

a

b

a

b

a

b

a

b

a

b

4

Rispondi alle seguenti domande.

a

b

1.

a

b

Ricordi il nome della moglie e di altre donne amate dal poeta? Che cos’è l’Inno a Satana? Cita le principali opere in prosa dell’autore. Riassumi i principali eventi della vita di Carducci (max 10 righe). Chiarisci l’importanza dell’epistolario carducciano (max 5 righe). In che senso Carducci fu un poeta «classico»? Motiva la risposta (max 10 righe).

3

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte.

1.

Rispetto alla chiesa e alla religione, Carducci a fu un sincero e devoto credente, anche se assunse talora posizioni non condivise dalla gerarchia ecclesiastica b fu un implacabile nemico e non mutò mai tali convincimenti c dopo averle a lungo osteggiate, negli ultimi anni si convertì alla fede d pur conservando il suo scetticismo verso la fede, riconobbe però l’opera civilizzatrice della chiesa Nella figura del «grande artiere», Carducci rappresentò a se stesso, unica guida della giovane nazione italiana nel caos della vita politica contemporanea b ogni poeta che sappia incarnare i valori morali e civili della sua nazione

2.

234

4.

c i poeti classici, capaci di una poesia carica di gloria e di memorie d i poeti moderni che sappiano ispirarsi alla grande arte classica del passato La metrica «barbara» si chiama così, perché a non potendo riutilizzare gli antichi metri greci e latini, è condannata a forme più volgari e cantabili b deve utilizzare lingue «barbare», come quelle romanze e moderne, e non più il greco e il latino di un tempo c deve cantare argomenti «barbari» rispetto alla vita semplice e naturale che conducevano gli antichi d riprende i metri greci e latini, ma in un contesto linguistico nuovo e che dunque verrebbe giudicato «barbaro» da un lettore antico In alcuni momenti di Odi barbare Carducci si avvicina a ai parnassiani francesi b ai poeti romantici dello Sturm und Drang c agli scrittori naturalisti d ai poeti scapigliati

2 3. 4. 5. 6.

PER L’ESAME DI STATO 1.

2.

3.

A partire dai testi letti ( e anche dalla poesia Congedo citata a p. 216) illustra che cosa significhi per Carducci essere poeta (max 15 righe). Considera una poesia a tua scelta tra quelle lette e illustra lo stile (lessico, metrica, sintassi, figure retoriche ecc.) di Carducci (max 15 righe). Il critico Benedetto Croce definì Carducci un poeta «sano», immune dalle «malattie» romantiche e decadenti. Rileggendo i testi ritieni di condividere questo giudizio? Rispondi, con qualche riferimento ai testi (max 20 righe).

Raccordo La Scapigliatura 1

Un modo diverso di essere artisti a fine Ottocento poeta-vate

scrittori «scapigliati»

Carducci, D’Annunzio, Pascoli

non integrati con il sistema sociale



“ i cantori della nuova Italia

(

protesta _ bohème

= vita disordinata e antiborghese)





letteratura civile

letteratura non allineata

“ espressione di un passaggio culturale: dall’artista impegnato



all’artista emarginato

235

Tra Ottocento e Novecento

Integrati o «scapigliati» ■ Al letterato di fine Ottocento veniva espressamente richiesto di promuovere la vita civile e il sentimento unitario della giovane nazione italiana, divulgando i valori dominanti (l’amore per la patria, il senso del dovere e del lavoro, la fedeltà alla famiglia). Chi, pur tra contraddizioni, accettava questo ruolo, otteneva un alto riconoscimento: Giosue Carducci, Gabriele D’Annunzio, più tardi Giovanni Pascoli erano celebrati come i «vati», i «cantori» della nuova Italia. Anche uno scrittore minore come Edmondo De Amicis raggiunse, per le stesse ragioni, ampia notorietà con il suo libro Cuore. ■ Agli intellettuali che non accettavano un simile ruolo, non rimaneva che la via di una sostanziale emarginazione sociale e di un’arte alternativa nelle forme e nei messaggi, spesso polemici con le mode e le opinioni correnti. Fu la strada intrapresa dagli «scapigliati», un gruppo di scrittori per lo più milanesi, attivi a partire dagli anni sessanta. Essi rifiutavano l’integrazione in un ordinato sistema culturale: prendendo a modello gli scrittori «maledetti» francesi, da Baudelaire a Verlaine, si sentivano i rappresentanti di una ben superiore libertà d’arte e di vita; si rifiutavano di trasformare il prodotto letterario in una «merce», da vendersi nei nuovi circuiti dell’industria culturale.

Una vita da bohème ■ Il primo a parlare di «Scapigliatura» fu, nel 1858, il giovane narratore Cletto Arrighi (pseudonimo di Carlo Righetti, 1830-1906), nella presentazione del suo romanzo La Scapigliatura e il 6 febbraio: il 6 febbraio richiamava la data di una tentata rivolta mazziniana del 1853 che fa da sfondo al racconto. ■ «Scapigliato» era un termine già presente in testi letterari del Cinquecento e del Seicento («Noi siam tutti Scapigliati, / gente ardita, e fanti lesti» scriveva Girolamo – da non confondersi con Giacomo – Leopardi nella Canzone della scapigliatura degli huomini, raccolta in Capitoli e canzoni piacevoli del 1616). Nell’Ottocento, viene ad assumere il significato del vocabolo francese bohème. ■ Originariamente bohème era una parola utilizzata per indicare la vita zingaresca (si pensava infatti che gli zingari venissero dalla Boemia). Verso il 1850-60, il termine passò a designare l’esistenza disordinata e misera di quegli artisti postisi ai margini della società parigina: amanti dell’arte libera, ma non delle «con-

venzioni» borghesi, essi manifestano la propria protesta con una vita stentata e con comportamenti contrari alla morale corrente. Scene della vita di bohème era il titolo di un romanzo (1851) del francese Henri Murger (1822-61), che riscosse grande successo, a tal punto che fu messo in musica (1896), con il titolo appunto di Bohème, dal compositore italiano Giacomo Puccini (1858-1924).

La «Scapigliatura» secondo Cletto Arrighi ■ Per cogliere i caratteri originali della Scapigliatura di fine Ottocento, è giusto partire dalla presentazione che Cletto Arrighi stese per il suo già citato romanzo La Scapigliatura e il 6 febbraio. L’opera fu pubblicata nel 1862, ma già quattro anni prima Arrighi aveva delineato i caratteri del gruppo, presentando sull’«Almanacco del Pungolo» il romanzo cui stava lavorando. Tale presentazione vale per noi come una specie di carta d’identità del gruppo degli «scapigliati». ■ Scrive dunque Arrighi: «In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui di ambo i sessi, fra i venti i trentacinque anni, non più; pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro tempo; indipendenti come l’aquila delle Alpi»; e aggiunge: «questa casta o classe, vero pandemonio del secolo; personificazione della follia che sta fuori dai manicomii; serbatoio del disordine, della imprevidenza, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: La Scapigliatura milanese».

Il disagio dell’intellettuale ■ La ribellione di Arrighi e più ancora degli altri «scapigliati», Emilio Praga, Arrigo Boito, Iginio Ugo Tarchetti, rivela bene il disagio che coinvolge nell’Italia postrisorgimentale letterati e artisti. Tale disagio in primo luogo nasceva, come si è accennato, quale reazione davanti all’esigenza di contribuire all’affermazione e alla diffusione dei valori dominanti. Più in profondità, questo divario era dovuto alle trasformazioni tecniche e scientifiche in corso, che stavano emarginando gli uomini di lettere, sbalzandoli dal ruolo di poetamaestro e assegnando loro una marginalità sociale prima sconosciuta. La parola al critico • D. Isella, Che cosa fu la Scapigliatura

236

La Scapigliatura

◗ iniziatore: Arrighi ◗ prosatori: Tarchetti, Faldella, Dossi

DECADENTISMO EUROPEO

◗ poeti: Boito, Praga

Gli autori principali ■ I primi «scapigliati» furono il citato Cletto Arrighi e Giuseppe Rovani (1818-74), autore del romanzo storico Cento anni, dall’ampio disegno paragonabile alle Confessioni di Nievo. Testi • Boito, L’alfier nero (Racconti) Laboratori interattivi • Boito, Dualismo (Libro dei versi, I) • Lezioni d’anatomia (Libro dei versi, XII)

anticipazione italiana del

■ Più rilevante, sul piano artistico, fu l’opera di altri autori, come Arrigo Boito (1842-1918), poeta, narratore, librettista di Verdi e musicista egli stesso, e come Iginio Ugo Tarchetti (1839-69), E p. 242.

■ Tra i poeti, il maggiore fu Emilio Praga (1839-75): i suoi versi (Tavolozza, 1862; Penombre, 1864) manifestano toni ora dimessi e colloquiali, ora crudi e originalmente inclini al satanismo. ■ Piemontese fu Giovanni Faldella (1846-1928), giornalista, uomo politico e narratore. Pubblicò i «bozzetti» campagnoli di Figurine (1875) e la biografia di un artista scapigliato, Rovine (1879), in cui sperimentò un’originale miscela linguistica tra lingua letteraria e lingua parlata.

Decadentismo più morboso e irrazionale: quello, per intenderci, di Oscar Wilde e del suo Ritratto di Dorian Gray (1890), o anche il decadentismo delle pagine più sensuali ed erotiche di D’Annunzio. ■ In Italia quelle tematiche «byroniane» avevano avuto scarsa fortuna. Portandole al centro delle loro opere, gli scapigliati si schieravano decisamente fuori dalla nostra tradizione ottocentesca e in particolare dal Romanticismo, sia da quello moderato e razionale di Manzoni, sia dal romanticismo languido e convenzionale, diffusosi tra gli imitatori di Leopardi. Gli scapigliati scelsero invece una via di arte come esperienza totale e maledetta: l’artista si consacrava interamente al proprio lavoro, rifiutava la normalità e le regole, si poneva insomma, come abbiamo detto, fuori dalla società.

Una via italiana al Decadentismo

Un’arte «maledetta»

■ Su tali basi, gli scapigliati si posero come un gruppo d’avanguardia ben riconoscibile e determinato. Anzitutto essi vivevano in modo antiborghese: si definivano «gli antecristi», come scriveva Emilio Praga in Preludio (E Testo 1, p. 239). Più in generale, nell’Italia invasa dai versi sentimentali dei poeti tardoromantici, dove ancora non si era affacciata la novità della narrativa verista né, tantomeno, quella del Decadentismo, furono proprio gli scapigliati milanesi, con il loro desiderio di «disordine», di «spirito d’indipendenza e d’opposizione agli ordini stabiliti», così definito da Cletto Arrighi, a incarnare lo spirito di novità e di ribellione intrinseco all’avanguardia decadente.

■ Il punto di partenza degli scapigliati fu il recupero dei temi magici, onirici, satanici che avevano caratterizzato il Romanticismo tedesco, partendo dal predecessore francese marchese de Sade e giungendo a George Byron, Edgar Allan Poe, fino a Ernst T.A. Hoffmann. Proprio questi temi torneranno, esasperati, nel

■ Tale anticipazione del Decadentismo avvenne in modo quasi autonomo, con scarse riprese da Charles Baudelaire; Arthur Rimbaud e gli altri simbolisti francesi rimasero di fatto sconosciuti agli scapigliati. Anche questo accresce la loro originalità e importanza nel panorama letterario di fine Ottocento.

■ Un vero sperimentatore di linguaggi fu il pavese Carlo Dossi (1849-1910): fu autore di un’autobiografia (Vita di Alberto Pisani, 1870), di un romanzo inframmezzato da racconti più brevi (La desinenza in A, 1878) e di un diario di pensieri e capricci, Note azzurre (postumo, 1912). Spirito curioso e anticonformista, Dossi manipolò lessico e sintassi per ottenere inediti effetti comici.

237

Monografia Raccordo

byronismo (temi orridi, morbosi, irrazionali, tipici del Romanticismo tedesco)

sviluppi: Scapigliatura milanese intorno al 1870



punto di partenza a inizio Ottocento

Contesto

Gli autori e la poetica “

2

L’AUTORE

EMILIO PRAGA ◗ Capofila degli scapigliati milanesi, Emilio Praga incarnò il cliché dell’intellettuale attivo nella vita sociale che è però, contemporaneamente, anche un artista sregolato, dalla vita dissoluta. Nato nel 1839 a Gorla, in provincia di Milano, da famiglia agiata (il padre era un industriale) e colta, poté compiere, prima dei vent’anni, viaggi e studi in Europa e dedicarsi alla prediletta attività di pittore: con la sua valigetta di colori visitò i valichi alpini, la Svizzera, la Francia e i Paesi Bassi, alla ricerca di ispirazione e suggestioni. Nel 1857 si fermò a lungo a Parigi, avendo così modo di leggere I fiori del male di Baudelaire, allora appena editi. ◗ Ritornato in Italia, si fece apprezzare come pittore alla mostra milanese di Brera nel 1859, dove presentò alcuni dipinti a olio, e come poeta pubblicando il suo primo libro di versi, Tavolozza (1862), una sorta di diario

L’OPERA

PENOMBRE ◗ Le liriche raccolte in Penombre (1864) segnano il momento più «scapigliato» e anticonformista di Praga. I versi del libro toccano infatti tutti i temi caratteristici della corrente milanese: il rifiuto della società contemporanea attraverso la consapevole distruzione di se stesso, l’anticlericalismo, il gusto del macabro, le deviazioni sessuali, la profanazione del sentimento d’amore romantico e dell’immagine femminile idealizzata. Il linguaggio si fa più tormentato, meno comune e più aperto a termini brutalmente realistici. Assai forte è l’influsso di Baudelaire, apprezzato da Praga come un modello di rivolta alla tradizione e, contemporaneamente, di aspirazione alla perfezione artistica. Si tratta di un motivo ricorrente nelle poesie di Penombre, bene esemplificato sin dai primi versi di Spes

238

della sua giovinezza vagabonda. La morte del padre e il conseguente dissesto finanziario della famiglia indussero Praga a stabilirsi, con la moglie e il figlioletto, a Milano. Ivi ricoprì la cattedra di letteratura italiana al Conservatorio e scrisse per riviste e giornali; tentò anche esperienze di drammaturgia, in collaborazione con Boito, e di librettista. ◗ Le sue raccolte di versi (Penombre, 1864; Fiabe e leggende, 1869; Trasparenze, postumo, 1878) rivelano sia l’influsso di Baudelaire, sia la presenza di un colorismo impressionista, che avvicina la poesia alla pittura. Come narratore va ricordato per il romanzo, di sapore veristico, Le memorie del presbiterio. Scene di provincia; l’opera fu lasciata incompiuta a causa della sua precoce morte, sopravvenuta nel 1875 a seguito delle sregolatezze degli ultimi anni e dell’abuso di alcol e stupefacenti.

unica: «Vorrei farmi carnefice, / vorrei farmi becchino / per lacerarti, o secolo, / quel manto d’arlecchino; / e sul tuo muto Golgota / cacciarti col tuo Dio, / e imprecarti l’oblìo / dei posteri e del sol». ◗ Penombre fu il secondo libro di versi di Praga; il suo esordio poetico era avvenuto con Tavolozza (1862), un libro improntato alla realtà, sia nei temi quotidiani, sia per l’uso di un linguaggio spesso prosastico. Dopo Penombre, sarà la volta di Trasparenze (1878), terzo e ultimo libro di versi di Praga. Qui la tematica «scapigliata» sfocia in una sensibilità già decadente, che ispira la ricerca degli interiori e più profondi moti dell’animo, accanto all’evocazione di una purezza perduta attraverso il ricorso a temi e momenti dell’infanzia.

La Scapigliatura

Preludio Penombre Anno: 1864 Temi: • la crisi dei valori tradizionali • il programma del disvelamento del «vero», anche nelle sue bassezze Preludio fu composta nel novembre del 1864: è quindi tra le ultime poesie, in senso cronologico, della raccolta. Venne però collocata in apertura del volume per il suo valore di «manifesto» programmatico della nuova poetica «scapigliata»: la lirica esprime infatti la consapevolezza di appartenere a una generazione bruciata e fallita, che può solo constatare il tramonto definitivo di quegli ideali religiosi e morali che erano stati i capisaldi ideologici e culturali delle precedenti generazioni.

la coscienza della malattia si allarga a percezione del «decadere» di tutta un’epoca

è inutile credere che la religione possa risolvere una crisi senza speranza

Noi siamo i figli dei padri ammalati; aquile al tempo di mutar le piume,1 svolazziam2 muti, attoniti, affamati, sull’agonia di un nume.3 Nebbia remota è lo splendor dell’arca, e già dall’idolo d’or torna l’umano, e dal vertice sacro il patriarca s’attende invano;4 s’attende invano dalla musa bianca che abitò venti secoli il Calvario, e invan l’esausta vergine s’abbranca ai lembi del Sudario...5

l’immagine riassume il ribellismo e l’anticlericalismo degli scapigliati

Casto poeta6 che l’ltalia adora, vegliardo7 in sante visioni assorto, tu puoi morir!... degli antecristi8 è l’ora! Cristo è rimorto!

Schema metrico: 8 quartine di 3 endecasillabi piani (con l’accento cioè sulla penultima sillaba) e di un verso più breve, alternativamente un settenario piano e un quinario piano. Schema: ABAb, CDCd. 1. aquile... le piume: al tempo della muta, le aquile sono combattute tra l’istinto di volare e il timore. 2. svolazziam: il verbo vuole suggerire l’immagine di un volo basso e scomposto. 3. agonia di un nume: è da intendersi come “morte di Dio” ma anche come allusione a Manzoni (il Casto poeta dei vv. 13-15), che della fede religiosa era stato il cantore. 4. Nebbia remota... invano: la luce dell’arca (la santa arca degli ebrei, in cui furo-

no deposte le tavole con i Dieci Comandamenti) è ora una nebbia (cioè: si è spenta), e gli uomini (l’umano) tornano ad adorare il vitello d’oro (come fecero gli ebrei quando disperarono del ritorno di Mosè dal monte Sinai; probabilmente qui il poeta polemizza con l’eccessivo valore attribuito al denaro dalla società a lui contemporanea) e inutilmente si aspetta il ritorno del patriarca (Mosè) dalla cima (vertice) sacra (cioè dal monte Sinai). 5. s’attende... Sudario: è inutile che la poesia cristiana (la musa bianca) continui ad aspettare (il ritorno del patriarca, cioè dei valori professati dai Dieci Comandamenti); per venti secoli questa poesia si è ispirata al sacrificio di Cristo (abitò... il Cal-

5

10

15

vario) e ora, ormai priva di forze (l’esausta vergine), inutilmente continua ad aggrapparsi all’immagine della passione di Cristo (letteralmente: al Sudario, cioè al lenzuolo in cui venne avvolto Cristo morto). 6. Casto poeta: Alessandro Manzoni, considerato il poeta cristiano per eccellenza. 7. vegliardo: vecchio; nel 1864 Manzoni aveva quasi ottant’anni. 8. antecristi: secondo l’Apocalisse, l’Anticristo è un essere, inviato da Satana, che alla fine della storia si ribellerà a Cristo e alla chiesa, portando l’umanità sull’orlo della dannazione. L’autore scrive erroneamente ante- (che significa “prima”) invece di anti-, “contro”.

239

Monografia Raccordo

1

Contesto

Emilio Praga

Tra Ottocento e Novecento

infatti, come si può amare un poeta così, dalle verità tanto sgradevoli?

O nemico lettor,9 canto la Noia, l’eredità del dubbio e dell’ignoto, il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boja, il tuo cielo e il tuo loto!10

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Canto litane di martire e d’empio;11 canto gli amori dei sette peccati che mi stanno nel cor, come in un tempio inginocchiati.12

il vero sia come denuncia soggettiva di una realtà che non piace, sia come descrizione oggettiva dei mali sociali

Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro,13 e l’Ideale che annega nel fango... Non irrider, fratello, al mio sussurro se qualche volta piango, giacché più del mio pallido demone odio il minio e la maschera14 al pensiero, giacché canto una misera canzone, ma canto il vero!

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Poeti minori dell’Ottocento, a cura di G. Petronio, Utet, Torino 1977 9. O nemico lettor: cita l’«ipocrita lettore» a cui Baudelaire si rivolgeva nella prima poesia dei Fiori del male (1857). Un’altra eco da Baudelaire è la Noia, che riprende il «tedio» o spleen baudelairiano. 10. canto... loto!: la Noia domina l’uomo contemporaneo: essa è il suo re e pontefice, oltre che carnefice (boja); la Noia è, allo stesso tempo, segno di dannazione (loto = fango) ma anche dell’invincibile aspirazione all’ideale, alla purezza (cielo). 11. litane di martire e d’empio: Praga af-

ferma di cantare, allo stesso tempo, le litanie dei martiri (preghiere con una caratteristica struttura iterativa) e litanie blasfeme, che parodiano quelle vere (si recitavano e si recitano tuttora nelle «messe nere»). 12. gli amori... inginocchiati: non solo il poeta canta gli amori dei «sette peccati» o vizi capitali, come fossero degli eroi di romanzo, ma, con evidente dissacrazione, li rappresenta inginocchiati, religiosamente, in un luogo profano (oltre che metaforico) qual è il suo cuore (cor).

13. bagni d’azzurro: la totale immedesimazione con l’ideale, con un sogno di purezza. 14. il minio e la maschera: odia cioè la falsità, la finzione. Letteralmente il minio è la vernice rossa antiruggine che si mette sui cancelli e su altri oggetti metallici prima di dipingerli con la comune pittura; il termine passò anche a indicare, per estensione, il rossetto e il trucco.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Si riconoscono nel testo due parti simmetriche, composte ciascuna di quattro strofe. • Nelle prime quattro strofe è utilizzata esclusivamente la prima persona plurale (Noi siamo; svolazziam; il vocabolo plurale antecristi): facendosi portavoce di un’intera generazione, il poeta proclama il rifiuto della precedente tradizione. • Nelle successive tre strofe il discorso poetico s’incentra invece sull’io, che diventa l’unico protagonista (si veda la ripetizione di canto ai vv. 21, 22 e 25, ripreso anche ai vv. 31 e 32): ora, dopo aver constatato la fine di ogni ideale del passato, Praga focalizza il discorso poetico sull’individuopoeta, enunciando in cosa consiste la sua nuova identità di poeta. ■ Tre sono i motivi salienti del testo. 240

• All’inizio viene fortemente sottolineata la condizione di declino e di malattia che caratterizza il poeta e coloro che gli sono simili: si tratta infatti di un malessere non solo personale, ma generalizzato in una condizione collettiva. • Segue la dichiarazione della crisi profonda dei valori tradizionali, incarnata in primo luogo dalla crisi della religione: qui la polemica coinvolge anche il grande Manzoni, scrittore cattolico per eccellenza. La rivolta anarcoide di Praga ostenta temi e toni blasfemi (Cristo è rimorto!, v. 16), addirittura satanici (litane di martire e d’empio, v. 21), laddove evidente è la suggestione di Baudelaire, anche se la profondità intellettuale della poesia baudelairiana resta piuttosto lontana. • La forte opposizione fra l’ansia di un ideale irraggiungibile e la consapevolezza della negatività del presente e

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Nel testo ritroviamo (talvolta all’interno del medesimo verso) una miscela di atteggiamenti beffardi, ricerca di purezza, di autocommiserazione. In quali punti soprattutto si evidenzia questa mescolanza? 2. Perché il lettore viene chiamato nemico? 3. Che cos’è la musa bianca e che cosa impersona? E quale musa il poeta auspica, in alternativa?

4. In un punto il poeta critica la classe dominante borghese, pervasa dalla sete di guadagno e di denaro, divenuto la divinità da adorare. Rintraccialo nel testo e commentalo. 5. L’immagine della religione diviene una sorta di simbolo di tutte le fedi e le ideologie «forti», quelle interpretazioni unitarie del mondo che la decadenza attuale mette inesorabilmente in crisi. Individua tutti i riferimenti alla religione contenuti in Preludio e commentali con le tue parole. 6. I «poeti maledetti» tendono a presentare se stessi, chi più chi meno, come cattivi, peccatori, talvolta addirittura criminali. Come si esprime questa tendenza in Preludio? Rispondi in max 10 righe. 7. Ti pare che la crisi di cui parla la poesia di Praga venga rappresentata come un fatto personale, generazionale o storico? Discuti queste tre possibili intrepretazioni; poi illustrale con parole tue in max una facciata e mezzo di foglio protocollo (2500-3000 battute).

Vita di bohème Gli scapigliati milanesi vivono l’esistenza della bohème, che fin dal Seicento indicava, in lingua francese, una vita zingaresca, sbandata. Successivamente, a partire dal 1830 circa, il termine era passato a indicare i giovani intellettuali parigini dall’esistenza precaria, marginale. La bohème e la Scapigliatura furono atteggiamenti di reazione all’appiattimento che la mentalità borghese riservava all’arte e alla letteratura, i cui prodotti tendevano, a metà Ottocento, a scadere al rango di «merce». Siamo non a caso nel periodo in cui l’arte cominciava ad avere un suo mercato e i collezionisti si trasformavano in mercanti. E così, per molti giovani artisti, la «vita di bohème» divenne un rifugio in cui poter affermare la propria genialità e indipendenza e l’autenticità di sentimenti. La vita scandalosa, il fallimento, l’abiezione nelle droghe furono visti come una strada – un po’ subìta e un po’ cercata – di protesta e insieme di riscatto.

Il «maledettismo» di questi giovani artisti ricorda in parte la ribellione sociale di poeti romantici come Byron (che però era un ricco, oltre che eccentrico, aristocratico); esso ispirerà il mito decadente dei Poeti maledetti (Poètes maudits), così battezzati nel 1884 da Paul Verlaine. Della vita di bohème lasciò un famoso ritratto Henri Murger (1822-61) nel romanzo Scene della vita di bohème (1851), al quale s’ispirerà Giacomo Puccini (egli pure, in gioventù, artista piuttosto «scapigliato») nel suo melodramma La bohème (1896). Il libretto, scritto da Luigi Giacosa, racconta di un gruppo di giovani artisti (siamo a Parigi nel 1830); uno di loro, Rodolfo, incontra per caso Mimì, che abita in una soffitta attigua. Rodolfo s’innamora di lei e la convince a unirsi a lui e a festeggiare assieme agli amici la vigilia di Natale al quartiere latino. Ai due si unisce un’altra coppia, formata da Musetta e dal pittore Marcello. La vita però non è facile, per gelosie, ri-

■ Gustave Courbet, L'atelier (particolare), 1855.

picche ecc. Mimì è malata, e la vita nella soffitta potrebbe aggravarne la salute; i due devono separarsi, nello struggente rimpianto delle ore felici trascorse insieme. Quando ormai la fanciulla sente vicina la fine, ritorna, accompagnata da Musetta, nella soffitta complice dell’amore: e qui si spegne dolcemente, accanto al suo Rodolfo.

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Monografia Raccordo

del reale suggerisce il punto d’arrivo della lirica, e cioè il vero (v. 32), svelato da ogni mascheratura e ogni orpello, nella sua degradazione. ■ La ricerca di un linguaggio crudo e provocatorio convive con espressioni più letterarie (nume, vertice sacro, litane). Significative le ricorrenti frantumazioni del verso in brevi frasi parlate o dialogate, in incisi, con frequenti imprecazioni e interiezioni. Più che coordinare e subordinare, Praga allinea; tale procedimento conferisce alla poesia una fisionomia per così dire «dissaldata».

Contesto

La Scapigliatura

L’AUTORE

IGINIO UGO TARCHETTI ◗ Tarchetti nacque nel 1839 a San Salvatore Monferrato (Alessandria) da agiata famiglia. Terminato il liceo iniziò una breve carriera militare partecipando, nel 1861, alla repressione del brigantaggio nell’ltalia meridionale. Nel 1865 si dimise dall’esercito per motivi di salute e d’insofferenza a quella vita; un’eco tornerà nel romanzo antimilitarista Una nobile follia, del 1867, in cui un ufficiale viene considerato «folle» dopo un plateale e radicale rifiuto della vita militare. Tornato a Milano, si legò all’ambiente della Scapigliatura, dandosi

L’OPERA

a un’esistenza inquieta, minata dalla tubercolosi e dalla miseria. La passione per Foscolo lo portò ad aggiungere al nome di battesimo, Iginio, l’altro nome di Ugo. Morì per un attacco di tifo nel 1869, a soli 30 anni. ◗ Il suo nome rimane legato, più che all’esigua raccolta di poesie (pubblicate postume, nel 1879, con il titolo Disjecta), al romanzo Fosca (1869) e ai Racconti fantastici (1869). Meno noto il pur interessante romanzo Paolina, pubblicato nel 1866, che narra la vita misera di un’operaia in una grande città.

RACCONTI FANTASTICI ◗ L’opera, pubblicata nel 1869, comprende cinque racconti, tutti giocati su temi misteriosi e allucinanti, sul gusto per le scene da incubo e le atmosfere di tensione: I fatali (sul tema di individui destinati a esercitare una sinistra influenza sui loro contemporanei), Le leggende del castello nero (sulla reincarnazione), La lettera U (Manoscritto d’un pazzo), Un osso di morto (il narratore restituisce al proprietario, cioè al fantasma di un ex inserviente dell’Università di Pavia, l’osso di una rotula da lui uti-

lizzato come fermacarte), Uno spirito in un lampone (cibandosi dei frutti di una pianta di lamponi, cresciuta laddove era stata sepolta una ragazza assassinata, il protagonista assimila la personalità della giovane defunta). In questi testi la pretesa spiegazione scientifica di casi e vicende irregolari s’intreccia a una dimensione fantastica, riconducibile all’opera dello scrittore romantico tedesco Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822) e a quella dell’americano Edgar Allan Poe (1809-49).

Iginio Ugo Tarchetti

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La lettera U Racconti fantastici Anno: 1869 Temi: • la rivelazione dei lati più abnormi e terrificanti di realtà in apparenza comuni • l’emergere dell’allucinazione e della follia • l’impossibilità di condurre un’esistenza normale Il racconto La lettera U (Manoscritto d’un pazzo) costituisce uno degli esempi più interessanti della narrativa scapigliata e della sua speciale attenzione alle situazioni assurde, abnormi, marginali. Il protagonista soffre di una devastante ossessione, che lo terrorizza ogniqualvolta ha a che fare con la lettera U. Ogni tentativo di superare questo stato di incubo risulterà vano e il personaggio, divenuto pazzo, morirà in manicomio. Il racconto viene presentato sotto forma di diario manoscritto, in modo da proporre una «storia vera», spiegabile scientificamente (o quanto meno, documentabile) pur nella sua assurdità. La scrittura di Tarchetti riproduce fedelmente la crescente alienazione del protagonista: l’ossessività delle ripetizioni e l’introduzione di una rilevante innovazione grafica, la riproduzione della lettera U in grandezze differenti, corrispondono allo sviluppo dell’ossessione nella psiche.

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– U! U! Ho io scritto questa lettera terribile, questa vocale spaventosa? L’ho io delineata esattamente? L’ho io tracciata in tutta la sua esattezza tremenda, co’ suoi profili fatali, colle sue due punte detestate, colla sua curva abborrita?1 Ho io ben vergata questa 5 lettera, il cui suono mi fa rabbrividire, la cui vista mi riempie di terrore? Sì, io l’ho scritta. Ed eccovela ancora: U Eccola un’altra volta: U

un apparente tentativo di spiegazione razionale copre, in realtà, un’ossessione del tutto assurda

l’invito a guardarsi dentro non conduce, qui, a una chiarificazione e al rasserenamento, ma all’angoscia

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Guardatela, affissatela2 bene – non tremate, non impallidite – abbiate il coraggio di sostenere la vista, di osservarne tutte le parti, di esaminarne tutti i dettagli, di vincere tutto l’orrore che v’ispira... Questo U!... questo segno fatale, questa lettera abborrita, questa vocale tremenda! E l’avete ora veduta?... Ma che dico?... Chi di voi non l’ha veduta, non l’ha scritta, 15 non l’ha pronunciata le mille volte? – Lo so; ma io vi domanderò bensì: chi di voi l’ha esaminata? chi l’ha analizzata, chi ne ha studiato la forma, l’espressione, l’influenza? Chi ne ha fatto l’oggetto delle sue indagini, delle sue occupazioni, delle sue veglie? Chi vi ha posato sopra il suo pensiero per tutti gli anni della sua vita? Perché... voi non vedete in questo segno che una lettera mite, innocua come le al- 20 tre; perché l’abitudine vi ci ha resi indifferenti; perché la vostra apatia3 vi ha distolto dallo studiarne più accuratamente i caratteri... ma io... Se voi sapeste ciò che io ho veduto!... se voi sapeste ciò che io vedo in questa vocale! U 25 E consideratela ora meco.4 Guardatela bene, guardatela attentamente, spassionatamente, fissi! E così, che ne dite? Quella linea che si curva e s’inforca5 – quelle due punte che vi guardano immobili, che si guardano immobili – quelle delle due lineette che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le cime – quell’arco inferiore, sul quale la lettera oscilla e si 30 dondola sogghignando – e nell’interno quel nero, quel vuoto, quell’orribile vuoto che si affaccia dall’apertura delle due aste, e si ricongiunge e si perde nell’infinità dello spazio... Ma ciò è ancor nulla. Coraggio! Raddoppiate la vostra potenza d’intuizione; gettatevi uno sguardo più indagatore. 35 Partite da una delle due punte, seguite la curva esterna, discendete, avvicinatevi all’arco, passatevi sotto, risalite, raggiungete la punta opposta... Che cosa avete veduto? Attendete! Compite adesso un viaggio a rovescio. Discendete lungo la linea interna – discen- 40 detevi con coraggio, con energia – raggiungete il fondo, arrestatevi, fermatevi un

1. abborrita: odiata, detestata. 2. affissatela: fissatela.

3. apatia: indolenza, indifferenza e insensibilità.

4. meco: con me. 5. s’inforca: si divide in due parti.

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Monografia Raccordo

l’io narrante associa subito numerose connotazioni negative alla lettera U e al suo profilo

Contesto

La Scapigliatura

Tra Ottocento e Novecento

istante, esaminatelo attentamente; poi risalite fino alla punta d’onde eravate partito dapprima... Tremate? Impallidite? 45 Non basta ancora! Posatevi un istante sulle due linee che ne tagliano le punte; andate dall’una all’altra; poi guardate l’assieme della lettera, guardatela d’un sol colpo d’occhio, esaminatene tutti i profili, afferratene tutta l’espressione... e ditemi se non siete paralizzati, se non siete vinti, se non siete annichiliti6 da quella vista?!?! 50 Ecco. Io vi scrivo qui tutte le vocali: aeiou Le vedete? Sono queste? aeiou

i punti esclamativi trascrivono un’angoscia che non può essere espressa nelle normali forme letterarie

da qui in avanti il narratore propone un resoconto autobiografico, i cui momenti sono sempre caratterizzati dall’angoscia per la lettera U

55 Ebbene?! Ma non basta il vederle. Sentiamone ora il suono. A – L’espressione della sincerità, della schiettezza, d’una sorpresa lieve ma dolce. E – La gentilezza, la tenerezza espressa tutta in un suono. 60 I – Che gioia! Che gioia viva e profonda! O – Che sorpresa! che meraviglia! ma che sorpresa grata! Che schiettezza rozza, ma maschia in quella lettera! Sentite ora l’U. Pronunciatelo. Traetelo fuori dai precordi7 più profondi, ma pronunciatelo bene: U! uh!! uhh!!! uhhh!!!! Non rabbrividite? non tremate a questo suono? Non vi sentite il ruggito della fiera, 65 il lamento che emette il dolore, tutte le voci della natura soffrente e agitata? Non comprendete che vi è qualche cosa d’infernale, di profondo, di tenebroso in quel suono? Dio! che lettera terribile! che vocale spaventosa!!

70 Vi voglio raccontare la mia vita. Voglio che sappiate in che modo questa lettera mi ha trascinato ad una colpa, e ad una pena ignominiosa e immeritata. Io nacqui predestinato. Una terribile condanna pesava sopra di me fino dal primo giorno della mia esistenza: il mio nome conteneva un U. Da ciò tutte le sventure del75 la mia vita. A sette anni fui avviato alle scuole. Un istinto, di cui ignorava ancora le cause, mi impediva di apprendere quella lettera, di scriverla: ogni volta che mi si facevano leggere le vocali mi arrestava, mio malgrado, d’innanzi all’U; mi veniva meno la voce, un panico indescrivibile 80 s’impossessava di me – io non poteva pronunciare quella vocale! Scriverla? era peggio! La mia mano sicura nel vergare le altre, diventava convulsa e tremante allorché mi accingevo a scrivere questa. Ora le aste erano troppo conver-

6. annichiliti: annientati, abbattuti. 7. dai precordi: il cuore e ciò che gli sta

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intorno; qui significa “dalle zone più profonde dell’interiorità”.

l’oggetto della propria ossessione assume realtà fisica: tale dissociazione dell’io è un chiaro segno di follia

il mutamento della grafica costituisce una delle maggiori novità della scrittura di Tarchetti

la solitudine è il segnale esteriore del graduale sprofondare del protagonista nella follia

U Io stava seduto di fronte alla lavagna. Quella vocale era lì, e pareva guardarmi, pareva affissarmi e sfidarmi. Non so qual coraggio mi nascesse improvvisamente nel 90 cuore: certo il tempo della rivelazione era giunto! Quella lettera ed io eravamo nemici; accettai la sfida, mi posi il capo tra le mani e incominciai a guardarla... Passai alcune ore in quella contemplazione. Fu allora che io compresi tutto, che io vidi tuttociò che vi ho ora detto, o tentato almeno di dirvi, giacché il dirvelo esattamente è impossibile. Io indovinai le ragioni della mia ripugnanza, del mio odio; e progettai 95 una guerra mortale a quella lettera. Incominciai col togliere quanti libri poteva a’ miei compagni e cancellarvi tutti gli U che mi venivano sott’occhio. Non era che il principio della mia vendetta. Fui cacciato dalle scuole. 100 Vi ritornai tuttavia più tardi. Il mio maestro si chiamava Aurelio Tubuni. Tre U!! Io lo abborriva per questo. Un giorno scrissi sulla lavagna: Morte all’U! Egli attribuì a sé medesimo quella minaccia. Fui ricacciato. Ottenni ancora di tornarvi una terza volta. Presentai allora, come lavoro di esame, un progetto relativo all’abolizione di questa vocale, alla sua espulsione dalle lettere 105 dell’alfabeto. Non fui compreso. Fui tacciato di follia. I miei compagni, conosciuta così la mia avversione a quella vocale, incominciarono contro di me una guerra terribile. Io vedeva, io trovava degli U da tutte le parti: essi ne scrivevano dappertutto: sui miei libri, sulle pareti, sui banchi, sulla lavagna – i miei quaderni, le mie carte ne erano ri110 pieni: né io poteva difendermi da questa persecuzione sanguinosa ed atroce. 10 Un giorno trovai nella mia saccoccia una cartolina, su cui ne era scritta una lunga fila in questo modo infernale, così:

UUUUUUU

U

Divenni furente! La vista di tutti quegli U disposti in questa guisa,11 collocati con questa gradazione tremenda, mi trasse di senno. Sentii salirmi il sangue alle tempia, 115 sconvolgersi la mia ragione... Corsi alla scuola; ed afferrato alla gola uno de’ miei compagni, l’avrei per fermo12 soffocato, se non mi fosse stato tolto di mano. Era la prima colpa a cui mi trascinava quella vocale! Mi fu impedito di continuare i miei studi. Allora incominciai a vivere da solo, a pensare, a meditare, ad operare da solo. En- 120 trai in una nuova sfera di osservazioni, in una sfera più elevata, più attiva: studiai i rapporti che legavano ai destini dell’umanità questa lettera fatale; ne trovai tutte le

8. del quadrello: colpi di righello. 9. m’inacerbiva e piangeva: mi sentivo

più triste e disperato, e piangevo. 10. nella mia saccoccia: in tasca.

11. in questa guisa: in questo modo. 12. per fermo: sicuramente.

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Monografia Raccordo

genti, ora troppo divergenti; ora formavano un V diritto, ora un V capovolto; non poteva tracciare in nessun modo la curva, e spesso non riusciva che a formare una li85 nea serpeggiante e confusa. 8 9 Il maestro mi dava del quadrello sulle dita – io m’inacerbiva e piangeva. Aveva dodici anni, allorché un giorno vidi scritto sulla lavagna un U colossale, così:

Contesto

La Scapigliatura

Tra Ottocento e Novecento

nella dimensione della follia esiste solo l’io, ossessivamente; non c’è posto per l’amore, per l’apertura agli altri

la follia annulla e stravolge i contorni della realtà: l’amata si muta in un mostro di perfidia

fila, ne scopersi tutte le cause, ne indovinai tutte le leggi; e scrissi ed elaborai, in cinque lunghi anni di fatica, un lavoro voluminoso, nel quale mi proponeva di dimostrare come tutte le umane calamità non procedessero da altre cause che dall’esisten- 125 za dell’U, e dall’uso che ne facciamo nella scritturazione13 e nel linguaggio; e come fosse possibile il sopprimerlo, e rimediare, e prevenire i mali che ci minaccia. Lo credereste? non trovai mezzo di dare alla luce la mia opera. La società ricusava da me quel rimedio che solo poteva ancora guarirla. A venti anni mi accesi d’amore per una fanciulla, e ne fui riamato. Essa era divina- 130 mente buona, divinamente bella: ci amammo al solo vederci; e quando potei parlarle, le chiesi: «Come vi chiamate?» «Ulrica!» «Ulrica!» U. Un U! Era una cosa orribile. Come sottomettermi alla violenza atroce, continua di quella vocale? Il mio amore era tutto per me,14 ma nondimeno trovai la 135 forza di rinunziarvi. Abbandonai Ulrica. Tentai di guarirmi con un altro affetto. Diedi il mio cuore ad un’altra fanciulla. Lo credereste? Seppi più tardi che si chiamava Giulia. Mi divisi anche da quella. Ebbi un terzo amore. L’esperienza mi aveva reso cauto: m’informai del suo nome 140 prima di darle il mio cuore. Si chiamava Annetta. Finalmente! Apparecchiammo15 per le nozze, tutto era combinato, stabilito, allorché, nell’esaminare il suo certificato di nascita, scopersi con orrore che il suo nome di Annetta non era che un vezzeggiativo, un abbreviativo di Susanna, Susannetta, e oltre ciò – inorridite! aveva cinque altri nomi di battesimo: Po145 stumia, Uria, Umberta, Giuditta e Lucia. Immaginate se io mi sentissi rabbrividire nel leggere quei nomi! – lacerai sull’istante il contratto nuziale, rinfacciai a quel mostro di perfidia il suo tradimento feroce, e mi allontanai per sempre da quella casa. Il cielo mi aveva ancora salvato. Ma ohimè! io non poteva più amare, la mia affettività era esaurita, prostrata da tanti esperimenti terribili. Il caso mi condusse ad Ulrica; le memorie del mio primo 150 amore si ridestarono, la mia passione si raccese più viva... Volli rinunciare ancora al suo affetto, alla felicità che mi riprometteva da questo affetto... ma non ne ebbi la forza – ci sposammo. Da quell’istante incominciò la mia lotta. Io non poteva tollerare che essa portasse un U nel suo nome, non poteva chiamar- 155 la con quella parola. Mia moglie!... la mia compagna, la donna amata da me... portare un U nel suo nome!... Essa che aveva già fatto un acquisto così tremendo nel mio, perché io pure ne aveva uno nel mio casato! Era impossibile! Un giorno le dissi: «Mia buona amica, vedi quanto quest’U è terribile! rinunciavi, 160 abbrevia o muta il tuo nome!... te ne scongiuro!» Essa non rispose, e sorrise. Un’altra volta le dissi: «Ulrica, il tuo nome mi è insopportabile... esso mi fa male... esso mi uccide! Rinunciavi». 165 Mia moglie sorrideva ancora, l’ingrata! sorrideva!...

13. scritturazione: scrittura. 14. Il mio amore era tutto per me: cioè Ulrica era la ragione stessa della sua vita.

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15. Apparecchiammo: predisponemmo ogni cosa.

una conclusione spiazzante, adeguata alla paradossalità della vicenda

Una notte mi sentii invaso da non so qual furore: aveva avuto un sogno affannoso... Un U gigantesco postosi sul mio petto mi abbracciava colle sue aste immense, flessuose... mi stringeva... mi opprimeva, mi opprimeva... Io balzai furioso dal letto: afferrai la grossa canna di giunco,16 corsi da un notaio, e gli dissi: «Venite, venite me170 co sull’istante a redigere un atto formale di rinuncia...» Quel miserabile si opponeva. Lo trascinai meco, lo trascinai al letto di mia moglie. Essa dormiva; io la svegliai aspramente e le dissi: «Ulrica, rinuncia al tuo nome, all’U detestabile del tuo nome!» Mia moglie mi guardava fissamente, e taceva. «Rinuncia» io le replicai con voce terribile «rinuncia a quell’U... rinuncia al tuo no- 175 me abborrito!!...» Essa mi guardava ancora, e taceva! Il suo silenzio, il suo rifiuto mi trassero di senno:17 mi avventai sopra di lei, e la percossi col mio bastone. 180 Fui arrestato, e chiamato a render conto di questa violenza. I giudici assolvendomi, mi condannarono ad una pena più atroce, alla detenzione in questo Ospizio di pazzi. Io pazzo! Sciagurati! Pazzo! perché ho scoperto il segreto dei loro destini! dell’avversità dei loro destini! perché ho tentato di migliorarli?... Ingrati! Sì, io sento che questa ingratitudine mi ucciderà: lasciato qui solo, inerme! faccia a 185 faccia col mio nemico, con questo U detestato che io vedo ogni ora, ogni istante, nel sonno, nella veglia, in tutti gli oggetti che mi circondano, sento che dovrò finalmente soccombere. Sia. 190 Non temo la morte: l’affretto come il termine unico de’ miei mali. Sarei stato felice se avessi potuto beneficiare l’umanità persuadendola a sopprimere quella vocale; se essa non avesse esistito mai, o se io non ne avessi conosciuto i misteri. Era stabilito altrimenti! Forse la mia sventura sarà un utile ammaestramento agli 195 uomini; forse il mio esempio li spronerà ad imitarmi... Che io lo speri! Che la mia morte preceda di pochi giorni l’epoca della loro grande emancipazione, dell’emancipazione dall’U, dell’emancipazione da questa terribile vocale!!! – *** L’infelice che vergò queste linee, morì nel manicomio di Milano l’11 settembre 200 1865. I.U. Tarchetti, Racconti fantastici, in Tutte le opere, a cura di E. Ghidetti, Cappelli, Bologna 1967

16. canna di giunco: il bastone. 17. mi trassero di senno: mi fecero impazzire, mi portarono fuori di me.

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Monografia Raccordo

ancora una volta, l’incubo acquista dimensioni e consistenza reali, avvertite dall’io come una minaccia alla propria vita

Contesto

La Scapigliatura

Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il racconto narra la vicenda di un uomo divenuto folle a causa dell’ossessiva presenza, nella sua vita, dell’odiata lettera U. Egli concepisce per questa vocale un’avversione tale da abbandonare una dopo l’altra tre donne, che pure amava, colpevoli però di portare un nome nel quale figura la U. Alla fine l’uomo si rassegna: ne sposa una, Ulrica, fiducioso di poterla convincere, un giorno, a cambiare nome. Non ci riesce, però. E allora colpisce rabbiosamente la moglie, fino a essere ricoverato in un manicomio, dove si spegnerà senza più vincere questa ossessione per la U. ■ Proprio all’inizio del racconto la serie di domande ci rivela subito la condizione alterata dell’io narrante. Man mano che la narrazione procede, l’alterazione diviene una vera e propria ossessione psichica. La scrittura riproduce tale ossessione ripetendo i medesimi aggettivi e infittendo le domande. Sono espedienti con i quali l’io narrante vuole portare il suo interlocutore – il potenziale lettore del suo manoscritto – sul suo stesso terreno, mostrandogli tutti gli orrori provocati dalla lettera U: precisamente tale movimento di ricerca di consenso caratterizza la prima parte del racconto. ■ Nella seconda parte, l’io narrante passa a raccontare la propria vita: l’obiettivo, qui, non è più far aderire il lettore alle proprie convinzioni, quanto mostrare il crescere del terrore per la lettera U. La narrazione assume tratti paradossali e grotteschi, come rivela la scelta della moglie in rapporto al nome. Nel finale il protagonista raggiunge l’apice della follia: arriva a ergersi a salvatore (incompreso) del mondo, considerando ingrati coloro che non lo capiscono e lo giudicano pazzo. Perciò le frasi diventano sentenziose e perentorie; si moltiplicano inoltre i punti esclamativi, già ampiamente ricorrenti nella prima parte del racconto. ■ Importante è poi l’ultima frase: il narratore esterno riprende il sopravvento e riporta il racconto a una dimensione di «normalità». Il punto di vista è ora quello scientifico, di chi annota tutta l’infelicità connessa a una condizione di malattia mentale: la secchezza dell’osservazione sembra quella del medico che chiude la cartella clinica. Non c’è spazio per alcuna ironia. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Nella prima parte del testo il narratore cerca di coinvolgere il lettore nella sua angoscia. Evidenzia le espressioni più significative in tal senso. 2. A un certo punto l’io narrante propone un confronto tra il suono e il carattere attribuibili alle varie vocali e la cupezza della U. Ritrova questo motivo nel testo e individua le differenze di suono e di significato.

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3. In un passaggio Tarchetti introduce dimensioni diverse al carattere con cui la U è scritta. Secondo te, qual è lo scopo di tale rottura della grafica tradizionale? A che cosa mira la maggiore grandezza della U? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 4. Riassumi i momenti più paradossali della vita dell’io narrante in cui la lotta contro la U si fa più aspra (max 10 righe). 5. Ulrica viene prima amata, poi rifiutata, poi di nuovo accettata. Compila la tabella. in quale punto del racconto? amata

perché?

...................................... ..................................... ...................................... .....................................

rifiutata

...................................... ..................................... ...................................... .....................................

accettata ...................................... ..................................... ...................................... .....................................

6. Nell’ultima frase muta, improvvisamente, la voce narrante: perché? Secondo te, si tratta di una scelta significativa da parte dell’autore? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 7. Quale significato assumono le espressioni alle righe 183184: Sciagurati! [...] perché ho scoperto il segreto [...]. Ingrati!? Rispondi in max 5 righe. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 8. Come definiresti il comportamento del protagonista nell’arco del racconto: del tutto incoerente, oppure rispondente a una sua logica, seppure distorta? E in tal caso, di quale logica si tratta? Motiva la tua risposta (max 10 righe).

CARLO DOSSI ◗ Carlo Dossi è lo pseudonimo scelto da Carlo Alberto Pisani Dossi, nato da un’agiata famiglia a Zenevredo (Pavia) nel 1849. Il padre, ingegnere, era di origini nobili. Carlo esordì giovanissimo nel 1866 con due racconti (scritti assieme all’amico Luigi Perelli) raccolti in Giannetto pregò un dì la mamma che il lasciasse andare alla scuola. Nel 1867 Dossi, ancora con Perelli, fondò la rivista «La Palestra letteraria artistica scientifica», letterariamente vicina alla Scapigliatura, benché egli non assumesse mai atteggiamenti da artista «maledetto». Già nel 1868 pubblicò il suo primo romanzo (L’altrieri. Nero su bianco), e subito dopo, nel 1870, la Vita di Alberto Pisani, sorta di autobiografia in terza persona. ◗ Dopo la laurea in giurisprudenza, nel 1870 si recò a Roma e abbracciò la carriera diplomatica nel ministero degli Esteri, legando le sue fortune a Francesco Crispi, di cui fu apprezzato collaboratore. Nel frattempo conti-

L’OPERA

nuò a dedicarsi alla letteratura: nel 1872 pubblicò il racconto Elvira; nel 1873 una raccolta di prose intitolate Il regno dei cieli; nel 1874 il romanzo La colonia felice; nel 1878 La desinenza in A (la seconda edizione uscì nel 1884); nel 1880 la raccolta di racconti brevi Goccie d’inchiostro; nel 1881 la seconda edizione di L’altrieri; nel 1887 Amori. ◗ Nel 1892 sposò Carlotta Borsani, da cui ebbe tre figli. Assunse incarichi diplomatici a Bogotà (Colombia) e poi (1895-97) ad Atene, dove fu console generale e ministro plenipotenziario. Qui ebbe modo di coltivare l’altra sua grande passione, l’archeologia. Intanto continuava ad annotare letture, considerazioni, pensieri in un ricco zibaldone che, con il titolo Note azzurre, sarà pubblicato postumo, in parte, nel 1912 e poi, quasi completo, nel 1964. Messo a riposo nel 1901, si ritirò prima a Corbetta, vicino a Milano, e poi nella villa del Dosso (Como), dove morì nel 1910.

L’ALTRIERI. NERO SU BIANCO ◗ In questo che è il primo romanzo di Carlo Dossi (1868) l’io narrante, Guido Etelredi, racconta alcuni episodi della sua vita, raccolti intorno ai tre momenti dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza. Ad essi corrispondono altrettante sezioni del libro: «Lisa», «Panche di scuola», «La Principessa di Pimpirimpara». Le tre parti, fondate su ricordi d’infanzia e adolescenza, non rappresentano tanto le tappe di una trama romanzesca, quanto materiali narrativi diseguali, fonte di osservazioni sul passato e sul presente, e di commenti ironici sul proprio tempo e su se stesso. L’opera fu riproposta in seconda edizione nel 1881, con numerose varianti lessicali che attenuavano il carattere irregolare della lingua. ◗ Nonostante la pubblicazione in sole cento copie da distribuire a parenti e amici, L’altrieri divenne subito famoso nella società letteraria milanese, ancora rigorosamente manzoniana. A suscitare scalpore erano anzitutto le scelte linguistiche e stilistiche. Il libro procedeva infatti con una lingua irregolare e uno stile digressivo, in aperta sfida al manzonismo imperante. Una severa recensione, pub-

blicata sul periodico conservatore «La perseveranza», sottolineò che in Dossi «le frasi più ricercate della lingua scritta e i riboboli [termini] fiorentini» erano «pacifìcamente appajati ai lombardismi più marcati, e talvolta le crude espressioni del dialetto, li idiotismi [parole della lingua parlata] più evidenti accolti come moneta di buona lega con la semplice aggiunta di una desinenza grammaticale». ◗ Proprio ciò che la cultura ufficiale condannava era l’elemento più originale e innovatore di L’altrieri: ovvero la tecnica modernissima del pastiche, la mescolanza linguistica, valorizzata poi nel Novecento da un altro grande scrittore lombardo, Carlo Emilio Gadda. Dossi aveva ben chiaro il suo obiettivo: come dichiarò in una lettera, mirava a una lingua che non utilizzasse «modi di dire strausati», ma «modi di dire, parole, che, quantunque o appena coniate o tanto vecchie da sembrare novìssime, inscàtolano quasi perfettamente il mio pensiero». Per quanto riguarda i lettori, aggiungeva, «ci faranno l’orecchio», anche se, inevitabilmente, le sue erano scelte d’élite, apprezzabili solo da un ristretto pubblico d’intenditori. 249

Monografia Raccordo

L’AUTORE

Contesto

La Scapigliatura

Tra Ottocento e Novecento

Carlo Dossi

3

Lisa L’altrieri Anno: 1868 Temi: • la rievocazione incantata della fanciullezza • un presagio di malattia e di morte • un incubo notturno • la creatività di una prosa che procede per suoni e immagini Leggiamo una pagina da L’altrieri, pubblicato da Dossi a soli diciannove anni, ma che rivela già grande maturità letteraria. L’opera è strutturata per brevi episodi: sono momenti dell’infanzia e dell’adolescenza, rivissuti attraverso il filo sempre soggettivo della memoria. In questo brano Dossi evoca la figura di Lisa, una bimba di sette anni, sua tenera compagna di giochi, colpita dalla tisi che la condurrà a una morte precoce. Si noti, oltre al lessico «acceso» e spesso poetico, l’uso personalissimo degli accenti, voluti da Dossi per marcare la sostanza anche musicale della sua prosa.

compiaciuto richiamo agli anni lontani della fanciullezza come età felice

l’aggettivo cattivo introduce, in questa nostalgica rievocazione, una nota stonata, tipica del distacco di Dossi il linguaggio per immagini accosta analogicamente il sentimento (la gioia) all’oggetto reale (il pane che cuoce, nel forno) l’occhio incantato del bambino proietta sentimenti umani sulla natura: qui, sui bachi da seta

Allorché ci penso, che bei tempi èran quelli! Quante volte io mi sento ancor presso alla mia piccola compagna,1 su quella ringhiera che rispondeva sopra la via, gonfiando bolle di sapone, le quali, staccàtesi dalla cannuccia (oh! le granate2 di casa) tremolàvano, cullàvansi nello spazio, poi, divenute colore cangiante,3 trasparentissime – a gran dispetto di quattro o cinque ragazzi che le attendèvano,4 la bocca aperta, 5 svanivano; e quante volte anche, mi trovo faccia a faccia colla mia cara bimba la sera, a costrurre sul tavolino, ratenendo il fiato, torri di tarocchi5 e ridendo di gusto quando, per un buffo6 del mio cattivo babbino, le sprofondàvan di colpo. E voi, minuti d’oro, ho forse mai obliati?7 minuti in cui – con de’ cappelloni di paglia – accoccolati sotto una vite, tra le frasche, i tortuosi ceppi, i pàmpani, noi sgra- 10 navamo il rosario dei gràppoli?8 Ah no – voi lo sapete – sempre io mi ricorderò di voi, sempre, come della intensa gioja che in noi crepitava veggendo disserrarsi il chiusino9 del forno e uscirne, sopra la pala càrica di scroscianti fragranti pagnotte, i panettucci,10 grossi non più di noci, per noi; come del sapore di quelle gentili colazioncine di pane giallo nuotante in iscodelle di freschissimo latte – straripetute, in- 15 sieme a Nencia,11 nelle capanne, fra una covata di bimbi ed una di pulcini, intanto che i bachi, brucando su pe’ cannicci la foglia, sembràvano, con il fruscìo, contare già i ventilire12 del loro padrone o strascicarsi dietro la sèrica vesta13 della signora. Sì! lo ripeto, quelli èrano pure i bei tempi. Ma, Dio! Mentre là – dove il ruscello scendeva più lentamente sulla finissima erba, sotto il rezzo de’ pioppi, che frascheg- 20 giando si salutàvano di continuo14 – noi ascoltavamo il frottolare di Nencia intorno

1. mia piccola compagna: Lisa, una bambina di sette anni, compagna di giochi dello scrittore. 2. le granate: le scope, dei cui manici i due bambini si servivano come canne per le bolle di sapone. 3. cangiante: in continuo mutamento (sotto i riflessi della luce). 4. le attendèvano: le aspettavano nella strada sottostante. 5. a costrurre... tarocchi: a costruire ca-

250

stelli con le carte dei tarocchi, trattenendo (ratenendo) il fiato, per non farli cadere. 6. buffo: soffio. 7. obliati: dimenticati. 8. sgranavamo il rosario dei gràppoli: staccavano i chicchi d’uva e li mangiavano, quasi fossero le avemarie di un rosario. 9. disserrarsi il chiusino: aprirsi lo sportello. 10. panettucci: forme di pane, pagnotte. 11. straripetute... Nencia: colazioni fatte

molte volte assieme a Nencia, la domestica di casa. 12. ventilire: monete da venti lire. 13. sèrica vesta: veste di seta. 14. sotto il rezzo... di continuo: all’ombra dei pioppi, che, agitando le loro frasche, parevano salutarsi e accarezzarsi vicendevolmente. Continua l’umanizzazione della natura.

i sintomi della malattia si trasformano, per la bambina, in misteriose presenze che la chiamano

l’incubo crea un mostro primordiale, un gigantesco ragno che avanza per imprigionare e succhiare la vita

l’autore spegne quel lontano dolore in un sorriso; ma è grande la distanza tra il mondo adulto e l’intensità dell’incubo fanciullesco

o al vecchio incantatore Merlino o allo stregazzo di Benevento,15 una volta, Lisa, io la scôrsi raccapricciare16 tutta come allo sgrigiolìo17 di un ferro e vòlgersi, pàllida, con sospetto. Proprio io non saprèi dirvi il punto in cui primieramente18 ciò avvenne, ma so che 25 d’allora in poi pàrvemi l’aria appesantirsi come una mola mugnaja,19 pàrvemi che un nemico invisìbile ci seguisse dovunque, intristendo, avvizzendo la mia delicata Gìa20 e so che quando questa creaturina gricciolava,21 io le chiedeva: che hai? – a bassa voce, a bassa voce. Allora essa, serràndomi con passione la mano: m’han stranamente chiamata – rispondeva. Ed io rimuginava con lo sguardo attorno: dallo 30 stesso non incontrare mai niente, io, il rischioso22 fanciullo, soffocavo dalla paura. E pàssane, pàssane23 – un dì – la mia tòrtora, stringèndosi più del consueto a mè, susurrò tremante di averlo veduto.24 Era, per detto di lei,25 un viso ovale, smorto, colle occhiaje lìvide, che le appariva nel folto della fratta,26 la guatava immòbile27... dileguava.28 Dio! Che terribile dormiveglia io ne ebbi, la notte. Quantunque mi sen- 35 tissi ancora nella mia càmera, nel mio letto, quantunque al chiaro di luna distinguessi uno per uno gli arredi, nondimeno e’ mi pareva anche di starmi29 in una praterìa di sprofondata lunghezza, tutta a fiori [...]. Ed ecco staccarsi dall’estremo orizzonte, ecco ingrandirsi una massa informe (qui la memoria mi zòppica) una specie di ragno iperbòlico, giallo-limone, macchiato di nero, enfio,30 glutinoso, a grumi di 40 sangue, bava, dai mille bracci, che – nel procèdere a saltacchioni o dondolàndosi sulle anche – altalenava.31 Allora i bei fiorelli essiccàronsi,32 impallidì il raggio del sole, appannàronsi i canalucci.33 E quel mollame si avanzava sempre, senza pietà, lasciando una lunga striscia come 45 di arso, uno schiccheramento34 di lumaca, si avanzava e... Colto dallo spavento io mi snicchiài dalle coltri, tombolài con lenzuola e imbottita, in un fascio, sull’intavolato.35 Poi, riparài36 da mamma. La buona donna, toccàtomi la fronte che mi scottava, interrogàtomi gli occhi e la lingua, mi scongiurò di non mangiar troppi lamponi. C. Dossi, L’altrieri, in Opere, a cura di D. Isella, Adelphi, Milano 1995

15. il frottolare... Benevento: Nencia che raccontava favole o sul mago Merlino o sulla terribile strega di Benevento. L’avverbio intorno introduce un complemento d’argomento ma, insieme, evoca felicemente il gruppo dei bambini intenti all’ascolto. 16. raccapricciare: spaventarsi. 17. sgrigiolìo: stridio. È parola arcaica, scelta per il suo suono. 18. primieramente: per la prima volta. 19. d’allora in poi... mugnaja: mi sembrò che d’allora in avanti l’aria si facesse pesante come una mola di mulino, la grossa pietra che serve per macinare i chicchi di frumento.

20. Gìa: la piccola Lisa. Si noti la dolcezza del nomignolo. 21. gricciolava: rabbrividiva, si contraeva sotto i colpi della tosse. Sono gli effetti della malattia. 22. rischioso: amante delle avventure e dei rischi. 23. pàssane, pàssane: dopo che trascorse un buon arco di tempo. 24. averlo veduto: aver veduto chi la chiamava a sé, cioè il fantasma della morte. 25. per detto di lei: stando al suo racconto. 26. fratta: cespuglio. 27. guatava immòbile: guardava fissamente. 28. dileguava: si allontanava.

29. e’ mi pareva... di starmi: mi sembrava contemporaneamente di essere. 30. enfio: rigonfio. 31. altalenava: oscillava su e giù. 32. i bei fiorelli essiccàronsi: i graziosi, piccoli fiori si rinsecchirono. 33. appannàronsi i canalucci: persero la loro limpidezza i piccoli corsi d’acqua. 34. schiccheramento: strascico viscido; è un termine letterario. 35. mi snicchiài... sull’intavolato: mi liberai dalle coperte e caddi con il capo all’ingiù (tombolài) sulle tavole di legno del pavimento, avviluppato nelle lenzuola. 36. riparài: corsi a cercare protezione.

251

Monografia Raccordo

il primo, vago presentimento di morte che s’insinua quasi di soppiatto nel racconto

Contesto

La Scapigliatura

Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Possiamo individuare nel brano tre momenti: • la rievocazione felice della fanciullezza dell’autore, riassunta in alcuni quadri emblematici (le bolle di sapone dal balcone, i castelli di carte, le scorpacciate d’uva, le colazioni con le pagnotte appena sfornate, le favole narrate da Nencia); • i primi segnali di malattia della piccola Lisa, il suo timore di essere stata chiamata dalla morte; • l’incubo terribile del giovane protagonista e il suo convulso risveglio, fino alla fuga dalla madre. ■ L’organizzazione testuale evidenzia la precisa volontà di Dossi di rompere gli schemi tradizionali del linguaggio narrativo. Osserviamo la disposizione dei periodi: gli elementi della rappresentazione appaiono soltanto allineati, ma non organizzati in un armonico quadro d’insieme. L’autore si propone infatti non di comporre, bensì di scomporre il discorso, per giungere a isolare la singola immagine o l’espressione sintetica che racchiude l’immagine a cui vuol dare rilievo. Si va dal pane giallo nuotante in iscodelle di freschissimo latte (r. 15) ai pioppi, che frascheggiando si salutàvano di continuo (rr. 2021) fino alla massa informe... una specie di ragno iperbòlico dell’incubo (rr. 39-40); ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi. ■ Ciò che colpisce maggiormente è la lingua di Dossi, varia e mobile. Il lessico del brano è un mosaico composito, che utilizza i termini più diversi – dai neologismi (i ventilire, r. 18; quel mollame, r. 45) alle parole lombarde (le granate; tombolài) e ai costrutti dialettali (intanto che i bachi...); dai termini aulici e arcaici (cangiante, cullàvansi, sgrigiolìo, enfio, snicchiài per «togliersi dalla nicchia») a quelli tecnico-gergali (il chiusino del forno) e onomatopeici (uno schiccheramento

di lumaca) – toccando non solo il piano lessicale ma anche quello sintattico (come evidenziano le frasi brevi e brevissime che s’insinuano nel periodare). ■ Nel panorama letterario italiano, ancora influenzato dalla prosa manzoniana, il linguaggio di Dossi sembrò troppo rivoluzionario. Oggi a noi appare invece di una sorprendente modernità. Rinunciando alle pose bohémien tipiche della Scapigliatura, Dossi dimostrò concretamente che ogni rivoluzione, nell’arte, non può che attuarsi sul piano dello stile. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Individua tutti i personaggi che agiscono nel testo. 2. In quali punti diviene particolarmente evidente che il narratore ha lo sguardo di un io-bambino, incantato di fronte alle cose? 3. Ritrova anche i momenti in cui si manifesta invece il distacco del narratore dal narrato. 4. Ritrova nel testo la frase: dallo stesso non incontrare mai niente, io, il rischioso fanciullo, soffocavo dalla paura, e spiegala con le tue parole nel contesto. 5. Nell’indicazione dei temi, all’inizio del brano, viene dichiarata «la creatività di una prosa che procede per suoni e immagini». In una breve relazione di max 1 facciata di foglio protocollo (1500-2000 battute), illustra questi aspetti analizzando il testo. 6. Da quanto hai letto, come puoi definire i legami di Dossi con la Scapigliatura: stretti, generici o in altro modo? Motiva in ogni caso la tua risposta (max 10 righe).

L’Espressionismo stilistico L’Espressionismo è in senso stretto un movimento culturale nato in Germania e Austria all’inizio del Novecento (E p. 55), caratterizzato da una violenza stilistica spinta fino alla deformazione della lingua e dello stile; sul piano dei contenuti, la visione espressionista mette in rilievo gli aspetti di violenza, di dolore, di grottesco insiti nella realtà. In senso più ampio, si definiscono espressionisti anche autori e opere lontani dall’area tedesca d’inizio Novecento, ma che rivelano affinità con quella visione del mondo e dell’arte. L’Espressionismo stilistico è contrassegnato dalla voluta infrazione delle norme linguistiche o delle regole di un genere letterario. Al252

cuni autori novecenteschi sono, in tal senso, pienamente espressionisti: tra loro, il francese Louis-Ferdinand Céline (1894-1961), l’irlandese James Joyce (1882-1941), l’italiano Carlo Emilio Gadda (1893-1973). Una linea espressionista si può individuare anche nei secoli passati della tradizione italiana: raggruppa tutti quegli autori che vollero contestare la scelta di monostilismo («uno stile solo») e di monolinguismo («una lingua sola») compiuta, nel XIV secolo, da Petrarca e Boccaccio e quindi imposta dagli accademici del Rinascimento agli autori successivi. Tra questi contestatori si annoverano Ruzante, grande autore di teatro dia-

lettale, Teofilo Folengo, l’inventore della poesia «maccheronica», Francesco Berni, sbeffeggiatore di Petrarca nel Cinquecento, e più vicino a noi lo scapigliato Carlo Dossi, oltre a qualche altro. Tutti costoro amano mescolare, nelle loro pagine, toni alti e toni bassi; ricorrono a immagini crude e spesso volgari; danno voce ad argomenti giudicati sconvenienti, come il cibo, il sesso, il corpo; si spingono talora all’irrisione carnevalesca, all’irriverenza verso il potere, sempre cercando di capovolgere le aspettative del lettore e di rivelare l’«altra» faccia della realtà.

VERIFICA L’età contemporanea

1

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.

1.

La Scapigliatura fu fondata, a inizio Ottocento, da un gruppo di artisti tzigani provenienti V F dalla Boemia. Il termine «scapigliati» fu utilizzato letterariamente per la prima volta da Girolamo Leopardi, V F autore vissuto nel XVII secolo. Emilio Praga insegnò letteratura italiana V F al Conservatorio di Milano. Un importante predecessore degli scapigliati V F fu Giacomo Leopardi. Carlo Dossi morì per abuso di alcol e V F stupefacenti. La Scapigliatura non fu un fenomeno soltanto milanese, ma attecchì anche in altre regioni, V F in particolare in Piemonte.

2.

3. 4. 5. 6.

2

Collega ciascuna delle seguenti opere al suo autore; fai attenzione all’intruso. 1 2 3 4 5 6 7

Figurine Scene della vita di bohème Bohème Il pungolo Fosca Note azzurre Tavolozza

4

Rispondi alle seguenti domande.

1. 2.

Nomina i principali autori della Scapigliatura. Ricordi gli argomenti dei Racconti fantastici di Tarchetti? Illustrali. Spiega le relazioni che intercorrono tra byronismo, Scapigliatura e Decadentismo (max 10 righe). Riassumi i peculiari caratteri stilistici della prosa di Carlo Dossi, spiegando in che senso essa obbedisce ai caratteri dell’Espressionismo letterario (max 20 righe).

a. Rovani 3. b. Faldella c. Tarchetti d. Dossi e. Praga f. Murger g. Puccini

3

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte.

1.

La Scapigliatura ottocentesca fu per così dire battezzata da un romanzo del 1862 il cui titolo era: a La Scapigliatura e l’8 settembre b La Scapigliatura e il 6 febbraio c La Scapigliatura e la Bohème d Bohème Sul piano della poetica la Scapigliatura a recuperò i temi del romanticismo manzoniano, ma utilizzando forme e linguaggio caratteristici del romanticismo tedesco e nordico b riprese, per la prima volta in Italia, i temi onirici e sensuali del primo Decadentismo francese c tradusse l’attenzione per la realtà tipica

2.

3.

dei veristi nelle forme più nervose e spesso morbose dei decadenti d recuperò i temi onirici e magici caratteristici del romanticismo tedesco e nordico L’espressione di Emilio Praga «degli antecristi è l’ora! / Cristo è rimorto!» va intesa nel senso che a occorre aprire la poesia alle tematiche nichiliste del filosofo Nietzsche b la religione, come aveva già sostenuto Karl Marx, è l’«oppio dei popoli» c è il tempo di opporsi alle credenze filosoficoreligiose e alle regole sociali tramandate dalla cultura del passato d è il tempo di proclamare l’assoluta libertà del poeta da ogni costrizione Più di una risposta potrebbe rivelarsi esatta; in tal caso motiva brevemente la tua scelta.

4.

PER L’ESAME DI STATO 1. 2.

3.

Riassumi l’argomento del racconto di Tarchetti La lettera U (max 10 righe). Chiarisci il senso della sperimentazione linguistica sviluppata da Carlo Dossi nelle sue opere (max 10 righe). Commenta i seguenti versi di Emilio Praga, evidenziando in essi i caratteri tipici della poetica «scapigliata» (max 15 righe). Vorrei farmi carnefice, vorrei farmi becchino per lacerarti, o secolo, quel manto d’arlecchino; e sul tuo muto Golgota cacciarti col tuo Dio, e imprecarti l’oblìo dei posteri e del sol. 253

Raccordo I simbolisti francesi 1

L’espressione in versi del Decadentismo Scapigliatura

poeti parnassiani

antecedenti

rivolta, protesta dell’artista

artista separato dalla società



sviluppo: Simbolismo

“ artista separato dalla società

“ ricercatezza stilistica

◗ BAUDELAIRE, I fiori del male, 1857 ◗ RIMBAUD, Il battello ebbro, 1871 ◗ MALLARMÉ, Il pomeriggio di un fauno, 1876 ◗VERLAINE, I poeti maledetti, 1884

Il Decadentismo e la Scapigliatura ■ Naturalismo e Decadentismo erano le due tendenze dominanti nel secondo Ottocento: l’una, il Naturalismo, con una spiccata propensione per l’analisi «scientifica» e oggettiva della realtà, su basi razionali; 254

l’altra, il Decadentismo, con un’attenzione verso il lato nascosto delle cose, verso il «mistero» che avvolge la natura e gli individui. Un importante precursore era stato il poeta francese Charles Baudelaire, autore della raccolta poetica I fiori del male (1857).

I parnassiani ■ Un’altra esperienza legata alla poesia simbolista è quella dei poeti «parnassiani», attivi a Parigi qualche anno prima. Grandi ammiratori di Baudelaire, essi pubblicarono nel 1866, 1871 e 1876 tre antologie poetiche (tutte intitolate Il Parnaso contemporaneo) che costituirono l’antecedente diretto del Simbolismo. ■ I parnassiani partivano da un’idea di poesia «pura», svincolata dalla società e dalla storia. Il loro programma si riassumeva nel motto «l’arte per l’arte» e nel richiamo al Parnaso: l’antico monte, sede delle Muse ispiratrici delle arti, incarnava il desiderio di un’esperienza artistica elitaria (cioè per pochi), raffinatissima, tutta risolta in un sublime artigianato formale. I parnassiani puntavano all’impersonalità, nel senso che una composizione riuscita – a loro parere – non può risentire della soggettività del poeta, come accadeva nella lirica romantica; si presenta libera dalle scorie dell’istinto e della passione individuale, usa poche ma perfette parole, un tessuto formale denso e sorvegliatissimo.

La nascita del Simbolismo ■ L’atto di nascita per così dire ufficiale del Simbolismo risale al poeta Jean Moréas (1856-1910). Fu lui a pubblicare, il 18 settembre 1886, sul quotidiano parigino «Le Figaro», un articolo in cui, per designare i poeti decadenti, cercava un termine che fosse privo della connotazione negativa (crisi e rifiuto) attribuita comunemente a «decadente». La parola da lui proposta fu l’aggettivo symbolique (“simbolico”), da cui il sostantivo «Simbolismo». La proposta piacque e si formò così intorno a Moréas un primo gruppo di poeti «simbolisti». ■ Simbolisti e decadenti di fatto provenivano dal medesimo alveo culturale e condividevano le medesime esigenze. Si trattava di sperimentare forme nuove e una diversa posizione del poeta: • non più il poeta-vate dei romantici o dei classicisti, ma un artista «separato» dalla società; • inoltre, un artista in possesso di una propria visione

(alternativa rispetto a quella comune) della realtà, e soprattutto in possesso di un linguaggio speciale (un linguaggio di simboli) adeguato a quella nuova visione. ■ Ma tra simbolisti e decadenti c’era anche una differenza. Mentre il Decadentismo si caratterizzava per lo più sul piano delle tematiche (il culto della bellezza, il fascino delle età di decadenza, l’ambiguità morale), e trovava la sua espressione più adeguata nel romanzo (nel 1884 era uscito A ritroso di Joris-Karl Huysmans), il Simbolismo intendeva privilegiare lo specifico terreno della poesia e approfondiva soprattutto la ricerca stilistica: il suo motto, come disse Paul Verlaine, era la «musica prima di ogni altra cosa», e cioè «l’arte per l’arte», appunto.

I maestri della nuova poesia ■ I vertici della poesia simbolista non furono però segnati da Moréas e dal suo gruppo, ma da alcuni altri autori. • Il precursore fu Charles Baudelaire (1821-67): la sua raccolta I fiori del male (1857) segnò certamente il punto d’inizio della poesia moderna. Fu lui a fissare la meta della poesia simbolista, ovvero cogliere le corrispondenze esistenti nella realtà e giungere, attraverso esse, nel cuore delle cose, superando le apparenze fisiche e materiali. • Dopo di lui operò un giovanissimo poeta proveniente dalla provincia francese, Arthur Rimbaud (1854-91), autore di testi decisivi come Il battello ebbro (1871) e Una stagione all’inferno (1873). A lui risale il proposito di potenziare l’intuizione fino a fare del poeta un veggente e della creazione poetica una specie di allucinazione: nello «sregolamento dei sensi» il poeta penetrerà là dove la conoscenza intellettuale o la poesia tradizionale non possono giungere. In tal modo Rimbaud già preludeva alle avanguardie di primo Novecento, in particolare all’Espressionismo e alle sue deformazioni. • Terzo maestro della stagione simbolista fu Paul Verlaine (1844-96). Fu lui a tenere a battesimo e a «lanciare» la nuova poesia decadente con l’opera critica I poeti maledetti (1884). Per Verlaine la poesia è fatta di impressioni, di immagini fuggevoli e delicate, immerse in una musica dolcissima. • Grande animatore del Simbolismo fu infine Stéphane Mallarmé (1842-98): i «martedì letterari» che si tenevano a casa sua coinvolgevano i letterati delle nuove generazioni come Moréas, Paul Valéry, André Gide, Maurice Maeterlinck, Stefan George. Il simbolismo di Mallarmé (Il pomeriggio di un fauno, 1876) punta a conquistare un linguaggio depurato da ogni elemento realistico, ricco solo della pura «magia» delle parole. 255

Monografia Raccordo

■ In poesia il Decadentismo si esprime per lo più attraverso il gruppo parigino dei poeti simbolisti, attivo ufficialmente dal 1886. Il quadro generale si presenta però più frastagliato. Già prima del 1886, in anticipo sulla costituzione del gruppo dei simbolisti parigini, si manifestarono alcune interessanti esperienze letterarie, precorritrici del Decadentismo. Tra queste, una delle più significative si lega al gruppo degli «scapigliati» italiani (E p. 235), narratori e poeti attivi tra il 1865 e il 1880 circa.

Contesto

I simbolisti francesi

Tra Ottocento e Novecento

2

La poetica del Simbolismo NO la realtà comune

MA i segreti, il mistero delle cose

NO la ragione

MA l’intuizione

NO la mimesis, l’imitazione

MA il linguaggio simbolico

Simboli e «corrispondenze» ■ Punto di partenza del Simbolismo è il rifiuto dell’idea tradizionale secondo cui la poesia è essenzialmente imitazione, mimesis della realtà, come aveva detto il filosofo greco Aristotele. L’opera perfetta non è quella che «assomiglia» alle cose, tanto da esserne la fotografia: il poeta simbolista – scrisse Mallarmé – «rifiuta i materiali naturali [...] per non serbare, d’ogni cosa, che la suggestione»; egli punta all’opera pura, svincolata da ogni riferimento concreto e materiale. ■ Perciò i simbolisti valorizzano il simbolo, che richiama il reale, ma senza un rapporto immediato con esso. Compito della poesia diviene allora non il rappresentare o trascrivere per imitazione la realtà esterna, né l’esprimere sull’onda dell’ispirazione sentimenti, idee, messaggi civili ecc. Al poeta compete piuttosto il compito di cantare le zone profonde e segrete della realtà, le misteriose ma essenziali presenze che si agitano all’interno della natura e nell’inconscio dell’uomo. Dalla realtà vengono emesse talvolta, come echi della sua parte nascosta, «indistinte parole; / l’uomo passa, lì, tra foreste di simboli / che l’osservano con sguardi familiari» (Baudelaire). I simboli guidano il poeta a scendere nel mistero: rapporti e «corrispondenze» (un termine ancora di Baudelaire) percorrono tutta la realtà, collegandone i diversi aspetti: il concreto con l’astratto, il materiale con lo spirituale, e anche i diversi ordini di sensazioni fra loro. ■ I simbolisti valorizzano non la ragione, ma l’intuizione, in quanto adatta a cogliere i rapporti e le corrispondenze delle cose, a scoprire il loro senso occulto. La lingua poetica, capace di produrre a sua vol256

◗ rifiuto della poesia civile, del poeta-vate ◗ ricerca del senso nascosto oltre le apparenze

◗ musicalità ◗ mito della «pagina bianca»

◗ nuove tecniche espressive: analogia, sinestesia

ta simboli, di suggerire ed evocare, diviene così il più importante strumento conoscitivo.

Nuove tecniche espressive ■ Per realizzare i loro obiettivi, i poeti simbolisti fecero ricorso a nuove tecniche di scrittura. Diedero rilievo soprattutto all’analogia (l’accostamento, anche senza una spiegazione logica, di immagini e di sensazioni) e alla sinestesia (cioè l’accostamento in una stessa immagine di percezioni provenienti da sensi diversi). ■ Nello stesso tempo rinnovarono la metrica e il ritmo dei versi, per raggiungere un’insolita musicalità. Appartiene al Simbolismo anche il mito della «pagina bianca», dove – scrive Mallarmé – «tutto può essere perché nulla è già»; tale motivo anticipa le successive ricerche novecentesche dell’arte «astratta» e «informale».

L’eredità del Simbolismo ■ La nuova scrittura simbolista trasformò in profondità le esperienze letterarie di tutta Europa. Il Simbolismo si diffuse presto anche in Italia, grazie ai versi di D’Annunzio e di Pascoli. Ma l’influsso simbolista si avverte un po’ in tutte le letterature, da quella russa (Aleksandr Blok) a quella tedesca (Rainer Maria Rilke), fino alla nuova letteratura americana (è il caso della poetessa Emily Dickinson). ■ La carica innovativa del Simbolismo si prolungherà nel Novecento, influenzando anzitutto le avanguardie d’inizio secolo e quindi numerosi poeti, tra i quali, in Italia, Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, fino agli «ermetici» degli anni trenta.

CHARLES BAUDELAIRE ◗ Baudelaire nacque a Parigi il 9 aprile 1821. Figlio di un funzionario statale, rimase presto orfano di padre; la madre si risposò con un militare severo e insensibile. Il ragazzo fu mandato a studiare a Lione. Nel 1841 compì un lungo viaggio in India, che lo segnò profondamente; al ritorno destò scandalo la sua relazione con un’attrice mulatta, Jeanne Duval. Intanto cominciava a frequentare gli ambienti artistici parigini; nel 1843 pubblicò con uno pseudonimo una breve raccolta di poesie (Versi). ◗ Entrato in possesso, con la maggiore età, dell’eredità paterna, cominciò a dilapidarla rapidamente, perciò il patrigno lo fece privare del godimento del patrimonio. Tra debiti e preoccupazioni economiche, nel 1845 iniziò a lavorare come apprezzato critico d’arte, attento alle novità del momento, come attesta il primo saggio, Salon del 1845; seguirono saggi importanti su pittori come Delacroix e Ingres. Frequentò scrittori come Flaubert e Gautier e stampò su una rivista (1855) diciotto poesie che saranno l’ossatura dei Fiori del male. Iniziò anche una relazione con Marie Daubrun.

L’OPERA

◗ Nel 1857 pubblicò il volume dei suoi versi, ma il libro venne processato per «oltraggio alla morale»; a sostenere l’accusa fu il medesimo magistrato (Ernest Pinard) che in quello stesso anno aveva portato in tribunale Madame Bovary di Flaubert. Autore ed editore dei Fiori del male furono condannati a una multa e alla soppressione di sei poesie. Il libro, rivisto, uscì in seconda edizione nel 1861. Frequentatore assiduo del club dei fumatori di hashish, Baudelaire pubblicò nello stesso anno I paradisi artificiali, uno studio sui rapporti tra l’uso di stupefacenti e l’arte. Scrisse i Poemetti in prosa, noti anche come Lo spleen di Parigi (in numero di cinquanta, saranno pubblicati postumi nel 1868). ◗ Stanco d’incomprensioni e polemiche, nel 1864 si trasferì in Belgio, raggiungendo l’amico editore Auguste Poulet-Malassis. Nel 1866 fu colpito da un primo attacco di paralisi, a causa del quale perse l’uso della parola. Trasferito a Parigi, in una casa di cura, visse ancora un anno, assistito dalla madre. Era paralizzato, ma lucido. Morì a 46 anni, il 31 agosto 1867.

I FIORI DEL MALE ◗ La prima edizione (1857) comprendeva un centinaio di liriche. La critica ebbe reazioni scandalizzate; il libro fu processato e giudicato colpevole di oscenità. Nel febbraio 1861 uscì una seconda edizione, con 35 nuove poesie, che portavano a 126 i pezzi della raccolta. È questa la versione a cui oggi si fa riferimento. L’opera si presenta come un «libro», non come raccolta di rime sparse o come diario occasionale. Baudelaire aspira a ricostruire un percorso artistico che abbia, come egli stesso scrive, «un inizio e una fine». Quella dei Fiori del male è però una complessa architettura, «paradossale» (G. Macchia), che rivela spinte contrastanti. ◗ Nella prima sezione di liriche, intitolata Spleen e ideale, il poeta si autorappresenta come un individuo sradicato, un «albatro» che, come afferma la seconda lirica, non riesce a camminare sulla terra a causa delle sue ali enormi. Diviso tra alto e basso, tra grandi ideali e scelte meschine impostegli dall’esistenza quotidiana, il poeta-personaggio in-

traprende un cammino di liberazione, interrotto però da continue cadute. Vive l’amore ora come sensualità sfrenata (la passione per la bella Jeanne Duval), ora come sublime spiritualità (l’attrazione intellettuale per M.me Sabatier). ◗ La seconda sezione (Quadri parigini) è dedicata al mondo cittadino, che contemporaneamente attrae e respinge il poeta. Dalla metropoli, luogo «sublime» ma anche «atroce», egli evade attraverso l’alcol e la droga (la terza sezione s’intitola Il vino), oppure immaginando la propria autodistruzione. Nella natura il poeta scopre un nero patibolo, là dove i poeti precedenti avevano bellezza e fiori (Un viaggio a Citera, penultima lirica della sezione Fiori del male). L’approdo definitivo è quello di La morte. Intanto l’io poeta ha dichiarato guerra al cattolicesimo, che alimenta i suoi sensi di colpa: è la tappa intitolata Rivolta. Da essa dipende l’immagine di un Baudelaire blasfemo (una delle liriche di questa sezione si conclude con una preghiera a Satana). 257

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L’AUTORE

Contesto

I simbolisti francesi

Tra Ottocento e Novecento

Charles Baudelaire

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Corrispondenze I fiori del male Anno: 1857 Temi: • la misteriosa connessione tra gli elementi della natura • ogni elemento naturale come simbolo, portatore di oscuri messaggi La celebre lirica occupa il quarto posto della sezione introduttiva, Spleen e ideale, ed espone il cuore della poetica di Baudelaire: l’idea, cioè, che tra le cose sussistono misteriose corrispondenze e che il compito della poesia è quello di decifrarle e di rappresentarle, attraverso l’uso di immagini simboliche. Tali corrispondenze vivono tutte insieme nella Natura, proprio come in un tempio tutti gli elementi (architettura, pitture, riti, fedeli, preghiere, suoni, echi, profumi ecc.) appaiono immediatamente connessi tra loro in unità. Tocca al poeta svelare questa rete segreta di rapporti. Fonte di Baudelaire è lo scrittore svedese Emanuel Swedemborg (1688-1772), un pensatore mistico, secondo cui una forza misteriosa lega ciò che in natura è visibile a ciò che è invisibile, ciò che appartiene alla materia a ciò che invece riguarda l’ambito spirituale.

il carattere sacrale della Natura l’espressione chiave della nuova poetica simbolista le differenze svaniscono, tutto si fonde in misteriosa unità

la sfera sensoriale prediletta per la sua indefinitezza

entrambe le dimensioni vengono sollecitate

La Natura è un tempio dove pilastri vivi mormorano a tratti indistinte parole; l’uomo passa, lì, tra foreste di simboli che l’osservano con sguardi familiari.1 Come echi che a lungo e da lontano tendono a2 una profonda, tenebrosa unità, grande come le tenebre o la luce, i profumi, i colori e i suoni si rispondono. Profumi freschi3 come la carne d’un bambino, dolci come l’oboe,4 verdi come i prati – e altri d’una corrotta, trionfante ricchezza,

5

10

con tutta l’espansione delle cose infinite: l’ambra5 e il muschio, l’incenso e il benzoino,6 che cantano i trasporti della mente e dei sensi. Ch. Baudelaire, I fiori del male e altre poesie, trad. di G. Raboni, Einaudi, Torino 1992

Schema metrico: sonetto. 1. familiari: in quanto anche l’uomo è parte della Natura. 2. tendono a: letteralmente “si confondono in”. 3. Profumi freschi: sottintendi «ci sono»

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(il verbo è presente nell’originale francese). 4. oboe: strumento a fiato del gruppo dei legni; ha un caratteristico timbro morbido e un’intonazione piuttosto bassa (anche se non come quella dell’oboe basso, meglio conosciuto come «corno inglese»).

5. l’ambra: è il profumo ricavato dall’ambra grigia, una secrezione dell’intestino dei capodogli. 6. il benzoino: sostanza aromatica ottenuta dalla pianta omonima; è usata sia in profumeria sia in farmacia.

■ Il sonetto costituisce il testo inaugurale del Simbolismo: esso prospetta un modo nuovo di fare poesia, ma prima ancora un modo nuovo di conoscere il mondo. ■ Sono tre i temi principali illustrati dal sonetto. • Il mondo è formato da una trama d’infiniti rapporti (i profumi, i colori e i suoni si rispondono); sono le corrispondenze a cui allude il titolo. Le cose possiedono una profonda, misteriosa unità: come dice altrove lo stesso poeta, «le cose si sono sempre espresse mediante un’analogia reciproca dal giorno in cui Dio ha creato il mondo come una complessa e indivisibile totalità». • Tutto è mistero, ma nulla ci è lontano: tutto ci parla, lanciandoci sguardi familiari. Ogni particolare potrebbe rivelarci la verità ultima del cosmo, una verità che, per quanto possa apparire difficile da comprendere, ci è vicina. • Poiché il messaggio che le cose lanciano all’uomo è confuso (v. 2), esso ha bisogno di un interprete, il poeta, capace di coglierne i misteriosi significati e di tradurli nel linguaggio dell’arte. Infatti il poeta non si affida alla ragione o alla logica, ma alla sensibilità: egli «ascolta» la natura, sintonizzandosi sulla sua lunghezza d’onda. A tale scopo mobilita i cinque sensi, pronti a cogliere quelle sfumature a cui il pensiero logico non può giungere. ■ Le prime due quartine presentano il tema dell’universo naturale come foreste di simboli (v. 3): ogni elemento materiale e concreto è un segno, che allude a realtà nascoste e misteriose. I sensi colgono la molteplicità (i profumi, i colori e i suoni, v. 8) della Natura, ma essa è una sola, grande unità: le differenze sono solo apparenti. Una misteriosa unità associa persino (v. 7) le tenebre alla luce. ■ Nelle due terzine il poeta offre esempi di corrispondenze fra diverse sensazioni. • Nella prima la percezione olfattiva (Profumi) suscita impressioni tattili (la carne d’un bambino), uditive (il suono dell’oboe) e visive (verdi come i prati). • La seconda terzina suscita altre associazioni, che rimandano a un mondo lontano, esotico, sensuale e favoloso (raffigurato dall’ambra, dall’incenso e dal benzoino). Tale mondo evoca a propria volta uno stato d’estasi sia fisico che spirituale (i trasporti della mente e dei sensi). ■ Il simbolismo di Baudelaire si distanzia dalla lirica romantica anzitutto costruendo una lirica spersonalizzata, non autobiografica: lo scrittore rinuncia a esprimere il tradizionale

«io» lirico, a effondere cioè i propri sentimenti, per costruire invece un discorso di valore universale, teso a comunicare verità assolute: verità che non cambiano per circostanze individuali o particolari. ■ Importante, in rapporto al tema centrale, l’uso della «sinestesia», che consiste nel sovrapporre in una sola espressione due sfere sensoriali diverse. Per esempio un’espressione come profumi freschi (v. 9) unisce una sensazione olfattiva (il profumo) a una tattile. Oppure, al v. 10, al sostantivo profumi viene ora accostato l’aggettivo verdi. Proprio nel v. 11 si trovano le associazioni più originali: i profumi sono definiti corrotti e trionfanti, aggettivi che solitamente sono usati per giudicare comportamenti umani. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Perché la Natura è identificata con un tempio? 2. Che cosa sono le corrispondenze cui si richiama il titolo? 3. Tali corrispondenze si organizzano, nel testo, secondo una successione che va dal mondo del visibile a quello dell’invisibile, dalla Natura allo spirito e ai sensi. Metti in rilievo con opportune citazioni tale gradazione. 4. Fra tutte le sensazioni possibili, Baudelaire privilegia, soprattutto nel finale, le sensazioni olfattive, dedicandosi alla descrizione di profumi e aromi. Evidenziale sul testo. 5. Secondo te, perché ha privilegiato gli odori ai sapori o ai suoni? Puoi trovare una relazione fra questa scelta e certi aspetti della poetica del Decadentismo? (max 5 righe) 6. Identifica le sinestesie contenute nel testo. Poi inventa a tua volta alcune sinestesie, intonate al componimento. 7. Le corrispondenze sono messe in evidenza dall’uso della congiunzione «come» che, instaurando una similitudine, permette di cogliere il nesso fra i termini del paragone. Dove puoi rintracciare questo elemento nel testo? 8. Tuttavia tale nesso sfugge a ogni definizione logica: infatti l’esperienza a cui si riferisce deriva da un’intuizione e non da una reale vicinanza fra gli elementi. Illustra tale procedimento con gli opportuni riferimenti al testo (max 10 righe). 9. La suddivisione del sonetto in due parti (quartine e terzine) è sottolineata dal tono grave e solenne delle prime, e da quello più veloce delle seconde. Verifica questo elemento analizzando la sintassi e il linguaggio del testo.

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LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

I simbolisti francesi

Tra Ottocento e Novecento

Charles Baudelaire

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Spleen I fiori del male Anno: 1857 Temi: • la noia, l’insopportabilità del vivere • l’angoscia per un’esistenza vuota È il quarto e ultimo componimento della prima sezione (intitolata proprio Spleen e ideale) del libro. Baudelaire esprime l’impressione di disagio che proviene dai limiti invalicabili del reale, e le reazioni quasi disperate che tale constatazione suscita. È il tema, appunto, dello spleen, la “noia”.

forte realismo linguistico: un oggetto quotidiano paragonato al cielo la speranza che non riesce a librarsi in volo è un’immagine davvero negativa

Quando, come un coperchio, il cielo basso e greve1 schiaccia l’anima che geme nel suo tedio2 infinito, e in un unico cerchio stringendo l’orizzonte fa del giorno una tristezza più nera della notte;3 quando la terra si muta in un’umida segreta4 dove, timido5 pipistrello, la Speranza sbatte le ali contro i muri e batte con la testa nel soffitto marcito;

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quando le strisce immense della pioggia d’una vasta prigione sembrano le inferriate6 e muto, ripugnante un popolo di ragni7 dentro i nostri cervelli dispone le sue reti,

la macabra sfilata simboleggia i pensieri disperati, i funerali di tutte le motivazioni a vivere

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furiose a un tratto esplodono campane8 e un urlo tremendo lanciano verso il cielo, che fa pensare al gemere ostinato d’anime senza pace né dimora.9

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– Senza tamburi, senza musica, dei lunghi funerali sfilano lentamente nel mio cuore: Speranza piange disfatta e Angoscia, dispotica e sinistra, pianta sul mio cranio10 riverso la sua bandiera nera.11

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Ch. Baudelaire, I fiori del male e altre poesie, cit. Schema metrico: 5 quartine, nell’originale francese a rima alternata (ABAB, CDCD ecc.). 1. greve: pesante. 2. tedio: lo spleen, come il latino taedium vitae, nel senso di “tedio e malinconia”, “noia esistenziale”, “paura paralizzante”; è la demotivazione completa a vivere. 3. fa del giorno... notte: letteralmente: “versa su di noi un giorno nero più triste delle notti”. Il nero della notte viene poeticamente associato al giorno e a tutte le sue nere tristezze 4. segreta: prigione, cella.

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5. timido: nell’originale francese l’aggettivo è riferito alle ali del verso successivo. Paragonare la speranza a un pipistrello (animale tradizionalmente infernale) sottolinea l’atmosfera lugubre. 6. le inferriate: la fitta pioggia costringe il poeta a rimanere al chiuso; ma l’immagine si allarga a un più vasto significato: è tutto il mondo ad apparire come una vasta prigione. 7. un popolo di ragni: i cattivi pensieri che si formano nella mente sembrano ragni che tessono la loro tela, imprigionando il cervello. In francese «avere delle ragnatele in testa» indica il mal di capo: perciò,

secondo il critico Leo Spitzer, l’immagine illustra l’allargarsi dell’angoscia a partire dalla concreta esperienza dell’emicrania. 8. furiose... campane: il suono delle campane esplode nella testa come un urlo disperato. L’immagine interrompe senza preavviso la monotonia che aveva caratterizzato, fino a qui, la rassegna dei quando. 9. anime... dimora: i defunti che vagano agli inferi. 10. cranio: nell’originale il cranio del poeta è detto incliné (“chinato”). 11. bandiera nera: simbolo di un dominio angosciante.

■ Attraverso una serie di immagini suggestive, l’autore descrive lo stato d’animo dello spleen: una condizione interiore di disperazione, un malessere esistenziale, originato non da motivazioni particolari, ma dalla vita umana in se stessa. ■ Il testo procede in questo modo: • le prime tre strofe sottolineano insistentemente una situazione di malessere; già il primo verso crea un universo oppressivo e soffocante, quasi una tomba, che diviene poi l’umida segreta del v. 5; • nella quarta strofa l’angoscia esplode e urla dentro il cervello: una vera e propria allucinazione uditiva riempie i vv. 13-14 (il poeta immagina che le campane, personificate, lancino un urlo tremendo contro il cielo). Si conclude qui l’unico, pesante e solenne periodo che occupa i primi sedici versi; • la quinta strofa, infine, presenta la fase successiva alla crisi depressiva, cioè la resa alla spaventosa angoscia. L’allegoria di un funerale (con una vinta, la Speranza, e una vincitrice, l’Angoscia) viene a rappresentare la sconfitta finale. ■ Parole e immagini danno allo spleen la concretezza di un male insieme psicologico e fisico. La drammaticità viene acuita da simboli molto concreti, a tratti persino macabri. Nelle prime tre strofe lo spleen si riflette nell’ambiente cupo e piovoso; si registra un crescendo di ossessioni che traducono in termini concreti un turbamento sempre maggiore. Il crescendo drammatico ha il culmine nella quarta strofa, in cui la disperazione sembra esplodere: lo scampanio del

v. 14 non è segno di gioia e festa, ma un segnale di orrore e disperazione. Gli ultimi due versi suggellano la sconfitta: l’anima è prigioniera di Angoscia che, dispotica e sinistra, / pianta sul cranio dell’io lirico la sua nera bandiera, come un pirata vittorioso pianta il suo cupo vessillo sui territori appena conquistati. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Qual è il significato del termine spleen? 2. Riassumi il contenuto della poesia e il suo messaggio (max 10 righe). 3. Le campane della quarta strofa sono un segno a della speranza che, malgrado tutto, sopravvive b della religione che incombe come un’oppressione c del male che invade il mondo d dell’ultimo rifugio possibile, in una chiesa 4. Quali personificazioni e quali immagini allegoriche rappresentano la sconfitta nella quinta strofa? 5. «Unità della composizione sintattica, pesantezza del ritmo e forme retoriche contribuiscono a conferire alla poesia il carattere del sublime fosco, in perfetta corrispondenza con il contenuto, che esprime la più profonda disperazione.» Rifletti su questo giudizio del critico Erich Auerbach, rintracciando nella poesia gli elementi utili a giustificare ciascuno degli aspetti che egli mette in evidenza. Chiarisci inoltre se è giusto, secondo te, affermare che la lirica «esprime la più profonda disperazione». Scrivi poi una breve relazione (max 1 facciata di foglio protocollo, 1500-2000 battute).

Lo spleen: storia di una parola Baudelaire fa dello stato d’animo caratterizzato da un profondo senso di angoscia e disperazione uno degli elementi portanti della sua concezione del mondo. Lo spleen rappresenta una costante dell’animo umano, è il sentimento che si prova di fronte alla finitezza dell’uomo, alla sua incapacità di raggiungere l’ideale e l’assoluto. Il termine inglese spleen indica di per sé la milza, ritenuta, già nell’antichità, la sede dell’«umor nero». Nella fisiologia antica si riteneva che il benessere fisico fosse determinato dall’equilibrio di diverse sostanze presenti nel corpo: se una fra queste risulta eccedente, l’equi-

librio si rompe, con conseguenti malesseri psicofisici. Quando prevale l’umor nero, detto anche melancolia, nell’individuo si manifesta un atteggiamento cupo e tormentato, che si traduce in un senso di disgusto per il mondo e la vita. I medici antichi e rinascimentali, inoltre, ritenevano che l’umor nero fosse tipico soprattutto di artisti e poeti, predisposti più di altri a questa malattia. Il termine passò nella lingua francese con questa accezione: Baudelaire lo usa preferendolo alla parola francese ennui, “noia”, per esprimere appunto una condizione di disagio generalizzato nei confronti dell’esistenza.

■ Edouard Manet, La prugna (1887).

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LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

I simbolisti francesi

L’AUTORE

ARTHUR RIMBAUD ◗ Rimbaud nacque a Charleville, nelle Ardenne, nell’ottobre 1854, da un’agiata famiglia borghese. Nel 1870 conseguì il diploma liceale, ma era un ribelle: non tollerava l’educazione rigida e autoritaria della madre, rifiutava le regole borghesi della famiglia e i libri classici ricevuti in dono per la maturità. Iniziò a scrivere versi alla maniera di Baudelaire, composti – in odio a Napoleone III, alla chiesa, alla società moderna – nella breve fase della guerra franco-prussiana, seguita dall’esperienza rivoluzionaria della Comune di Parigi (1871). ◗ Nel 1871 fuggì di casa; non potendo raggiungere Parigi, si recò in Belgio, da dove spedì (al suo professore di letteratura del liceo e all’amico Paul Demeny) le due lettere «del veggente»; in esse rifiutava la tradizione culturale europea e prometteva una «letteratura nuova», atta a esprimere un «io più autentico». Urgeva in lui il bisogno di scrivere: in pochi mesi compose quasi tutte le sue Poesie. ◗ Nel 1872 spedì a Verlaine il poemetto Il battello ebbro. Verlaine, impressionato, invitò l’autore a Parigi. Iniziò un’amicizia scandalosa: Rimbaud convinse Verlaine a lasciare la famiglia e a partire in viaggio con lui. Nel 1873 i due amici visitarono Londra e soggior-

narono in Belgio. Qui Verlaine, temendo di essere abbandonato da Rimbaud, gli sparò ferendolo a un polso. L’amicizia si ruppe; Verlaine fu condannato al carcere. ◗ Rimbaud riprese i suoi vagabondaggi a piedi per l’Europa. A Bruxelles pubblicò a proprie spese Una stagione all’inferno (1873), confessione lirica in cui l’autore condannava «l’inferno» della propria convivenza con Verlaine e si rimproverava d’essersi abbandonato al delirio dei sensi. Non poté però pagare l’editore, che non distribuì il libro. Compose in questa fase le prose poetiche intitolate Illuminazioni. ◗ Dal 1875 Rimbaud cessò di scrivere, si sforzò di distruggere per quanto gli fu possibile i suoi manoscritti e cambiò radicalmente vita; lavorò anche all’estero, con la speranza di arricchirsi, e non scrisse più nulla. Si ammalò più volte; ritornò anche dalla famiglia d’origine, dove lo accolse con affetto la sorella Isabelle. Si arruolò nella Legione straniera olandese, seguì per qualche tempo un circo, poi si recò in Africa, dove si diede a commerci illeciti. Nel 1891 dovette ritornare dall’Abissinia con un ginocchio colpito da un tumore. Gli venne amputata una gamba, ma il male progredì. Morì a 37 anni, il 10 novembre 1891.

La parola al critico • L. De Maria, L’irripetibile esperienza di Rimbaud alle origini della poesia novecentesca

L’OPERA

POESIE ◗ Sotto il titolo di Poesie gli editori moderni comprendono essenzialmente la produzione giovanile di Rimbaud, quella degli anni 1870-71, anteriore alla celebre lettera «del veggente» all’amico Paul Demeny (15 maggio 1871: E p. 50). Le Poesie rimasero a lungo inedite e furono pubblicate postume solo nel 1898. ◗ La poetica delineata a Demeny viene anticipata in queste liriche, in cui il giovanissimo poeta già si pone in ascolto del lato più riposto e segreto del mondo, mettendo in rapporto tra loro percezioni convenzionalmente

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lontane. È quanto accade nel sonetto Vocali, che associa a ogni vocale un colore e una sensazione diversa. ◗ Nel gruppo delle Poesie è incluso anche il famoso poemetto simbolico Il battello ebbro (Le bateau ivre), narrazione del viaggio immaginario di un battello in paesaggi inesplorati e spesso paurosi, prima di gettarsi in mare. Il battello raffigura simbolicamente lo scrittore stesso alla ricerca dell’inconnu, ciò che è «sconosciuto», ovvero la realtà misteriosa che soltanto il poeta-veggente può raggiungere.

I simbolisti francesi

Vocali Poesie Anno: 1871 Temi: • le associazioni mentali suscitate da uno spunto iniziale semplicissimo (le vocali del titolo) Scritto nel 1871, il sonetto Vocali (Voyelles) è uno degli esempi più notevoli della novità del linguaggio poetico di Rimbaud. Rappresenta le sensazioni che le «vocali», con il loro suono e con la loro forma, di volta in volta gli suggeriscono.

un simbolo di morte e di consunzione

segno d’innocenza e purezza segnali di passione

atmosfera di pace e calma tre maiuscole a indicare un’aspirazione all’assoluto

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, un giorno dirò le vostre nascite latenti:1 A, nero vello corsetto2 di mosche splendenti che ronzano intorno a crudi fetori,3 golfi d’ombra;4 E, candori di tende e vapori, lance di fieri ghiacciai,5 re bianchi, fremiti di umbelle;6 I, porpore, sputo di sangue, riso di labbra belle; in collera o in ebbrezze penitenti; U, cicli, di viridi7 mari brividi sacri, pace di bestie alla pastura,8 pace di rughe sull’ampia fronte studiosa9 dall’alchimia impresse;

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10

O, suprema Tromba10 piena di oscuri stridori, silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi: O l’Omega,11 raggio violetto dei Suoi Occhi!12 A. Rimbaud, Poesie, trad. di C. Ortesta, Guanda, Parma 1986

Schema metrico: sonetto. 1. latenti: nascoste, avvolte da mistero. 2. nero vello corsetto: la peluria nera che ricopre il corpo delle mosche. 3. crudi fetori: i corpi in decomposizione che attirano le mosche e che emanano un odore acre. 4. golfi d’ombra: luoghi appartati e riparati nell’ombra. 5. lance di fieri ghiacciai: lance appuntite e lucenti.

6. umbelle: infiorescenze i cui petali si irradiano a forma di ombrello (dal latino umbella, “parasole”). 7. viridi: verdi. 8. pastura: pascolo. 9. fronte studiosa: la fronte degli studiosi di alchimia, sulla quale si sono impresse le rughe. L’alchimia era l’arte magica che si prefiggeva di trovare la pietra filosofale, grazie alla quale trasformare in oro i metalli. 10. suprema Tromba: l’ultima tromba

(suonata dagli angeli) è quella che, secondo la tradizione cristiana, annuncerà il giudizio universale alla fine del mondo. 11. Omega: ultima lettera dell’alfabeto greco. Nell’Apocalisse, ultimo libro della Bibbia, Gesù è chiamato «l’Alfa e l’Omega» (22, 13). 12. Suoi Occhi: allude a una ragazza di Charleville (paese natale di Rimbaud) «dagli occhi di violetta»; per lei il giovane poeta aveva molto sospirato.

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Monografia Raccordo

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Contesto

Arthur Rimbaud

Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Vocali nacque in un periodo nel quale il poeta, come scriverà pochi mesi dopo nella prosa Alchimia del verbo, credeva «a tutti gli incantesimi»: come in un incantesimo egli accosta qui ogni vocale a un colore, secondo una ricerca sulle sensazioni che ha una lunghissima tradizione nella cultura occidentale. ■ Il sonetto è organizzato secondo un processo di associazioni che, partendo dall’immagine visiva (la forma delle vocali), creano un susseguirsi di analogie cromatiche. Il testo va però letto in chiave non realistica, ma fantastica: Rimbaud, partendo dalle vocali dell’alfabeto e dai colori che esse gli suggeriscono, si abbandona liberamente alle associazioni immaginative che tale spunto gli ispira. ■ I critici hanno fornito varie interpretazioni di questa lirica. Seguendo la simbologia tradizionale dei colori (che il poeta sembra seguire nelle immagini associate a ciascuna vocale) si può giungere a queste conclusioni: • la «A» sarebbe simbolo della morte e del suo mistero (vv. 3-4: mosche... che ronzano sui cadaveri); • la «E» simbolo dei sogni innocenti e della purezza (ai vv. 56 sono presenti vocaboli appartenenti all’area del significato della purezza: candori, vapori, ghiacciai); • la «I», rossa (porpore) come il sangue e le labbra, alluderebbe alla violenza delle passioni che provocano l’ebbrezza dei sensi (v. 8: collera, ebbrezze); • la «U» appare collegata a immagini di quiete e tranquillità (viridi mari, pace di bestie alla pastura); attraverso un processo analogico (per cui i solchi tracciati dall’aratro nei pascoli sono associati alle rughe) la tranquillità viene attribuita anche allo studioso (pace di rughe / sull’ampia fronte studiosa); • la «O», con la sua forma circolare, è il simbolo della perfezione, dell’infinito, del cielo e dell’universo spirituale. Le immagini si riferiscono infatti ai silenzi attraversati dagli Angeli, i quali suonano la Tromba del giudizio universale. La circolarità ci fa inoltre pensare ad avvenimenti perfettamente conclusi: ciò, assieme al colore violetto attribuito alla lettera O, allude forse alla fine, alla morte. ■ L’alterazione dell’ordine con cui Rimbaud ha collocato le sue vocali (vista la presenza della «O» alla fine) si spiega nell’ultimo verso. Qui la «O» viene identificata con la vocale Omega, ultima lettera dell’alfabeto greco: nei Vangeli, essa è attribuita a Cristo, definito principio e fine di tutte le cose. ■ Il poeta dispone parole e concetti secondo una tecnica accumulatoria, dove le immagini acquistano valore e senso per l’impressione che creano. Il sonetto si fonda infatti sull’intreccio delle parole e delle immagini e sull’intensa musicalità dei versi, come rivela soprattutto il testo originale francese.

264

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Il testo è emblematico dell’esperienza poetica di Rimbaud, secondo cui la scrittura cerca di stabilire nessi tra oggetti e parole in una relazione non necessariamente logica. Pertanto non è possibile, se non rischiando deduzioni e semplificazioni, chiederci quale sia il tema complessivo del componimento. Possiamo invece più utilmente seguire il flusso di suoni e immagini evocati dalle parole. Rileggi quindi la poesia e compila la tabella. vocale

immagini a cui si associa

A

................................................................................. .................................................................................

E

................................................................................. .................................................................................

I

................................................................................. .................................................................................

U

................................................................................. .................................................................................

O

................................................................................. .................................................................................

2. Non mancano nel sonetto richiami ad altri campi del sapere. a. Che cos’è l’alchimia e dove viene chiamata in causa? b. Che cosa evoca la suprema Tromba? c. A che cosa allude con l’Omega? 3. Il poeta ricorre volentieri a immagini corpose, persino urtanti nella loro fisicità contrapposta al valore simbolico delle immagini stesse. Evidenzia nel testo alcuni fenomeni di questo tipo e commentali in breve. 4. Nell’ultimo verso emerge un velato richiamo biografico: qual è? 5. Enuncia gli elementi per cui Vocali costituisce un testo particolarmente rappresentativo della poetica simbolista (max 10 righe). 6. Si è spesso ricordato, a proposito di Vocali, il sonetto Corrispondenze di Baudelaire (E Testo 1, p. 258): perché? Quali elementi possono essere indicati come comuni? (max 10 righe)

I simbolisti francesi

◗ L’opera raccoglie 42 prose poetiche, scritte tra il 1872-73 e il 1875, e stampate nel 1885 sulla rivista parigina «La Vogue» con una nota d’accompagnamento di Verlaine, il quale era convinto che nel frattempo l’autore fosse morto. L’idea dei poemetti in prosa si rifaceva al precedente dei Poemetti in prosa di Baudelaire. Il titolo Illuminations, all’inglese, allude sia all’idea di «miniature», «incisioni a colori», sia a quella di «ispirazioni», provenienti dalla memoria e dai sensi.

Contesto

ILLUMINAZIONI ◗ Ciascun componimento viene concepito da Rimbaud come un’«illuminazione», ovvero come una «visione» o trascrizione letteraria di ciò che il poeta ha «visto» (anche per l’influsso di stimoli artificiali, come l’alcol e la droga) in una dimensione solo onirica: la dimensione del sogno o dell’allucinazione. Rimbaud adotta perciò la prosa poetica, una forma che ritiene più congeniale, rispetto ai versi, alle sue nuove esigenze espressive di libertà e immediatezza.

Monografia Raccordo

L’OPERA

Arthur Rimbaud

4

Alba Illuminazioni Anno: 1873 circa Temi: • l’affascinante incontro con l’alba, i suoi colori, le sensazioni che suscita • la fusione dell’io con la natura, in una sorta di estasi È una delle più famose «illuminazioni»: un piccolo «poema in prosa» in cui il poeta trascrive, come un sogno, la propria visione di un’alba estiva. «Rimbaud è un fanciullo semi-divino immerso sensualmente nella vita pullulante, ombrosa e rorida delle cose all’alba, invaso fino all’annientamento da un desiderio di fusione mistica col mondo e con le sue forme» (I. Margoni).

Ho abbracciato l’alba d’estate. l’ultimo istante della notte, che precede di poco l’arrivo della luce

i primi atti dell’incontro del poeta con l’alba

Nulla si muoveva ancora sul frontone1 dei palazzi. L’acqua era morta. Gli spazi d’ombra non abbandonavano2 la strada del bosco. Ho camminato, ridestando gli aliti vivi e tiepidi, e le pietre preziose3 guardarono, e le ali4 si levarono, senza rumore. La prima impresa5 fu, nel sentiero già ricolmo di freschi e lividi splendori, un fiore che mi disse il suo nome.6 Risi alla cascata bionda7 che si scarmigliò attraverso gli abeti: sulla cima argentea riconobbi la dèa.8

1. frontone: termine architettonico; è il coronamento triangolare della facciata o, più genericamente, la parte alta dei palazzi. 2. non abbandonavano: dunque la strada del bosco rimaneva in ombra. 3. le pietre preziose: immagine metaforica; sono le gocce di rugiada che scintillano ai primi raggi del sole. 4. le ali: la notte è immaginata come una

creatura alata che, all’arrivo del giorno, vola via silenziosa. 5. La prima impresa: il primo evento, ovvero lo sguardo posato con amore su un fiore che si schiude alla luce diurna. 6. un fiore... nome: il fiore, aprendosi ai raggi del sole, si fa riconoscere, “dice il suo nome”. 7. Risi alla cascata bionda: il secondo ge-

sto è il riso con il quale il poeta «veggente» saluta l’irruzione dei raggi solari (la cascata bionda) sulle cime degli abeti. 8. sulla cima... dèa: l’alba appare come una dea, e si riconosce perché la sua luce fa brillare le chiome (la cima argentea) degli abeti.

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5

Tra Ottocento e Novecento

la strofa elenca le «scoperte» del poeta

l’abbraccio con l’alba, fino all’unione reciproca

Allora sollevai uno ad uno i suoi veli.9 Nel viale, agitando le braccia. Nella pianura, dove l’ho denunciata al gallo.10 Nella grande città ella fuggiva fra i campanili e le 10 cupole,11 e correndo come un mendicante sulle banchine di marmo, io la incalzavo. In cima alla strada, vicino a un bosco di lauro,12 l’ho circondata con tutti i suoi veli ammucchiati, e ho sentito un poco il corpo immenso. L’alba e il bambino caddero in fondo al bosco. Al risveglio era mezzogiorno.13

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A. Rimbaud, Opere in versi e in prosa, introd. di M. Guglielminetti, trad. di D. Bellezza, Garzanti, Milano 1989 9. sollevai... veli: il poeta prende a svelare l’alba-dea; è un’operazione di riconoscimento quasi fisico, erotico. 10. l’ho denunciata al gallo: ho annunciato (con i gesti e l’inseguimento) al gallo l’arrivo dell’alba. Si noti la progressione

dal viale nel bosco, alla pianura, fino alla città. Lo sguardo insegue l’alba, che appare come una bellissima fanciulla. 11. ella fuggiva... cupole: l’alba, in città, tocca dapprima le parti più elevate, i campanili e le cupole.

12. lauro: alloro. È, tradizionalmente, la pianta con cui si incoronavano i poeti. 13. era mezzogiorno: dunque l’esperienza è durata a lungo, forse perché si è compiuta «fuori del tempo».

LE CHIAVI DEL TESTO ■ In Alba la parola poetica non esprime oggetti o idee precise, ma crea immagini simboliche, nelle quali si riversa il pensiero dell’autore. Egli vuole comunicare in forma del tutto allusiva l’affascinante incontro con la natura in una particolare ora del giorno, precisata fin dal titolo. Ne nasce un’esperienza conoscitiva straordinaria: la fusione dell’io con la natura, l’abbraccio con l’alba, raggiunta e afferrata nel suo corpo immenso. ■ A dominare il testo è un significato di tipo mistico-erotico, cioè l’avvicinamento progressivo dell’io poetico alla fanciullaalba. Tale avvicinamento si realizza in più tappe: • c’è una prima impresa, che consiste nel riconoscere un fiore al suo risveglio; • poi dalla luce argentea che si diffonde viene riconosciuto il passaggio della dea nel bosco; • quindi la fanciulla viene come «spogliata» dei suoi veli: è come se il poeta, scoprendo i vari aspetti del paesaggio, denudasse la natura e si avvicinasse a lei per abbracciarla; • tale abbraccio si realizza nella conclusione, che ricorre a immagini riprese dal repertorio amoroso. ■ Illuminazioni è una delle realizzazioni più affascinanti della poetica simbolista. L’autore vi applica il metodo della «veggenza»: vedere ciò che l’occhio comune non vede, esprimere l’inesprimibile, andare al di là delle normali facoltà razionali. A tale scopo, usa immagini e parole in accostamenti inediti; la realtà esterna viene quasi cancellata; Rimbaud ricrea sulla pagina un mondo stravolto e irreale, dove vigono nuove relazioni, nuove misure e proporzioni. Il risultato – benché la sintassi si mantenga semplice e piana – è una prosa carat266

terizzata dall’anarchia e dal disordine formale; una prosa sempre poetica, che si fa «verso libero», per ritrarre il caos di un mondo che appare sconosciuto e indecifrabile. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Quali sono le prime imprese di cui parla il poeta? Perché sono dette imprese? 2. Nella seconda parte il poeta racconta l’avvicinamento all’alba con una serie di immagini simboliche: quali? 3. Nel testo si possono individuare alcuni precisi riferimenti temporali: quali? 4. Lo scopo dell’autore, in Alba, è trascrivere nel modo più libero le sue pure sensazioni e visioni interiori. Sei d’accordo? Motiva la risposta con le opportune citazioni. 5. La prosa poetica di Illuminazioni sa produrre significati nuovi, allusioni inedite ecc. Documenta tale aspetto con almeno tre esempi e commentali. 6. In quali punti del testo le immagini si fanno esplicitamente erotiche? Come ti spieghi questo linguaggio, in relazione alla poetica decadente? 7. In Illuminazioni i versi scompaiono, perché cade la più comune distinzione tra versi e prosa. Prova a trascrivere Alba in versi, quindi spezzando la prosa originaria. Usa la misura del verso libero, per non vincolarti a rime, quantità prefissata di sillabe ecc. 8. Hai assimilato il metodo delle «corrispondenze» e dell’«analogia»? Prova allora a produrre un testo di circa 30 righe in uno stile metaforico-simbolista. Il titolo sarà Notte, o un altro simile, a tua scelta.

Sguardi sulla società L’artista protagonista del cambiamento

■ Edgar Degas. L’assenzio, 1875-76.

Uno sguardo critico sulla realtà I mutamenti sociali, economici, politici e culturali del secondo Ottocento pongono gli intellettuali di fronte a un bivio: ripetere le certezze del passato, condannandosi a un’esistenza passiva, oppure scegliere la consapevolezza, lo sguardo critico sulla realtà. Erede delle grandi passioni ideali del Romanticismo, l’artista moderno non ha dubbi e accetta la sfida. Rifiuta i miti e le glorie del passato e si dedica a cogliere le contraddizioni del proprio tempo, con un occhio spesso ironico, tagliente. Perciò viene respinto ai margini della società, come un nomade, un bohémien, ma spesso senza rinunciare alla fedeltà al proprio tempo. Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito Comunista (1848), scrivono che nella società borghese moderna «si dissolvono tutti i rapporti stabiliti e irrigiditi con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi [...] e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti».

■ Auguste Renoir, La colazione dei canottieri (1880-81).

■ Charles Leroy Saint-Aubert, Una brasserie al quartiere latino (particolare), 1884.

L’«eroismo» della modernità Appunto con questo «occhio disincantato» Charles Baudelaire osserva il mondo attorno a lui. Ironicamente egli ritrae, nei suoi versi, l’«eroismo» della modernità: raffigurandolo (e degradandolo) nel mondo caotico e informe della metropoli, nella folla di domestiche e operai a passeggio di domenica, con il vestito della festa, mescolati alla prostituta, al criminale, al dandy elegantissi-

mo, alla bevitrice di assenzio (una bevanda alcolica fortemente tossica). Questi erano i soggetti cari anche a tanti pittori di fine Ottocento. Per loro fu un momento magico: il momento di uscire dai loro studi, per immergersi nell’atmosfera caotica della strada, tra la folla; oppure per abbandonarsi alle sensazioni offerte dalla natura, all’aria aperta dove poter cogliere dal vero le luci, le ombre, i colori, le forme in movimento. 267

L’AUTORE

PAUL VERLAINE ◗ Verlaine nacque a Metz il 30 marzo 1844 da famiglia borghese; il padre (come quello di Rimbaud), era capitano dell’esercito. A Parigi conseguì il diploma liceale nel 1862; poi trovò lavoro come impiegato municipale, ma disprezzava quello stile di vita e intanto frequentava circoli letterari e caffè. Nel 1865 morì il padre. ◗ Nel 1866 collaborò al Parnaso contemporaneo (E p. 255) e pubblicò i Poemi saturnini, in cui si avverte l’influenza di Baudelaire. Il secondo libro di versi, Le feste galanti (1869), inaugurò la sua poetica musicale, insieme al tema del rimpianto per l’innocenza perduta. Nel 1870 si sposò con la diciassettenne Mathilde Mauté, da cui ebbe un figlio. ◗ Nel 1870 scoppiò la guerra franco-prussiana; Verlaine si arruolò nella Guardia nazionale partecipando alla Comune di Parigi. Quando il governo della sinistra parigina venne abbattuto, perse l’impiego. Nel 1872 accolse in casa sua Rimbaud, l’«angelo nero»; per lui lasciò la famiglia. I due vagabondarono in Inghilterra e in Belgio. Nel 1873, a Bruxelles, durante un litigio, Verlaine sparò a Rimbaud, ferendolo leggermente. Arrestato,

L’OPERA

POESIE ◗ Verlaine fu autore di numerose raccolte poetiche, in cui applicò il principio parnassiano dell’«arte per l’arte», cioè il gusto per una poesia priva di intenti civili, morali, politici, raccogliendo al contempo i temi più diffusi nelle avanguardie letterarie dell’epoca: il piacere dell’estetismo, una visione «maledetta» della vita, frutto di violenze e trasgressioni (E scheda a p. 270), l’oscillazione tra pessimismo e buoni propositi, destinati a rimanere inosservati. ◗ Questi diversi stati esistenziali di Verlaine furono inizialmente affidati ai versi di Poemi saturnini (1866), La buona canzone (1870, un

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scontò in Belgio diciotto mesi di carcere. Qui apprese che la moglie aveva chiesto e ottenuto la separazione; la notizia lo sconvolse, suscitando in lui pentimento e un inizio di conversione religiosa. In carcere scrisse le Romanze senza parole (pubblicate nel 1874). ◗ Scarcerato nel 1875 (ad attenderlo vi era solo la madre), visse per qualche tempo come insegnante in Inghilterra. Poi si rituffò nella vita irregolare: si legò al giovane contadino Lucien Létinois, che adottò addirittura come figlio, e si diede all’alcol e a comportamenti violenti. Continuò a scrivere versi (oscillanti tra acceso erotismo e delicate visioni simboliche) e collaborò alle riviste d’avanguardia. Nel 1884 pubblicò un decisivo saggio critico sui «poeti maledetti» (tra questi vi erano Rimbaud e Mallarmé). Nel 1886 morì la madre. ◗ La sua fama di poeta cresceva, mentre la sua vita privata si degradava nei più squallidi ambienti del quartiere latino di Parigi. Si ammalò e venne ricoverato più volte in ospedale, devastato da cirrosi e diabete. Infine morì povero e solo, in una gelida mattina del gennaio 1896. Le sue esequie furono seguite da un’enorme folla di ammiratori.

libro dedicato alla giovane moglie), Romanze senza parole (1874, primo capolavoro di Verlaine), Saggezza (1881, che apre alla crisi spirituale lo spiraglio di un ritorno al cattolicesimo). ◗ L’opposizione tra un forte erotismo e un’incerta tensione religiosa segna le raccolte pubblicate negli anni successivi, in cui si alternano la vena religiosa (Liturgie intime, 1892; Elegie, 1893) e quella crudamente erotica (Amore, 1888, in cui l’autore piange la morte dell’amante/figlio Lucien; Carne, 1896); versi squisitamente spirituali (Felicità, 1891) e altri diabolicamente ambigui (Canzoni per lei, 1891).

I simbolisti francesi

Languore Cose lontane e cose vicine Anno: 1883 circa Temi: • la decadenza e il languido fascino del disfacimento • l’abbandono al tedio Questa famosa lirica venne pubblicata per la prima volta sulla rivista «Il gatto nero» nel 1883. Fu subito interpretata come il «manifesto» del nascente Decadentismo.

il poeta osserva incuriosito, ma non reagisce all’invasione

la decadenza produce spossatezza, incapacità di partecipare alla vita comune

Sono l’Impero1 alla fine della decadenza, che guarda passare i grandi Barbari bianchi2 componendo acrostici3 indolenti dove danza il languore del sole in uno stile d’oro.4 Soletta l’anima soffre di noia densa al cuore. Laggiù, si dice, infuriano lunghe battaglie cruente. O non potervi, debole e così lento ai propositi, e non volervi far fiorire un po’ quest’esistenza!

chi si sente alla fine della storia non prova più interesse per nulla

O non potervi, o non volervi un po’ morire! Ah! Tutto è bevuto! Non ridi più, Batillo?5 Tutto è bevuto, tutto è mangiato!6 Niente più da dire!

un sentimento di vuoto angoscioso, una profonda tristezza: è lo stato d’animo del poeta

Solo, un poema un po’ fatuo che si getta alle fiamme, solo, uno schiavo un po’ frivolo che vi dimentica, solo, un tedio7 d’un non so che attaccato all’anima!

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P. Verlaine, Poesie, trad. di L. Frezza, Rizzoli, Milano 1986 Schema metrico: sonetto. 1. Sono l’Impero: io sono (cioè mi sento) come l’Impero romano nella sua fase più tarda, subito prima del disfacimento. 2. Barbari bianchi: gli invasori germanici erano di carnagione chiara. 3. acrostici: giochi di parole; nell’acrostico le lettere iniziali di ogni verso, se lette di seguito, formano parole di senso compiu-

to. Dunque non compone più vera poesia, perché non ha più niente da dire. 4. il languore del sole... d’oro: un tramonto rosso fuoco, bellissimo nei suoi colori. Il poeta lo contempla da lontano, proprio come da lontano osserva l’invasione dei barbari, cioè la vita che avanza. 5. Batillo: un celebre attore di Alessandria d’Egitto, caro a Mecenate. Più che citare un personaggio storico, il poeta allude a

una generica figura di artista dell’antichità. 6. Tutto è bevuto... tutto è mangiato!: non solo il poeta ha già consumato e sperimentato tutto; più in generale, l’Impero improduttivo ha sperperato ogni sua ricchezza, mentre i barbari stanno portando via quanto è rimasto. 7. tedio: in francese ennui, è la noia esistenziale. Richiama il languore del v. 4 e lo spleen di Baudelaire (E scheda a p. 261).

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Languore divenne immediatamente celebre, perché sintetizzava con efficacia il diffuso senso di «decadenza» che circolava nella cultura dell’epoca. La condizione contemporanea viene paragonata a quella dell’Impero romano intorno al IV-V secolo d.C., all’epoca cioè delle invasioni barbariche; un’età proverbialmente di crisi e sfinimento. Il senso del de-

clino è sottolineato dal fatto che si parla di fine della decadenza: se Verlaine avesse detto durante la decadenza, sarebbe stato meno efficace. ■ La sofferenza nasce non da un evento preciso, ma, come dice il titolo, da un indeterminato languore, al quale il poeta non sa come reagire e da cui anzi si sente attratto. Su di lui pe269

Monografia Raccordo

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Contesto

Paul Verlaine

Tra Ottocento e Novecento

sa un’invincibile pigrizia, una specie di paralisi, che però, benché dolorosa, viene percepita come inevitabile: la storia e la vita si svolgono «altrove»; qui, nel luogo e nel tempo in cui vive il poeta, le cose vanno così e non ci si può far nulla. ■ Il poeta si sente estenuato anche perché gli pare impossibile fare nuove esperienze: ormai ha provato tutto (Tutto è bevuto, tutto è mangiato!, v. 11), anche in senso intellettuale. Il pensiero, la poesia sono infatti presentati come un gioco (comporre acrostici indolenti, v. 3), raffinato, sì, ma inutile, privo di effetti sull’esistenza comune. Perciò, alla fine, non rimane che lasciarsi andare, abbandonarsi al tedio (v. 14). ■ Il fascino delle poesie di Verlaine dipende anche da una raffinatissima musicalità, che in traduzione purtroppo si perde. Il poeta ha scelto una forma chiusa e classica come il sonetto, per costruire una scena apparentemente «oggettiva», in ciò simile alle rappresentazioni dei parnassiani. Ma qui Verlaine usa un quadro esterno per rendere un sentimento interiore, una condizione soggettiva, sentita però come rappresentativa dello stato d’animo della prima generazione decadente. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Già nel titolo ritroviamo la parola chiave languore che, nel corso del testo, acquista un valore ulteriore grazie all’accostamento con tedio (v. 14).

• Perché il poeta ha voluto conferire tanto risalto a questo stato d’animo? • In che modo lo connota nel corso del testo, cioè quali immagini utilizza per avvalorarlo? Rispondi in max 10 righe. 2. La poesia presenta un’identificazione tra io lirico da una parte e «l’Impero alla fine della decadenza» dall’altra. Rifletti: • quali immagini si riferiscono all’Impero romano alla fine della sua lunga storia? • È possibile riferirle, secondo te, anche allo stato d’animo dell’io lirico? 3. L’immagine del comporre acrostici indolenti simboleggia il fatto che: a rispetto ai barbari analfabeti, i romani possono vantare un’enorme superiorità sul piano culturale b i soldati valorosi d’un tempo si sono mutati in intellettuali e non sanno più difendere l’Impero c il poeta non sa partecipare agli avvenimenti della storia collettiva d la poesia epica ed eroica d’un tempo è ormai divenuta sterile gioco di parole 4. In Languore la tecnica della ripetizione è molto insistita: lo scopo è creare un effetto di musicalità, ma anche ribadire il senso di monotonia e spossatezza. Individua le ripetizioni presenti nel testo, illustrando in breve il valore di ciascuna.

Esistenze «maledette» L’aggettivo «maledetti» (in francese maudits) compare in un celebre titolo di Verlaine, I poeti maledetti, il saggio del 1884 in cui l’autore divulgò la figura e l’opera di alcuni poeti contemporanei (Tristan Corbière, e poi Rimbaud, Mallarmé, Marceline Desbordes-Valmore e Villiers de l’Isle-Adam), proponendoli all’attenzione generale. Ma a essere «maledetta», cioè anticonvenzionale e antiborghese, fu anzitutto l’esistenza di Verlaine e Rimbaud. La rivolta di Verlaine contro la rigida educazione religiosa della provincia francese sfociò, dopo un burrascoso matrimonio e contraddittori propositi di redenzione, in un travolgente amore omosessuale

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per il giovanissimo Arthur Rimbaud. La relazione durò dal 1872 al 1873: i due viaggiarono in Europa, e insieme scrissero anche alcuni testi osceni. Rimbaud, però, non era disposto ad accettare nessun tipo di legame fisso; presto venne perciò ripreso dalla smania di viaggiare. Verlaine, che aveva deciso di ritornare dalla moglie, cambiò idea e cercò di trattenere il giovane amico: il 7 luglio 1873, ubriaco ed esasperato, Verlaine gli sparò due colpi di pistola, che procurarono a Rimbaud solo una lieve ferita a un polso. Verlaine invece fu condannato dalla giustizia belga a un anno e mezzo di prigione, scontati a Mons e a Bruxelles.

Fu però Rimbaud a incarnare più direttamente l’immagine e il mito del «poeta maledetto». Fra viaggi e amori scombinati, egli bruciò ancora adolescente il proprio genio in una folgorante stagione creativa. A soli 21 anni, nel 1875, la sua carriera artistica poteva dirsi in sostanza terminata: ormai Rimbaud voleva soltanto «vivere». Si arruolò così nella Legione straniera, poi si recò in Africa, dove si dedicò al contrabbando di armi e schiavi. Nel 1891, in Abissinia, fu colto dai primi sintomi di un tumore alle ossa: morì nel giro di pochi mesi, dopo atroci sofferenze e l’amputazione di una gamba.

I simbolisti francesi

Arte poetica Romanze senza parole Anno: 1874 Temi: • una nuova idea di poesia • non realismo, non eloquenza, ma suggestione e musica La celebre lirica fu scritta mentre l’autore era in carcere in Belgio. Il titolo richiama l’analogo poemetto in cui il poeta latino Orazio aveva esposto caratteri (contenuti e forma) adatti alla poesia. Quel componimento di Orazio era stato assunto, nei secoli, come la migliore sintesi della visione classicistica del poetare; ora Verlaine riscrive, per così dire, le regole della poesia.

Musica prima d’ogni altra cosa, e perciò preferisci il verso Dispari1 più vago e più solubile nell’aria senza nulla che pesi o posi. il Simbolismo punta a significati indefiniti, allusivi, ma non rinuncia a una perfetta definizione

occorrono i chiaroscuri, i toni sfumati, non i colori troppo marcati e netti

bisogna rinunciare alla costruzione intellettuale, tipica della poesia tradizionale eliminare ogni tono enfatico, retorico, e puntare invece a una poesia «pura», alleggerita da ogni sforzo esteriore

Bisogna pure che le parole tu le scelga non senza qualche equivoco: nulla è meglio del canto ambiguo, dove l’Indeciso al Preciso si sposa. Sono i begli occhi da dietro un velo, la gran luce2 che trema a mezzogiorno, è, per un tiepido cielo d’autunno, la farragine3 azzurra delle stelle! La Sfumatura è ciò che ci vuole, non il Colore, soltanto l’alone! Oh, fidanzi la sfumatura sola il sogno al sogno, il flauto al corno!4 Fuggi l’Arguzia che assassina, lo Spirito tagliente e il Riso impuro per cui piangono gli occhi dell’Azzurro,5 tutto aglio di bassa cucina!6

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Strangola l’eloquenza, e sull’aire7 di questa energia, fa attenzione

Schema metrico: nell’originale francese, quartine di novenari rimati, con schema ABBA, CDDC ecc. 1. il verso Dispari: nella tradizione poetica francese prevalgono i versi con un numero pari di sillabe; per esempio il verso alessandrino è composto da 14 sillabe metriche. Si tratta di una cadenza piuttosto rigida e scan-

dita: perciò Verlaine consiglia l’adozione del verso imparisillabo (di 3, 5, 7 sillabe o più), più irregolare e quindi più vario. 2. i begli occhi... luce: il poeta esemplifica quanto ha appena dichiarato, con immagini adatte a far «sposare» l’indefinito e il rigore artistico. 3. farragine: miscuglio, moltitudine confusa di cose disparate.

4. fidanzi... corno: allude alle «corrispondenze» tra i suoni. 5. dell’Azzurro: indica l’aspirazione all’assoluto e all’ideale. 6. aglio di bassa cucina: sono cioè ingredienti grossolani (lo dice dell’arguzia, cioè di una poesia artificiosa e intellettualistica). 7. sull’aire: sulla spinta (della rinuncia all’eloquenza).

271

Monografia Raccordo

6

Contesto

Paul Verlaine

Tra Ottocento e Novecento

che la Rima8 abbia un po’ di discrezione, altrimenti, dove andrà a finire?

la poesia simbolista aspira a farsi musica, a dissolvere nella pura forma il mondo materiale, troppo corposo

la vera poesia si oppone alla letteratura, che è solo artificio e tradizione senza originalità

O chi dirà i torti della Rima! Quale fanciullo sordo o negro folle ci forgiò questo gioiello da un soldo9 vacuo e falso sotto la lima?

25

Musica e sempre musica ancora! Sia il tuo verso la cosa che dilegua e senti che con anima irrequieta fugge verso altri cieli, altri amori.10

30

Sia il tuo verso la buona avventura sparsa al vento frizzante del mattino che porta odori di menta e di timo...11 E tutto il resto è letteratura.

35

P. Verlaine, Poesie, cit. 8. la Rima: guardata con sospetto, in quanto è divenuta uno strumento logoro. La vera poesia, semmai, usa l’allitterazione, l’assonanza, un modo sapiente di combinare le parole.

9. questo gioiello da un soldo: la rima elaborata sotto la lima del poeta (Orazio aveva parlato di labor limae, “fatica del perfezionare”) è dunque cosa di scarso valore.

10. altri cieli, altri amori: simbolo di esperienze nuove e diverse da quelle comuni o dai temi poetici consueti. 11. timo: pianta aromatica, contrapposta all’aglio di bassa cucina del v. 20.

LE CHIAVI DEL TESTO Sintetizziamo le raccomandazioni di Verlaine agli scrittori. ■ Sul piano della forma: • musica prima d’ogni altra cosa: la nuova poesia deve preoccuparsi in ogni istante di essere «musicale», per poter trasportare i lettori nel regno dell’immaginario. L’esigenza musicale prevale persino sulle immagini e sui simboli; • la poesia deve escludere l’uso troppo orecchiabile della rima (ancora apprezzata dai poeti parnassiani): il rispetto della rima finisce per limitare la ricerca espressiva e musicale del poeta. Al monotono gioco delle rime sono preferibili l’assonanza e l’allitterazione. Tuttavia Arte poetica lascia spazio anche alla rima: dunque non si tratta di eliminarla, ma di farne un uso più dinamico e fantasioso; • sul piano metrico, il troppo razionale e simmetrico verso pari della tradizione francese deve lasciare spazio al più musicale e libero verso dispari. Anche qui Verlaine non rifiuta la metrica, ma vuole darle maggiore varietà e leggerezza, attraverso modelli fino ad allora poco usati. ■ Sul piano dei contenuti: • bisogna privilegiare l’equivoco, l’ambiguo, abbandonando ogni piatto realismo. La poesia deve affidarsi a significati sfumati e complessi, non univoci. Verlaine raccomanda le 272

sfumature (nuances), che meglio dei colori, o delle loro contrapposizioni, possono esprimere atmosfere di sogno e dolci armonie spirituali; • la poesia deve torcere il collo a ogni eloquenza: deve eliminare ogni retorica declamatoria e ogni messaggio ideologico, per farsi pura suggestione ed evocazione di atmosfere. Verlaine condanna la poesia di tipo oratorio e propagandistico, praticata da Hugo in Francia o da Carducci in Italia. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Nel testo incontriamo una parte distruttiva (la polemica contro la tradizione) e una parte costruttiva (la proposta di forme e contenuti per una nuova poesia). Identifica l’una e l’altra nel testo. 2. Quali precisazioni fa Verlaine riguardo alla rima e alla metrica? 3. La parola non deve ritrarre la realtà, ma solo suggerirla ed evocarla; pertanto va «scarnificata». In quale punto o in quali punti del testo ritrovi questo concetto? 4. Soffermati sull’ultima strofa del testo; illustra le immagini in essa racchiuse e cerca di chiarire in che senso Verlaine offra qui un’applicazione pratica di quanto esposto in precedenza (max 15 righe).

STÉPHANE MALLARMÉ ◗ Mallarmé nacque a Parigi nel 1842, figlio di un funzionario statale. Rimasto orfano di madre a cinque anni, venne mandato a studiare in diversi collegi, in dolorosa solitudine. Mantenne un’affettuosa corrispondenza con la sorella Marie, che morì adolescente nel 1857. Nel 1862, dopo il diploma liceale, lavorò in prova come impiegato nell’Ufficio del registro, ma con esito negativo. Decise perciò di abbandonare le orme paterne e si trasferì in Inghilterra, per studiare l’inglese e poi insegnarlo nelle scuole di Francia. Tornato da Londra, si sposò con la giovane tedesca Maria Christina Gerhard. Nel 1863 iniziò a insegnare inglese in varie città della provincia francese (Tournon, Besançon, Avignone); solo nel 1871 poté finalmente trasferirsi a Parigi. ◗ Mallarmé esordì come poeta nel 1866, pubblicando dieci liriche nel primo Parnaso contemporaneo. Negli anni successivi pubblicò altri testi su varie riviste; più laboriosa fu la

L’OPERA

composizione del poema drammatico Erodiade, destinato a rimanere incompiuto. I redattori del terzo Parnaso contemporaneo (1876) gli rifiutarono il poemetto Il pomeriggio di un fauno; Mallarmé lo pubblicò a sue spese. Poco dopo, con sua grande soddisfazione, il famoso compositore Claude Debussy gli dedicò un celebre Preludio. ◗ Il poeta raggiunse la notorietà a partire dal 1884, l’anno di A ritroso (E p. 288) di Huysmans: il protagonista Des Esseintes ordina al domestico «di mettere da parte per darle un posto a sé» l’opera di Mallarmé. Questi era ormai il capo riconosciuto della «scuola simbolista». Nella sua casa parigina in rue de Rome 89, si riunivano, durante i celebri «martedì letterari», molti giovani poeti. Gli ultimi anni di vita furono travagliati a causa di una salute malferma. Nel 1897 uscì Divagazioni, una raccolta di scritti critici. Mallarmé si trasferì a Valvins, nei dintorni di Parigi, dove morì il 9 settembre 1898.

POESIE ◗ Fu l’autore stesso a curare l’edizione complessiva delle sue opere, uscita postuma a Bruxelles presso l’editore Deman nel 1899, un anno dopo la sua morte. Rimasero peraltro esclusi alcuni importanti componimenti come il Cantico di San Giovanni e Un colpo di dadi non abolirà mai il caso, editi in successive raccolte. ◗ Nelle sue composizioni Mallarmé diede voce a uno dei miti più radicati del Simbolismo, ovvero l’idea che i segni, dispersi nelle cose più diverse, rimandano a un’unica, misteriosa origine. Compito del poeta, affermava Mallarmé, è raccogliere i segni affini e riproporli in una «parola totale, nuova, straniera

alla lingua e come incantatrice». Nessuno come lui seppe con altrettanto rigore protendere verso l’assoluto le strutture del linguaggio. Scrisse pochi testi, ma calibratissimi, rifiniti con un lungo lavoro diurno e notturno, nello sforzo sovrumano di dire l’indicibile. Erano liriche spesso avvolte dall’oscurità dei significati, ma l’autore non si preoccupava di facilitarne la lettura: del resto aveva scritto, fin dal 1864, che «Ogni cosa sacra e che vuole rimanere sacra si avvolge di mistero». A tale principio s’ispirò tutta la sua poesia, praticata come forma suprema d’arte, che richiede non un superficiale utilizzo, ma dedizione totale. 273

Monografia Raccordo

L’AUTORE

Contesto

I simbolisti francesi

Tra Ottocento e Novecento

Stéphane Mallarmé

7

Brezza marina Poesie Anno: 1865 Temi: • la stanchezza «decadente» • il desiderio della fuga, di un altro mondo • il sogno di vivere con autenticità Scritta nel 1865 e pubblicata nel 1866 nel primo Parnaso contemporaneo, questa lirica contribuì molto a creare la fama del giovane poeta, per l’efficacia delle immagini e per la sua felicità espressiva.

stanchezza, sazietà, tristezza: sono gli stati d’animo del poeta

un’immagine della poesia, che resta silenziosa piuttosto che dire cose false o parziali

lo spleen già cantato da Baudelaire basta con i dubbi; il poeta invita il cuore a partire, a raggiungere chi è già in mare

La carne è triste, ahimè! e ho letto tutti i libri. Fuggire! laggiù fuggire! Io sento uccelli ebbri1 d’essere tra l’ignota schiuma e i cieli! Niente,2 né antichi giardini riflessi dagli occhi terrà3 questo cuore che già si bagna nel mare o notti! né il cerchio4 deserto della mia lampada sul vuoto foglio difeso dal suo candore né giovane donna che allatta il suo bambino. Io partirò! Vascello che dondoli l’alberatura l’àncora sciogli5 per una natura straniera! E crede una Noia, tradita da speranze crudeli, ancora nell’ultimo addio dei fazzoletti!6 E gli alberi forse, richiamo dei temporali son quelli che un vento inclina sopra i naufraghi sperduti, né antenne, né antenne, né verdi isolotti7... Ma ascolta, o mio cuore, il canto dei marinai!

5

10

15

S. Mallarmé, Poesie, trad. di L. Frezza, Feltrinelli, Milano 1991

Schema metrico: nell’originale francese, 2 strofe di dodecasillabi, rispettivamente di 10 e 6 versi, con schema AA BB CC ecc. 1. ebbri: ubriachi ed esaltati. 2. Niente: nessuna attività o persona potrà arrestare il cuore, la fantasia del poeta. 3. terrà: tratterrà. Mallarmé vuol dire che ormai la decisione di partire è presa, e perciò è come se egli fosse già sul mare (che già si bagna nel mare): nulla ormai potrà trattenerlo, né il ricordo di altre bellezze (antichi giardini: essendo antichi, questi giardini non risponderebbero al rinnovamento che il poeta desidera), né la passione per la poesia, e neanche gli affetti familiari (la gio-

274

vane donna che allatta il suo bambino). 4. il cerchio: la luce. Tutta la frase è un’immagine della poesia, raffigurata come una lotta solitaria e notturna contro l’angoscia della pagina bianca. Il foglio di carta resta ostinatamente vuoto, come difeso dal suo candore: il poeta aspira, con tormento, solo alla verità assoluta e, siccome non ritiene di averla conquistata, preferisce tacere, non scrivere nulla. 5. l’àncora sciogli: salpa l’ancora e parti. 6. E crede... fazzoletti!: costruisci: «una Noia (tradita da speranze crudeli, perché non si realizzano) crede ancora nell’ultimo addio dei fazzoletti». Dunque per un attimo, sul viaggio già deciso, si proietta

l’ombra di possibili delusioni: così la Noia, già tante volte provata, resta pericolosamente affezionata alla commozione dei saluti, alle lacrime d’addio (i fazzoletti). 7. E gli alberi... isolotti: forse il viaggio sarà senza ritorno e finirà in un naufragio senza salvezza. Forse gli alberi della nave, che attirano le tempeste (richiamo dei temporali), sono già spezzati, piegati sopra i naufraghi. In tal caso la nave, in balia delle tempeste perché incapace di governare (priva cioè di antenne, che è sinonimo di alberi), non potrebbe raggiungere la meta desiderata, per esempio i verdi isolotti, che qui simboleggiano l’avvenuta liberazione e la possibilità d’intraprendere un’esistenza nuova.

■ La lirica comincia con una visione negativa. Il primo verso sintetizza in due immagini la condizione «decadente»: • da un lato, c’è una sensualità svuotata di significato (La carne è triste, che è anche una citazione da Petrarca); • dall’altro, una cultura che non è più in grado di fornire nuove conoscenze (ho letto tutti i libri), di soddisfare cioè la propria stessa natura di ricerca intellettuale. ■ Per reazione a questa atmosfera stagnante, scatta al secondo verso la rivolta. Si esprime nel motivo della fuga, del viaggio in terre esotiche: un tema molto caro ai poeti romantici e decadenti, come Baudelaire. Il viaggio diviene segno di estraneità asociale, e soprattutto desiderio di un «altro mondo», di un «altrove» felice. È lo spunto per una serie di immagini che evocano un paesaggio marino, caratterizzato da spazi vastissimi, senza confini. Tale paesaggio prende corpo all’istante, attraverso l’evocazione degli uccelli marini: essi sfrecciano tra l’immensità delle acque e l’immensità del cielo, ed esprimono simbolicamente una libertà assoluta, senza limiti. ■ Il tema del viaggio s’intreccia a un altro significato, meno percepibile, ma non meno importante: partire significa anche allontanarsi dalla falsità della vita quotidiana. Ritornare alla natura, un ambito in cui mancano convenzioni sociali, artifici ecc., è un mezzo per riconquistare la verità interiore, l’autenticità. ■ La poesia di Mallarmé è sempre caratterizzata dalla tensione alla purezza, ottenibile eliminando tutto ciò che è troppo concreto e cercando immagini molto concentrate e quasi astratte. In questa lirica il tema del viaggio-fuga susci-

ta immagini suggestive perché esse non descrivono direttamente il viaggio né esplicitano troppo chiaramente il suo significato polemico: il poeta si sofferma invece sulle impressioni, sulle rifrazioni interiori di tale motivo, sulle divagazioni sentimentali, fatte di slancio, voglia, sogno e paura. LAVORIAMO SUL TESTO 1. L’emozione di fondo della poesia è la fuga. Come si manifesta? Sottolinea nel testo i punti più importanti. 2. Se contiamo i punti alla fine dei versi, la poesia è formata da sette periodi. Individuali e parafrasali singolarmente; indica per ciascuno l’immagine che meglio li esprime. 3. In alcuni passaggi di Brezza marina il poeta fa uso della seconda persona. • A chi si rivolge quando usa il «tu»? • Ci sono persone o cose alle quali il poeta fa riferimento sia in seconda sia in terza persona? • Che cosa può significare questa oscillazione nell’uso dei pronomi? 4. Quali sono a tuo giudizio le espressioni e le immagini più coinvolgenti del testo? Spiega la tua scelta. 5. In Brezza marina il poeta non specifica le possibili direzioni del suo viaggio. • Secondo te, perché? (max 5 righe) • Se avesse scritto una poesia di carattere più narrativo e avesse descritto o immaginato la destinazione del viaggio, quale tipo di ambienti pensi che avrebbe rappresentato? Rispondi in max 10 righe.

La pittura simbolista ■ Pierre Puvis de Chavannes, Il Sogno.

Affine al Simbolismo letterario era una corrente di pittura simbolista, tra i cui esponenti citiamo Pierre Puvis (182498), Gustave Moreau (1826-98) e Odilon Redon (1840-1916), apprezzati da Joris-Karl Huysmans, che nel ro-

manzo A ritroso (1884, E p. 288) dettò le linee della nuova sensibilità. Moreau dipingeva soggetti allegorici e figure femminili sognanti, sensuali, con colori smaltati e vesti sfarzose; Redon era invece pittore di misteriose nature morte e di

sogni prossimi all’incubo. A loro si può accostare Paul Gauguin (1847-1903) con i suoi dipinti tahitiani, che sembrano «primitivi» ma che nascondono, in realtà, un profondo nucleo di simboli e allusioni (E Leggere l’arte, p. 287) .

275

Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

I simbolisti francesi

VERIFICA L’età contemporanea

1

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.

1.

Una delle principali anticipazioni del Simbolismo giunse dal romanzo naturalista. V I poeti maledetti non è un testo poetico né una raccolta di versi, ma un saggio critico. V Il primo a parlare di «poeta veggente» fu V Charles Baudelaire. In casa di Stéphane Mallarmé, a Parigi, i poeti simbolisti si riunivano in occasione dei famosi V «martedì letterari». Mallarmé, diversamente dagli altri «poeti maledetti», condusse un’esistenza molto V tranquilla e regolare. Rimbaud fu condannato a 18 mesi di carcere V per avere sparato a Verlaine. Il motto «la musica prima di ogni altra cosa» vuole affermare la necessità che ogni testo poetico venga musicato da un compositore. V

2. 3. 4.

5.

6. 7.

F

F

F

4.

F

F

F

4

Rispondi alle seguenti domande.

1.

Che cos’era il Parnaso e come si spiega il richiamo a esso, nel contesto culturale di fine Ottocento? In quali aspetti principalmente si differenziavano simbolisti e decadenti? (max 5 righe) Che cosa intendeva Mallarmé con l’espressione «opera pura» o «poesia pura»? Spiega con le tue parole l’espressione di Baudelaire «l’uomo passa, lì, tra foreste di simboli / che l’osservano con sguardi familiari» (max 5 righe). Che cosa sono analogia e sinestesia, e perché i poeti simbolisti vi fanno ricorso?

F

2.

2

Collega ciascuna delle seguenti opere al suo autore; fai attenzione agli intrusi. 1 2 3 4 5 6 7

I fiori del male Il battello ebbro I poeti maledetti Il pomeriggio di un fauno Una stagione all’inferno La pagina bianca Romanze senza parole

a. Baudelaire b. Rimbaud c. Verlaine d. Valéry e. Mallarmé

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte.

1.

Sul Parnaso contemporaneo stamparono i propri versi a Baudelaire e Rimbaud b Verlaine e Mallarmé c Rimbaud, Verlaine e Mallarmé d il solo Mallarmé Il motto «l’arte per l’arte» indica a la superiorità dell’artista rispetto allo scienziato b il desiderio di rifugiarsi in una sfera di pura bellezza c la coscienza che niente, in natura e nella realtà, è veramente bello d la valorizzazione della squisita sensibilità individuale dell’artista Nel 1886 Jean Moréas

3. 276

3. 4.

5.

PER L’ESAME DI STATO 1.

3

2.

a propose a simbolisti e decadenti di unirsi in un gruppo comune b pubblicò un articolo molto polemico con l’arte classica tradizionale c pubblicò un articolo dal titolo J’accuse, in cui attaccava il Naturalismo e Zola d pubblicò un articolo in cui definiva «simbolica» la poesia nuova da lui cercata Simbolisti e decadenti a provenivano dal medesimo alveo culturale b affermavano due idee alternative di poesia e di cultura c affermavano concordemente la superiorità della scienza sul senso comune d si differenziavano per la diversa estrazione sociale dei loro aderenti

2.

3.

4.

Rileggi la Lettera del «poeta veggente» (왘 p. 50) e illustra i caratteri «veggenti» di uno dei due testi di Rimbaud da te letti (max 15 righe). Illustra il concetto di «poeta maledetto», precisando quale autore lo elaborò, chi concretamente lo incarnò nella propria esistenza e perché si tratta di un concetto assai rappresentativo della poetica decadente (max 10 righe). La parola chiave «decadenza» nella cultura di fine Ottocento riassume un sentimento all’epoca molto diffuso, il senso cioè di appartenere a un mondo ormai al tramonto, incapace di esprimere ideali attivi e positivi. A partire dal sonetto Languore di Verlaine, ricostruisci in una breve relazione l’origine e le manifestazioni del vasto e complesso universo storico-culturale del Decadentismo. Hai a disposizione 1 facciata di foglio protocollo (1500-2000 battute). Riassumi l’influenza del Simbolismo sulla poesia dell’epoca successiva (max 10 righe).

Raccordo Il romanzo decadente Le strade della narrativa di fine Ottocento romanzo naturalista

rappresentazione oggettiva della realtà

romanzo decadente interesse per: ◗ le sfumature della realtà ◗ le tensioni interne dell’io

L’affermazione di un romanzo antinaturalista ■ Gli ultimi decenni dell’Ottocento sono segnati, sul piano letterario, da due fenomeni: • da una parte, si afferma il Naturalismo (in Italia il Verismo); • parallelamente, dall’altra parte, si diffonde il Decadentismo, in modo un po’ più lento, ma destinato a influire più in profondità sulla letteratura novecentesca. ■ In tale contesto, anche la narrativa conosce importanti trasformazioni. Si affermano infatti da un lato il



1

grande romanzo psicologico

inizio Novecento

romanzo naturalista e verista, di cui abbiamo parlato nei raccordi a (왘p. 71 e a 왘 p. 86); dall’altro lato, acquista rilievo una diversa forma di romanzo, meno «oggettiva» e meno concentrata sull’analisi delle strutture sociali ed economiche, perché più interessata alle dinamiche psicologiche e alle tensioni della vita interiore del soggetto.

Gli sviluppi: romanzo decadente e romanzo psicologico ■ Il romanzo decadente si afferma nel 1880-90, con le opere di autori come Antonio Fogazzaro, Iginio Ugo 277

Tra Ottocento e Novecento

Tarchetti e Gabriele D’Annunzio in Italia, e di Joris-Karl Huysmans e Oscar Wilde in Europa. Nelle loro opere incontriamo alcuni elementi tipici della nuova civiltà letteraria – il Decadentismo, appunto – che si andava affermando in tutta Europa: • la scelta dell’estetismo, cioè di una vita progettata e costruita essa stessa come un’opera d’arte; • la sensibilità per i simboli e, più in generale, l’attenzione verso i lati in ombra della realtà; • tra questi lati in ombra spicca la psiche umana, con i suoi misteri e le sue contraddizioni.

■ Poco dopo, a inizio Novecento, tali contraddizioni della psiche umana diverranno l’oggetto quasi ossessivo d’indagine e di rappresentazione del grande romanzo psicologico (E p. 51). Autori del calibro di Pirandello, Svevo e Tozzi in Italia, di Mann, Joyce, Proust, Musil, Kafka in Europa, evidenzieranno la crisi dell’io come entità solida e stabile nel tempo e, in particolare, faranno emergere il tema della dissociazione e della follia: un tema che si affaccia già nel romanzo decadente, ma senza ancora monopolizzare l’attenzione del narratore. La parola al critico • A.L. de Castris, Il romanzo come espressione peculiare della crisi decadente

2

Identikit del romanzo decadente ESTETISMO

SIMBOLISMO

la PSICHE al centro dell’attenzione

◗ Huysmans, A ritroso, 1884 ◗ D’Annunzio, Il piacere, 1889 ◗ Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, 1890

la sensibilità individuale predilige:

◗ Tarchetti, Fosca, 1869 ◗ Fogazzaro, Malombra, 1881

la vita come un’opera d’arte _ rifiuto di ciò che è volgare

◗ gli stati d’animo ◗ le sfumature ◗ le zone d’ombra

La scelta dell’estetismo ■ A caratterizzare il romanzo decadente di fine Ottocento era anzitutto l’estetismo, al centro di opere come A ritroso (o Controcorrente, 1884) di Joris-Karl Huysmans (1848-1907), Il piacere (1889) di Gabriele D’Annunzio (1863-1938), Il ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde (1854-1900). Tutti e tre i loro protagonisti sono degli «esteti», impegnati a fare della propria vita un’«opera d’arte», secondo la poetica, appunto, dell’estetismo decadente. Un «esteta» appare anche, in buona parte, Corrado Silla, protagonista maschile di Malombra (1881) di Antonio Fogazzaro: ma l’inquietudine che lo anima appare, in certi momenti, troppo ambigua e strana per essere semplicemente spiegabile con la tendenza all’estetismo. Lo stesso vale per alcuni personaggi dello scrittore statunitense Henry James (1843-1916). ■ Il fatto che gli esteti della narrativa decadente cerchino di conformare ogni aspetto della propria vita all’ideale della Bellezza stacca nettamente i loro romanzi 278

◗ nevrosi ◗ occultismo ◗ atmosfere indefinite

dall’oggettività del Naturalismo e dalle sue ambientazioni umili e quotidiane: la sensibilità di chi sa gustare l’arte e le sue raffinatezze esige luoghi e linguaggi superiori. Gli «esteti» decadenti sono figure solitarie e anche immorali, visto che l’etica corrente appare loro troppo comune e ordinaria. Ugualmente, essi disprezzano la folla: sul piano politico sono dei reazionari, ostili alla democrazia parlamentare, colpevole di difendere gli interessi (ai loro occhi meschini) delle masse.

La «forza del simbolo», oltre la realtà che appare ■ A caratterizzare il nuovo romanzo decadente è poi la sua forte attenzione per gli elementi simbolici e allegorici della realtà. La cultura del Positivismo aveva concentrato l’interesse sulla realtà materiale del mondo e della società umana: un mondo che appariva ben ordinato e percorribile con il raziocinio. La cultura decadente della «fine del secolo» dissolve invece questa fiducia nei «fatti» e sposta l’attenzione da ciò che è spe-

■ Un romanzo improntato al Simbolismo è, per esempio, Il piacere di D’Annunzio (E p. 315), un’opera in cui il mondo esterno sembra essere ricreato sulla pagina a partire dalla squisita sensibilità del suo protagonista, fino ad assumere i colori stessi dei suoi mutevoli stati d’animo. Andrea Sperelli ama Maria (candida, cioè pura, come l’ermellino), ma contemporaneamente non dimentica Elena (la porpora, cioè la passione). In una pagina famosa (parte III, capitolo 3) egli sta attendendo Elena in una notte di neve, davanti a Palazzo Barberini; durante la lunga, impaziente attesa, immagina che a farglisi incontro sia non più Elena, ma Maria, più appropriata a «quella notte di soprannaturale bianchezza»; e, commenta l’autore, «la forza del Simbolo soggiogava lo spirito» di Andrea.

La psiche e le sue contraddizioni ■ Un terzo aspetto tipico del romanzo decadente è l’attenzione verso le complessità della psiche umana. Già i romantici a inizio Ottocento avevano messo l’accento sull’io individuale, sottolineando la sua autonomia e libertà. Ora però i decadenti vogliono avventurarsi nelle regioni più nascoste dell’io. Con un brivido di paura e di piacere, intuiscono che, più del mondo della natura o della storia, è la nostra psiche profonda la fonte delle eccitazioni più forti e conturbanti. E così, al posto del «sentimento» romantico, a dominare sono adesso gli istinti e i moti interiori più morbosi o torbidi.

■ Ciò avviene per esempio nel romanzo Fosca di Iginio Ugo Tarchetti (E p. 237), imperniato sull’inspiegabile conflitto di odio e, insieme, di attrazione che si agita nell’animo del protagonista Giorgio, preso da insana passione per una donna bruttissima, Fosca appunto. Tratti amorosi e tratti macabri si contaminano nell’opera, anche per mettere in parodia l’idillio amoroso dei romantici; ma il vero tema del romanzo è l’impossibilità, per l’individuo, di liberarsi dalle tensioni che imprigionano la sua coscienza. Tarchetti fu tra i maggiori rappresentanti della Scapigliatura (E p. 235), alla quale ci riportano diversi elementi di Fosca: l’occultismo, lo spiritismo, l’interesse verso forme di deviazione fisica e psichica, tutti motivi che facevano di quest’opera un esempio di narrativa nuova e sperimentale. ■ Altrettanto nuovo e anticipatore fu Malombra di Fogazzaro: un romanzo uscito nello stesso anno (1881) dei Malavoglia di Verga, ma che rivelava una forte sfiducia nel Positivismo e una netta presa di distanza dalla poetica verista. Malombra è un libro «di atmosfere», concentrato attorno alla tensione all’indefinito, al «mistero del poeta» (titolo di un romanzo di Fogazzaro del 1888). La trama narra un caso di psicosi; la protagonista Marina si crede la reincarnazione di una sua antenata vissuta un secolo prima, fino al punto che questa ossessione arriva a distruggere lei e quanti le vivono intorno. Ma tutti i personaggi del romanzo mostrano psicologie inquiete, troppo sensibili, «eccessive», a partire dal protagonista maschile, Corrado Silla, che è per sua stessa ammissione un «inetto»: un termine destinato di lì a breve a importanti sviluppi nella narrativa di Italo Svevo (E p. 502).

Estetismo e società di massa L’Estetismo si diffuse dall’Inghilterra, cioè dal paese più avanzato sul piano industriale. Non era un caso. Nei decenni in cui la grande industria stava inventando la produzione in serie e in cui stava nascendo una società di massa, con le prime manifestazioni del consumismo e della pubblicità su larga scala, scrittori e intellettuali non potevano che prendere atto dei veloci mutamenti in corso: mutamenti dolorosi, per quanti, come loro, erano sempre stati i gelosi custodi e quasi gli unici fruitori della bellezza.

Ora invece, grazie al denaro, anche i ricchi borghesi potevano accostarsi alla fruizione dell’arte. Nacquero in questi decenni case concepite come templi d’arte, così come nacque il design con cui venivano «firmati» interi quartieri cittadini, ma anche abiti e oggetti d’uso comune come posate, sedie, soprammobili, abat-jour. Alcuni intellettuali inorridivano davanti a tanta profanazione, alla «volgarizzazione» della bellezza; e satireggiarono il gusto pacchiano dei nuovi parvenus, arricchiti ma privi di gusto. Altri esteti (come D’Annunzio), che pure pro-

clamavano a parole la superiorità dell’arte e del Bello in ogni sua forma, seppero sfruttare con abilità la moda del momento. Proprio D’Annunzio si fece in prima persona creatore del nuovo «bello» industriale, battezzando, profumatamente retribuito, prodotti commerciali come la penna Aurora, il liquore Aurum o i grandi magazzini milanesi «La Rinascente».

279

Monografia Raccordo

rimentabile e tangibile a ciò che sta «oltre» la realtà. L’interesse di autori e personaggi si appunta su quei lati in ombra, su quelle sfumature che, pur non essendo immediatamente percepibili o misurabili, non sono per questo meno importanti.

Contesto

Il romanzo decadente

Tra Ottocento e Novecento

Il trionfo del romanzo a fine Ottocento Una moderna forma di «epopea» Negli ultimi decenni dell’Ottocento il romanzo diventa il genere letterario più diffuso e popolare. Racconti e romanzi a puntate riempiono le pagine anche di riviste e periodici, per il divertimento dei lettori, sempre più numerosi. Si tratta per lo più di una letteratura vicina alla realtà quotidiana, ai problemi della vita di ogni giorno. La linea evolutiva del genere fu tracciata nel 1872 da Antonio Fogazzaro, nel discorso che egli tenne a Vicenza dal titolo Dell’avvenire del romanzo in Italia. Per Fogazzaro, il romanzo deve rispondere a tre esigenze: costituire uno strumento di autocoscienza e autoconoscenza della società; offrire occasioni d’intrattenimento e divertimento per i lettori; esprimere la forma moderna della «poesia». In questa forma più allargata di moderna «epopea», come nel 1823 lo aveva definito il filosofo tedesco Georg W.F. Hegel, il romanzo può diventare lo strumento più adatto a interpretare e rappresentare il sempre più complesso quadro sociale e culturale della contemporaneità.

Letteratura alta e meno alta Il panorama era dominato a metà secolo dal Realismo letterario, di respiro davvero europeo, dei romanzi del francese Honoré de Balzac, dell’inglese Charles Dickens, mentre si affacciavano all’orizzonte le grandi narrazioni dei russi Fëdor Dostoevskij e Lev Tolstoj. Poi, intorno al 1880, la scena è occupata dal romanzo naturalista di Gustave Flaubert, Émile Zola, Giovanni Verga. Ma a queste forme di letteratura «alta» e problematica si affiancano romanzi meno impegnati, pur se molto graditi al grande pubblico, che comincia a formarsi e consolidarsi proprio in questa fase.

Il romanzo d’appendice Anzitutto si sviluppa il romanzo d’appendice, o feuilleton (così chiamato dal nome del supplemento letterario dei giornali su cui veniva pubblicato a puntate): narrazioni spesso ampie e mac280

chinose, piene di avventure e colpi di scena, adatte a un pubblico senza grandi pretese, che però vuole svagarsi con storie di facile e cruento realismo, di torbidi e accesi sentimenti. I personaggi di questi racconti popolari spesso emergono dalle miserabili condizioni di vita nei sobborghi delle grandi metropoli in via d’espansione, gli argomenti spesso si ispirano ai fatti di cronaca più truci e scandalosi. Maestro di questo genere di narrativa è il francese Eugène Sue (1804-57), autore prolifico e di grande successo popolare. Le sue Opere complete furono ristampate a inizio Novecento in ben 199 volumi; i suoi romanzi, tra cui I misteri di Parigi, L’ebreo errante, I sette peccati capitali, conquistarono grande fama, raggiungendo una diffusione capillare presso un pubblico di ogni ceto sociale. In Italia furono due gli interpreti più famosi di questo genere: il napoletano Francesco Mastriani (1819-91), anch’egli popolarissimo autore di un centinaio di romanzi dai titoli eloquenti: La cieca di Sorrento, I misteri di Napoli, I vermi; e la vogherese Carolina Invernizio (1858-1916), narratrice di storie a metà tra il patetico e l’horror (per esempio: Anime di fango, Il bacio di una morta, La sepolta viva), dallo stile un po’ rapido, ma dalla straordinaria presa sulla massa dei lettori.

Il romanzo per ragazzi Si sviluppava intanto il romanzo per ragazzi, definizione generica, poiché le opere migliori e più valide non furono scritte appositamente per l’infanzia. Tuttavia le scelte tematiche (avventure e fantasia) e il fatto che il ruolo del protagonista fosse spesso affidato a ragazzi fecero sì che tali romanzi si diffondessero soprattutto presso un pubblico di giovani. Tra gli autori ricordiamo James F. Cooper (L’ultimo dei mohicani, 1826), Robert Louis Stevenson (L’isola del tesoro, 1883), Rudyard Kipling (Il libro della giungla, 1894; Capitani coraggiosi, 1897), Jules Verne (Viaggio al

centro della Terra, 1864; Ventimila leghe sotto i mari, 1869-70; Il giro del mondo in ottanta giorni, 1873; L’isola misteriosa, 1874), Mark Twain (Le avventure di Tom Sawyer, 1876), Jack London (Zanna Bianca, 1906). Le loro opere rivelano in realtà tratti problematici e tutt’altro che banali, tipici cioè della letteratura «alta», significati e messaggi più complessi che vanno ben oltre l’avvincente evolversi del racconto. In Italia sono due i casi più significativi di questa letteratura «di settore»: il libro Cuore (1886) di Edmondo De Amicis, vera e propria apologia delle virtù civili della nuova Italia unitaria e borghese, non esente dai toni enfatici e lacrimosi presenti anche in libri similari di autori di altri paesi (per esempio Senza famiglia, del francese Hector Henri Malot, 1878, o Il piccolo Lord Fauntleroy, dell’inglese Frances Hodgson Burnett, 1886); e, soprattutto, il capolavoro della letteratura italiana dell’Ottocento più tradotto e conosciuto nel mondo, Pinocchio (1883) di Carlo Collodi.

Il romanzo rosa Nasce in quest’epoca anche un «romanzo femminile» o «rosa», indirizzato al gusto delle sempre più numerose lettrici e spesso scritto da donne. Sono testi a forte connotazione psicologico-sentimentale, ma spesso incentrati su una questione destinata a farsi vivacemente strada alla fine dell’Ottocento, quella del ruolo della donna nella società. In questi romanzi popolari, però, la problematica viene spesso risolta con un più o meno pacifico «ritorno all’ordine», nel ricomporsi delle norme sociali borghesi che le eroine avevano infranto. Tra le varie autrici italiane, ricordiamo Neera (pseudonimo di Anna Radius Zuccari, 1846-1918) e la Marchesa Colombi (pseudonimo di Maria Antonietta Torriani, 1840-1920, moglie di Eugenio Torelli-Viollier, il fondatore del «Corriere della Sera»; i suoi romanzi più conosciuti sono In risaia e Un matrimonio in provincia).

ANTONIO FOGAZZARO ◗ Nato a Vicenza nel 1842, Fogazzaro visse con entusiasmo la passione patriottica di famiglia. Lunghi periodi di vacanza in Valsolda (sul lago di Lugano), nella villa paterna di Oria, originarono in lui profondi affetti e ricordi di quella terra. Dopo la maturità classica (a Vicenza ebbe per maestro il poeta Giacomo Zanella), studiò legge a Padova e poi a Torino, dove si laureò nel 1864. Dopo il matrimonio (1866), s’impiegò in uno studio legale a Milano, esercitando l’avvocatura fino al 1869. In seguito ritornò a Vicenza e cominciò a dedicarsi all’attività letteraria. Nel 1872 tenne l’importante discorso Dell’avvenire del romanzo in Italia. ◗ Dopo un periodo di sbandamento morale, nel 1873 tornò alla fede religiosa. L’anno successivo pubblicò la novella in versi Miranda e nel 1876 la raccolta di versi Valsolda. La fama giunse nel 1881 con il romanzo Malombra, che gli consentì di dedicarsi esclusivamente alla letteratura. Fecero seguito i nuovi romanzi Daniele Cortis (1884), Il mistero del poeta (1888) e soprattutto Piccolo mondo antico (1895); quest’ultimo, ambientato in

L’OPERA

Testi • Le inquietudini di Corrado Silla scrittore

Valsolda, fu salutato come il capolavoro del romanzo cattolico italiano dopo I promessi sposi. Nel 1900 Fogazzaro venne nominato senatore. ◗ Nel frattempo elaborò ed espose in numerose conferenze le sue idee di conciliazione tra fede cattolica e cultura moderna. Da tale ricerca nacquero vari saggi, tra cui L’origine dell’uomo e il sentimento religioso (1893), Il progresso in relazione alla felicità (1898) e gli scritti raccolti in Ascensioni umane (1899). A tali tematiche «moderniste» furono dedicati i nuovi romanzi: Piccolo mondo moderno (1901) e Il Santo (1905). Quest’ultimo propugna idee di rinnovamento della chiesa e una «democrazia cristiana» capace di favorire un ordinato sviluppo della società con l’attivo contributo dei cattolici italiani (ancora esclusi dalla vita civile dopo il non expedit di Pio IX, E p. 19). Ma le tesi di Fogazzaro apparivano troppo avanzate: Il Santo venne condannato da papa Pio X all’Indice dei libri proibiti (1906). Stessa sorte toccò all’ultimo romanzo, Leila (1910). Amareggiato, Fogazzaro morì nel 1911.

MALOMBRA ◗ Corrado Silla, giovane scrittore di scarso successo, entra alle dipendenze del conte Cesare d’Ormengo. Costui vive in una casa grande e fredda sulle rive di un lago, assieme alla nipote Marina Cusnelli di Malombra, creatura capricciosa, autoritaria, dall’umore instabile. Nel palazzo Marina occupa la stanza appartenuta, un secolo prima, a Cecilia, la quale è stata lì rinchiusa per sempre dal marito, che a sua volta l’accusava ingiustamente di aver amato un giovane ufficiale. Cecilia è morta folle, ma il suo spirito, secondo la leggenda, ancora aleggia nel palazzo. ◗ Un giorno, casualmente, Marina ritrova alcuni oggetti appartenuti a Cecilia, con un messaggio indirizzato a colei in cui Cecilia prevedeva di reincarnarsi. La scoperta impaurisce Marina, che in precedenza, firmandosi con lo pseudonimo di «Cecilia», aveva scambiato lettere con un misterioso scrittore (che più tardi identificherà in Corrado Silla). A poco a poco si convince di essere la reincarnazione di Cecilia d’Ormengo, mentre

nello zio Cesare rivivrebbe il crudele marito di costei, e in Corrado Silla, Renato, il giovane ufficiale. ◗ Corrado è affascinato da Marina, oltre che turbato da confuse aspirazioni religiose e preso da un senso di inutilità della propria vita; si definisce giustamente «inetto a vivere». Ama Marina ma ama anche Edith, la figlia di Steinegge, il segretario tedesco del conte. Se Marina è morbosamente attratta dall’irrazionale, Edith è invece pura e innocente. Dopo un diverbio con Marina, Silla abbandona il palazzo; a Milano incontra Edith e le regala una copia del suo romanzo, con una dedica in cui le dichiara il suo amore. La ragazza però non gli risponde, volendo dedicarsi completamente al padre. Un improvviso telegramma di Marina richiama Corrado al capezzale del conte morente; nel palazzo il giovane si abbandona alla passione per lei. Marina però lo trascina nella propria follia e, infine, lo uccide, prima di gettarsi nel lago. Sarà Edith a custodire la memoria di Silla. 281

Monografia Raccordo

L’AUTORE

Contesto

Il romanzo decadente

Tra Ottocento e Novecento

Antonio Fogazzaro

1

Un vecchio manoscritto e la sua pericolosa rivelazione Malombra, parte I, capitolo V Anno: 1881 Temi: • la vita della protagonista sconvolta da un oggetto del passato • l’ingresso in una dimensione irreale, fatta di sgomento e allucinazione • oggetti inanimati che sembrano assumere vita propria Leggiamo un capitolo cruciale, all’inizio del romanzo: un giorno, nella sua stanza, Marina ritrova casualmente un manoscritto e alcuni oggetti appartenuti alla sua antenata Cecilia. Comincia perciò a sospettare di essere la sua reincarnazione.

la prima sensazione di estraneità: un oggetto quotidiano appare diverso, inquietante Marina è da sempre ipersensibile

serie di gesti improvvisi, che tradiscono smania e inquietudine

un’eccitazione si sta impossessando del personaggio

L’orologio di R... suonò le nove. Non le parve la solita campana. Come poteva avere un’altra voce? Stette in ascolto. Le balenò alla mente d’essersi trovata un’altra volta sul lago, esattamente nello stesso luogo e alla stess’ora, d’aver ascoltata la campana e fatto lo stesso pensiero che il suono era diverso dal consueto. Ma quando? Le era accaduto parecchie altre volte, specialmente nell’adolescenza, di venir sor- 5 presa da simili riproduzioni di circostanze e di pensieri, senza poter ricordare l’epoca del suo primo passaggio. Ne aveva parlato. Suo padre s’era stretto nelle spalle: che si ha a fare1 attenzione a simili sciocchezze? Miss Sarah aveva detto: «E dunque?» Le amiche l’avevano assicurata che a loro succedeva la stessa cosa ogni giorno. 10 Marina non ne parlò più, ma ci pensò ancora. Questi lampi di reminiscenza solevano riferirsi a circostanze tra le più indifferenti della vita. Le rimaneva perciò sempre dubbio se si trattasse di reminiscenze vere e proprie o di allucinazioni. Stavolta non era così. Pensando e ripensando, si persuase di non essersi trovata mai sul lago a quell’ora; era dunque un’allucinazione. Quando scese2 al Palazzo, il conte3 si era già ritirato. Ella passeggiò un tratto su e 15 giù per la loggia, entrò nelle sue stanze, prese un libro, lo gettò via, ne prese un altro, gittò anche quello, si provò a scrivere una lettera e, dopo aver pensato alquanto con la penna in mano, stracciò il foglio, si trasse due anellini, li buttò sulla ribalta4 abbassata dello stipo5 antico che le serviva di scrivania, e andò al pianoforte. Suonò uno dei suoi pezzi prediletti, la gran scena dell’evocazione delle monache nel Rober- 20 to.6 Ella non intendeva, non suonava che musica d’opera. Suonò come se gli ardori delle peccatrici spettrali fossero entrati in lei, più violenti. Alla tentazione dell’amore si fermò, non poté proseguire. Quel foco interno era più forte di lei, la opprimeva, le toglieva il respiro. Chinò la fronte sul leggìo. Pareva che ardesse anche quello. Si alzò in piedi, guardando nel vuoto. La divina musica vibra- 25

1. che si ha a fare: bisogna forse fare. 2. scese: dalla barca. 3. il conte: il conte Cesare d’Ormengo, padrone di casa e zio di Marina.

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4. ribalta: uno sportello che può essere alzato o riabbassato. 5. stipo: mobiletto in legno pregiato in cui si conservano documenti e oggetti di valore.

6. la gran scena... Roberto: il melodramma Roberto e il diavolo di Giacomo Meyerbeer (1831).

va ancora nell’aria, le pareva di respirarla, di sentirla nel petto: ne le correva uno spasimo voluttuoso per le braccia. Finalmente7 abbassò gli occhi sul pavimento, li posò involontariamente su qualche cosa che brillava a’ suoi piedi. Guardò, senz’averne coscienza, quel punto brillante che a poco a poco le venne fermando la fantasia,8 finché lo vide e lo raccolse. 30 Era uno degli anellini buttati da lei sulla ribalta dello stipo. Cercò l’altro. Sulla ribalta non c’era, nell’interno dello stipo non c’era, sul pavimento neppure. Marina s’irritò, frugò persino sotto lo stipo. Nulla. Cacciò ancora la mano nel vuoto che si apriva sopra il piano stesso della ribalta, fra due ordini di cassetti. Frugando là dentro si accorse di un piccolo foro nel piano, e, introdottovi l’indice, vi sentì l’anello. 35 Non potendovi entrare con due dita, cercò levarnelo9 serrandolo tra il polpastrello dell’indice e il legno. Con sua meraviglia non le riuscì, l’anello pareva preso e trattenuto da un uncino. Mentre Marina faceva ogni sforzo di vincere questa resistenza, s’udì lo scatto di una molla; il piano, dove posava la mano di Marina, cadde di alcuni centimetri, l’anello vi ruzzolò su. Marina, sorpresa, ritirò la mano in fretta; poi, ri- 40 frugando, trovò che, in fondo, la mano entrava più addentro di prima e che v’erano, in quella ultima cavità, degli oggetti. Ne li trasse10 ad uno ad uno. Erano un libro di preghiere, uno specchietto piccolissimo con la cornice d’argento, una ciocca di capelli biondi legati con un brandello 45 di seta nera, e un guanto. Marina, attonita, faceva passare e ripassare ciascun oggetto sotto la fiammella della candela. I capelli erano finissimi; parevano d’un bambino. Il guanto, a un bottone solo, era piccolo, stretto, allungato; aveva l’atto d’una cosa viva: conteneva ancora, per così dire, lo spirito della mano delicata che l’aveva portato un giorno. A chi erano appartenuti quegli oggetti? Quale amore, quale occulto disegno li aveva nascosti 50 là dentro? Marina frugò da capo nella cavità misteriosa sperando trovare uno scritto, ma senza frutto. Riprese a esaminare gli oggetti. Le pareva che ciascuno d’essi si struggesse di parlare, di gridare: «Intendi!».11 Finalmente, voltando e rivoltando per ogni verso lo specchietto, s’avvide di qualche segno tracciato a punta di diamante sul vetro. Erano lettere e cifre segnate da una mano incerta. Con paziente attenzione 55 Marina arrivò a leggere la seguente laconica scritta:

IO – 2 MAGGIO 1802 Parve a Marina che una luce lontana e fioca sorgesse nell’anima sua. 1802! Non viveva in quel tempo al Palazzo12 la infelice prigioniera, la pazza della leggenda? Forse 60 era lei. Quel guanto, quei capelli erano reliquie sue. Ma nascoste da chi? Marina, quasi senza sapere che si facesse,13 afferrò il libro di preghiere e ne sfogliò le pagine. Ne cade un foglio ripiegato, tutto, tutto coperto di caratteri giallognoli, sbiaditissi65 mi. Ella lo apre e vi legge:

7. Finalmente: alla fine. 8. le venne... la fantasia: la obbliga a concentrarsi e a scacciare le altre fantasticherie.

9. levarnelo: levarlo, estrarlo di là. 10. Ne li trasse: li tirò fuori. 11. Intendi!: cerca di capire.

12. Palazzo: il medesimo Palazzo d’Ormengo in cui si svolge la vicenda. 13. che si facesse: cosa stesse facendo.

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comincia qui il capoverso del ritrovamento, costruito con magistrale senso della suspense narrativa

Contesto

Il romanzo decadente

Tra Ottocento e Novecento

2 MAGGIO 1802 PER RICORDARMI

ha inizio qui l’identificazione tra le due donne

più che un invito, un ordine perentorio, che getta scompiglio nell’animo di chi legge

ecco il punto d’arrivo della misteriosa rivelazione: Marina finirà per credersi Cecilia rediviva

Ch’io mi ricordi, nel nome di Dio! Altrimenti perché rinascere? Ho pregato la Vergine e Santa Cecilia di rivelarmi il nome che mi sarà imposto allora.14 Non vollero. Ebbene, qualunque sia il tuo nome, tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l’anima mia infelice. Avanti di nascere hai sofferto TANTO, TANTO (questa parola era ripetuta dieci volte in caratteri assai grandi) col nome di Cecilia. Ricordati! MARIA CECILIA VARREGA di Camogli, infelice moglie del Conte Emanuele d’Ormengo. Ricordati la sera del 10 gennaio 1797 a Genova in casa Brignole; ricordati il viso bianco, il neo sulla guancia destra della santa zia, suor Pellegrina Concetta. Ricordati il nome RENATO, l’uniforme rosso e azzurro, gli spallini e i ricami d’oro al collo e la rosa bianca al ballo Doria. Ricordati il carrozzone nero, la neve e la donna di Busalla che mi ha promesso di pregare per me. Ricordati la VISIONE avuta in questa camera, due ore dopo mezzanotte, le parole di fuoco sfolgoranti sulla parete, parole d’una lingua ignota e tuttavia chiarissime in quel punto alla mia intelligenza che vi intese il conforto e la promessa divina. Mi è impossibile trascrivere quei segni, non ne ricordo che il senso. Dicevano che rinascerei, che vivrei15 ancora qui fra queste mura, qui mi vendicherei, qui amerei Renato e sarei riamata da lui: dicevano un’altra cosa buia, incomprensibile, indecifrabile, forse il nome che egli porterà allora. Vorrei scrivere la mia vita intera, non ne ho la forza: bastino quei cenni. Cambiati nome! Che io torni a essere Cecilia. Ch’egli ami Cecilia! Questo stipo era di mia madre, nessuno ne conosce il segreto. Vi pongo lo specchietto a cornice d’argento che la mamma ha avuto a Parigi da Cagliostro.16 Mi vi sono guardata a lungo, a lungo: lo specchietto ritiene17 la fisonomia dell’ultima persona che vi si è guardata. Vi ho incisa la data con la pietra del mio anello. Questi sono i miei capelli. Non li conosci? Pensa. Strana cosa parlare a te come se tu non fossi io stessa! Come son belli e fini i miei capelli! Vanno sotterra senza un bacio d’amore, senza una carezza. Come son biondi! Vanno sotterra. Anche tu, piccola mano mia! Metto coi capelli un guanto per ricordarmi di te, piccola mano. Nota che il pollice del guanto mi è corto. Chi sa se avrò una manina così bella, così morbida? La bacio. Addio! Ho pochi giorni a vivere. È la sera del 2 maggio 1802. Non so l’ora, non ho orologio. [...] Quando nella seconda vita avrò ritrovato e letto il presente manoscritto, m’inginocchierò immediatamente a ringraziar Dio; quindi, paragonati i miei capelli d’adesso a quelli d’allora, provato il guanto e guardata la immagine nello specchio, spezzerò a quest’ultimo il vetro che dev’essere rinnovato per poter servire un’altra volta, e riporrò tutto nel segreto. Poi converrà premere sull’uncino per far tornar su il piano orizzontale. Aver fede cieca nella divina promessa: lasciar fare a Dio. Sieno figli, sieno nipoti, sieno parenti, la vendetta sarà buona per tutti. Qui aspettarla, qui. Cecilia.

14. che mi sarà imposto allora: quando, cioè, si reincarnerà nella persona che avrà ritrovato il messaggio. 15. che rinascerei, che vivrei: che sarei

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rinata (reincarnata in un’altra persona) e tornata a vivere nella medesima casa. 16. Cagliostro: Alessandro Cagliostro, siciliano, uno dei più famosi avventurieri del

Settecento; aveva fama di mago e alchimista. Morì in carcere nel 1795. 17. ritiene: trattiene.

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mentre Marina rimane immobile, in ascolto, le cose inanimate intorno a lei sembrano acquistare vita autonoma

A. Fogazzaro, Malombra, a cura di L. Baldacci, Garzanti, Milano 1973

18. e non intese: non capì subito. 19. Fanny: la domestica.

20. cadde ginocchioni: in ginocchio, dunque come Cecilia aveva lasciato scritto.

21. Quella... inginocchiata: cioè Marina. 22. suggerle: succhiarle.

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Monografia Raccordo

in Marina si alternano agitazione frenetica e immobilità; anche questo è un segno di squilibrio

Marina lesse avidamente e non intese.18 Rilesse. Al passo: «Tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l’anima 110 mia infelice», si fermò. Prima non le aveva notate. L’occhio suo si fermò su quelle parole, e le mani, che tenevano il foglio, tremarono. Ma per poco. Ella proseguì a leggere e le bianche mani tremanti parvero pietrificate. Giunta alle parole «m’inginocchierò immediatamente a ringraziar Dio» chiuse il manoscritto tenendovi dentro l’indice della mano destra [...]. Riaperse il manoscritto, lo rilesse per la terza volta. Poi lo depose e prese la ciocca 115 di capelli. Le sue mani si movevano lentamente, non avevano più nulla di nervoso. La fisionomia era marmorea; non v’erano scritte né incredulità, né fede, né pietà, né paura, né meraviglia. Un passo pesante nel corridoio. Marina si trasformò. I suoi occhi scintillarono, il sangue le corse al viso, chiuse con impeto la ribalta dello stipo e si slanciò alla porta. 120 Era Fanny19 che aveva un passo da corazziere. «Vattene» disse Marina. «Ah, Signora, che furia, cos’è accaduto?» «Nulla, non ho bisogno di te stasera, vattene a letto» ripeté Marina più ricomposta nella voce e nel viso. Fanny se ne andò. Marina stette in ascolto de’ suoi passi finché 125 la udì scendere le scale. Allora tornò allo stipo. Esitò a riaprirlo, ne considerò i geroglifici, le figure enigmatiche d’avorio intarsiato nell’ebano, che avevano in quel momento per lei la espressione funebre di spettri saliti a galla in una nera corrente infernale. Si decise e riabbassò la ribalta. Trasalì; lo stipo era stato chiuso in furia e lo specchietto era andato in pezzi secon- 130 do la volontà di Cecilia. Rilesse l’ultima pagina del manoscritto, si sciolse i capelli, ne tolse in mano una treccia e l’accostò alla ciocca di Cecilia; i vivi e i morti non si rassomigliavano affatto. Prese il guanto. Come n’era fredda la pelle! Metteva i brividi. No, neppure il guan135 to andava bene: era troppo piccolo. Marina ripose nel segreto il manoscritto, il libro, il guanto, i capelli, la cornice con i pezzi dello specchietto e premette forte sull’uncino. La molla scattò, il piano risalì a posto. Ciò fatto, cadde ginocchioni,20 appoggiò le braccia sulla ribalta dello stipo e si nascose il viso. La candela che ardeva sopra di lei e le illuminava di riflessi dorati le onde diffuse dei capelli, parve allora la sola cosa viva nella camera. La fiamma 140 aveva delle strane inquietudini, dei sussulti, degli slanci e dei languori inesplicabili; si veniva lentamente abbassando come se fosse ansiosa di calare all’orecchio di Marina e sussurrarle: «Che hai?» Ma neppure se lo spirito di luce avesse parlato così al piccolo orecchio di rosa, si sarebbe udita risposta. Quella figura inginocchiata21 non aveva più sensi né voce. Il cuore le batteva appena; il sangue stesso, forse, era quasi 145 fermo. La sua forte intelligenza e la sua volontà, chiuse nel cervello, fatto intorno a sé un gran silenzio, combattevano il fantasma uscito dallo stipo aperto davanti alla graziosa persona col truce proposito d’infiltrarlesi nel sangue, di avvinghiarlesi alle ossa, di suggerle22 la vita e l’anima per mettersi al loro posto.

Contesto

Il romanzo decadente

Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ La novità portata da Malombra nella letteratura italiana del tempo è il clima allucinato, l’atmosfera oscura, inquieta, che si respira nelle sue pagine. La narrazione si svolge spesso ai confini tra sogno e realtà, tra coscienza e subcoscienza. Soprattutto Marina vive nel corso di tutto il romanzo in un clima di tensione. Il culmine di questo stato d’animo è precisamente la scena del ritrovamento del manoscritto. Siamo nella sera fatale per il personaggio, quella che segnerà il corso della sua vita futura. ■ Un’accorta strategia narrativa prepara con cura il momento così particolare, inatteso. Variando via via i toni, l’autore lascia emergere sintomi sempre più preoccupanti. • Si comincia segnalando la prima allucinazione: Stette in ascolto. Le balenò alla mente d’essersi trovata un’altra volta sul lago. Per ora Marina coglie la realtà illusoria di quell’immagine; ma, appunto per questo, la registra con paura. • Da qui in poi la volontà del personaggio è messa a dura prova da uno stato interiore di sgomento e languore. Una sensazione di molesta inquietudine la obbliga a una rapida serie di gesti improvvisi. In lei si insinua un’eccitazione allarmante, che finirà per imporsi alla sua volontà. • Si giunge così al momento culminante: la scoperta e la lettura dell’antico manoscritto. Fogazzaro dà voce agli stati d’animo, sempre più trasognati, del personaggio, alle prese con quella misteriosa rivelazione. ■ La narrazione ci mette man mano di fronte all’emergere di uno stato allucinatorio, a una vera e propria sindrome di alienazione mentale: gradualmente i gesti sembrano farsi «automatici», annullando, o meglio assorbendo quel che resta della volontà dell’individuo. Marina sembra svuotarsi di vita (le mani pietrificate, la fisionomia... marmorea), mentre le cose intorno a lei, nella sua allucinazione, paiono prendere vita e calore (si veda il periodo dedicato alla fiamma della candela, che aveva delle strane inquietudini, dei sussulti, degli slanci e dei languori inesplicabili ecc.). Un’inquietudine profonda, invincibile afferra il personaggio e la conduce nel territorio sconosciuto della possessione psichica: Marina tremò, le parve sentirsi chiamare, pregare da tante anime ignote...

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LAVORIAMO SUL TESTO 1. In quale punto del romanzo ci troviamo? Dove si ambienta la scena? ...................................................................................................... ...................................................................................................... ...................................................................................................... ...................................................................................................... 2. Che cosa ritrova Marina e come? Quali reazioni le provoca? ...................................................................................................... ...................................................................................................... ...................................................................................................... ...................................................................................................... 3. In un passaggio del testo si parla di vendetta: ritrova il punto e spiegalo nel contesto. ...................................................................................................... ...................................................................................................... ...................................................................................................... ...................................................................................................... 4. Cecilia e Marina non si somigliano in tutto: che cosa in particolare le differenzia? E quali conclusioni ne trae la protagonista? ...................................................................................................... ...................................................................................................... ...................................................................................................... ...................................................................................................... 5. Quale personalità ci rivela la lettera lasciata da Cecilia d’Ormengo? Puoi definire la scrivente un individuo simile a Marina e, se sì, perché? (max 15 righe) 6. Nel brano un ruolo essenziale spetta all’«atmosfera» narrativa: l’ambientazione (luoghi e ora), gli oggetti (anche nei loro dettagli), gli stati d’animo. In una breve relazione, analizza ciascuno di questi elementi, con opportune citazioni dal testo. Hai a disposizione una facciata e mezzo di foglio protocollo (25003000 battute). 7. Naturalismo e Decadentismo: due differenti progetti narrativi. Sviluppa la traccia in un saggio breve, in cui metterai a confronto questo passo di Fogazzaro con un testo a tua scelta tratto da Verga o da un altro narratore del Naturalismo. Illustra le differenti tecniche narrative messe in atto dagli autori, esaminando in particolare i seguenti aspetti: • ambientazione (ben definita, lasciata in sospeso, generica ecc.); • azione narrativa (ricostruita con sequenze nette, allusa e confusa ecc.); • psicologie dei personaggi (con quali caratteristiche emergono nelle pagine); • uso dell’aggettivazione da parte degli scrittori.

Leggere l’arte Dietro le cose, una realtà più profonda ■ Odilon Redon, Il ciclope, 1895-1900, olio su tavola, 64x51 cm, Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Müller.

■ Gustave Moreau, L’apparizione, 1876, acquerello, 142x103 cm, Parigi, Musée Moreau.

■ Gaetano Previati, Maternità, 1890-91, olio su tela, 174x411 cm, Novara, Banca Popolare di Novara.

L’artista alla scoperta dell’«ignoto» Sul finire dell’Ottocento viene meno la necessità, per le arti figurative, di rappresentare la realtà, mentre si affermano immagini che suggeriscono stati d’animo ed evocano il mondo interiore dell’artista. Come scrive Rimbaud: «il poeta si fa veggente [...] egli giunge all’ignoto». I suoi occhi non sono rivolti a ciò che accade, ma all’ignoto che è dentro e fuori di sé. Come Tiresia, l’antico indovi-

no, cieco perché vedeva ciò che è nascosto alle persone comuni, anche l’artista deve chiudere gli occhi di fronte al mondo visibile per scoprire l’ignoto.

La rappresentazione di emozioni e stati d’animo I francesi Odilon Redon, Pierre Puvis de Chavannes (1824-98) e Gustave Moreau (1826-98) danno vita nei loro dipinti a incubi e ossessioni, caricando le scene di ornamenti e architetture visionarie.

In Italia, Gaetano Previati (18521920) crea composizioni in cui i colori e la luce, rarefatti in pennellate lunghe e sottili, emanano potenti suggestioni, come per esempio nel suo dipinto Maternità, dove l’artista ha voluto suggerire la sensazione profonda che suscita la vista di una madre che allatta. Giovanni Segantini (1858-99) dipinge scene e figure simboliche del legame tra nascita, vita e morte. 287

L’AUTORE

JORIS-KARL HUYSMANS ◗ Huysmans nacque a Parigi nel 1848; scelse in seguito di trasformare l’originario nome francese di Georges-Charles in quello di Joris-Karl, in omaggio all’origine olandese della famiglia paterna, in cui erano cresciuti diversi pittori di talento. Nel 1856 morì suo padre e il giovane Georges fu trasferito in collegio. Dopo il diploma liceale, ottenuto nel 1866, condusse un’esistenza da modesto impiegato al ministero degli Interni, molto distante, dunque, dalla raffinata superiorità che caratterizza Des Esseintes, l’eroe di À rebours (Controcorrente o A ritroso), il suo romanzo più famoso, pubblicato nel 1884. ◗ Huysmans si era dedicato alla letteratura sotto l’influenza di Émile Zola; al Naturalismo s’ispiravano i suoi primi romanzi, Marta, storia di una fanciulla (1876) e Le sorelle Vatard (1879), ambientati nei quartieri poveri di Parigi. Fu Zola a inserire il racconto Zaino in

L’OPERA

A RITROSO ◗ Jean Des Esseintes è l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica, avviata a decadenza per i numerosi matrimoni tra consanguinei e per le tare generate da questa abitudine. È un «esile giovanotto di trent’anni, anemico e nervoso, dalle gote scavate, gli occhi di un azzurro freddo di acciaio [...] le mani secche e gracili». Dopo essere stato educato in un collegio cattolico e dopo avere perduti entrambi i genitori a soli diciassette anni, il protagonista ha vissuto esperienze diverse, tra letture e fantasticherie, amici gaudenti e amori, perennemente inquieto. Quindi, insoddisfatto della sua vita mondana e brillante, deluso dalla volgarità di un mondo sempre più dominato dal denaro, decide di vendere il castello di famiglia e di vivere il resto della propria vita in solitudine, in una casa da lui trasformata in un vero e proprio «tempio» della bellezza. ◗ A lungo andare, però, l’isolamento sociale, il continuo riandare al passato, la sostituzione di condizioni artificiali a quelle naturali provocano in Des Esseintes una grave ne-

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spalla nell’antologia di scrittori naturalisti da lui stesso curata, Serate di Médan (1880). Huysmans cominciò però a staccarsi dal Naturalismo già nel romanzo Alla deriva (1882), seguito da A ritroso, presto salutato come «la Bibbia del Decadentismo». ◗ Aperto alle nuove forme culturali e artistiche, fu tra i primi a sostenere, in diversi scritti critici, la nuova pittura degli impressionisti. Non cessavano intanto le sue inquietudini spirituali, accompagnate dalle esperienze di occultismo narrate in Laggiù (1891). Poi Huysmans si isolò per qualche tempo nell’abbazia benedettina di Ligugé, fino a convertirsi al cattolicesimo più rigoroso verso il 1895. Accompagnò questa scelta con nuove opere narrative, dense di riferimenti autobiografici: ricordiamo In cammino (1895), storia della sua conversione, La cattedrale (1898), L’oblato (1903). Morì nel 1907.

vrosi. Per curarsi egli deve abbandonare il suo rifugio di Fontenay-aux-Roses e trasferirsi a Parigi. All’atto della partenza egli invoca la fede religiosa quale rimedio utile a recuperare una speranza di vita che ha ormai smarrito. ◗ I capitoli del libro costituiscono altrettante tappe della spasmodica ricerca della perfezione da parte del protagonista. Ciascuno di essi riguarda, di volta in volta, un certo tipo di oggetto: le pietre preziose, i profumi, i fiori, i mobili, gli autori più amati (i latini Petronio e Apuleio, qualche romanziere contemporaneo, come Flaubert e Zola, soprattutto i poeti «maledetti»: Baudelaire e Verlaine). In tal modo Controcorrente finisce per assomigliare, più che a un romanzo, a una serie di brevi saggi, che compongono una specie di estesa dichiarazione di poetica. Incontriamo anche numerose dichiarazioni d’amore per la civiltà romana nel momento della sua fine: il fascino della decadenza attira irresistibilmente Des Esseintes, avvinto dai segni di morte di una civiltà in disgregazione.

Il romanzo decadente

La casa artificiale del perfetto esteta A ritroso, capitolo II Anno: 1884 Temi: • il carattere solitario ed eccentrico dell’esteta, le sue raffinatezze • il «bello» come costruzione artificiale che supera la Natura Leggiamo un passo del secondo capitolo del romanzo, che presenta lo sforzo del protagonista per raggiungere l’isolamento e concentrarsi così nella ricerca del «bello».

l’isolamento di Des Esseintes dal mondo

questa debolezza del corpo si accompagna però, in lui, alla ricchezza del fantasticare

Dopo la vendita dei suoi beni, Des Esseintes trattenne i due vecchi domestici che avevano curato sua madre e adempiuto agli incarichi di casieri1 e di portinai del castello di Lourps,2 rimasto vuoto e inabitato fino all’epoca in cui fu messo in vendita. Fece venire a Fontenay3 questa coppia abituata al compito di infermiere, alla regolarità propria di chi distribuisce, di ora in ora, cucchiai di pozione e di tisana, a un ri- 5 gido silenzio da convento di clausura, senza rapporti con l’esterno, in stanze dalle finestre e dalle porte chiuse. Il marito ebbe il compito di far pulizia nelle camere e di procurare le provvigioni;4 la moglie quello di far da cucina. Des Esseintes cedette loro il primo piano della casa costringendoli a portare pantofole dalla spessa suola di feltro, fece metter bussole5 10 davanti alle porte ben oleate e ricoprire i pavimenti delle loro stanze con alti tappeti, in modo da non udire sulla testa il rumore dei loro passi. Si mise inoltre d’accordo con loro sul senso di certe sonerie, determinò il significato dei colpi di campanello a seconda del loro numero, brevità o lunghezza; indicò sulla sua scrivania il punto in cui, tutti i mesi, dovevano deporre, mentre lui dormi- 15 va, il libro dei conti; insomma fece in modo da non essere costretto troppo spesso a vederli o a parlare con loro. [...] Stabilì anche rigorosamente le ore dei pasti, che, d’altra parte, erano poco complicati e assai sobri poiché il suo stomaco indebolito non gli permetteva di assorbire ci20 bi variati o pesanti. Alle cinque, d’inverno, dopo il tramonto, faceva una leggera colazione con due uova al guscio, un po’ di arrosto e del tè; poi desinava verso le undici; durante la notte beveva caffè e qualche volta tè e vino; verso le cinque del mattino, prima di coricarsi, speluzzicava6 una merenda. Prendeva questi pasti, il cui ordine e la cui lista erano stabiliti una volta per tutte 25 all’inizio di ogni stagione, a una tavola nel mezzo di una stanzetta divisa dalla sua stanza di lavoro da un corridoio imbottito, ermeticamente chiuso, che non lasciava filtrare né odori né rumori nelle due stanze cui serviva di passaggio. Questa sala da pranzo somigliava alla cabina di una nave, con il suo soffitto un po’ a

1. casieri: custodi. 2. castello di Lourps: il castello della famiglia Floressas des Esseintes, a cui appartiene il protagonista.

3. Fontenay: Fontenay-aux-Roses, il luogo dove Des Esseintes, annoiato dal mondo e dalla vita, si è ritirato in una casa isolata. 4. provvigioni: provviste.

5. bussole: paraventi. 6. speluzzicava: faceva assaggi (da “speluzzicare”, variante del più comune verbo “spilluzzicare”).

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Monografia Raccordo

2

Contesto

Joris-Karl Huysmans

Tra Ottocento e Novecento

volta munito di travi in semicerchio, i suoi assiti7 e il suo pavimento di pino america- 30 no, la sua piccola finestra aperta nell’assito come un oblò nel fianco di una nave. [...]

l’esteta è sempre in cerca di sensazioni rare e preziose (qui, l’illusione di viaggiare per mare standosene comodamente a casa propria)

la realtà artificiale sostituisce egregiamente quella naturale

la frase riassuntiva dell’estetismo di Des Esseintes: sostituire l’arte, l’artificio, alla realtà comune

[Segue la descrizione particolareggiata di questa sala da pranzo in forma di cabina di nave. Vi sono raccolti molti oggetti utili alla navigazione, quali bussole, carte nautiche ecc., assieme a stampe che raffigurano navi e porti e a un acquario, abitato da «pesci meccanici».] Si procurava così, senza muoversi, le sensazioni rapide, quasi istantanee, di un viaggio di lungo corso e quel piacere dello spostamento che, in definitiva, consiste solo nel ricordo e mai nel presente, nell’attimo stesso in cui si effettua, lo aspirava 35 appieno, comodamente e senza fatica, senza trambusti, in quella cabina [...]. D’altra parte il movimento gli sembrava inutile, e pensava che la fantasia potesse facilmente supplire alla volgare realtà dei fatti. A suo parere era possibile dar soddisfazione ai desideri considerati più difficili ad esaudirsi nella vita normale, e questo mediante un piccolo sotterfugio, un’approssimativa sofisticazione dell’oggetto perseguito da quei desideri stessi. È evidente, ad esempio, che ogni buongustaio è felice 40 oggi di andare nei ristoranti celebri per le loro cantine, e assaporare vini di marca fabbricati con semplici vinelli secondo il metodo Pasteur.8 Veri o falsi, quei vini hanno lo stesso aroma, lo stesso colore, la stessa fragranza, e per conseguenza il piacere che si trova gustando quelle bevande alterate e artificiali è assolutamente identico a quello che si proverebbe gustando il vino naturale e puro, introvabile anche a pagar- 45 lo a peso d’oro. [...] Tutto sta nel saper fare, nel saper concentrare lo spirito su di un solo punto, nel sapere astrarsi9 abbastanza per far sorgere l’allucinazione e sostituire il sogno della realtà alla realtà stessa. Del resto, l’artificio sembrava a Des Esseintes il carattere distintivo del genio umano. 50 La natura, diceva, ha fatto il suo tempo; ha stancato definitivamente, con la disgustosa uniformità dei suoi paesaggi e dei suoi cieli, l’attenta pazienza dei raffinati. In fondo, che aridità da specialista confinato nel suo campo, che gretteria10 da bottegaia che tiene un dato articolo escludendone un altro, che monotono magazzino di 55 prati e di alberi, che banale agenzia di montagne e di marine! D’altra parte, non vi è alcuna delle sue invenzioni così sottile o grandiosa che il genio umano non possa crearla a sua volta; nessuna foresta di Fontainebleau,11 nessun chiaro di luna che gli scenari inondati di luci elettriche non riproducano; nessuna cascata che un idraulico non sappia imitare così da non poterla distinguere; nessuna roccia che la cartapesta non ricrei identica; nessun fiore che non sia eguagliato da se- 60 te brillanti o da carte delicatamente dipinte! Non v’è dubbio che questa eterna rimbambita12 ha ormai esaurito la bonaria ammirazione dei veri artisti, ed è venuto il momento in cui deve essere sostituita per quanto è possibile dall’artificio. J.-K. Huysmans, A ritroso, trad. di U. Dèttore, Rizzoli, Milano 1982

7. assiti: pareti di legno. 8. metodo Pasteur: il metodo per la conservazione del vino (e di altri alimenti), chiamato «pastorizzazione» dal nome del biologo e chimico francese che lo inventò,

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Louis Pasteur (1822-95). 9. astrarsi: allontanarsi, con il pensiero, dalla realtà quotidiana. 10. gretteria: meschinità. 11. foresta di Fontainebleau: a sud-est di

Parigi, vicino alla quale c’è un famoso castello del Cinquecento. 12. questa eterna rimbambita: la Natura, che procede in modo poco fantasioso.

■ Il testo chiarisce bene quale sia il rapporto che Des Esseintes stabilisce con la realtà. Per noia e sazietà egli ha abbandonato Parigi, cercando nell’assoluto isolamento, nel rigido silenzio da convento di clausura, una diversa ragione di vita. Adesso, nella sua casa di Fontenay, abolita la realtà quotidiana, egli si sforza di dare luogo a un mondo irreale, o meglio artificiale, in cui la fantasia può facilmente supplire alla volgare realtà dei fatti. ■ Siamo davanti a un processo di sostituzione, di astrazione. La natura viene rimpiazzata dalla cultura, cioè dalla volontà e dall’intelligenza dell’individuo superiore. La Natura (questa eterna rimbambita), infatti, non può competere con il raffinato intellettuale decadente. Quasi fosse un nuovo Dio, egli è in grado di superarla nelle sue creazioni. Può, con le sue macchine artificiose, procurarsi sensazioni «naturali» senza che la Natura sia più necessaria, o sensazioni di viaggio senza muoversi da casa. ■ Per Des Esseintes, e per il suo autore, la fantasia conta più della realtà; contano solo il gioco e l’artificio, con i quali ritrovare il piacere, tutto intellettuale, di confondere ciò che è vero e ciò che è falso, esattamente come neppure il buongustaio riesce più a cogliere la differenza tra i vini di marca e quelli fabbricati... secondo il metodo Pasteur. Il «sogno della realtà» diviene così la vera e più alta forma di realtà. Per rag-

giungere tale condizione, il personaggio deve passare attraverso una sorta di allucinazione, termine che indica il carattere malato e innaturale di questa esperienza. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Illustra in che cosa consiste l’«eccezionalità» del personaggio (in max 10 righe). 2. L’artificio – dichiara il narratore – è il carattere distintivo del genio umano: in che senso? Spiega con le tue parole. 3. Des Esseintes si sforza di non essere naturale: in che modo e perché? E come sostituisce la Natura? 4. Quali elementi di questo brano rendono visibile l’estetismo, tipico della letteratura decadente? 5. Si può affermare che la malattia e la follia costituiscono l’esito prevedibile della vicenda dell’esteta? Perché? 6. Uno dei motivi salienti del testo è lo scambio tra finzione e realtà. Dove si rivela, in particolare? 7. Verso il finale dell’opera, per alleviare il suo stato d’animo sempre più allucinato e depresso, Des Esseintes si prepara a compiere un viaggio in Inghilterra, ma, sul punto di imbarcarsi, decide di tornare a casa, convinto di avere già assaporato e «vissuto» tutte le esperienze che il viaggio avrebbe potuto procurargli. Si può giustificare tale episodio alla luce delle pagine lette? Motiva la risposta (max 10 righe).

La «passeggiata» di Zola e Huysmans: due scuole letterarie a confronto Naturalismo e Decadentismo, attivi in Francia negli stessi anni, rappresentavano due visioni diverse della stessa epoca, due differenti interpretazioni del ruolo dell’intellettuale, due prospettive letterarie divergenti. Il senso di tale divaricazione è simboleggiato da un episodio narrato da Huysmans in una Prefazione da lui scritta circa vent’anni dopo la prima uscita del libro. Ricordo che, dopo la pubblicazione di A ritroso, andai a trascorrere qualche giorno a Médan. Un pomeriggio, mentre eravamo a passeggio, tutti e due, in campagna, Zola si fermò bruscamente e, con l’occhio divenuto fosco, mi rinfacciò quel libro dicendo che davo un colpo terribile al Naturalismo, che facevo deviare la

scuola [...]. V’eran molte cose che Zola non poteva capire: anzitutto quel bisogno, fortissimo in me, di aprir le finestre, fuggire un ambiente in cui soffocavo; poi il desiderio ansioso di scuotere i pregiudizi, di spezzare i limiti del romanzo, di farvi rientrare l’arte, la scienza, la storia, di non servirmi, in una parola, di questo genere se non come di una cornice in cui inserire più serie ricerche. A una cosa soprattutto tendevo in quel tempo: sopprimere l’intreccio tradizionale, perfino la passione e la donna, concentrare il fascio di luce su di un solo personaggio, fare a ogni costo del nuovo.

La «passeggiata» di Zola e Huysmans assume un valore simbolico; i due scrittori, capofila di opposte tendenze lette-

rarie, si confrontano e discutono sulle rispettive opere. Lucidamente Zola, iniziatore del Naturalismo, riconobbe la differenza tra le due «scuole». Altrettanto lucidamente Huysmans affermava in quella Prefazione le grandi novità portate dal suo romanzo: novità che riguardavano non solo il piano dei contenuti (l’estetismo), ma anche quello della forma narrativa. A ritroso si presenta infatti come un romanzo-saggio, contenitore di molteplici riflessioni esistenziali, estetiche, artistiche, letterarie; un’opera in cui il «racconto» occupa una parte assai più ridotta rispetto al «commento», come sarebbe poi avvenuto in tanti celebri romanzi novecenteschi (basti pensare alle opere di Mann, Proust, Svevo).

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Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Il romanzo decadente

L’AUTORE

OSCAR WILDE ◗ Wilde nacque a Dublino nel 1854, da una famiglia ricca e intellettuale, seppure non nobile. Fin da ragazzo spiccò per la sua intelligenza e per il brillante spirito in società. Dal 1871 studiò al Trinity College di Dublino; nel 1878 si laureò a Oxford, con il massimo dei voti, in discipline classiche. Dal 1879 visse a Londra, ma viaggiò spesso, tenendo conferenze in città europee e americane e guadagnandosi una fama di esteta. Di lui parlarono spesso giornali e libelli satirici. Nel 1884 sposò Constance Lloyd. Ma di lì a poco iniziò ad avere le prime esperienze omosessuali. ◗ Nel 1888 Wilde pubblicò un libro di fiabe, Il principe felice e altri racconti; nel 1890 Il ritratto di Dorian Gray, che ottenne un grande successo, anche per le polemiche sull’immoralità del protagonista. I critici più noti misero al bando l’autore, che invano si affannò a difendere l’opera in lunghe lettere inviate a vari direttori di giornali. Sul finire del 1891 Wilde fu

L’OPERA

IL RITRATTO DI DORIAN GRAY ◗ Il ritratto di Dorian Gray uscì nel 1890 su rivista (il «Lippincott’s Monthly Magazine») e l’anno seguente, in una versione molto accresciuta, in volume. A differenza di Huysmans, che aveva scritto un romanzo-saggio, Wilde si preoccupò di costruire un intreccio interessante, inserendo le riflessioni di stampo estetico in una trama tra il giallo e il fantastico. Base dell’opera è una filosofia di vita immorale, tutta incentrata sul raggiungimento del piacere. Ma il piacere a cui aspira Dorian Gray non è un piacere banale, perché tende al Bello assoluto. Wilde si difese dall’accusa di avere scritto un libro immorale con il famoso aforisma incluso nella prefazione del 1891: «Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male. Questo è tutto». ◗ Il pittore Basil Hallward ha dipinto per il giovane e bellissimo amico Dorian Gray un ritratto e glielo ha regalato. Dorian esprime un desiderio: gli piacerebbe che fosse quella figura a invecchiare al posto suo. Per magia, è proprio così che accade. Ma prima di accorgersene, il protagonista intraprende una vita dissoluta, da perfetto dandy, influenzato

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a Parigi, dove scrisse in francese il dramma Salomé. Dal 1892 compose diversi lavori teatrali, fra cui L’importanza di chiamarsi Ernesto (1895). ◗ Nel 1895 Wilde intrecciò una scandalosa relazione con il giovane Lord Alfred Douglas Queensberry. Dopo aver ricevuto un biglietto d’insulti del padre del ragazzo, Wilde, invece di tacere, lo denunciò per diffamazione. Il processo gli si ritorse contro: lo scrittore fu condannato a due anni di carcere e subì altre imputazioni per bancarotta. In prigione scrisse il De Profundis, in forma di lunga lettera indirizzata ad Alfred. Scarcerato nel 1897, si esiliò in Francia, prima a Nizza e poi a Parigi. Sul finire dell’anno, partì per un viaggio in Italia con il giovane Lord. Tornato a Parigi, pubblicò La ballata del carcere di Reading (1898). Gravemente ammalato, morì nella capitale francese, a soli 46 anni, nel novembre del 1900.

da Lord Henry Wotton. Comincia con l’abbandonare la fidanzata Sybil, un’attrice che aveva avuto l’unico torto di recitare male Shakespeare. La ragazza, disperata, si uccide. Sul volto del ritratto compaiono i primi segni della crudeltà di Dorian: egli capisce che il suo desiderio si è avverato. ◗ L’impunità esteriore lo convince a praticare tutti i vizi, senza ritegno; rimane però bellissimo, mentre l’immagine del quadro diventa sempre più vecchia e ripugnante. Basil cerca di ammonire l’amico, ma Dorian non sopporta i rimproveri e perciò uccide il pittore. Il cadavere viene fatto sparire da un chimico di sua conoscenza, che poi si suicida. Si fa vivo il fratello di Sybil, che vorrebbe punire Dorian; ma un mortale incidente di caccia lo toglie di mezzo. Per Dorian quel quadro che gli ricorda la sua malvagità è ormai insopportabile. Una notte colpisce il ritratto con un coltello, ma subito cade a terra trafitto. I servi accorsi vedono alla parete l’immagine dipinta del padrone, sfolgorante di giovinezza; ai loro piedi giace un orribile vecchio, dai capelli bianchi e dal volto rugoso, riconoscibile solo grazie ai suoi anelli.

Il romanzo decadente

La rivelazione della bellezza Il ritratto di Dorian Gray, capitolo II Anno: 1890 Temi: • il culto della bellezza • l’esaltazione della giovinezza, unica età della bellezza • l’odio verso il tempo, che distrugge giovinezza e bellezza Leggiamo un passo del secondo capitolo del romanzo. Siamo in casa del pittore Basil Hallward, che sta eseguendo un ritratto di Dorian Gray. La pagina però è incentrata sul dialogo tra il giovane protagonista e Lord Henry Wotton. Costui è un tipico esteta, destinato a influenzare non poco il carattere e il futuro di Dorian.

è la prima convinzione dell’esteta Lord Henry, portavoce dell’autore

seconda convinzione: la bellezza separa dalla volgarità chi, per sua fortuna, la possiede, e lo rende «geniale» (in senso estetico)

tutto ciò vale solo se si assume la bellezza come unico criterio di giudizio; Wilde ama comunicare per paradossi

Conosceva1 da mesi Basil Hallward, ma l’amicizia che c’era tra loro non lo aveva mai turbato. Improvvisamente, nella sua vita era apparso qualcuno che pareva avergli rivelato i misteri della vita. E, comunque, di che cosa doveva aver paura? Non era né uno scolaretto né una ragazzina. La sua paura era assurda. «Andiamo a sederci all’ombra,» disse Lord Henry. «Parker2 ha portato fuori le bibi- 5 te e se lei rimane ancora sotto questo riverbero si sciuperà e Basil non le farà più ritratti. Davvero, non deve lasciare che il sole l’abbronzi.3 Non le si addice.» «Che importanza ha?» esclamò Dorian Gray ridendo, mentre sedeva sulla panchina in fondo al giardino. 10 «Per lei dovrebbe significare tutto, signor Gray.» «Perché?» «Perché lei ha una giovinezza meravigliosa e la giovinezza è l’unica cosa che vale la pena di avere.» «Non mi sembra, Lord Henry.» «No, non le sembra adesso.4 Un giorno, quando sarà vecchio, rugoso, brutto, 15 quando il pensiero avrà segnato di rughe la sua fronte e quando la passione avrà marcato le sue labbra del suo orrendo fuoco, le sembrerà, le sembrerà terribilmente. Ora, dovunque vada, lei affascina il mondo. Sarà sempre così?... Ha un viso meraviglioso, signor Gray. Non si accigli: lo ha. E la bellezza è una manifestazione del genio. In realtà è più elevata del genio, perché non ha bisogno di spiegazioni. È una 20 delle grandi cose del mondo, come la luce del sole o la primavera, o come il riflesso nell’acqua cupa di quella conchiglia argentea che chiamiamo luna. Non può venire contestata. Regna per diritto divino e rende principi coloro che la possiedono. Lei sorride? Ah! quando l’avrà perduta non sorriderà più... a volte la gente dice che la bellezza è solo superficiale. Può darsi. Ma perlomeno non è superficiale quanto il 25 pensiero. Per me, la bellezza è la meraviglia delle meraviglie. Solo la gente mediocre non giudica dalle apparenze. Il vero mistero del mondo è ciò che si vede, non l’invisibile... Sì, signor Gray, gli dèi le sono stati propizi. Ma ciò che gli dèi danno, lo

1. Conosceva: il soggetto è Dorian Gray. 2. Parker: il servitore di Basil. 3. non deve... l’abbronzi: all’epoca un canone di bellezza era il biancore della pelle, ritenuto segno di purezza. Vestirà di bian-

co anche il bellissimo Tadzio, protagonista del romanzo breve La morte a Venezia (1912) di Thomas Mann, opera vicina all’estetismo decadente. 4. non le sembra adesso: cioè, solo per il

momento; ma presto Dorian, dice Lord Henry, dovrà pentirsi di questa sua noncuranza.

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Monografia Raccordo

3

Contesto

Oscar Wilde

Tra Ottocento e Novecento

terza convinzione dell’esteta: bisogna resistere al tempo che pregiudica bellezza e giovinezza

godere della bellezza e della giovinezza, assaporando tutte le sensazioni: è la quarta idea dell’esteta

nel romanzo, però, sarà magicamente il quadro a invecchiare al posto di Dorian Gray

tolgono in fretta. Lei ha solo pochi anni da vivere realmente, perfettamente e pienamente. Quando la sua giovinezza se ne sarà andata, la sua bellezza la seguirà e allora 30 improvvisamente si renderà conto che non ci saranno più trionfi per lei, oppure dovrà accontentarsi di quei mediocri trionfi che il ricordo del passato renderà amari più di sconfitte. Ogni mese che passa la avvicina a qualcosa di tremendo. Il tempo è geloso di lei e combatte contro i suoi gigli e le sue rose. Il suo colorito si spegnerà, le guance si incaveranno, gli occhi perderanno luminosità. Soffrirà, orrendamente... 35 Ah! approfitti della giovinezza finché la possiede. Non sprechi l’oro dei suoi giorni ascoltando gente noiosa, cercando di migliorare un fallimento senza speranza o gettando la sua vita agli ignoranti, alla gente mediocre, ai malvagi. Questi sono gli obiettivi malsani, i falsi ideali della nostra società. Deve vivere! vivere la vita meravigliosa che è in lei! Non lasci perdere nulla! Cerchi sempre sensazioni nuove. Non 40 abbia paura di nulla... Un nuovo edonismo... ecco che cosa vuole il nostro secolo. Lei potrebbe esserne il simbolo palese.5 Con la sua personalità non c’è nulla che lei non possa fare. Il mondo le appartiene per una stagione...6 Quando l’ho conosciuta ho capito che lei non si rende conto di chi in realtà è, o di chi in realtà potrebbe essere. Così tante cose mi hanno affascinato in lei, che ho sentito di doverle comunica- 45 re qualcosa sul suo conto. Ho pensato quale tragedia sarebbe se lei sprecasse la sua vita. Perché la sua giovinezza sarà così breve... così breve. I semplici fiori di campo appassiscono, ma ritornano a fiorire. Il prossimo giugno l’avorio sarà giallo come ora. Tra un mese questa clematide7 sarà ricoperta di stelle purpuree e un anno dopo l’altro la verde notte delle sue foglie racchiuderà altre stelle purpuree. Ma la nostra 50 giovinezza non ritorna mai, i palpiti di gioia che battono dentro di noi a vent’anni si fanno confusi, le nostre membra si indeboliscono, i sensi si corrompono. Degeneriamo in ripugnanti fantocci, nell’ossessione del ricordo di passioni che abbiamo troppo temuto e di squisite tentazioni cui non abbiamo avuto il coraggio di abbandonarci. Giovinezza! Giovinezza! Non c’è assolutamente nulla al mondo, fuorché la 55 giovinezza!» Dorian Gray lo ascoltava meravigliato, a occhi spalancati. Dalle sue mani il ramo di lillà cadde sulla ghiaia; giunse un’ape vellutata, ronzò per un attimo intorno al grappolo, poi cominciò ad arrampicarsi sul globo ovale, stellato di piccoli fiori. La osservò con quello strano interesse per le cose prive di importanza che cerchiamo di 60 sviluppare quando le cose importanti ci fanno paura, quando ci agita un’emozione nuova che non sappiamo esprimere, o quando un pensiero terrorizzante d’improvviso ci assedia la mente chiedendo la nostra resa. Dopo un poco l’ape volò via. La vide infilarsi nella tromba screziata di un convolvolo di Tiro.8 Il fiore parve 65 rabbrividire, poi prese a oscillare dolcemente. D’improvviso, sulla porta dello studio apparve il pittore e li invitò ad entrare con un gesto delle braccia tese. O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, trad. di M. Amante, Garzanti, Milano 1976

5. palese: visibile, manifesto. 6. per una stagione: per la breve stagione in cui Dorian resterà «giovane».

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7. clematide: una pianta rampicante, con fiori e calice molto colorati. 8. convolvolo di Tiro: pianta erbacea ram-

picante, con grandi fiori a forma di campanula.

■ L’anziano Lord Henry, tipico esteta, e Dorian si trovano in giardino; al loro dialogo assiste il pittore Basil Hallward, che sta eseguendo il ritratto del bellissimo Dorian. Più che di un dialogo si tratta di un monologo di Lord Henry. Egli comincia con l’esortare il giovane Dorian a non esporsi troppo al sole, perché potrebbe sciupare la sua bellezza; poi sviluppa l’idea proclamando il primato di bellezza e giovinezza e il dovere di goderne finché si può. Tale discorso turba molto il suo giovane interlocutore. ■ Di fronte all’inevitabile avvicinarsi della vecchiaia e della morte, abbiamo, dice l’esteta Lord Wotton, un’unica possibilità di salvezza: vivere in pienezza la nostra esistenza, ricercando continuamente nuove sensazioni. Solo l’esasperato godimento dei sensi può ovviare a quella precarietà che è tipica dell’esperienza umana. Ora, godere dei sensi significa ricercare sempre qualcosa di nuovo, di bello: significa cioè costruire la propria esistenza come un’opera d’arte preziosa, secondo i dettami dell’estetismo decadente. ■ Vivere di piaceri, di bellezza, di sensazioni eccezionali, significa porsi molto al di sopra della sensibilità comune. Perciò l’anziano Lord mette in guardia Dorian dalla banalità della gente noiosa e mediocre. L’esteta si configura come persona superiore alla massa, di sensibilità straordinaria, padrone della propria vita, di cui è artefice raffinato. Ma proprio per questo egli sarà solo, escluso dalla società: la sua raffinata percezione della realtà è incomunicabile, non condivisibile a causa della sua superiorità sulla massa della gente comune. ■ Il monologo di Lord Wotton utilizza un lessico di tono elevato, adeguato ai suoi contenuti estetizzanti. Ricorre a figure retoriche, come la metafora conchiglia argentea, per indicare la luna, o l’iperbole la bellezza è la meraviglia delle meraviglie. Elaborato è anche il lessico con cui si definiscono gli aspetti della natura (stelle purpuree, verde notte delle sue foglie, un’ape vellutata). ■ La sintassi è prevalentemente paratattica: l’estetismo si affida alle fuggevoli sensazioni, non ai ragionamenti, e non ha perciò bisogno di ricorrere a una sintassi elaborata. Si riscontrano numerose interrogative ed esclamazioni, per accompagnare gli inviti rivolti al giovane Dorian: Ah! approfitti della giovinezza... Non sprechi l’oro dei suoi giorni... Deve vivere! vivere la vita meravigliosa che è in lei! Non lasci perdere nulla! Cerchi sempre sensazioni nuove. Non abbia paura di nulla... LAVORIAMO SUL TESTO 1. Lord Henry afferma che nella vita nulla deve andare perduto: in che senso? ....................................................................................................... ....................................................................................................... .......................................................................................................

2. Perché secondo l’esteta le sensazioni da provare devono essere sempre «nuove»? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 3. Lord Henry è un tipico esteta. Perché? Illustra i suoi tratti caratterizzanti (max 5 righe). ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 4. Secondo te, quale rapporto ha con le righe precedenti l’immagine conclusiva dell’ape e del fiore? Come la spieghi nel contesto? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 5. Le due fasi della vita, giovinezza e vecchiaia, sono definite da campi semantici opposti: da che cosa è caratterizzato quello della giovinezza? E quello della vecchiaia? Nella risposta cita parole ed espressioni del testo. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 6. Nel monologo di Lord Henry emergono alcuni temi: quali? Fai attenzione agli intrusi. a la superiorità della bellezza su ogni altro valore b la superiorità della cultura su ogni altro valore c l’invito a godere della giovinezza d l’invito a vivere in sintonia con la società e il proprio tempo e la fuga del tempo f la consolazione che può dare la fede religiosa 7. Sottolinea nel testo la frase o l’immagine che ritieni più significativa per qualificare ciascuno dei temi che hai identificato. Spiega in breve la ragione della tua scelta. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 8. Il testo mostra un andamento sentenzioso, per aforismi, tipico della prosa di Wilde. Definisci prima che cos’è un aforisma e poi ritrovane alcuni nel brano. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 9. Lord Henry ricorre con frequenza agli avverbi di modo. Rilevali nel testo e spiegane l’uso.

295

Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Il romanzo decadente

VERIFICA 1

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.

1.

Nel romanzo decadente si dissolve la fiducia V del Naturalismo nei «fatti». La crisi dell’io e la follia sono i grandi temi V del romanzo decadente. L’attenzione prevalente dei romanzieri decadenti è concentrata sulla crisi e sulla decadenza V della società a loro contemporanea. Nel romanzo decadente il mito della scienza lascia il campo al mito dell’arte e della poesia. V

2. 3.

4.

2

2 3 4 5 6 7 8

A ritroso Il ritratto di Dorian Gray Malombra Fosca La dama dell’ermellino Il piacere La forza del simbolo Corrado Silla

1.

Quale ruolo, o quali ruoli, potevano assumere i letterati nel contesto culturale e sociale di fine Ottocento? Per quali motivi Fosca può essere considerato un’importante anticipazione del romanzo decadente? Quali sono gli autori più rappresentativi del romanzo psicologico d’inizio Novecento? Riassumi la trama di Malombra (max 10 righe). Riassumi la trama del Ritratto di Dorian Gray (max 10 righe).

F

a. James b. Tarchetti c. Huysmans d. Pater e. Fogazzaro f. Wilde g. D’Annunzio h. Arrighi

1.

Il romanzo decadente fu a il punto di partenza del grande romanzo psicologico d’inizio Novecento b il punto d’arrivo del romanzo realistico e borghese di metà Ottocento c la traduzione in prosa della poesia dei lirici simbolisti d l’espressione narrativa della Scapigliatura milanese Le opere più famose di Fogazzaro sono a Malombra, Piccolo mondo antico, Il Santo b Malombra, Piccolo mondo antico, Corrado Silla c L’innocente, Il Santo, Il mistero del poeta d Malombra, L’innocente, Il Santo L’esteta dei romanzi decadenti a è il «veggente» capace d’intuire dove lo sviluppo culturale e politico condurrà la società in un prossimo futuro b è l’intellettuale marginalizzato e gravemente sofferente di questa sua inferiorità sociale c è il poeta-vate che vuole e sa guidare gli uomini del suo tempo a destini superiori d è l’intellettuale amante del bello e desideroso di assaporare tutte le sensazioni

296

Rispondi alle seguenti domande.

F

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte.

3.

4

F

3

2.

Cecilia d’Ormengo, la donna di cui Marina di Malombra si crede la reincarnazione, venne rinchiusa nella propria stanza dal marito perché a il marito l’accusava di dedicarsi alle arti magiche e allo spiritismo b il marito voleva punirla per la sua condotta troppo libera e spregiudicata c il marito l’accusava di tradirlo con un giovane ufficiale d il marito voleva incentivare la sua vena di narratrice e poetessa

F

Collega ciascuna delle seguenti opere al suo autore; fai attenzione agli intrusi. 1

4.

2.

3. 4. 5.

PER L’ESAME DI STATO 1.

2.

3.

4.

5.

6.

Delinea i tratti di maggiore affinità tra Des Esseintes di A ritroso e Lord Henry di Il ritratto di Dorian Gray (max 15 righe). Il romanzo decadente presta forte attenzione ai temi psicologici: come si manifestano? (max 10 righe) Esplicita in maniera sintetica le differenze tra romanzo naturalista, romanzo decadente e grande romanzo psicologico d’inizio Novecento (max 15 righe). Il protagonista maschile di Fosca afferma: «Io ero nato con passioni eccezionali» e aggiunge che la natura lo aveva «reso ribelle alle misure comuni e alle leggi comuni». Commenta queste affermazioni con riferimento alla poetica del Decadentismo (max 15 righe). Come si manifestano in Malombra di Fogazzaro il rigetto della poetica verista e la sfiducia nella cultura del Positivismo? (max 10 righe) Nei testi letti in questo raccordo si evidenzia la presenza di diversi elementi simbolici. Illustra il rapporto che corre fra romanzo decadente e dimensione simbolica, con qualche specifico riferimento a testi e autori (max 15 righe).

Monografia

Gabriele D’Annunzio 297

Tra Ottocento e Novecento

La vita

1 Le ambizioni di un giovane esteta Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863, terzo di cinque figli, da famiglia borghese; il padre aveva affiancato e poi sostituito al proprio cognome, Rapagnetta, quello del ricco zio Antonio D’Annunzio, dal quale era stato adottato e dal quale aveva ereditato beni sufficienti per vivere di rendita. Compie gli studi liceali nel collegio Cicognini di Prato, dove si distingue sia per la precocità dell’ingegno sia per l’acceso individualismo e l’insofferenza per la vita del collegio. A sedici anni (1879) pubblica i suoi primi versi, raccolti in Primo vere; il libro piace ai critici, e fin da quel momento D’Annunzio dichiara di desiderare un «vivere inimitabile» e di volersi fare un «nome grande». Nel 1881 si trasferisce a Roma, dove frequenta solo sporadicamente la facoltà di Lettere e preferisce invece prendere parte alla vita mondana della capitale, raccontata nelle brillanti cronache scritte per «La Tribuna», il «Capitan Fracassa», la «Cronaca Bizantina». Nel 1882 pubblica i versi di Canto novo e i racconti di Terra vergine, due opere dai contenuti fortemente sensuali. Nel 1883 sposa la duchessa Maria Hardouin di Gallese, con la quale avrà tre figli. Allaccia però altre avventure sentimentali (tra cui la relazione con Barbara Leoni). Sono anni di scandali, di duelli, di lusso sfrenato, espressione di un’esistenza che vuole «diversa» da quella dei comuni borghesi. Nella villa dell’amico pittore Francesco Paolo Michetti, a Francavilla, scrive il romanzo Il piacere (1889), che inaugura in Italia il Decadentismo.

2 Suggestioni europee Pressato dai creditori si trasferisce, dal 1891, a Napoli, dove intreccia una relazione con la principessa siciliana Maria Gravina Anguissola, da cui nasce la figlia Renata. Nei versi di Isottèo-La Chimera, del 1890, D’Annunzio offre un’interpretazione in chiave erotica e sensuale della poesia dei decadenti francesi, mentre nel 1892-93 si accosta al pensiero di Nietzsche. Sempre nel 1894 inizia l’amicizia con la grande attrice Eleonora Duse, che si concluderà nel 1904-05. L’anno successivo pubblica a puntate, sull’elegante rivista «Il Convito», il romanzo Le vergini delle rocce, ispirato al mito nietzschiano del «superuomo». Nell’estate del 1895 compie un viaggio in Grecia, alle fonti della classicità, da lui però rivissuta in chiave decadente, come culla di sfrenato vitalismo.

3 Il successo politico e letterario Nel 1897 D’Annunzio viene eletto deputato per l’estrema destra nel collegio di Ortona presso Pescara, con lo slogan di «deputato della Bellezza». Nel 1898 si trasferisce a Settignano (Firenze), nella villa ribattezzata «La Capponcina», vicino alla Duse. Così scriverà, rievocando quegli anni: «Io ritrovava senza sforzo i costumi e i gusti d’un signore del Rinascimento, fra cani, cavalli e belli arredi». Sempre nel 1898 va in scena a Parigi, interpretata da Sarah Bernhardt, la tragedia La città morta, prima di una serie di opere teatrali con cui D’Annunzio sogna di riportare in vita l’antico teatro greco. È un periodo di febbrile attività letteraria: collabora con «Il Marzocco», la rivista dell’estetismo fiorentino, e scrive altre opere teatrali; nel 1900 termina il romanzo Il fuoco e comincia le Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi in versi, di cui fa parte la raccolta Alcyone. Il dannunzianesimo (cioè l’imitazione di D’Annunzio nel modo di scrivere e di vivere) diviene una moda culturale. 298

4 Il poeta della guerra Scoppiata la guerra di Libia, vengono pubblicate sul «Corriere della Sera» (1911-12) le Canzoni delle gesta d’oltremare, che lo consacrano a nuovo vate dell’Italia in armi. Nel maggio 1915, su invito del governo italiano, torna in Italia, anche perché la situazione dei suoi debiti in Francia si è fatta insostenibile. Pronuncia discorsi esaltati a favore della partecipazione italiana alla guerra, a fianco della Francia che è già scesa in campo contro la Germania. Nonostante l’età, nello stesso 1915 si arruola come volontario e prende parte ai combattimenti, compiendo imprese coraggiose, che hanno sempre anche il valore del «bel gesto», in cui cioè si legano indissolubilmente eroismo ed estetismo. Combatte come fante, aviere, marinaio, meritandosi una medaglia d’oro e cinque d’argento. Durante i tre mesi di convalescenza per la perdita di un occhio in un incidente di volo, riesce a scrivere sui «cartigli» (liste di carta), preparatigli dalla figlia Sirenetta (Renata), i frammenti del Notturno, un’opera con cui rinnova profondamente il proprio linguaggio. Rimessosi in salute, partecipa alla battaglia dell’Isonzo (1916), vola su Cattaro e nel febbraio del 1918 con i Mas (motosiluranti) compie la «beffa di Buccari», forzando il blocco della flotta austriaca ed entrando nel golfo di Fiume. Nell’agosto del 1918 vola su Vienna per lanciare manifestini tricolori sulla città.

5 L’impresa di Fiume Finita la guerra, nel 1919, si dichiara profondamente deluso dal trattato di pace. Organizzata una «legione» di volontari, in nome dell’Italia, malgrado l’opposizione del governo, occupa con un colpo di mano la città istriana di Fiume. Qui il «Comandante», come da tutti D’Annunzio viene chiamato, istituisce un vero e proprio stato di cui si dichiara il dittatore. La cosiddetta «Reggenza del Carnaro» dura più d’un anno, fino al «Natale di sangue», come D’Annunzio stesso lo definirà, del 1920, allorché viene sloggiato con la forza dall’esercito italiano senza opporre resistenza.

6 Un mito tra le reliquie del passato A quel punto (1921) D’Annunzio si ritira nella casa-museo che egli stesso chiama «Vittoriale degli italiani», la villa di Cargnacco (contrada di Gardone Riviera), sul lago di Garda, dove tiene desto il proprio mito con le ultime opere e gli stravizi senili. La marcia fascista su Roma del 1922 lo coglie di sorpresa; una forte diffidenza lo divide ormai da Mussolini, anche se proprio D’Annunzio ha anticipato molti aspetti del fascismo (E scheda a p. 329) con i suoi comportamenti (l’impresa di Fiume), l’ideologia nazionalista, l’oratoria capace di infiammare le folle. Il regime fascista a parole lo esalta, nei fatti lo tiene in disparte. L’unica opera di rilievo sono le prose del cosiddetto Libro segreto (1935); interessante perché controcorrente rispetto alle simpatie del regime, anche una satira antihitleriana. Al Vittoriale si spegne il 1° marzo 1938.

299

Monografia Raccordo

Nel 1900 passa con disinvoltura ai banchi parlamentari dell’estrema sinistra, proclamando: «Vado verso la vita»; nelle elezioni di quell’anno non è più rieletto nelle liste socialiste. Le grandi spese imposte dal suo «bisogno del superfluo» e i debiti causano il sequestro della «Capponcina» (1909). D’Annunzio si ritira allora in «volontario esilio» in Francia (1910-15): prima a Parigi, poi ad Arcachon, sull’Atlantico. Da qui invia al «Corriere della Sera» diretto da Luigi Albertini le prose d’arte intitolate Le faville del maglio, che inaugurano la produzione autobiografica e di memoria: rispetto ai romanzi decadenti, è un D’Annunzio nuovo e più intimo. Gli studenti dell’Università di Bologna lo sollecitano a succedere a Pascoli (scomparso nel 1912) sulla cattedra di Letteratura italiana, ma lui declina l’invito: «Vi ringrazio [...] ma io amo assai più le aperte spiagge che le chiuse scuole dalle quali vi auguro di liberarvi».

Contesto

Gabriele D’Annunzio

Tra Ottocento e Novecento

Vita e opere di D’Annunzio VITA nasce a Pescara studia al collegio Cicognini di Prato

OPERE 1863 1874-81 1879

si trasferisce a Roma e s’inserisce nella vita mondana della capitale

1881 1882

sposa la duchessa Maria Hardouin di Gallese

romanzo Il piacere

1891 1893

Poema paradisiaco

viaggio in Grecia

1895

Le vergini delle rocce, romanzo politico che divulga il concetto del superuomo di Nietzsche

viene eletto deputato al Parlamento per l’estrema destra

1897

passa nelle file dell’estrema sinistra, ma non è più rieletto

1900

romanzo Il fuoco

1903

primi tre libri poetici delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, tra cui Alcyone

1910-15

collabora al «Corriere della Sera» con le prose autobiografiche Le faville del maglio

risiede in Francia, per sfuggire ai creditori

300

Canto novo (poesie) e Terra vergine (racconti)

1883 1889

si trasferisce a Napoli, dove ha una relazione con Maria Gravina Anguissola

Primo vere, raccolta poetica

rientra in Italia e svolge un’attiva campagna interventista; si arruola in guerra

1915

in seguito a un incidente aviatorio perde l’occhio destro

1916

in settembre entra a Fiume, alla testa di milizie paramilitari; vi rimarrà fino al Natale 1920

1919

si trasferisce nella casa-museo del Vittoriale, a Gardone Riviera

1921

muore al Vittoriale

1938

durante la cecità, a Venezia, scrive Notturno

Gabriele D’Annunzio

1 Lo sperimentatore delle possibilità della parola Molteplici furono i generi letterari praticati da D’Annunzio: poesia lirica e poesia epica, romanzo, novelle, teatro, scritti di critica, cronaca giornalistica, prosa d’arte. Ciò potrebbe dare l’impressione di dispersività, ma in realtà tutta la sua opera letteraria s’ispira a uno spiccato sperimentalismo. Egli infatti seppe accogliere e riproporre gli spunti letterari più diversi, combinando modelli antichi e moderni e rivisitandoli secondo le proprie tecniche letterarie, in più modi; per esempio, nelle Laudi rifece il verso alla letteratura francescana trecentesca, rimanendo peraltro lontanissimo dalla sua semplicità e dal suo spirito religioso; D’Annunzio era poi solito appropriarsi di pagine, idee, spunti altrui: veri e propri «furti» letterari, più volte rimproveratigli dai suoi critici, ma di cui non si pentì mai, rivendicando invece le ragioni della propria libertà di artista. Da tale sperimentalismo scaturirono sia la varietà dei modi metrici dannunziani sia la ricchezza delle sue scelte linguistiche, spesso «antiche» in contesti «moderni» (come lo sport e l’aviazione). Tali manifestazioni rivelano il desiderio del poeta di essere il dominatore della parola (tutte le parole), il manipolatore della tradizione del passato (tutti gli autori, le forme ecc.): è il D’Annunzio «onnivoro». La sua è però una propensione a possedere e sperimentare in ampiezza (secondo un criterio di espansione), non in profondità (nel senso di un arricchimento conoscitivo).

2 Un letterato aperto al nuovo D’Annunzio coltivava dunque molteplici interessi letterari e culturali, aperto com’era alle novità (culturali, sociali ecc.) che contrassegnavano la fine dell’Ottocento. • Il decadente. Nei confronti della letteratura contemporanea, egli fu pronto, per rispondere alla sete di novità del pubblico, a far proprie le tendenze più recenti. Manipolando una serie di letture europee, tra cui Wilde e Huysmans, D’Annunzio diede vita con diverse sue opere (anzitutto il romanzo Il piacere, ma anche le coeve raccolte poetiche Intermezzo di rime, l’Isottèo-La Chimera e il Poema paradisiaco) a una monumentale «enciclopedia» del Decadentismo europeo, aggiornatissima e ammirata da chi amava le sempre nuove raffinatezze letterarie. • Il superuomo. Grande importanza rivestì, per la cultura italiana, la divulgazione della filosofia nietzschiana e in particolare del motivo del superuomo (Übermensch). In verità D’Annunzio lo apprese solo per via indiretta e semplificata, grazie alla mediazione e spettacolarizzazione offerta dal teatro musicale di Richard Wagner (1813-83); a ogni modo ebbe il merito di divulgare uno dei temi più interessanti e attuali della cultura europea di allora. • Il modernista. D’Annunzio, prima ancora dei futuristi, fu il letterato italiano più attento alla modernità. Nella villa della «Capponcina» si fece installare il telefono; guidava le prime automobili, frequentava i primi campi d’aviazione e divenne un provetto pilota. A sviluppare questi temi è l’ultimo suo romanzo, Forse che sì forse che no (1910). • Nell’industria culturale. D’Annunzio, con Pirandello, fu il primo scrittore italiano a intuire le grandi possibilità espressive del cinema e a lavorare per la nascente industria cinematografica: collaborò alla realizzazione di diversi film, per lo più tratti dalle sue opere, e in particolare firmò il soggetto e le didascalie di Cabiria (1914), diretto dal regista Giovanni Pastrone. Inoltre fu lui a coniare nel 1917 il nome del primo grande magazzino italiano, «La Rinascente» di Milano. 301

Monografia Raccordo

Contesto

La poetica: sperimentalismo ed estetismo

Tra Ottocento e Novecento

3 L’uomo del cambiamento Dalla disponibilità al nuovo e dalla febbrile ansia di ricerca nasce anche l’attitudine di D’Annunzio a reinventarsi: mantenendo fede al motto «o rinnovarsi, o morire»(in Giovanni Episcopo), egli riuscì più volte a rinnovare la propria immagine presso l’opinione pubblica, come pure a rigenerare la propria creatività in forme nuove. • Una prima svolta si ebbe nel 1911, quando, spinto dal bisogno economico, prese a pubblicare sul «Corriere della Sera» una serie di scritti autobiografici con il titolo Le faville del maglio, ispirate alle rapide annotazioni dei suoi taccuini di diario. Con la loro immediatezza e semplicità di scrittura, tali prose inaugurarono una stagione nuova nella sua arte. • Un’ulteriore svolta si ebbe nel 1915, allorché D’Annunzio aderì di slancio alla campagna a favore dell’intervento italiano nella Prima guerra mondiale. Risalgono ad allora gli infiammati discorsi raccolti sotto il titolo Per la più grande Italia: il nuovo linguaggio, con cui si appellava direttamente alle masse formulando ripetizioni enfatiche e invettive, costituirà un modello per la successiva oratoria del fascismo. Inoltre, benché ultracinquantenne, il poeta si gettò in prima persona nel conflitto; le sue imprese belliche gli permisero di guadagnare consensi e fama di eroe presso l’opinione pubblica. • Un’ennesima metamorfosi – da soldato a uomo di stato – risale al 1919-20, allorché D’Annunzio guidò l’occupazione militare di Fiume e fece promulgare la Carta del Carnaro (settembre 1920), una Costituzione d’ispirazione democratica e liberale. Di lì a poco il fascismo lo proclamerà uno dei padri della patria; D’Annunzio, ormai vecchio, accettò volentieri questo ruolo, assieme all’imbalsamazione della sua figura al Vittoriale.



ripresa e manipolazione di tutta la cultura e la letteratura



1911: si apre a una nuova forma di prosa (scritti autobiografici)



sperimentalismo letterario

apertura al nuovo

1915: poeta-soldato (discorsi per l’interventismo)



La ricerca dannunziana

1919-20: poeta-uomo di stato (impresa di Fiume)

“ sul piano letterario

sul piano culturale

sul piano sociale

al Decadentismo francese

al pensiero di Nietzsche

◗ alla tecnologia moderna ◗ all’industria culturale



superamento di sé

4 L’esteta e le sue squisite sensazioni D’Annunzio, con la sua vita e le sue opere, aspirava a un’esistenza d’eccezione, al «vivere inimitabile» (l’espressione compare in un titolo del 1924: Il venturiero senza ventura e altri studi del vivere inimitabile), a «fare la propria vita come si fa un’opera d’arte» (Il piacere). Queste sue pose estetizzanti si tradussero nella prima e più famosa incarnazione dell’esteta dannunziano, ovvero l’Andrea Sperelli protagonista del romanzo Il piacere (1889). A differenza però di Des Esseintes creato nel 1884 dal francese Huysmans (E p. 288), Andrea non nutre intenzioni trasgressive rispetto alla società dell’epoca: 302

D’Annunzio si limitò a tradurre il modello dell’esteta decadente in una chiave «lussuosa» e mondana, arricchendo il racconto delle vicende di Andrea con la cornice esclusiva ed elegante dell’aristocrazia romana. Ottenne in tal modo grande successo di pubblico.

vitalismo (gioia sfrenata di vivere e godere)

Monografia Raccordo

degradazione della sfera sentimentale e spirituale

attenzione alla fisicità di uomo e natura



primato della sensazione corporea



I privilegi dell’esteta

Contesto

Gabriele D’Annunzio

abbassamento dello sguardo: non sopra, ma «dentro» la realtà

frammentarietà: miriade di oggetti e sensazioni

«Estetismo» (da áisthesis, in greco “sensazione”), la parola chiave della poetica dannunziana, si esprime in tre forme. • Estetismo è in primo luogo culto della sensazione, cioè esaltazione di ciò che ricade nella sfera dei sensi, della corporeità, dell’istinto. Come gli altri scrittori decadenti europei, D’Annunzio tende a degradare quanto era, per i romantici, il «sentimento», il desiderio di assoluto, l’apertura al trascendente e all’eterno. In una logica decadente, tutto ciò si riduce e si banalizza: la sensazione diviene l’unico criterio, terreno e paganeggiante, per conoscere la realtà. • Estetismo, per D’Annunzio, è anche panismo (un termine che significa “la natura è tutto”, dal nome del dio greco Pan) e vitalismo. Il culto della sensazione tende infatti a collocare la vita dell’uomo «dentro» la vita della natura, assimilando l’uno e l’altra in una visione metamorfica e «panica». Questa è l’esperienza cantata soprattutto nelle liriche di Alcyone, il capolavoro della poesia dannunziana (1903), nelle quali si celebra il supremo «vitalismo» dell’esteta, che è gioia sfrenata, voglia di vivere e di godere. • Estetismo, infine, è assenza di gerarchie. Per il poeta esteta, avido di tutto (in primo luogo di nuove esperienze), le sensazioni raffinate sono preziose quanto quelle più volgari: la condizione essenziale è che non siano banali. L’esteta si pone al livello stesso delle cose: il mondo in cui si aggira non ha più ordine né gerarchia, pare frantumarsi in una miriade di oggetti (e, quindi, di sensazioni). La realtà non la si può più capire, ma solo «assaporare». Da ciò la frammentarietà dell’arte dannunziana, spesso affidata a fugaci impressioni, a suggestioni che assumono cadenze musicali.

5 Il creatore d’immagini Dall’estetismo dannunziano deriva l’intenzione del poeta di farsi «supremo artefice», cioè un artista che crea le proprie opere sottoponendole a una lunga elaborazione tecnica, simile all’attività di un fabbro o di un orafo. Egli stesso si definiva «poeta dell’Imaginifico», il creatore di immagini, attraverso suoni ricercati e parole preziose e rare. L’«Imaginifico» non solo è abile sul piano tecnico-formale, ma sa anche colpire l’immaginazione del pubblico: perciò ripropone in forma aggiornata i miti del passato, quasi fossero degli incantesimi che suggestionano e offrono ai lettori emozioni nuove e profonde. Il poeta-artefice è quindi poeta-mago e, insieme, poeta-tribuno, perché è in grado ora di toccare le corde di pochi lettori scelti, ora di utilizzare l’arte per arringare e dominare la folla. Possiamo dunque capire la piena disponibilità di D’Annunzio a ogni esperienza d’arte: il suo eclettismo e il suo sperimentalismo nascono come effetti della poetica dell’artificio, che dilata all’infinito le forme del linguaggio, esercitando al contempo un costante dominio su di esso. 303

Tra Ottocento e Novecento

6 L’artista e la massa In una società in pieno processo di industrializzazione, in cui – in particolare – si stava riducendo l’analfabetismo e sviluppando l’editoria, perdeva importanza la figura tradizionalmente elitaria dello scrittore e si prospettava invece la possibilità di costituire una «letteratura di massa». D’Annunzio fu il primo fra i letterati italiani a cogliere tale opportunità. Fu lui a fornire al crescente pubblico borghese, desideroso di nobilitarsi intellettualmente, modelli neoaristocratici di vita, incarnati in personaggi d’eccezione, amori raffinati, ambienti falso-antichi: è la cornice in cui si svolge il romanzo d’esordio, Il piacere. I lettori comuni, borghesi, non potevano che ammirare, dalla loro posizione subalterna, le forme preziose e inalterabili della poesia dell’«Imaginifico»; le fotografie stesse del poeta impegnato nella caccia alla volpe o sdraiato su preziosi cuscini servivano ad aggiungere ai suoi scritti un tratto di raffinatezza. La lussuosa residenza della «Capponcina», tra oggetti ornamentali e simboli enigmatici, costituiva l’emblema della vita sfarzosa e gaudente dell’uomo superiore. Nei primi anni del Novecento il dannunzianesimo divenne un vero fenomeno di costume, anche tra i ceti fino a poco prima esclusi dalla fruizione letteraria. Ufficialmente D’Annunzio proclamava il disprezzo della folla, ma in realtà sapeva bene come lusingarla: appariva nelle cronache giornalistiche, collaborava egli stesso con i giornali alla moda, pubblicava con gli editori più importanti (Treves, Mondadori), scriveva sceneggiature per il cinema. La stessa relazione con Eleonora Duse, o altri episodi scandalistici della sua biografia servivano a divulgare l’immagine del poeta di lusso, che non si limita a descrivere nelle sue pagine gli amori proibiti alle masse, ma li vive nella realtà. Tale attività di autopromozione interessava diversi aspetti. Per esempio, D’Annunzio era molto attento al libro come oggetto prezioso anche sul piano grafico e tipografico: sceglieva personalmente i caratteri di stampa e i frontespizi, ingaggiava incisori e illustratori, così come Oscar Wilde aveva fatto per la sua Salomé disegnata (1893) da Aubrey Beardsley. Esigeva inoltre che dei suoi libri fossero stampate tirature meno pregiate e di prezzo accessibile: lo scopo era diffondere un modello di vita aristocratica presso i lettori medi, dando loro l’illusione di far parte di un ristretto club d’intenditori.

L’artista superuomo superiorità dell’artista (rispetto alla massa)

poeta-artefice

=

colui che possiede le tecniche

◗ per creare immagini ◗ per abbellire la realtà ◗ per estendere il Bello all’infinito

l’artista sfrutta la folla e la piega ai suoi interessi

si fa ammirare dai lettori comuni, borghesi

◗ con i suoi standard di vita superiore ◗ fornendo prodotti d’arte esclusivi e raffinati





=

il pubblico s’illude di potersi elevare al suo livello

poeta-superuomo domina la realtà 304

MA

Gabriele D’Annunzio

1 Sette romanzi tra il 1889 e il 1910 D’Annunzio scrisse, nell’arco di poco più di vent’anni, sette romanzi: • Il piacere (1889), ambientato nell’alta società romana di fine secolo: il giovane protagonista, l’esteta Andrea Sperelli, innamorato contemporaneamente di due donne (la sensuale Elena e la pura Maria), rappresenta una sorta di controfigura dell’autore; • Giovanni Episcopo (1891): Giovanni è un individuo povero e solo, l’opposto di Andrea Sperelli, anche se alla fine difende con un delitto il proprio onore di marito tradito; • L’innocente (1892), sui conflitti che intorbidano l’animo del protagonista Tullio Hermil e compromettono la sua vita familiare: egli accoglie il bambino frutto di una relazione extraconiugale della moglie, poi però se ne pente e lascia morire l’«innocente» in una notte d’inverno; • Il trionfo della morte (1894), che traduce l’amore sensuale di Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio (si notino, anche in questo caso, i nomi eccentrici e preziosi) in immagine della decadenza e della morte che attende, nel finale, i due amanti; • Le vergini delle rocce (1895), romanzo politico, il cui protagonista Claudio Cantelmo va in cerca della donna con cui generare un figlio-superuomo, in grado di salvare l’Italia dal degrado civile e sociale di cui è preda; • Il fuoco (1900), il cui protagonista, Stelio Effrena, discepolo di Wagner, è il poeta-profeta, Testi «maestro del fuoco» e annunciatore di una nuova religione della bellezza, in tutto superiore • Rigenerazione alla volgarità della becera folla; spirituale (L’innocente, • Forse che sì forse che no (1910), storia di Paolo Tarsis, eroe aviatore e automobilista, sucap. II) Stelio Èffrena, • peruomo «modernizzato»; invece la protagonista femminile Isabella è una donna fatale, irl’esteta (Il fuoco) resistibile, ma vittima della gelosia (verso la sorella Vana) e della follia.

2 L’individualismo del superuomo Non tutte queste opere si possono qualificare, in senso stretto, come «romanzi del superuomo»: la vera e propria fase superomistica di D’Annunzio si esprime soltanto a partire dal 1895, l’anno delle Vergini delle rocce, cioè dopo l’incontro, sia pure indiretto, con il pensiero di Nietzsche (E scheda a p. 306). Ciò non toglie che già i primi romanzi, a eccezione del solo Giovanni Episcopo, contengano elementi anticipatori della futura concezione del superuomo: tra questi, il maggiore è l’esasperato individualismo dei protagonisti, dall’Andrea Sperelli del Piacere, al Tullio Hermil dell’Innocente, fino al Giorgio Aurispa ammiratore di Nietzsche e Wagner del Trionfo della morte. Superuomini saranno anche i due successivi protagonisti, Stelio Effrena (in Il fuoco) e Paolo Tarsis (in Forse che sì forse che no): l’uno è superuomo dell’arte, l’altro dello sport e della tecnica (Paolo è un pioniere dell’automobilismo e dell’aviazione). In questo contesto di «superomismo», appare una parentesi temporanea il motivo della «bontà» affiorante nel Giovanni Episcopo e nell’Innocente. Suggestionato dalla recente lettura di Fëdor Dostoevskij, D’Annunzio volle in essi sperimentare il racconto psicologico e spiritualizzante. Ma si trattava di tematiche a lui estranee: nelle due opere persistono infatti uno stile sovraccarico e una visione paganeggiante e sensuale, lontana dall’introspezione e dalla tensione religiosa dei russi. L’esito finale è una sgradevole impressione di falsità. 305

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Contesto

I romanzi del superuomo

Tra Ottocento e Novecento

Nietzsche, D’Annunzio e il superuomo Fu negli anni 1892-93 che D’Annunzio accostò il pensiero del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900), centrato sulla profezia della «morte di Dio» e dall’annuncio del «superuomo» (Übermensch) (E p. 301). Lo scrittore pescarese venne a contatto con tali temi grazie alla mediazione del teatro musicale, da lui molto ammirato, del compositore tedesco Richard Wagner

(1813-83). Quest’ultimo aveva ripreso e spettacolarizzato, nei suoi melodrammi, il sogno nietzschiano di «rigenerare la società umana», incarnandolo in figure eroiche e ancestrali (come Sigfrido), antesignane del «superuomo». La prima divulgazione, da parte di D’Annunzio, della figura del superuomo avvenne nell’articolo La bestia elettiva, pubblicato sul «Mattino» nel settem-

bre 1892. Successivamente, nel 1894, concludendo la prefazione al Trionfo della morte, lo scrittore affermò di voler tendere «l’orecchio alla voce del magnanimo Zarathustra» e di preparare «nell’arte con sicura fede l’avvento dell’Übermensch, del superuomo». La più compiuta espressione di questi motivi avvenne infine con il romanzo Le vergini delle rocce, del 1895.

3 Sperimentalismo e antiromanzo Un ulteriore elemento che accomuna i romanzi dannunziani è lo sperimentalismo. L’autore ha aperto con essi la strada verso una nuova forma-romanzo, in cui gli elementi d’intreccio, i fatti e i caratteri si riducono nettamente a vantaggio di altre componenti: • il simbolismo di luoghi e situazioni, in cui si sciolgono i dettagli realistici e l’importanza stessa della trama; • una prosa dal sapore lirico-musicale, lontanissima dall’«impersonalità» dei veristi; • l’invadente presenza di dimostrazioni, commenti, elementi ideologici (riflessioni pseudo-filosofiche) e saggistici (spunti di poetica, descrizioni). Già nella prefazione del Trionfo della morte (1894) D’Annunzio dichiarava di voler creare una prosa moderna, capace di fondere scrittura d’arte e lirica, e in cui a prevalere fossero i valori formali (un lessico prezioso, cadenze musicali) e autobiografici. Il progetto si realizzò nel romanzo (o meglio, antiromanzo) successivo, Le vergini delle rocce (1895), in cui si attua un definitivo superamento del romanzo d’intreccio: invece dell’azione narrativa, del racconto di fatti, a dominare è qui una prosa poetica, svuotata di realtà e orchestrata su un gioco di complicate allegorie e simboli sacrali, tesi a esprimere la filosofia del «superuomo» di Nietzsche. Il ritmo narrativo richiama la sinfonia wagneriana: secondo la tecnica musicale del Leitmotiv, infatti, frasi identiche si ripetono a distanza di pagine, per segnalare situazioni psicologiche ricorrenti.

4 Il motivo della decadenza e del «trionfo della morte» Il romanzo del 1894, Il trionfo della morte, mette in evidenza un altro motivo ricorrente in D’Annunzio, il tema della «decadenza», del morire di tutte le cose, del «trionfo della morte», appunto. L’esteta e il superuomo conoscono spesso, nei romanzi dannunziani, l’amaro sapore della sconfitta e dell’incapacità di vivere, cosa che genera uno stridente contrasto con la dichiarata volontà di potenza del superuomo. Per contrasto risaltano le figure femminili: la donna, spesso dipinta come «donna fatale», misteriosa e lussuriosa, appare quasi sempre superiore all’eroe maschile, in grado di dominarlo, tanto con la volontà quanto con la sensualità. La donna sa infatti utilizzare a proprio vantaggio la seduzione, mentre l’uomo è accecato dai sensi. Nel Trionfo della morte questo tema è rappresentato dalla coppia Giorgio/Ippolita. In misura diversa, tutti i romanzi dannunziani presentano le tematiche tipicamente decadenti del disfacimento, della corruzione, della morte; molto frequenti sono le immagini di giardini inselvatichiti, statue corrose dagli anni, palazzi in rovina. Emblema di questa decadenza è Venezia, la città che fa da sfondo inquietante a Il fuoco (1900). Città d’acqua e di ombre, di gloria passata e di lento processo di putrefazione, la Venezia di D’Annunzio (così come quella del romanzo breve di Thomas Mann, Morte a Venezia, del 1912) incarna uno dei miti più suggestivi del Decadentismo europeo: il fascino distruttivo del negativo, la sensualità disfatta e malata, una voluttà che investe l’anima e ogni cosa attorno. 306

Gabriele D’Annunzio

1 Gli esordi giovanili: il Decadentismo in versi Non meno importanti, rispetto ai romanzi, sono le raccolte dannunziane di poesia. D’Annunzio esordì appena sedicenne nel 1879 con i versi di Primo vere (il titolo rimanda alla “primavera”, cioè alla giovinezza del poeta), accolto da recensioni molto favorevoli. L’anno successivo uscì una seconda edizione (1880), preceduta dalla notizia, diffusa ad arte e poi smentita, della tragica morte dell’autore per una caduta da cavallo: necrologi e rimpianti favorirono un rilevante successo di vendite. La trovata della «falsa morte» evidenzia la spregiudicatezza del diciassettenne poeta, fin d’allora molto astuto nell’escogitare ogni espediente per conquistarsi i favori del pubblico. In Primo vere D’Annunzio imitava apertamente il Carducci delle Odi barbare. Più matura la successiva raccolta, Canto novo (1882), dominata dai motivi caratteristici della sua poetica: accesa sensualità, immersione «panica» nella natura, vibrazione di luci e colori, ricerca di musicalità. L’interesse per il Decadentismo diviene ancor più visibile con i versi di Intermezzo di rime (1883). Accanto alla ricerca di musicalità, il libro si segnala per l’accentuato erotismo e per gli atteggiamenti estetizzanti: le vicende biografiche del poeta e le donne da lui amate si trasformano in letteratura. Nel 1886 uscì poi un nuovo libro di versi: Isaotta Guttadàuro, riproposto, con variazioni, in IsottèoLa Chimera (1890). Il lessico ricercato, i metri insoliti, le sonorità «antiche» rinviano al raffinato Decadentismo dei parnassiani francesi, al loro motto «l’arte per l’arte» (E p. 49). In uno dei sonetti dedicati a Giovanni Marradi (1887), D’Annunzio proclama la sua fede nel Decadentismo (e nell’estetismo): «O poeta, divina è la Parola; / ne la pura Bellezza il ciel ripose / ogni nostra letizia; e il Verso è tutto». È il medesimo clima del romanzo Il piacere.

2 Una pausa dai sensi: il Poema paradisiaco Qualche anno dopo, nel 1893, D’Annunzio pubblicò una raccolta di versi nuova per linguaggio e tematiche: il Poema paradisiaco. I temi erotici e trasgressivi e il canto della donna-femmina sembrano qui placarsi in un’inedita dimensione della «bontà», la stessa sperimentata nei due romanzi del 1891-92, Giovanni Episcopo e L’innocente. Ma in realtà siamo solo davanti a una delle tante facce dello sperimentalismo dannunziano e anche del suo narcisismo. Il poeta immagina di tornare a contatto con le cose dell’infanzia, con la casa e la vecchia madre; dice di ripudiare la precedente sensualità (o vorrebbe farlo). Questo ripiegamento interiore si esprime con toni più smorzati e malinconici, che sembrano presagire la successiva poesia dei crepuscolari (E p. 460). In diversi punti si avverte la tensione a individuare analogie segrete tra le cose, echi più profondi, al di là della consueta fisicità: «Vieni, usciamo. Il giardino abbandonato / serba ancóra per noi qualche sentiero. / Ti dirò come sia dolce il mistero / che vela certe cose del passato» (Consolazione). In versi come questi si rivela quella diffusa musicalità che costituisce l’aspetto più felice della poesia dannunziana.

3 L’enciclopedia in versi delle Laudi Esaurita l’esperienza «paradisiaca», D’Annunzio compose molte altre liriche, di metri e argomenti diversi, che spaziavano dal mito classico alla vita contemporanea. Maturò quindi il desiderio di raccoglierle in un grande libro di versi, cui affidare la propria pagana visione del mondo, costruita, come nell’antica Grecia, sulla bellezza e la gioia di vivere. Nacque così l’idea delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi. Il progetto prevedeva sette libri, ciascuno intitolato a una stella delle Pleiadi: • i primi tre libri (Maia, Elettra, Alcyone) uscirono nel 1903; 307

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Contesto

La poesia dannunziana

Tra Ottocento e Novecento

• il quarto libro, Merope, uscì nel 1912: raccoglieva le Canzoni delle gesta d’oltremare stampate sul «Corriere della Sera» per celebrare la guerra in Libia; • un quinto libro, Asterope, fu pubblicato nel 1934, con i Canti della guerra latina, poesie scritte nel 1915-18 in occasione della Prima guerra mondiale. Il titolo Laudi è ambiguo: richiama le Laudes creaturarum (“Lodi delle creature”), cioè il Cantico delle creature di san Francesco. Ma questo motivo francescano si degrada in senso anticristiano e terreno: D’Annunzio rifiuta qualsiasi elevazione spirituale; il vero tema delle Laudi è l’istintiva felicità prodotta dalla fusione corporea con la natura ed espressa in una forma di canto ininterrotto.

4 Natura, nazionalismo e musicalità in Maia, Elettra, Alcyone I libri più riusciti delle Laudi sono i primi tre: Maia, Elettra, Alcyone. • Il primo libro delle Laudi, Maia, è quasi tutto occupato dalla lunghissima Laus vitae (“Lode alla vita”): un «ditirambo», secondo l’antica definizione, di oltre ottomila versi e ispirato a Dioniso, dio della gioia di vivere nella natura che sempre rifiorisce. Argomento sono le tappe di un viaggio in Grecia: pochi contenuti e molte immagini simboliche si addensano attorno ai luoghi e ai ricordi letterari, ai miti del passato. Interessante, sul piano formale, è la scelta del «verso libero», privo di rime e schemi metrici. • Il secondo libro, Elettra, contiene liriche di diverso metro, dedicate a vari «eroi», tra cui Verdi, Garibaldi, Victor Hugo, Dante. Il poeta-superuomo D’Annunzio si candida qui a poeta-vate, sacerdote e custode della nazione. In sottofondo agisce l’ideologia nazionalistica e superomistica; un componimento (Per la morte di un distruttore) è espressamente dedicato a Nietzsche. Il meglio di Elettra è nei 25 componimenti finali, dedicati alle Città del silenzio della provincia italiana (Ferrara, Ravenna, Rimini, Perugia ecc.): città un tempo fiorenti di gloria, oggi malinconicamente còlte nella loro decadenza. • Alcyone, terzo libro delle Laudi, è il capolavoro poetico di D’Annunzio. Il tema è l’unione tra l’individuo e la natura, il sensuale abbandono all’incessante movimento della vita cosmica. Alle spalle c’è sempre l’ideologia del superuomo: infatti solo a pochi eletti, superiori a tutti per la loro sensibilità, è concesso perdere se stessi nel fluire degli elementi e raggiungere così i segreti misteri della natura. Il pregio delle liriche di Alcyone è dato dall’intensa musicalità del verso: nella fitta rete di corrispondenze sonore, i suoni contano assai più dei significati, secondo la lezione dei poeti simbolisti francesi.

La produzione teatrale di D’Annunzio Un’altra faccia dello sperimentalismo dannunziano è quella costituita dalla scrittura teatrale. Lo scrittore vi si dedicò dopo l’incontro con Eleonora Duse, sia per alimentare il repertorio della più famosa attrice di allora, sia per divulgare in modo più diretto e spettacolare i propri miti letterari. Tra il 1896 e il 1899 compose tre drammi: La città morta, La Gioconda, La gloria. Il primo, ambientato in Grecia, racconta la storia di una passione incestuosa (tra un archeologo e la sorella). Il secondo celebra l’artista superuomo, che abbandona la moglie in nome dell’arte (e per la bellissima modella che sta ritraendo in una statua). La terza inneggia a un superuomo-tribuno, proteso a fare di Roma il centro del mondo. Stretti sono i legami fra queste opere 308

e la sua narrativa coeva: infatti La città morta richiama Il trionfo della morte; La Gioconda pone al centro il tema dell’arte, analogamente a quanto accade nel romanzo Il fuoco; il dramma La gloria rappresenta la volontà di potere, secondo la linea delle Vergini delle rocce. Anche lo stile appare vicino a quello dei romanzi: dramma e narrazione propongono, senza vere differenze, un linguaggio elevato e una frase dall’andamento musicale, anche se spesso declamatorio. Una seconda fase drammaturgica risale ai primi anni del XX secolo, quando nacquesto nuove opere teatrali: Francesca da Rimini (1901), definita dall’autore stesso un «poema di sangue e di lussuria»; La figlia di Iorio (1904), l’opera migliore di questo teatro dannunziano, ambientata nelle

campagne a bruzzesi, tra passioni violente e selvagge; La fiaccola sotto il moggio (1905); La nave (1907); Fedra (1909); Le mar tyre de Saint Sébastien (1911), un dramma musicato da Claude Debussy e scritto in un’antica e raffinata lingua francese; infine Parisina (1912), musicata da Pietro Mascagni. Si tratta in tutti i casi di tragedie in versi costruite su soggetti storici. Rivivono in esse i drammi di personalità eccezionali (come le passionali Francesca da Rimini e Parisina), i fasti nazionalistici (La nave ricorda le origini di Venezia), i miti classici (Fedra). Il teatro in versi dannunziano si propone come uno spettacolo magniloquente, solennemente letterario; tuttavia, l’effluvio di parole non approfondisce i caratteri e risulta, sulla scena, scarsamente teatrale.

Gabriele D’Annunzio

1 Una nuova scrittura per la prosa D’Annunzio pubblicò nel 1910 il suo ultimo romanzo, Forse che sì forse che no (E p. 305). In seguito il suo interesse di prosatore si espresse in forme di prosa breve, per lo più ispirata dalla memoria autobiografica. Un momento di passaggio verso queste soluzioni è segnato dal lungo racconto La Leda senza cigno (1913), in cui una tenue trama incornicia le impressioni e le memorie dell’autore. L’opera si presenta scritta in prima persona da Desiderio Moriar (cioè, in latino, “desidero morirò”), è ambientata nella «landa oceanica» sull’Atlantico e racconta la triste vicenda di una donna bellissima ed enigmatica, che si rivelerà una cinica avventuriera. L’io narrante si trova così alle prese con il mistero della bellezza disgiunta dal valore morale. Già intorno al 1910 D’Annunzio stava lavorando alle prose brevi, successivamente raccolte in diverse opere: Le faville del maglio (pubblicate sul «Corriere della Sera» nel 1911-12, in volume nel 1924), Contemplazione della morte (1912, in ricordo di Giovanni Pascoli e di un amico francese morti nello stesso giorno), Il compagno dagli occhi senza cigli (racconto lungo del 1912-13 su un’amicizia giovanile, ristampato nel 1928 con altre Faville del maglio), Libro segreto (1935, vasto quaderno con note di poetica, ricordi biografici, varianti di vecchi scritti), Solus ad solam (diario risalente al 1908 e uscito postumo nel 1939). In queste opere l’autore ritorna sulle vicende del passato e riflette sul presente, cercando, attraverso l’introspezione, una maggiore confidenza ed essenzialità: dimensioni nuove per lui, che lo sollecitavano a un linguaggio più pensoso, a tratti malinconico.

2 Aggiornamento letterario e vecchi miti Questo nuovo linguaggio non deve stupire: D’Annunzio ha sempre saputo «allinearsi» con puntualità alle nuove tendenze; proprio negli anni dieci, per iniziativa degli scrittori legati alla rivista «La Voce» (E p. 483), si stava diffondendo l’idea di un rinnovamento rispetto alla prosa pomposa e altisonante dei romanzi dannunziani: un rinnovamento da perseguire per l’appunto attraverso il ricorso all’autobiografia o al «frammento» di tono poetico, come lascia intendere il termine faville (“scaglie, scintille, frammenti”). Anche in questa fase, quindi, D’Annunzio si mostra sensibile alle mode del tempo. Peraltro la scelta di questa nuova scrittura, più intima e riflessiva, non significa l’abbandono dell’ideologia del superuomo, che anzi continua a riproporsi in altre pagine: per esempio nei Canti della guerra latina (poi raccolti in Asterope, quinto libro delle Laudi), oppure negli infiammati discorsi pronunciati in occasione dell’avventura di Fiume.

3 Notturno, il libro più «novecentesco» di D’Annunzio All’autobiografia di tono poetico s’ispira uno dei libri più intensi di D’Annunzio, Notturno, concepito nei primi mesi del 1916, quando lo scrittore, costretto all’immobilità dopo la perdita di un occhio, riusciva a scrivere solo brevissime frasi su lunghe e strette striscioline di carta. Notturno rappresenta il momento più alto dell’«esplorazione delle ombre», cioè della scrittura autobiografica, in cui la frase veloce e impressionistica si sostituisce allo stile oratorio di un tempo; e il tono intimo e perplesso prende il posto dell’ideologia superomistica del dominatore. Perciò molti studiosi considerano Notturno come l’opera più moderna e «novecentesca» di D’Annunzio, benché anche in questo scritto emerga il tipico individualismo dannunziano: meno forte e ostentato, ma non meno narcisistico. 309

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Contesto

L’ultima stagione e la nuova prosa «notturna»

Tra Ottocento e Novecento

SINTESI VISIVA

Generi e opere di D’Annunzio fase

■ Primo vere

■ 1882

■ Canto novo

■ 1883

■ Intermezzo di rime

■ 1890

■ Isottèo-La Chimera

■ pausa dai sensi

■ 1893

■ Poema paradisiaco

■ maturità poetica

■ 1903

■ primi tre libri delle Laudi

■ canti guerreschi

■ 1912

■ Merope (IV libro delle Laudi)

■ 1914-18 (pubbl. 1934)

■ Asterope (V libro delle Laudi)

■ adesione al Decadentismo

fase ■ scritti giornalistici ■ raccolte di racconti ■ romanzi

PROSA

titolo

■ 1879

■ versi giovanili

POESIA

anno

■ teatro

anno

titolo

■ 1882-88

■ cronache mondane per i quotidiani di Roma

■ 1911-14

■ Le faville del maglio

■ 1882

■ Terra vergine

■ 1902

■ Novelle della Pescara

■ 1889

■ Il piacere

■ 1891

■ Giovanni Episcopo

■ 1892

■ L’innocente

■ 1894

■ Il trionfo della morte

■ 1895

■ Le vergini delle rocce

■ 1900

■ Il fuoco

■ 1910

■ Forse che sì forse che no

■ 1896-99

■ La città morta, La Gioconda, La gloria

■ 1900-12

■ Francesca da Rimini, La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, La nave, Fedra, Parisina

■ prose di memoria e autobiografiche

■ discorsi politici ■ sceneggiature cinematografiche

310

■ 1911-12

■ prime Faville del maglio

■ 1913

■ La Leda senza cigno

■ 1916

■ Notturno

■ 1912-13 e 1928

■ Il compagno dagli occhi senza cigli

■ 1915

■ Per la più grande Italia

■ 1919-20

■ discorsi per l’impresa di Fiume

■ 1907

■ La nave

■ 1914

■ Cabiria

Contesto

Gabriele D’Annunzio

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caratteristiche e temi ■ imitazione carducciana ■ sensualità, immersione nella natura ■ erotismo, estetismo ■ artificio, eleganza letteraria ■ tema della bontà, malinconia; toni smorzati, tenue musicalità ■ Maia: la gioia di vivere nella natura ■ Elettra: poesia nazionalistica ■ Alcyone: unione individuo/natura ■ per la guerra di Libia: nazionalismo, mitizzazione della guerra ■ per la Prima guerra mondiale

caratteristiche e temi ■ feste, balli, concerti, eventi dell’alta società ■ diciannove prose di carattere autobiografico pubblicate sul «Corriere della Sera» ■ nove «bozzetti» sul mondo contadino abruzzese ■ raccolta di racconti incentrati su passioni violente e selvagge ■ divulgazione di estetismo e Decadentismo ■ lungo monologo e confessione del protagonista ■ ambigua «bontà»; inquietudine e turbamenti; imitazione dei narratori russi ■ passione sensuale, senso della decadenza ■ romanzo-saggio sul superuomo di Nietzsche ■ poeta superuomo, idolatrato dalla folla ■ superuomo modernizzato e donna fatale: un intreccio folle e perverso ■ drammi composti per la Duse: passioni incestuose, artista superuomo, superuomo tribuno ■ tragedie in versi su personaggi storici, intessute di passionalità, ma poco adatte alla rappresentazione

■ di carattere autobiografico, escono sul «Corriere della Sera» ■ racconto lungo, tra memorie e introspezione ■ libro di confessione autobiografica, scritto in un periodo di immobilità e cecità ■ l’amico Dario e la rievocazione di un’amicizia giovanile ■ raccolta dei discorsi per l’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale ■ oratoria infiammata, capace di fare presa sulle masse ■ tratta dall’omonimo dramma ■ per il film di Giovanni Pastrone 311

L’OPERA

CANTO NOVO

L’esordio di un giovane poeta ◗ D’Annunzio aveva esordito come poeta nel 1879, quando era ancora studente al collegio Cicognini di Prato, con un libro di versi, Primo vere, stampato a spese del padre presso un tipografo di Chieti e accolto con grande interesse dai critici. Nel sonnecchiante panorama della poesia contemporanea, il giovane autore aveva saputo individuare l’unico possibile nuovo modello, rappresentato dalle Odi barbare carducciane (1877: E p. 229). Da questo esempio prestigioso il giovane autore aveva desunto la forma più adatta (eleganza letteraria, richiamo ai classici, metri difficili) per dare voce alla sua serpeggiante sensualità.

La sensualità dell’estate mediterranea ◗ Questi tratti esplosero nel secondo libro di versi, Canto novo, stampato nel 1882 dall’editore Angelo Sommaruga (celebre per la rivista «La cronaca bizantina», da lui stampata dal 1881 al 1885); una seconda edizione, profondamente rivista, uscì nel 1896. L’opera è la cronaca in versi di una vacanza estiva (quella del 1881), come poi sarà anche il capolavoro poetico dannunziano, ovvero Alcyone: in un certo senso, la poesia dannunziana nasce da un unico motivo ispiratorio, ovvero l’ambiente fisico dell’estate mediterranea. Protagonisti sono due giovani amanti (molte liriche sono ispirate da Elda Zucconi: «E.Z.») che vivono in simbiosi con la natura, tra le selve abruzzesi e la calda onda marina. ◗ Il motivo fondamentale di Canto novo è proprio la scoperta della natura come corpo e del proprio corpo come natura: il mondo si annulla nell’io, e viceversa, secondo un fondamentale motivo che si ritrova in tutti gli autori del primo Decadentismo. L’io-poeta si percepisce come una scintilla di vita nel gran fuoco universale, nel gran corpo vivente e animato della natura; perciò ambisce a fondersi in questa che è, per lui, l’unica possibile divinità.

Una patina classicheggiante per rivestire l’istinto vitale ◗ Da tale sfondo decadente proviene anche l’ambiguo utilizzo di immagini e termini sacrali («scendo nel profondo mistero a congiungermi con gioia / con la Immortale»), che tradisce, in realtà, la scomparsa di ogni dimensione metafisica e spirituale. Da qui proviene anche l’eccesso di immagini fisiche, assolutamente lontano dalla «classica» misura carducciana: al panismo (la natura è tutto) il giovane poeta unisce il vitalismo (la sfrenata gioia di vivere e di godere). ◗ I raffinati metri «barbari» (cioè il calco in italiano dell’antica metrica greco-latina) risultano strutturati più liberamente rispetto al modello di Carducci. Il giovane poeta se ne serve, assieme al prezioso linguaggio tardoromantico e classicistico, per cantare, in ampi giri sintattici, «l’immensa gioia di vivere, / d’essere forte, d’essere giovine, / di mordere i frutti terrestri / con saldi e bianchi denti voraci». ◗ Emergono qua e là vibrazioni erotiche: ora l’amata Giselda-Lalla appare in mezzo alla natura come la «bella stornellatrice», ora si presenta sotto le forme agili e scattanti dell’antilope. Ogni tanto, però, compare una nota diversa, più mesta e sbiadita, come in In faccia alla vecchia scristata massiccia muraglia: un inizio che sembra anticipare Meriggiare pallido e assorto di Montale con la sua analoga «muraglia» (E Tomo B).

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O falce di luna calante Canto novo (Canto dell’ospite, VII) Anno: 1882 Temi: • il paesaggio notturno come fonte di intense sensazioni • l’abbandono al sonno dopo il piacere È la lirica più nota di Canto novo. Il giovane poeta contempla uno spicchio di luna o, meglio, le sensazioni che quella visione gli suscita nel lungo pomeriggio estivo. Da un lato gli pare di essere il dominatore di quel vasto panorama; dall’altro avverte come un brivido di stupore e timore, perché tutto sembra ridursi a vaghi sogni e a piaceri che non durano. Ma è una sensazione, non una riflessione; e si risolve semplicemente in una vaga suggestione musicale.

l’assenza di barche crea un’atmosfera di silenzio il poeta si protende a cogliere le segrete e sensuali vibrazioni della natura il silenzio degli uomini è totale

O falce di luna1 calante che brilli su l’acque2 deserte, o falce d’argento, qual mèsse di sogni ondeggia al3 tuo mite chiarore4 qua giù!5 Aneliti brevi6 di foglie sospiri7 di fiori dal bosco esalano8 al mare: non canto, non grido non suono pe ‘l vasto silenzïo va. Oppresso9 d’amor, di piacere il popol de’ vivi10 s’addorme...11 O falce12 calante, qual mèsse di sogni ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

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G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, A. Mondadori, Milano 1982-84

Schema metrico: 3 strofe di 4 versi ciascuna (2 novenari e 2 dodecasillabi o senari doppi, l’ultimo dei quali tronco). 1. falce di luna: la luna all’ultimo quarto ha la tipica conformazione di una falce. 2. acque: lo sfondo del Canto dell’ospite (la sezione di Canto novo da cui è tratto il testo) è sempre il mare. 3. ondeggia al: ondeggia “sotto” la luna e

anche “per” il suo riverbero. 4. qual mèsse... chiarore: i sogni degli uomini ondeggiano come le messi (qual mèsse) sotto la luna, a ogni lieve soffio di vento, e attendono di esser tagliati dalla falceluna. 5. qua giù: sulla Terra. 6. Aneliti brevi: il tremolio appena percepibile delle foglie sembra un respiro trepidante.

7. sospiri: profumi, fruscii. 8. esalano: cioè si protendono e giungono fino alla distesa d’acqua. 9. Oppresso: affaticato. 10. de’ vivi: uomini e animali. 11. s’addorme: cede al sonno. 12. O falce: si ripete (con l’omissione del termine luna) l’invocazione della prima strofa.

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Contesto

Gabriele D’Annunzio

Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ La poesia appartiene al genere, molto frequente, della visione notturna lunare, sul tipo degli Idilli leopardiani. Certo però la visione dannunziana risulta ben diversa da quelle – liriche e insieme riflessive – di Leopardi. Manca infatti, in questa lirica, un vero sviluppo di idee; tutto sembra risolto in una sensazione istantanea. Il giovane poeta coglie dell’incanto lunare solo le sue componenti sensuali: • le foglie sembrano emanare un’ansia di desiderio; • il profumo dei fiori suggerisce sospiri voluttuosi; • la notte è piena solo di piacere. ■ Già i poeti classici (da Omero a Virgilio) avevano cantato il comune riposo di animali e uomini dopo le fatiche del giorno; ma in questo canto la stanchezza non giunge a sera, cioè alla fine del giorno, bensì dopo una notte densa di piaceri. L’aggettivo oppresso aggiunge a questa immagine una nota negativa, e tipicamente decadente: esso infatti indica che anche il piacere può dare stanchezza. ■ Suoni e colori smorzati percorrono l’intero testo; alla fine, grazie alla parziale ripetizione del verso iniziale (O falce calante), il poeta si abbandona al sonno e alla velata minaccia di quella falce che tutto taglia. Che cosa ci riserverà il domani? Ma l’interrogativo non viene neppure esplicitato; tutto si risolve in pura musica, senza più pensieri. La musicalità e il ritmo smorzano con leggerezza le immagini.

3. Rifletti sul significato della metafora luna = falce. Secondo te, essa esprime: a l’appartenenza della luna e del cielo alla vita della natura b l’abbandono di tutta la natura alle forze del riposo e del sonno c un senso di oscura minaccia, nel senso che i sogni degli uomini sono attesi da un amaro risveglio d un senso di fiduciosa speranza, nel senso che i sogni degli uomini stanno per avverarsi Scegli la risposta esatta e motivala. .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... 4. Esiste un rapporto fra l’analogia luna-falce e l’immagine della mèsse di sogni? Se sì, di quale tipo? .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... 5. Perché il primo verso del componimento viene ripetuto in conclusione, secondo te? Motiva la risposta. .................................................................................................... ....................................................................................................

LAVORIAMO SUL TESTO 1. La lirica dice che ogni cosa, finalmente, dopo le fatiche del giorno: a dorme b si risveglia c brilla di nuova luce d rivela l’attesa del domani Scegli la risposta esatta e motivala citando il verso o l’espressione dal testo. .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... 2. Il critico A. Momigliano ha scritto che il percorso della lirica va dal paesaggio al silenzio. Prova a documentare l’affermazione con i dovuti riscontri testuali.

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.................................................................................................... 6. Sai ritrovare nel testo altre ripetizioni di suoni, parole, immagini? Quale valore, a tuo avviso, assume questa scelta stilistica? .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... 7. Com’è resa la musicalità del componimento? Rispondi osservando gli elementi formali: la metrica, il ritmo delle tre strofe, le ripetizioni, le pause ecc. 8. Non ti sembra che, in questo componimento, l’«oppressione» di cui parla il poeta al v. 9 offra un’immagine stridente, rispetto all’atmosfera lunare precedente, incantata, fatta di sogno e silenzio? Rifletti in proposito e prova a spiegare il senso dell’aggettivo dal punto di vista del poeta (max 10 righe).

Gabriele D’Annunzio

Contesto

IL PIACERE

La vita come un’opera d’arte ◗ Il romanzo Il piacere (1889) segna il momento più estetizzante di D’Annunzio. L’autore si autoritrae nel giovane Andrea Sperelli, «ultimo discendente d’una razza d’intellettuali», educato dal padre a «fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte». Andrea è un esteta, che disprezza ogni forma volgare di vita; la sua casa romana, nel cinquecentesco Palazzo Zuccari, è ricca di oggetti d’arte, descritti con la precisione di un antiquario dilettante. Figura artificiosa e finta, egli intrattiene un rapporto ambiguo, ora passionale ora distaccato, con gli oggetti e le persone (soprattutto donne) che lo circondano. ◗ Il narratore pare talora prendere le distanze dalle deviazioni e incoerenze del protagonista, come accadeva in A ritroso di Huysmans (E p. 288). Ma è solo un’impressione, perché in realtà D’Annunzio vuole calamitare i lettori verso una sbalordita ammirazione per il «bello», di cui il romanzo confeziona molteplici immagini: dagli ozi edonistici del protagonista agli scorci monumentali della Roma barocca.

Debolezza morale e di analisi psicologica ◗ Nato, a detta dell’autore, come studio dal vero di un caso psico-patologico, il racconto vorrebbe proporre una sorta di itinerario morale: Andrea desidera infatti riscattarsi, passando dall’amore troppo sensuale per Elena (la femmina-sirena, vestita di porpora) a quello più puro per Maria (la bianca figura cui si addice l’ermellino). Il tutto però rimane un po’ astratto, privo di veri sviluppi. Il piacere rivela, in realtà, scarse capacità introspettive, anche se non mancano pagine suggestive. L’analisi del protagonista si riduce all’alternanza, in lui, di desiderio e stanchezza dei sensi; le figure femminili sono appena abbozzate, quasi dei fantasmi nati dalla «voluttà» (desiderio di abbandonarsi al piacere) di Andrea.

Modernità e limiti del Piacere ◗ L’intreccio del romanzo, già piuttosto esile, viene reso più fragile dal frequente ricorso ai flashback: rievocazioni di memoria e «salti» nel passato, che producono forti scarti temporali tra i vari momenti della vicenda. Il racconto si allontana così dall’oggettività cara al romanzo ottocentesco anche per le numerose disquisizioni filosofiche, estetiche, psicologiche, attraverso cui l’autore esplora il mondo intellettuale del protagonista e ritrae l’ambiente mondano della Roma umbertina. ◗ Tutto ciò potrebbe preludere a una narrativa nuova e quasi novecentesca, in cui appunto tenderanno a prevalere questi elementi saggistici e filosofici. Purtroppo, però, nel Piacere, il giovane autore è interessato soprattutto a eventi mondani, descrizioni di oggetti (quadri, statue, palazzi ecc.), divagazioni poetiche ed erudite. Lo stile risulta levigato e manierato, sempre lontano dal linguaggio comune. Il piacere finisce così per apparire una sorta di museo letterario, da cui lo scrittore estrae «pezzi» e impressioni: è il limite più vistoso dell’estetismo dannunziano.

LA TRAMA ◗ Andrea Sperelli ama la bella e dissoluta Elena Muti. Non la vede da circa due anni. Nel frattempo, la donna è andata sposa a lord Heathfield; Andrea però intende riannodare i fili di una relazione su cui il lettore viene informato da un ampio flashback. Il rifiuto di Elena induce il deluso Andrea a rituffarsi nel libertinaggio amoroso, nella cornice galante e raffinata dell’aristocrazia

romana, di cui risaltano alcuni momenti esemplari (come la corsa dei cavalli). ◗ Ferito durante un duello da un amante tradito, Andrea trascorre la convalescenza in casa di una cugina. Qui conosce la bella e dolce Maria Ferres, una donna (sposata) che impersona una femminilità opposta a quella dirompen-

te e aggressiva di Elena. Andrea instaura con Maria una relazione di natura spirituale, mentre il desiderio di Elena si fa in lui sempre più prepotente. ◗ Si arriva così all’epilogo: Andrea pronuncia incautamente il nome di Elena proprio durante il primo incontro amoroso, tanto atteso, con Maria, la quale fugge via abbandonandolo.

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L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento

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L’attesa di Elena Il piacere, libro I, capitolo 1 Anno: 1889 Temi: • le raffinatezze aristocratiche nella casa di un esteta • l’eccitante attesa della donna amata • i ricordi di un amore passato nell’attesa del suo ritorno Leggiamo la pagina d’apertura del romanzo: siamo a Roma, presso la via Sistina; è l’ultimo giorno dell’anno, che poi sapremo essere il 1886. Il protagonista Andrea Seperelli attende, in casa sua, la visita di Elena, la donna amata, che non vede da due anni.

i luoghi della Roma rinascimentale e barocca, amata dal protagonista e dall’autore più della Roma classica il passaggio dall’esterno (la città) all’interno della casa di Andrea

l’attesa, motivo dominante delle pagine iniziali del romanzo

L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro1 spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture2 passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de’ Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari,3 attenuato. Le stanze andavansi4 empiendo a poco a poco del profumo ch’esalavan ne’ vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d’un5 giglio adamantino,6 a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli7 alla Galleria Borghese.8 Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana9 paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.10 Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un’amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante11 ornate d’istoriette mitologiche da Luzio Dolci,12 antiche forme d’inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara13 nera esametri d’Ovidio.14 La luce entrava temperata dalle tende di broccatello15 rosso a melagrane d’argento riccio,16 a foglie e a motti.17 Come18 il sole pomeridiano feriva19 i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto. L’orologio della Trinità de’ Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz’ora. Andrea

1. San Silvestro: l’ultimo giorno dell’anno. 2. vetture: carrozze. 3. palazzo Zuccari: l’abitazione di Sperelli è nel palazzo che prende il nome da Federico Zuccari (1542/43 ca-1609), che lo costruì per ospitare la sede di un’accademia di pittura. 4. andavansi: si andavano. 5. in guisa d’un: allo stesso modo di un. 6. adamantino: luminoso e puro come un diamante. 7. tondo di Sandro Botticelli: il riferimento è a La Vergine fra gli angeli del pittore fiorentino Sandro Botticelli (1445-1510), molto amato dagli esteti di fine Ottocento. Il tondo è un dipinto inquadrato in una cornice tonda.

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8. Galleria Borghese: uno dei più celebri musei romani, all’interno di palazzo Borghese. 9. diafana: trasparente. 10. dare... offerta: per suggerire l’idea di un’offerta fatta per devozione religiosa o per amore. 11. Castel Durante: presso Urbania, nelle Marche; nel Cinquecento era un rinomato centro di produzione di maioliche. 12. Luzio Dolci: pittore di maioliche cinquecentesche. 13. a zàffara: mistura di vari colori, di tinta scura, usata per tingere vetri e maioliche. 14. esametri d’Ovidio: sono i versi in cui Publio Ovidio Nasone (43 a.C.-18 d.C.), scrittore latino tra i più raffinati, scrisse il

poema delle Metamorfosi. Sul servizio in maiolica, dunque, erano riprodotti disegni di mostri mitologici accompagnati dai passi dell’opera latina. 15. broccatello: stoffa di seta pesante. 16. a melagrane d’argento riccio: i fili d’argento sulla seta disegnano, in leggero rilievo (riccio), il profilo delle melagrane e massime (motti) spiritose. 17. motti: frasi sentenziose, per lo più simboliche, ricorrenti spesso sotto gli stemmi nobiliari. 18. Come: quando, dal momento in cui. È un francesismo. 19. feriva: il verbo “ferire” applicato alla luce era frequente nell’italiano delle origini.

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le donne «fatali» di D’Annunzio hanno tutte forme atletiche, segno di superiorità sui loro uomini, più incerti e dubbiosi

l’inquietudine tipica dei personaggi dannunziani

G. D’Annunzio, Prose di romanzi, vol. I, prefaz. di E. Raimondi, a cura di A. Andreoli, A. Mondadori, Milano 1988

20. diede: fece. 21. aspettazione: attesa. 22. di operare: di fare qualcosa. 23. i tizzi fumigarono: i tizzoni accesi del legno di ginepro mandarono fumo. 24. Elena: Elena Muti, la donna attesa. 25. pallor d’ambra: un colorito giallobruno. 26. Danae del Correggio: personaggio mitologico, a cui spesso Elena sarà paragonata nel romanzo. Correggio è il pittore

cinquecentesco Antonio Allegri (14891534); le sue figure femminili, spesso tratte da temi mitologici, come Danae o Leda, evidenziano una sottile sensualità. 27. direi arborei: il commento del narratore serve a definire simili a elementi vegetali le membra di Elena. 28. Dafne: si riferisce alla statua di Dafne di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), ospitata anch’essa alla Galleria Borghese. Nelle Metamorfosi Ovidio narra come Dafne si

trasformò in alloro (è la metamorfosi favoleggiata) per sottrarsi al dio Apollo, innamorato di lei. Per questo D’Annunzio parla di mani e piedi arborei. 29. conflagravano: ardevano. 30. sùbito: improvviso. 31. gelato crepuscolo: la fredda oscurità della sera dicembrina. 32. qualche tempo: per qualche momento. 33. convegno: incontro. 34. ansante: ansimante.

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nell’attesa, il ricordo: passato e futuro s’intrecciano nella sensibilità inquieta del protagonista

Sperelli si levò dal divano dov’era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede20 alcuni passi nell’appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L’ansia dell’aspettazione21 lo pungeva così acutamente ch’egli aveva bisogno di muoversi, di operare,22 di distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.23 Allora sorse nello spirito dell’aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Elena24 un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un’ora d’intimità. Ella aveva molt’arte nell’accumular gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po’ indietro il capo ad evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell’atto un po’ faticoso, per i movimenti de’ muscoli e per l’ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture, da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d’un pallor d’ambra25 che richiamava al pensiero la Danae del Correggio.26 Ed ella aveva appunto le estremità un po’ correggesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arborei27 come nelle statue di Dafne28 in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata. Appena ella aveva compiuta l’opera, le legna conflagravano29 e rendevano un sùbito30 bagliore. Nella stanza quel caldo lume rossastro e il gelato crepuscolo31 entrante pe’ vetri lottavano qualche tempo.32 L’odore del ginepro arso dava al capo uno stordimento leggero. Elena pareva presa da una specie di follia infantile, alla vista della vampa. Aveva l’abitudine, un po’ crudele, di sfogliar sul tappeto tutti i fiori ch’eran ne’ vasi, alla fine d’ogni convegno33 d’amore. Quando tornava nella stanza, dopo essersi vestita, mettendosi i guanti o chiudendo un fermaglio sorrideva in mezzo a quella devastazione; e nulla eguagliava la grazia dell’atto che ogni volta ella faceva sollevando un poco la gonna ed avanzando prima un piede e poi l’altro perché l’amante chino legasse i nastri della scarpa ancóra disciolti. Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che Elena aveva guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le imagini del tempo lontano rivivevano tumultuariamente. Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar quella soglia. Tra mezz’ora, certo, ella sarebbe venuta, ella si sarebbe seduta in quella poltrona, togliendosi il velo di su la faccia, un poco ansante,34 come una volta; ed avrebbe parlato. Tutte le cose avrebbero riudito la voce di lei, forse anche il riso di lei, dopo due anni.

Contesto

Gabriele D’Annunzio

Tra Ottocento e Novecento

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ Il protagonista Andrea Sperelli attende la visita di Elena, la donna che amò in passato e che non rivede da ben due anni. Nelle stanze di palazzo Zuccari, dove Andrea abita, tutto è stato preparato con cura per rivivere l’atmosfera degli incontri di un tempo.

■ Nell’attesa, però, il protagonista è nervoso. Egli cerca di calmarsi attizzando il fuoco: un gesto che risveglia, in lui, il ricordo di Elena. Ella compare qui per la prima volta, nel romanzo, grazie alla memoria dell’amante.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Il piacere è un romanzo estetico, un romanzo d’arte e di lusso. In esso gli oggetti sono citati solo in quanto opere d’arte; anche le fisionomie dei personaggi devono richiamare dipinti o sculture. Invece ai luoghi (saloni, parchi, gallerie d’arte, sale da concerto, chiese barocche) è affidata una funzione quasi esclusivamente scenografica, di magnifico sfondo che nobilita chi li frequenta. ■ Tali elementi sono preannunciati nella pagina letta. De-

scrivendo l’interno della casa di Andrea, il narratore indugia infatti sulla preziosità dell’ambiente, degli oggetti che lo abbelliscono, indice sicuro del gusto del padrone di casa: l’esteta, appunto, Andrea Sperelli. ■ A un certo momento la riflessione estetica (Nessuna altra forma di coppa eguaglia... r. 11) finisce per staccarsi dalla vera e propria narrazione. L’autore dà voce a quella tendenza saggistico-discorsiva che è tipica dei suoi romanzi, in particolare del Piacere.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. L’estetismo di Andrea non si rivolge alla classicità (la Roma degli imperatori), ma all’età tardorinascimentale e barocca, ovvero a un’epoca e a un tipo di arte che presentano elementi eccessivi, sontuosi e un po’ torbidi. a. Evidenzia sul testo i riferimenti all’arte di quell’epoca. b. Quale lato della personalità di Andrea viene connotato da questo tipo di arte? a la sua ricerca di eleganza e artificio b la sua ricerca di classicità e misura c la sua dedizione alla religione dei papi d la sua avversione verso ciò che è antico e remoto Motiva in breve la tua scelta. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... c. Più avanti la stessa Elena affermerà: «Voi abitate in un luogo ch’io prediligo». Secondo te, quale valore hanno queste parole? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 2. Nel brano letto si riscontra anche una particolare concezione della natura: infatti la casa di Andrea è ricca di elementi naturali, come i fiori o i motivi decorativi dell’arredamento. a. Sottolinea nel testo la presenza di questi elementi. 318

b. Ora rifletti: quale idea di natura viene suggerita da questi oggetti? a semplice e spontanea b sovraccarica e artificiosa c luogo di pace e serenità Motiva in breve la tua scelta. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 3. Nella terza sequenza, quella dell’attesa, il lettore entra in una situazione narrativa più mossa. Il testo (siamo nel primo capitolo del romanzo) prepara ciò che seguirà, ma ricapitola anche numerosi eventi precedenti: perciò la realtà dei fatti si mescola continuamente con la memoria, l’attesa, il desiderio. a. Rileggi la sequenza, analizzando gesti e azioni del protagonista. Poi scegli l’affermazione più convincente. a il personaggio dannunziano non è realistico: in lui prevalgono pose teatrali ed enfatiche b l’autore amplifica i gesti del personaggio per dare di lui un’idea di importanza e superiorità c D’Annunzio descrive azioni e atteggiamenti di Andrea ma non li spiega, perché il personaggio resti estraneo e impenetrabile per il lettore Motiva in breve la tua scelta. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

a. Quale ricordo improvviso evoca in Andrea l’immagine di Elena? ............................................................................................... b. In che modo si viene delineando tale ricordo? ...............................................................................................

{ Forme e stile 5. Il ritmo del romanzo avanza con lentezza, alternando narrazione e descrizione e assegnando a quest’ultima il rilievo maggiore. a. Compila la tabella riassumendo in breve ciascuna delle cinque sequenze in cui è suddiviso il testo. titolo 1. l’esterno

sintesi delle sequenze .................................................................... ....................................................................

2. l’interno

.................................................................... ....................................................................

3. l’attesa

.................................................................... ....................................................................

4. il ricordo

.................................................................... ....................................................................

5. le previsioni .................................................................... ....................................................................

LAVORIAMO SU

b. Adesso rifletti e rispondi alle seguenti domande. – Quale tipo di sequenze prevale? a sequenze narrative b sequenze in cui c’è descrizione – In quali sequenze ritrovi ricordi e riflessioni del personaggio? Rispondi citando il numero delle righe del testo. 6. Esaminiamo ora la costruzione dello spazio e del tempo narrativo. Per quanto riguarda lo spazio, il narratore restringe progressivamente il campo visivo: si va dal generale al particolare; intanto, nel corso del brano, si precisa anche il tempo, mediante l’artificio del suono delle campane. a. Individua nel brano tutti gli elementi spaziali disponibili, sia interni sia esterni, e le informazioni che permettono di ricostruire la cornice temporale degli eventi. b. Le informazioni relative al tempo a sono offerte dal narratore in modo diretto e «oggettivo» b trapelano tra le righe, dai pensieri di Andrea c. In conclusione: siamo davanti a una narrazione c impersonale e oggettiva d di tipo soggettivo Motiva in breve la tua scelta. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

LINGUA E LESSICO

1. Il brano presenta il tipico linguaggio, divagante, «immaginifico», di D’Annunzio, con il compito di nobilitare i contenuti. L’aggettivazione risulta, lungo il brano, sempre preziosa, così come ricercati sono gli altri elementi linguistici. a. Esamina un capoverso del testo, a tua scelta, e trascrivi degli esempi significativi per ciascuno dei fenomeni elencati. – L’umanizzazione (antropomorfizzazione) delle cose di natura, come nella prima frase (L’anno moriva): ............................................................................................... – L’aggettivazione preziosa (guarda per esempio nel primo periodo gli aggettivi riferiti al tepor: esso è detto prima mollissimo e poi aureo):

............................................................................................... ............................................................................................... – L’uso di antitesi, cioè di immagini contrapposte (per esempio il primo periodo accosta antiteticamente all’idea del tepor del sole l’idea di un «velo»): ............................................................................................... – La scrittura separata della preposizione articolata (su la, r. 3), un uso caro alla tradizione dell’italiano antico: ............................................................................................... – Le forme tronche (come tepor, ciel, fin), per conferire alla frase un respiro musicale: ...............................................................................................

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4. La quarta sequenza narrativa è la più estesa, dedicata al ricordo.

Contesto

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Tra Ottocento e Novecento

La parola al critico Il simbolismo del Piacere Il critico francese Guy Tosi (1910-2000) s’interroga sul significato del «mistero» e del simbolismo nell’opera dannunziana. Secondo Tosi anche in D’Annunzio, come in molti scrittori decadenti, si può trovare un’applicazione di quanto afferma Henri-Frédéric Amiel (1821-81) in Frammenti di un diario (1884), libro all’epoca diffusissimo in tutt’Europa, e cioè che «il paesaggio è uno stato dell’anima»: ovvero, esiste una diretta corrispondenza fra lo stato d’animo individuale e il modo di vedere la realtà esterna. Il Simbolismo moderno ha fatto il suo ingresso nell’opera di D’Annunzio con Il piacere, anche se questo primo romanzo, visibilmente, s’apparenta ancora molto al romanzo realista e naturalista elegante e mondano. Bisogna distinguere nella sensibilità di Sperelli numerosi aspetti e numerose influenze, a seconda che si consideri in lui l’uomo di piacere, l’amante sentimentale, il dilettante, l’artista o l’intellettuale, tante forme della sua sensibilità che nascondono una cultura composita e, per quanto riguarda il temperamento, più o meno cinismo, scetticismo, propensione al sogno o all’inquietudine. Nell’aspetto ipersensibile del personaggio, evidentemente, troveremo le sue interpretazioni più soggettive del mondo esterno. Si potrebbe documentare con numerosi – troppo numerosi – esempi il particolare dialogo, spesso sensuale, che Sperelli non smette di intrattenere con il decoro erotico e estetico che ha creato a Palazzo Zuccari, il suo legame con il prestigioso decoro urbano – la Roma dei papi – dove ha scelto di vivere, la sua comunione con il paesaggio marino di Schifanoia1 dove si rifugia convalescente. Se si eccettuano le parti puramente mondane del romanzo, da quando si entra nella vita intima di Sperelli e di Maria Ferres si è colpiti dal fatto che un oggetto, un evento della strada, un monumento, un quadro, un pezzo di musica, un paesaggio, tutto è sempre visto attraverso le condizioni gioiose o tristi che hanno in quel momento, esposte attraverso una mentalità spesso superstiziosa: «Ne’ loro spiriti esaltati la superstizione, ch’è un degli oscuri turbamenti portati dall’amore anche nelle creature intellettuali, diede all’insignificante episodio la misteriosità di una allegoria. Parve loro che in quel semplice fatto si occultasse un simbolo.»

Da quel momento, tutto diventa segno, presagio di felicità o di rottura: un incontro, un gesto, un colore del cielo. Secondo i giorni, la bellezza di Roma s’accorda alla bellezza di Elena o a quella di Maria, e gli stessi luoghi si rivelano di volta in volta carichi di promesse o di minacce. Per Maria «la parte più bella e più pura del suo amore» è rimasta nella «foresta simbolica» di Schifanoia. La «segreta corrispondenza», l’«affinità misteriosa» che sentiva laggiù tra la sua anima e il paesaggio, come una felice armonia, si cambia nel suo opposto davanti al paesaggio romano: «I tronchi portavano ampie ferite, ricolmate con la calce e col mattone, come le aperture d’una muraglia... L’acqua grondando dalla superior tazza di granito nel bacino sottoposto metteva uno scoppio di gemiti, a intervalli, come un cuore che si riempia d’angoscia e poi trabocchi in pianto... Ella sentiva crescere l’affanno. Un’oscura minaccia veniva a lei dalle cose.»

Si potrebbero moltiplicare le citazioni come questa, dove i personaggi, avendo proiettato sul paesaggio i propri sentimenti, hanno l’illusione che sia il paesaggio a suggerirli loro. G. Tosi, D’Annunzio et le symbolisme français, trad. di A. Cadioli, in Aa. Vv., D’Annunzio e il simbolismo europeo, a cura di E. Mariano, Il Saggiatore, Milano 1976 1. Schifanoia: è la villa di campagna della cugina di Andrea, dove egli trascorre il

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periodo di convalescenza per la ferita riportata in un duello.

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Ritratto d’esteta

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Il piacere, libro I, capitolo II Anno: 1889 Temi: • l’ideologia di un esteta, i suoi gusti, il suo atteggiamento verso la vita D’Annunzio ci presenta, in questo secondo capitolo, il ritratto del suo protagonista: un vero esteta, come si coglie dall’educazione ricevuta, dal suo gusto, dal modo in cui vive.

è stato il padre a voler fare di Andrea un «esteta»

è il principio fondamentale dell’estetismo: rivela orgoglio, ottimismo, slancio positivo, ma nella sola dimensione del «bello»

Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore1 italiano nel XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, l’ultimo discendente d’una razza intellettuale.2 Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a’ venti anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi.3 Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere. Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica,4 sapeva largamente vivere;5 aveva una scienza profonda della vita voluttuaria6 e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico.7 [...] Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale:8 «Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui». Anche, il padre ammoniva: «Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: – Habere, non haberi».9 Anche, diceva: «Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni». Ma queste massime volontarie,10 che per l’ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criteri morali, cadevano appunto in una natura involontaria,11 in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima. Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell’animo di Andrea: il seme del sofisma.12 [...]

1. giovine signore: giovane aristocratico. È scritto alla maniera settecentesca (si pensi al «giovin signore» del Giorno di Giuseppe Parini). 2. razza intellettuale: stirpe di intellettuali. 3. pedagoghi: maestri, qui con una connotazione negativa. 4. corte borbonica: la corte dei Borbone di Napoli era stata l’ultima a essere eliminata dal movimento risorgimentale; era stata dunque quella che più a lungo aveva

resistito, secondo D’Annunzio, al «diluvio democratico odierno». 5. largamente vivere: vivere pienamente, senza negarsi nulla. 6. voluttuaria: di voluttà, di piacere. 7. una certa... fantastico: una sensibilità vicina a quella del poeta inglese George Byron (1788-1824), modello di romanticismo acceso ed esuberante. 8. questa massima fondamentale: una regola di vita. 9. Habere, non haberi: “possedere, non

essere posseduto”, cioè saper dominare le passioni e le cose, fin nell’ebrezza, e non lasciarsi dominare da esse. L’insegnamento era dell’antico filosofo Aristippo (che invitava l’uomo a non farsi schiavo degli istinti e delle cose), ma qui viene mutato dall’estetismo dannunziano: dominare tutto significa fare qualsiasi esperienza, non arretrare davanti a nulla. 10. volontarie: cioè fondate su una forte volontà. 11. involontaria: incapace di volere.

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Tra Ottocento e Novecento

l’esteta dannunziano si identifica in scenari un po’ torbidi e deca denti, non in quelli solari ed eroici prediletti dai classicisti (come Carducci)

la religione ha solo una funzione ornamentale, associata ai momenti di svago degli antichi romani ecco la tipica atmosfera decadente: raffinatezza ed esotismo, in un’estate senza tempo, che muore dolcemente

Un tal seme trovò nell’ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso gli altri quanto verso sé stesso divenne un abito così aderente alla conscienza ch’egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sé stesso il libero dominio.13 Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d’una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue passioni e de’ suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione. Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi;14 non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe.15 La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini16 l’attraeva assai più della ruinata17 grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Carracci, come quello Farnese;18 una galleria19 piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese [...]. In casa della marchesa d’Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda: «Che vorreste voi essere?» egli aveva scritto «Principe romano». Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabilì il suo home20 nel palazzo Zuccari alla Trinità de’ Monti, su quel dilettoso tepidario21 cattolico dove l’ombra dell’obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore.22 Passò tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi;23 poi, quando le stanze furono ornate e pronte, ebbe nella nuova casa alcuni giorni d’invincibile tristezza. Era una estate di San Martino, una primavera de’ morti,24 grave e soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quanta d’oro come una città dell’Estremo Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che si specchiano ne’ mari australi.25 Quel languore dell’aria e della luce, ove tutte le cose parevano quasi perdere la loro realità e divenire immateriali, mettevano nel giovine una prostrazione infinita, un senso inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine, di vacuità, di nostalgia. G. D’Annunzio, Prose di romanzi, cit.

12. sofisma: è il ragionamento sottile, a volte capzioso, che tende a mascherare la verità. I sofisti erano «maestri di sapienza», attivi in Grecia nel V-IV secolo a.C., che si servivano del linguaggio come strumento fondamentale per l’educazione del cittadino e per la comunicazione politica, e consideravano la forma linguistica più importante della verità dei contenuti trasmessi. 13. un abito così aderente... dominio: l’abitudine a fingere, a vivere in un mondo falso, gli impedisce di essere sincero anche di fronte a se stesso. 14. la Roma dei Papi: cioè la Roma barocca. L’esteta capovolge un luogo comune: Carducci e i classicisti esaltavano la Roma dei Cesari, l’antica Roma imperiale, l’esteta invece predilige l’altra faccia di Roma, quella delle chiese e dei palazzi eleganti. 15. Fontanella delle Tartarughe: la fonta-

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na delle Tartarughe, in piazza Maffei, è opera cinquecentesca di Taddeo Landini (1550 ca-96). 16. Colonna... Doria... Barberini: vengono qui citate alcune delle più famose casate nobiliari di Roma, che ebbero tra i loro rappresentanti numerosi papi e cardinali. 17. ruinata: andata in rovina. 18. un palazzo... Farnese: palazzo Farnese fu edificato dal cardinale Alessandro Farnese, poi papa Paolo III, nel 1514, su progetto di Sangallo (1455-1516); alla morte di quest’ultimo la facciata e i cornicioni furono terminati da Michelangelo (14751564); da qui il termine incoronato usato da D’Annunzio. All’interno fu decorato dai fratelli Agostino (1557-1602) e Annibale (1560-1609) Carracci. 19. galleria: collezione di quadri. 20. il suo home: la sua abitazione; lo scrittore parla in inglese come faceva An-

drea, appena arrivato a Roma dopo un lungo soggiorno in Inghilterra. 21. dilettoso tepidario: luogo piacevole; nelle terme romane il tepidarium era il luogo di passaggio dal bagno freddo a quello caldo. 22. l’ombra... delle Ore: l’obelisco sembra l’asta di una meridiana che segna le ore con la proiezione della sua ombra. 23. le cure degli addobbi: cioè per abbellire la casa con raffinati ornamenti. 24. estate... morti: l’inizio del mese di novembre, in cui ricorre la festività di tutti i defunti, e in particolare nel giorno di San Martino (11 novembre), ha spesso una temperatura più mite, e per questo è chiamato popolarmente «estate di San Martino». 25. australi: dell’emisfero meridionale. Continuano i riferimenti esotici introdotti con la città dell’Estremo Oriente citata appena sopra.

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IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ Rimasto orfano da poco, ricchissimo a soli ventun anni, Andrea Sperelli ha posto dal 1884 la sua residenza a Roma, la città che merita la sua speciale predilezione. Vive in uno splendido palazzo e coltiva i suoi gusti signorili ed esclusivi, tra cui l’amore passionale. L’esordio del romanzo (E Testo 2, p. 316) ci mostrava in azione il personaggio, nell’ultimo giorno del 1886, mentre attendeva, in casa sua, l’arrivo dell’ex amante Elena; ora l’autore presenta la storia precedente del personaggio, come in un flashback dell’autore stesso. ■ Il passo delinea il ritratto dell’esteta: rievoca la sua for-

mazione intellettuale, letteraria e artistica, e contemporaneamente mette a fuoco le sue aspirazioni superiori, che lo differenziano dagli altri uomini. Due caratteri fondamentali contraddistinguono il giovane personaggio: • da una parte, la forte sensibilità estetica: Andrea è tutto impregnato di arte (r. 5); possiede il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza (r. 10); • dall’altra, la sua scelta di vivere secondo gli istinti: [...] disposto, com’era il padre, alla vita voluttuaria (r. 12), all’avidità del piacere (r. 10).

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Il narratore precisa che Andrea non è nato esteta e «sensitivo»: è, invece, il prodotto di un apposito programma educativo, di un’educazione estetica. Fu infatti suo padre, un gentiluomo aristocratico cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, a insegnare al figlio il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza (rr. 11 e 9). Lo scopo è quello proprio della classe nobiliare: distinguersi dalla rozzezza del popolo, incapace di bellezza. ■ Sempre il padre ha educato Andrea al sofisma, ovvero a non accettare nessuna verità come assoluta, a voler criticare tutto alla luce della ragione, come facevano gli antichi sofisti. Tale distacco dalla morale corrente è, assieme all’accesa sensibilità estetica, l’altro principio basilare dell’estetismo.

■ Una simile educazione, dice il narratore, ha prodotto danni gravi nel carattere del giovane Andrea. Lo scrittore definisce infatti incauto educatore quel padre che ha finito per «deprimere», nel figlio, «la forza morale», fino al punto da creare in lui una potenza volitiva [...] debolissima. ■ In realtà, però, D’Annunzio aderisce al modello di uomo delineato in Andrea Sperelli. L’autore si compiace del fatto che l’espandersi della forza sensitiva (cioè istinti, capacità percettive, sensazioni) finisca per annullare, in Andrea, la forza morale. Tutto il brano, e tutto il romanzo, non fanno che amplificare le sensazioni, le impressioni, i gusti di chi nella vita tiene fede solo al principio del culto della bellezza.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. Il narratore interrompe la narrazione d’intreccio per costruire, a beneficio dei lettori, un vero e proprio ritratto del protagonista. Ma si tratta di un ritratto speciale, un ritratto d’esteta: abbiamo segnalato, sia nelle glosse laterali sia nell’analisi del testo gli elementi dell’estetismo che si riverberano in questa pagina. a. Facendo riferimento al brano, compila la tabella riassumendovi i tratti fondamentali del protagonista.

tratti

riferimenti al brano

appartenenza sociale

.......................................................

convinzioni ideologiche ....................................................... carattere e psicologia

.......................................................

aspetti morali

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Monografia Raccordo

ANALISI DEL TESTO

Contesto

Gabriele D’Annunzio

Tra Ottocento e Novecento

2. Il narratore sembra censurare la debolezza morale del suo personaggio, anche se poi si mostra in piena consonanza con lui. In tal senso è assai indicativo il trinomio (gruppo di tre termini) che figura nel primo capoverso del brano. a. Trascrivi i tre termini o espressioni che dichiarano l’ammirazione di D’Annunzio verso Andrea Sperelli. – ............................................................................................ – ............................................................................................ – ............................................................................................ 3. Il narratore orchestra un ambiguo gioco di luci e di ombre: non tutto in Andrea Sperelli è positivo. Egli è interiormente malato, debole, incapace di riprendere su sé stesso il libero dominio. a. Individua nell’arco di tutto il brano le espressioni significative di questa debolezza morale del personaggio. b. Commenta le ultime righe del brano antologizzato: quale immagine di Andrea forniscono? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 4. Andrea predilige la Roma barocca, la Roma delle grandi famiglie aristocratiche e soprattutto la Roma splendida e un po’ corrotta dei papi rinascimentali. a. Rintraccia nel brano tutti i punti che illustrano questa predilezione da parte del personaggio.

LAVORIAMO SU

{ Forme e stile 5. Dal punto di vista stilistico, il brano presenta l’atteggiamento che il critico Mario Praz ha definito «amore sensuale per la parola»: l’uso di forme inusitate (come imagine per “immagine”), la ricerca di musicalità, l’abbondanza di aggettivi esornativi ecc. a. Individua nel brano e trascrivi. – riferimenti eruditi .............................................................. ............................................................................................... ............................................................................................... – termini e grafie inusitate ................................................... ............................................................................................... – citazioni raffinate .............................................................. ............................................................................................... ............................................................................................... – aggettivi esornativi (cioè aggiunti senza un vero arricchimento di significato) ..................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

LINGUA E LESSICO

1. Il linguaggio, in coerenza con i gusti estetici del protagonista, ricorre a espressioni molto particolari, lontane dal parlare comune e, a maggior ragione, dall’impersonalità di Verga e dal suo «coro popolare». a. Parafrasa con le tue parole le seguenti espressioni, molto ricercate. – l’ideal tipo del giovine signore italiano ............................ ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 324

b. Adesso cerca di spiegare il perché di questo suo gusto, alla luce di ciò che sai della poetica dannunziana. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

– aveva una scienza profonda della vita voluttuaria ......... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... – non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità ......................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... – Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato ........................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

D’Annunzio e il Decadentismo

■ Galileo Chini, Allegoria dei benefici delle acque (particolare), 1922.

D’Annunzio ebbe legami molto forti con il Decadentismo. In primo luogo fu lui a mettere in circolazione in Italia i temi e il linguaggio del nascente Decadentismo grazie alle letture appassionate, nel ventennio 1880-1900, di altri autori europei (come Flaubert, Swinburne, Baudelaire, Huysmans, i preraffaelliti inglesi) e ai riflessi che queste ebbero nelle sue opere (talvolta si trattò di veri e propri plagi). Inoltre sperimentò personalmente le forme della nuova letteratura, sia nelle prime raccolte poetiche (Canto novo e l’Isottèo) sia nel Piacere (1889), che si può definire il primo romanzo decadente italiano, per diversi aspetti: • l’esasperato individualismo del protagonista Andrea Sperelli; • il suo atteggiamento di dandy, di chi cioè fa la propria vita come un’opera d’arte; • il marcato sensualismo ed erotismo dei pensieri e delle situazioni narrative; • il senso di malinconica stanchezza che pervade il romanzo; • il culto dell’esotico. Tuttavia D’Annunzio partecipa solo alla prima fase del Decadentismo europeo, quella segnata dall’estetismo. Ma l’estetismo dannunziano si ferma per lo più al dato esteriore e superficiale: infatti tende a rivestire di belle forme ogni situazione, anche la più banale; ad addobbare di ricche apparenze gli stimoli più occasionali. Per abbellire la realtà comune, l’esteta

ricorre alla mitologia, cita i classici, saccheggia i repertori di immagini orientaleggianti e dello stile liberty-floreale: D’Annunzio è infatti convinto che scrivere su qualunque argomento sia il segno di una vocazione poetica «assoluta». Anche le sue pagine migliori, dedicate alla descrizione delle città morte, delle famiglie e dei palazzi in decadenza, della turpe vecchiaia umana, non si distaccano sostanzialmente, nel loro congiungere bellezza e morte, dalla sfera estetizzante. Il culto quasi esclusivo della sensazione preziosa ha dunque impedito a D’Annunzio l’apertura alla fase più matura del Decadentismo: • l’inettitudine a vivere, l’incapacità esistenziale narrata nell’opera di Svevo o nei Buddenbrook di Mann o in L’uomo senza qualità di Musil; • la coscienza dell’assurdo tipica di Kafka; • la tragica disarmonia delle «maschere» di Pirandello; • il senso dell’irreparabile sconfitta di un’intera civiltà (J. Roth). D’Annunzio resta lontano dai fenomeni più moderni, come Freud e la psicoanalisi, lo sperimentalismo linguistico e il pastiche di Joyce o Gadda. I suoi eroi non sono vittime della propria sconfitta interiore, della loro «coscienza infelice»; piuttosto sono sconfitti dal fato o da circostanze negative, oppure perché i contemporanei sono troppo me-

diocri per comprenderli; ma i valori in cui credono (l’ideale della bellezza assoluta, l’eroismo del bel gesto) restano intatti. Anche il sesso, scoperto da alcuni grandi decadenti (Wilde, Gide, lo stesso Joyce) come rimedio e insieme condanna per l’uomo, altrimenti consegnato all’angoscia della solitudine, in D’Annunzio si riduce a una serie di variazioni sul motivo insistito della sensualità: egli non sa uscire dal circuito: gioia dei sensi-nausea dei sensi. Anche sul piano stilistico, D’Annunzio rimane fedele ai decadenti della prima generazione, parnassiani e preraffaelliti. Tende infatti a una scrittura monocromatica, calligrafica ma superficiale: manca nella sua pagina la dimensione chiaroscurale, l’allusione e l’evocazione dell’ignoto, cara ai grandi simbolisti (Mallarmé, Rimbaud). Il suo simbolo tende a moltiplicare le linee, ma non ad accendere orizzonti sconosciuti. Ama la parola-immagine di sapore bidimensionale, in linea con il contemporaneo art nouveau e con lo stile floreale; ama la parola-suono, che fa largo impiego di echi letterari, ma più per sfoggio di erudizione che per sollecitare nuove risonanze. Solo nell’ultima fase D’Annunzio ricorre a una prosa più sperimentale, che si sporge sull’orlo del silenzio. Nel Notturno e nel Libro segreto cessa quindi la sonorità, e le parole diventano segni indecifrabili.

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L’OPERA

LE VERGINI DELLE ROCCE

Il romanzo del superuomo ◗ I protagonisti dei primi due romanzi dannunziani, Andrea Sperelli del Piacere e Giorgio Aurispa del Trionfo della morte, presentano già alcuni aspetti da «superuomini»: entrambi, infatti, erano intellettuali molto compiaciuti (Andrea è convinto di essere uno scrittore e artista, Giorgio è un ammiratore di Nietzsche e Wagner), entrambi provano uno sfrenato desiderio di godimento, entrambi assecondano l’egoismo di chi si colloca fuori da ogni norma o legame sociale. ◗ Ma il passaggio dall’esteta (sul tipo di Andrea Sperelli) al vero e proprio «superuomo», d’impronta nietzschiana, trovò compiuta espressione nelle Vergini delle rocce. Il romanzo uscì a puntate sulla rivista «Il Convito» tra la fine del 1894 e l’inizio del 1895, prima di essere ristampato in volume, sempre nel 1895, dall’editore Treves di Milano. ◗ In realtà D’Annunzio non approfondì mai, dal punto di vista filosofico, il pensiero di Nietzsche; piuttosto ne valorizzò gli elementi più facilmente combinabili con l’estetismo da lui messo a punto nelle prime opere. Il superuomo dannunziano, dunque, incarna il culto della bellezza, la sensualità, la sensibilità verso l’arte e il bello, la trasgressione di ogni regola sociale e morale. A questi motivi si aggiunge il disprezzo per la società borghese, colpevole di avere emarginato i letterati e gli artisti e di avere alimentato un sistema politico fondato sulla democrazia liberale, cioè sulla valorizzazione di tutti gli uomini, senza distinzioni (almeno teoricamente) di classe sociale o di cultura.

Una rivoluzione antidemocratica ◗ Le vergini delle rocce s’incentra sulla figura di Claudio Cantelmo, il superuomo disprezzatore della folla e divulgatore di un’ideologia antisociale, antidemocratica, antireligiosa. Mentre Andrea Sperelli, per il suo snobismo, appariva piuttosto distaccato dalla vita politica, Claudio coltiva progetti di potenza e di dominio; o meglio, non li coltiva per sé, quanto per il figlio che vorrebbe generare. Lo immagina superuomo, con un ruolo di capo, proteso a tracciare nuove strade per l’umanità: la sua principale funzione sarà annunciare una rivoluzione, materiale e culturale, necessaria per superare la presente crisi della società borghese. Per compiere tale rivoluzione bisognerà sovvertire le regole «liberali» della democrazia e del parlamentarismo (ricordiamo che nel Piacere Andrea Sperelli, ragionando sulla situazione italiana, aveva parlato in termini sprezzanti del «grigio diluvio democratico»).

LA TRAMA ◗ Il romanzo prende il titolo dal paesaggio di pietre e acqua di un celebre dipinto di Leonardo da Vinci conservato al Louvre di Parigi: si tratta di una raffinata citazione, bene intonata con il clima estetizzante della rivista «Il Convito», sulla quale il romanzo dannunziano uscì a puntate tra 1894 e 1895 (sempre sul «Convito» apparvero i Poemi conviviali di Pascoli: E p. 418). ◗ Come indica il titolo leonardesco, il romanzo si presenta come paesaggio tutto interiore, dove la contemplazione prevale nettamente sul racconto. Il pro-

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tagonista Claudio Cantelmo abbandona Roma, disgustato dalla corsa alle speculazioni edilizie, e si rifugia nei possedimenti di un’antica famiglia aristocratica, ancora di fede borbonica. Qui cerca una donna adatta al suo rango, con la quale generare un figlio (il futuro «re di Roma») capace di salvare l’Italia dalla presente bassezza. S’imbatte in tre «vergini», Massimilla, Anatolia e Violante, le sorelle della famiglia Capece Montaga. La loro bellezza, ormai quasi sfiorita, incarna il mito della decadenza; ma la loro «virtù» è compromessa da un oscuro destino familia-

re, di follia e decadenza, per cui alla fine si riveleranno inadatte al compito. ◗ La struttura narrativa è assai fragile: il racconto non conosce una vera successione di giorni e stagioni; ogni vicenda resta sospesa in un presente indefinito, e all’assenza di tempo corrisponde la fissità dello spazio narrativo. D’altra parte l’interesse dell’autore non è calamitato dall’intreccio o dai personaggi; questi elementi servono solo quale cassa di risonanza per le idee del protagonista, convinto assertore e incarnazione del superuomo nietzschiano.

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Contesto

Gabriele D’Annunzio

Il programma del superuomo

Monografia Raccordo

Le vergini delle rocce, libro I, passim Anno: 1895 Temi: • la concezione aristocratica del mondo • il disprezzo verso la massa, che non coltiva né bellezza né ideali • l’appello ai poeti e quello ai nobili, affinché reagiscano alla decadenza del tempo presente In questi passi, tratti tutti dal primo libro del romanzo, la parola di Claudio Cantelmo enuclea i fondamenti ideologici del superuomo dannunziano. un’affermazione ispirata dall’ideologia aristocratica e antidemocratica di Nietzsche

la polemica contro il proprio tempo, al quale il personaggio si sente del tutto estraneo

i poeti avvertono disagio, ma non sanno ancora reagire

estetismo e superomismo si fondono in questo slogan

La mia coscienza era giunta all’arduo grado in cui è possibile comprendere questo troppo semplice assioma:1 – Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi ampliato e ornato2 nel corso del tempo e andranno sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro. Il mondo, quale oggi appare, è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono3 a coloro che debbono lavorare. – E riconobbi quindi la più alta delle mie ambizioni nel desiderio di portare un qualche ornamento, di aggiungere un qualche valor nuovo a questo umano mondo che in eterno s’accresce di bellezza e di dolore. [...] Talvolta dalle radici stesse della mia sostanza4 – là dove dorme l’anima indistruttibile degli avi – sorgevano all’improvviso getti di energia così veementi e diritti ch’io pur mi rattristavo riconoscendo la loro inutilità in un’epoca in cui la vita pubblica non è se non uno spettacolo miserabile di bassezza e di disonore. [...] L’arroganza delle plebi5 non era tanto grande quanto la viltà di coloro6 che la tolleravano o la secondavano. Vivendo in Roma, io era testimonio delle più ignominiose violazioni7 e dei più osceni connubii8 che mai abbiano disonorato un luogo sacro.9 [...] Chiedevano intanto i poeti, scoraggiati e smarriti [...]: «Qual può essere oggi il nostro officio?10 Dobbiamo noi esaltare in senarii doppii11 il suffragio universale? Dobbiamo noi affrettar con l’ansia dei decasillabi la caduta dei Re, l’avvento delle Repubbliche, l’accesso delle plebi al potere? [...]». Ma nessuno tra loro, più generoso e più ardente, si levava a rispondere: «Difendete la Bellezza! È questo il vostro unico officio. Difendete il sogno che è in voi! poiché oggi non più i mortali tributano onore e riverenza ai cantori alunni della Musa12 che li predilige, come diceva Odisseo,13 difendetevi con tutte le armi, e pur con le beffe

1. assioma: principio, fondamento. 2. ornato: abbellito. Il concetto estetizzante di bellezza è presente in tutta la pagina. 3. sentono: sono in grado di provare sentimenti e sensazioni. 4. sostanza: natura profonda. 5. plebi: termine spregiativo per “popolo” (proletariato e piccola borghesia). 6. coloro: i politici, che per vigliaccheria assecondano l’arroganza generale; perciò non riescono a esercitare il proprio dominio sulla «plebe».

7. ignominiose violazioni: profanazioni della sacralità di Roma; allude sia alle speculazioni edilizie, che sul finire dell’Ottocento mutarono il volto urbanistico della città, sia agli scandali originati da una gestione affaristica della politica. 8. connubii: mescolanze, contaminazioni. 9. luogo sacro: la capitale del Regno d’Italia, Roma, era «sacra» per il suo passato glorioso. 10. officio: compito (latinismo). 11. senarii doppii: versi classici compo-

sti di doppi senari (cioè di 12 sillabe). Era stato uno dei metri preferiti da Carducci, ripreso anche da D’Annunzio nelle sue poesie giovanili. L’espressione ha qui valore ironico: non si può mettere in versi (e per giunta in versi solenni) un argomento tanto volgare come la vita democratica. 12. cantori... Musa: i poeti sono gli alunni prediletti dalle Muse, le dee ispiratrici delle arti. 13. Odisseo: antico nome di Ulisse, l’eroe

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Tra Ottocento e Novecento

l’orgoglio di chi si ritiene comunque superiore, perché esclude i «molti» dalla verità anche i nobili, come i poeti, sono chiamati a difendere il proprio privilegio dall’insidia della folla contro la rivoluzione francese e la sua affermazione di uguaglianza sociale

se queste valgono meglio delle invettive. [...] Difendete il Pensiero ch’essi minacciano, la Bellezza ch’essi oltraggiano! Verrà un giorno in cui essi tenteranno di ardere i libri, di spezzare le statue, di lacerare le tele. Difendete l’antica liberale opera14 dei vostri maestri e quella futura dei vostri discepoli, contro la rabbia degli schiavi ubriachi. Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo.15 Un ordine di parole può vincere d’efficacia micidiale una formula chimica. Opponete risolutamente la distruzione alla distruzione!». E i patrizii,16 spogliati d’autorità in nome dell’uguaglianza, considerati come ombre d’un mondo scomparso per sempre, infedeli i più alla loro stirpe e ignari o immemori delle arti di dominio professate dai loro avi, anche chiedevano: «Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi ingannare il tempo e noi stessi cercando di alimentare tra le memorie appassite17 qualche gracile speranza, sotto le volte istoriate di sanguigna mitologia,18 troppo ampie pel19 nostro diminuito respiro? O dobbiamo noi riconoscere il gran dogma dell’Ottantanove,20 aprire i portici dei nostri cortili all’aura popolare, coronar di lumi i nostri balconi di travertino21 nelle feste dello Stato, diventar soci dei banchieri ebrei,22 esercitar la nostra piccola parte di sovranità riempiendo la scheda del voto coi nomi dei nostri mezzani,23 dei nostri sarti, dei nostri cappellai, dei nostri calzolai, dei nostri usurai e dei nostri avvocati?». G. D’Annunzio, Prose di romanzi, vol. II, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, A. Mondadori, Milano 1989

della furbizia e dell’inganno che suppliscono alla forza. 14. l’antica... opera: la poesia, qui chiamata liberale (tale da rendere libero chi la coltivi) come nel Medioevo. 15. il Verbo: nel senso che il poeta possiede la parola divina. Il lessico religioso (qui si cita il Vangelo secondo Giovanni) serve solo a conferire al discorso un’aria preziosa: infatti D’Annunzio non ha alcun intento religioso.

16. i patrizii: i nobili; il termine richiama le lotte dell’antica Roma tra patrizi e plebei. 17. memorie appassite: i ricordi di una grandezza ormai tramontata. 18. sotto le volte... mitologia: si riferisce agli affreschi che decorano le dimore aristocratiche e narrano storie mitologiche, che non sono più di stimolo per i nobili che vi abitano. 19. pel: per il. 20. il gran dogma dell’Ottantanove: i

principi di libertà, uguaglianza e fraternità, consacrati dalla rivoluzione francese del 1789. Essi sancirono la fine della superiorità dei nobili e divennero perciò il dogma della borghesia e del popolo. 21. travertino: un marmo pregiato, che evidenzia la raffinatezza delle case nobili. 22. banchieri ebrei: allude all’aristocrazia francese, scesa a patti con i Rotschild e con altri banchieri di origine ebrea. 23. mezzani: dipendenti.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Cantelmo sa toccare le corde giuste sia per convincere gli intellettuali, che hanno perduto il loro tradizionale prestigio sociale, sia per sollecitare l’aristocrazia, che si sta invilendo nella nostalgia di un passato glorioso. Il suo discorso si sviluppa in tre sequenze: • la proclamazione dell’ideologia politica del superuomo, impregnata di estetismo e senso della superiorità dei pochi sui «molti», e la proclamazione del suo compito sociale: affermare il primato della bellezza, intesa in senso lato; • l’appello ai poeti, invitati a difendere la Bellezza e la tradizione (i libri, le statue, le tele) che da essa deriva, a non contaminare la poesia con argomenti troppo bassi, e a rendersi coscienti della propria superiorità intellettuale; • l’appello ai patrizii a non scendere a patti con la gestione 328

democratica della politica. I nobili devono rivendicare la propria naturale superiorità di stirpe, che non può mescolarsi con l’esistenza comune e volgare: essi per esempio non dovranno accettare il sistema delle votazioni, altrimenti si ritroveranno governati dai loro sarti, cappellai, calzolai ecc. ■ Il brano costituisce una violenta requisitoria (atto d’accusa) e, allo stesso tempo, un appello (invito all’azione) e un proclama ideologico-politico. 1. Atto di accusa: lo sdegno verso lo spettacolo indecoroso della politica contemporanea (...uno spettacolo miserabile di bassezza e di disonore). 2. Appello: il superuomo non sta inerte a guardare cosa accade; prende l’iniziativa per modificare la realtà. Arringa dunque la folla utilizzando il fascino della parola e sollecitan-

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LAVORIAMO SUL TESTO 1. Riassumi l’appello rivolto ai poeti e quello ai patrizii. Quali esortazioni, rispettivamente, sono rivolte loro? Da quali argomenti vengono sostenute? (max 10 righe) 2. Nel brano il concetto di bellezza torna in molte e diverse forme. Rintraccia tutte le espressioni che lo riguardano. 3. Che cosa pensa Cantelmo del papa e del re? 4. Cerca nel testo e illustra i diversi riferimenti mitologici. Rifletti poi sul perché il superuomo vi faccia ricorso. 5. D’Annunzio interpreta (e semplifica) il «superuomo» di Nietzsche in un superuomo-esteta dalle prospettive più concrete, anche se più limitate. Individua nel testo gli elementi che definiscono di questo superuomo-esteta: • in che cosa egli è (o si proclama) «superuomo»? • E per quali aspetti egli contemporaneamente è, e si mostra, «esteta»? 6. Nel Piacere Andrea Sperelli proclamava il proprio disprezzo per i «bruti morti brutalmente» nella battaglia coloniale di Dogali: quali analogie riscontri con le idee espresse in questo testo?

D’Annunzio e il fascismo Il brano delle Vergini delle rocce costituisce quasi un’anticipazione dei movimenti antidemocratici che si svilupperanno nei primi decenni del Novecento. Fu proprio D’Annunzio a promuovere presso i lettori comuni l’ideologia antigiolittiana e antiparlamentarista, anticipando così i due presupposti ideologici fondamentali del fascismo. Molti motivi dannunziani (come l’idea che la guerra è una cosa «bella», l’imperialismo coloniale, l’esaltazione della forza, il mito della potenza, incarnata nel superuomo) saranno infatti sfruttati dal regime fascista nella sua ricerca del consenso presso l’opinione pubblica piccolo borghese. Fu D’Annunzio, in Italia, il primo a promuovere quel processo di «estetizzazione della politica» (W. Benjamin) poi maturato da fascismo e nazismo

(mentre, di contro, il comunismo darà vita, sempre secondo Benjamin, a una «politicizzazione dell’arte»). Fu soprattutto il linguaggio tribunizio e oratorio del D’Annunzio interventista (1915) e «fiumano» (1919-20) a divenire il modello della comunicazione emotiva e diretta stabilita dal regime fascista con le masse. Sul piano storico, soprattutto l’impresa di Fiume diede l’esempio concreto di come una piccola fazione potesse sovvertire le istituzioni, alleandosi con gli ambienti militari e industriali più sensibili agli slogan del patriottismo e del combattentismo. Dopo l’impresa fiumana, solo la rapida ascesa di Mussolini impedì lo sviluppo del sogno che D’Annunzio stava coltivando, ovvero porsi alla guida di una rivolta nazionale contro il crescere dei movimenti di sinistra e delle lotte sociali.

Nel 1922 D’Annunzio cercò di favorire la pacificazione nazionale, organizzando un incontro al Vittoriale tra Francesco Saverio Nitti (il presidente del Consiglio che nel 1919-20 aveva fronteggiato l’impresa di Fiume) e Mussolini. L’abboccamento però fallì, per una strana (e tuttora misteriosa) caduta dello stesso D’Annunzio da una finestra. Dopo la marcia su Roma, di cui era all’oscuro, D’Annunzio rimase diffidente verso Mussolini, il quale da parte sua lo temeva per la fama e il carisma di cui godeva presso un ampio pubblico; in particolare lo scrittore non accettò mai l’alleanza italo-tedesca. Tuttavia, per stanchezza o per opportunismo, lasciò che il fascismo sfruttasse il prestigio del suo nome facendosi relegare ai margini, confinato nella sua villa-museo di Gardone e imbalsamato tra le glorie della nazione italiana.

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Monografia Raccordo

do all’azione, mescolando forza e astuzia secondo necessità: benché infatti si rivolga ai poeti e ai patrizii, è evidente che di fatto sta cercando di persuadere la folla a seguirlo. 3. Proclama politico: l’ammirazione per le forme di vita e di potere aristocratiche e superiori (il re, il papa, i nobili) è mista a tristezza, perché esse appaiono ormai «rovinate» in nome del principio di uguaglianza. Per questo il superuomo invita i nobili ad agire, subito, per affermare una visione aristocratica del mondo e del potere. ■ Per quanto riguarda lo stile, il testo possiede una natura «gridata», intrinsecamente violenta. Il proclama di Cantelmo costituisce un esempio concreto dell’oratoria superomistica: è un lungo monologo, ricco di immagini preziose e di enfasi retorica che, in realtà, nascondono una sostanziale povertà di idee. Del resto il superuomo non ha bisogno di argomentare o dimostrare nulla; la sua «missione» sta tutta nell’affermare, nel sentenziare, nel dare ordini. Il suo linguaggio è aggressivo ed eccede in sentenze per impressionare i destinatari. Per D’Annunzio parola e cultura sono strumenti di potere, utili a mutare la storia, prima del pensiero; finalizzati a dominare, più che a liberare l’umanità.

Contesto

Gabriele D’Annunzio

L’OPERA

ALCYONE Laboratori interattivi • Meriggio • Novilunio

La «grande Estate», e il suo declinare ◗ Terzo libro delle Laudi, pubblicato sul finire del 1903, Alcyone (inizialmente Alcione) • il capolavoro della poesia dannunziana. Lo scrittore celebra la «grande Estate», da giugno a settembre, in una serie di 88 componimenti di metro e lunghezza varia, che costituiscono il diario lirico di unÕestate realmente trascorsa tra Fiesole e la Versilia nel 1902: Alcione era una delle Pleiadi dellÕantico mito greco, sorella di Elettra e di Maia, e venne appunto trasformata in uccello marino. • Un primo gruppo di canti (sezione I: Lungo l’Affrico, La sera fiesolana ecc.) celebra il paesaggio agreste toscano nel momento di passaggio tra la primavera e lÕestate; • i canti della sezione II (Bocca d’Arno, Meriggio, La pioggia nel pineto ecc.) celebrano la pienezza dellÕestate sullo sfondo della pineta e del mare toscano; un lungo ditirambo (lirica ininterrotta che nellÕantica Grecia svolgeva il culto del dio Dioniso) riprende la figura mitologica di Glauco trasformato in dio marino; • il motivo della «metamorfosi» (trasformazione) della natura in forme umane • al centro dei canti della sezione III (L’oleandro, L’onda, Stabat nuda Aestas): anche qui cÕ• un ditirambo, dedicato allÕestate, personificata in una figura femminile; • la sezione IV ripropone il tema della personificazione della natura (Versilia), e in una serie di componimenti intitolata I madrigali dell’estate introduce il tema della fine dellÕestate; • lÕultimo gruppo di canti (sezione V) celebra infine il passaggio tra lÕestate e lÕautunno, nella malinconia settembrina (Tristezza, Undulna, Novilunio, I pastori).

Il superuomo immerso nella natura ◗ In Alcyone, terzo libro delle Laudi (E p. 307), domina ancora lÕespansione dellÕio e della sua parola. Ora per˜ il poeta-superuomo si lascia alle spalle lÕeroismo civile e guerresco di Elettra, secondo libro delle Laudi, per dedicarsi a cantare la «grande Estate», similmente a quanto avveniva in Canto novo (da poco ripubblicato nel 1896): come in quella raccolta giovanile aveva abbandonato i libri dopo lÕesame di licenza liceale, anche in questo caso lo scrittore in vacanza abbandona il proprio ruolo ufficiale di letterato e sÕimmerge nella natura estiva. Non lo muove un fine intellettuale o conoscitivo: cerca piuttosto dÕimmergersi in quel grande corpo animato che è la natura, utilizzando non la ragione, ma i sensi, protesi a cogliere sapori, odori, vibrazioni di tutto ci˜ che vive. ◗ Immerso nella natura versiliese, tra le foci dellÕArno e del Serchio, il poeta ossessivamente la «loda» (La sera fiesolana) e magicamente si dissolve in essa (La pioggia nel pineto); ne interpreta le voci segrete, interroga le misteriose presenze femminili che essa evoca, modula le proprie sensazioni e la propria voce allÕunisono con lÕinfinita varietˆ dei toni e delle voci della pioggia, del mare, del vento. È il trionfo dellÕestetismo (sensazione corporea) e del vitalismo (gioia sfrenata di vivere, di animarsi). Il poeta avverte la sensualitˆ diffusa in tutto lÕuniverso, come linfa vitale e legge biologica di ogni creatura; e piega la propria voce ad adorare la natura sensibile, a confondersi in essa, per attingere cos“ lÕunica dimensione «divina» che conosce.

Una trama musicale ◗ Mentre il libro della natura si dispiega in tutto il suo splendore, come un paesaggio dÕarte e di bellezza, lÕesuberante virtuosismo sonoro e canoro del poeta dˆ fondo a tutta la gamma di percezioni, di ritmi, suoni, colori. Di contro, spesso manca un vero sviluppo narrativo e di pensiero: molte liriche, dopo un avvio suggestivo, si disperdono in un puro accumulo di particolari. Ci˜ che conta di pi•, per DÕAnnunzio, non sono i contenuti, ma le forme, o meglio, i suoni: la trama di Alcyone • tutta musicale e le parole appaiono scelte essenzialmente per i loro valori fonici. Al centro dellÕispirazione, dunque, cÕ• una cadenza, cÕ• un ritmo, non un sentimento o una visione. 330

La sera fiesolana Alcyone Anno: 1899 Temi: • i rumori, gli odori e le intense sensazioni di un tramonto nella campagna toscana • la presenza, appena evocata, della donna amata • l’immersione «pànica» nella natura La lirica fu scritta da D’Annunzio nel giugno 1899 alla «Capponcina»; venne poi collocata all’inizio di Alcyone. Siamo di sera, nei dintorni di Fiesole (vicino a Firenze), tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate. Il poeta osserva (o meglio, sembra assaporare) un tramonto dopo la pioggia, in compagnia dell’amata (all’epoca, Eleonora Duse).

il «tu», tipico della poesia dannunziana, è riferito alla donna amata dal poeta scambio di sensazioni: la scala sembra annerirsi, mentre i riflessi lunari sembrano rischiarare il tronco dell’albero

la personificazione della Sera, ritratta come una creatura viva e palpitante

Fresche le mie parole ne la sera ti sien1 come il fruscìo2 che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie3 silenzioso e ancor s’attarda4 a l’opra lenta su l’alta scala che s’annera contro il fusto che s’inargenta con le sue rame5 spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie cerule6 e par che innanzi a sé distenda un velo7 ove il nostro8 sogno si giace9 e par che la campagna già si senta da lei sommersa10 nel notturno gelo11 e da lei beva la sperata pace12 senza vederla.13 Laudata sii14 pel tuo viso di perla,15 o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi16 ove si tace l’acqua del cielo!

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Dolci le mie parole ne la sera ti sien come la pioggia che bruiva17 Schema metrico: 3 strofe di 14 versi ciascuna; la misura dei versi varia (endecasillabi, novenari, settenari, quinari e ipermetri), come libera è la disposizione di rime e assonanze. Le strofe sono legate da una strofetta di 3 versi, quasi come un’antifona alla sera. 1. Fresche... ti sien: le mie parole siano, per te, rasserenatrici. L’aggettivo fresche (che rimanda a una sensazione tattile), riferito a parole (che rimanda a una sensazione uditiva), realizza una sinestesia, perché attribuisce al termine astratto parole una qualità fisica (la freschezza). 2. fruscìo: si noti l’allitterazione delle f, con effetto onomatopeico; il frusciare delle foglie umide nella mano, infatti, apporta una sensazione di freschezza.

3. chi le coglie: il contadino che pota le fronde in eccesso. 4. s’attarda: indugia nel lavoro (opra). 5. rame: rami. La forma rara della parola è una scelta tipica di D’Annunzio. 6. a le... cerule: la luna è ormai in vista, sta per entrare nel cielo, di colore azzurro pallido. L’enjambement rallenta l’apparizione e la rende stilisticamente più elegante. 7. un velo: il diffuso chiarore che segnala il punto da cui sorgerà l’astro lunare. 8. nostro: del poeta e della sua amata. 9. si giace: si abbandona. 10. da lei sommersa: compenetrata dalla luce della luna. 11. notturno gelo: la frescura della notte. 12. sperata pace: l’atteso refrigerio della

rugiada, dopo la calda giornata estiva. 13. senza vederla: malgrado la luna non sia ancora visibile. 14. Laudata sii: D’Annunzio cita il francescano Cantico delle creature. 15. pel... perla: cioè per il chiarore lunare. Queste immagini richiamano i poeti medievali; la sera è come una donna, su cui i riflessi iridescenti del cielo lunare si diffondono quale «perla in bianca fronte»(Dante). 16. umidi occhi: pozzanghere e specchi d’acqua originati dalla pioggia (l’acqua del cielo) recente. È ancora un’immagine antropomorfica, che cioè attribuisce qualità umane a un oggetto inanimato. L’accostamento tra sensazione uditiva (si tace) e sensazione visiva (gli occhi) origina una sinestesia. 17. bruiva: sussurrava; onomatopea.

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Contesto

Gabriele D’Annunzio

Tra Ottocento e Novecento

la pioggia di giugno è come il saluto d’addio della primavera, anch’essa personificata

nel Cantico di san Francesco tutte le creature erano chiamate «fratelli» e «sorelle»; il poeta, almeno esteriormente, si richiama a quella religiosità

il poeta-esteta si presenta come colui che conosce, e rivela, i segreti della natura

il pendio delle colline è paragonato a labbra chiuse: ancora la compenetrazione uomo-natura

tepida e fuggitiva,18 commiato lacrimoso de la primavera, su i gelsi e su gli olmi e su le viti e su i pini dai novelli rosei diti19 che giocano con l’aura che si perde,20 e su ‘l grano che non è biondo ancóra e non è verde,21 e su ‘l fieno che già patì22 la falce e trascolora,23 e su gli olivi, su i fratelli olivi che fan di santità pallidi24 i clivi e sorridenti.25

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Laudata sii per le tue vesti aulenti,26 o Sera, e pel cinto27 che ti cinge come il salce28 il fien che odora! Io ti dirò verso quali reami d’amor ci chiami il fiume,29 le cui fonti eterne a l’ombra de gli antichi rami30 parlano nel mistero sacro dei monti; e ti dirò per qual segreto le colline su i limpidi orizzonti s’incùrvino come labbra che un divieto chiuda, e perché31 la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire32 e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare che ogni sera l’anima le possa amare d’amor più forte.

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Laudata sii per la tua pura morte,33 o Sera, e per l’attesa34 che in te fa palpitare le prime stelle!

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G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, cit. 18. fuggitiva: perché di breve durata. 19. novelli rosei diti: i germogli color di rosa dei pini, a forma di aghi, sembrano dita sottili. 20. giocano... perde: si muovono, come se giocassero, ondeggiando alla brezza (l’aura che si perde) che soffia qua e là. 21. non è verde: è il grano di giugno, in via di maturazione. 22. già patì: è già stato falciato, con sua sofferenza quasi umana; è un’altra nota antropomorfica. 23. trascolora: cambia colore, dopo essere stato tagliato, e ingiallisce. 24. fan... pallidi: gli ulivi, con il loro colore

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verde-argenteo, diffondono sulle colline fiorentine una tinta pallida, che è poi il colore della penitenza (santità). 25. sorridenti: per l’allegro tremore delle foglie al vento. 26. aulenti: profumate. Queste vesti indefinite sono i rumori, gli odori, i colori della vasta campagna circostante. La sera è definita ancora una volta con immagini antropomorfiche. 27. cinto: il cerchio dell’orizzonte è come una cintura, che avvolge la sera. Il riferimento nasce, per associazione di idee, dalla metafora della veste. 28. il salce: i rami di salice (che scendono

sino a terra) cingono i fasci di fieno odoroso, perché appena tagliato. 29. il fiume: l’Arno, che si può ammirare dalle colline di Fiesole. L’acqua di un fiume è un elemento spesso presente negli antichi miti di metamorfosi. 30. antichi rami: i faggi secolari del Falterona, presso la sorgente dell’Arno. 31. perché: ti dirò il motivo per cui la volontà di rivelare il proprio segreto le renda così attraenti. 32. desire: desiderio. 33. pura morte: il trascolorare della sera nella fredda notte. 34. l’attesa: della notte.

IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ Possiamo così riassumere il contenuto del componimento: • il poeta si mette in ascolto del dolce paesaggio collinare, illuminato dalla tenue luce della sera; • in esso scorge una soffusa malinconia; • in quest’atmosfera rarefatta percepisce la segreta melodia

di odori e suoni della natura al tramonto. ■ Il motivo dominante della lirica è la reciproca compenetrazione fra il paesaggio naturale nell’ora della sera e gli stati d’animo del poeta. Fra le due dimensioni si stabiliscono segrete corrispondenze.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Il tema centrale di Alcyone è la metamorfosi (mutamento e trasformazione) di tutte le cose. Anche nella Sera fiesolana il ritmo della poesia è quello della metamorfosi, del mutamento, acceso dalle continue «corrispondenze» che si generano tra i diversi piani della realtà. ■ Ciò che risulta è uno scenario che al poeta pare un mistero sacro. Ma la religiosità di D’Annunzio è molto particolare, perché non conosce trascendenza. L’elemento sacro, nel testo, non è dato dall’elevazione spirituale (dalla terra al cielo), ma da un continuo passaggio di stato, dalla terra al-

la terra, da una condizione terrena a un’altra: per esempio, scala/tronco; si resta sempre nell’ambito naturale e terreno. L’unico risultato è confondere e ribaltare continuamente i piani percettivi e tutto si risolve in questa continua metamorfosi. ■ Alla fine, l’unico «dio» dell’universo resta il poeta: l’unico a conoscere questa legge della metamorfosi universale, l’unico che sappia interamente protendersi nella natura (fino a confondersi con essa), per pura forza di sensazioni. Il poeta si mette in ascolto, tende allo spasimo la propria capacità percettiva: è il trionfo della poetica della sensazione.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi 1. Nella prima pubblicazione della Sera fiesolana, sulla «Nuova Antologia» del novembre 1899, ogni strofa portava un sottotitolo: La natività della Luna, La pioggia di giugno, Le colline. a. Completa l’indicazione del poeta riassumendo il contenuto di ciascuna strofa (max 5 righe). – La natività della Luna – La pioggia di giugno – Le colline .............................................................................................. .............................................................................................. .............................................................................................. .............................................................................................. .............................................................................................. 2. A uno sguardo più attento, ciascuna strofa appare autonoma dalle altre, quasi fosse una lirica a sé stante collegata alle altre da una ripresa: i tre versi introdotti da Laudata sii. sì no a. Condividi questa considerazione? b. Se sì, spiega le tue ragioni, citando qualche verso significativo della poesia (max 5 righe). .............................................................................................. .............................................................................................. .............................................................................................. .............................................................................................. ..............................................................................................

3. Il secondo verso si rivolge a un non nominato interlocutore o interlocutrice (ti sien...). a.Vi sono altri riferimenti, nel testo, a questo interlocutosì no re? Se sì, in quale punto o in quali punti? .............................................................................................. .............................................................................................. b. Chi potrebbe essere, secondo te, questo interlocutore? .............................................................................................. .............................................................................................. c. Quale funzione svolge, nella lirica? .............................................................................................. .............................................................................................. 4. L’altra presenza umana percepibile nel testo è quella di un contadino in cima a una scala, che però scompare subito. a. Rintraccia questa presenza nel testo. Che cosa sta facendo? a osserva la luna b sta potando le viti c si nasconde d altro (specificare cosa) b. Come è rappresentata tale figura? a con nettezza di particolari b in modo indistinto Motiva in breve la risposta. .............................................................................................. .............................................................................................. 333

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ANALISI DEL TESTO

Contesto

Gabriele D’Annunzio

Tra Ottocento e Novecento

5. In tutto il libro di Alcyone viene cantata l’esperienza pànica dell’autore, il suo desiderio di sentirsi parte integrante del «tutto», elemento tra gli altri elementi della natura. a. Dai una definizione di «panismo». .............................................................................................. .............................................................................................. b. Sottolinea poi nel testo elementi a convalida di questa interpretazione del componimento: essi devono cioè illustrare l’immedesimazione dell’uomo nella natura e della natura nell’uomo.

{ Forme e stile 6. Uno dei procedimenti più moderni di questa poesia consiste nel continuo scambio di sensazioni e nell’accumulo dei paragoni: D’Annunzio utilizza le soluzioni più innovative dei lirici francesi, che lascerà in eredità agli scrittori italiani successivi. a. Tra questi procedimenti spicca l’uso della sinestesia. Che cos’è una sinestesia? ..............................................................................................

LAVORIAMO SU

7. D’Annunzio canta l’indefinitezza dei contorni della realtà; qui, in particolare, egli è attratto dai momenti in cui i colori cambiano, per il mutare della luce. Egli si avvicina così alla poetica della nuance, della «sfumatura», propria di Paul Verlaine, uno dei maestri del Decadentismo. a. In quali versi o espressioni si riscontra più chiaramente tale senso d’indefinitezza e di nuance? Sottolineali nel testo e commentali in breve. .............................................................................................. .............................................................................................. ..............................................................................................

LINGUA E LESSICO

1. D’Annunzio è sempre molto attento alla dimensione sonora del linguaggio, alla sua capacità di riprodurre onomatopeicamente i suoni della natura. Già nei primi due versi di questa lirica ricorrono le consonanti sibilanti e fricative s e f e le allitterazioni (Fresche... / fruscìo... fan... foglie). a. Rintraccia nella lirica un altro o più punti in cui rilevi la presenza di questa sonorità tanto pronunciata. Evidenzia i fenomeni in atto e commentali brevemente. .............................................................................................. .............................................................................................. .............................................................................................. .............................................................................................. b. Per quanto riguarda il fenomeno di «onomatopea» o «fonosimbolismo», osserva, in particolare, l’inizio della seconda strofa: quale fenomeno naturale viene imitato? .............................................................................................. .............................................................................................. .............................................................................................. .............................................................................................. 334

b. Individuane una all’inizio della lirica: dove si trova, in particolare? .............................................................................................. .............................................................................................. .............................................................................................. c. Ve ne sono altre? Dove? .............................................................................................. .............................................................................................. ..............................................................................................

2. Il lessico della Sera fiesolana è molto ricercato e «prezioso», lontano dall’uso comune della lingua. Osserva per esempio, nella prima strofa, l’impiego di verbi come «annerarsi» o «inargentarsi», di sostantivi come rame, di forme tronche come par ecc. a. Rintraccia in un’altra strofa a tua scelta gli elementi di questa preziosità lessicale. – nomi ............................................................................................ – aggettivi ............................................................................................ – verbi ............................................................................................ – altre forme ............................................................................................

La pioggia nel pineto Alcyone Anno: 1902 Temi: • la natura nella sua manifestazione più musicale • l’amore-gioco, l’amore-illusione • la metamorfosi del poeta e dell’amata in una pineta in riva al mare • l’incanto della pioggia sui corpi degli amanti La pioggia nel pineto, composta nel 1902, appartiene al secondo gruppo di liriche di Alcyone. La primavera ha ormai ceduto il posto all’estate e il paesaggio è quello del litorale toscano, vicino alla foce dell’Arno, con ampi tratti boscosi che si affacciano sul mare. L’occasione delle quattro lunghe strofe è il rumore provocato dalla pioggia, che batte sulle fronde della pineta: seguendo il suo ritmo, il poeta ed «Ermione», la donna che è con lui, s’immergono gradualmente nella natura, fino a compenetrarsi con essa. L’intento del poeta (come già nella Sera fiesolana) è quello di ricreare il suono degli elementi della natura, componendo un lungo spartito musicale, nella dimensione sonora della «strofa lunga». In complesso la lirica costituisce il risultato artisticamente migliore di Alcyone.

il poeta invita al silenzio per porsi in ascolto della voce della natura

Taci.1 Su le soglie2 del bosco non odo parole che dici umane;3 ma odo parole più nuove che parlano4 gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici5 salmastre6 ed arse,7 piove su i pini scagliosi ed irti,8 piove su i mirti divini,9 su le ginestre fulgenti10 di fiori accolti,11 su i ginepri folti di coccole aulenti,12

Schema metrico: 4 strofe lunghe di 32 versi ciascuna; la loro misura è varia (dal ternario al novenario), con predilezione per il senario. Libero è il gioco delle rime e assonanze; tutte le strofe si concludono con la parola-rima Ermione. 1. Taci: l’invito del poeta è rivolto alla sua compagna, Ermione, nominata solo al v. 32. 2. su le soglie: ai margini. 3. umane: del linguaggio umano.

4. che parlano: cioè, “pronunciate dalle”. Queste, ovviamente, sono parole solo in senso metaforico, trattandosi delle voci e dei rumori della natura. 5. tamerici: arbusti sempreverdi che crescono sui litorali. Pascoli, nel 1891, aveva utilizzato la forma latina Myricae per intitolare la sua prima raccolta di versi. 6. salmastre: dal sapore di sale, perché impregnate di salsedine. 7. arse: riarse dal sole. 8. scagliosi ed irti: i pini hanno corteccia

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ruvida, a scaglie, e foglie aghiformi e pungenti (irte). 9. divini: il mirto, arbusto sempreverde mediterraneo, era anticamente la pianta sacra a Venere e all’amore. 10. fulgenti: rese più brillanti dalla pioggia. 11. accolti: a grappolo. 12. coccole aulenti: bacche profumate. L’aggettivo «aulente», “odoroso”, è frequente in D’Annunzio.

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Contesto

Gabriele D’Annunzio

Tra Ottocento e Novecento

inizia il processo di metamorfosi del poeta e di Ermione nella natura vegetale

una definizione della poesia e della sua capacità d’illudere, attra verso la musica dei suoi versi

alla natura sono attribuite qualità umane: è il procedimento antropomorfico caro a D’Annunzio il poeta e la sua compagna vivono ormai la stessa esistenza degli alberi

piove su i nostri vólti silvani,13 piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti14 leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella,15 su la favola bella16 che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione.17 Odi? La pioggia cade su la solitaria verdura18 con un crepitìo19 che dura e varia nell’aria secondo le fronde più rade, men rade.20 Ascolta. Risponde al pianto21 il canto delle cicale che il pianto australe non impaura,22 né il ciel cinerino.23 E il pino ha un suono, e il mirto altro24 suono, e il ginepro altro ancóra, stromenti25 diversi sotto innumerevoli dita. E immersi noi siam nello spirto silvestre,26 d’arborea vita viventi;

13. silvani: compenetrati dalla vita del bosco (silva in latino). 14. vestimenti: vestiti, abiti. 15. i freschi... novella: rinnovata dalla pioggia, l’anima, cioè la mente, fa nascere pensieri nuovi (freschi). 16. la favola bella: l’amore fra il poeta e l’amata, o forse l’illusione della poesia. 17. Ermione: lo pseudonimo riservato da D’Annunzio a Eleonora Duse. Nel mito greco, Ermione era figlia di Elena e di Me-

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nelao, due protagonisti della guerra di Troia narrata nell’Iliade. 18. la solitaria verdura: il verde, le fronde degli alberi, nella pineta deserta (solitaria). 19. crepitìo: il rumore della pioggia sulle foglie. 20. varia... men rade: il fogliame più o meno folto fa variare il suono della pioggia. 21. pianto: quello della pioggia. Al v. 43 il pianto sarà detto australe perché la pioggia è portata dall’austro, vento del sud.

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22. non impaura: non spaventa; è voce letteraria. 23. cinerino: color cenere e dunque nuvoloso. Le nubi non distolgono le cicale dal loro frinire (il canto del v. 41). 24. altro: diverso. 25. stromenti: le piante sembrano “strumenti” musicali sollecitati da innumerevoli dita, ovvero le gocce di pioggia che cadono. 26. nello spirto silvestre: nell’anima, nella vita stessa della selva.

per le striature argentate delle gocce, o forse per il timbro argentino del suo cadere: così D’Annunzio scambia e moltiplica le sensazioni

Ascolta, ascolta. L’accordo delle aeree31 cicale a poco a poco più sordo32 si fa sotto il pianto che cresce; ma un canto vi si mesce33 più roco che di laggiù sale, dall’umida ombra remota.34 Più sordo e più fioco s’allenta,35 si spegne. Sola una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non s’ode voce del mare. Or s’ode su tutta la fronda crosciare36 l’argentea37 pioggia che monda,38 il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta. Ascolta. La figlia dell’aria39 è muta; ma la figlia del limo40 lontana, la rana, canta nell’ombra più fonda,

27. ebro: inebriato dalla pioggia. 28. molle: intriso, bagnato. 29. auliscono: esalano profumo (aulenti, v. 19). 30. chiare: perché lavate dalla pioggia e dunque rese più luminose. 31. aeree: in quanto cantano in alto, sugli alberi. La cicala sarà poi detta figlia dell’aria (v. 89).

32. sordo: fievole. Si attenua per l’ingrossare degli scrosci di pioggia (il pianto che cresce). 33. si mesce: vi si mescola un’ulteriore voce (canto) della natura, vale a dire il gracidare delle rane (vv. 90-94), più basso e indistinto (roco) rispetto al canto delle cicale. 34. di laggiù... remota: i termini alludono alla lontananza indefinita (la zona bassa

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Monografia Raccordo

germogliata come una pianta, generata dalla terra e partecipe della sua fisicità

e il tuo vólto ebro27 è molle28 di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono29 come le chiare30 ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione.

Contesto

Gabriele D’Annunzio

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della palude) da cui proviene il gracidare delle rane. 35. s’allenta: si dirada (il gracidio). 36. crosciare: scrosciare con violenza. 37. argentea: perché brilla in controluce. 38. monda: purifica, lava. 39. La figlia dell’aria: la cicala. 40. la figlia del limo: della palude, dove vive la rana.

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Tra Ottocento e Novecento

chi sa dove, chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione. Ermione piange di gioia, per l’ebbrezza che procura l’estatica comunione con la natura

una serie di similitudini per sottolineare l’immedesimazione tra la donna e la vita vegetale

ritorna l’immagine della prima strofa, a confermare che la poesia è un’«illusione» in cui perdersi e svanire musicalmente

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Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca41 ma quasi fatta virente,42 par da scorza43 tu esca. E tutta la vita è in noi fresca aulente,44 il cuor nel petto è come pèsca intatta, tra le pàlpebre gli occhi son come polle45 tra l’erbe, i denti negli alvèoli46 son come mandorle acerbe.47 E andiam di fratta in fratta,48 or congiunti49 or disciolti (e il verde vigor rude50 ci allaccia i mallèoli c’intrica51 i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove!52 E piove53 su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude, o Ermione.

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G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, cit.

41. bianca: pallida, come le altre creature femminili di D’Annunzio; e in contrapposizione con il nero delle ciglia. 42. virente: verdeggiante come le fronde (latinismo). Continua la metamorfosi della donna in una creatura vegetale. 43. da scorza: dalla corteccia di un albero, come le antiche ninfe dei boschi. 44. aulente: profumata. 45. polle: sorgenti d’acqua.

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46. alvèoli: le cavità mascellari in cui sono radicati i denti. 47. mandorle acerbe: e dunque bianche. La stessa immagine è già presente nella novella Terra vergine: «Fiora si voltò, mostrando le due file bianchissime dei denti mandorlati». 48. fratta: cespuglio. 49. congiunti: abbracciati. 50. verde vigor rude: la resistenza dei ce-

spugli sporgenti ritarda la corsa nel bosco (i mallèoli sono le caviglie). 51. c’intrica: intralcia. 52. chi sa dove: replica il v. 94. I due protagonisti vagano per la pineta senza meta. 53. E piove: torna, suggestivamente, il tema della pioggia, insistentemente enunciato nella prima strofa (vv. 20 ss.).

IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ Siamo sul litorale versiliese, nella pineta di fronte al mare. Durante una passeggiata, il poeta e la sua compagna, «Ermione», sono sorpresi da un temporale estivo. Prima lui e poi entrambi si tendono ad ascoltare la pioggia, fino ad abbandonarsi interamente alle voci della natura: un canto di cicale, il gracidare delle rane, sotto lo scroscio sempre più intenso. Ebbri di pioggia, i due amanti si compenetrano

con la vita vegetale, risvegliata intorno a loro dal temporale estivo. ■ Da questo esile spunto narrativo di partenza D’Annunzio ha costruito il suo invito ad ascoltare, ad assaporare fino in fondo il grande canto della natura: una voce interpretata e immortalata dalla parola poetica, la favola bella / che ieri / m’illuse, che oggi t’illude, / o Ermione (vv. 29-32 e 125-128).

IL SIGNIFICATO DEL TESTO Due sono i motivi conduttori del testo. ■ Il primo è il motivo pànico e antropomorfico, ovvero la graduale assimilazione del poeta e della sua compagna nella fresca e rigogliosa vita vegetale, che avviluppa i loro corpi e il loro essere (i vólti del v. 20, i pensieri del v. 26, l’anima del v. 27). Siamo davanti a una delle tipiche metamorfosi cantate in Alcyone. Essa comporta sì un passaggio, un mutamento di condizione, ma nel senso che l’individuo si «reifica» (diviene cosa), mentre la natura si «antropomorfizza» (si umanizza). Questa metamorfosi non comporta, dunque, superamento in senso verticale, come accadeva agli esseri, uomini o animali, celebrati dall’antico poeta latino Ovidio nelle Metamorfosi, che venivano associati in cielo agli dèi.

■ L’altro è il motivo dell’amore. Sotto la pioggia battente si svolge infatti un gioco incessante di fughe e lontananze, di ritorni e abbandoni: i due innamorati si cercano, si lasciano, s’inseguono, senza sosta. La libertà di questo gioco è la stessa del cadere fitto delle gocce nella pineta. Perciò il componimento non è solo un gioco di musica, o un quadro di metamorfosi; è una «danza» o una «fuga» (come ha scritto il critico Gianfranco Contini) sul tema dell’amore-gioco, sull’amore-illusione, che appare e svanisce senza fine e che aspira al totale compenetrarsi dei due amanti, senza raggiungerlo mai (le note servono a spiegare termini e riferimenti eruditi, non a interpretare).

ANALISI OPERATIVA

{ I temi

{ Forme e stile

1. La pioggia nel pineto non svolge un racconto in senso stretto, ma presenta una precisa ambientazione e una situazione narrativa che parte da un contesto iniziale e si evolve di strofa in strofa.

3. Per cogliere il significato complessivo del testo, bisogna considerare l’inversione posta dalla chiusa della quarta strofa (vv. 126-127: che ieri / m’illuse, che oggi t’illude) rispetto alla chiusa della prima strofa (vv. 30-31: che ieri / t’illuse, che oggi m’illude). La prospettiva iniziale viene, di fatto, ribaltata.

a. Qual è la situazione delineata nel testo? b. In quale momento dell’estate si svolge l’azione? c. Chi è Ermione? Quale ruolo svolge, nella lirica? d. Sintetizza ora con le tue parole il contenuto di ciascuna strofa. – I strofa ............................................................................... – II strofa .............................................................................. – III strofa ............................................................................. – IV strofa............................................................................. 2. Il critico Gianfranco Contini ha individuato nel testo la presenza di due motivi, tra loro collegati: l’amore-illusione e l’amore-gioco. a. Sottolinea nella poesia tutte le espressioni e gli accenni all’uno e all’altro motivo.

a. Rifletti sul valore che assume questo capovolgimento. A tuo avviso, il poeta vuole a evidenziare il cambiamento psicologico che si registra in lui, nell’arco della lirica b evidenziare il cambiamento psicologico che si registra nella donna, nell’arco della lirica c confermare che, in sostanza, non c’è vera differenza tra i due protagonisti d affermare la preminenza della natura sulle due figure umane che si rincorrono nel testo Scegli la risposta che ti sembra corretta e motivala in breve. 339

Monografia Raccordo

ANALISI DEL TESTO

Contesto

Gabriele D’Annunzio

Tra Ottocento e Novecento

LAVORIAMO SU

LINGUA E LESSICO

1. L’attenzione dei lettori converge, più che su significati e personaggi della poesia, sulle sue forme: il poeta traduce con abilità il quadro vitalistico della natura toccata dalla pioggia. Il poeta-superuomo scende in gara con gli infiniti suoni della natura, che si fanno tutti parola: realizza così un testo che assomiglia a un gioco di magia, a un illusionismo verbale. Il poeta si serve di alcuni strumenti particolari: • un ritmo ora veloce ora lento; • calchi onomatopeici, come il gracidare della rana; • una sintassi piana ed elementare, con le sue proposizioni brevi o brevissime; • l’alta frequenza della consonante liquida l, a riprodurre la musica dello scroscio della pioggia; • l’inizio di tre strofe consecutive che s’incentra sull’idea di sonorità.

a. Rintraccia nella poesia, per ciascuno dei fenomeni citati, almeno un paio di esempi significativi. – rallentamenti e accelerazioni di ritmo ............................................................................................... – onomatopee ..................................................................... ............................................................................................... – frasi brevi e semplici ....................................................... ............................................................................................... – insistenza sulle consonanti liquide ................................ ............................................................................................... – tre vocativi a inizio strofa ............................................... ...............................................................................................

L’eredità lasciata da D’Annunzio alla letteratura del Novecento Il superuomo dannunziano, dai gesti teatrali ed equivoci, era destinato a sparire presto dalla scena letteraria; altri elementi creati dalla stessa mano, invece, si sono trasmessi nella successiva letteratura novecentesca. Di essa D’Annunzio ci appare un capostipite, per diversi motivi: • contribuì alla conoscenza, in Italia, dei temi e delle atmosfere della letteratura decadente di fine Ottocento e di alcuni protagonisti della cultura europea come Nietzsche e Wagner; • contribuì al superamento del Realismo e del Naturalismo ottocentesco, a prendo la via a una forma diversa di romanzo, di tendenza lirica e musicale (da lui sviluppata anche in generi non romanzeschi, come la prosa «notturna» e di memoria); inoltre, aprì la strada al novecentesco romanzosaggio, al romanzo d’idee, inteso non più come invenzione, ma come prosa di sapore saggistico e filosofico, caratteristica di narratori come Pirandello e Svevo, Thomas Mann e Robert Musil;

340

■ Gaetano Previati, Notturno (1908).

• suggerì ai crepuscolari, con il Poema paradisiaco (1893), il tema del ripiegamento sulle piccole cose della vita quotidiana e la (apparente) semplicità del linguaggio; • inaugurò, con Alcyone, la linea della poesia «pura», in cui i valori formali prevalgono nettamente su quelli del significato. Anche se i poeti italiani successivi si ribelleranno (come faranno i crepuscolari, ostili al canto spiegato delle Laudi e delle Canzoni delle gesta

d’oltremare) o polemizzeranno (Rebora, Montale) con lui, dovranno in ogni caso fare i conti con D’Annunzio quale punto di partenza e di riferimento; • anticipò, con la sua prosa notturna la prosa d’arte e il frammentismo della «Ronda»; • infine, nella debolezza dell’io scrivente di Notturno si riflette la condizione d’instabilità e inutilità dell’intellettuale novecentesco, una condizione sempre spalancata sull’orlo del silenzio.

Gabriele D’Annunzio

Il limite ideologico di Alcyone Il critico Arcangelo Leone de Castris (1929-2010) rimprovera a D’Annunzio una volontà di dominio (sulle cose, sulle forme, sulla folla); proprio questo è il fine dell’estetismo: assegnare al poeta-superuomo la prima e l’ultima parola. Libero istituzionalmente da impegni conoscitivi, in ogni caso risolto in una oggettiva cancellazione dell’umano,1 in una assenza sistematica di apporti o riflessi della coscienza e di emergenze psico-sentimentali2 degli oggetti, il discorso dannunziano realizza, nelle vicende frammentarie di un diario estivo spontaneamente cresciuto sull’onda di una «disinteressata» avventura dei sensi, un rapporto con la realtà naturale di ordine essenzialmente esclamativo-possessivo e attivistico-decorativo:3 nel quale la fisicità anche brutale degli oggetti, poiché solennemente cristallizzata nella cornice encomiastica4 di una bellezza fuori del tempo, non può salvarli dalla sorte tipica degli oggetti immobili, musaici.5 Essi sono disanimati e sostanzialmente intercambiabili, preziosi pretesti di una lode generica e illimitata perché illimitatamente attribuita alla voce che li nomina e li scopre; e cioè pretesti della esibizione e variazione autocelebrativa di un soggetto irrelato,6 che, nell’attimo stesso in cui scatta a possedere le cose, istantaneamente le raggela in una loro giacitura preistorica, libresca e artificiale.7 Certo è che le strutture espressive di Alcyone, a dispetto della varietà dei temi e dei toni, appaiono straordinariamente semplici e ripetitive: combinabili all’infinito nella quantità della loro casistica verbale e oggettuale, ma incredibilmente schematiche e ricorrenti nell’ordine interno del loro tempo di rappresentazione.8 Questo si articola, generalmente, in due momenti o respiri costruttivi [...]: (a) il momento iniziale, d’attacco, l’ictus,9 esclamativo, il movimento enfatico, laudativo o d’invocazione, e (b) il momento della variazione descrittiva, della quantificazione immaginosa,10 cioè della enumerazione letteraria e della dispersione. È un procedimento costante, riconoscibile – con variazioni minime – in tutte le liriche della raccolta. [...] La ridda indifferenziata e la quantità irrelata degli oggetti muti [...] registra così un’unica presenza,11 [...]: la presenza di un io superiore e d’un superiore rapporto col mondo, privato e antisociale, d’un io possessivo, padrone della realtà e signore della [...] fiumana verbale, d’un condottiero-poeta che [...] propone alla muta universalità della «folla», al suo destino oscuro, il modello antiproblematico della Bellezza12 [...]. L’organizzazione formale di Alcyone organizza appunto nient’altro che il programma estetico del superuomo dannunziano, cioè il programma pratico che l’ideologia superumana del Fuoco affidava alla predicazione della Bellezza, alla manipolazione oratoria del pubblico-folla-massa e alla sublimazione dei suoi bisogni [...] e che le Laudi realizzano in varia articolazione di attività e di oggetti. A.L. de Castris, Il decadentismo italiano. Svevo, Pirandello, D’Annunzio, Laterza, Roma-Bari 1995 1. cancellazione dell’umano: Alcyone punta ad assorbire la creatura umana nella vita pulsante della natura. 2. assenza... psico-sentimentali: viene insomma ridotto o cancellato il peso dell’intelletto, della riflessione, persino dei sentimenti suscitati dalla realtà (gli oggetti in senso lato). 3. di ordine... attivistico-decorativo: il poeta superuomo vuole possedere e abbellire (“decorare”) le cose; perciò usa spesso l’esclamazione per marcare la sua superiorità su di esse.

4. cornice encomiastica: contesto di puro elogio. 5. musaici: da museo. 6. un soggetto irrelato: l’io-poeta è così superiore da risultare irrelato, cioè senza relazioni con altro, e quindi senza possibilità di confronto. 7. le raggela... e artificiale: svuota le cose di vita reale, utilizzandole solo come fonte di belle parole letterarie. 8. tempo di rappresentazione: l’articolarsi del discorso poetico. 9. l’ictus: l’accento, il punto su cui viene

concentrata l’attenzione dei lettori. 10. quantificazione immaginosa: l’attribuzione alle cose di qualità, caratteristiche ecc. 11. un’unica presenza: quella dell’iopoeta. 12. modello... della Bellezza: l’ideologia estetizzante della Bellezza (E Testo 4, p. 327) è, secondo de Castris, un messaggio antiproblematico, perché chiede (alla folla) obbedienza, non comprensione o responsabilità. L’ideologia di D’Annunzio è insomma autoritaria e antidemocratica.

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Monografia Raccordo

Contesto

La parola al critico

Tra Ottocento e Novecento

SCHEDA VISIVA

La metrica dannunziana: verso libero e strofa lunga La novità del verso libero ■ In particolare nelle Laudi D’Annunzio adotta soluzioni vicine a quelle dei vers-libristes («verso-liberisti») francesi, come Verlaine e Mallarmé, propugnatori del verso libero, caratterizzato da: • lunghezza (cioè numero di sillabe) diseguale; • assenza o grande irregolarità di rime;

• strofe tutte disuguali tra loro, o addirittura assenza di strofe. In Italia, il teorico e sperimentatore più impegnato del verso libero fu Gian Pietro Lucini (1867-1914), autore del saggio Ragion poetica e programma del verso libero (1908) e di Revolverate (1909), poesie composte appunto in questo metro.

Il verso libero o «semilibero» ■ D’Annunzio, nelle Laudi, volle sperimentare la novità del verso libero, contribuendo così a diffonderla in Italia. In realtà, spesso i «versi liberi» di D’Annunzio sono solo apparentemente liberi: • alcuni riprendono le forme già fissate nella tradizione (settenari, endecasillabi), accanto a versi meno sfruttati, come trisillabi, quadrisillabi, quinari ecc.;

• altri risultano dalla somma di versi tradizionali (per esempio trisillabo + ottonario = endecasillabo); • infine D’Annunzio, sempre attentissimo alla musicalità, costruisce un fitto reticolo di rime e assonanze, che in modo «libero» (senza cioè ripetersi in modo uguale da strofa a strofa) finisce per legare in rime o assonanze pressoché tutti i versi.

Il verso della Pioggia nel pineto ■ Esaminiamo il caso della Pioggia nel pineto. Il verso dominante, qui, è il trisillabo, che compare sia isolato (in tal caso il verso brevissimo riassume in se stesso tutta la novità della me-

trica «libera»), oppure più spesso raddoppiato (si genera così il senario: doppio trisillabo), e il novenario (triplo trisillabo). Osserviamo l’inizio del componimento (vv. 1-11):

Taci. Su le soglie / del bosco non odo / parole che dici / umane; ma odo / parole più nuove / che parlano gocciole e foglie / senario senario senario senario senario novenario / lontane. / Ascolta. Piove / dalle nuvole sparse. / Piove su le tamerici / salmastre ed arse, trisillabo quinario settenario ottonario quinario

■ Quanto alle rime, nella Pioggia nel pineto sono molto frequenti e associate a numerose assonanze: le une e le altre, però, ricorro-

no nelle varie strofe in modo irregolare, come richiesto dalla metrica «libera». Ogni verso è legato da rima o assonanza:

rime: soglie : foglie odo : odo dici : tamerici nuove : Piove sparse : arse rime interne e assonanze: lontane in assonanza con sparse Piove in rima interna con Piove 342

Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse.

fiora infatti «sottotraccia» in più punti; se osserviamo con attenzione, per esempio, l’inizio della Pioggia nel pineto, troveremo che può essere letto come una sequenza di 6 novenari di fila:

[è un novenario, perché la sillaba tonica cade sulla 8a]

La «strofa lunga» della Pioggia nel pineto ■ Una delle maggiori novità di D’Annunzio è quella che lui stesso chiamò la «strofa lunga» (così definita nella lirica L’onda in Alcyone: «Musa, cantai la lode / della mia Strofe lunga»). In particolare La pioggia nel pineto è scandita in 4 strofe di 32 versi ciascuna; si tratta di strofe libere, in cui cioè la disposizione metrica dei versi e delle rime non segue uno schema fisso. Un particolare rilievo hanno gli ultimi 13 versi (vv. 20-32) della

[E] piove sui nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri t’/m’illuse, che oggi m’/t’illude, o Ermione.

prima strofa, per il fatto che vengono ripetuti, come un ritornello, nell’ultima strofa (vv. 116-128). La ripetizione è identica, con due sole eccezioni: • l’inserzione di una e enfatica al verso 116 (inizio della IV strofa); • l’inversione dei due pronomi personali ti e mi (v. 31), che diventano mi e ti al v. 127. Leggiamo la sequenza analoga (vv. 20-32 e vv. 116-128):

[la E iniziale è presente solo nella prima strofa]

[i pronomi personali ti e mi del v. 31 sono invertiti e diventano mi e ti al v. 127]

■ Osserviamo le rime: silvani : mani

ignude : schiude : illude

■ In entrambe le sequenze abbiamo delle rime-ponte che si collegano alle rime della sequenza precedente: • nella prima strofa vólti rima con accolti, folti dei vv. 17-18; • nella quarta vólti rima con disciolti del v. 111; • vestimenti rima nella prima strofa con fulgenti del v. 16 e con aulenti del v. 19. Invece nella quarta vestimenti resta senza rima. Quest’ultima è una circostanza strana, visto che dei 128 versi della poesia nessuno è irrelato all’interno della propria strofa

leggeri : pensieri : ieri

novella : bella.

(tranne pioggia del v. 57, che però è assonante con foglia del verso successivo, e poi è il sostantivo che dà titolo all’intero componimento: quindi viene isolato per maggiore rilevanza). Invece vestimenti rimane proprio irrelato. Gli studiosi sono andati a controllare l’autografo (il manoscritto originario) di D’Annunzio e hanno verificato che sotto silvani del v. 117 D’Annunzio aveva scritto «ardenti». Questa correzione in silvani è più appropriata nell’ambito del naturalismo del testo, ma metricamente rappresenta un errore; l’unico dell’attentissimo poeta. 343

Monografia Raccordo

■ Di novenari ne compaiono pochi (nove in tutta la poesia), ma proprio il novenario (protagonista assoluto di Maia, il primo libro delle Laudi) è la misura-guida del componimento. Esso riaf-

Contesto

Gabriele D’Annunzio

Tra Ottocento e Novecento

7

I pastori Alcyone Anno: 1903-04 Temi: • l’amore per la terra natia e i suoi aspetti arcaici • la natura al declinare dell’estate • il poeta come interprete e custode di antiche tradizioni La sezione finale di Alcyone, intitolata Sogni di terre lontane, è costituita da poesie ispirate a un sentimento di raccolta malinconia. Tutte le liriche che compongono questa sezione, infatti, invocano settembre, immagine della stagione estiva che sta per concludersi. Anche I pastori si ambienta alla fine dell’estate per descrivere un rito (la transumanza, cioè il trasferimento delle greggi nel periodo autunnale) che simboleggia la ciclicità immutabile della vita e della natura.

i preparativi per il viaggio: la provvista d’acqua, la verga d’avellano

la partenza è lenta, malinconica, perché è difficile staccarsi da ciò che si ama

Settembre, andiamo.1 È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei2 pastori lascian gli stazzi3 e vanno verso il mare: scendono all’Adriatico4 selvaggio che verde è come i pascoli5 dei monti.

5

Han bevuto profondamente6 ai fonti alpestri,7 che8 sapor d’acqua natìa9 rimanga ne’ cuori esuli10 a conforto, che lungo illuda11 la lor sete in via. Rinnovato hanno verga d’avellano.12

10

E vanno pel tratturo13 antico al piano, quasi per un erbal14 fiume silente, su le vestigia15 degli antichi padri. O voce di colui che primamente16 conosce il tremolar della marina!17

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Schema metrico: 4 strofe di 5 endecasillabi ciascuna, dei quali solo due rimati (il 1° e il 3° nella prima strofa, il 2° e il 4° nelle altre); il primo verso di ogni strofa rima con l'ultimo della precedente. L'ultimo verso rimane isolato. 1. andiamo: un invito rivolto a se stesso (“allontaniamoci dalle spiagge della Versilia”) e ai pastori (“partiamo”): sta per iniziare la transumanza, cioè il trasferimento di pastori e greggi da nord a sud. 2. miei: il poeta è abruzzese come loro, e a loro si sente legato. 3. stazzi: i recinti sui monti, in cui i pastori radunano il gregge durante l’estate.

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4. all’Adriatico: dai monti al mare, detto selvaggio perché l’Adriatico è sede di frequenti tempeste. 5. come i pascoli: il poeta indovina lo stato d’animo dei pastori, che cercano qualche ragione (qui, un’illusione di colore) per decidersi a lasciare le loro terre. 6. profondamente: abbondantemente. Si noti l’assonanza tra (pro)fon/(damen)/te e fon/ti. 7. alpestri: dei monti appenninici. 8. che: affinché. 9. natìa: sgorgata dalle fonti della terra in cui sono nati. 10. esuli: durante la migrazione (v. 9: in via, cioè lungo il cammino che li porterà

nelle Puglie). 11. illuda: consoli la loro malinconia (sete è usato qui in senso metaforico). 12. verga d’avellano: il bastone di nocciolo con cui i pastori guidano il gregge. 13. tratturo: vasto sentiero. 14. erbal: verde d’erbe (è un neologismo dannunziano, cioè un termine coniato dal poeta). 15. vestigia: le orme degli antenati (antichi padri). 16. primamente: per primo. 17. il tremolar della marina: il moto delle onde marine. Viene qui citato un celebre verso di Dante («di lontano / conobbi il tremolar de la marina», Purg. I, vv. 116-117).

Gabriele D’Annunzio

Contesto

torna l’identificazione del poeta con la vita e le tradizioni dei «suoi» pastori

Ora lungh’esso il litoral18 cammina la greggia. Senza mutamento19 è l’aria. Il sole imbionda sì la viva lana20 che quasi dalla sabbia non divaria.21 Isciacquìo,22 calpestìo, dolci romori.

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Ah perché non son io co’ miei pastori? G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, cit.

18. lungh’esso il litoral: lungo la riva (litoral). 19. Senza mutamento: cioè calma. È un altro richiamo dantesco («Un’aura dolce, senza mutamento», Purg. XXVIII, v. 7).

20. imbionda... lana: indora, colora di giallo, con i suoi raggi, la lana delle pecore; essa pare viva perché è tutta arruffata, non essendo ancora stata tosata. 21. divaria: differisce (il soggetto è la lana).

22. Isciacquìo: lo sciabordare del gregge sulla battigia, tra la sponda e l’acqua. Si tratta di una parola onomatopeica.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ La lirica costruisce una contemplazione ampia e silenziosa, fatta di gesti assorti e di una musica lenta e suggestiva. Esprime tre sentimenti principali: • l’amore per la terra natia; • il vagheggiamento di un’esistenza semplice e primitiva, nella cornice di una natura incontaminata; • l’adesione alle antiche tradizioni. ■ Lo spunto di partenza del componimento proviene dalla transumanza, vista quasi come un rito arcaico della terra. La migrazione autunnale delle greggi dai monti all’Adriatico selvaggio diviene un simbolo di continuità: la vita della natura si ripete immutabile, di stagione in stagione. ■ Il poeta vuole partecipare a questo ciclo, per riconquistarsi una purezza originaria. Solo così potrà disperdere il rischio della dissoluzione che si avverte gravare sull’estate di Alcyone: l’estate sta per finire, e con essa, forse, anche l’amore cantato nelle liriche del libro. Non così, però, avviene per l’Abruzzo. Più che un territorio, esso appare una condizione naturale, incontaminata, miracolosamente preservata dal tempo che scorre e che distrugge. ■ La sintassi presenta un periodare lento, toni sobri e gravi. È un ritmo insolito per D’Annunzio e che rivela il suo rimpianto per la vita austera della terra natìa. Magistrale è la costruzione strofica: • il primo verso è scandito su due tempi; • seguono due vasti periodi (vv. 2-5 e 6-9) di quattro versi ciascuno; • viene poi una nuova pausa enunciativa (il v. 10); • si riprende con periodi via via più brevi (di 3 e poi 2 versi); • il finale, carico di emozione, si affida a un verso isolato.

LAVORIAMO SUL TESTO 1. In quale punto di Alcyone s’incontra questa lirica? È importante tale collocazione? Perché? 2. Riassumi con le tue parole i contenuti di ogni strofa (max 15 righe). 3. In che cosa consiste la transumanza? Con quali termini viene qui rappresentata? 4. Individua nel testo tutti gli elementi che riguardano il paesaggio, la natura, la vita della terra; poi indica quali di essi consentono di ambientare il testo nel momento della fine dell’estate. 5. Il viaggio dei pastori, le antiche tradizioni: in quali punti della lirica e in che modo il poeta dà voce a questi due elementi? E inoltre: ti sembrano aspetti di primaria importanza nel testo? Perché? 6. Spiega il riferimento letterario del v. 15, procurandoti il testo originario. Metti poi brevemente a confronto le due situazioni. 7. Quali elementi di questa lirica ti sembrano intonati con i precedenti testi da te letti di Alcyone e quali altri elementi, invece, ti sembrano introdurre accenti nuovi? 8. D’Annunzio ti sembra un poeta particolarmente vicino alla tradizione letteraria? E con quale atteggiamento vi si accosta? Rispondi in una breve relazione allargando la trattazione, se credi, anche ad altri testi (max una facciata di foglio protocollo, 1500-2000 battute).

345

Monografia Raccordo

il cammino lungo la riva del mare

L’OPERA

NOTTURNO

Novità nella prosa dannunziana ◗ D’Annunzio fu uno scrittore sempre disponibile al nuovo. Tenendo fede al suo stesso motto, «o rinnovarsi, o morire», egli riuscì più volte a rinfrescare, presso l’opinione pubblica, la propria figura di scrittore, come pure a rigenerare la propria creatività in forme nuove. ◗ Una svolta importante si ebbe nel 1911, allorché D’Annunzio iniziò a pubblicare sul «Corriere della Sera» una serie di scritti autobiografici, intitolati Le faville del maglio, che per la loro naturalezza e freschezza colpirono l’attenzione anche di critici antidannunziani, come per esempio Renato Serra. Su questa linea si pose poi la novità di Notturno.

Un’inedita sensazione di debolezza ◗ I testi di Notturno furono concepiti durante la Prima guerra mondiale, tra il febbraio e l’aprile del 1916, dopo un incidente aviatorio verificatosi a Grado. Furono scritti nella «Casetta rossa» sul Canal Grande, a Venezia, presa in affitto dal poeta. Per ovviare alla cecità, la figlia Renata gli preparava striscioline (liste) di carta che potevano contenere ciascuna una riga; D’Annunzio scriveva, sdraiato supino nel letto, con gli occhi bendati, sulle striscioline distese su una tavoletta e precariamente trattenute dalle dita della mano sinistra. Finita la stesura, la figlia trascrisse pazientemente le circa diecimila liste, ma l’opera non poté essere subito pubblicata, perché il poeta era occupato dalle nuove operazioni militari. La stampa in volume fu rinviata al 1921, cioè una volta conclusasi l’occupazione di Fiume e dopo una significativa revisione d’autore. ◗ Costretto all’immobilità e a una temporanea cecità, D’Annunzio dovette rinunciare ai libri e ai vocabolari, che fino a quel momento erano stati la sua costante fonte d’ispirazione; inoltre, le circostanze imponevano frasi brevi, essenziali. Da questa condizione nacque uno scrittore inedito e suggestivo, «esploratore dell’ombra» (come lo definì il critico Emilio Cecchi). L’autore che «impara un’arte nuova» e «scrive nell’oscurità» diviene quasi una profetica immagine della debolezza della letteratura novecentesca, costretta ad abbassarsi a pratica segreta, transitoria, instabile.

Tra vecchio e nuovo ◗ In apparenza stride il contrasto fra questa scrittura, ridotta ad appunto, a frammento, e le prose ruggenti del vate-superuomo. Anche in Notturno, però, rimane desto il D’Annunzio sperimentatore che conosciamo: in precedenza egli aveva cantato le svariate forme della natura dell’estate alcionia, e la fusione del proprio corpo con esse; ora non è meno attratto dalle inedite sensazioni di chi si scopre debole, e coglie la propria fisicità, costretta a letto «come in una bara». Il D’Annunzio tormentato dal dolore fisico e dall’insonnia è ancora e sempre una «creatura terrestre», nella quale si riassumono tutte le altre creature. Perciò anche in Notturno rimane lo scrittore che proietta se stesso in un’atmosfera di mito (Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalte); mentre dalla secchezza e concisione dei periodi trapela pur sempre una base di retorica militaresca, che pensa alla guerra come alla sola «idealità del mondo». ◗ Proprio la guerra è il contenuto più frequentemente sollecitato dal flusso dei ricordi e delle apparizioni che si susseguono nel buio, come il fantasma dell’amico aviatore Giuseppe Miraglia, alla cui morte viene dedicato un ampio quadro. Tuttavia in Notturno non c’è mai la scoperta del dolore universale e fraterno, quel «bagno di umanità» che, per esempio, si avverte nelle liriche di guerra di Ungaretti (E Tomo B).

346

Imparo un’arte nuova Notturno – Prima offerta Anno: 1916 Temi: • la riflessione sull’infermità fisica • il proposito di scrivere «nell’oscurità» • il brivido di mettersi alla prova in un’«arte nuova» Notturno è strutturato in tre Offerte e un’Annotazione finale. Leggiamo la sezione iniziale della Prima offerta. Con disarmante sincerità D’Annunzio mette a nudo le difficoltà che lo ostacolano, in quella sua inedita condizione di immobilità e cecità; e, insieme, descrive gli sforzi con cui riesce a superare caparbiamente gli ostacoli e a imporre, ancora una volta vittoriosamente, la propria volontà.

una semplice constatazione, che pare d’impotenza; ma il poeta cercherà un rimedio a ciò

toccare, sentire: D’Annunzio non rinuncia neppure qui alla sensazione minuziosa

immagini corpose, materiali, assai contrastanti con l’immobilità e il buio a cui è costretto lo scrittore

non il semplice bisogno di scrivere o di esprimere, ma quello di porgere «significati»: neppure qui D’Annunzio rinuncia al suo ruolo di poeta-vate

Ho gli occhi bendati. Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi. Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v’è posata. Scrivo sopra una stretta lista1 di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis2 5 scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta. Sento con l’ultima falange del mignolo destro l’orlo di sotto e me ne servo come d’una guida per conservare la dirittura. I gomiti sono fermi contro i miei fianchi. Cerco di dare al movimento delle mani 10 una estrema leggerezza in modo che il loro giuoco non oltrepassi l’articolazione del polso, che nessun tremito si trasmetta al capo fasciato. Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalte.3 La stanza è muta d’ogni luce. Scrivo nell’oscurità. Traccio i miei segni nella notte 15 che è solida contro l’una e l’altra coscia come un’asse inchiodata. Imparo un’arte nuova. Quando la dura sentenza del medico4 mi rovesciò nel buio, m’assegnò nel buio lo stretto spazio che il mio corpo occuperà nel sepolcro, quando il vento dell’azione si freddò sul mio volto quasi cancellandolo e i fantasmi della battaglia furono d’un tratto esclusi dalla soglia nera,5 quando il silenzio fu fatto in me e intorno a me, 20 quando ebbi abbandonata la mia carne e ritrovato il mio spirito, dalla prima ansia confusa risorse il bisogno di esprimere, di significare. E quasi sùbito mi misi a cercare un modo ingegnoso di eludere il rigore della cura e d’ingannare il medico severo senza trasgredire i suoi comandamenti. M’era vietato il discorrere e in ispecie il discorrere scolpito;6 né m’era possibile vin- 25 cere l’antica ripugnanza alla dettatura7 e il pudore segreto dell’arte che non vuole in-

1. lista: striscia. 2. lapis: matita. 3. basalte: basalto (forma letteraria). In numerose statue egizie è raffigurato lo scriba (funzionario) in atteggiamento d’immobi-

lità, con le tavolette sulle ginocchia. 4. la dura sentenza del medico: l’annuncio che aveva perso un occhio e che durante la convalescenza avrebbe dovuto mantenere bendato anche l’altro.

5. soglia nera: quella della cecità. 6. il discorrere scolpito: cioè il parlare ben scandito e chiaro. 7. alla dettatura: cioè a comporre dettando a qualcuno.

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Monografia Raccordo

8

Contesto

Gabriele D’Annunzio

Tra Ottocento e Novecento

ritorna il D’Annunzio letterato ed erudito

termediarii o testimonii fra la materia8 e colui che la tratta. L’esperienza mi dissuadeva dal tentare a occhi chiusi la pagina.9 La difficoltà non è nella prima riga, ma nella seconda e nelle seguenti.10 Allora mi venne nella memoria la maniera delle Sibille che scrivevano la sentenza 30 breve su le foglie disperse al vento del fato.11 Sorrisi d’un sorriso che nessuno vide nell’ombra quando udii il suono della carta che la Sirenetta12 tagliava in liste per me, stesa sul tappeto della stanza attigua, al lume d’una lampada bassa. G. D’Annunzio, Tutte le opere, vol. I: Prose di ricerca, A. Mondadori, Milano 1958

8. la materia: l’argomento. 9. L’esperienza... pagina: evidentemente D’Annunzio aveva già tentato, con insuccesso, di scrivere. 10. e nelle seguenti: perché, scrivendo storto, le righe scritte successivamente si sovrappongono alle precedenti. 11. Sibille... fato: le Sibille erano profetes-

se o sacerdotesse dell’antichità che si riteneva fossero in diretta comunicazione con il dio Apollo; a chi le interrogava, presso il tempio del dio, per conoscere il futuro, scrivevano i responsi (risposte) su foglie che poi ammucchiavano a caso, così che risultava difficilissimo interpretare il futuro. Le più famose erano la Sibilla Delfica

(dal tempio di Apollo a Delfi, in Grecia) e la Sibilla Cumana, che risiedeva a Cuma, in Italia. 12. Sirenetta: nome poetico con cui l’autore chiama la figlia Renata, nata nel 1893 dalla relazione con Maria Gravina.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il poeta-superuomo ed esteta (quello che aveva proclamato «il Verso è tutto», fondando così un progetto di scrittura totale, onnivora) diviene ora lo scrittore dagli occhi bendati, che può scrivere solo su labili supporti come le striscioline di carta: è l’immagine di una debolezza estrema. Nella notte della cecità (La stanza è muta d’ogni luce. Scrivo nell’oscurità. Traccio i miei segni nella notte) crollano le certezze, le visioni del superuomo; l’occhio non riesce più a seguire la mano che scrive; tutto appare labile, incerto. Colui che fu per eccellenza il poeta degli occhi, poeta delle sensazioni splendide e sontuose, adesso è costretto a guardare al buio della propria coscienza: mai come in Notturno D’Annunzio ha sperimentato la condizione di debolezza e di estraneità tipica della letteratura novecentesca. ■ In realtà, però, D’Annunzio non rinuncia ancora a significare, a pensare la scrittura come l’ultimo rifugio possibile. Il primo scrittore del nostro Novecento è anche, in questo senso, l’ultimo scrittore della tradizione. Lo vediamo per esempio dall’orgoglio con cui viene ricordata la soluzione delle liste preparate dalla figlia; grazie a esse D’Annunzio può paragonarsi alle antiche Sibille, che scrivevano la sentenza breve su le foglie disperse al vento del fato. ■ In Notturno il pensiero e la scrittura si fissano suggestivamente in un presente continuato, che pare eterno. È una dimensione temporale che appartiene alla lirica più che alla pro348

sa: Notturno è infatti un tipo di prosa lirica, diversa da quella oratoria dei romanzi. In essa ritroviamo il malinconico rammarico per quanto è andato perduto, accanto ad allucinazioni e illusioni: gli stati d’animo si combinano in un tenue chiaroscuro, soffuso di un’avvolgente musicalità. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Ricostruisci sulla base del testo: • l’evento capitato al poeta; • le sue conseguenze; • il rimedio deciso. 2. Il poeta si paragona prima a uno scriba, poi alle Sibille dell’antichità. Individua i punti nel testo in cui emergono queste figure e spiegali con le tue parole. 3. Spiega con parole tue il riferimento al pudore segreto dell’arte che non vuole intermediarii o testimonii fra la materia e colui che la tratta, e mettilo in rapporto al contesto. 4. Di solito gli scrittori parlano della fatica intellettuale dello scrivere; invece il D’Annunzio «notturno» vive la scrittura come un’esperienza anzitutto «fisica», con i suoi aspetti materiali. Ritrovali nella pagina. 5. In che senso D’Annunzio dichiara Imparo un’arte nuova? Nuova rispetto a quale altra arte? Rispondi precisando a quale fase di poetica appartiene Notturno (max 15 righe).

Gabriele D’Annunzio

La peculiarità di Notturno Renato Barilli (1935) mette in luce le particolarità della scrittura di Notturno, il suo alto tasso di sperimentazione letteraria (non lontano dalle avanguardie del Futurismo e della «Voce»). Barilli rileva anche la congenialità di tutto ciò rispetto alla poetica dannunziana e ai suoi temi (in primis, lo scambio vita/morte). [Consideriamo] l’eccezionalità delle circostanze che hanno portato D’Annunzio a scrivere il Notturno. Il 23 febbraio del 1916, rientrando da un volo di ricognizione effettuato con un idrovolante [...], l’apparecchio subisce un arresto del rullaggio a causa di un banco di sabbia, il che provoca un forte sbalzo in avanti che porta l’autore-aviere a sbattere il volto contro la mitragliatrice di bordo. Un occhio è gravemente leso, e nel tentativo (poi rivelatosi inutile) di salvarlo, il Poeta è costretto a starsene bendato, sommerso in una cecità artificiale. Non volendo tuttavia interrompere l’esercizio quotidiano di scrittura, molto simile, in lui, a una normale esigenza fisiologica, trova lo stratagemma di vergare gli appunti su brevi strisce di carta, ovvero «cartigli», che la figlia, gratificata nel testo col gentile soprannome di Sirenella, gli ritaglia nella stanza accanto. [...] A questo modo il nostro Autore può entrare in sintonia con le esigenze poste in campo dal movimento futurista, da Marinetti in prima fila, e ruotanti attorno alla parola d’ordine della sintesi: essere brevi, evitare le imponenti ma bolse1 costruzioni ottocentesche, ricorrere alla scattante paratassi, in luogo della pesante subordinazione. Il frammento guadagna consensi, sta quasi diventando di moda, e in effetti «frammentisti», o «spuntaioli», per dirla con Prezzolini,2 sono i giovani prosatori che si formano attorno alla «Voce» (Slataper, Boine, Jahier). D’Annunzio accetta la sfida, anzi, li precede [...]. Si aggiungano altri aspetti, di quella modalità eccezionale di stesura, che dovevano riuscire anch’essi altamente graditi all’Autore; egli, così, si trovava a tu per tu con la materialità della scrittura, esercitata quasi alla baionetta, si potrebbe dire, in un corpo a corpo privo di dispersioni, a cominciare da quella stessa rappresentata dalla «pagina», e dall’obbligo connesso di andare a capo, di interrompere, di segmentare artificialmente l’emissione di fondo, frenandone lo slancio e dirottandola su piste subordinate. E anche il corpo si trovava in condizioni tali da favorire quella concentrazione. Ecco che lo scrivente è costretto su un lettino molto simile a una bara, col che affrontiamo subito la polarità3 vita-morte, e la loro reversibilità4 reciproca, che caratterizza tutto questo giro di esperienze. Si vive per morire, ma si muore per vivere, dato che questa prospettiva tragica esalta la vita, ne rende più fiammeggianti, più intense le faville.5 La morte, attraverso azioni eccitanti, è il maglio che appunto sa trarre fuori le faville più fulgide. Del resto, quel lettino è bara, o non piuttosto carlinga di aereo? Ma non sono, tutti questi, termini perfettamente intercambiabili? La carlinga è strumento di vita, e anche di morte, dall’una può condurre all’altra in un tragitto sostanzialmente ambiguo, reversibile, andata e ritorno. L’Autore verifica su se stesso un ciclico bruciarsi, consumarsi fino allo stato di cenere, ma anche un rinascere secondo il mito della fenice. R. Barilli, D’Annunzio in prosa, Mursia, Milano 1993 1. bolse: enfatiche, antiquate. 2. Prezzolini: il critico letterario Giuseppe Prezzolini (1882-1982), fondatore della rivista «La Voce».

3. polarità: oscillazione. È il tema principale di Notturno. 4. reversibilità: interscambiabilità; la condizione della vita tende a confondersi con

quella della morte e viceversa. 5. faville: bagliori, scintille. È una parola dannunziana (cfr. le prose giornalistiche raccolte nelle Faville del maglio).

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Monografia Raccordo

Contesto

La parola al critico

L’età contemporanea

La vita di D’Annunzio nel suo tempo ■ Nato nel 1863, D’Annunzio si trasferisce ancora giovane da Pescara a Roma, in cerca di gloria letteraria e di una vita elegante nell’alta società. Diventa famoso per scandali, amori e amicizie importanti. Dopo un periodo trascorso alla villa della «Capponcina», vicino a Firenze, per sfuggire ai creditori ripara in Francia. Rientra in Italia alla vigilia della Prima guerra mondiale, della quale è uno dei profeti e dei

1

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

2

D’Annunzio iniziò a scrivere e a pubblicare all’età di 16 anni. Nel 1912 successe a Pascoli sulla cattedra di Letteratura italiana a Bologna. D’Annunzio si sposò a 20 anni. Fu D’Annunzio a battezzare così i grandi magazzini «La Rinascente» di Milano. A Fiume D’Annunzio si faceva chiamare da tutti «Il venturiero senza ventura». Quando scoppiò la guerra di Libia, D’Annunzio si arruolò volontario. Fu lui ad avere la prima idea del web: la sigla WWW è un acronimo ricavato dal suo motto «Vado verso la vita».

Collega ciascuna data ai corrispondenti eventi della vita dell’autore. 1 2 3 4 5 6 7

3

cantori. Arruolatosi volontario, compie famose imprese belliche. Poi, dopo la guerra, si getta nell’impresa di Fiume, durata un anno. Insegna al fascismo la politica del colpo di mano e il linguaggio violento con cui arringare la folla. Dopo il 1922 è a parole glorificato dal regime fascista, ma di fatto emarginato nella sua villa-museo del Vittoriale, dove muore nel 1938.

1895 1915 1897 1881 1916 1919 1910

a. b. c. d. e. f. g.

viaggio in Grecia si trasferisce temporaneamente in Francia in seguito a un incidente aviatorio perde l’occhio destro guida l’occupazione armata di Fiume si trasferisce a Roma si arruola in guerra viene eletto deputato al parlamento per la destra

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. Nel corso della sua vita, D’Annunzio visse fra l’altro a a Roma, Napoli, Parigi b Pescara, Palermo, Roma c Napoli, Milano Venezia d Firenze, Napoli, Pescara 2. La partecipazione alle vicende belliche della Prima guerra mondiale nacque dal desiderio di a gloria letteraria b aderire alle istanze nazionaliste e patriottiche italiane c gloria letteraria e adesione al nazionalismo e patriottismo d aderire al movimento fascista

4

Rispondi alle seguenti domande. 1. Quale rapporto ebbe D’Annunzio con le donne? (max 5 righe) 2. Riassumi i motivi comuni tra D’Annunzio e l’ideologia fascista (max 10 righe).

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SINTESI OPERATIVA

L’età contemporanea

La poetica ■ D’Annunzio, sempre aperto alla sperimentazione di nuovi temi e forme, lega il suo nome soprattutto alla prima fase del Decadentismo europeo, ovvero l’estetismo. Andrea Sperelli, controfigura dell’autore e protagonista del romanzo d’esordio, Il piacere, ne è la prima incarnazione in Italia: il suo scopo è «fare»

1

la sua vita «come si fa un’opera d’arte», dando sfogo al bisogno di sensazioni eleganti ed esclusive. Inoltre, sollecitato dalle dispendiose esigenze del suo «vivere inimitabile», D’Annunzio sa rispondere al richiamo della nascente industria culturale, collaborando in particolare con il mondo del cinema.

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. L’espressione «poeta dell’Imaginifico» allude alla stretta affinità che, secondo D’Annunzio, deve legare la poesia in versi alla pittura. 2. D’Annunzio si ispirò spesso ad altri autori e li citò frequentemente nelle sue opere, fino a commettere veri e propri plagi. 3. Fu il teatro musicale di Verdi a far conoscere a D’Annunzio la teoria nietzschiana del superuomo. 4. Il Poema paradisiaco è l’opera più matura del Decadentismo dannunziano in versi.

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Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. Il «vitalismo» dannunziano è definibile come a ricerca di tutto ciò che unisce il poeta alla vita degli altri uomini b adesione alla vita, cioè al presente ma anche alla storia del passato dell’umanità c desiderio di travasare in poesia l’intera gamma della vita e delle sue situazioni d adesione piena alla vita fisica e corporea della natura 2. Per D’Annunzio la sensazione è a un mezzo per conoscere la realtà b una possibilità di conoscere e sperimentare ciò che trascende e supera l’uomo c una possibilità per mettersi in contatto con il mondo dei defunti d una via per inserirsi nella grande tradizione letteraria del passato

3

Collega ciascuna frase alla corrispondente opera in cui compare. 1 2 3 4 5 6

4

«Il Verso è tutto» «Ti dirò come sia dolce il mistero/ che vela certe cose del passato» «Imparo un’arte nuova» «l’immensa gioia di vivere / d’essere forte, d’essere giovine» «Difendete la Bellezza!» «la favola bella / che ieri / m’illuse, che oggi t’illude»

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Le vergini delle rocce Notturno Alcyone Canto novo Isottèo-La Chimera Poema paradisiaco

Rispondi alle seguenti domande. In che cosa consiste il concetto dannunziano del «vivere inimitabile»? (max 5 righe) Che cos’è il «panismo» e quali attinenze ha con esso D’Annunzio? (max 10 righe) Esponi il concetto di superuomo nell’opera dannunziana (max 15 righe). Quale importanza ha il pubblico per l’opera di D’Annunzio? (max 15 righe) Spiega in che cosa consiste lo sperimentalismo dannunziano e fai qualche esempio, citando i titoli opportuni (max 15 righe). 6. Si può parlare di religiosità dannunziana? Motiva la risposta (max 10 righe). 1. 2. 3. 4. 5.

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L’età contemporanea

Le opere in prosa e il teatro ■ D’Annunzio scrive sette romanzi, a partire dal Piacere (1889). Il loro filo conduttore è l’individualismo e, quasi sempre, il «superomismo» dei diversi protagonisti. Sono opere distanti della narrativa oggettiva e impersonale del Verismo, caratterizzate da simbolismi, musicalità, elementi ideologici e saggistici. Nell’ultima fase, segnata da Notturno (1916), viene

1

meno la centralità del superuomo, per la sottolineatura della debolezza dell’io scrittore; la scrittura si fa quindi più essenziale e autobiografica. Inoltre, dopo il viaggio in Grecia del 1895, D’Annunzio compone una decina di drammi per il teatro, a partire da La città morta (1896), contrassegnati da una forte letterarietà e, quindi, da una scarsa teatralità.

Indica con una crocetta se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. Fu D’Annunzio con Il piacere il primo autore europeo a creare, con Andrea Sperelli, il personaggio dell’esteta raffinato e gaudente. 2. D’Annunzio scrisse opere per il teatro dopo aver stretto amicizia con la grande attrice Eleonora Duse. 3. Notturno fu scritto durante una temporanea paralisi dell’autore, dovuta a un incidente di guerra. 4. Una delle opere teatrali di D’Annunzio si intitola La Gioconda.

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Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. Il protagonista delle Vergini delle rocce sta cercando una donna con cui a scrivere il «romanzo della bellezza» b compiere la prima trasvolata atlantica c ricreare nella solitudine della natura la vita semplice dei pastori d’Abruzzo d generare il superuomo 2. Il compagno dagli occhi senza cigli appartiene a al primo periodo della produzione dannunziana, quella legata alla vita romana b alla fase della produzione dannunziana più legata alla poetica estetizzante c all’ultima fase dannunziana, la più legata all’autobiografismo d all’esilio francese 3. Con Notturno D’Annunzio anticipò a la prosa frammentistica degli scrittori della «Voce» b il romanzo psicologico di Svevo e Pirandello c la lirica degli ermetici d l’avanguardia espressionista

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Collega ciascun protagonista alla relativa opera; fai attenzione all’intruso. 1 2 3 4 5 6 7

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Paolo Tarsis Giorgio Aurispa Giovanni Iorio Andrea Sperelli Desiderio Moriar Claudio Cantelmo Tullio Hermil

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Le vergini delle rocce La Leda senza cigno Il piacere Il trionfo della morte Forse che sì forse che no L’innocente

Rispondi alle seguenti domande. 1. Quale dei personaggi elencati nell’esercizio precedente può essere qualificato come «superuomo dell’arte»? E quale come «superuomo della tecnica»? 2. Che cos’è il Libro segreto? 3. Riassumi la trama del Piacere (max 10 righe).

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SINTESI OPERATIVA

L’età contemporanea

4. 5. 6. 7.

Riassumi la trama delle Vergini delle rocce (max 10 righe). Esponi le diverse fasi dell’opera in prosa dannunziana (max 10 righe). Illustra i principali caratteri del teatro dannunziano (max 15 righe). A quale periodo biografico e letterario corrisponde la prosa di Notturno? Quali sono le sue caratteristiche principali? (max 15 righe)

Le opere in versi ■ D’Annunzio esordisce nel 1879 con una raccolta di versi, Primo vere, in cui ha già forte rilievo l’elemento vitalistico e sensuale. Questi motivi si sviluppano nella seconda raccolta, Canto novo, e nelle successive (Intermezzo di rime e poi Isottèo-La Chimera). Di tono diverso è il Poema paradisiaco, in cui compare il tema intimistico del ri-

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torno alle origini, nel tentativo di rigenerarsi. Ma il Decadentismo e l’estetismo trionfano nei successivi libri delle Laudi (i primi escono nel 1903), tra cui figura il capolavoro di D’Annunzio poeta, ovvero Alcyone, intriso di musicalità e interessante anche per i suoi esperimenti formali sul verso libero e la «strofa lunga».

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. I titoli delle prime due raccolte di D’Annunzio sono in latino. 2. L’esordio poetico di D’Annunzio avvenne all’insegna dell’assoluta originalità e del rifiuto di qualsiasi modello precedente, inclusi Leopardi e Carducci. 3. In Alcyone il poeta riprende il tema del diario in versi della «grande Estate» già sviluppato in Canto novo.

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Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. Le Laudi riprendono il loro titolo dal a Cantico delle creature di san Francesco b Cantico dei cantici (libro della Bibbia) c Laudario cortonese (testo medievale) d Canzoniere di Petrarca

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Collega ciascun titolo alla corrispondente data di pubblicazione. 1 2 3 4 5 6 7

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Isottèo-La Chimera Poema paradisiaco Canto novo Asterope Alcyone Primo vere Merope

a. b. c. d. e. f. g.

1890 1882 1879 1903 1912 1934 1893

Rispondi alle seguenti domande. 1. 2. 3. 4.

Quali sono i contenuti delle Laudi, libro per libro? Quale rapporto riscontri tra il Poema paradisiaco e i due romanzi Giovanni Episcopo e L’innocente? Illustra i caratteri poetici di Canto novo (max 10 righe). Rileggi le schede di p. 340 e p. 342 poi illustra lo sperimentalismo metrico realizzato da D’Annunzio in Alcyone (max 10 righe). 353

L’età contemporanea

Analisi del testo 1

In un famoso passo del Piacere (libro II, capitolo I) Andrea Sperelli compare convalescente, dopo essere stato ferito in duello. Nel periodo di forzato riposo, le sue facoltà percettive si accrescono, tanto che sente il bisogno di tornare a comporre versi. Le sue considerazioni costituiscono uno dei testi più rappresentativi della poetica dannunziana.

Altri versi gli vennero alla memoria, altri ancóra, altri ancóra, tumultuariamente. La sua anima si empì tutta d’una musica di rime e di sillabe ritmiche. Egli gioiva; quella spontanea improvvisa agitazion poetica gli dava un inesprimibile diletto. Egli ascoltava in sé medesimo que’ suoni, compiacendosi delle ricche imagini, degli epiteti esatti, delle metafore lucide, delle armonie ricercate [...]. La magia del verso gli soggiogò di nuovo lo spirito; e l’emistichio sentenziale1 d’un poeta contemporaneo2 gli sorrideva singolarmente. – ‘Il Verso è tutto’. Il verso è tutto. Nella imitazion della Natura nessuno istrumento d’arte è più vivo, agile, acuto, vario, moltiforme, plastico, obediente, sensibile, fedele. [...] il verso è tutto e può tutto. Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare l’illimitato e penetrare l’abisso; può avere dimensioni d’eternità; può rappresentare il soprumano, il soprannaturale, l’oltramirabile; può inebriare come un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo possedere il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può, infine, raggiungere l’Assoluto. Un verso perfetto è assoluto, immutabile, immortale; tiene in sé le parole con la coerenza d’un diamante; chiude il pensiero come in un cerchio preciso che nessuna forza mai riuscirà a rompere; diviene indipendente da ogni legame e da ogni dominio; non appartiene più all’artefice, ma è di tutti e di nessuno. 1. emistichio sentenziale: mezzo verso di carattere sentenzioso. 2. un poeta contemporaneo: lo stesso D’Annunzio, che qui si autocita, rinviando a uno dei sonetti dedicati a Giovanni Marradi.

354

Comprensione A. Quale scoperta o quale intuizione rende tanto euforico Andrea Sperelli? B. Si può affermare che, per il personaggio, la poesia sia l’arte suprema? E per quali motivi? C. Il poeta delineato da Andrea Sperelli va in cerca di originalità, di imitazione o di entrambe? E in quale proporzione? Motiva la risposta.

Analisi A. Rintraccia nel testo il punto in cui D’Annunzio cita se stesso: come si definisce? E perché, a tuo avviso, ricorre a tale espediente? B. In un altro punto del testo si può ravvisare una sorta di giustificazione ai plagi così frequenti nell’opera dannunziana: individualo e commentalo. C. In un altro punto ancora D’Annunzio parla dell’artista come di un artefice: cosa intende con questo termine?

Interpretazione A. Illustra, in base alla poetica dannunziana, le espressioni Il Verso è tutto e La magia del verso. B. In che termini, secondo l’autore, il poeta può, infine, raggiungere l’Assoluto? A tuo avviso, quale valore si può attribuire a questa iniziale maiuscola?

Saggio breve 1

La presenza e l’importanza del Decadentismo nei romanzi dannunziani.

Materiali di lavoro Profilo introduttivo Suggestioni europee, 왘 p. 298 Un letterato aperto al nuovo, 왘 p. 301 L’esteta e le sue squisite sensazioni, 왘 p. 302 Il creatore d’immagini, 왘 p. 303 Sperimentalismo e antiromanzo, 왘 p. 306 Il motivo della decadenza e del «trionfo della morte», 왘 p. 306 • Introduzione a Il piacere, 왘 p. 315 • Introduzione a Notturno, 왘 p. 346

• • • • • •

Schede • Nietzsche, D’Annunzio e il superuomo, 왘 p. 306 • D’Annunzio e il Decadentismo 왘 p. 325

PROPOSTE DI LAVORO PER L’ESAME DI STATO

L’età contemporanea

Testi • L’attesa di Elena 왘 Testo 2, p. 316 • Ritratto d’esteta 왘 Testo 3, p. 321 • Il programma del superuomo 왘 Testo 4, p. 327 • Imparo un’arte nuova 왘 Testo 8, p. 347

La parola al critico • G. Tosi, Il simbolismo del Piacere, 왘 p. 320

Svolgimento A. Il primo passo è inquadrare i caratteri essenziali del Decadentismo europeo: • la crisi del Positivismo, la fine delle certezze tradizionali (cfr. Freud, Nietzsche) e il senso di smarrimento, d’insicurezza, anche perché l’intellettuale perde il suo ruolo di guida della società; • il rifiuto di una letteratura che (come quella naturalistica) si proponga come strumento di analisi «oggettiva» del reale; • di conseguenza, l’affidarsi da una parte alle sensazioni per sperimentare/assaporare la realtà (cfr. l’estetismo decadente), dall’altra al simbolo, per evidenziarne i livelli di mistero (cfr. i simbolisti francesi), o ancora all’«intuizione» teorizzata da Bergson; • l’intreccio arte-vita nell’esperienza della bellezza, che contraddistingue gli uomini superiori, gli «esteti» (cfr. Huysmans, Wilde). B. Il secondo passo è evidenziare la presenza di questi motivi nell’arte di D’Annunzio: • la decadenza e la crisi in quasi tutti i suoi romanzi (왘 il tema del «trionfo della morte», fino a Il fuoco); • l’importanza delle sensazioni (왘 i due testi del Piacere – pp. 316 e 321 – e anche il testo di Notturno, p. 347) e • l’intreccio arte-vita (왘 i due testi del Piacere); • la soggettività sempre attiva nei romanzi dannunziani (왘 lettura critica di G. Tosi, p. 320), anche come costante sottolineatura dell’individualismo; • invece viene messo tra parentesi, da D’Annunzio, il senso di smarrimento: in alternativa, egli elabora il motivo nietzschiano del superuomo, come guida della società (왘 Testo 4, p. 327); C. Conclusione: • D’Annunzio è un autore ben rappresentativo della prima fase del Decadentismo europeo, quella più estetizzante; manifesta un’evoluzione interessante, che lo porta alla

scrittura più interiorizzata e più «debole» di Notturno (왘 Testo 8, p. 347); • resta però al di qua del Decadentismo più maturo, quello di Svevo e Pirandello (in Europa di Joyce, Proust, Kafka, Mann, Musil), che, oltre a evidenziare la crisi, vuole conoscerla criticamente.

Relazione 1

D’Annunzio e il mito del superuomo.

Illustra questa tematica in una relazione trattando, sempre con riferimenti ai testi letti, i seguenti punti. • Quali aspetti stilistici e formali dell’opera dannunziana si possono considerare un’espressione del mito del superuomo? • Quali letture suggeriscono a D’Annunzio questa tematica? • In quale fase della sua carriera letteraria D’Annunzio recepisce il mito superomistico e in quali opere lo rende maggiormente presente? Hai a disposizione 2 facciate di foglio protocollo (35004000 battute).

Articolo 1

In un articolo giornalistico destinato alle pagine della cronaca mondana di un quotidiano del primo Novecento, fai emergere la spettacolarità e l’eccezionalità di alcuni episodi della biografia dannunziana.

Hai a disposizione 1 facciata e mezzo di foglio protocollo (2500-3000 battute).

Intervista 1

Immagina che D’Annunzio ti abbia concesso un’intervista presso la sua eccentrica dimora del Vittoriale. Attraverso le tue domande, traccia un quadro riassuntivo della straordinaria esperienza, artistica e umana, dell’ormai anziano autore.

Hai a disposizione 2 facciate di foglio protocollo (35004000 battute). 355

Monografia

Giovanni Pascoli 356

Giovanni Pascoli

1 L’infanzia e la morte del padre Pascoli nasce a San Mauro di Romagna (Forlì) il 31 dicembre 1855, quarto di dieci figli. Il padre Ruggero è fattore nella vasta tenuta La Torre dei principi Torlonia, e lì il ragazzo trascorre l’infanzia. Nel 1862 entra nel collegio dei padri Scolopi, dove frequenta le elementari, il ginnasio e la prima liceo, fino al 1871. Il 10 agosto del 1867, giorno di San Lorenzo, il padre viene ucciso da sicari sconosciuti. Il delitto verrà rievocato in molti componimenti di Pascoli, tra cui X agosto e La cavalla storna; quell’incancellabile macchia di sangue contribuirà a radicare nel poeta la sua ossessiva percezione della presenza, incombente su ogni cosa, del mistero e della morte. Dopo il tragico lutto, la famiglia si trasferisce a San Mauro, nella casa materna, dove nell’arco di pochi anni vengono a mancare molti familiari: nel 1868 muore la sorella maggiore del poeta, Margherita, seguita il mese dopo dall’amata madre; nel 1871 muore il fratello prediletto, Luigi, e nel 1876 un altro fratello, Giacomo.

2 Gli studi fino alla laurea Intanto, terminati a Firenze e poi a Cesena (1872) gli studi liceali, Pascoli può iscriversi – con una borsa di studio offerta dal comune e vinta grazie a un concorso in cui era esaminatore Carducci – alla facoltà di Lettere a Bologna, dove insegna lo stesso Carducci. Gli anni universitari segnano il momento del suo impegno sociale: il sentimento di ribellione contro l’ingiustizia lo spinge ad aderire al movimento socialista rivoluzionario di Andrea Costa. Per avere partecipato a una dimostrazione filoanarchica, nel settembre 1879 Pascoli viene arrestato e incarcerato. Dopo quattro mesi di prigione, è assolto al processo, grazie alla testimonianza favorevole di Carducci. In seguito il socialismo di Pascoli si attenuerà, trasformandosi in un generico umanitarismo, una specie di religione pacifica ma anche nazionalistica e patriottica. Ripresi quindi gli studi universitari interrotti, si laurea (1882) brillantemente con una tesi sull’antico poeta greco Alceo.

3 L’insegnamento e la fama letteraria Nel 1883 comincia una lunga carriera d’insegnamento in qualità di docente di latino e greco nei licei (nel giro di dodici anni è a Matera, Massa e Livorno); sono gli anni in cui scrive le prime liriche di Myricae e in cui comincia la propria attività di poeta in latino. Man mano cresce anche la fama letteraria. Pur rimanendo un semplice professore liceale, infatti, Pascoli è chiamato a collaborare alle più prestigiose riviste, tra cui «Vita nuova» di Firenze, dove nel 1890 appaiono nove sue brevi liriche con il titolo di Myricae (una prima edizione a stampa appare nel 1891). Sul «Convito» pubblica a partire dal 1895 la serie di poemetti classicistici che poi intitolerà Poemi conviviali; il primo s’intitola Gog e Magog e canta di due popoli barbari in rivolta contro la raffinata civiltà greca. Invece le poesie ispirate alla vita delle campagne usciranno nel 1897, con il titolo Poemetti. Nel 1895 Pascoli prende in affitto una casa (la «bicocca») a Castelvecchio di Barga, in Toscana (Garfagnana). Più tardi l’acquista, a fatica, grazie alle medaglie d’oro ripetutamente vinte ai concorsi internazionali di poesia latina di Amsterdam (la prima vittoria è del 1892, con il poemetto Veianus, che ritraeva un vecchio gladiatore nel riposo campestre; seguiranno altre dodici vittorie). Sempre nel 1895 è chiamato all’insegnamento universitario di grammatica latina e greca (a Bolo357

Monografia Raccordo

Contesto

La vita

Tra Ottocento e Novecento

gna, Messina e Pisa) e poi nel 1905 alla cattedra di letteratura italiana di Bologna, come successore di Carducci. Nel 1903 era stato pubblicato il suo secondo grande libro di versi, i Canti di Castelvecchio. La crescente fama impone al poeta anche momenti celebrativi, in qualità di oratore ufficiale. Nascono così alcuni discorsi, tra cui il celebre La grande proletaria si è mossa (1911), che esalta in senso nazionalistico l’impresa coloniale della guerra di Libia. Pascoli muore a Bologna nel 1912, consumato dalla cirrosi epatica.

4 Il «nido» domestico e la paura della vita

Le date di Pascoli 1855

nasce a San Mauro di Romagna

1867

il padre Ruggero muore assassinato

1882

si laurea a Bologna

1891

esce la prima edizione di Myricae

1903 Canti di Castelvecchio Quella di Pascoli fu una vita povera di eventi esteriori, dedicata a uno scavo intimo, a un continuo rifugiarsi nelle memorie, cattedra universitaria 1905 contro l’urto angosciante del presente. Fu a Bologna un’esistenza svoltasi tra pochi luoghi: la campagna romagnola dell’infanzia, le diver1912 muore a Bologna se sedi d’insegnamento, infine la casa di Castelvecchio, dove il poeta tornava ogni volta che gli era possibile. La sua tendenza a rinchiudersi nel «nido» domestico (E p. 364) si spiega con la fondamentale paura del vivere, sentimento che ostacolò, tra l’altro, il rapporto con le donne e l’amore. Da qui la sua «disperazione» per il fidanzamento e il matrimonio (1895) della sorella Ida «la bionda». A quel tradimento del «nido», Pascoli e l’altra sorella Maria (Mariù, che narrerà poi la biografia del fratello nell’importante volume Lungo la vita di Giovanni Pascoli, pubblicato nel 1961) risposero rifugiandosi nella «bicocca» di Castelvecchio. Assieme a Mariù, Pascoli incarnò la figura del tenace custode delle memorie della famiglia d’origine, che includeva genitori, fratelli e sorelle, vivi e morti. «Ho vissuto senza amore – così scrisse alle sorelle – non per incapacità d’amare ma perché mi dovevo dedicare solo a voi.» Con questi sentimenti dedicò Myricae alla memoria del padre, i Canti di Castelvecchio a quella della madre e i Poemetti alla sorella Maria.

5 Poeta e società: la diversa posizione di Pascoli e D’Annunzio Se mettiamo a confronto i due maggiori scrittori che inaugurano il Novecento italiano, Pascoli e D’Annunzio, giungeremo a conclusioni apparentemente opposte. L’uno vive isolato, l’altro come brillante uomo di società; l’uno fedele a pochi luoghi, l’altro «avventuriero» senza fissa dimora; tanto avaro, pignolo e propenso all’invidia fu l’introverso Pascoli, quanto D’Annunzio fu prodigo nelle spese, capace di amicizie, uomo di molti amori e di molti debiti. La vita di Pascoli trascorre tra eventi quasi solo interiori, mentre quella di D’Annunzio è piena di colpi di scena, e vissuta con l’intenzione di farne un’«opera d’arte». Il primo idealizzò il mondo contadino, con i suoi valori comunitari, di famiglia, di laboriosità, di sobrietà, emblemi della coesione raffigurata nel «nido» familiare. L’altro teorizzò il disprezzo della folla e della gente comune, in nome della preminenza di pochi «uomini superiori» e del loro diritto a forgiarsi una propria morale. A un’analisi più approfondita, però, risulta chiaro che l’uno e l’altro incarnano, pur se da punti di vista opposti, la frattura che si stabilisce, proprio all’inizio del Novecento, tra il poeta e la società: una distanza che oppone la folla a chi è invece dotato di una sensibilità tutta individuale, e ha bisogno perciò di condurre un’esistenza separata e di parlare un linguaggio unico. 358

Giovanni Pascoli

1 Lo sperimentalismo pascoliano Nella casa di Pascoli a Castelvecchio di Barga (oggi Castelvecchio Pascoli, in provincia di Lucca) sono ancora conservati per i visitatori i tre tavoli da lavoro del poeta: il primo riservato alla poesia in italiano, il secondo alla poesia in latino e il terzo agli studi su Dante. I tre tavoli costituiscono il simbolo della ricca sperimentazione di questo autore, che ricercò più strade simultaneamente. Pascoli non conobbe cioè un’evoluzione progressiva nel tempo: non passava ad altra esperienza dopo la conclusione della precedente, ma ne coltivava diverse e tutte contemporaneamente. Il poeta, il prosatore e il critico; il poeta in latino e il poeta in italiano; il poeta campagnolo e il poeta nazionalista: queste le tante facce di un unico artista che lavorava su più tavoli nello stesso tempo.

2 La novità di Myricae Pascoli esordì nel 1891 con la raccolta Myricae (cioè, dal latino, “tamerici”, alberi diffusi nella macchia mediterranea). Fin dal titolo, dunque, presentò la propria poesia come un’arte fatta di cose semplici e umili: infatti nel libro si succedono quadretti – sempre in pochi versi – che delineano immagini della vita della campagna (Lavandare, Arano, Novembre); in alcuni casi brevi memorie della propria terra e dell’infanzia (Romagna, X agosto). Complessivamente Myricae recava una vera rivoluzione per la poesia italiana, sia per i temi (soggetti umili e dimessi, sviluppi brevi) sia per lo stile, in cui hanno gran parte l’uso dell’analogia, del simbolo e la suggestione esercitata dai suoni. Molte di queste novità si riassumono nella poetica del «fanciullino», come vedremo: era quest’ultima a suggerire la novità di uno sguardo «piccolo» sulla realtà, lo sguardo appunto del poeta-fanciullo, opposto alla figura del poeta-maestro, del poeta-vate, alla maniera di Carducci.

3 I Poemetti Pochi anni dopo, nel 1897, furono stampati i Poemetti, destinati a crescere nel tempo; in seguito saranno divisi in due parti, Primi poemetti (1904) e Nuovi poemetti (1909). Anche in questo caso protagonista è la vita della campagna: il «fanciullino» che è in Pascoli cerca in ogni cosa (e preferibilmente nella natura) elementi di poesia ingenua e spontanea. La novità è data dal metro e dallo sviluppo narrativo: Pascoli si cimenta con i Poemetti in componimenti decisamente più lunghi e «costruiti» rispetto a Myricae; per essi ricorre alla terzina, sul modello di Dante. Un’ampia parte di questi componimenti costituisce una sorta di storia romanzata di una famiglia toscana, osservata attraverso i vari momenti della vita contadina. Nel lungo poemetto Italy, dedicato a una famiglia di contadini della Lucchesìa emigrati in America e successivamente tornati in Italia, risalta invece la sperimentazione del linguaggio, inedito impasto di toscano e di italoamericano.

4 I Canti di Castelvecchio Al 1903 risale la pubblicazione dei Canti di Castelvecchio. Il titolo richiama la dimora in Garfagnana nella quale Pascoli volle ricostituire, con la sorella Maria, il «nido» degli affetti familiari. A predominare sono ancora i temi tratti dalla vita della campagna, cui si mescolano liriche ispirate dai ricordi dell’infanzia vissuta a San Mauro e dai familiari scomparsi. Il paesaggio toscano della valle del Serchio finisce così per sovrapporsi, nel ricordo e nel simbolo, a quello romagnolo, in cui Pascoli era cresciuto. I 359

Monografia Raccordo

Contesto

Il percorso delle opere

Tra Ottocento e Novecento

Canti di Castelvecchio costituiscono il libro più maturo di Pascoli: l’opera mostra un uso sistematico del simbolismo e dell’analogia, gli strumenti poetici più idonei a cogliere il mistero di cui il poeta si sente circondato.

5 L’originale classicismo dei Poemi conviviali Oltre ai temi campestri, dimessi, di Myricae e dei Canti di Castelvecchio, la poesia di Pascoli praticò anche un’altra tonalità, più ariosa, impegnata a descrivere, narrare, insegnare. Era la linea (di sapore classicista) che, già avviata con i Poemetti più ampi e ambiziosi, si realizzò pienamente prima con i Poemi conviviali (1904), e poi con il volume di Odi e Inni (1906), i cui testi s’incentrano su personaggi contemporanei o moderni, resi illustri da gesta di valore e scoperte scientifiche. I Poemi conviviali sono venti coltissimi poemetti scritti in endecasillabi (sciolti o raccolti in strofette) in cui Pascoli imita il tono degli antichi carmina, le solenni poesie recitate, in onore degli eroi leggendari o di personaggi illustri, durante i banchetti. Pascoli canta perciò figure in gran parte derivate dalla storia e dalla mitologia greca (Alessandro Magno, Ulisse e anche il primo dei poeti, Omero). La serie dei Poemi conviviali costituisce una specie di storia poetica dell’umanità alla luce del mito classico; tuttavia, neppure in questa raccolta Pascoli rinuncia alle tematiche a lui più care, come la presenza del mistero intorno a noi. Diversamente dal classicismo di Carducci, che è rimpianto e nostalgia della virtù d’un tempo, il classicismo pascoliano si sofferma su un mondo pieno d’inquietudine e anche di dolore e di fallimento: nel linguaggio prezioso e raffinato del classicismo, Pascoli trasferisce le inquietudini della propria anima moderna.

6 L’ultimo Pascoli Le ultime raccolte (Odi e Inni del 1906; Le canzoni di re Enzio del 1908-09, rimaste incompiute; Poemi italici del 1911; Poemi del Risorgimento, usciti postumi nel 1913) rappresentano una forte involuzione e un chiaro abbandono della poetica del fanciullino: Pascoli si presenta come il nuovo poeta-vate della nazione, successore di Carducci. Canta temi storici, personaggi resi illustri da scoperte geografiche o scientifiche o da gesta di valore, celebra il Risorgimento o le virtù civili, in un linguaggio ancora sperimentale, ma che applicato a quegli argomenti appare molto artificioso e, quindi, poeticamente poco credibile.

7 Le poesie in latino Pascoli fu autore anche di un centinaio di poesie latine, i Carmina, più volte premiate al concorso di poesia latina di Amsterdam a partire dal 1892. Sono noti, in particolare, i poemetti Veianus (1891), Gladiatores (1892), Fanum Apollinis (“Il tempio di Apollo”, 1904), Thallusa (1911). Risalta anche in questi testi la consueta ricerca di novità: sia linguistica (il latino usato non è quello classico, di Cicerone o Virgilio, ma il latino successivo dei secoli della «decadenza»), sia tematica (protagonisti sono per lo più figure di umili e oppressi).

8 Le prose Pascoli scrisse anche prose, diverse per contenuto e valore. Prima del Fanciullino (1897), lo scritto principale sulla propria poetica, nel 1896 aveva pubblicato un’altra importante opera di teoria poetica, Il sabato, incentrata sulle qualità sensoriali della poesia: «Vedere e udire: altro non deve fare il poeta». Inoltre, negli anni in cui fu professore universitario (dal 1905) scrisse anche studi di critica letteraria: si soffermò su Leopardi (nel discorso La ginestra, letto per il centenario leopardiano del 1898 e incentrato sul motivo della «bontà»), e soprattutto su Dante, un poeta che amò moltissimo. Per illustrare il tessuto simbolico della Divina Commedia (un’operazione, a quell’epoca, di grande novità), scrisse tre libri: Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900) e La mirabile visione (1901). A uso delle scuole compilò due antologie di poesia latina, Lyra romana (1895) ed Epos (1897), e due di letteratura italiana, Sul limitare (1899) e Fior da fiore (1900). Salutato negli ultimi anni come maestro di vita civile, Pascoli tenne diversi discorsi ufficiali: tra questi, in occasione della guerra di Libia (1911), l’orazione di stampo nazionalistico La grande proletaria si è mossa, in cui il «nido» familiare sembra allargarsi all’intera nazione. Il poeta auspica la collaborazione di tutte le classi sociali in vista di un’espansione coloniale che dia respiro alla richiesta di lavoro e sani la piaga dell’emigrazione. 360

Giovanni Pascoli

Generi e opere di Pascoli

RACCOLTE DI VERSI

SCRITTI in prosa DI POETICA

SAGGI DANTESCHI

DISCORSI NAZIONALISTICI

1891

Myricae

brevi liriche ambientate nella campagna romagnola, ispirate alla poetica del «fanciullino»

1897

Poemetti

narrazione in versi (suddivisa in cicli) della vita di una famiglia contadina

1903

Canti di Castelvecchio

brevi liriche ambientate nella campagna toscana della Garfagnana, ancora ispirate alla poetica del «fanciullino»

1904

Poemi conviviali

poemetti di stampo classicistico; molti pubblicati sulla rivista «Il Convito» dal 1894

1906

Odi e Inni

poesia civile e celebrativa, di tono prevalentemente nazionalistico

1896

Il sabato

sul Sabato del villaggio di Leopardi e sul fatto che ogni poeta deve «udire e vedere»

1897

Il fanciullino

il poeta è un eterno fanciullo che sa stupirsi di tutto come un bambino

1898

La ginestra

saggio critico su Leopardi

1898

Minerva oscura

1900

Sotto il velame

1901

La mirabile visione

1911

La grande proletaria si è mossa

interpretazione critica del simbolismo della Divina Commedia

a favore della guerra di Libia

361

Monografia Raccordo

Contesto

SINTESI VISIVA

Tra Ottocento e Novecento

La poetica del «fanciullino» e il suo mondo simbolico 1 Dalla visione oggettiva a quella soggettiva La poetica pascoliana riflette la situazione culturale fra Otto e Novecento, caratterizzata dal rifiuto del Positivismo, dalla sfiducia nella scienza e perfino nella ragione umana come metodo principale di conoscenza. Per Pascoli la realtà non conta tanto in se stessa, cioè come realtà oggettiva, quanto per come l’uomo riesce a vederla e a «sentirla» dentro di sé, come realtà soggettiva. Le piccole cose, quelle della campagna, per esempio, o i gesti dell’infanzia, assumono per lui più importanza delle cose grandi (per esempio i fatti della storia): infatti, se le si guarda con attenzione e si entra in rapporto con loro, esse possono farci intuire i valori autentici della vita. Il punto è che non si può capire la realtà con il ragionamento, ma soltanto immedesimandosi con essa, come fanno i bambini e i poeti. In questa ottica, alla poesia spetta un compito di rivelazione: incapaci di penetrare con la ragione i segreti della natura, gli uomini possono averne una percezione grazie appunto alla poesia.

2 La teoria del «fanciullino» Le concezioni di Pascoli sulla natura e sugli scopi della poesia sono espresse in un lungo e importante scritto, Il fanciullino, pubblicato nel 1897 sulla rivista fiorentina «Il Marzocco». Secondo Pascoli, in ogni uomo c’è un «fanciullo», capace di commuoversi e di sperimentare ogni giorno emozioni e sensazioni nuove. Spesso tale «fanciullino» è soffocato e ignorato dal mondo esterno, degli adulti, ma se si risveglia fa sognare a occhi aperti, fa scoprire il lato attraente e misterioso di ogni cosa, fa volare con la fantasia in mondi meravigliosi. Proprio come nel tempo dell’infanzia, tale «fanciullino» ha conservato la facoltà di «parlare» con gli alberi, i fiori, gli animali, e in qualsiasi momento si può tornare ad ascoltarne la voce. Il «fanciullino» osserva le piccole-grandi cose della campagna con una prospettiva rovesciata: • le cose grandi le vede piccole (il brillare delle stelle, per esempio, gli pare un «pigolio»); • le cose piccole le ingrandisce (un ciuffo di fili d’erba gli sembra una foresta). Il suo metro di giudizio differisce radicalmente da quello degli uomini adulti, civilizzati; è un individuo di natura, non di cultura. Nella metafora di Pascoli, questo fanciullo non è una condizione anagrafica, ma una condizione interiore. Essa rappresenta quella natura pura e ingenua, candida e innocente, che, nella psicologia di un individuo, può conservarsi anche in età avanzata; l’individuo cresce e invecchia, ma il «fanciullino» rimane piccolo dentro di lui, «e piange e ride senza perché». L’importante è non soffocare definitivamente questa voce, che ancora vibra nella parte dell’anima rimasta, appunto, «fanciulla».

3 Il poeta-fanciullo Chiunque riesca a conservarsi fanciullo, dice Pascoli, può: • guardare la realtà circostante con stupore ed entusiasmo; • percepire così il lato bello e commovente di ogni situazione; • oltrepassare, con la fantasia, le apparenze comuni e banali. In altre parole, il fanciullino è colui che sa osservare poeticamente il mondo: le sue facoltà sono le stesse del sentimento poetico. Infatti, nell’ottica di Pascoli, il poeta è precisamente colui che, come i fanciulli, ha mantenuto l’infantile capacità di meravigliarsi e d’intuire, piuttosto che di ragionare. Da lui non potrà che nascere una poesia «fanciulla»: essa rinuncerà all’eloquenza, alla dottrina, all’i362

Le prerogative del fanciullino

IL FANCIULLINO sa percepire con meraviglia

sa esprimere con fantasia

ciò che gli adulti non vedono più: ◗ le cose piccole, che per lui sono grandi

cioè: ◗ con parole semplici e spontanee

◗ le voci segrete della natura, che lo commuovono

◗ con immagini e analogie, non con concetti o erudizione

◗ le cose grandi, che egli riduce alla sua misura

◗ con intuizioni, non con il ragionamento

perciò il fanciullo coincide con il vero poeta perché entrambi

colgono le misteriose relazioni e corrispondenze tra le cose

si esprimono in modo istintivo e irrazionale

usano le parole semplici della gente di campagna

363

Monografia Raccordo

mitazione dei grandi scrittori del passato, e s’ispirerà piuttosto allo stormire delle fronde, al canto dell’usignolo, all’arpa che tintinna. Rifuggirà le grancasse, scrive Pascoli, cioè i modi solenni da poeta-vate (e infatti a un certo punto del suo scritto egli polemizza direttamente con il maestro Carducci), perché il fine della poesia è solo la poesia, la poesia «pura». Se invece l’arte nasce per affermare messaggi esterni (sociali, religiosi o politici), tradisce se stessa e si consegna alla retorica. La posizione di Pascoli è molto vicina all’«arte per l’arte» di parnassiani e simbolisti (왘 p. 49). Pascoli sviluppa ulteriormente il parallelismo tra fanciullo e poeta: • il fanciullo osserva ogni cosa con occhio incantato, perché tutto gli parla di orizzonti sconosciuti e affascinanti; anche il poeta-fanciullo sa cogliere le misteriose relazioni (le corrispondenze di Baudelaire) e analogie che sussistono tra le cose; • il fanciullo «vede» le cose in maniera discontinua, slegata; anche il poeta-fanciullo esprime le proprie immagini in maniera istintiva, pre-logica, se non irrazionale; • il fanciullo vede solo primi piani, non il vicino e il lontano, o il prima e il dopo, e tutto gli appare parimenti importante; ugualmente, al poeta-fanciullo sfuggono le giuste dimensioni perché egli giustappone, una dopo l’altra, le immagini e le sequenze, senza rielaborarle nel giusto ordine; • il fanciullo non si sente affatto superiore rispetto alla natura, e anzi s’immerge con timore in essa, parla agli animali e alle nuvole, s’immedesima con i fili d’erba; anche le parole del poeta-fanciullo sono quelle incontaminate della gente semplice di campagna, cioè sono parlate dialettali, gerghi di arti e mestieri, i versi degli uccelli. Tutto concorre a ringiovanire l’espressione poetica. Affondano qui le radici dello sperimentalismo pascoliano, come vedremo a p. 366.

Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

4 Il simbolismo pascoliano La poetica del «fanciullino» fa di Pascoli un poeta genuinamente simbolista: la parola poetica si carica della soggettività dell’io-poeta, che dice le cose non come sono, ma come le sente. Ciò è vero per quasi tutti i poeti, ma lo è in particolare per i maestri del Simbolismo europeo (Rimbaud, Mallarmé): l’intima conoscenza della realtà può essere espressa solo mediante il simbolo. Cose e presenze naturali sono viste come emblemi di altre realtà, rappresentazioni di un mondo ignoto e invisibile, messaggi da ascoltare e decifrare. Il simbolismo di Pascoli è meno intellettuale e più istintivo. Quella del «fanciullino» è una visione «bassa»: essendo privo di filtri culturali, di aspettative o finalità ideologiche, egli può percepire il mondo solo in maniera infantile, ingenuamente. Il suo sguardo si ferma incantato su ogni cosa, si lascia dominare dai particolari, senza riuscire più a ricostruire una visione d’insieme, salda e razionale. Il poeta-fanciullo si fissa ora su una foglia (su questa foglia) ora su un fiore (su questo fiore), rimane senza fiato davanti a nuvole, stelle, voli d’uccello. Ciascuna di queste realtà, per lui, è un flash (un’immagine-simbolo) del mistero indefinibile del mondo. Perciò le ambientazioni di Pascoli non sono mai sintetiche, ma sempre analitiche; invece di offrire visioni bene ordinate, affastellano dettagli. Egli non conosce, o rifiuta, lo sguardo «onnisciente» del poeta-intellettuale, capace di ritrovare il senso dell’assieme. A Pascoli non interessava offrire al lettore tutti i dati importanti di un certo quadro, quanto, piuttosto, moltiplicare i punti di vista, accavallare i piani della visione. Perciò i simboli del poeta-fanciullo non si caricano (quasi) mai di tensione intellettuale (alla maniera, per esempio, di Mallarmé). Quando Pascoli si sforza di «costruire» i propri simboli, ottiene risultati poco convincenti, come avviene, per esempio, in Il libro, uno dei Poemetti. Esso rappresenta allegoricamente la condizione del pensiero umano, che cerca di decifrare il proprio destino e di «leggere» nella propria misteriosa natura: come fa una mano che sfoglia le pagine di un vecchio libro aperto su un leggio, alla ricerca di qualcosa che non trova mai. Qui siamo appunto davanti a un’allegoria, calcolata in modo intellettualistico.

5 Presenze simboliche: le campane, i fiori, gli uccelli Ben più suggestivi sono i simboli spontanei di Pascoli, perché si legano al mondo interiore del poeta-fanciullo. Un mondo che affiora sulla pagina dallo stretto contatto con la vita semplice della campagna, dalle sue umili presenze: le campane, i fiori, gli uccelli. Le campane suonano, come in La mia sera, soprattutto per evocare un’atmosfera di sogno, per accendere la memoria felice dell’infanzia; la loro voce è spesso mimata da parole onomatopeiche (don don, dondolio e simili). I fiori di Pascoli divengono spesso (come in Digitale purpurea e Il gelsomino notturno) il simbolo della sessualità bloccata: il suo è un mondo senza amore e senza sessualità, perché privo di vere relazioni con il mondo degli altri. Infine, gli uccelli sono gli animali più citati dal poeta: essi si collegano da un lato al simbolo fondamentale del «nido» (a cui si è accennato ma che approfondiremo poco oltre), dall’altro appaiono come abitatori di quella misteriosa regione (il cielo) da cui anche le campane mandano la loro voce, e che suggerisce messaggi e voci struggenti, anche se non sempre decifrabili. Pure il canto degli uccelli viene reso da Pascoli attraverso il frequente ricorso all’onomatopea, come in Dialogo. Invece l’uccello notturno, la civetta o l’assiuolo, con il suo prolungato chiù lancia presagi di morte, apre finestre sull’incubo. Udito nel dormiveglia, il singhiozzo dell’assiuolo suscita angoscia, un turbamento indicibile.

6 Il «nido» e la madre Nella «costellazione simbolica» pascoliana, cioè nel suo mondo – più o meno spontaneo – di simboli e significati, l’immagine simbolica decisiva è quella del «nido». Si tratta anzitutto di un’immagine reale, perché molte poesie vedono gli uccelli quali protagonisti. Ma il nido vale soprattutto come metafora: • «nido» è la casa, in cui rinchiudersi per sfuggire al male che sta fuori; • «nido» è la famiglia, oltre la quale, per il poeta-fanciullo, vi sono solo i malvagi; • «nido» è, per estensione, anche la patria, madre dei suoi figli (cantata dal Pascoli nazionalista). «Il mistero della vita – scrive Pascoli nella Prefazione ai Nuovi poemetti – è grande e il meglio che ci sia da fare è di stare stretti più che si possa agli altri.» Gli studiosi hanno voluto esaminare in chiave psicologica questo motivo poetico del nido; a loro giudizio, esso è un sintomo: 364

7 La crisi dell’uomo contemporaneo Le immagini del nido e della madre sono da interpretare come una reazione al male, a un contesto negativo: il nido è principalmente un rifugio, protetto dalla complicità di chi lo abita, contro il dolore, i lutti, le violenze del mondo. Tutto il pensiero di Pascoli prende il via dall’evento-choc consumatosi quando il poeta aveva solo dodici anni: il padre in una pozza di sangue, ucciso da una cieca violenza. Tutta la storia, da qui in poi, appare cattiva al poeta, e infatti l’immagine del nido si accompagna regolarmente a quella dei pericoli che incombono su di esso. Solo nel nido si può vivere; fuori ci sono unicamente solitudine e incomprensione. Perciò nella poesia pascoliana non c’è vita di paese, manca quel tessuto di relazioni sociali che costituisce invece lo sfondo della società contadina – e che si percepisce anche, per esempio, negli idilli leopardiani. Se le cose stanno così, il male più grande, per Pascoli, è la dispersione del nido, il suo sciogliersi: per esempio quando si deve lasciare la casa, come si narra in Romagna, una delle prime poesie di Myricae; oppure quando muore un fratello o la madre; o ancora, se qualcuno della famiglia si allontana, per sposarsi. Ogni partenza dal nido è un tradimento: così viene giudicato il fidanzamento della sorella Ida in Per sempre. È la biografia stessa di Pascoli a testimoniarci la sua incapacità di «uscire dal nido», cioè di misurarsi con le difficoltà del mondo e di vivere un’esistenza adulta. Alla fine, il nido pascoliano – questa sorta di limbo incantato, che difende chi sta dentro da ogni incursione della vita reale; questo tentativo di recuperare l’infanzia come un’età dell’oro, unico tempo davvero sereno, perché non è soggetto alle delusioni e ai rischi del vivere – diviene un simbolo poetico dell’inettitudine, dell’incapacità di vivere raffigurata da molti scrittori del Novecento. Soprattutto Myricae e i Canti di Castelvecchio sono libri colmi di inquietudini, di dolorosi presentimenti; l’idillio vi appare continuamente turbato, sempre sull’orlo di spezzarsi. Con grande efficacia queste due raccolte poetiche danno voce al fondamentale disagio e alla crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo.

La costellazione simbolica di Pascoli

“ attenzione ai particolari, ai dettagli

il nido, la madre

regressione all’infanzia



nascono da una percezione «bassa» e istintiva

l’ambiente naturale del fanciullo

rifiuto della vita adulta, percepita come male



i simboli del poeta-fanciullo

cose e realtà della campagna

un’espressione dell’esclusione e dell’inettitudine dell’uomo novecentesco

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Monografia Raccordo

• della «regressione all’infanzia» di Pascoli, cioè del suo desiderio di tornare alla condizione infantile di sicurezza; • della sua istintiva diffidenza verso ciò che è sconosciuto, verso il mondo esterno o adulto; • della volontà, per reazione, di restare chiusi e protetti in una piccola cerchia di affetti familiari (la casa, la sorella più cara); • in senso più estensivo, si è visto nel nido un riflesso delle paure che un giovane della società rurale di fine Ottocento nutriva verso la civiltà industriale e borghese. Accanto al simbolo del nido, la figura della madre: la primordiale custode dei riti e dei sentimenti di quanti – vivi e morti, uniti indissolubilmente – si riconoscono nel nido o gli sono appartenuti. Perciò all’immagine del nido si lega quella della culla, sorta di prolungamento del seno materno: il bambino si addormenta tranquillo in braccio alla mamma, dimentica ogni insicurezza, come in un’ovatta candida, anche se fuori infuria la tempesta. È il mito poetico cantato in La mia sera.

Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

Lo stile e le tecniche espressive 1 Una «lingua speciale» per la poesia La poetica del «fanciullino» comportava novità profonde rispetto alla poesia precedente. Pascoli mette in versi sogni, incubi, visioni, in cui pone sullo stesso piano il reale e l’irreale, giungendo a inscenare impossibili colloqui di vivi e di morti. Tutto ciò significava spingere molto in là le possibilità della lingua, adottando soluzioni formali nuove su ogni piano: • a livello del suono delle singole parole (ambito fonico); • a livello del significato dei vocaboli (ambito semantico); • per quanto riguarda la struttura della composizione (ambito ritmico e metrico); • sul piano della struttura del periodo (ambito sintattico); • infine, per ciò che concerne l’uso delle figure retoriche (ambito retorico). L’originalità di tutto questo s’intonava perfettamente alle ricerche espressive in corso a livello europeo. Anche Pascoli, come i maggiori poeti di primo Novecento, voleva costruire una sorta di «lingua speciale» della poesia: un linguaggio ben diverso da quello comune, un’espressione che valesse non tanto per ciò che dice, ma per i suoi suoni, le allusioni, i silenzi.

2 I suoni: l’uso delle onomatopee Sul piano fonico Pascoli fa largo uso dell’onomatopea (E scheda a p. 386), cioè di parole o espressioni che riproducono un rumore o un suono particolare. Per esempio, per indicare un temporale scrive: «Un bubbolìo lontano...». Il lavoro ritmato delle donne al lavatoio è «lo sciabordare delle lavandare / con tonfi spessi e lunghe cantilene»; le rane emettono un gre gre, le campane suonano con i loro rintocchi: Don, don... Grande rilievo hanno, nell’onomatopea pascoliana, i suoni degli uccelli, riportati con puntigliosa precisione (scilp, videvitt, chiù). Le onomatopee pascoliane, però, non sono strettamente naturalistiche. Il loro scopo non è soltanto quello di evocare i rumori effettivamente esistenti in natura, ma anche quello di creare nuove suggestioni ed evocazioni, richiamando al lettore realtà indeterminate, lontane, spesso percepite come minacciose e inquietanti.

3 La scelta lessicale: diversi livelli di linguaggio Sul piano lessicale Pascoli sperimenta molteplici soluzioni. • Talora cerca un linguaggio raro e prezioso, anche arcaico – similmente a quanto faceva in quegli anni D’Annunzio – che suscita nel lettore una sensazione di mistero. • A volte adopera vocaboli tratti dal linguaggio settoriale di una qualche attività o mestiere, come quello del contadino: in questi casi ricerca la massima precisione. Ciò costituiva una forte novità nel panorama retorico della poesia italiana. • Altrove, utilizza il linguaggio «pregrammaticale» dei bambini, e/o quello «agrammaticale» degli illetterati: nel poemetto Italy il dialetto toscano si mescola a tratti al linguaggio degli italoamericani di Brooklyn, i quali per parlare di «affari» utilizzano il termine bisini, corruzione di business.

4 La rivisitazione della metrica tradizionale Lo sperimentalismo pascoliano non abolisce la metrica: il verso libero sarà una conquista successiva, pur se già adombrata da D’Annunzio. Anzi, Pascoli ridimensiona il desiderio di novità così vivo a fine Ottocento; riutilizza sistemi metrici e ritmici molto tradizionali o antichi (il sonetto, la terzina di endecasillabi danteschi, le strofe della poesia greca e latina), conservando anche l’uso della rima. 366

5 Una sintassi soggettiva Anche sul piano sintattico, Pascoli rifiuta l’uso di una costruzione di tipo tradizionale, che pone una precisa gerarchia fra gli elementi del discorso e che richiama, quindi, un’idea chiara e precisa del mondo. Prevale in lui una visione soggettiva e incerta della realtà: l’uomo è circondato di mistero e il mondo è tutt’altro che chiaro e univoco (non offre cioè un solo significato). Da qui derivano l’uso tipicamente pascoliano di frasi ellittiche (prive di soggetto o verbo; soprattutto dell’ausiliare «essere») e il ricorso sistematico alla coordinazione, anziché alla subordinazione. I periodi, per lo più brevissimi, si accavallano, come a tradurre il punto di vista infantile, tipicamente pascoliano; o meglio, come a voler esprimere la crisi che è subentrata nella visione del mondo. Gli elementi della frase vengono accostati l’uno all’altro, spesso senza essere uniti da congiunzioni: l’accostamento avviene in base a ciò che le parole stesse suggeriscono oppure per analogia, che però è soggettivamente stabilita dall’autore, cioè è determinata dalla relazione che egli pone fra una cosa e un’altra.

6 Analogia e sinestesia: la sperimentazione retorica In Pascoli è costante l’uso dell’analogia, il procedimento che sopprime, per così dire, il legame del «come». I passaggi logici intermedi fra due termini vengono cancellati e sono accostati due concetti che fra loro non avrebbero un nesso logico; il nesso è fornito solo dall’immaginazione del poeta. Così avviene per esempio in «soffi di lampi» o in «sospiro di vento». In X agosto il poeta accosta analogicamente fra loro, a scopo simbolico, la morte del padre, quella della rondine e il pianto di stelle. Anche sul piano retorico Pascoli attua la sua sperimentazione. Usa in particolare le figure che si prestano a evocare sensazioni suggestive, come la sinestesia, che accosta parole (spesso un aggettivo e un sostantivo) appartenenti a sfere sensoriali diverse. Così accade nell’immagine «soffi di lampi» (L’assiuolo), dove la nota visiva (i bagliori lontani dei lampi) si trasforma in una nota tattile, in un soffio vicino. In «tremolìo sonoro» si associano livello visivo (o tattile) e livello uditivo; altri esempi sono «pigolìo di stelle», «odor di sole». Invece «tacito tumulto» è addirittura un ossiLa parola al critico moro, cioè un’associazione di per sé contraddittoria. • F. Curi, La «perdita d’aureola» in Pascoli e D’Annunzio

largo uso dell’onomatopea



novità di lessico

parole ora arcaiche e preziose, ora precise (gergo di arti e mestieri), ora dialettali e sgrammaticate



novità di sintassi

periodi brevi, prevalenza della coordinazione, discorso spezzettato

novità metriche

frequenti cesure, numerosi segni di punteggiatura _ nenia, cantilena

novità nelle figure retoriche

uso di sinestesia e analogia, figure che suggeriscono senza definire

“ rinnova profondamente il linguaggio poetico tradizionale

ESITO: poesia «fanciulla»





novità di suoni



poetafanciullo



La rivoluzione stilistica di Pascoli

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Monografia Raccordo

Però rivisita queste forme con accenti e ritmi del tutto inediti: talora spezza il verso con puntini di sospensione, esclamativi, interrogativi, così da far percepire quanto sia «pre-logico» («prima» della logica) il discorso della voce narrante (una voce «fanciulla»). Talora rende il ritmo poetico simile a un singhiozzo, talora tende ad avvicinarsi alla nenia, alla cantilena dei bambini. In sostanza, la tradizione metrica viene piegata da Pascoli ad assumere valori tutt’altro che tradizionali.

Contesto

Giovanni Pascoli

L’OPERA

IL FANCIULLINO

L’origine dell’opera ◗ Pascoli rimase sempre affezionato a questo saggio, che avrebbe anzi voluto ampliare ulteriormente, corredando la parte teorica con molti esempi, fino a farne un libro scolastico. Lo compose nel 1896: la prima puntata uscì sulla rivista fiorentina «Il Marzocco» nel gennaio 1897 con il titolo Pensieri sull’arte poetica; fra marzo e aprile seguirono tre successive puntate; poi la pubblicazione sul «Marzocco» fu interrotta. In versione completa il testo fu stampato solo nel 1903, con titolo definitivo Il fanciullino, ad aprire il libro di prose Miei pensieri di varia umanità. ◗ Tra l’una e l’altra stesura, come ha rilevato lo studioso Maurizio Perugi, si verificò un evento importante: Pascoli poté infatti leggere gli Studi sull’infanzia dell’inglese James Sully (1895), un manuale di psicologia infantile che venne a confermare le sue osservazioni e intuizioni riguardo alla genuinità della maniera infantile di conoscere il mondo e appropriarsene attraverso le parole.

I contenuti ◗ Il testo è suddiviso in 20 brevi capitoli, come una sorta di dialogo interiore fra il poeta e la sua anima di «fanciullino», ancora palpitante, la quale sopravvive accanto alla vigile coscienza dell’uomo adulto e maturo. Questa figura metaforica del «fanciullino» viene delineata soprattutto nei primi tre capitoli: il «fanciullino», dice Pascoli, equivale alla voce profonda dell’animo umano, che segue percorsi (di conoscenza e di espressione) non razionali, bensì intuitivi e analogici. ◗ Nei successivi capitoli è messa in rilievo la perfetta corrispondenza tra il «fanciullino» e il poeta. La poesia, dice Pascoli, è vera poesia solo se riesce a parlare con la voce del «fanciullino», al di là dei pudori, dei timori e delle convenzioni dell’età adulta. La poesia «fanciulla» non scaturisce dall’abilità retorica o dalla padronanza culturale. Il poeta, prosegue l’autore, non deve insegnare, ammonire, muovere all’azione: il poeta «è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non storico, non maestro, non tribuno o pedagogo». Poesia è lo stormire delle foglie, il gorgoglio del ruscello, il canto dell’usignolo; è l’arpa al cui tintinno bisogna avvicinarsi, per udirlo meglio; ma non sono poesia i tromboni e la grancassa della banda paesana, che assordano la campagna e dai quali bisogna allontanarsi, per non esserne intronati (chiarissima l’allusione a Carducci, il «padre» poetico da negare). ◗ Nel seguito, però, l’autore passa a esaminare la dimensione implicitamente pedagogica e morale della scrittura letteraria: infatti, seguendo i sentimenti del «fanciullino», la poesia che ne scaturisce non può che incarnare (e quindi comunicare) i valori della bontà e della giustizia. Pascoli riprende un concetto di Foscolo (e, prima di lui, di Omero), secondo cui la poesia mitiga la ferocia primitiva degli uomini. ◗ Infine l’ultimo capitolo traccia un bilancio conclusivo, che fissa sia le aspirazioni etiche, sia il ritratto ideale del poeta-fanciullo: «La poesia, per ciò stesso che è poesia, senz’essere poesia morale, civile, patriottica, sociale, giova alla moralità, alla civiltà, alla patria, alla società. Il poeta non deve avere, non ha, altro fine (non dico di ricchezza, non di [...] gloria) che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo. I poeti hanno abbellito agli occhi, alla memoria, al pensiero degli uomini, la terra, il mare, il cielo, l’amore, il dolore, la virtù...». Ciò significa che, dal punto di vista di Pascoli, la poesia è utile agli uomini e alla società pur rimanendo autonoma (o meglio, proprio perché rimane autonoma), cioè in quanto si svincola da finalità pratiche e civili, e coltiva una sua bellezza «separata».

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Il fanciullo che è in noi Il fanciullino, capitoli I e III Anno: 1897 Temi: • la profonda affinità tra poesia e condizione infantile • lo stupore del poeta-fanciullo davanti al mondo • l’esortazione a risvegliare in ogni adulto la capacità di meravigliarsi, e quindi di essere poeti Leggiamo l’esordio della prosa pascoliana (la prima parte del capitolo I) e quindi buona parte del capitolo III. Vi troviamo un condensato della poetica pascoliana, espressa in un linguaggio volutamente allusivo e simbolico.

la disposizione alla meraviglia, e alla poesia, sopravvive nel fondo della nostra anima in ogni età della vita

allude a una seconda vista, un’esperienza più profonda e più vera di quella affidata ai sensi

I È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi.1 Quando la nostra età è tuttavia tenera,2 egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono,3 si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi4 noi cresciamo, ed 5 egli5 resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare,6 ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia;7 noi ingrossiamo e arrugginiamo8 la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo9 squillo come di campanello. [...] Non l’età grave impedisce di udire la vocina del bimbo interiore, anzi invita forse e aiuta,10 mancando l’altro chiasso intorno, ad ascoltarla nella penombra dell’anima. 10 E se gli occhi con cui si mira fuor di noi, non vedono più,11 ebbene il vecchio vede allora soltanto con quelli occhioni che son dentro di lui, e non ha avanti sé altro che la visione che ebbe da fanciullo e che hanno per solito12 tutti i fanciulli. E se uno avesse a dipingere Omero,13 lo dovrebbe figurare14 vecchio e cieco, condotto per ma15 no da un fanciullino, che parlasse sempre guardando torno torno.15 [...] III [...] I segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli16 è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede17 o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie,18 agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di

1. È dentro... suoi: Dentro ciascuno di noi vi è un fanciullino, che non prova solo sensazioni indefinite (brividi), ma anche lacrime e gioie (tripudi). Cebes Tebano è un personaggio del dialogo Fedone di Platone; egli sostiene che «forse c’è anche dentro di noi un fanciullino che ha timore di siffatte cose: costui dunque proviamoci di persuadere a non avere paura della morte come di visacci d’orchi» (Fedone 77 e). 2. tuttavia tenera: ancora infantile. 3. e dei due fanciulli... piangono: e tra i due fanciulli (quello reale e il fanciullo interiore) che fanno chiasso e litigano, per gioco, e che, sempre allo stesso tempo, provano sentimenti contrastanti (timore, speranza, felicità, pianto).

4. quindi: successivamente. 5. egli: il fanciullo interiore. 6. un nuovo desiderare: gli adulti desiderano soldi, successo ecc. 7. antica... maraviglia: lo stupore primordiale di fronte al mondo. 8. arrugginiamo: la voce diviene roca con l’età. 9. tinnulo: acuto. 10. Non l’età... e aiuta: non è la vecchiaia a impedirci di udire la voce del nostro fanciullino interiore; anzi, aggiunge Pascoli, invecchiando si torna a udirla quasi come un tempo. 11. E se gli occhi... più: cioè se con gli anni si diventa ciechi o quasi ciechi (mira = guarda).

12. per solito: di solito. 13. Omero: l’autore dei poemi greci Iliade e Odissea. 14. figurare: raffigurare. 15. torno torno: tutt’intorno a sé. 16. Egli: il fanciullo interiore; è lui a provare spavento, a sognare ecc. 17. al buio vede: ha paura del buio non perché non vede più ma, anzi, perché vede cose spaventose! Solo il fanciullino, dice Pascoli, sa vedere nel buio, e perciò si impaurisce. 18. quello che parla alle bestie: è lui, il fanciullino che abita in noi, a spingerci a parlare agli animali, come se questi potessero intenderci.

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Monografia Raccordo

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Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

il fanciullino è l’unico ad accorgersi di ciò che sfugge agli altri la rimozione della sessualità è tipica di Pascoli

ci costringe a rallentare il passo, a incantarci come un tempo davanti alla natura

richiama la poetica simbolista delle «corrispondenze» (Baudelaire, Rimbaud) cambia le misure, perché nulla, per lui, è intoccabile

quattro professioni, quattro condizioni, come esempio di chi (per ora) non ascolta il «fanciullo» originario

fantasmi e il cielo di dèi. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che 20 sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva.19 Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena.20 Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore,21 25 perché accarezza esso come sorella22 (oh! il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire23 di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna.24 Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell’uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive,25 e in un cantuccio26 dell’anima di chi più non crede, vapora d’incenso l’altarino27 che il bimbo ha 30 ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra28 che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce29 che riluce. E ciarla intanto,30 senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, 35 perché egli è l’Adamo che mette il nome31 a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio32 stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la co- 40 sa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola.33 E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui34 riconoscere sempre ciò che vide una volta. C’è dunque chi non ha sentito mai nulla di tutto questo? Forse il fanciullo tace in voi, professore,35 perché voi avete troppo cipiglio,36 e voi non lo udite, o banchiere, tra 45 il vostro invisibile e assiduo conteggio. Fa il broncio in te, o contadino, che zappi e vanghi, e non ti puoi fermare a guardare un poco; dorme coi pugni chiusi in te, operaio, che devi stare chiuso tutto il giorno nell’officina piena di fracasso e senza sole. Ma in tutti è, voglio credere.37 G. Pascoli, Poesie e prose scelte, a cura di C. Garboli, A. Mondadori, Milano 2002

19. ci salva: da angoscia e smarrimento. 20. la parola... frena: ci apostrofa con parole riflessive, che ci impediscono di perdere il controllo. 21. fa umano l’amore: perché lo libera dalla sensualità e lo spiritualizza. 22. accarezza esso come sorella: e dunque senza passione erotica. 23. bramire: ruggire. 24. la bambina... donna: in ogni donna adulta c’è una «fanciulla», una bambina. 25. stridule fanfare... pive: se vengono suonati dal fanciullino, gli strumenti che celebrano gli eroi si abbassano al livello di cornamuse, pifferi. 26. cantuccio: angolino. 27. vapora d’incenso l’altarino: adorna con il profumo d’incenso l’altarino su cui

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gioca a dire messa; cioè continua a coltivare le credenze religiose abbandonate dall’uomo adulto (di chi più non crede). Pascoli non era credente, ma rimase legato alla religiosità ingenua e sentimentale dell’infanzia. 28. cinciallegra: un uccello. 29. selce: pietra. 30. ciarla intanto: continua a chiacchierare. 31. l’Adamo... il nome: secondo il libro della Genesi (II, 19-20), Adamo impose il nome agli animali creati da Dio. Mettere il nome significa conoscere intimamente la natura e inventare il linguaggio: il fanciullino, con la sua ingenuità, lo rifà nuovo ogni volta che lo usa. 32. meglio: più. Cioè: cambia i nomi non

tanto perché conosce poco la lingua, ma perché si stupisce di tutto ed è curioso di tutto. 33. è imperfetto... dia per una parola: il fanciullino parla in modo improprio, ma non per ignoranza, perché non sa le parole, bensì perché ha troppo da dire, e le parole non gli bastano. Il linguaggio simbolico, insomma, lascia intendere più di quanto non dica. 34. a cui: in base al quale. 35. voi, professore: una figura professionale a caso. 36. cipiglio: serietà. 37. in tutti è, voglio credere: il fanciullino è presente in ogni individuo, o almeno questa è la speranza del poeta.

IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ Il poeta, dice Pascoli, è chi – qualunque età anagrafica abbia – sa mantenere viva dentro di sé la disponibilità a vedere e a cantare la vita con l’ingenuo entusiasmo del bambino. Egli vive un rapporto visionario con il mondo: vede al buio e sogna alla luce; piange e ride di cose che sfuggono alla ragione e ai sensi comuni; ricorda dimensioni mai viste da alcuno; popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dèi. ■ Centrale, nel terzo capitolo, è l’immagine del fanciullino come l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente (r. 36). Pascoli cita qui il libro biblico della Genesi: del resto, un po’ tutti i decadenti ritenevano che l’esperienza

artistica fosse molto vicina all’esperienza religiosa. Pascoli aggiunge che il fanciullo scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più sorprendenti: il poeta le riprende poi nella sua poesia. Anche qui è evidente il contatto con le poetiche decadenti, soprattutto con Rimbaud, per il quale il poeta è un «veggente». ■ Nella conclusione l’autore esorta varie figure umane (il professore, l’uomo d’affari, il contadino, l’operaio) a fare spazio dentro di loro alla magica presenza del fanciullino. Esso alberga nell’anima di tutti, senza che sia ancora stato completamente soffocato dalla vita adulta.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Esistono, dice Pascoli, due età nella vita umana: fanciullezza e maturità. La seconda sa dire, mentre la prima no: dic[e] la cosa […] a mezzo. Però la fanciullezza, più ingenua, sa vedere. Il poeta è chi, divenuto adulto e non potendo più vedere, dice ciò che ha visto da fanciullo. Naturalmente ciò che vide da fanciullo non sono i temi “adulti”, come la guerra, la competizione economica ecc.; sono la meraviglia,

i sogni, le nuvole, gli uccelli come la cinciallegra, il fiore che odora ecc. ■ Poiché tutti sono stati fanciulli, ne deriva che tutti sono – o possono essere – poeti, almeno in parte. Bisogna però che risveglino, e poi mantengano viva in loro, quell’antica serena maraviglia da cui sola può sgorgare la poesia.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi 1. Pascoli sceglie l’infanzia per rappresentare metaforicamente la condizione del poeta. a. Spiega le ragioni di tale scelta: perché per esempio non ha scelto la vecchiaia, oppure un’altra età o condizione umana? (max 5 righe) b. Elenca gli attributi e le definizioni che, via via, l’autore riferisce al «fanciullino». 2. L’argomentazione di Pascoli si serve della tecnica della contrapposizione: l’autore oppone il comportamento infantile del fanciullo a quello dell’uomo maturo, che agisce secondo le regole. a. Compila la tabella raccogliendo gli elementi nel brano. regole della vita normale

comportamento del fanciullo

vivere con i piedi per terra

ha paura del buio

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3. L’autore esemplifica la sua concezione con la figura di Omero, il primo dei poeti. a. In quale punto del brano emerge il richiamo a Omero? ................................................................................... b. Spiega con le tue parole in che modo tale richiamo sostiene la tesi di Pascoli. ................................................................................................... ................................................................................................... ................................................................................................... 4. Il fanciullo, dice Pascoli, è colui che osserva il mondo come il primo uomo all’indomani della creazione. a. In quale punto del brano si esprime questa idea? ................................................................................................... b. Che cosa aveva di particolarmente «poetico» il primo uomo? ...................................................................................... ................................................................................................... c. Evidenzia gli altri richiami alla religione presenti (in modo diretto o indiretto) nel brano. d. Ora rifletti: secondo te, quale idea di religione trapela dal brano? ................................................................................................... ................................................................................................... ................................................................................................... 371

Monografia Raccordo

ANALISI DEL TESTO

Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

{ Forme e stile 5. Lo sguardo del fanciullino contamina le dimensioni e le distanze: egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e viceversa; rimpicciolisce per poter vedere e ingrandisce per poter ammirare.

LAVORIAMO SU

a. Spiega con le tue parole perché questa sensibilità è connaturata all’anima «fanciulla». ................................................................................................... ................................................................................................... ................................................................................................... b. E quali conseguenze essa produce sullo stile poetico? Cerca la risposta nel brano e sottolineala.

LINGUA E LESSICO

1. Il linguaggio di questa prosa è ricercato. Solo in apparenza è vicino all’espressione popolare: in realtà è molto concentrato e metaforico, tale da obbligare il lettore a uno sforzo d’immedesimazione e di «ascolto» interiore. a. Lavora sui due livelli del testo individuando e trascrivendo: – espressioni di carattere popolare .................................. ................................................................................................... – richiami alla vita quotidiana ............................................ ...................................................................................................

– immagini metaforiche ....................................................... ................................................................................................... – espressioni dense e concentrate .................................. ................................................................................................... b. Ora rifletti: a tuo avviso, perché la forma scelta da Pascoli non è quella di un saggio teorico, ma piuttosto quella di una prosa poetica, ricca di fantasia e di immagini simboliche? ................................................................................................... ................................................................................................... ...................................................................................................

Il poeta come «fanciullo»: un motivo antico, da Platone a Vico e ai romantici Pascoli non fu il primo a mettere in relazione l’ispirazione poetica con la sensibilità infantile. Nel brano letto è lui stesso a citare il Fedone di Platone;

■ Giuseppe Pellizza da Volpedo, Mammine (1892).

372

ma la sua fonte più vicina era Giambattista Vico (1668-1774) con la sua teoria della poesia come frutto delle «età di barbarie», quando gli uomini coltivavano, in luogo della ragione, il «senso» e il «sentimento». Anche la successiva elaborazione dei preromantici portava alla predilezione per l’umanità «primitiva», capace di arte proprio perché meno condizionata dalla società; e anche il primo Leopardi celebrava le «età fanciulle» per le loro innate risorse di immaginazione e sentimento. Da Vico, oltre a questa idea dell’infanzia come età poetica, Pascoli derivò anche l’idea che la poesia sia la prima forma di conoscenza e il primo linguaggio dell’umanità. Il poeta è colui che all’improvviso illumina l’oscurità; egli fa apparire le cose nominandole, è l’Adamo che, come si legge nella Bibbia, mise il nome a tutte le cose nel giardino dell’Eden. In questo modo il

poeta appare come una sorta di dio o di mago, che si sporge a comprendere e a riproporre i linguaggi non umani (per esempio il canto degli uccelli, che Pascoli suggestivamente imita, nelle sue liriche, con l’onomatopea). C’è però una forte differenza tra le tesi dei romantici e il Pascoli del «fanciullino». I primi infatti mettevano l’accento sul sentimento, mentre Pascoli valorizza la sensazione. Ciò che i romantici avevano elaborato su un piano ideale, anche a livello civile, Pascoli lo trasforma in culto dell’istintuale, del corporeo, del frammento privo di elaborazione intellettuale. Perciò Pascoli è una delle prime e più significative voci del Decadentismo italiano, insieme a D’Annunzio. Rispetto a quest’ultimo, però, egli abbassa alla percezione smarrita e sommessa del «fanciullino» ciò che, nel poeta pescarese, è magnificenza sensitiva di «superuomo».

Il poeta è poeta, non oratore o predicatore Il fanciullino, capitolo XI Anno: 1897 Temi: • la poesia è intuizione, non messaggio • il poeta è un fanciullo, non un maestro • la poesia possiede valori profondamente umani e civili, ma li esprime con umiltà, in punta di piedi In quest’altro passaggio fondamentale del Fanciullino, Pascoli rigetta un’idea «eteronomistica» della poesia: in altre parole, essa ha le sue leggi in sé, vive per se stessa, non per avvalorare comportamenti, scelte, ideali ecc. La poesia, insomma, è un’attività del tutto «autonoma». Siamo vicinissimi all’idea decadente dell’«arte per l’arte».

la poesia «fanciulla» possiede profondi valori morali e civili, ma essi sgorgano in modo spontaneo, non costruito

Pascoli respinge con forza qualsiasi finalità pedagogica o didascalica della poesia (com’era quella di Manzoni o di Carducci)

Il poeta, se è e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi1 solo ciò che il fanciullo detta dentro,2 riesce3 perciò ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano. Quindi4 la credenza e il fatto, che il suon della cetra5 adunasse le pietre a far le mura della città, e animasse le piante e ammansasse6 le fiere della selva primordiale; e che i cantori7 guidassero e educassero i popoli. Le pietre, le 5 piante, le fiere, i popoli primi, seguivano la voce dell’eterno fanciullo, d’un dio giovinetto, del più piccolo e tenero che fosse nella tribù d’uomini salvatici. I quali, in verità, s’ingentilivano8 contemplando e ascoltando la loro infanzia. [...] Ma il poeta non deve farlo apposta.9 Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non mae- 10 stro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace10 del maestro, un artiere11 che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri,12 un artista che nielli e ceselli l’oro che altri gli porga.13 A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che14 il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra. Egli, anzi, quando li trasmette, pur essen- 15 do in cospetto d’un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui. [...] Unisce i suoi pensieri con quel ritmo nativo, che è nell’anima del bimbo che poppa e del monello che ruzza.15 20 Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze16 civili e sociali?

1. significhi: esprima. 2. detta dentro: cita un famoso verso in cui Dante (Purg. XXIV, v. 54) definiva la poesia come il frutto dell’ispirazione di Amore, cioè di ciò che l’amore «ditta dentro». 3. riesce: risulta. 4. Quindi: da qui deriva. 5. suon della cetra: allude al racconto mitologico di Orfeo, il poeta che, secondo la leggenda, sapeva compiere prodigiose azioni semplicemente suonando la sua cetra. 6. ammansasse: ammansisse. 7. cantori: poeti. 8. s’ingentilivano: si incivilivano.

9. Ma il poeta non deve farlo apposta: educare l’umanità è un risultato che scaturisce spontaneo dalla poesia «fanciulla», non lo si può preparare intenzionalmente. 10. con pace: con buona pace, malgrado ciò che pensa. Il maestro è Carducci, a cui Pascoli subentrò nel 1905 sulla cattedra di letteratura italiana a Bologna. La profonda stima non nasconde il divario d’idee. 11. un artiere: artigiano. È un’immagine di Congedo, l’ultima lirica delle Rime nuove carducciane. 12. tanti altri: gli estetizzanti e D’Annun-

zio. 13. nielli... altri gli porga: che rifinisca l’arte come un orafo. La niellatura è un lavoro di oreficeria, in cui si riempie l’incisione con una lega di stagno, argento e zolfo di color nero, per render più visibile il disegno. In questi altri saranno da riconoscere i classicisti, che traducono, imitano, ripetono le forme e i contenuti della tradizione. 14. che: che non. 15. ruzza: gioca e si accapiglia con i compagni. 16. provvidenze: sollecitazioni, messaggi.

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Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

i poeti fanno parte dell’umanità, ma rispetto agli altri uomini hanno un dono speciale

l’ispirazione profonda, istintiva, del fanciullo interiore suggerisce parole lontanissime da ogni artificio e retorica

Senza accorgersene, se mai.17 [...] Si trova ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie18 di una famiglia povera. Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di tutti. Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare. Egli 25 non trascina, ma è trascinato; non persuade, ma è persuaso. [...] Perché pensi alla patria e alla società, bisogna proprio che sia un momento che tutti intorno a lui ci pensino. Se no, è un guaio serio. Il bambino non è un bambino che s’impanchi19 a far lezione quotidiana d’amor patrio o d’amor paterno e materno ai suoi fratellini, e anzi ai suoi zii e nonni. Chi 30 pretende che faccia questo, vuole che20 il vispo fanciullo sia un vecchio noioso; vuole, insomma, che non esista la poesia. Perché la poesia, costretta a essere poesia sociale, poesia civile, poesia patriottica, intristisce sui libri, avvizzisce nell’aria chiusa della scuola, e finalmente21 ammala di retorica, e muore. G. Pascoli, Poesie e prose scelte, cit.

17. Senza accorgersene, se mai: la poesia giova all’umanità, ma lo fa in ogni caso senza accorgersene, cioè in punta di piedi, con umiltà.

18. le masserizie: le povere cose di casa. 19. s’impanchi: salga su una panca, con atteggiamento superbo. 20. vuole che: pretende che; ma chi pre-

tende questo finisce per snaturare l’essenza stessa della poesia. 21. finalmente: alla fine.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ All’inizio di questo passo l’autore sottolinea la moralità originaria di ogni discorso poetico, la sua funzione di moderare la ferocia e la brutale malvagità umane. In quest’ottica il fanciullino diviene una sorta di pacificatore sociale: Pascoli immagina che egli sia capace di destare in tutti gli individui che lo ascoltano le più nobili idealità civili, le quali concorrono poi a costruire la felicità sociale. È qui riassunto l’umanitarismo tipico della concezione sociopolitica dell’autore. ■ Il fatto però che, in passato, i poeti fossero realmente guide ed educatori di popoli non fu un risultato da loro ricercato (il poeta non deve farlo apposta). Infatti il poetafanciullo non ha messaggi da imporre: conta sempre e soltanto la sua infanzia interiore. Quest’idea centrale si rivela nella seconda parte del testo. Pascoli si sforza di liberare la poesia dal linguaggio sonante e abbagliante della retorica, o dagli obblighi educativi e celebrativi che frenano la sua ispirazione: quest’ultima, come la vera poesia, può sgorgare solo dalla spontanea percezione del mondo tipica del fanciullino che è in ogni adulto. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Spiega il rapporto che lega il poeta-fanciullo alla società (max 10 righe). 2. Quale opposizione traccia l’autore tra il vispo fanciullo e il vecchio noioso, e perché? 374

3. Il poeta, scrive Pascoli, non è autore di provvidenze: che cosa intende dire? 4. «L’arte per l’arte», recitava il famoso motto parnassiano; considerando il testo letto, secondo te Pascoli è d’accordo? Motiva la risposta in max 5 righe. 5. Rintraccia nel testo il riferimento a Orfeo, poi rifletti sul suo significato. Con esso, Pascoli vuole sottolineare che a il poeta dev’essere, come Orfeo, a stretto contatto con la natura b il poeta aspira a un riconoscimento sociale, come Orfeo c il poeta ha il compito di lottare contro le fiere della guerra e dell’ingiustizia d il poeta risulta, quasi suo malgrado. educatore del popolo Scegli la risposta e motivala brevemente. 6. Pascoli polemizza con due grandi autori di poesia contemporanei, cioè l’artiere Carducci e l’esteta-superuomo D’Annunzio. a. Rintraccia i punti nel testo. b. Chiarisci quali rapporti lo legavano all’uno e all’altro. c. Per quali motivi polemizza con loro? 7. Spiega con le tue parole la frase Unisce i suoi pensieri con quel ritmo nativo, che è nell’anima del bimbo che poppa e del monello che ruzza.

Giovanni Pascoli

Poetiche a confronto: Manzoni, Leopardi, Verga, Carducci, D’Annunzio, Pascoli scopo della letteratura

temi ricorrenti

linguaggio utilizzato

Manzoni

■ rivelare la mano provvidente di Dio nel mondo ■ ingiustizia e violenza si possono sanare solo alla luce della fede

■ il Vero della storia ■ i valori della collettività: giustizia, pace, patria e nazione ■ le inquietudini dell’anima, i suoi drammi morali

■ una lingua accessibile al popolo, che permetta una fruizione sociale della letteratura ■ ruolo centrale dell’autore onnisciente

Leopardi

■ scrutare a fondo l’animo umano ■ testimoniare il limite della condizione umana ■ attraverso l’arte, offrire un compenso al dolore e al male

■ la condizione felice di chi non sa: primitivi, fanciulli ecc. ■ la triste solitudine di chi è consapevole della verità ■ la polemica contro la natura matrigna, che illude inutilmente l’uomo

■ discorso poetico sempre rigoroso e argomentato ■ rinnovamento del linguaggio, attraverso una metrica e un lessico più semplici

Verga

■ fornire alla scienza ulteriori territori d’indagine ■ fotografare la realtà sociale senza filtri

■ la preminenza della logica economica ■ la spietatezza della lotta per la vita ■ l’arretratezza e l’ingiustizia sociale nel Mezzogiorno d’Italia

■ una lingua vicina il più possibile al parlato e alla mentalità della gente comune ■ l’autore deve nascondersi dietro la propria opera

Carducci

■ educare il pubblico ai valori civili più alti

■ la storia, la natura ■ il degrado dell’Italia contemporanea

■ uno stile impeccabile, di stampo classicheggiante ■ il poeta come «artiere»

D’Annunzio

■ suggestionare i lettori con sensazioni raffinate ed esclusive ■ dominare la folla attraverso il prestigio di un’arte raffinatissima

■ l’esteta e la sua esistenza superiore ■ il superuomo, colui che sa assaporare tutte le sensazioni ■ l’immersione «panica» nella natura, il farsi cosa tra le cose

■ forma elegante e raffinata ■ linguaggio sensoriale, che fa spazio alle mille percezioni della realtà

Pascoli

■ rivelare le intuizioni, le emozioni della vita interiore ■ rendere migliori gli uomini facendo appello ai loro sentimenti più naturali

■ la semplicità della vita contadina ■ il dolore e la tragedia dell’esistere ■ il bisogno del «nido» familiare e della sua calda intimità ■ la fuga dalla vita adulta

■ una lingua che sgorghi dallo sguardo semplice e incantato del «fanciullo» che è in ciascun adulto ■ il rinnovamento della poesia attraverso la valorizzazione di suoni, allusioni, silenzi, istintive associazioni d’idee 375

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Contesto

CONFRONTI

L’OPERA

MYRICAE

Storia di una raccolta ◗ Il primo libro di Pascoli fu edito a Livorno nel 1891; raccoglieva 22 poesie, alcune delle quali già comparse alla spicciolata su varie riviste o in opuscoli stampati per le nozze di amici e parenti. Nel 1890 la rivista fiorentina «Vita nuova», diretta da Angiolo Orvieto (1869-1968), aveva pubblicato una sequenza di otto liriche, che recava già il titolo di Myricae, poi passato all’intera opera. ◗ La raccolta in origine si sarebbe dovuta intitolare Erbucce. Il titolo definitivo, Myricae, è tratto da Pascoli dal secondo verso della IV egloga del poeta latino Virgilio (70-19 a.C.): «Non omnes arbusta iuvant humilesque myricae» (“Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici”). Le tamerici diventano così l’emblema della poesia umile e dimessa, non ambiziosa (le egloghe virgiliane si presentavano ai lettori del I secolo a.C. come componimenti di tono pastorale e «basso»), anche se era, in realtà, intessuta di cultura. ◗ Negli anni successivi la raccolta si ampliò: nella seconda edizione (1892) contava 50 componimenti, nella terza (1894) 116, nella quarta (1897) 152. L’edizione definitiva del 1903 (stampata da Zanichelli di Bologna) comprenderà 156 liriche. A tale progressivo ampliamento si accompagnava, da parte dell’autore, un continuo lavoro di perfezionamento sulle singole liriche già pubblicate. Inoltre, a partire dalla terza edizione (1894), le poesie vennero suddivise in numerose sezioni (Dall’alba al tramonto, Ricordi, Elegie, In campagna, Primavera, Dolcezze, Tristezze ecc.) alternate a liriche isolate (Il giorno dei morti, La civetta, Dialogo, Nozze ecc.). ◗ Complessivamente Myricae si presenta come un personalissimo diario dei pensieri e delle esperienze dell’autore a diretto contatto con la vita della campagna, con le sue umili voci, con eventi della quotidianità, recuperati per lo più tra i felici ricordi dell’infanzia. L’altro motivo saliente della raccolta è la triste ricostruzione delle proprie tragiche vicende familiari, a partire dall’uccisione del padre. Quest’ultima viene rievocata nella Prefazione aggiunta nell’edizione del 1894: «Rimangano rimangano questi canti su la tomba di mio padre!... Sono frulli d’uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane: non disdicono a un camposanto. Di qualche lagrima, di qualche singulto, spero trovar perdono, poiché qui meno che altrove il lettore potrà o vorrà dire: Che me ne importa del dolor tuo?».

Una campagna «vera», ma piena di segni ◗ Pascoli si presenta fin da Myricae come il poeta della campagna. Disegna suggestivi quadretti di vita campestre, tra descrizioni di oggetti naturali (fiori, cespugli, o i numerosi uccelli di cui riporta addirittura il verso particolare) e ricordi di momenti e aspetti della vita contadina. Ma il mondo della campagna entra nella poesia di Pascoli in una forma nuova, per nulla convenzionale: egli presta un’attenzione analitica al mondo delle cose concrete dei campi e perciò la sua è una campagna assai più «vera» di quella di tanti altri poeti, che avevano parlato un po’ genericamente della natura. Pascoli, al contrario, conosceva bene ciò di cui parlava; perciò, per esempio, in un suo saggio in prosa rimproverò Leopardi per il fatto di aver mescolato, nel Sabato del villaggio, rose e viole in uno stesso «mazzolino»: fiori che non possono in nessun caso essere raccolti nella medesima stagione. ◗ Il realismo, la fotografia dal vero, non era a ogni modo lo scopo finale di Pascoli, né gli interessavano curiosità folkloristiche, malgrado le numerose ricerche sulla tradizione popolare che stavano fiorendo in quei decenni in Italia e altrove. A Pascoli stavano a cuore i riflessi interiori della vita contadina. Ciò che egli propone, dunque, è una raffigurazione psicologica e simbolica, mirata a cogliere le reazioni umane di fronte alla natura e ai suoi «segni». Tali segni sono tutti concreti e realistici: solo partendo dalle rose e dalle viole «vere» la poesia pascoliana poteva suggerire analogie e simboli, facendosi rivelazione di realtà segrete e suggestioni musicali. 376

Arano Myricae – L’ultima passeggiata Anno: 1886 Temi: • la lenta ritualità del lavoro campestre • la vita semplice e appartata della gente di campagna • la presenza costante degli animali e le loro sensazioni e reazioni La lirica – felice documento del primo Pascoli – è dedicata alla scena campestre dell’aratura. Fu stampata per la prima volta nel 1886, in un opuscolo nuziale dal titolo L’ultima passeggiata, omaggio al matrimonio dell’amico poeta Severino Ferrari. Presente fin dalle edizioni più antiche di Myricae, fa parte della sezione L’ultima passeggiata.

le ripetizioni evidenziano il lento ritmo dei gesti, che affratella uomini e animali il poeta-fanciullo istintivamente attribuisce qualità umane agli animali

Al campo, dove roggio1 nel filare qualche pampano brilla, e dalle fratte sembra la nebbia mattinal fumare,2 arano:3 a lente grida, uno le lente vacche spinge; altri semina; un ribatte le porche4 con sua marra5 pazïente; ché il passero saputo6 in cor già gode,7 e il tutto spia dai rami irti del moro;8 e il pettirosso:9 nelle siepi s’ode il suo sottil tintinno come d’oro.10

5

10

G. Pascoli, Poesie e prose scelte, cit. Schema metrico: madrigale di 2 terzine e 1 quartina di endecasillabi, con rime prima incatenate (ABA CBC) e poi alternate (DEDE). 1. roggio: di color rossiccio; il rosso è il colore dell’autunno inoltrato. L’aggettivo è riferito al pampano, la foglia della vite. 2. dalle fratte... fumare: dai cespugli si leva una nebbia mattutina che pare fumo.

3. arano: i contadini, soggetto sottinteso. 4. porche: cumuli di terra tra un solco e l’altro prodotti dall’aratro, che il contadino spiana (ribatte) per difendere i semi dagli uccelli. 5. marra: zappa. 6. saputo: furbo. 7. gode: il passero pregusta il momento in cui si calerà sul campo appena semina-

to, non appena i contadini lo abbandoneranno. 8. moro: gelso. I rami sono irti perché privi di fogliame. 9. e il pettirosso: è sottinteso gode. 10. tintinno come d’oro: il canto del pettirosso produce un suono tintinnante, come quello di un sonaglio d’oro. L’ultimo verso è fortemente onomatopeico.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ La prima terzina è ricca di minimi dettagli atmosferici e coloristici: la luminosità delle foglie rossastre, la nebbia mattutina che, nel freddo, sale fumando dai cespugli. La strofa s’incentra su una sintassi lenta, pausata, con un tono nostalgico ed evocativo. Non si sa chi sia a compiere l’azione di arare; essa si svolge al campo, non «nel campo», per maggiore indeterminatezza. ■ La seconda terzina porta al massimo risalto tale pacatezza dei gesti, che rammenta una consuetudine antica. La punteggiatura frantuma il discorso e lo costringe a frequenti pause e improvvise riprese. Il verbo arano,

anche con la sua intonazione sdrucciola (accento sulla terz’ultima sillaba), posticipato rispetto alla prima strofa e collocato in principio del v. 4, conferisce alla scena una sfumatura di monotonia e d’immobile solennità. Tale sensazione viene ripresa e amplificata dalla ripetizione successiva (a lente grida... le lente / vacche) e dall’aggettivo pazïente alla fine del periodo. ■ Nella quartina finale lo sguardo si distoglie dal lavoro umano ed è invece attratto dal passero avido di gettarsi sui semi e dal canto acuto e scintillante del pettirosso: due emblemi della vita di «natura». 377

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Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

■ A parlare, nella lirica, sono le cose; ma ciò che viene descritto non è l’aratura, bensì le sensazioni che essa suscita nell’animo: pochi frammenti, pochi gesti, colori e suoni. Lo sguardo di Pascoli è sempre soggettivo e in tal modo dà più valore a quanto dice. Nessun dettaglio è casuale: in ciascuno si rispecchia l’animo dell’autore, le sue «impressioni» (왘 scheda in fondo alla pagina). La scena è serena, ariosa, come i pampini rossi sui filari della vite. Il lavoro è faticoso ma concreto; lo sforzo lentamente ripetuto allontana la preoccupazione per il cibo sempre scarso e soggetto a mille minacce (in questo caso, gli uccelli che rubano i semi nei solchi). ■ Lo stile semplice e dimesso è in realtà il risultato di un’attenta costruzione, a ogni livello. • A livello lessicale: la semplicità del linguaggio è retta dai vocaboli colti e raffinati (roggio, mattinal, ché, saputo, irti, moro), che bilanciano le parole attinte invece dal mondo contadino (pampano, fratte, porche, marra). • A livello ritmico/sintattico: il componimento si sviluppa con un ritmo irregolare sconosciuto alla tradizione poetica ottocentesca. Lo spostamento al v. 4 del verbo principale arano, l’enjambement tra i vv. 4 e 5, le pause e le fratture, accentuate nella seconda strofa dai segni d’interpunzione, sono tutti mezzi attraverso cui imitare il languore dello spettacolo campestre. • A livello fonico: caratteristico di Pascoli è il ricorso all’onomatopea, che qui si evidenzia nel finale: il gioioso incontro delle vocali e delle consonanti (suo sottil tintinno) ripro-

duce il suono argentino del pettirosso. L’immagine finale (come d’oro) ha un valore tutto e solo musicale. Alla fine la contemplazione agreste si risolve in puro canto. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Riassumi l’argomento di ciascuna delle tre strofe (max 10 righe). 2. Pascoli ha portato nella lirica italiana un tono nuovo e originale a ogni livello (metrica, ritmo, posizione delle parole). Quale di questi elementi spicca, nel testo? (max 15 righe) 3. La lingua poetica riesce a evocare direttamente il canto del pettirosso: in che modo? 4. Da quali elementi capisci che a parlare è un poetafanciullo? Cita nella risposta parole e frasi del testo. ............................................................................................................ ............................................................................................................ ............................................................................................................ 5. Potresti definire Arano una poesia naturalistica, oppure no? Motiva la risposta. ............................................................................................................ ............................................................................................................ ............................................................................................................ 6. «La parola tende a liberarsi dalla letteratura per farsi precisa, semplice, quasi tecnica, quasi dialettale, fino a concretarsi in una onomatopea (v. 10)» (A. Vicinelli). Prova a spiegare, con gli opportuni riferimenti al testo, questo giudizio critico: in che senso lo studioso parla di «liberazione dalla letteratura»? Che cosa intende?

Pascoli poeta «impressionista» Il critico Giacomo Debenedetti (1901-67) volle interpretare alcune liriche di Myricae (Romagna, Dall’argine, Stoppia) attribuendo loro il titolo complessivo di «impressionismo del visibile». In quei testi, a suo avviso, il quadro poetico finisce per sfaldarsi in larghe macchie di colore, e i contorni a sfumare, analogamente a quanto avviene nelle tele dei pittori impressionisti di fine Ottocento (Monet, Manet, Degas, Renoir), che amavano raffigurare soprattutto le sfumature della luce che muta nelle diverse ore della giornata. Ciò che conta, per loro, è la sensibilità

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dell’artista che guarda gli oggetti e li ritrae soggettivamente, e così avviene anche in Pascoli, il cui «impressionismo» è un modo di vedere la realtà, prima che di esprimerlo. Pascoli descrive la natura non oggettivamente, ma per le sensazioni o impressioni che essa suscita sul soggetto; ignora le sonorità dispiegate secondo l’esempio di D’Annunzio in Alcyone, e predilige accostare le immagini l’una all’altra, per lo più con impasti delicati, aloni e sfumature. Perciò in molti suoi testi egli usa le immagini del fumo, della nebbia, dei camini, dei fuochi terre-

stri e celesti; o verbi come «esalare», «vaporare», «vanire», a indicare gli incerti contorni che avvolgono le cose; le quali peraltro sono, nei particolari, colte con grande nettezza. Per esempio in Arano, la nebbia mattinal è ritratta durante il suo fumare; oppure nella prima strofa di Lavandare (왘 Testo 5, p. 381) viene abbozzato un paesaggio assolutamente spoglio, triste e malinconico, tenuto in equilibrio fra i colori grigio e nero della terra e la nebbia atmosferica: è un altro esempio dell’efficace ricerca di «chiaroscuro» intrapresa da Pascoli.

Novembre Myricae – In campagna Anno: 1891 Temi: • i diversi segni della natura e le sue illusioni • il contrasto fra la vita e la morte La poesia fu pubblicata per la prima volta nel febbraio del 1891 sulla rivista fiorentina «Vita nuova»; sul finire dello stesso anno venne inclusa in Myricae. Il testo è uno dei componimenti più rappresentativi della novità di Pascoli e della sua arte. Al paesaggio viene infatti assegnata una funzione di segno, di simbolo: i fenomeni naturali sono carichi di messaggi nascosti, che soltanto il poeta-fanciullo sa decifrare con la propria speciale sensibilità.

un’apertura primaverile, che però si rivelerà presto solo un’illusione una serie di emblemi negativi: non è primavera, ma autunno avanzato

le foglie che cadono simboleggiano la precarietà della vita umana

Gemmea1 l’aria, il sole così chiaro che tu2 ricerchi gli albicocchi in fiore, e del prunalbo3 l’odorino amaro senti nel cuore... Ma secco è il pruno4, e le stecchite piante di nere trame segnano il sereno,5 e vuoto6 il cielo, e cavo7 al piè sonante sembra il terreno. Silenzio, intorno: solo, alle ventate,8 odi lontano, da giardini ed orti, di foglie un cader fragile. È l’estate, fredda, dei morti.9

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G. Pascoli, Poesie e prose scelte, cit. Schema metrico: strofe saffiche, composte da 3 endecasillabi e un quinario, con rime alternate. Schema: ABAb. 1. Gemmea: cioè tersa, trasparente come una gemma. 2. che tu: tanto che. Il poeta si rivolge a un «tu» generico: chiunque si comporterebbe così, perché sembra primavera.

3. prunalbo: biancospino. 4. pruno: i rovi e i cespugli privi di foglie. 5. segnano il sereno: solcano il cielo, con i loro rami nudi. 6. vuoto: perché privo dei festosi voli degli uccelli, che svernano altrove. 7. cavo: il terreno di campagna, indurito dal freddo, risuona sotto i passi come se fosse vuoto.

8. ventate: folate di vento. 9. l’estate... dei morti: chiamata popolarmente «estate di san Martino», santo la cui festa cade l’11 novembre; spesso sono giorni di bel tempo. Ma novembre è anche il mese dedicato alla commemorazione dei defunti; nella fantasia del poeta i due eventi si assimilano.

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ La prima strofa enuncia l’immagine di una giornata limpida e luminosa: sembra primavera, al punto che lo sguardo, istintivamente, cerca gli albicocchi in fiore. ■ Presto però (seconda strofa) subentra il disinganno: altri segnali (il ramo stecchito, il cielo senza uccelli, il terreno che risuona cavo ai passi umani) negano le apparenze iniziali.

■ Nella terza strofa abbiamo la dichiarazione conclusiva: la luce che pareva anticipare il risveglio primaverile si rivela, purtroppo, la gelida aria annunciatrice dell’inverno che sta per iniziare. È l’estate, fredda, dei morti (vv. 11-12): dunque siamo all’inizio di novembre, come già il titolo dichiarava. 379

Monografia Raccordo

4

Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Lo svolgimento tematico e psicologico della poesia si attua dunque nel contrasto fra il principio e la conclusione: dai simboli della vita (la chiarezza del sole, la luminosità dell’aria) si giunge all’estremo opposto, dove la freddezza autunnale diventa un emblema della morte.

■ Il poeta ha ripreso un motivo lirico antichissimo (la vita umana passa veloce e poi muore come le foglie d’autunno...), ma lo rilegge con la nuova sensibilità di chi denuncia l’inganno dei sensi, insufficienti di fronte a una realtà che delude e condanna.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi 1. L’inizio della lirica è posto sotto il segno positivo della luce, dell’aria pura, della gioia. a. Particolarmente luminoso risulta il verso iniziale: quali elementi lo rendono tale? ................................................................................................... b. L’illusione della primavera è accarezzata, nella prima quartina, da alcune immagini appartenenti al campo semantico della vita: quali? ................................................................................................... 2. Nella prima strofa viene presentato, in modo sereno, privo di turbamento, il motivo dell’«assenza» e della nostalgia. a. Identifica nel testo, e trascrivi, gli elementi dei primi quattro versi che appartengono alla sfera del ricordo e della nostalgia. ................................................................................................... ................................................................................................... 3. La seconda strofa è sotto il marcato segno dell’aridità e del vuoto: una mancanza di vita e di letizia. a. Quale termine provvede a stroncare l’illusione? Perché appare fortemente marcato? ................................................................................................... b. Per rendere l’idea del vuoto e dell’aridità, il poeta ricorre a colori e suoni cupi: quali? ................................................................................................... 4. Infine nella terza strofa il ragionamento poetico si conclude in una dimensione negativa. a. Quali sono i termini di senso negativo intorno a cui si concentra la strofa? Trascrivili. b. Commenta la tua scelta (max 5 righe).

LAVORIAMO SU

a. Illustra in breve i tre momenti, individuando gli elementi che segnalano il passaggio dall’uno all’altro.

{ Forme e stile 6. Nel testo s’intrecciano sensazioni visive, olfattive e acustiche. a. Rintraccia i termini e le immagini che si riferiscono ai tre livelli sensoriali e compila la tabella. livello visivo

................................................................... ................................................................... ...................................................................

livello olfattivo ................................................................... ................................................................... ................................................................... livello sonoro

................................................................... ................................................................... ...................................................................

7. Nella terza strofa si segnalano due figure retoriche: un ossimoro e una sinestesia. a. Definisci in breve entrambe queste figure retoriche: – ossimoro: ............................................................................. – sinestesia: ............................................................................ b. Ora rifletti: – estate, / fredda è sì no sì no ossimoro sinestesia – di foglie un cader fragile è: sì no sì no ossimoro sinestesia Spiega in breve il perché delle tue scelte.

LINGUA E LESSICO

1. Nella prima strofa il poeta sembra impostare una proposizione consecutiva; ma il verbo che dovrebbe reggerla è in realtà assente. a. Rintraccia nel testo il costrutto e chiariscilo. b. Ora rifletti: perché Pascoli non conclude il giro sintattico come avrebbe dovuto? Tieni presente, nella risposta, la poetica del «fanciullino». 380

5. In conclusione, le tre sequenze fondamentali del testo potrebbero essere così riassunte: a) illusione; b) svelamento; c) accoglienza della realtà.

2. La sintassi di questo componimento rinnova la tradizione espressiva della poesia italiana. a. In particolare si segnalano nel testo diverse ellissi: – Spiega cos’è un’ellissi. ................................................................................................... – Individuane alcune nel testo.

Lavandare Myricae – L’ultima passeggiata Anno: 1894 Temi: • la malinconia e il senso di abbandono nel paesaggio rurale • il lavoro quotidiano delle donne Il componimento venne aggiunto a Myricae a partire dalla terza edizione del 1894, nella quale fu collocato nella sezione L’ultima passeggiata. Raffigura una scena tipica della vita rurale: il lavoro delle lavandaie.

un segno di malinconia, di solitudine, di abbandono

un lavoro umile, collettivo, fra canti e fatica

un lamento d’amore nella cantilena popolare

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero1 resta un aratro senza buoi,2 che pare dimenticato, tra il vapor leggiero.3 E cadenzato dalla gora4 viene lo sciabordare delle lavandare5 con tonfi spessi6 e lunghe cantilene: Il vento soffia e nevica la frasca,7 e tu8 non torni ancora al tuo paese! quando partisti, come son rimasta! come l’aratro in mezzo alla maggese.9

5

10

G. Pascoli, Poesie e prose scelte, cit. Schema metrico: 2 terzine e 1 quartina di endecasillabi (madrigale), con schema ABA, CBC, DEFE. I vv. 7 e 9 sono legati da rima imperfetta (-asca e -asta presentano infatti la variazione di una sola consonante). 1. mezzo nero: in quanto è stato arato solo a metà (la terra smossa è di colore più scuro rispetto a quella non ancora rivoltata). Si noti come l’idea sia espressa con una pura nota coloristica. 2. senza buoi: e quindi abbandonato. 3. vapor leggiero: nebbiolina, foschia. 4. gora: canale. 5. lo sciabordare delle lavandare: il ritmico battere dei panni nell’acqua a opera delle lavandaie (lavandare). Sciabordare è voce onomatopeica; in tal modo si passa dal quadro visivo al rilievo uditivo. 6. tonfi spessi: i numerosi tonfi dei panni nell’acqua. 7. nevica la frasca: dai rami cadono cioè le foglie, leggere come fossero fiocchi di neve. 8. e tu: l’amato lontano. Pascoli cita qui (dall’antologia Canti popolari marchigiani, pubblicata a Torino nel 1875) il verso di una triste canzone del folklore marchigiano, che canta un amore infelice.

9. maggese: il campo che si lascia periodicamente senza semina, per far riposare la terra e avere poi un più abbondante raccolto.

■ Giuseppe Pellizza da Volpedo, La lavandaia (1893). 381

Monografia Raccordo

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Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ La prima strofa raffigura l’aratro, insolitamente abbandonato nel campo che è avvolto da una nebbia leggera. ■ La seconda terzina sposta l’attenzione su una scena del tutto diversa: osserviamo (o meglio, udiamo) lo sciabordare cadenzato delle lavandaie e i tonfi spessi dei

panni, con le lunghe cantilene che ritmano il lavoro. ■ La strofa finale riprende (e imita anche nei suoni) un canto popolare marchigiano. L’ultimo verso ripropone l’immagine dell’aratro solitario.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Il testo potrebbe sembrare, a prima vista, una pura descrizione di vita campestre, quasi un «bozzetto» di quelli cari a Verga e ai naturalisti. Il poeta sembra nascondersi al di qua della nebbia che sale dai fossi, dietro i canti al lavatoio, per proporre due scene in apparenza slegate. Ma Pascoli sa trarre, dalle situazioni più comuni, elementi che rivelano inquietudine. E così una segreta malinconia si diffonde sulle cose della campagna e nell’animo del lettore. ■ Il messaggio del testo è affidato alla strofa conclusiva. Qui infatti si crea il legame che unisce i tre momenti della

lirica: l’immagine dell’aratro abbandonato in mezzo alla campagna si fa simbolo dell’umana solitudine. Il poeta, proprio come la contadina lasciata dall’amato (vv. 8-9), si rispecchia nell’aratro in mezzo alla maggese (v. 10): • l’innamorata è senza compagno (quando partisti, come son rimasta!, v. 9); • l’aratro è senza buoi (v. 2); • anche il poeta – mai nominato, peraltro – si ritrova orfano e senza amore. Tale conclusione viene solo allusa dal significato generale della poesia.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi

rivelare il significato segreto della sua «visione».

1. Il poeta-fanciullo, coerentemente con la sua poetica, esprime immagini e sensazioni lasciando che siano esse a parlare al cuore di chi legge e a

a. Prova a spiegare il valore simbolico delle principali immagini presenti nel testo compilando la tabella.

immagini

significato

aratro dimenticato in mezzo al campo

............................................................................................................................................

aratro senza buoi

............................................................................................................................................

il vapor leggiero

............................................................................................................................................

lo sciabordare cadenzato delle lavandaie

............................................................................................................................................

le loro lunghe cantilene

............................................................................................................................................

il soffio del vento, la caduta delle foglie

............................................................................................................................................

2. La tristezza della stagione autunnale, l’isolamento e la malinconia degli uomini sono il tema fondamentale della poesia. a. Individua nel testo gli elementi che producono questi sentimenti: 382

– la tristezza dell’autunno è rappresentata da .................. .................................................................................................... – il senso di isolamento viene suscitato da ....................... .................................................................................................... – la malinconia viene prodotta da ....................................... ....................................................................................................

a. Secondo te, perché si tratta di un canto popolare e non, poniamo, di un canto di tono più elevato? .................................................................................................... .................................................................................................... b. La presenza di questo canto non è affatto superflua, nella poesia: – esso infatti collabora a costruire una certa atmosfera, cioè ....................................................................................... – inoltre collabora a definire il tema di fondo della poesia, cioè ............................................................................. 4. La costruzione poetica è molto accurata. Per esempio, in ognuna delle tre strofe domina un’area sensoriale diversa. a. Identifica l’area sensoriale che caratterizza ciascuna strofa e compila la tabella. strofa

area sensoriale prevalente

I

....................................................................................

II

....................................................................................

III

....................................................................................

5. Il testo, inoltre, è costruito in maniera circolare: la conclusione di esso riprende l’immagine iniziale. a. Di quale immagine si tratta? .................................................................................................... b. Di che cosa essa diviene simbolo? ....................................................................................................

{ Forme e stile 6. Il poeta-fanciullo utilizza le parole semplici del canto popolare; ma intanto lavora nascostamente, con i mezzi tecnici della lingua e della metrica, per mettere in primo piano, nella fantasia del lettore, l’analogia tra l’aratro e la donna del canto popolare. L’enjambement è un artificio sconosciuto al canto dei poeti più semplici: perciò una delle strofe rinuncia all’enjambement e presenta versi sintatticamente indipendenti tra loro. a. Spiega che cos’è un enjambement. ................................................................................................... ................................................................................................... b. Quale strofa non vi fa uso? ................................................................................................... ................................................................................................... c. Quale scopo si prefigge il poeta? ................................................................................................... ................................................................................................... 7. Nell’ultima strofa, per evidenziare il carattere «popolare» di questi versi, il poeta fa ricorso a un’irregolarità metrica. a. Di quale irregolarità si tratta? .................................................................................................... ................................................................................................... b. E come avrebbe dovuto presentarsi, invece, per rispettare le regole? .................................................................................................... ................................................................................................... 8. Una strofa del componimento è tutta occupata dal ritmo disteso delle parole quadrisillabiche. a. Di quale strofa si tratta? ................................................. b. Cita i termini in questione. ................................................................................................... ...................................................................................................

LAVORIAMO SU

LINGUA E LESSICO

1. Tra i mezzi espressivi utilizzati da Pascoli vi è il tessuto fonico: il poeta usa in modo molto accorto i suoni e le rime. Per esempio, una sottile catena fonica lega lungo il testo, le rime -ero, -are, -ato.

a. Sottolinea tali rime nella lirica. b. Proponi ora un tuo breve commento, con il quale illustrerai gli effetti raggiunti dal poeta.

383

Monografia Raccordo

3. Nell’ultima strofa il poeta imita un canto popolare.

Contesto

Giovanni Pascoli

Sguardi sulla società L’arte come documento sociale

■ Plinio Nomellini, Piazza Caricamento a Genova (1891).

■ Teofilo Patini, Vanga e latte (1883-84).

Contadini e operai L’abruzzese Teofilo Patini (18401906) si dedicò alla pittura di genere, ispirandosi alla terra natale e alla vita di contadini e proletari. Si fece così interprete di una storia «minore», fatta di piccoli eventi quotidiani, raccontati direttamente dagli umili protagonisti. Vanga e latte (1883-84) ritrae una famiglia contadina, padre, madre e figlio, in aperta campagna: l’uomo sta vangando il terreno, mentre la donna, in una pausa dal lavoro, siede a terra e allatta il figlio. In terra giacciono gli oggetti che descrivono la vita della famiglia: la culla e l’ombrello posto a ripararla, il basto, la piccola botte, il concio rosso e, sulla destra, la giacca, il cappello e il piatto di polenta con le due posate di legno. 384

Il vangatore anonimo incarna la fatica perenne dell’umanità lavoratrice; la sua figura statuaria è presa di spalle, sotto un cielo che, visto dal basso, pare appoggiarsi sul terreno, generoso solo di sterpi e stoppie. La donna, descritta con tenerezza nelle vesti logore, nell’oro all’orecchio che ne rischiara i tratti, nei gesti forti ma delicati, è una sorta di «Madonna del latte», simile cioè alle tante Madonne con il bambino ritratte dai pittori rinascimentali; con forza e dignità ella accetta un’esistenza di stenti e fatiche. Infine il bimbo succhia avidamente, con un’energia vitale che è l’unica sua difesa dalle lotte che dovrà combattere da adulto. Il dipinto di Patini ebbe successo; se-

condo alcuni, nasceva da una polemica «politica» sulla dura condizione dei contadini dopo l’Unità d’Italia. Ma prima di ogni denuncia sociale, l’opera contempla pensosamente la fatica primaria dell’uomo, il lavoro della terra, raffigurato con un’ottica quasi distaccata, che rimanda al Verismo di Verga. In un altro dipinto degli stessi anni, Piazza Caricamento a Genova (1891), il pittore Plinio Nomellini riassume la durezza, ma anche l’orgoglio della condizione operaia nelle figure frontali dei «camalli» (così si chiamano, ancora oggi, i lavoratori del porto) avanzanti in primo piano: un soggetto nuovo per la pittura, realizzato con la nuova tecnica impressionista.

Il lampo Myricae – Tristezze Anno: 1894 Temi: • la piccolezza dell’uomo, l’immensità della natura • lo scatenarsi del temporale come un’oscura minaccia La poesia forma un tutt’uno con Il tuono (E Testo 7). Si conferma la capacità del poeta di costruire in pochi versi uno scenario d’inquietudine davvero «cosmica»: in esso le cose sono nominate non nei loro contorni definiti, ma per quanto nascondono, oppure per la minaccia che oscuramente rivelano. Il risultato, qui, è una vera «illuminazione», alla maniera di Rimbaud.

al singolare, per sottolineare l’evento improvviso il poeta-fanciullo attribuisce vita alle cose inanimate, e tutto lo spaventa

E cielo e terra si mostrò1 qual era: la terra ansante, livida,2 in sussulto; il cielo ingombro, tragico, disfatto:3 bianca bianca nel tacito tumulto4 una casa apparì sparì d’un tratto; come un occhio che, largo, esterrefatto,5 s’aprì si chiuse, nella notte nera.

5

G. Pascoli, Poesie e prose scelte, cit. Schema metrico: stanza di ballata piccola, composta di versi endecasillabi rimati secondo lo schema X ABABBX. 1. si mostrò: apparvero, al bagliore del lampo.

2. ansante, livida: sembra che il respiro della terra sia ansimante, sotto il cielo cupo; l’aggettivo livida (di color plumbeo) trasferisce sul suolo una caratteristica del cielo. 3. ingombro, tragico, disfatto: colmo di nubi, pieno di eventi drammatici (i lampi, i

tuoni), sconvolto. La successione dei tre termini realizza un climax ascendente. 4. nel tacito tumulto: l’ossimoro allude al momento di sospeso silenzio, dopo il lampo e prima dello scoppio del tuono. 5. esterrefatto: immobile per il terrore.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Basta un lampo, nel vasto silenzio, perché il mondo manifesti la sua faccia nascosta; la terra si rivela livida, il cielo si mostra tragico, disfatto, come un organismo vivo, come un occhio pulsante, uscito dagli spaventi della notte nera. ■ Può sembrare strana la similitudine tra una casa brevemente illuminata dal lampo e un occhio che, per un attimo, si apre nell’oscurità: l’unico elemento che li avvicina è il fulmineo apparire-sparire di entrambi. Ma di chi è quell’occhio? Non certo quello di un passante spaventato dal fulmine, perché la scena è sgombra di presenze umane. Piuttosto, la fulminea apertura-chiusura di quell’occhio «riassume l’intera vicenda dell’esistenza umana, dalla luce della nascita alle tenebre della morte, secondo un procedimento di audacissima condensazione temporale [...] ben caro a Pascoli» (P.L. Cerisola). ■ Quando Pascoli ritrae la natura, quasi sempre ci offre la rappresentazione soggettiva dei suoi disagi interiori. L’apparire improvviso del fulmine di notte, perciò, non è raffigurato per quello che è, bensì per gli effetti che produce: effetti di

sgomento, o meglio di incubo. Solo in sogno, infatti, si può pensare di vedere la terra ansante, livida, in sussulto; solo nell’incubo la casa, ultimo rifugio prima dello scatenarsi della tempesta, può venire paragonata a un occhio... largo, esterrefatto. Pascoli dichiarò che Il lampo va riferito agli ultimi istanti dell’agonia del padre, al modo in cui il mondo apparve al suo sguardo un attimo prima di cadere morto. Era questo l’incubo da cui il poeta non si liberò più. L’occhio... largo della poesia riporta alla luce quanto giace nascosto nell’inconscio: la poesia pascoliana è la rivelazione di un oscuro e inquietante mistero. ■ Il poeta descrive il paesaggio come sotto uno specchio deformante. Enfatizza i dati della realtà, raggiungendo effetti quasi «espressionistici», di deformazione, appunto. Basta osservare, in apparì sparì e poi in s’aprì si chiuse, l’accostamento asindetico (cioè senza congiunzione né interpunzione) di due verbi dal significato opposto: un modo efficacissimo per esprimere l’istantanea apparizione e l’immediata sparizione della visione. 385

Monografia Raccordo

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Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Secondo te si possono individuare, nel testo, due distinte sequenze? Motiva la risposta. 2. Perché, a tuo avviso, il componimento inizia con una E coordinativa? Quale legame essa istituisce col titolo? E come mai, a tuo avviso, il poeta pone tra il primo e il secondo verso uno spazio d’interlinea? ............................................................................................................ ............................................................................................................ 3. Spiega l’espressione tacito tumulto. • Che cosa resta in silenzio? • A quale tumulto ci si riferisce? • Chiarisci inoltre quale figura retorica viene utilizzata in questa espressione. ............................................................................................................

4. Il significato ultimo del testo converge verso il grande occhio... largo, esterrefatto del v. 6. Che cosa intende rappresentare, con esso, il poeta? ............................................................................................................ ............................................................................................................ ............................................................................................................ 5. Osserva gli aggettivi: essi finiscono per qualificare le cose in termini solo soggettivi. Illustra in che modo, nella lirica, l’aggettivazione derivi dallo stato d’animo del fanciullo che osserva il lampo (max 5 righe). 6. Il poeta getta per un istante uno sguardo nel mistero che ci circonda – il mistero della morte – e se ne ritrae, inorridito. Ti sembra condivisibile tale interpretazione? Motiva la risposta (max 5 righe).

Pascoli e l’onomatopea Una figura di suono L’onomatopea, o «armonia imitativa», è una figura retorica che vuole riprodurre suoni o rumori, naturali e artificiali, tramite gli strumenti della lingua, combinando vocali e consonanti nel modo più «imitativo» possibile. L’onomatopea è una figura retorica di tipo fonosimbolico: il suono della parola ha valore simbolico, perché riecheggia il suono dell’oggetto o dell’azione che si intende designare. È onomatopeica qualunque voce del vocabolario che conservi un’evidente intenzione mimetica rispetto al suono dell’oggetto significato: un esempio è il verbo «belare», costruito con l’aggiunta del comune suffisso -are alla voce onomatopeica bee, che trascrive il verso della pecora. Ma si possono coniare onomatopee più dirette, come, per esempio, quando si dice «il tic-tac dell’orologio»: l’espressione tic-tac è priva di significato proprio, e vale solo in quanto imita il suono prodotto dalle lancette dell’orologio stesso. Attraverso l’uso dell’onomatopea, la

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comunicazione può assumere vigore o originalità inusuali; le onomatopee possono sottolineare l’adesione emotiva dello scrittore alla materia rappresentata; oppure creare uno spiccato effetto di verosimiglianza.

Uno strumento per il poeta-fanciullo Fin da Myricae Pascoli mostra di prediligere l’onomatopea: essa gli consente di riprodurre poeticamente i suoni che attraversano il mondo naturale, di cui egli celebra i valori estetici e morali. Le sue soluzioni più semplici – e, insieme, più radicali – sono onomatopee «pure», come «un gre gre di ranelle», «un don don di campane». Molto frequenti sono poi termini già esistenti nella lingua, ma usati da Pascoli a scopo imitativo, come ruzzola, rombo, rimbomba, trillo, tremule, tinnulo, sgrigiola, sussurro, sussulto. In altri casi, l’unione di onomatopee e allitterazioni crea effetti più complessi: «Viene il freddo. Giri per dirlo / tu, sgricciolo, intorno le siepi; / e senti-

re fai nel tuo zirlo / lo strido di gelo che crepi. / Il tuo trillo sembra la brina / che sgrigiola, il vetro che incrina... / trr trr trr terit, tirit» (da L’uccellino del freddo, in Canti di Castelvecchio). Qui, all’onomatopea del ritornello finale si accompagna l’armonia imitativa ottenuta con la ripetizione di alcuni suoni ricorrenti, e soprattutto delle /r/, che alludono al verso dell’uccellino infreddolito. Nella stessa lirica troviamo il neologismo scricchiolettio, o anche le voci dialettali scrio scrio, stiocchi, grecchia, termini che imitano i rumori prodotti dalla legna posta ad ardere nel focolare. Infine, nell’ultima strofa di La mia sera (E Testo 11, p. 404, «Don... Don... E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano, Dormi! / là, voci di tenebra azzurra...») il verbo all’imperativo, che traduce il messaggio allusivo delle campane, nasce da una pura suggestione fonica emergente dalla realtà, e traduce una di quelle voci misteriose che «parlano» all’inconscio e lo riportano all’età «fanciulla».

Il tuono Myricae – Tristezze Anno: 1900 Temi: • l’angoscia del vivere che si riflette nei fenomeni naturali • il nido come unico, precario rifugio Pascoli descrisse in diverse poesie l’evento del temporale (E Temporale, p. 429). Ma i suoi temporali sono tempeste psicologiche più che reali: perciò non si sfogano mai con la pioggia. Incombono da lontano, come una minaccia sospesa e temibile.

paragone generico, ma intonato al senso di mistero che accompagna lo scoppio del tuono forte onomatopea per riprodurre il cupo brontolio del tuono

E nella notte nera come il nulla, a un tratto, col fragor d’arduo dirupo1 che frana, il tuono rimbombò di schianto: rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo, e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,2 e poi vanì.3 Soave allora un canto s’udì di madre, e il moto di una culla.

5

G. Pascoli, Poesie e prose scelte, cit. Schema metrico: stanza di ballata piccola, composta di versi endecasillabi rimati. Schema X ABABBX.

1. arduo dirupo: luogo roccioso e scosceso; arduo è un latinismo. 2. rimareggiò rinfranto: risuonò a ondate,

ma sempre più attenuate. 3. vanì: svanì, si placò.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Al centro della lirica vi è un contrasto: • da una parte, lo scatenarsi del tuono, evocato in tutti i suoi rumori e tremori ai vv. 2-5; • dall’altra, il canto di una madre che culla il suo bambino. ■ La rappresentazione gareggia in velocità con il fenomeno atmosferico, attraverso due strumenti: • l’annullarsi di ogni ambientazione (a eccezione del v. 1, che esprime una nota di vera angoscia); • la rapida successione delle voci verbali. Ai ritmi crescenti dell’avvio segue però il più smorzato calando del verso 5 (e tacque... e poi vanì). Si prepara così l’imprevisto cambiamento di scena e di tono degli ultimi due versi. ■ Qui il canto materno sembrerebbe costituire un presagio di vera serenità, di pacificazione; contemporaneamente, però, sembra sottolineare la negatività del rovescio che sta per abbattersi su ogni cosa. Forse il canto della madre e il moto della culla vogliono simboleggiare gli ideali e i valori positivi dai quali il poeta rimase sempre escluso. ■ L’imitazione della natura è in atto anche a livello dei suoni. L’onomatopea del poeta imita da vicino il fragore dirompente del tuono: fragor... frana... rimbombò. Ricorrono alcuni suoni insistiti: la vocale /u/ (arduo, dirupo, tuono,

cupo), la /r/ (fragor d’arduo dirupo) e il gruppo /r-i-m/ (rimbombò, rimbalzò, rimareggiò), con la sequenza dei verbi al passato remoto. Sono tutti suoni scelti non per il loro valore sul piano dei significati, ma piuttosto per l’effetto evocativo (imitare l’eco del tuono che attraversa la natura) che le sillabe così accostate possono suscitare. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Si può affermare che la lirica rappresenta il modo con cui un «fanciullino» osserva, spaventato, il fenomeno atmosferico descritto? Motiva la risposta (max 10 righe). 2. Osserva la conclusione: • Quali elementi sono messi in risalto? • Che cosa fa pensare, in questo finale, a un possibile rasserenamento? 3. Nella lirica risalta la sonorità dell’evento: attraverso quali mezzi poetici lo scrittore imita il fenomeno naturale descritto? 4. A partire dal testo, illustra il nuovo modo di «vedere» di Pascoli. Quale differenza passa tra natura «oggettiva» e natura «reinventata»? Come si esprime, qui, tale reinvenzione? (max 15 righe) 387

Monografia Raccordo

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Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

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X agosto Myricae – Elegie Anno: 1896 Temi: • le stelle cadenti, come messaggio di sofferenza della natura • il dolore per una morte incomprensibile e ingiusta La poesia X agosto costituisce forse la più perfetta ed equilibrata rappresentazione artistica offerta da Pascoli circa il tragico episodio dell’omicidio del padre. Ruggero Pascoli era amministratore della tenuta La Torre dei principi Torlonia. Fu ucciso il 10 agosto 1867, giorno di San Lorenzo, mentre tornava a casa, in calesse, dal mercato di Cesena. Il suo assassino non fu mai individuato. Pubblicata per la prima volta sulla rivista «Il Marzocco» il 9 agosto 1896, la lirica fu poi accolta nella quarta edizione (1897) di Myricae.

le stelle cadenti a San Lorenzo diventano stelle che «piangono»: è la prima nota di sofferenza

San Lorenzo,1 io lo so perché tanto di stelle2 per l’aria tranquilla arde e cade, perché sì gran pianto nel concavo cielo3 sfavilla.

la morte della rondine accomuna uomini e animali

Ritornava una rondine al tetto: l’uccisero: cadde tra spini:4 ella aveva nel becco un insetto: la cena de’ suoi rondinini.

la protesta del poeta per il disinteresse del cielo alle sofferenze umane

Pascoli non nomina il padre: la sua figura diviene così il simbolo di un’ingiustizia universale

Ora è là, come in croce,5 che tende quel verme a quel cielo lontano; e il suo nido è nell’ombra,6 che attende, che pigola7 sempre più piano. Anche un uomo tornava al suo nido: l’uccisero: disse: Perdono;8 e restò negli aperti occhi un grido:9 portava due bambole in dono...

5

10

15

Ora là, nella casa romita,10 lo aspettano, aspettano in vano:

Schema metrico: 6 quartine di decasillabi e novenari con rime alternate. 1. San Lorenzo: il poeta si rivolge direttamente al santo martire che la chiesa celebra il 10 agosto, giorno in cui fu ucciso il padre di Pascoli. Nella notte di San Lorenzo il cielo è percorso da stelle cadenti, visibili a occhio nudo. La tradizione popolare le interpreta come le lacrime di san Lorenzo. 2. tanto di stelle: così numerose stelle.

388

3. nel concavo cielo: nella volta celeste. 4. spini: rovi. 5. come in croce: è riversa sul terreno con le ali spalancate e senza vita, come se fosse stata crocifissa. 6. nell’ombra: è l’ombra della sera, ma simboleggia anche il buio della sofferenza e della morte. 7. pigola: cinguetta. La precisazione sempre più piano raffigura l’agonia dei rondinini, estenuati per la mancanza di cibo.

8. Perdono: il padre che muore ha solo parole di perdono per i suoi assassini. 9. un grido: il grido rimane negli aperti occhi perché non può uscire dalla bocca; la morte fu immediata, ma fissò nello sguardo dell’ucciso quel grido di stupore. 10. romita: solitaria, abbandonata. Così rimane la casa-nido, disfatta dalla solitudine e dalla pena.

queste immagini d’indifferenza sono un’accusa a Dio

egli immobile, attonito,11 addita le bambole al cielo lontano.

20

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi sereni,12 infinito, immortale, oh! d’un pianto di stelle lo inondi quest’atomo13 opaco del Male! G. Pascoli, Poesie e prose scelte, cit. sti, sovranamente indifferenti alla sorte e al dolore degli uomini. 13. quest’atomo: il pianeta Terra, minu-

11. attonito: stupefatto. 12. mondi sereni: richiama l’immagine degli antichi dèi, felici nelle loro sedi cele-

scolo in rapporto al firmamento. La desolata formula tornerà nell’inno Al re Umberto: «Il Male è più grande di Dio».

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ La prima strofa della lirica ha un valore d’ambientazione: è la notte di San Lorenzo, la notte in cui si vedono le stelle cadere; tale fenomeno, però, è fin d’ora connotato come un gran pianto (v. 3) dell’universo. ■ La parte centrale della poesia (strofe 2-5) costituisce un blocco compatto, distribuito con perfetta simmetria. Due strofe svolgono il tema della rondine: essa ritornava al nido con l’insetto catturato come cena de’ suoi rondinini (v. 8).

Le altre due strofe svolgono il tema dell’uccisione del padre, assassinato a tradimento mentre portava a casa due bambole in dono… (v. 16). ■ L’ultima strofa, perfettamente simmetrica rispetto alla prima, ribadisce e drammatizza quanto già anticipato al verso 3 nell’immagine del pianto dell’universo. ■ Possiamo così sintetizzare la struttura simmetrica del componimento: solo adesso il poeta rivela la causa del pianto delle stelle

il poeta conosce la causa del pianto, ma non la dice



strofa 1 le stelle cadenti sono il pianto del cielo

strofa 2 la rondine uccisa

strofa 4 l’assassinio di un uomo innocente





strofa 3 il dramma dei rondinini

strofa 5 il dramma di una famiglia sconvolta

“ strofa 6 il pianto del cielo commisera gli uomini e purifica la Terra

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ La leggenda popolare identifica le stelle cadenti della notte di San Lorenzo con le lacrime del santo martire. Nella poesia pascoliana, le stelle cadenti diventano il pianto del cielo. Tale pianto svolge, sul piano dei significati, due funzioni: • da una parte, commisera la malvagità degli uomini; • dall’altra, forse, costituisce un modo per purificare il mondo, lavandolo dal male.

■ La morte di Ruggero Pascoli è ritratta come un crimine vergognoso che colpisce un padre innocente, il quale, alla maniera della rondine, era solito provvedere ai bisogni del suo nido familiare. Il fenomeno naturale che si verifica nella tranquilla aria estiva denuncia così la legge di sofferenza e d’ingiustizia che sconvolge l’umanità. 389

Monografia Raccordo

il padre come la rondine, le bambole come il verme, di fronte al disinteresse del cie-

Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

ANALISI OPERATIVA

{ I temi 1. La prima strofa funge da introduzione; è suddivisa fra un’osservazione di stampo naturalistico e una nota simbolica. a. Quale elemento puoi definire naturalistico? Osserva, per rispondere, l’ambientazione esterna. b. Quale parola o espressione ci riporta invece al piano simbolico? 2. L’ultima strofa è costruita in modo simmetrico rispetto alla prima. a. Rintraccia nel testo, ed elenca, le corrispondenze tra le due strofe. – A livello lessicale (termini che ritornano): .................................................................................................... – A livello tematico (contenuti): .................................................................................................... – A livello strutturale e sintattico (osserva per esempio i vocativi): .................................................................................................... 3. La parte centrale del componimento è costruita sul parallelismo tra la rondine e il padre. a. Compila la tabella come quella proposta individuando nel testo tutti gli elementi che mettono in diretta correlazione le due figure. la rondine

il padre

che cosa fanno

....................

....................

perché lo fanno

....................

....................

cosa succede loro

....................

....................

conseguenze dell’accaduto ....................

....................

4. X agosto presenta una simbologia religiosa. In particolare la croce del v. 9 stabilisce un parallelo tra l’uccisione della rondine (e dell’uomo innocente) con il sacrificio di Cristo. Anche il titolo evidenzia un riferimento alla croce, a cui assomiglia il numero romano X.

LAVORIAMO SU

5. La lirica presenta alcune immagini direttamente collegabili a quella, tipica di Pascoli, del «nido». a. Evidenzia tali immagini nel testo. b. Illustra in un breve scritto l’importanza che tale tematica assume nella poetica pascoliana. Puoi aiutarti con la lettura critica a p. 391.

{ Forme e stile 6. Il componimento mantiene la struttura metrica che è tipica di una poesia; tuttavia la commozione suggerisce a Pascoli la ricerca di una musica più inquietante e frantumata. Sintassi e metrica sembrano quasi dolorosamente spezzarsi in tre punti: al v. 14; ai vv. 18-20; ai vv. 21-24. a. Di quale fenomeno si tratta? .................................................................................................... b. Quale effetto esso produce? .................................................................................................... c. Perché Pascoli, secondo te, vuole produrre tale effetto? Quale relazione ha con il contenuto della poesia? .................................................................................................... 7. Il parallelismo fra la terza e la quinta strofa viene evidenziato anche dalla presenza di una rima identica e dalla ripetizione di una medesima espressione riferita al cielo. a. Qual è la rima ripetuta? .................................................................................................... b. Qual è l’espressione ripetuta? ....................................................................................................

LINGUA E LESSICO

1. La sintassi del componimento è molto studiata, così da imitare, nella sua semplicità, il linguaggio elementare dei bambini. a. Rileggi l’ultima strofa (vv. 21-24) e rispondi alle domande. – Qual è il verbo principale del periodo? ........................... – Qual è il soggetto? ........................................................... – Quali sono gli attributi del soggetto? .................................................................................................... 390

a. Oltre alla croce, osserva gli spini e il Perdono appena mormorato: quale significato assumono? .................................................................................................... b. Quale dialogo si svolge nell’ultima strofa? .................................................................................................... c. Come ti spieghi l’iniziale maiuscola nell’ultima parola del componimento? ....................................................................................................

– È presente un complemento di luogo: qual è? .................................................................................................... – C’è anche un complemento di mezzo: quale? .................................................................................................... – Qual è il complemento oggetto collegato al verbo principale? ........................................................................... b. Rifletti, infine, sulla funzione sintattica del pronome sì no lo (v. 23): ti sembra usato correttamente? – Commenta in breve questa scelta di Pascoli.

Giovanni Pascoli

Il «nido» nella simbologia di Pascoli Giorgio Bàrberi Squarotti (1929) ha indagato il valore e il significato dell’immagine del «nido» illustrata in X agosto. Quasi tutta l’opera pascoliana, a parere dello studioso, si costruisce a partire da questo fondo tematico, ricorrente, ossessivo. C’è una trama unitaria nel complesso della poesia pascoliana, ed è la simbologia, che via via presenta caratteri specifici, a seconda del progetto che regge il singolo testo, ma che ha alcune costanti. Penso, sì, alla simbologia della morte, che pervade di sé la presenza di personaggi, oggetti, paesaggi, eventi, ma anche al correlativo simbolo del «nido», che costituisce l’unico rifugio entro il quale l’ossessione della morte può essere resa sopportabile, se non esorcizzata. Il «nido» è il luogo familiare, dominato dalla figura primordiale della madre, che è la custode dei riti, dei sentimenti, dei pensieri di chi appartiene alla famiglia, vivi e morti, tutti uniti insieme. Nel calore del «nido» le inquietanti, angosciose voci che vengono da fuori e gli stessi lutti, le violenze, il male, l’errore, si compongono come in un rifugio, non sereno certamente, ma come difeso e sicuro, proprio per la complicità degli affetti. Come appare fin dal testo che è posto in limine1 di Myricae, Il giorno dei Morti, la peggiore situazione in cui ci si possa trovare è quella della dispersione del «nido»; e proprio per questo, nella poesia pascoliana, almeno per quello che si riferisce a Myricae e ai Canti di Castelvecchio, una posizione tanto rilevata hanno i lutti di famiglia, dall’assassinio del padre alla morte della madre e di fratelli e sorelle, e proprio l’uccisione del padre è la causa diretta della distruzione del «nido», con l’abbandono della casa descritta in Romagna e con la dispersione per il mondo della famiglia, cioè nel gorgo di confusione e di male che ha travolto quasi tutti i superstiti. Ogni partenza dal «nido» è un tradimento (come il Pascoli dice anche a proposito del matrimonio della sorella Ida, in Per sempre), perché distrugge l’ambito sicuro entro il quale la vita è possibile. [...] Nel «nido» distrutto, dove scendono i morti tenacemente legati a esso, ma queruli, aspri, convulsi, pieni di rancori e di rimpianti o di pretese, non resta, allora, che la determinazione a non partire più, a non ripetere la dispersione. Ne La voce la madre morta richiama Zvanì2 che sta per uccidersi per la dispersione del vivere e il fiume fa sentire il suo richiamo di morte, al pensiero del «nido» che, già colpito e sconvolto, finirebbe travolto in modo definitivo (le sorelle ancora piccine, i morti stessi, che attendono una preghiera dal vivo, cioè il segno, almeno, di un affetto non venuto meno). Si pensi anche al «romanzo georgico»3 e al fatto che tutto ciò che vi è rappresentato è chiuso all’interno della famiglia che ne è protagonista, anche se a volte soltanto di sfondo: non c’è vita di paese, non ci sono relazioni di nessun genere verso gli altri, e la celebrazione della siepe, che è stata interpretata come la rivelazione di un atteggiamento piccolo-borghese di inno alla proprietà, è da leggere invece come il simbolo della necessità che il «nido» sia ben chiuso e difeso dal male e dai rischi che possano venire dal di fuori a turbarlo e a sconvolgerlo. Sul modello del «nido» familiare, il Pascoli costruisce anche la sua concezione della nazione come il grande «nido» dove tutti i figli devono raccogliersi, anche se in povertà, per vivere l’unica autentica vita di solidarietà nel dolore, nella fatica, nelle difficoltà; e l’Italia vi fa, allora, la parte della grande Madre, che deve pensare a sfamare tutti i suoi figli (come il Pascoli dice in Italy, ne Gli eroi del Sempione e in altri testi politici ancora). G. Bàrberi Squarotti, Giovanni Pascoli, in Aa. Vv., Storia della civiltà letteraria italiana, vol. 5: Il secondo Ottocento e il Novecento, tomo 1, Utet, Torino 1994 1. in limine: sulla soglia, all’inizio. 2. Zvanì: Giovannino, cioè il poeta ragazzo.

3. romanzo georgico: l’insieme delle poesie ambientate da Pascoli nella campagna (in particolare i Poemetti) compon-

gono quasi una narrazione continua, un «romanzo» di vita contadina.

391

Monografia Raccordo

Contesto

La parola al critico

Tra Ottocento e Novecento

9

L’assiuolo Myricae – In campagna Anno: 1897 Temi: • la misteriosa vita del paesaggio, nella notte lunare • l’inquietudine di un richiamo di Il componimento delinea un paesaggio notturno, animato da molti elementi naturali. Su tutto grava un diffuso senso d’inquietudine e di mistero acuito dal verso dell’assiuolo, il rapace notturno simile al gufo che i contadini chiamano «chiù» e ritengono annunziatore di disgrazie. La sua voce risuona nei campi come un singhiozzo, un lugubre annuncio che non lascia pace. È in questo mondo sconcertante che si aggira il fanciullino-poeta, come un rabdomante in cerca di significati nascosti, che sfuggono alla razionalità dell’uomo adulto.

una domanda sospesa, come un segnale di inquietudine non dice, prosaicamente, «nubi nere», bensì descrive la loro risonanza psicologica

il verbo della sensazione sembra moltiplicarsi all’infinito

Dov’era la luna?1 ché il cielo notava in un’alba di perla,2 ed ergersi il mandorlo e il melo parevano a meglio vederla.3 Venivano soffi di lampi da un nero di nubi laggiù;4 veniva una voce dai campi: chiù...5 Le stelle lucevano rare tra mezzo alla nebbia di latte:6 sentivo il cullare del mare,7 sentivo un fru fru8 tra le fratte;9 sentivo nel cuore un sussulto, com’eco d’un grido che fu.10 Sonava lontano il singulto: chiù...11 Su tutte le lucide vette12 tremava un sospiro di vento:13 squassavano le cavallette finissimi sistri d’argento

Schema metrico: 3 stanze (doppie quartine) di versi novenari, con schema ABABCXCx; X corrisponde alla rima fissa ù e x alla parola-rima chiù. 1. Dov’era la luna?: la luna c’è senz’altro, vista la luminosità diffusa. Ma l’uso innovativo della punteggiatura sottolinea che si tratta di un interrogativo senza risposta. 2. ché il cielo... perla: visto che il cielo è immerso in un biancore perlaceo. 3. ed ergersi... vederla: e il mandorlo e il melo sembrano protendersi verso l’alto per (a) vederla (riferito alla luna) meglio. 4. Venivano... laggiù: dal nero delle nubi

392

lontane si vedono i bagliori dei lampi, simili a soffi. In soffi di lampi siamo di fronte a una tipica analogia simbolista: i lampi sono rapidi come soffi (si attua una trasposizione tra l’elemento visivo e quello tattile). 5. chiù: dalla campagna proviene il verso, lamentoso e lugubre, dell’assiuolo. Per il poeta-fanciullo, però, non si tratta di un verso, ma di una voce. 6. Le stelle... latte: brillano debolmente tra il biancore diffuso dalla luna. 7. il cullare del mare: il ritmico rifrangersi delle onde sulla riva è accostato al dondolio della culla.

5

10

15

20

8. fru fru: altra voce onomatopeica, che riproduce il fruscio, il batter d’ali dei piccoli animali notturni. 9. fratte: siepi. Si noti la forte allitterazione presente nel verbo. 10. grido che fu: è dunque l’eco d’un antico dolore. 11. Sonava... chiù: risuonava lontano il singhiozzo (il singulto dell’assiuolo): chiù. 12. lucide vette: le cime degli alberi illuminate dalla luna. 13. un sospiro di vento: un vento leggero, simile a un sospiro. 14. squassavano... più?: le cavallette scuotono dei finissimi sistri d’argento; in-

(tintinni a invisibili porte che forse non s’aprono più?...);14 e c’era quel pianto di morte... chiù... G. Pascoli, Poesie e prose scelte, cit.

fatti sfregando le zampe sulle elitre, le cavallette emettono il loro tipico suono metallico. I sistri sono antichi strumenti musicali, che si scuotono come sonagli; erano

usati dagli antichi egizi per il culto di Iside, la dea che aveva riportato in vita il marito Osiride. Ora però – sembra dire Pascoli – le porte della morte non si riaprono più. In

passato quei suoni conducevano fino alle soglie del mistero; ma la morte, un tempo sconfitta, è oggi invincibile.

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ La costruzione del testo è particolare: presenta tre quadri che parrebbero autonomi, privi di relazioni reciproche; l’unico, esile legame sembra costituito dalla voce dell’assiuolo, chiù. • La prima strofa (vv. 1-8) raffigura il cielo notturno, subito prima che sorga la luna. • La seconda (vv. 9-16) descrive il fruscio proveniente dal bosco e, in lontananza, il rumore dolcemente ritmico delle onde del mare. • La terza strofa (vv. 17-24) mostra le cime degli alberi protesi ai raggi lunari e scossi da un leggero vento.

■ Ecco come può essere sintetizzato il contenuto della lirica. In una notte nebbiosa il poeta guarda il cielo, cerca invano la luna, ammira le poche stelle. Davanti a tale spettacolo, la sua attenzione è continuamente distolta: prima dai lampi che, all’orizzonte, accendono le nubi nere e cariche di pioggia; poi dalla voce monotona del mare; infine dal canto fragoroso delle cavallette. Intanto, dall’una all’altra strofa, dall’uno all’altro oggetto, il poeta continua ad ascoltare la voce solitaria e lamentosa dell’assiuolo.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Alcuni elementi ci mettono sulla strada per interpretare correttamente il testo. • Il primo elemento è la costante presenza del chiù, il verso dell’assiuolo: questo uccello, secondo la tradizione, annuncia sventure. • Il secondo elemento sono i sistri (v. 20), strumenti musicali usati degli antichi egizi nei loro culti funebri di risurrezione. • Infine l’accenno alle porte / che forse non s’aprono più (vv. 21-22) è probabilmente un’allusione al regno della

morte: gli egizi credevano che quelle porte si potessero riaprire. ■ La lirica costituisce dunque una personalissima meditazione sull’oltretomba, cioè quel mondo segreto, alternativo all’esistenza comune, che esercita sugli uomini una forte attrazione, ma che rimane per essi sconosciuto. L’improvvisa domanda del v. 1 (Dov’era la luna?) condensa, rimanendo così sospesa, il messaggio della lirica: il mondo, e la vita umana in esso, sono interrogativi senza risposta.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi 1. Nella lirica – come altre volte avviene, in Pascoli – riveste notevole importanza l’elemento aereo (il cielo, l’aria, la luna), diffuso nel paesaggio. Di fronte all’altezza, vastità e indefinitezza di questo paesaggio (e dell’intera realtà) lo sguardo del poeta-fanciullo tende a rimpicciolire se stesso. a. Compila la tabella indicando strofa per strofa gli elementi di paesaggio che si riferiscono, rispettivamente, alle due aree semantiche.

strofa elementi aerei

elementi di terra

I

– luna, cielo – alberi ritti – lampi, nubi

– il mandorlo e il melo – voce dai campi

II

..................................... .....................................

..................................... .....................................

III

..................................... .....................................

..................................... ..................................... 393

Monografia Raccordo

ecco la vera ragione del brivido che agita il poeta-fanciullo

Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

2. Accanto alla dimensione aerea, un altro elemento «distanziante» del testo è il fatto che quasi tutti gli elementi di paesaggio si riferiscono a uno spazio lontano. Per esempio, ai vv. 5-6 i lampi sembrano provenire da un nero di nubi laggiù. a. Evidenzia tutti gli elementi riferibili a tale idea di lontananza. b. Ora rifletti: qual è il senso di questa lontananza? a indica lo spazio alternativo, il mondo dei morti b sottolinea la distanza tra la vita comune e quella del fanciullino c grazie a essa il poeta si nasconde per lasciar parlare il paesaggio Motiva in breve la tua scelta. 3. In Pascoli la natura tende a caricarsi di significati enigmatici: e così anche le descrizioni si rivelano solo apparenti, perché rinviano a simboli e impressioni. a. Quali elementi, in questa lirica, ti sembrano avere un valore simbolico? Elencali. b. Ora spiega in breve, elemento per elemento, di che cosa sono simbolo.

LAVORIAMO SU

4. Lo studioso Gianfranco Contini ha notato la compresenza, nel testo, di immagini determinate e di allusioni indeterminate. Parole dal senso preciso e immediato si alternano ad altre «semanticamente sfuggenti». Per esempio, l’inizio è di tipo descrittivo, con annotazioni precise (come il mandorlo e il melo al v. 3). Esse però emergono da un fondale inafferrabile, inaugurato dall’alba di perla (v. 2). a. Compila la tabella con tutte le espressioni appartenenti all’uno o all’altro dei due campi semantici. immagini determinate

immagini indeterminate

............................................. ............................................. ............................................. ............................................. ............................................. ............................................. ............................................. .............................................

............................................. ............................................. ............................................. ............................................. ............................................. ............................................. ............................................. .............................................

LINGUA E LESSICO

1. La percezione turbata del poeta-fanciullo ha un corrispettivo nella sintassi, discontinua e disaggregata. Essa vuole comunicare l’incapacità di stabilire rapporti chiari e ben definiti tra le cose. a. Osserva l’inizio della lirica, sintatticamente anomalo, e rispondi. – Da chi viene posta la prima domanda? .................................................................................................... .................................................................................................... – Quale risposta ottiene? .................................................................................................... .................................................................................................... – All’interrogativa diretta segue una proposizione subordinata: quale? E da quale principale è retta? .................................................................................................... .................................................................................................... 2. Nella seconda strofa ha un forte rilievo la forma sentivo, che torna per ben tre volte in tre versi consecutivi (vv. 11-13). Del resto, il verbo «sentire» è il verbo per eccellenza della percezione sensoriale, cara alla poetica decadente.

394

{ Forme e stile

a. La forma sentivo regge tre oggetti diversi, ovvero: – al v. 11: ................................................................................. – al v. 12: ................................................................................. – al v. 13: ................................................................................. b. Osserva adesso i tre oggetti di sentivo. – Il primo è un infinito sostantivato: il concetto viene rafforzato dalla rima interna, cioè .................................................................................................... .................................................................................................... – Il secondo è un’onomatopea semantizzata, resa cioè equivalente (anche grazie all’articolo indeterminativo) a un sostantivo. Come potresti parafrasarla? .................................................................................................... .................................................................................................... – Tale onomatopea è potenziata da un’allitterazione all’interno del medesimo verso: quale? .................................................................................................... .................................................................................................... – L’ultimo sentivo ritarda il complemento oggetto a causa di un’importante precisazione. Essa sposta l’ambito percettivo dall’orecchio all’interiorità. Di quale precisazione si tratta? .........................................................

Giovanni Pascoli

Contesto

La parola al critico Il «cambio di ottica» nella poesia di Pascoli

Monografia Raccordo

Lo studioso Enrico Elli (1950) traccia, in questo testo, un’illuminante sintesi circa l’evoluzione della poesia italiana fra Ottocento e Novecento. Il declinare della cultura positivistica produce un decisivo mutamento della funzione della poesia: da «rispecchiamento» della realtà, essa diviene, in qualche modo, evocatrice e creatrice di un’«altra» realtà. In tale passaggio occupa un ruolo decisivo proprio Pascoli: il poeta di Myricae appare, secondo il critico, molto più vicino alla visione pienamente novecentesca di Ungaretti che alla poesia totalmente razionale e classicistica del suo maestro Carducci. Dall’Illuminismo al Romanticismo fino al Positivismo la parola è strettamente legata alla realtà e da essa sostanziata: «cose, non parole» era il motto del “Caffè” dei Verri e di Beccaria; «il santo Vero» era l’oggetto della poetica manzoniana; e, per Foscolo, la poesia era la sola a vincere «di mille secoli il silenzio», assolvendo in tal modo ad una funzione “eternatrice”.1 Attraverso l’impegno pedagogico del letterato-educatore del popolo in età romantica, da un lato, e la grande stagione del realismo europeo, dall’altro, si giunge al Verismo nostrano, per il quale l’impersonalità e l’oggettività dell’opera d’arte si reggono, appunto, sulla positivistica fiducia nella capacità della parola di riprodurre fedelmente (fotograficamente, addirittura) la realtà. Persino la contestazione scapigliata guarda al vero, alla realtà, sia pure nei suoi aspetti più patologici. Lungo tutto questo arco di tempo, dunque, è la realtà che fa da referente alle parole, e la parola poetica, dal canto suo, è in funzione delle cose: non ha e non deve avere valore autonomo, ma per la realtà2 a cui fa riferimento e di cui si sostanzia. Ciò significa che il poeta ha un rapporto diretto e costruttivo con la realtà. La crisi della filosofia positivista, sul finire del secolo, segna l’inizio di una parabola discendente. Si perde la fiducia nelle possibilità della ragione e della scienza di definire, costruire e modificare la realtà. Si sviluppa una sensibilità complessa e largamente inquieta, attratta piuttosto dalla realtà che non si vede né può essere quantificata scientificamente; che sta “oltre” le apparenze fenomeniche e perciò risulta misteriosa, ma non per questo meno vera. Quest’ultimo aspetto del reale non può essere spiegato razionalmente («squadrato da ogni lato», con una precisa «formula», per dirla con Montale)3 e, quindi, non può essere definito dalla parola, intesa come veicolo di un discorso logico-razionale. Una simile dimensione è solo intuibile, percepibile attraverso suggestioni e segnali (i simboli) e può essere solo suggerita ed evocata dalla parola (dalla parola poetica, in ogni caso, e non certo da quella scientifica). Se dunque, prima, il poeta era il cantore della realtà (oggetto del fare poetico), ora, davanti alle ombre del mistero che hanno avvolto il reale, vien meno – progressivamente, ma molto rapidamente – anche la fiducia nella possibilità della parola di capire e mettere ordine. La parola non è più in grado di costruire un discorso sulla realtà: dovrà limitarsi a isolarne brevi frammenti e ad attingerla4 attraverso momentanee intuizioni. Non più la scienza come strumento di conoscenza, ma la poesia. Il poeta-veggente evoca questa diversa e più profonda dimensione, ne sonda gli abissi con improvvise illuminazioni; non è in grado di articolare un lungo discorso, ma coagula le sensazioni in pochi versi. La parola poetica, così frammentata, diviene strumento di un nuovo modo di percepire il reale, poiché è mutata la prospettiva, il punto di vista dal quale lo si osserva: non più una visione oggettiva, ma soggettiva. 1. assolvendo in tal modo ad una funzione “eternatrice”: per Foscolo, la poesia è lo strumento con cui il poeta può eternare gli eroi e le loro imprese, rendendosi a propria volta immortale.

2. ma per la realtà: ma (la parola) ha valore grazie alla realtà ecc. Cioè: la parola vive per tale realtà esterna. 3. per dirla con Montale: viene citato qui un verso della prima raccolta di Mon-

tale, Ossi di seppia (1925). 4. ad attingerla: se non a riprodurre la realtà, perlomeno a entrare in relazione con essa.

E 395

Tra Ottocento e Novecento

E

È, questo, uno degli elementi che segnano il trapasso da Carducci a Pascoli e può con chiarezza essere esemplificato ponendo a confronto i due sonetti ugualmente intitolati Il bove che, a vent’anni di distanza l’uno dall’altro, i due poeti hanno composto: Carducci, Il bove, 1872

Pascoli, Il bove, 1892

T’amo, o pio bove; e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondi, o che solenne come un monumento tu guardi i campi liberi e fecondi,

Al rio sottile, di tra vaghe brume, guarda il bove, coi grandi occhi: nel piano che fugge, a un mare sempre più lontano migrano l’acque d’un ceruleo fiume;

o che al giogo inchinandoti contento l’agil opra de l’uom grave secondi: ei t’esorta e ti punge, e tu co’l lento giro de’ pazienti occhi rispondi.

ingigantisce agli occhi suoi, nel lume pulverulento, il salice e l’ontano; svaria su l’erbe un gregge a mano a mano, e par la mandra dell’antico nume:

Da la larga narice umida e nera fuma il tuo spirto, e come un inno lieto il mugghio nel sereno aer si perde;

ampie ali aprono imagini grifagne nell’aria; vanno tacite chimere, simili a nubi, per il ciel profondo;

e del grave occhio glauco entro l’austera dolcezza si rispecchia ampio e quieto il divino del pian silenzio verde.

il sole immenso, dietro le montagne cala, altissime: crescono già, nere, l’ombre più grandi d’un più grande mondo.

(Rime nuove)

(Myricae)

L’occhio del bove carducciano, nella sua pacata e serena sicurezza, riflette la realtà circostante così com’è e si pone con essa in rapporto diretto e costruttivo, collaborando all’opera positiva dell’uomo. Ben diversa è la prospettiva assunta dalla stessa realtà attraverso lo sguardo del bove pascoliano: tutto sfugge e si trasfigura, assumendo proporzioni soggettive ingigantite, e nella visione del mondo si inserisce un senso di inquietudine derivato dal mistero che incombe. È un cambio di “ottica” che sintetizza tutta la differenza che, ormai, all’altezza degli anni novanta, intercorre tra l’«artiere» carducciano e il «fanciullino» pascoliano. Perché – «con pace del maestro»,5 dice, appunto, il Pascoli nella prosa del Fanciullino – la parola non è più materia da plasmare per forgiare, faticosamente, i versi, ma è forza allusiva che evoca e ricrea il reale. Depauperata di valore semantico,6 si potenzia, invece, nella sua componente fono-espressiva, fino a divenire forza evocatrice. Il poeta, che sa controllare una siffatta parola, diviene un taumaturgo,7 in grado di suscitare fantasmi e rendere presenti realtà misteriose. Si pensi, a questo proposito, tra le Myricae, alla lirica Il mago, in precedenza significativamente intitolata Il poeta. Il poeta-mago pronuncia la parola («dice») e subito la realtà evocata si rende misteriosamente presente («fiora»).8 Allo stesso modo Ungaretti, nel Commiato del Porto Sepolto9 (anch’esso, non a caso, dapprima intitolato Poesia), affermerà che tutta la realtà fiorisce dalla parola: «poesia / è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola». E. Elli, Da Pascoli a Ungaretti, in Aa.Vv., Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, Interlinea, Novara 19972 5. con pace del maestro: così, nel Fanciullino, dice Pascoli per contraddire il maestro Carducci (E Testo 2, p. 373). 6. Depauperata di valore semantico: impoverita nella sua capacità di rispec-

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chiare il reale. 7. un taumaturgo: una sorta di mago, creatore del mondo con la sua parola, appunto. 8. fiora: fiorisce.

9. nel Commiato del Porto Sepolto: nell’ultima poesia di Il porto sepolto, prima raccolta lirica di Giuseppe Ungaretti, pubblicata nel 1916.

Giovanni Pascoli

Contesto

POEMETTI Laboratori interattivi • Nei campi • Il desinare • L’aquilone • Il libro

Il progetto e le edizioni ◗ Pascoli iniziò a lavorare ai Poemetti negli stessi anni in cui componeva le più mature liriche di Myricae. Già nel 1887 scriveva all’amico Severino Ferrari: «Avanti a me sono allineati i poemetti che ho in animo di fare: sono 15 gruppi, niente meno!». Fin d’allora coltivava due progetti ben distinti: • da un lato, i testi brevi e umili della prima raccolta, Myricae; • su un altro piano, l’idea nuova di un «romanzo in versi» della vita di campagna, un racconto per poemetti, appunto. ◗ Quest’opera così ambiziosa uscì con il titolo di Poemetti nel 1897, a Firenze; nel 1900 ne venne pubblicata una seconda edizione (a Messina, dove l’autore insegnava), di mole quasi raddoppiata. In seguito, il libro dei Poemetti crebbe ulteriormente, fino a sdoppiarsi: nel 1904 uscirono i Primi poemetti, nel 1909 i Nuovi poemetti.

Il «romanzo in versi» dei Poemetti ◗ La tematica delle «piccole cose», tipica di Myricae, si arricchisce nei Poemetti a più livelli, in primo luogo sul piano metrico: i Poemetti sono composti quasi tutti in terzine di endecasillabi di tipo dantesco, raccolte poi in strofe di lunghezza diversa, mentre Myricae e poi i Canti di Castelvecchio facevano invece uso di metri diversi, presi dalla tradizione e ricreati da Pascoli. Ma qui la scelta della terzina risponde al più vasto respiro dei Poemetti, che si sviluppano, come già detto, in forma di racconto. ◗ La seconda, importante differenza rispetto a Myricae riguarda precisamente il disegno narrativo. I componimenti sono raggruppati in più cicli (nei Primi poemetti abbiamo per esempio 4 parti o cicli di 9 canti ciascuno: La sementa, L’accestire, La fiorita, La mietitura). Il poeta racconta, lungo le stagioni di un anno, le opere e i giorni di una famiglia contadina della Garfagnana: il «capoccio» e la moglie, le figlie Rosa e Viola, i figli Nando e Dore. Intersecata a questo livello vi è la storia d’amore del cacciatore Rigo e di Rosa. Il loro amore si sviluppa insieme alle vicende della terra: infatti nasce in autunno (il tempo della semina), cresce in inverno (come il seme sotto la neve), si risveglia in primavera con i fiori e gli uccelli, si compie in estate con le nozze (tempo di mietitura), per farsi fecondo al tempo autunnale della nuova semina e della vendemmia. Alle vicende dei protagonisti si legano storie collaterali di personaggi minori e ambienti campestri, da Il vecchio castagno a Le armi (gli attrezzi agricoli) a I filugelli. Il tutto vuole raffigurare lo svolgersi della civiltà contadina, con il suo modo discreto, operoso e solidale d’intendere l’esistenza umana.

La campagna felice e altri temi ◗ Rispetto a Myricae, i Poemetti restituiscono l’immagine di una campagna felice, non turbata, in grado di fornire riparo e cibo ai suoi abitatori. La vita della famiglia contadina scorre povera e faticosa, ma quasi sempre serena. Sono assenti morte, dolore, miseria; Rosa perde il primo figlio, ma subito dopo rimane nuovamente incinta. La campagna garfagnina pare una nuova Arcadia, la terra felice dei mitici pastori. Certo, non appena ci si sporge fuori da questo cerchio magico, s’incontreranno le inquietudini delle città, i turbamenti della vita moderna; ma qui, all’interno del mondo rurale, scorre un’esistenza placida, ritmata dall’avvicendarsi delle stagioni e dai suoi riti secolari. ◗ Accanto al nucleo principale del «romanzo contadino» incontriamo alcuni poemetti più simbolici e meditativi, tra i più belli di Pascoli: Digitale purpurea, L’aquilone, Suor Virginia, La vertigine, Italy. Ritornano qui i temi cari a Pascoli: lo sgomento dinanzi al mistero dell’esistere, le sue ansie umanitarie e le sue paure sociali, la paralisi della morte, il desiderio della consolazione.

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Monografia Raccordo

L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento

10 Digitale purpurea Primi poemetti – Il bordone – L’aquilone Anno: 1898 Temi: • un incontro di due ex collegiali e un ricordo di gioventù • l’oggetto proibito, il suo fascino segreto • la tentazione e il cedimento Due donne, ex collegiali, educate in un convento di suore, si ritrovano a rievocare le memorie di gioventù. Una di loro confessa un episodio collegato al mito della digitale purpurea, il fiore che emana un profumo intenso, creduto mortifero. Il componimento fu ispirato a Pascoli da un ricordo di collegio di Maria, sorella minore del poeta: la madre maestra aveva allontanato le allieve da un fiore (la digitale purpurea, appunto), perché si credeva che il profumo da esso emanato fosse velenoso. Le due ex compagne non si limitano però a rammentare il passato con tranquilla nostalgia. Il loro colloquio s’incentra sempre più su quel fiore a cui si attribuiscono poteri magici e che diviene il simbolo del desiderio frustrato: forse si tratta del desiderio sessuale, o forse, più genericamente, dell’attrazione esercitata dall’ignoto. A ogni modo il tema profondo di Digitale purpurea è il pulsare in ognuno di noi di una vita inconscia, che si fa presente solo per allusioni, tra brividi, silenzi, paure. L’atmosfera del testo, con i suoi nascosti sensi di amore e morte, e con la morbosità che la impregna, è vicina ai climi tipici del Decadentismo e, in particolare, dell’estetismo dannunziano. Diversamente da D’Annunzio, però, Pascoli non è attratto dalle esperienze, uniche ed eccezionali, del «vivere inimitabile». Gli interessa invece suggerire gli aspetti inquietanti che si nascondono nelle cose normali, in questo caso nella quotidianità dell’esistenza di collegio.

I. la posizione speculare vuole indicare che si tratta di due figure molto diverse

isolato com’è, il fiore acquista forte rilievo, accresciuto dalla metrica, dai puntini di sospensione, dai caratteri corsivi

Siedono. L’una guarda l’altra.1 L’una esile e bionda, semplice di vesti e di sguardi; ma l’altra, esile e bruna,2 l’altra...3 I due occhi semplici e modesti fissano gli altri due ch’ardono.4 «E mai non ci tornasti?»5 «Mai!» «Non le vedesti più?» «Non più, cara.» «Io sì: ci ritornai; e le rividi le mie bianche suore, e li rivissi i dolci anni che sai; quei piccoli6 anni così dolci al cuore...» L’altra sorrise. «E di’: non lo ricordi quell’orto chiuso? i rovi con le more? i ginepri tra cui zirlano7 i tordi? i bussi8 amari? quel segreto canto9 misterioso, con quel fiore,10 fior di...?» «morte: sì, cara». «Ed era vero? Tanto

Schema metrico: terzine dantesche (endecasillabi a rima incatenata, con un verso di chiusa al termine di ogni strofa), ripartite in 3 parti o strofe di 25 versi ciascuna. 1. L’una... l’altra: Maria e Rachele, le due compagne di collegio, che si ritrovano dopo anni. 2. bruna: il color bruno dei capelli, diversamente dal biondo della prima, è segno di

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inquietudine e ardore amoroso. 3. l’altra...: la sospensione suggerisce la diversità (dal punto di vista morale) di Rachele. L’indicazione è rafforzata dal ripetersi di altra, che significa qui “diversa”. 4. ardono: mandano lampi (d’inquietudine e furbizia). 5. non ci tornasti?: Maria, la semplice, chiede a Rachele se non si sia più recata al collegio.

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6. piccoli: cioè quelli vissuti quando erano ragazze. 7. zirlano: cantano (zirlare è il verso del tordo). 8. bussi: forma arcaica per bossi, arboscelli sempreverdi. 9. segreto canto: angolo nascosto. 10. quel fiore: è la digitale purpurea, pianta erbacea con fiori rossi a grappolo e macchie scure, con una corolla a forma di

la poesia si svolge tutta nell’ambito della visione fantastica, cioè del puro immaginario

il rito religioso ambiguamente sembra alludere ad altri «sorrisi»

dolci lacrime per una devozione eccitata e un po’ voluttuosa

II. Vedono.16 Sorge nell’azzurro intenso del ciel di maggio il loro monastero, pieno di litanie, pieno d’incenso. Vedono; e si profuma il lor pensiero d’odor di rose e di viole a ciocche17 di sentor18 d’innocenza e di mistero. E negli orecchi ronzano, alle bocche salgono melodie, dimenticate, là, da tastiere appena appena tocche...19 Oh! quale20 vi sorrise oggi, alle grate, ospite caro? onde più rosse21 e liete tornaste alle sonanti22 camerate oggi:23 ed oggi, più alto, Ave, ripete, Ave Maria, la vostra voce in coro; e poi d’un tratto (perché mai?) piangete... Piangono, un poco, nel tramonto d’oro, senza perché. Quante fanciulle sono nell’orto, bianco qua e là di loro!24 Bianco e ciarliero.25 Ad or ad or, col suono di vele al vento,26 vengono. Rimane qualcuna, e legge in un suo libro buono.27 In disparte da loro agili e sane,

ditale (digitalis). Pascoli la confonde con l’atropa belladonna, la quale ha «fiori analoghi ma è pianta tutta velenosa [...] che gustata dona visioni paradisiache e la morte» (Chimenz). Le foglie della digitale sono utilizzate in medicina per l’azione cardiotonica, ma risultano tossiche se assunte in dosi massicce. 11. Ché: perché. 12. un miele: un profumo dolce. 13. bagna... dolce e crudele: induce in chi lo annusa un senso di stordimento, che affascina (in quanto dolce) e poi uccide (crudele). 14. quel convento: solo adesso sappiamo in quale luogo si ambienta il poemetto. Nella realtà, si trattava del collegio di So-

gliano al Rubicone, presso Forlì, dove nel 1868 Maria e Ida Pascoli trascorsero alcuni mesi, dopo la morte della madre. 15. cerulea: azzurra in lontananza. 16. Vedono: con gli occhi della memoria. 17. viole a ciocche: le violacciocche sono piante erbacee dai fiori purpurei o violacei a grappolo, coltivate nei giardini. 18. sentor: profumo. 19. tastiere... tocche: tastiere d’organo soltanto sfiorate, con dolcezza. Si tratta dell’eco interiore della visione. 20. quale: da unire a ospite caro, cioè: quale ospite gradito è venuto a far visita? Allude alla santa comunione, l’ospite è Cristo. 21. rosse: a causa del quale, emozionate per la gioia di quella visita.

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Monografia Raccordo

l’inebriante ambiguità della tentazione, desiderata e insieme temuta

io ci credeva che non mai, Rachele, sarei passata al triste fiore accanto. Ché11 si diceva: il fiore ha come un miele12 che inebria l’aria; un suo vapor che bagna l’anima d’un oblìo dolce e crudele.13 Oh! quel convento14 in mezzo alla montagna cerulea!»15 Maria parla: una mano posa su quella della sua compagna; e l’una e l’altra guardano lontano.

Contesto

Giovanni Pascoli

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22. sonanti: animate di voci. 23. oggi: cioè nel ricordo. 24. bianco... di loro: l’orto appare bianco per la presenza delle numerose vesti bianche delle collegiali. Il convento viene descritto in modo analogo al «nido» domestico. 25. Bianco e ciarliero: rispettivamente, per gli abiti e per le voci. Le ragazze trasferiscono a un oggetto inanimato (l’orto) il loro modo d’essere. 26. col suono di vele al vento: con il rumore prodotto dal fruscio delle ampie vesti monastiche che svolazzano nella corsa. 27. libro buono: un libro di preghiere.

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Tra Ottocento e Novecento

il profumo di una vita misteriosa si spande nell’aria, come una tentazione per le pie collegiali

una parola chiave, che vuole evidenziare l’intensità della sensazione

la voce dell’ignoto che attrae, o dell’incantamento sessuale

la tentazione ha sempre una natura peccaminosa

una spiga di fiori, anzi di dita28 spruzzolate di sangue, dita umane, l’alito ignoto29 spande di sua vita. III. «Maria!» «Rachele!» Un poco più le mani si premono. In quell’ora hanno veduto30 la fanciullezza, i cari anni lontani. Memorie (l’una sa dell’altra al muto premere)31 dolci, come è tristo e pio il lontanar d’un ultimo saluto!32 «Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!» dice tra sé, poi volta la parola grave a Maria, ma i neri occhi no:33 «Io,» mormora, «sì: sentii34 quel fiore. Sola ero con le cetonie verdi.35 Il vento portava odor di rose e di viole a ciocche. Nel cuore, il languido fermento36 d’un sogno che notturno arse e che s’era all’alba, nell’ignara37 anima, spento. Maria, ricordo quella grave38 sera. L’aria soffiava luce di baleni39 silenzïosi. M’inoltrai leggiera, cauta, su per i molli terrapieni erbosi. I piedi mi tenea40 la folta erba. Sorridi? E dirmi sentia:41 Vieni! Vieni! E fu molta la dolcezza! molta! tanta, che, vedi... (l’altra lo stupore42 alza degli occhi, e vede ora,43 ed ascolta con un suo lungo brivido...) si muore!».44

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G. Pascoli, Poesie e prose scelte, cit.

28. una spiga... anzi di dita: la digitale purpurea è paragonata a dita umane e, per i suoi fiori rossi (E nota 10), spruzzate di sangue. Essa sta in disparte (v. 47), perché viene ritenuta un pericolo e un rischio. 29. ignoto: nessuno ha mai conosciuto quel profumo (alito), per non rischiare di morire. 30. veduto: rievocato. 31. sa dell’altra... premere: basta la semplice stretta di mano (o un abbraccio) perché l’una comprenda il turbamento dell’altra. 32. il lontanar... saluto: l’allontanarsi di una persona nell’addio. 33. i neri occhi no: cioè parla e non guar-

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da, mentre fa la sua confessione a Maria. 34. sentii: annusai. 35. cetonie verdi: insetti attirati dal profumo dei fiori. 36. il languido fermento: l’eccitazione che resta nella memoria, all’alba, del sogno notturno. 37. ignara: innocente; non conosce ancora il significato di quel sogno e ciò che la attende. 38. grave: afosa (ma anche opprimente, a causa della tentazione). 39. luce di baleni: lampi lontani, tanto che non si udiva alcun rumore di tuoni. È un fenomeno abbastanza frequente nelle sere estive.

40. tenea: tratteneva. 41. dirmi sentia: sentivo dirmi. 42. lo stupore: non alza gli occhi stupiti, ma alza lo stupore / ... degli occhi; il dato emozionale sostituisce l’oggetto. 43. e vede ora: adesso comprende. Maria capisce, e ne ricava un lungo brivido di sgomento. 44. Vieni! E fu molta... muore!: è avvenuto il contatto con il fiore, che Pascoli presenta come molto pericoloso. In questi ultimi versi il ritmo si frantuma e si dilata, grazie alla punteggiatura, in pause e sospensioni amplissime: il tutto per sottolineare che la dolcezza di quel fiore è mortale.

IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ Nel volume Lungo la vita di Giovanni Pascoli (a cura di A.Vicinelli, Mondadori, Milano 1961), la sorella Mariù ricostruì l’origine del componimento. Esso nacque da un racconto da lei fatto al fratello Giovanni e risalente agli anni di collegio. Le educande s’incamminano per un sentiero tra due giardini; in uno di essi si erge una pianta dal lungo stelo, che ha in cima una spiga di fiori rossi a campanelle, con macchioline rosse scuro: la digitale purpurea. Le ragazze si avvicinano alla strana pianta, ma la suora maestra intima loro di allontanarsi subito: il profumo del fiore è velenoso, «così penetrante che faceva morire». Mariù-Maria aggiunge che le rimase a lungo la paura del fiore mortifero. ■ Pascoli rielabora l’episodio, scandendolo in tre tempi:

l’incontro; la visione e i ricordi; la confessione. Ciascuno di essi è segnato da un verbo isolato: Siedono (v. 1), Vedono (v. 26), Piangono (v. 41). • Prima parte: Maria e Rachele si ritrovano e rievocano quei piccoli anni così dolci al cuore (v. 10). Già dai loro discorsi emerge la presenza di quel fiore (v. 15) ritenuto maligno. • Seconda parte: la vita in convento, nell’azzurro intenso (v. 26), tra canti, preghiere e cori. • Terza parte (dal v. 41): di nuovo risalta la misteriosa presenza di quella spiga di fiori (v. 48), ammaliatrice. Rachele ricorda di avere ceduto alla tentazione: si inoltrò leggiera (v. 68), rispondendo al richiamo peccaminoso. L’unica conclusione è una sensazione: E fu molta la dolcezza! molta! (v. 72).

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ La trasgressione narrata non ha come protagonista Maria, la «sorella buona», dal nome purissimo e carico di valore religioso. Essa riguarda invece Rachele, molto diversa dalla sorella. La differenza tra le due ragazze è evidenziata fin dal principio del testo (vv. 1-5): dopo i rapidi cenni che descrivono la virtuosa modestia e semplicità di Maria, di fronte all’ardore dello sguardo di Rachele il discorso poetico resta sospeso (l’altra...): il poeta teme di avventurarsi fra le pieghe di una psicologia inquieta e sensuale. ■ Rachele è la «controfigura» poetica di Ida, l’altra sorella minore del poeta. Sposandosi nel 1895, Ida aveva infranto l’unità del «nido» familiare, pregiudicando il rapporto a tre

creatosi tra i fratelli Pascoli. Ida-Rachele è dunque colei che accetta un’esperienza proibita (il matrimonio), alla quale né Giovanni né Maria osano accostarsi, preferendo legarsi tra loro con una fedeltà esclusiva (e un po’ morbosa). ■ La digitale purpurea è un simbolo delle forze ambivalenti che agitano l’inconscio umano; suscita sensazioni di dolcezza e di crudeltà (v. 21), moti d’attrazione e di ripulsa. Essa è fior di morte (vv. 15-16) che tuttavia l’alito ignoto spande di sua vita (v. 50): esala un richiamo verso gioie che sono, contemporaneamente, irresistibili e minacciose. Pascoli costruisce in tal modo un’atmosfera letteraria tipicamente decadente.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi 1. Il poeta sceneggia il dialogo tra le due ragazze senza antefatto; solo man mano il lettore può ricostruire il contesto da cui prendono corpo le parole. a. Secondo te, è un procedimento in linea con la sì no poetica pascoliana? b. Spiega perché (max 5 righe). 2. La seconda parte evoca i ricordi della vita delle educande nel collegio delle suore: le preghiere, la messa, la comunione. a. Rintraccia nella lirica ciascuno di questi momenti. 3. In lontananza, ma ben percepibile, aleggia la presenza del fiore misterioso e minaccioso che dà titolo al poemetto. a. In quali momenti esce allo scoperto la presenza del fiore? ....................................................................................................

b. In quali altri momenti viene soltanto allusa? .................................................................................................... 4. Nella terza parte la narrazione procede verso il momento del «peccato». a. Tale «peccato» viene a direttamente rappresentato c soltanto alluso b ignorato b. Rispondi citando il punto o i punti del testo che ti suggeriscono la risposta. .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... 5. La narrazione si sposta ora definitivamente da una dimensione di realtà a un’altra, in cui domina il sogno, o meglio, l’incubo, con il turbamento che esso produce. a. Sottolinea nel testo gli elementi che si possono riferire a questa condizione onirica. 401

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ANALISI DEL TESTO

Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

6. «Pascoli tenta di approfondire quel contrasto che anche i pittori dell’epoca avevano adombrato come motivo lezioso e piccante... perché sempre i poeti e i pittori hanno immaginato la donna bruna più ardita ed espansiva, e la bionda più timida e ritrosa; l’una pronta a godere, ad agire, a dominare, l’altra schiva, dolce, remissiva, in sé raccolta» (M. Praz). a. Individua nel testo tutti i gesti, gli atteggiamenti, le sfumature che differenziano le due figure: – Maria, bionda e innocente: .................................................................................................... .................................................................................................... – Rachele, bruna e maliziosa: .................................................................................................... .................................................................................................... 7. Il significato generale del poemetto va messo in relazione con la simbologia pascoliana del «nido» e delle minacce che lo circondano. a. Cita gli elementi di questo testo che vanno riferiti al «nido» e ai suoi pericoli. .................................................................................................... .................................................................................................... b. Ora rifletti: perché l’uscita dal «nido» costituisce, per Pascoli, un evento drammatico? .................................................................................................... ....................................................................................................

{ Forme e stile 8. Pascoli affida al linguaggio il compito di suggerire (o evocare) ciò che né gli oggetti né le parole possono da soli rappresentare. Qui, egli circonda il dialogo tra Maria e Rachele di una sottile ambiguità, sintomo della stagione turbata

LAVORIAMO SU

Osserva per esempio: • l’impiego del verbo bagnare (v.20); • la violenta immagine delle dita/ spruzzolate di sangue, che associa l’idea del sesso a quella del sangue e della violazione. a. Rintraccia nella lirica altri elementi simili a quelli citati: citali e commentali in breve. .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... 9. Al v. 29 s’incontra un’espressione assai significativa: e si profuma il lor pensiero. a. Si tratta di a una sinestesia b un’analogia c una metafora d un asindeto Motiva in breve la risposta. .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... 10. L’atmosfera del poemetto è chiaramente decadente. Nel sonetto Corrispondenze (E p. 258) Charles Baudelaire dice: «[Esistono] profumi freschi come la carne d’un bambino, / dolci […] e altri d’una corrotta, trionfante ricchezza, […] che cantano i trasporti della mente e dei sensi». Metti a confronto, in un tuo scritto, Digitale purpurea e il sonetto di Baudelaire.

LINGUA E LESSICO

1. Per esprimere l’intimo turbamento delle narratrici, il poeta forza la sintassi mediante incisi narrativi frequenti; esclamazioni che accostano semplicemente i periodi (Oh! quel convento, v. 22); violenti enjambements (a/ ciocche, vv. 62-63); l’uso ossessivo dei segni di punteggiatura, che impongono una lettura emotiva, spezzata. a. Individua nel testo altri esempi per ciascuno degli elementi citati. 402

dell’adolescenza. Il lessico risulta perciò allusivo e un po’ morboso.

– incisi .................................................................................................... – esclamazioni .................................................................................................... – enjambements .................................................................................................... – punteggiatura ossessiva ....................................................................................................

Giovanni Pascoli

Contesto

CANTI DI CASTELVECCHIO

Storia e struttura della raccolta Laboratori interattivi • L’ora di Barga • La tovaglia • Il fringuello cieco

◗ Ai temi e al tono di Myricae Pascoli tornò nei Canti di Castelvecchio, la raccolta pubblicata da Zanichelli (Bologna) nel marzo-aprile del 1903 e che comprendeva liriche per lo più scritte tra il 1895-96 e il 1902. Molti testi erano già apparsi su varie riviste, per lo più sul «Marzocco» e sulla «Riviera ligure». Dopo la prima edizione, la raccolta venne ristampata, ampliata, nel 1905, nel 1907 (con cinque nuove poesie), nel 1910 e nel 1912. ◗ Pascoli presentò la raccolta come la naturale prosecuzione rispetto al libro d’esordio. Se infatti nella prefazione a Myricae si leggeva: «Rimangano rimangano questi canti su la tomba di mio padre!», ora, introducendo i Canti, Pascoli osserva: «E su la tomba di mia madre rimangano questi altri canti!». All’interno il libro è strutturato in due nuclei autobiografici asimmetrici. Il primo, intitolato Canti di Castelvecchio, comprende 60 poesie; il secondo, Il ritorno a San Mauro, raccoglie appena 9 testi, ispirati da un reale soggiorno del poeta presso la terra natale, in un ultimo e malinconico tentativo di trovare i colpevoli dell’assassinio del padre Ruggero.

Le poesie della maturità ◗ Dopo la pausa dei Poemetti, i Canti di Castelvecchio riprendono i motivi di Myricae, ma con una maggiore complessità. Ritornano, e si accentuano, alcuni dei temi più cari alla poetica pascoliana: il senso di mistero e il tema della fine incombente; l’angoscia dell’eros temuto e represso; l’atmosfera di dolore che ispira i componimenti legati alla tragedia familiare (La cavalla storna, Un ricordo, Ritorno a San Mauro). ◗ Il confronto con Myricae rivela però la compiuta maturazione poetica dell’autore. Risaltano con nettezza gli accorgimenti più originali della versificazione pascoliana: la fioritura delle figure onomatopeiche, il culto dei diminutivi, l’adozione di termini derivati dal dialetto e dalle parlate gergali (tanto che dalla seconda edizione fu necessario aggiungere un dizionarietto esplicativo). La scrittura, commossa e patetica, si sofferma su oggetti e nomi comuni, volutamente piccoli ma proprio per questo carichi di suggestione. Il linguaggio simbolico del poeta-fanciullo riveste parole e temi di solito esclusi dal repertorio letterario, in una perfetta tessitura artistica, efficacemente calibrata e calcolata.

■ La casa di Pascoli a Castelvecchio. 403

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L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento

11 La mia sera Canti di Castelvecchio Anno: 1900 Temi: • un paesaggio serale come riflesso dell’animo del poeta • il mondo, cioè la vita adulta, come spazio di turbamento e spavento • il ricordo e il rifugio nel nido familiare La meditazione sulla sera è uno dei temi classici della nostra poesia. Ma Pascoli non propone una vera meditazione (cioè un pensiero, da cui trarre un insegnamento); egli canta infatti la sua sera: la «sua» soltanto, di poeta-fanciullo.

la visione è quella del poeta-fanciullo

oggetti naturali tutti «umanizzati» dallo sguardo incantato del bambino

le frasi sono accostate una dopo l’altra, senza che le varie percezioni si fondano in un discorso organico inizia la seconda parte del componimento: il paesaggio lascia posto all’io dell’autore, con i suoi ricordi e sensazioni

Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle, le tacite1 stelle. Nei campi c’è un breve gre gre2 di ranelle. Le tremule foglie dei pioppi trascorre3 una gioia leggiera. Nel giorno, che lampi! che scoppi! Che pace, la sera! Si devono aprire le stelle nel cielo sì tenero e vivo.4 Là, presso le allegre ranelle, singhiozza monotono un rivo.5 Di tutto quel cupo tumulto, di tutta quell’aspra bufera, non resta che un dolce singulto6 nell’umida sera. È, quella infinita tempesta,7 finita in un rivo canoro. Dei fulmini fragili8 restano cirri9 di porpora e d’oro. O stanco dolore, riposa! La nube nel giorno più nera fu quella che vedo più rosa nell’ultima sera.10

Schema metrico: 5 strofe di 7 versi novenari, con schema ABABCDCd (l’ultimo verso è un senario con parola-rima fissa: sera). 1. tacite: silenziose. 2. gre gre: voce onomatopeica; indica il

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gracidio delle rane (le ranelle). 3. trascorre: passa attraverso, sfiora. Il periodo è retto da una gioia leggiera, riferito alla brezza serale. 4. sì tenero e vivo: così sereno e animato (dalle stelle). Sembra quasi di toccarlo, questo cielo lavato dalla pioggia recente.

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5. singhiozza... un rivo: gorgoglia un ruscello. 6. singulto: il singhiozzare del rivo. 7. quella infinita tempesta: il temporale, che sembrava non cessare mai. 8. fragili: perché spariscono subito. 9. cirri: nubi.

Giovanni Pascoli

l’ultima strofa è il trionfo dell’onomatopea la sinestesia suggerisce lo sprofondare del poeta nel ricordo infantile

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Contesto

continua l’identificazione; anche al poeta è toccata una ben povera parte di cibo...

Che voli di rondini intorno! che gridi nell’aria serena! La fame del povero giorno prolunga la garrula cena.11 La parte, sì piccola, i nidi nel giorno non l’ebbero intera.12 Né io... e che voli, che gridi, mia limpida sera!

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Don... Don... E mi dicono, Dormi! mi cantano, Dormi! sussurrano, Dormi! bisbigliano, Dormi! là, voci di tenebra azzurra...13 Mi sembrano canti di culla, che fanno ch’io torni com’era... sentivo mia madre... poi nulla...14 sul far della sera.

Monografia Raccordo

introduce il motivo del «nido»

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G. Pascoli, Poesie e prose scelte, cit. 10. nell’ultima sera: sul finire del giorno. 11. La fame... cena: la fame riguarda gli uccelli, ma anche il nido familiare del poeta (cena); il giorno è detto povero perché, nuvoloso com’era, non aveva consentito la ricerca del cibo. Quella privazione rende

ora più piacevole (il poeta dice: prolunga) la cena, definita garrula, cioè chiassosa, festosa. 12. La parte... intera: prima, durante il giorno, i nidi, cioè gli uccellini incapaci di volare e, quindi, costretti nel nido, hanno

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Quali sono i rumori che il poeta avverte nella sera? E quali invece erano stati i rumori del giorno? Individua i termini riferibili a ciascuna serie. 2. Quale rapporto il poeta-fanciullo istituisce con la natura? Rispondi citando elementi del testo. 3. Il testo si apre con un’immagine di silenzio, un motivo che s’intreccia a quello della notte. Ritrova l’una e l’altro nel testo. 4. Nell’ultima strofa ritorna l’idea del silenzio notturno. A quali altre immagini si collega qui? 5. Perché il poeta alla fine della lirica introduce il suono delle campane? A che cosa lo invitano? 6. Pascoli, negli ultimi versi, attenua il suono delle campane: secondo te, perché? E con quali strumenti linguistici ottiene tale effetto? 7. Elenca gli elementi che nella lirica concorrono a smorzare il ritmo del verso: • incisi .......................................................................................... .......................................................................................................

avuto una porzione (di cibo) molto piccola. 13. voci... azzurra: voci provenienti dalle ombre azzurrine del cielo serale. 14. poi nulla: il bambino si è ormai addormentato.

• segni di punteggiatura ............................................................ ....................................................................................................... • enjambements .......................................................................... ....................................................................................................... • ripetizioni di parole .................................................................. ....................................................................................................... • reticenze (come Né io...) .......................................................... ....................................................................................................... • monosillabi ............................................................................... ....................................................................................................... Ora rifletti: a quale scopo ti sembra finalizzato tutto questo apparato? 8. Pascoli è un poeta legato alla realtà naturale, alla quale attribuisce un valore simbolico. Verifica tale osservazione mettendo in luce gli elementi realistici presenti nella Mia sera e il modo in cui il poeta li trasfigura in simboli. Confronta poi La mia sera con almeno un’altra lirica pascoliana, utile a estendere l’analisi.

• sospensioni ............................................................................... ....................................................................................................... 405

Tra Ottocento e Novecento

ANALISI VISIVA

Struttura e significati della lirica La struttura ■ Il discorso non si sviluppa in modo coerente e progressivo.

Vive piuttosto come un accendersi di tante sensazioni, che

si sommano le une alle altre, con pause e riprese. Sussistono comunque, nel testo, due grandi parti:

prima parte, vv. 1-20

seconda parte, vv. 21-40

raffigurazione della sera campestre dopo un temporale che ha provocato spavento

mediante il paragone con gli uccellini nel nido il poeta parla di sé e della propria povera infanzia

visione, secondo lo sguardo soggettivo dell’io-fanciullo

emerge il tema del dolore individuale

La poetica del «fanciullino»



la gioia leggiera delle foglie dei pioppi (vv. 5-6)



le stelle che si devono aprire (v. 9)



il cielo tenero e vivo (v. 10)



umanizzazione della natura = natura antropomorfica

natura è umanizzata. Pascoli arriva a introdurre in poesia delle ranelle che fanno, addirittura, gre gre: l’onomatopea riassume la rivoluzione letteraria da lui operata.

il rivo che singhiozza monotono (v. 12)



■ Tutto nasce da uno sguardo incantato e «vergine» di fronte alle cose: il fanciullino le osserva non dall’alto o con distacco, ma ponendosi sul loro stesso piano. Perciò la

i fulmini che sono fragili (v. 19)

Il significato del testo: l’ultima strofa ■ Il poeta si proietta nella sera con il suo io perplesso, in crisi.

suono delle campane



Per lui l’unico bene possibile, davanti ai lampi e agli scoppi del giorno, è raggiungere la pace della sera. A tale scopo deve rientrare in se stesso, o meglio, fuggire verso il proprio

si trasforma lentamente nel suono della ninna nanna attraverso

passato, annullandosi nel ritorno alla madre e alla culla. Perciò la strofa decisiva per l’interpretazione del testo è l’ultima. Qui la sera naturale, quella «esterna» del paesaggio, si trasforma nella sera tutta soggettiva del fanciullo-poeta.

A) la gradazione delle forme verbali

dicono v. 33

cantano v. 34



cantano v. 34 B) la rete delle assonanze e allitterazioni, per imitare l’addormentarsi del bimbo

Don... Don... v. 33

sussurrano v. 34 canti v. 37

bisbigliano v. 35 torni v. 38

Dormi... Dormi... Dormi... vv. 33-34

Mi sembrano canti di culla, che fanno ch’io torni com’era... sentivo mia madre vv. 37-39 406

Le figure retoriche ■ La mia sera rivela un tessuto formale e retorico molto calibrato. È un’elaborazione dissimulata (cioè nascosta) ma funzionale ad avvicinare la forma alla lingua ingenua e istintiva del poeta-fanciullo. Tra le figure di suono si riscontrano in particolare allittera-

FIGURE DI SUONO

allitterazione

ripetizione di lettere, sillabe o suoni uguali o affini all’interno di due o più parole vicine

◗ cirri di porpora e d’oro, v. 20 ◗ vv. 37-39: canti... culla... ch’io; Mi... mia

madre; canti... torni... sentivo; sembrano... fanno

assonanza

uguaglianza delle vocali di due parole, a partire dalla vocale accentata

◗ tutto quel cupo tumulto, v. 13

consonanza

uguaglianza delle consonanti di due parole, a partire dalla vocale accentata

◗ allegre ranelle, v. 11

onomatopea

uso di parole il cui suono imita, riproduce o suggerisce l’oggetto

metafora

immagine che crea un rapporto tra due realtà

◗ un breve gre gre di ranelle, v. 4 ◗ Don... Don... Dormi... Dormi... Dormi...

Dormi, vv. 33-35

◗ si devono aprire le stelle, v. 9 ◗ singhiozza... un rivo, v. 12 ◗ le voci delle campane, v. 36

qui, il contenente per il contenuto

◗ i nidi per gli uccellini, v. 29

antitesi

accostamento di immagini o concetti contrapposti

◗ infinita tempesta, finita in un rivo,

ossimoro

accostamento paradossale, a fini espressivi, di termini di senso opposto

◗ un dolce singulto, v. 15

sinestesia

associazione in un unico nesso di parole o immagini riferite a differenti sfere sensoriali

◗ fulmini fragili, v. 19

analogia

relazione di somiglianza, creata dalla fantasia, tra due oggetti o situazioni di ambiti diversi

metonimia

FIGURE DI SIGNIFICATO

zione, assonanza e consonanza, onomatopea; tra le figure di significato, metafora, metonimia, antitesi, ossimoro, sinestesia, analogia. Fra tutte spicca la sinestesia della tenebra azzurra: anche il buio è bello, sembra dire il poeta, in grembo alla mamma.

vv. 17-18

◗ tenebra azzurra, v. 36

◗ voci di tenebra, v. 36

◗ suono delle campane = voce = ninna

nanna, vv. 33 e ss. E 407

Monografia Raccordo

Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

E

La metrica ■ La mia sera si compone di 5 strofe, ognuna formata di 7 versi novenari (di 9 sillabe) e 1 senario conclusivo. Il novenario era un verso non molto usato dai poeti, perché reputato «popolare». Il poeta-fanciullo lo accoglie invece come voce del canto semplice e spontaneo. L’ultimo verso di ogni strofa è invece un senario (verso di 6 sillabe), terminante sempre con la parola-rima sera.

In ogni strofa, poi, troviamo rime alternate con schema ABABCDCd. Sul piano ritmico, si riscontra un’omogenea distribuzione di accenti (sempre sulla 2ª, 5ª e 8ª sillaba dei versi). Si crea così un ritmo cadenzato e monotono, che riecheggia quello della cantilena e della ninna nanna, e in generale quello dei canti popolari.

■ Analizziamo lo schema delle rime considerando la prima strofa.

Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle, le tacite stelle. Nei campi c’è un breve gre gre di ranelle. Le tremule foglie dei pioppi trascorre una gioia leggiera. Nel giorno, che lampi! che scoppi! Che pace, la sera!

ÀMPI ÈLLE ÀMPI ÈLLE ÒPPI ÈRA ÒPPI ÈRA

rima A rima B rima A rima B rima C rima D rima C rima d

[iniziale minuscola, perché è un verso di misura più breve]

■ Ecco lo schema ritmico dei novenari qui adottati da Pascoli. Essi presentano 3 accenti ritmici: sulla 2a, sulla 5a e sull’8a sillaba.

Il 1a sillaba

giòr no

fu

piè

no

di

làm

pi

3a

4a

5a

6a

7a

8a

9a

2a

■ Talvolta il novenario può essere composto da 10 sillabe: ciò accade quando il verso termina con una parola sdrucciola, avente cioè l’accento tonico sulla terz’ultima sillaba e non sulla penultima. Il verso che supera la misura normale è detto verso ipèrmetro.

mi

càn

ta

no

Dòr

mi

1a sillaba

2a

3a

4a

5a

6a

■ Nell’esempio sopra citato, le due sillabe finali del verso

(entrambe non accentate, cioè àtone) contano per una sillaba: dunque, anche se il verso ha una sillaba in più (in questo caso 10 invece di 9), il valore metrico resta inalterato (il verso presenta, sul piano metrico, solo 9 sillabe).

408

Nel componimento La mia sera s’incontrano due novenari ipermetri: il v. 19 e il v. 34. Analizziamo il v. 34.

sus 7a

sùr

ra

no

8a

9a

9a

■ Il senario è invece composto da 6 sillabe, con due accenti ritmici: uno sulla 2a e l’altro sulla 5a sillaba. Vediamo per esempio il v. 8.

Che

pa

ce

la



ra

1a sillaba

2a

3a

4a

5a

6a

Giovanni Pascoli

«Sere» poetiche tra Otto e Novecento Un tema tradizionale Il tema lirico della sera, assieme a quello affine della notte, • tra i pi• presenti nella nostra letteratura, fin da Dante (Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core..., in Purg. VIII), Michelangelo (O notte, o dolce tempo, benché nero), Della Casa (O sonno, o de la queta, umida, ombrosa), Tasso (Era la notte..., in Gerusalemme liberata canto VI, ott. 103), Parini (la descrizione della Notte nel Giorno), Monti (Alta è la notte, in Pensieri d’a-

more), Foscolo (Alla sera), Leopardi (La sera del dì di festa), D’Annunzio (La sera fiesolana), Pascoli (La mia sera), Montale (La casa dei doganieri), Quasimodo (Ed è subito sera). In questi testi, la sera e la notte sono assunte come momenti ÇtopiciÈ non tanto della giornata, quanto della vita umana; lÕimminenza del sonno diviene lÕoccasione per un bilancio della giornata e per una riflessione sul senso di tutta la precedente esistenza, messa a confronto con il perenne fluire del tem-

Consideriamo due testi romantici: il sonetto Alla sera di Foscolo (1803) e La sera del dì di festa di Leopardi, risalente al 1820 e facente parte del gruppo degli ÇidilliÈ giovanili.

Leopardi, La sera del dì di festa, vv. 1-5 e 17-30

Forse perché della fatal quïete tu sei l’immago a me sì cara vieni o Sera! E quando ti corteggian liete le nubi estive e i zeffiri sereni,

Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. O donna mia, già tace ogni sentiero... [...] Questo dì fu solenne: or da’ trastulli prendi riposo; e forse ti rimembra in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti piacquero a te: non io, non già ch’io speri, [...] [...] Oh giorni orrendi in così verde etate! Ahi, per la via odo non lunge il solitario canto dell’artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello; e fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia. [...]

e quando dal nevoso aere inquïete tenebre e lunghe all’universo meni sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor soavemente tieni. 20

10

Le liriche di Foscolo e Leopardi

Foscolo, Alla sera

5 5

po. In questa scheda ci limitiamo a unÕanalisi delle ÇsereÈ poetiche tra Ottocento e Novecento, soffermandoci su alcuni testi di grande rilievo.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme che vanno al nulla eterno; e intanto fugge questo reo tempo, e van con lui le torme

23

25

delle cure onde meco egli si strugge; e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge. 30

Due sere «romantiche» • Entrambi i testi si aprono con una raffigurazione del paesaggio: sera primaverile (strofa I) e sera invernale (strofa II) per Foscolo, un dolcissimo notturno lunare per Leopardi. • Entrambi in un secondo momento mettono l’io al centro della contemplazione lirica ( Foscolo: Vagar mi fai co’ miei pensier, v. 9. Leopardi: non io, non già ch’io speri, v. 20). • Si tratta per˜ di due ÇioÈ diversi: Foscolo si pone quasi da dominatore del mondo esterno e accentua quindi lÕeroismo (quello spirto guerrier ch’entro mi rugge, v. 14), mentre Leopardi

si ritrae come escluso dalla festa e dallÕamore (Oh giorni orrendi / in così verde etate!, vv. 23-24). • Nei due testi entrano la società e il mondo esterni: Foscolo parla di reo tempo (v. 11), Leopardi raffigura uno scorcio di vita paesana (il solitario canto / dell’artigian, che riede, vv. 2526). • Sia Foscolo sia Leopardi hanno un messaggio da consegnare ai lettori: per loro la poesia • anzitutto comunicazione di veritˆ. Il messaggio di Foscolo • lÕautoritratto di un io lirico inquieto, preso da opposte tensioni (v. 12: delle cure onde meco egli si strugge). Il mes-

saggio di Leopardi • pi• filosofico e generalizzante: una riflessione su come tutto al mondo passa, / e quasi orma non lascia (vv. 29-30).

Le liriche di D’Annunzio e Pascoli Pascoli e DÕAnnunzio hanno ripreso il tema lirico della sera, ma in due modi diversi: • D’Annunzio attraverso la poetica del superuomo avido di sensazioni; • Pascoli attraverso la poetica del fanciullo che si aggira perplesso in una natura che lo sovrasta. E 409

Monografia Raccordo

Contesto

CONFRONTI

Tra Ottocento e Novecento

E D’Annunzio, La sera fiesolana, vv. 1-14

5

10

Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscìo che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta su l’alta scala che s’annera contro il fusto che s’inargenta con le sue rame spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie cerule e par che innanzi a sé distenda un velo ove il nostro sogno si giace e par che la campagna già si senta da lei sommersa nel notturno gelo e da lei beva la sperata pace senza vederla.

Due sere «decadenti» • Entrambe queste sere s’ispirano alla poetica decadente della sensazione. Gli oggetti particolari della visione si accumulano, senza che i due poeti li rimettano in ordine, costruendo una sintesi. • Perciò da subito s’intrecciano le due dimensioni del paesaggio e dell’io individuale del poeta: manca la gerarchia (dal generale al particolare) che

Foscolo, Alla sera, 1803

Pascoli, La mia sera, vv. 1-8 e 33-38

5

35

Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle, le tacite stelle. Nei campi c’è un breve gre gre di ranelle. Le tremule foglie dei pioppi trascorre una gioia leggiera. Nel giorno, che lampi! che scoppi! Che pace, la sera! [...] Don... Don... E mi dicono, Dormi! mi cantano, Dormi! sussurrano, Dormi! bisbigliano, Dormi! là, voci di tenebra azzurra... Mi sembrano canti di culla, che fanno ch’io torni com’era...

era tipica della poesia tradizionale. • Il mondo esterno rientra, nelle due liriche, solo per quei riflessi che colpiscono la sensibilità individuale: non vi entra dunque oggettivamente (per ciò che è), ma solo soggettivamente (per ciò che il poeta avverte del mondo), per frammenti sparsi. • Poiché la sensazione è un fatto personale, che non sempre si condivide, risulta impossibile costruire un ragio-

Leopardi, La sera del dì di festa, 1820

namento filosofico o trarre conclusioni valide per tutti i lettori e per sempre. • D’Annunzio interpreta tutto ciò in chiave di espansione dell’io nel mondo: l’io-superuomo si appropria di tutte le infinite sensazioni e percezioni che la sera gli fornisce. • In Pascoli troviamo solo una dimensione «piccina»: non c’è in lui espansione dell’io nel mondo, ma solo ridu-

D’Annunzio, La sera fiesolana, 1899

Pascoli, La mia sera, 1900

genere metrico poetica

■ sonetto di endecasillabi

■ idillio di endecasillabi sciolti

■ strofe di versi vari, con rime libere

■ cinque strofe di novenari, con rime alternate

■ Romanticismo

■ Romanticismo

■ Decadentismo

■ Decadentismo

ambientazione

■ due paesaggi serali, uno ■ un dolce paesaggio lunare nella cornice primaverile, l’altro di Recanati invernale

■ una sera sulle colline toscane, dopo il tramonto

■ una sera in campagna

costruzione del testo

■ dalla rappresentazione del paesaggio alla riflessione sull’io

■ dal paesaggio alla riflessione su di sé, alla meditazione sul tempo

■ un accumularsi di sensazioni senza sviluppo logico-narrativo

■ dalle sensazioni suscitate dal paesaggio ai ricordi dell’infanzia

messaggio

■ l’inquietudine è il nucleo ■ la serenità altrui, l’infelicità propria centrale dell’io

■ l’espansione dell’io-superuomo nella natura

■ la serenità del poeta che ritorna bambino

stile

■ costruzione lirico-meditativa

410

■ paesaggio e sentimento ■ musicalità diffusa rivissuti in modo per rivelare la ricchezza personale di sensazioni

■ il poeta-fanciullo esprime impressioni, ricordi, nostalgie

12 Il gelsomino notturno Canti di Castelvecchio Anno: 1901 Temi: • il rito della fecondazione, il suo mistero • il nido • la compenetrazione tra la vita e la morte Rielaborando precedenti abbozzi, Pascoli scrisse questa poesia per il matrimonio (1901) dell’amico Gabriele Briganti, costruendola sull’analogia tra le nozze e la fecondazione del fiore. Il testo entrò fin dal 1903 nei Canti di Castelvecchio, con una dedica per il figlioletto dell’amico, nato nel frattempo: «E a me pensi Gabriele Briganti risentendo l’odor del fiore che olezza nell’ombra e nel silenzio: l’odore del Gelsomino notturno. In quelle ore sbocciò un fiorellino...». esordio improvviso: il poeta-fanciullo si esprime con istintiva

E s’aprono i fiori notturni,1 nell’ora che penso a’ miei cari.2 Sono apparse in mezzo ai viburni3 le farfalle crepuscolari.4

una lontananza indeterminata, come spesso avviene in Pascoli

Da un pezzo si tacquero i gridi:5 là sola una casa bisbiglia. Sotto l’ali dormono i nidi,6 come gli occhi sotto le ciglia.

una prima allusione al rito della fecondazione, che si chiarisce nei versi seguenti

il cielo come un’aia, gli astri intermittenti come pulcini pigolanti dietro alla chioccia...

Dai calici aperti7 si esala l’odore di fragole rosse.8 Splende un lume là9 nella sala. Nasce l’erba sopra le fosse.10 Un’ape tardiva11 sussurra trovando già prese12 le celle. La Chioccetta per l’aia azzurra va con il suo pigolìo di stelle.13

5

10

15

Per tutta la notte s’esala l’odore che passa col14 vento. Schema metrico: 6 quartine di novenari a rime alternate, con schema ABAB. Nell’ultima quartina manca la rima tra il primo verso e il terzo. (Ai vv. 21-23 c’è una rima ipermetra, petali : segreta; l’ultima sillaba di petali si elide con la prima parola del verso seguente, che inizia con la vocale u. In tal modo si origina la rima pETA[li] : segrETA.) 1. fiori notturni: i fiori a imbuto, bianchi e rossi, del gelsomino di Spagna o bella di notte, che sbocciano d’estate, dal tramonto all’alba, con un profumo intenso. 2. nell’ora... miei cari: cioè quando, a sera, il poeta ripensa ai suoi amici e ai familiari, anche quelli defunti.

3. viburni: arbusti molto intricati, con grandi fiori bianchi. 4. farfalle crepuscolari: insetti dalle ali vellutate, che volano nel buio. Trasportano qua e là il polline dei fiori; ma alcune di queste farfalle notturne, come le Sfingidi, ricordano la morte, perché recano sul dorso una macchia a forma di teschio. 5. si tacquero i gridi: le grida e i rumori del giorno cessano sul far della notte. 6. Sotto l’ali... i nidi: protetti dai genitori dormono gli uccellini più piccoli (chiamati nidi perché non lasciano il nido). 7. calici aperti: le corolle sbocciate dei gelsomini notturni, dischiusesi con il buio. 8. rosse: mature. Dalle corolle aperte dei

gelsomini si diffonde un odore simile a quello delle fragole. Il profumo dei fiori si lega al loro processo di riproduzione, costituendo un richiamo per gli insetti. 9. là: nella casa citata al v. 6. 10. sopra le fosse: intorno alle tombe dei cimiteri. 11. tardiva: in ritardo. 12. prese: occupate (le celle sono quelle dell’alveare). 13. La Chioccetta... di stelle: la costellazione delle Pleiadi (chiamata la Chioccetta dai contadini) brilla per il cielo notturno (l’aia azzurra) con il suo seguito di stelle. 14. passa col: viene diffuso dal.

411

Monografia Raccordo

Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

la luce dei novelli sposi si spegne e anche la scrittura poetica si arresta, reticente l’allusione alla donna fecondata diventa del tutto esplicita

Passa il lume15 su per la scala; brilla al primo piano: s’è spento...

20

È l’alba: si chiudono i petali un poco gualciti;16 si cova, dentro l’urna molle e segreta,17 non so che felicità nuova. G. Pascoli, Poesie e prose scelte, cit.

15. il lume: il lume è quello che, dalla sala a pianterreno del v. 11, viene ora portato nella camera da letto. Sta dunque per compiersi l’unione amorosa dei novelli sposi.

16. i petali... gualciti: i petali del gelsomino sono un po’ appassiti, sciupati dall’aria della notte e dagli insetti che vi si sono posati; e anche la sposa non è più vergine.

17. l’urna molle e segreta: il luogo dolce e intimo; allude sia al calice del fiore che all’alba si richiude, sia all’organo sessuale femminile e alla camera degli sposi.

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ Per celebrare l’intima unione di due sposi suoi amici, il poeta racconta la parabola dei fiori notturni: essi si aprono all’amore nel crepuscolo, per richiudersi all’alba, fecondati. ■ Le strofe 1 e 2 preparano l’atmosfera: è sera, l’ora più triste (perché il poeta ripensa ai propri cari defunti), ma anche quella che anticipa i misteri della notte. ■ Le strofe 3-5 mostrano la notte nel frattempo so-

praggiunta, riassunta in diverse immagini: nella corolla dei fiori ormai dischiusi (vv. 9-10), nell’erba che nasce… sopra le fosse (v. 12), nell’immagine della Chioccetta (v. 15). Finalmente può compiersi l’atto sessuale nella casa dei novelli sposi (strofa 5, vv. 19-20). ■ La strofa 6, (vv. 21-24) contiene l’epilogo: i fiori si richiudono, mentre dentro l’urna molle e segreta (v. 23) cresce una felicità nuova (v. 24), ovvero una nuova vita.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Il poeta evoca simbolicamente la prima notte di nozze dell’amico Giovanni Briganti. Al rito della fecondazione allude l’immagine del fiore (il gelsomino notturno) che apre il suo calice al calar della sera, e poi esala lungo la notte il suo profumo: il fiore si chiude perché è stato fecondato; l’aprirsi della corolla costituisce un invito ad amare. Poi però all’alba i petali del fiore si richiudono, un poco gualciti. La stessa ambiguità circonda l’immagine dell’urna molle e segreta, allusiva sia del corpo femminile, in cui si cova il frutto del concepimento, sia della sfera della morte. ■ La lirica ci rivela che Pascoli ebbe un rapporto turbato

con la sfera sessuale: ne era attratto, ma anche respinto. Qui egli contempla un rito di fecondazione dalla parte di chi ne rimane separato, escluso (l’avverbio là: là sola una casa bisbiglia, v. 6; splende un lume là nella sala, v. 11). Pur volendo celebrare la fecondazione, Pascoli sa che non potrà mai avere un «nido» proprio. Perciò ha fasciato il testo di immagini funebri (v. 2: nell’ora che penso a’ miei cari; v. 12: Nasce l’erba sopra le fosse). È l’ossessiva fedeltà ai suoi morti di famiglia a impedirgli di crearsi un altro «nido»: all’invito sensuale dei calici aperti, risponde pensando alle fosse, nelle quali si conserva l’urna (v. 23) mortuaria.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi 1. Il messaggio del testo è affidato al gelsomino notturno, fiore che sboccia al calare delle tenebre e si richiude alle prime luci dell’alba. a. Quale occasione offrì al poeta lo spunto per questo componimento? .................................................................................................... b. Di quale esperienza umana, intima e misteriosa, è qui simbolo il gelsomino notturno? 412

.................................................................................................... 2. La vicenda evocata si sviluppa su tre piani: la vita della natura, la vita degli uomini che si svolge nella casa, il solitario punto di vista dell’io del poeta, che contempla. a. Rintraccia nel testo, e trascrivi, tutti i riferimenti (espliciti e impliciti) ai tre diversi livelli di significato. – la natura ....................................................................................................

3. La vicenda narrata non è soltanto lieta, e non è priva di ombre. Infatti il poeta crea fin dall’inizio una corrispondenza tra una manifestazione di vita, qual è l’aprirsi dei fiori, e la morte. a. In quale immagine, o in quali immagini, della prima strofa emerge questo motivo della morte? .................................................................................................... b. Il binomio vita/morte si ripropone ai versi 11-12. Quale immagine traduce nuovamente la presenza della morte? Commentala con le tue parole. 4. Un simbolo importante emerge nel v. 23, dove si parla dell’urna molle e segreta. È una conferma dell’ambiguità di cui Pascoli circonda le proprie poesie, sorte dallo sguardo turbato e inquieto dell’io-fanciullo. a. Con quale significato è qui utilizzato il termine urna? a la cassetta in cui si conservano le ceneri del morto b la casa dove i due sposi vivono in intimità c l’ovario del fiore d l’organo sessuale femminile Più di una risposta potrebbe essere esatta; motiva in ogni caso brevemente la tua scelta. b. Che cosa vogliono esprimere, a tuo avviso, gli aggettivi molle e segreta? .................................................................................................... 5. Per quanto riguarda il livello temporale, sono due i momenti principali: la notte estiva e l’alba. a. Entrambi sono segnalati – la notte da due indicatori: quali? .................................................................................................... – l’alba da un’altra notazione esplicita: quale? ....................................................................................................

LAVORIAMO SU

b. Tali indicazioni, a tuo parere a sono inutili, in una poesia tutta affidata a suggestioni e allusioni indefinite b costituiscono un’indispensabile cornice per comprendere il messaggio del testo c sono necessarie in quanto la lirica è anche una narrazione Motiva in breve la tua scelta. ....................................................................................................

{ Forme e stile 6. Il componimento privilegia l’allusione, il sottinteso: Pascoli mette in rilievo non la descrizione o la riflessione, ma il non detto. A questo effetto cooperano la sintassi e la metrica. a. Rintraccia nel testo, e cita, gli elementi che comprovano: – la sintassi semplice e lineare .................................................................................................... .................................................................................................... – la metrica, che prevede accenti fissi .................................................................................................... .................................................................................................... 7. Questa lirica è ricca di profumi, silenzi, apparizioni fugaci, pensieri appena suggeriti: essa racchiude una tale somma di motivi simbolici e allusivi da renderla una «grande poesia di ‘corrispondenze’» (G. Debenedetti), alla maniera dei simbolisti francesi. a. Quali elementi testuali costituiscono delle «corrispondenze» alla maniera del Simbolismo francese? Trascrivili. .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... b. Commenta in breve un paio delle «corrispondenze» che hai rintracciato. c. Tratteggia i rapporti tra la poetica pascoliana e il Decadentismo europeo (max 15 righe).

LINGUA E LESSICO

1. Consideriamo l’inizio della poesia: E s’aprono i fiori notturni. Nel linguaggio comune, la congiunzione «e» segnala un collegamento con quanto viene detto prima: qui però non avviene così. a. Perché secondo te il poeta-fanciullo esordisce così? a perché gli preme evidenziare il dopo piuttosto che il prima

b perché non sa usare bene le congiunzioni e il linguaggio degli adulti c perché cerca un legame con quanto (impressioni, sensazioni ecc.) viene prima della parola d perché sta quasi sognando a occhi aperti Scegli la risposta che ti sembra più adeguata e motiva poi brevemente tale scelta.

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Monografia Raccordo

– gli uomini .................................................................................................... – l’io-fanciullo .................................................................................................... b. L’ultimo piano, quello dell’io-fanciullo, non si mostra mai esplicitamente in azione: chiarisci dunque brevemente il perché dei riferimenti da te individuati.

Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

La parola al critico La tecnica analogica nella poesia di Pascoli Analizzando Il gelsomino notturno, lo studioso Elio Gioanola (1934) mette in luce la peculiare qualità del simbolismo pascoliano, e in particolare la natura analogica della sua poetica. Sono i caratteri che allontanano radicalmente il poeta di Castelvecchio dal Naturalismo letterario, per consegnarlo a un linguaggio e a una visione ormai pienamente novecenteschi. In Il gelsomino notturno emerge in maniera esemplare la tecnica analogica della poesia pascoliana, secondo la quale gli elementi costitutivi del quadro sono presentati in maniera staccata, senza stretti legami di senso. Se si fa riferimento alla poesia «classica», fino al Carducci, è facile notare come ci si trovi di fronte ad un fatto assolutamente nuovo. Prima del Pascoli la poesia obbedisce a canoni rigorosamente razionalistici di ordinamento logico delle immagini, per cui una poesia si sviluppa dall’inizio alla fine secondo un preciso filo conduttore, ben visibile nella continuità non interrotta del significato e nella costruzione sintattica, ordinata logicamente secondo rapporti di reggenza e di dipendenza. Qui ci troviamo di fronte a una paratassi1 marcatissima: tutte brevi frasi giustapposte, non legate tra loro da rapporti di subordinazione. Si noterà la grande quantità dei punti fermi e degli altri segni d’interpunzione. L’unità del significato è contenuta nella misura di un singolo verso, o al massimo di due. Ogni breve periodo introduce un elemento nuovo, non collegato logicamente, ma soltanto analogicamente, al periodo che precede. Se si prende, ad esempio, la terza strofa («Dai calici aperti...»), quale legame logico si può trovare tra l’odore delle fragole rosse, il lume nella sala e l’erba che nasce sulle fosse? È un quadro formato da elementi apparentemente eterogenei, non riducibili ad un’immediata unità significativa. Eppure il legame esiste ed è costituito dall’affinità analogica, simbolica, di tali immagini, la prima delle quali denuncia un’emozione di origine erotica, la seconda la curiosità morbosa per ciò che sta per avvenire nella casa dei due sposi, la terza il soprassalto del mondo dei «morti», che intervengono come censori2 a complicare di divieti l’inquieta sensibilità. Quando abbiamo indicato nel simbolismo il carattere più pertinente della poesia pascoliana, ci siamo già messi sulla strada della comprensione delle peculiarità stilistiche di tale poesia. «Simbolismo» infatti è l’opposto di «naturalismo». La realtà per il Pascoli (e per i decadenti) non è più (come è ancora per il Leopardi e il Carducci) un preciso ambito di oggetti e di qualità al di fuori della coscienza,3 dotati di caratteristiche oggettive e specifiche, e accostabili solo per affinità a certe condizioni dell’animo. Gli oggetti, per la caduta di distinzioni tra «io» e «mondo», soggetto e oggetto, natura e ragione, sono per il Pascoli elementi della coscienza, proiezioni immediate di dati interiori, presenze ambivalenti che appartengono contemporaneamente al mondo e alla soggettività. Per questo i «calici aperti» o le «fragole rosse», mentre significano propriamente i fiori della «belladinotte» e i frutti di questo nome, alludono anche a presenze inconscie, all’interiorità istintiva. Dunque la tecnica analogica, la paratassi accentuata, le intermittenze del significato sono la risposta, sul piano delle strutture sintattiche, al4 fondamentale antinaturalismo pascoliano. E. Gioanola, La poesia del Pascoli, in Id., La poesia decadente. Pascoli e D’Annunzio, Itaca, Faenza 1991 1. paratassi: la struttura sintattica che procede per coordinazione, non per subordinazione. 2. intervengono come censori: i morti

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vorrebbero cioè proibire l’imminente unione sessuale dei due sposi. 3. al di fuori della coscienza: a prescindere da come l’individuo li percepisce.

4. sono la risposta... al: sono l’espressione poetica del.

Contesto

Giovanni Pascoli

13 La cavalla storna Anno: 1903 Temi: • il dramma della morte del padre • la partecipazione della natura al dolore degli uomini • l’ansia di giustizia, il pensiero della vendetta La poesia costituisce la commossa rievocazione dell’assassinio di Ruggero Pascoli, avvenuto in un agguato il 10 agosto 1867. Il componimento è rimasto per diversi decenni il più famoso di Pascoli; tale notorietà finì per provocare un rigetto, riscattato solo di recente. Oggi la critica ne apprezza soprattutto la tessitura simbolica. l’umanizzazione della natura tipica di Pascoli è l’immagine stessa della vita naturale, libera e istintiva

il mancato ritorno del padre sembra voluto da un arcano destino

a suo modo anche la cavalla partecipa al dialogo

Nella Torre1 il silenzio era già alto. Sussurravano i pioppi del Rio Salto.2 I cavalli normanni alle lor poste3 frangean4 la biada5 con rumor di croste. Là in fondo la cavalla era, selvaggia, nata tra i pini su la salsa spiaggia;6 che nelle froge7 avea del mar gli spruzzi ancora, e gli urli8 negli orecchi aguzzi. Con su la greppia9 un gomito, da essa era mia madre; e le dicea sommessa: «O cavallina, cavallina storna,10 che portavi colui11 che non ritorna; tu capivi il suo cenno ed il suo detto!12 Egli ha lasciato un figlio giovinetto;13 il primo d’otto tra miei figli e figlie; e la sua mano non toccò mai briglie.14 Tu che ti senti ai fianchi l’uragano, tu dài retta alla sua piccola mano. Tu ch’hai nel cuore la marina brulla,15 tu dài retta alla sua voce fanciulla». La cavalla volgea la scarna testa verso mia madre, che dicea più mesta:

Schema metrico: 31 distici di endecasillabi a rima baciata. 1. Torre: il palazzo della tenuta dei principi Torlonia, presso San Mauro. Era amministrata da Ruggero Pascoli, padre del poeta, che vi abitava con la famiglia. 2. Rio Salto: torrente che scorre vicino alla tenuta; gli è dedicata una poesia in Myricae. 3. normanni... lor poste: originari della Normandia, al posto loro riservato nella scuderia; sono cavalli alti e robusti, da tiro. 4. frangean: rompevano in più pezzi. 5. biada: cereale usato come foraggio. 6. salsa spiaggia: spiaggia marina impre-

gnata di salsedine e perciò salata. Si riferisce alla spiaggia del lido ravennate. 7. froge: le narici dei cavalli. 8. urli: del mare. 9. greppia: la rastrelliera sulla quale è riposto il fieno per gli animali, sopra la mangiatoia. A essa si appoggia con un gomito la madre del poeta, nel dialogo che segue. 10. storna: dal pelame pezzato di bianco e grigio. 11. colui: Ruggero Pascoli, ucciso il 10 agosto 1867 con due colpi di fucile da un ignoto assassino, mentre tornava a casa sul calesse tirato, appunto, dalla cavalla storna. Forse l’omicidio fu commissionato a due sicari da

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un tale Cacciaguerra, poi divenuto l’amministratore della tenuta Torlonia. 12. cenno... detto: i gesti e le parole che il padrone rivolgeva alla cavalla. 13. un figlio giovinetto: Giacomo Pascoli, fratello del poeta; aveva 15 anni quando il padre fu ucciso. Morì nel 1875, a soli 24 anni, lasciando quindi Giovanni a capo della famiglia. 14. non toccò mai briglie: il ragazzo non ha mai montato un cavallo. Perciò la cavalla, figlia di una natura libera e selvaggia, lo ascolta (tu dài retta, v. 18). 15. la marina brulla: la spiaggia deserta in riva al mare.

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Monografia Raccordo

Canti di Castelvecchio

Tra Ottocento e Novecento

ecco lo scopo di tanto autocontrollo: l’animale rispetta l’esigenza dell’uomo di morire in pace

forse ricorda l’oscurarsi del sole al momento della crocifissione di Cristo

ogni speranza è riposta nella rivelazione della cavalla, perché gli altri uomini sono nemici il culmine degli incalzanti interrogativi della madre

«O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna; lo so, lo so, che tu l’amavi forte! Con lui c’eri tu sola e la sua morte. O nata in selve tra l’ondate e il vento, tu tenesti nel cuore il tuo spavento;16 sentendo lasso nella bocca il morso, nel cuor veloce tu premesti il corso:17 adagio seguitasti la tua via, perché facesse in pace l’agonia...» La scarna lunga testa era daccanto al dolce viso di mia madre in pianto. «O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna; oh! due parole egli dové pur dire! E tu capisci, ma non sai ridire.18 Tu con le briglie sciolte19 tra le zampe, con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,20 con negli orecchi l’eco degli scoppi, seguitasti la via tra gli alti pioppi:21 lo riportavi tra il morir del sole perché udissimo noi le sue parole». Stava attenta la lunga testa fiera. Mia madre l’abbracciò su la criniera. «O cavallina, cavallina storna, portavi a casa sua chi non ritorna! a me, chi non ritornerà più mai! Tu fosti buona... Ma parlar non sai! Tu non sai, poverina; altri non osa.22 Oh! ma tu devi dirmi una una23 cosa! Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise: esso t’è qui nelle pupille fise.24 Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.25 E tu fa cenno. Dio t’insegni, come». Ora, i cavalli non frangean la biada:26 dormian sognando il bianco della strada.

16. tenesti... spavento: hai nascosto lo spavento suscitato dall’uccisione a cui hai assistito. 17. sentendo... il corso: sentendo che il morso era stato allentato (lasso), hai frenato (premesti) l’impeto della corsa, cioè l’istinto della fuga, nel tuo cuore che voleva correre più velocemente (cuor veloce). Il morso è la barretta posta in bocca al caval-

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lo, a cui si attaccano le redini per guidarlo. 18. ridire: esprimerti con parole. 19. sciolte: abbandonate. 20. il fuoco delle vampe: ovvero le scariche di fucile. 21. tra gli alti pioppi: lungo il Rio Salto. 22. altri non osa: chi conosce il nome dell’assassino tace per paura; gli uomini, per omertà, non parleranno mai. Pascoli fu

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sempre convinto che la gente del paese conoscesse l’identità dell’assassino. 23. una una: una soltanto. 24. fise: fisse. 25. un nome: quello del sospetto assassino. 26. non frangean la biada: non si chinavano sulla biada, erano fermi e zitti. Il silenzio della natura sembra preludere alla risposta della cavalla.

La paglia non battean con l’unghie vuote:27 dormian28 sognando il rullo delle ruote. Mia madre alzò nel gran silenzio un dito: disse un nome... Sonò29 alto un nitrito.

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G. Pascoli, Poesie e prose scelte, cit. 27. unghie vuote: gli zoccoli sono cavi alla base.

28. dormian: dormivano. 29. Sonò: risuonò.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ La lirica è costruita sull’espediente narrativo del dialogo tra la madre del poeta e la cavallina storna (cioè dal manto pezzato), l’unica testimone dell’assassinio di suo marito. Il sommesso, quasi surreale colloquio cresce nell’attesa che l’animale riveli quel nome del colpevole: su tale rivelazione si proietta l’ansia di riparazione e di vendetta del poeta. ■ Il testo pare snodarsi con facilità; in realtà è abilmente costruito su due livelli principali: • a un primo livello parla un’anonima voce narrante, alla quale si possono attribuire l’introduzione, la conclusione del testo e le didascaliche notazioni che ne accompagnano la parte centrale; • su un altro piano si pongono le battute del dolente monologo che si finge diretto dalla madre alla cavalla. ■ La madre non vuole rassegnarsi, esige di conoscere la verità, vuole assolutamente individuare il colpevole (un nome, vv. 55 e 62). Il suo pathos, cioè il suo tormento, cresce per il fatto che sembra davvero impossibile soddisfare tale esigenza. Solo nella chiusa il dramma giunge a soluzione: mentre i cavalli dormono e sognano (cfr. vv. 58 e 60), proprio allora la madre alzò nel gran silenzio un dito: / disse un nome... Sonò alto un nitrito; e la cavallina dicendo il suo «sì» identifica il colpevole. Questo, naturalmente, è frutto della pura fantasia poetica. ■ La lirica si avvale di un ricco tessuto di simboli. Le due protagoniste, madre e cavalla, sono collegate da una relazione profonda. La madre è la custode quasi sacerdotale della casa, legata alla terra e alla natura. La cavalla stor na, selvaggia è il simbolo di una natura libera, espressiva, non dominata dall’uomo: a chi, però, sa solennemente interrogarla, essa non rifiuta la risposta. Sullo sfondo si sottintende la presenza del figlio fanciullo, su cui si depositano le leggi della casa e l’onere della vendetta. ■ lI pathos e l’ansia crescono da una strofa all’altra; il ripetersi del distico (coppia di versi) O cavallina, cavallina storna, / che portavi colui che non ritorna funge da monotono e lugubre ritornello. Le ripetizioni sottolineano

l’emozione, l’irrazionale concitazione; tale stato d’animo trova pace solo nella solennità dello scioglimento finale. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Le richieste della donna all’animale, affinché riveli ciò che ha visto, si fanno frequenti soprattutto nella seconda parte della lirica. Individuale. 2. L’animale però non può parlare. • Dove si sottolinea questo aspetto? • Quale effetto esso produce? • Infine, come si risolve l’impasse? 3. Il poeta vuole esprimere il proprio strazio al ricordo di quanto è accaduto e nello stesso tempo lanciare un pubblico atto d’accusa contro l’impunità del delitto. Rintraccia nel componimento i riferimenti a questa doppia finalità. 4. L’emotività si traduce in una catena di frasi esclamative e di interrogative retoriche. Rintracciale nel testo. 5. Tra primo e ultimo verso della lirica s’istituisce un esplicito parallelismo: quale? E quali effetti si producono in tal modo sul testo? 6. Più in generale, ripetizioni e riprese marcano con frequenza il testo. Rintracciale. 7. Ti sembra giusto dire che la lirica evidenzia un andamento quasi liturgico, sacrale? Quale «rito» si sta compiendo? Motiva le tue risposte. 8. Nel corso dell’intero componimento il poeta rappresenta, dell’animale, solo il particolare della testa: perché, a tuo avviso? 9. Il tema tipicamente pascoliano del dolore, del «nido» distrutto, della famiglia lacerata dal lutto si unisce, in questa poesia, alla denuncia dell’ingiustizia. Si tratta a tuo avviso di una denuncia precisa, rivolta all’inefficienza delle istituzioni o dell’agire umano, oppure di una denuncia generica, rivolta al male che domina la vita umana? Motiva la risposta. 10. Il motivo della comprensione profonda che è possibile tra uomo e animali emerge solo in questo testo o lo hai già incontrato in altri componimenti di Pascoli? In quali? 417

Monografia Raccordo

nel cuore della notte, la madre compie il gesto solenne di una sacerdotessa; l’animale può così dare la risposta

Contesto

Giovanni Pascoli

L’OPERA

POEMI CONVIVIALI

Il classicismo del «Convito» ◗ L’origine dei Poemi conviviali va tenuta presente per comprendere la natura e lo stile dell’opera. Prima di essere raccolti in volume nel 1904, questi raffinatissimi poemetti uscirono, a partire dal 1895, su «Il convito» (1895-1907) di Adolfo De Bosis, un’elegante rivista romana che costituiva il punto di riferimento dell’estetismo decadente italiano, cioè di una letteratura erudita, vicina alla poesia raffinata dei parnassiani francesi. L’intento della rivista era «salvare qualche cosa bella dalla torbida onda di volgarità» che saliva dalla società borghese. Proprio sul «Convito» D’Annunzio pubblicò nel 1895 il romanzo Le vergini delle rocce. ◗ Fu sui fascicoli del «Convito» che uscirono, prima di essere raccolti in volume, molti dei Poemi conviviali di Pascoli, che dal nome della rivista prendono il titolo: l’aggettivo conviviali deriva infatti dal sostantivo «convito», l’antico banchetto greco (conosciuto anche con il nome di «simposio» in cui si declamavano poesie accompagnate dalla musica.

Il canto di valori profondi e duraturi ◗ Nati in tale contesto, i Conviviali riflettono una raffinata cultura classicistica e una veste letteraria impeccabile: Pascoli, non va dimenticato, era professore di latino e greco. Ma non c’è solo erudizione o formalismo, in questi poemetti. L’eleganza formale e i temi attinti dal patrimonio classico sono infatti utilizzati dal poeta come strumenti per un’accorata presa di posizione pessimistica contro i vizi dominanti nella civiltà contemporanea: la volgarità, l’ingiustizia, la disumanità, il caos. ◗ Non c’è però solo fuga a ritroso e nostalgia, nei Conviviali. C’è anche un tentativo di difendere i valori e sentimenti umani più duraturi: in Alèxandros (1895) viene esaltata l’aspirazione all’«oltre», in Gog e Magog (1895) il contrasto fra istinto selvaggio e civiltà, in Anticlo (1899) la bellezza femminile, incarnata da Elena.

Laboratori interattivi • L’ultimo viaggio

◗ Le due figure più emblematiche sono quelle più antiche e mitiche, ovvero: • Ulisse, che in L’ultimo viaggio, malgrado sia già vecchio, riparte per rivedere i luoghi delle sue avventure; ma i suoi ricordi non corrispondono più alla realtà; • Omero, che in Il cieco di Chio (1897) accetta volentieri il male della cecità, in cambio dell’amore e della seconda vista, quella dell’anima. ◗ Su tutto aleggia, onnipresente, il senso della limitatezza e della caducità umana, che rende davvero moderno e suggestivo il classicismo di Pascoli.

Un eterno presente di dolore ◗ Il poeta non nutre alcun interesse veramente storico per la classicità: sul mondo antico proietta le ansie e la sensibilità moderne. L’ambientazione preziosa, i riferimenti dotti favoriscono l’evocazione di atmosfere sognanti, perplesse, cariche di mistero: su tutto domina la percezione che nulla è stabile o sicuro, che la storia umana è finita ancor prima di cominciare, che ragione e civiltà nulla possono per riscattare il dolore e il nulla della vita. La sintesi più valida di questi motivi è espressa nel v. 40 di Alèxandros: «e il canto passa ed oltre noi dilegua».

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Contesto

Giovanni Pascoli

14 Alèxandros Anno: 1895 Temi: • lo spirito d’avventura, il desiderio di nuove conquiste e conoscenze • il senso d’impotenza e di frustrazione • il rimpianto del passato e della casa-nido lontana In questo celebre poemetto, Alessandro Magno è giunto alla fine di tutto ciò che poteva conquistare; ora si volge, turbato, a esaminare il significato del suo cammino e delle sue conquiste. Possedere terre e popoli non lo soddisfa, perché nell’animo umano c’è una costante incontentabilità, un’aspirazione all’oltre, destinata a scontrarsi con i limiti imposti dalla natura, dalla storia, dalla realtà. La celebrazione dell’eroe antico diviene così, in Alèxandros, una turbata interrogazione sui destini umani. Siamo al polo opposto della cultura positivistica, con la sua fiducia negli strumenti razionali di conoscenza e comunicazione; siamo agli antipodi anche del classicismo eroico delle Odi barbare di Carducci: quello di Pascoli è un classicismo molto più inquieto e moderno.

I «Giungemmo: è il Fine.1 O sacro Araldo, squilla! Non altra terra se non là, nell’aria, quella che in mezzo del brocchier2 vi brilla, o Pezetèri:3 errante e solitaria terra, inaccessa. Dall’ultima sponda vedete là, mistòfori di Caria,4 l’ultimo5 fiume Oceano senz’onda. O venuti dall’Haemo e dal Carmelo,6 ecco, la terra sfuma7 e si profonda dentro la notte fulgida8 del cielo.

II Fiumane che passai!9 voi la foresta immota nella chiara acqua portate, portate il cupo mormorio che resta. Montagne che varcai! dopo varcate, Schema metrico: 6 strofe di 3 terzine di endecasillabi a rima incatenata (schema: ABA, BCB, CDC...); l’ultimo endecasillabo rima con il penultimo verso della terzina precedente. 1. Giungemmo: è il Fine: parla Alessandro Magno, il conquistatore dell’Oriente; con i suoi uomini ha appena raggiunto l’estremo confine della Terra, sulla riva dell’Oceano. Le sue parole non sono però un annuncio trionfale, bensì una dolorosa constatazione: cessa, per lui, la speranza e quindi l’illusione di un significato.

Parafrasi

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[vv. 1-10] «Siamo arrivati: questo è il confine (della Terra). O araldo, suona (la tromba)! O soldati [Pezetèri], non (c’è) altra terra (da conquistare) tranne (la Luna), che in cielo si riflette, brillando, nel mezzo del (vostro) scudo [brocchier]; terra che vaga (nel cielo) e solitaria, mai raggiunta [inaccessa] (prima, da nessuno). Da [questa] riva estrema [ultima] potete vedere là, o soldati [mistòfori] (della regione) di Caria, l’ultimo fiume, l’Oceano, immobile [senz’onda]. O (soldati) giunti (con me) dal (monte) Emo [in Macedonia] e dal (monte) Carmelo [in Palestina], ecco (guardate), la Terra (sembra) scomparire e sprofondare nel buio luminoso [notte fulgida] del cielo (stellato).

[vv. 11-20] O fiumi (in piena) da me oltrepassati! Voi riflettete [portate] nell’acqua limpida (l’immagine della) foresta immobile, voi trasportate il sordo rumore (delle onde) che non s’arresta mai. O montagne che ho superato! Dopo (avervi) scalato, lo spazio (che si scorge dalla vostra cima)

2. brocchier: il piccolo scudo rotondo che i soldati portano al braccio; nel suo mezzo si riflette la luna. 3. Pezetèri: i soldati scelti della fanteria macedone, guardie del corpo del re. 4. mistòfori di Caria: soldati mercenari della Caria, regione dell’Asia Minore. 5. ultimo: anticamente si credeva che l’Oceano fosse un fiume che circondava la Terra e che segnasse la parte estrema del pianeta. 6. Haemo... Carmelo: due monti, l’uno in Macedonia, l’altro in Palestina. Quest’ultima era stata occupata da Alessandro nel-

l’autunno del 332 a.C. 7. la terra sfuma: avvicinandosi al mare, la terra confonde i suoi contorni, come scomparendo nella notte stellata. Ma l’espressione allude anche al «finire» delle terre; non c’è più nulla aldilà, mancano mete ulteriori a cui aspirare. 8. notte fulgida: è un ossimoro (accostamento di termini che reciprocamente si negano). 9. Fiumane che passai: inizia una rievocazione delle imprese militari compiute durante il percorso.

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Monografia Raccordo

Poemi conviviali

Tra Ottocento e Novecento

sì grande spazio di su voi non pare, che maggior prima non lo invidiate. Azzurri, come il cielo, come il mare, o monti! o fiumi!10 era miglior pensiero ristare, non guardare oltre, sognare: il sogno è l’infinita11 ombra del Vero.

III Oh! più felice,12 quanto più cammino m’era d’innanzi; quanto più cimenti, quanto più dubbi, quanto più destino! Ad Isso,13 quando divampava ai venti notturno il campo,14 con le mille schiere, e i carri oscuri e gl’infiniti armenti. A Pella!15 quando nelle lunghe sere inseguivamo, o mio Capo di toro,16 il sole;17 il sole che tra selve nere, sempre più lungi, ardea come un tesoro.

IV Figlio d’Amynta!18 io non sapea di meta allor che mossi. Un nomo19 di tra le are intonava Timotheo, l’auleta:20 soffio possente d’un fatale andare, oltre la morte;21 e m’è nel cuor, presente come in conchiglia murmure di mare. O squillo acuto, o spirito22 possente, che passi in alto e gridi, che ti segua!23 ma questo è il Fine, è l’Oceano, il Niente... e il canto passa ed oltre noi dilegua.»24

10. Azzurri... o fiumi!: l’azzurro, il colore tipico del cielo e del mare, simboleggia il desiderio, l’eterno tendere di Alessandro a una meta che resta irraggiungibile. 11. infinita: perché ingigantisce i confini della realtà. 12. più felice: Alessandro rimpiange il passato, quando la meta era più lontana. La felicità, per lui, consiste in un traguardo che ancora non si è raggiunto. 13. Isso: località dell’Asia, dove nel 333 a.C. Alessandro sconfisse l’esercito persiano di Dario III. 14. divampava... il campo: il vento soffiava sui fuochi dell’accampamento persiano e diffondeva bagliori, ingigantendo le dimensioni dell’esercito nemico. 15. Pella: la capitale della Macedonia, do-

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non sembra altrettanto sconfinato [sì grande] di quello (spazio) che, prima (di salire in vetta), (ancora più) grande nascondete [invidiate]. O monti, o fiumi, (che siete) azzurri come il cielo, come il mare! Non guardare oltre e (limitarsi a) sognare, (questa) sarebbe stata una decisione più saggia: il sogno è l’infinita ombra della verità.

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[vv. 21-30] Oh! (Ero) (tanto) più felice, quanto più cammino avevo davanti a me, quante più difficoltà [cimenti], quanti più dubbi, quanto più futuro [destino] (avevo davanti a me)! (Ero più felice) a Isso, quando l’accampamento notturno bruciava sotto (le folate) dei venti, in mezzo alle [con le] numerose schiere (di soldati) e ai carri neri e agli armenti (di buoi) che non si potevano contare [infiniti]. (Ero più felice) a Pella, quando, durante le lunghe sere, o mio (cavallo) Bucefalo [Capo di toro], inseguivamo il sole, il sole che brillava [ardea] come un premio [tesoro] tra i boschi ombrosi [selve nere], sempre più lontano.

[vv. 31-40] O (padre mio) figlio di Amynta! Quando mi misi in viaggio non pensavo [sapea = sapevo] a [di] obiettivi (oppure: confini) (da raggiungere). (Quando siamo partiti) Timoteo, il cantore [l’auleta], intonava tra gli altari [are] un inno sacro [nomo]; (inno che era come) il potente soffio di un andare deciso dal destino [fatale], (in grado di proseguire) oltre la morte; e (tale inno) mi è rimasto nel cuore, ancora vivo [presente] come (resta) in una conchiglia il mormorio del mare. O acuto squillo (di tromba), o (voce) di uno spirito coraggioso, che sali in cielo e lanci (il tuo suono), io ti voglio seguire! Ma (non posso, perché) questo (luogo) è il Confine (oppure: la Fine), l’Oceano, il Nulla... e il canto passa e si perde oltre noi.»

ve Alessandro era nato e aveva vissuto gli anni giovanili. 16. Capo di toro: traduzione letterale di Bucefalo, il leggendario cavallo di Alessandro. 17. inseguivamo... il sole: è un’immagine emblematica delle dimensioni grandiose della sfida e dei suoi orizzonti. Pascoli riecheggia qui un aneddoto narrato dallo storico Plutarco (Alessandro riuscì a salire in groppa e a domare quel cavallo selvaggio dopo averlo abbagliato volgendolo contro il sole). 18. Figlio d’Amynta: Alessandro si rivolge ora al padre, il re Filippo II, figlio di Aminta III. 19. nomo: antico inno sacrale e canto di guerra. 20. Timotheo, l’auleta: auleta è il suona-

tore di flauto (il nome significa letteralmente “colui che onora gli dèi”). Timoteo fu il flautista che cantò alle nozze di Alessandro e Rossane, celebrate nel 327 a.C. 21. soffio possente... la morte: inseguire la gloria è, nella visione classica, lo scopo primario della poesia. 22. spirito: l’apostrofe è ancora rivolta al soffio del v. 34, ovvero al nomo (inno) del v. 32. 23. che ti segua: Alessandro sente che lo squillo di Timoteo punta verso orizzonti ulteriori; vorrebbe seguirlo, ma non può, perché deve fermarsi lì, sulle sponde dell’Oceano. 24. e il canto... dilegua: questo è il significato della poesia per una sensibilità moderna come quella di Pascoli.

VI In tanto nell’Epiro32 aspra e montana filano le sue vergini sorelle33 pel dolce Assente la milesia lana.34 A tarda notte, tra le industri ancelle, torcono il fuso con le ceree dita; e il vento passa e passano le stelle.35 Olympiàs36 in un sogno smarrita ascolta il lungo favellìo d’un fonte, ascolta nella cava ombra infinita le grandi quercie bisbigliar sul monte.

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[vv. 41-50] E con queste parole [così] (Alessandro) si lamenta, dopo esser giunto (laggiù: al confine delle terre emerse) ansimante [anelo, per la fatica della marcia]; piange dall’occhio che è nero come la morte e piange dall’occhio che è azzurro come il cielo. (Piange) perché nell’occhio nero la speranza si fa sempre più inutile [vano] – questa è la sua sorte – mentre nell’occhio azzurro il desiderio si fa più forte. Egli ascolta in lontananza bramiti di belve, forze sconosciute [incognite], inarrestabili, passargli davanti nell’immensa superficie (dell’Oceano), come il suono di mandrie di elefanti al trotto.

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55

[vv. 51-60] Intanto nell’Epiro (sua patria), selvaggio e montuoso, le giovani sorelle di Alessandro filano la (pregiata) lana di Mileto per il loro caro assente. A tarda notte, fra le servitrici operose [industri], ruotano il fuso con le dita bianche come cera; e si muovono il vento e le stelle. (La madre) Olimpiade, rapita dalle fantasie di un sogno, ascolta il prolungato mormorio di una sorgente, ascolta nella vuota ombra infinita (della foresta) le querce secolari stormire sulla montagna.

60

G. Pascoli, Poesie, a cura di A. Vicinelli, A. Mondadori, Milano 1997

25. piange: parla adesso il poeta-narratore, riferendosi ad Alessandro. 26. occhio nero... occhio azzurro: secondo la leggenda, Alessandro aveva gli occhi di colore diverso, l’uno nero e l’altro azzurro. In essi il poeta scorge i diversi sentimenti (speranza e desiderio: il desiar del v. 46) che animavano l’eroe. 27. più vano: lo sperar, vivo nell’occhio nero, appare vano, inutile; è ormai svanita la speranza di conoscere e dominare tutto il mondo. 28. più forte: invece nell’occhio azzurro il desiderio brilla ancora più intensamente. 29. belve: simboleggiano la natura selvaggia e istintiva.

30. ode forze... incessanti: percepisce le misteriose forze dell’istinto, inconoscibili ma sempre operanti su Alessandro. 31. come... d’elefanti: un’analogia del mistero che ci circonda e che vive, misteriosamente, dentro di noi. 32. Epiro: montuosa regione della Grecia settentrionale. 33. filano le sue vergini sorelle: un’immagine semplice, intima, per raffigurare il «nido» familiare di Alessandro. Per lui, il dolce Assente, filano le sue sorelle (vergini = sacerdotesse), preparandogli vesti nella reggia. 34. milesia lana: Mileto, città dell’Asia Minore, era nota per la sua lana. 35. e il vento... stelle: simboli del trascor-

rere della vita; le sorelle filatrici, del resto, ricordano la figura delle mitiche Parche, che tessevano il filo dell’esistenza umana. 36. Olympiàs: la madre di Alessandro, già definita dallo storico Plutarco donna «fantastica e strana». Pascoli la ritrae in un sogno smarrita, perché anch’ella, come il figlio, è attenta alle segrete voci della natura (il mormorio dell’acqua di una sorgente, oppure l’oscurità della notte, cava in quanto contiene e avvolge il mondo).

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Monografia Raccordo

V E così, piange,25 poi che giunse anelo: piange dall’occhio nero come morte; piange dall’occhio azzurro26 come cielo. Ché si fa sempre (tale è la sua sorte) nell’occhio nero lo sperar, più vano;27 nell’occhio azzurro il desiar, più forte.28 Egli ode belve29 fremere lontano, egli ode forze incognite, incessanti,30 passargli a fronte nell’immenso piano, come trotto di mandre d’elefanti.31

Contesto

Giovanni Pascoli

Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ La poesia si articola in sei strofe. • Le prime quattro (vv. 1-40) riferiscono il discorso che Alessandro rivolge ai soldati constatando il fallimento della propria ricerca e l’insoddisfazione che ne deriva: pur avendo raggiunto l’estremo confine della Terra, il re macedone è triste, perché ha davanti a sé un limite invalicabile: dunque la sua ricerca è conclusa. • Le ultime due strofe (vv. 41-60) sono pronunciate dalla voce del poeta-narratore: precisamente, la quinta riporta il pianto dell’eroe e le sue inquietudini, la sesta evoca la patria e la casa lontana, dove la madre e le sorelle dell’eroe, intente alle attività domestiche, ripensano a lui. ■ Alessandro è rappresentato nel punto terminale della sua epopea. Ha visto e conquistato tutto l’Oriente; ma ora che il Fine è stato raggiunto, i grandi interrogativi della vita gli paiono ancor più insoluti e pressanti. Dolorosamente l’eroe deve confessare che sarebbe stato meglio non partire neppure (era miglior pensiero / ristare, vv. 18-19). Contemplando nella memoria le imprese compiute, egli conclude che sarebbe stato meglio, per lui, limitarsi a sognare, perché il sogno è più ricco e più soddisfacente della realtà. Pascoli esprime qui una concezione irrazionalistica della verità: essa non può venire dalla scienza o dalla ragione, ma appunto dal sogno, l’unica esperienza in grado di metterci a contatto con la profondità e con il mistero dell’esistenza umana. ■ Se tutto era partito dal «nido» familiare, tutto riporta a esso. Il punto d’arrivo del componimento è infatti la madre Olympiàs, cui Alessandro infine si ricongiunge (v. 57), risalendo a ritroso, con la memoria, la corrente del tempo. Sognatrice anch’ella, come il figlio, Olympiàs non è però mai uscita dal grembo del «nido»; invece che sperimentare la storia, si è per così dire interiorizzata. Si è calata nella cava ombra infinita (v. 59) del mondo e ha ascoltato da lì le grandi quercie bisbigliar sul monte (v. 60), simbolo delle voci segrete e pulsanti della natura. ■ Sul piano stilistico, il testo è caratterizzato da un tono alto, erudito, caratteristico della raccolta dei Conviviali. Il gusto, tipico dei poeti parnassiani, per la parola dotta e tecnica è visibile per esempio nella grafia grecizzante del titolo Alèxandros, così come nella serie dei nomi propri che apre la prima strofa: nomi esotici e località lontane, che danno al linguaggio un sapore conturbante e misterioso. In tutto l’arco del poemetto la forma risulta molto elegante e ricercata: si veda per esempio ai vv. 12-13 il simmetrico parallelismo di immota... portate / portate... che resta; il poeta ci suggerisce che, in realtà, il movimento è solo apparente e nulla cambia, nel ritmo circolare del mondo.

422

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Rintraccia tutti i luoghi citati nel testo e descrivili in breve. 2. Un’immagine eloquente, nel poemetto, è quella dell’auleta, cioè del cantore. Quali compiti gli sono assegnati? Rispondi citando il testo. 3. Che cosa rappresentano, nell’invenzione pascoliana, gli occhi di colore diverso del protagonista? ............................................................................................................ 4. Su quali immagini si chiude la poesia e quale valore simbolico esse assumono? ............................................................................................................ ............................................................................................................ 5. La conclusione di Alessandro è che l’esistenza migliore è quella a dell’eroe che ha ancora conquiste e imprese da perseguire b dell’eroe che può ritornare dopo tante fatiche nella sua casa c di chi vive un’esistenza anonima, comune, lontana dalla fama e dalle delusioni che essa procura d di chi, come le sorelle e la madre, vive in armonia con la natura e i suoi segreti Motiva in breve la tua scelta. 6. Ritrova nel testo, spiega con le tue parole e commenta in breve le seguenti espressioni: • il sogno è l’infinita ombra del Vero ............................................................................................................ ............................................................................................................ • il canto passa ed oltre noi dilegua ............................................................................................................ ............................................................................................................ • ode forze incognite, incessanti ............................................................................................................ ............................................................................................................ Ora rifletti: si può dire che queste tre espressioni condensino in sé il significato dell’intero poemetto? In che senso? (max 10 righe) 7. L’elemento familiare delle sorelle che filano è tipicamente pascoliano: perché? (max 5 righe) 8. Metti a confronto l’Alessandro di Pascoli con un altro grande eroe della letteratura, l’Ulisse dantesco, desideroso di «divenir del mondo esperto» (Inferno, XXVI, 98). Quali differenze riscontri tra i due personaggi? Elabora in proposito una breve relazione (max 2 facciate di foglio protocollo, 3500-4000 battute). 9. Il protagonista del testo costituisce un’eloquente immagine dell’uomo moderno, quello elaborato dalla cultura del Decadentismo. Sei d’accordo con questa affermazione? Giustifica la tua risposta in un testo di max 15 righe.

Giovanni Pascoli

Pasolini interpreta Pascoli Pier Paolo Pasolini (1922-75), scrittore tra i più noti – e sperimentali – della nostra letteratura contemporanea, fu anche un acuto critico letterario. In questo testo egli individua gli aspetti di maggiore novità introdotti da Pascoli nel linguaggio letterario; ciascuno di questi aspetti influirà su autori e scuole della poesia successiva. Nel finale però Pasolini restringe la portata di questa novità pascoliana al solo ambito linguistico ed espressivo: sul piano personale egli fu, a parere del critico, un uomo di vedute ristrette e piccolo-borghesi. Nel Pascoli coesistono, con apparente contraddizione di termini, una ossessione, tendente patologicamente a mantenerlo sempre identico a se stesso, immobile, monotono, e uno sperimentalismo che, quasi a compenso di quella ipoteca psicologica, tende a variarlo e a rinnovarlo incessantemente. [...] Quante sono le tendenze stilistiche che si possono analizzare in lui, in contraddizione con la morbosa immobilità di tono della sua produzione, altrettante sono le sezioni letterarie in cui si eserciterà il suo influsso. Ne abbozziamo un semplicistico schema, che abbia valore di pura indicazione: 1. Introducendo nella lingua poetica la lingua parlata sotto forma di koinè1 (qualche tentativo in tal senso s’era già visto nel Carducci, nel Ferrari,2 e specie negli scapigliati) il Pascoli prefigura l’intero organismo stilistico dei crepuscolari e degli epigoni3 di questi. 2. Quando tale immissione di lingua strumentale nella poesia, anziché apportarvi una riduzione al tono dimesso e nostalgico, vi accentua intenzionalmente la violenza espressiva, prelude a certa disperata sordità di Sbarbaro4 e soprattutto a certe crudezze autobiografiche falsamente ingenue di Saba. 3. Quando ancora tale immissione di lingua strumentale si arricchisce – ed è questa la più cospicua novità pascoliana – di lessico vernacolare5 [...] configurandosi metricamente in una un po’ cascante terza rima d’ambiente paesano e campestre, ci troviamo di fronte allo schema della poesia media dialettale del primo Novecento [...]. 4. In certa ricerca impressionistica (di cui sono esempio le celebri lirichette del Lampo e del Tuono) è per intero implicito il mondo formale govoniano.6 5. In certa ricerca squisita tendente a una aprioristica poetizzazione7 [...] sono impliciti alcuni embrioni d’invenzione analogica, tipica di Ungaretti: «sazio di memorie», «sbanda», «pianto disusato», «cartocci strepitosi», «forlo delfombra», «s’annuvola», «botro», sono i termini di tono ungarettiano che risultano [...] sfogliando le Myricae. 6. Tutto il vocabolario della metafisica regionale o terrigena8 di Montale (e quindi di tutta la vastissima area montaliana) è sia pur rozzamente elaborato dal Pascoli. Ecco l’esempio minimo di un verso delle Myricae che si potrebbe attribuire agli Ossi. «Due barche in panna in mezzo all’infinito», e di uno stilema che si potrebbe leggere nelle Occasioni:9 «Virb... disse la rondine. E fu giorno». Del resto tutto il procedimento stilistico montaliano che si definisce nel caricare di un senso cosmico, di male cosmico, illuminante, un umile oggetto – la poetica dell’oggetto, insomma – è implicita nella pur candida teoria pascoliana del «particolare». [...] 1. koinè: era la lingua greca comune (su base ateniese) parlata anticamente nel bacino del Mediterraneo. 2. Ferrari: il poeta Severino Ferrari (1856-1905) fu discepolo di Carducci. 3. epigoni: imitatori. 4. Sbarbaro: Camillo Sbarbaro (18881967), ligure, sarà tra i precursori di Mon-

tale per la sua poesia aspra e disincantata. 5. vernacolare: con tinte dialettali. 6. govoniano: del poeta Corrado Govoni (1884-1965). 7. aprioristica poetizzazione: tendenza a conferire alla realtà sfumature immediatamente soggettive o sentimentali o patetiche.

8. metafisica regionale o terrigena: sensibilità a guardare a un orizzonte più vasto e più alto, partendo da una realtà fortemente legata all’ambiente locale. 9. Ossi... Occasioni: Ossi di seppia (1925) e Le occasioni (1939) sono le prime raccolte liriche di Eugenio Montale (18961981). E

423

Monografia Raccordo

Contesto

La parola al critico

Tra Ottocento e Novecento

E

7. Certa religiosità tanto sfumante e imprecisa quanto sfarzosamente evidenziata negli endecasillabi esoterici dei Conviviali, passa agli «orfici» novecenteschi,10 in specie a Onofri. La poetica del Fanciullino e la conseguente freschezza nel cogliere i particolari del reale, in un lirismo insieme ingenuo e sapiente, immediato e squisito, prefigura stilisticamente tutta un’ala dell’ermetismo (compresi certi dialettali): il lettore può avvertire certamente subito le tonalità pascoliane in questa quartina di Betocchi,11 per esempio «Semplici, candidi, fuggitivi / sui prati morbidi di brina / danzano volano giulivi / bambini in bianca mussolina». [...] Come si vede, assai ricco e complesso è l’apporto del Pascoli alle forme poetiche del Novecento: determinante, anzi, se in definitiva la lingua poetica di questo secolo è tutta uscita dalla sua sia pur contraddittoria e involuta elaborazione. E quello che conta è che tale influenza si presenti esercitata [...] sui poeti che si collocano nel filone centrale della poesia del Novecento. [In Pascoli però resiste] una accezione borghese, o piccolo-borghese, post-romantica, della figura tipica dello scrittore della società italiana dal Rinascimento a noi. Il «plurilinguismo»12 pascoliano (il suo sperimentalismo anti-tradizionalistico, le sue prove di «parlato» e «prosaico», le sue tonalità sentimentali e umanitarie al posto della casistica13 sensuale-religiosa petrarchesca) è di tipo rivoluzionario ma solo in senso linguistico, o, per intenderci meglio, verbale: la figura umana e letteraria del Pascoli risulta soltanto una variante moderna, o borghese nel senso moderno, dell’archetipo italiano. [...] Nel Pascoli quell’allargamento linguistico è sempre in funzione della vita intima e poetica dell’io, e, quindi, della lingua letteraria nel suo momento centralistico14 e in definitiva ancora tradizionale. P.P. Pasolini, Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960

10. «orfici» novecenteschi: i poeti orfici di primo Novecento (tra cui Dino Campana e Arturo Onofri) attribuiranno un significato magico ed evocativo alla parola poetica, intesa come fonte di salvezza. 11. Betocchi: il poeta Carlo Betocchi (1899-1986), erede sia della parola concentrata degli ermetici sia del «candore» di Saba. 12. «plurilinguismo»: così il critico Gianfranco Contini definì la tendenza di Dante ad allargare l’area della lingua e, quindi,

■ Pascoli con la sorella Mariù e un amico. 424

dello stile (pluristilismo) della letteratura, in opposizione alla tendenza di Petrarca, incline al monolinguismo (lingua media e selezionata) e monostilismo (un tono stilistico solo). 13. casistica: tematica ricorrente e sottilmente approfondita. 14. nel suo momento centralistico: come espressione cioè di uno sguardo prettamente individuale, quello dell’artista e della sua superiorità sociale.

SINTESI OPERATIVA

L’età contemporanea

La vita di Pascoli nel suo tempo ■ Pascoli nasce in Romagna da una famiglia numerosa di contadini benestanti, colpita però tragicamente – quando il poeta aveva solo 12 anni – dalla morte del padre Ruggero. Conclusi gli studi, inizia una carriera d’insegnante liceale e poi universitario, senza mai crearsi una famiglia propria, ma vivendo all’ombra del «nido» familiare, composto

1

da madre (scomparsa però prematuramente), sorelle e fratelli. In età matura acquista una casa di campagna in Garfagnana (alta Toscana), in cui ricrea le condizioni di vita della sua infanzia campagnola. La sua fu un’esistenza appartata e «borghese», lontanissima da quella, per fare un esempio, eccentrica e ambiziosa di D’Annunzio.

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. Pur amando la letteratura e dedicandosi a essa, Pascoli si guadagnava da vivere svolgendo un’attività commerciale. 2. La fama letteraria di Pascoli crebbe soprattutto dopo la sua morte. 3. In qualità di oratore ufficiale esaltò nazionalisticamente l’impresa coloniale della guerra di Libia. 4. Pascoli si laureò con una tesi sul poeta latino Virgilio. 5. Una catena di tragici eventi familiari favorì in lui una visione pessimistica della vita. 6. Dopo la tragica morte del padre, Pascoli poté studiare grazie a una generosa colletta degli amici di Toscana. 7. La sorella del poeta, Maria/Mariù, sopravvisse a Pascoli e ne curò l’eredità letteraria. 8. Pascoli fu il successore di Carducci sulla cattedra di letteratura italiana all’Università di Bologna.

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Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. Data e luogo di nascita e di morte di Pascoli sono a Bologna 1855-Castelvecchio 1912 b Barga 1865-Bologna 1912 c San Mauro di Romagna 1855-Bologna 1912 d San Mauro di Romagna 1865-Castelvecchio 1912 2. In quale anno Pascoli si trasferì in Garfagnana e con chi ricostruì il suo «nido» familiare? a nel 1885 con un’amica b nel 1895 con la sorella Ida c nel 1885 in solitudine d nel 1895 con la sorella Maria 3. Dal punto di vista ideologico-politico, Pascoli a non ebbe mai posizioni politiche chiare e non s’impegnò in nessun movimento politico b aderì in gioventù al movimento socialista, ma in seguito passò su posizioni dannunziane e reazionarie c aderì in gioventù al movimento socialista, ma in seguito passò su posizioni più moderate, nutrite di un generico umanitarismo d aderì in gioventù a un generico umanitarismo, tipico della sua cultura campagnola, ma in seguito s’impegnò nel movimento socialista

3

Rispondi alle seguenti domande. 1. 2. 3. 4. 5.

Riassumi le principali tappe della professione di insegnante svolta da Pascoli durante la sua vita. Quali rapporti legarono Pascoli a Carducci? Enuncia in ordine cronologico i principali luoghi in cui Pascoli dimorò. Metti a confronto le due diverse figure ed esperienze biografiche di Pascoli e D’Annunzio (max 10 righe). In che modo, nel corso della vita, Pascoli cercò di conservare il più possibile il suo «nido» familiare? (max 10 righe) 425

L’età contemporanea

La poetica e i simboli pascoliani ■ Pascoli identifica il poeta con il «fanciullino»: colui che sa scoprire, oltre le apparenze, un mondo segreto e spesso inquietante, avvolto nel mistero e dominato dalla presenza della morte. Il fanciullino vive nel suo habitat naturale della campagna e del «nido», in cui può trovare rifugio dai mali del mondo e dalle sofferenze della vita adulta.

1

■ Legati al simbolo principale del «nido» sono gli altri motivi tematici pascoliani, in particolare i morti di famiglia e gli animali, ma anche le piante e i lavori della campagna. Elaborando queste immagini, che tornano ossessivamente nei suoi versi, Pascoli ha rinnovato in profondità la poesia italiana, avviandola sulla strada aperta dal Simbolismo europeo.

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. V 1. Pascoli mantenne sempre con il cristianesimo un rapporto sereno e fiducioso. V 2. I suoi due principali scritti di poetica furono Il fanciullino e Piccolo mondo antico. 3. Il concetto di «nido» nasceva in Pascoli dalla volontà di stringersi ai vinti e agli oppressi, V per condividerne le sofferenze e denunciare le ingiustizie sociali. 4. I simboli di Pascoli non si caricano quasi mai della tensione intellettuale dei simbolisti francesi V come Rimbaud o Mallarmé; rimangono simboli istintivi e «ingenui».

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Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. Tra le seguenti affermazioni, quali sono le tre che caratterizzano effettivamente la poetica pascoliana? a il poeta scopre nelle cose le relazioni e somiglianze più sorprendenti b erede del Positivismo, egli vede con ottimismo la vita, anche grazie al progresso industriale c il poeta è un grande oratore impegnato nelle problematiche sociali d grazie a un percorso razionale è possibile interpretare e conoscere la realtà e la poesia ha una funzione del tutto «autonoma», vicina all’idea dell’arte per l’arte f il poeta riesce a cogliere l’analogia profonda tra le cose g la poesia deve vivere non solo per se stessa, ma esercitando anche una funzione sociale 2. Secondo Pascoli, ogni età della vita è propizia all’attività poetica, purché a ci si conservi interiormente fanciulli b si riesca a esprimere con parole e immagini appropriate tutta la ricchezza interiore che vive in noi c non si raggiunga mai l’età anagrafica della vecchiaia d si riesca a esprimere con parole e immagini appropriate tutta la ricchezza di vita della natura

3

Definisci in breve i seguenti termini o espressioni, in rapporto alla poetica di Pascoli. • nido ................................................................................................................................................................. • mondo esterno ............................................................................................................................................... • fanciullino ....................................................................................................................................................... • impressionismo .............................................................................................................................................. • morti di famiglia ............................................................................................................................................. • analogia ..........................................................................................................................................................

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Rispondi alle seguenti domande. 1. Perché, in un passo del Fanciullino, Pascoli entra in polemica con il maestro Carducci? (max 5 righe) 2. Il simbolo pascoliano più frequente è quello della casa-nido. È giustificato, a tuo avviso, dire che si tratta di un’«ossessione»? (max 10 righe) 3. Illustra il tema della morte e, in particolare, dei morti di famiglia in Pascoli (max 10 righe).

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SINTESI OPERATIVA

L’età contemporanea

4. In che senso nella poetica pascoliana si riflette la situazione culturale prodottasi nel passaggio tra Ottocento e Novecento? (max 10 righe) 5. Come si evidenzia nella poesia pascoliana il motivo dello sbigottimento di fronte alla natura? E quali radici esso ha nella poetica del fanciullino? (max 10 righe) 6. In che senso Pascoli può essere definito un poeta decadente? (max 15 righe) 7. Illustra gli aspetti comuni, secondo la poetica pascoliana, tra fanciullo e poeta (max 15 righe). 8. Pascoli usa con frequenza parole come «fragile», «tremulo», «sommesso», «sussurrare», «debole», «bianco»: si tratta di termini legati alla sensibilità del «fanciullino», attento alle piccole cose, a una percezione in tono minore della realtà. Considerando le liriche da te lette, compila un elenco di queste parole e prova a chiarirne l’uso in rapporto ai diversi contesti (max 20 righe).

Le raccolte poetiche e lo stile ■ Le principali raccolte poetiche di Pascoli sono Myricae e Canti di Castelvecchio, ispirate dallo sguardo ingenuo e dal linguaggio istintivo del poetafanciullo. Gli stessi motivi simbolici, accostati però a una dimensione più narrativa, caratterizzano anche i Poemetti. Un tono più elevato contrassegna i Poemi conviviali,

1

che danno voce alla cultura classicistica di Pascoli. ■ Meno felici altre raccolte, come Odi e Inni, intonate a temi civili e spesso nazionalistici, lontani dalla poetica del «fanciullino». Nelle sue raccolte maggiori Pascoli utilizza il linguaggio di una poesia «fanciulla», fortemente originale e nuova sul piano linguistico ed espressivo.

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. V 1. Pascoli scrisse e pubblicò anche poesie in latino. 2. Sia Myricae sia Canti di Castelvecchio conobbero più edizioni, a differenza dei Poemi conviviali, V che ne ebbero una soltanto. 3. I Poemetti furono in un secondo momento suddivisi in due parti, Primi poemetti e V Ultimi poemetti. V 4. Minerva oscura è il titolo di uno dei più bei Poemi conviviali.

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Collega alle seguenti raccolte le caratteristiche peculiari di ciascuna (attenzione: a un’opera si possono collegare più caratteristiche). Myricae Canti di Castelvecchio Poemetti Poemi conviviali Odi e Inni

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F

a. componimenti lunghi e artificiosi b. forme classicheggianti c. cose semplici e umili d. gesta di «eroi» e. immagini della vita di campagna f. i ricordi dell’infanzia g. i lavori contadini nella cornice delle stagioni

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. L’autore dedicò Myricae, la sua raccolta d’esordio a b c d

al padre alla madre alla sorella Maria (Mariù) a Carducci 427

L’età contemporanea

SINTESI OPERATIVA

2. La raccolta Myricae è caratterizzata da a argomento religioso e costanza di forme metriche b argomento campestre e costanza di forme metriche c argomento religioso e varietà di forme metriche d argomento campestre e varietà di forme metriche 3. In quali testi soprattutto viene ricordato l’evento funesto della morte del padre? a Il gelsomino notturno e Novembre b Novembre e La cavalla storna c La cavalla storna e Novembre d X agosto e La cavalla storna 4. Il linguaggio di Pascoli si avvale a anche di un lessico che si può definire «pregrammaticale» b del solo linguaggio della tradizione c di un lessico quasi soltanto letterario, ma con qualche apporto di termini più comuni d per lo più del dialetto 5. L’analogia, cui frequentemente ricorre Pascoli, è una figura retorica che a accosta due elementi fra loro diversi per il suono b accosta due elementi fra loro simili per il significato c accosta elementi vari, secondo il criterio della similitudine d accosta elementi diversi tra loro per il significato 6. L’onomatopea, cui frequentemente ricorre Pascoli, è una figura retorica che riproduce a i suoni dei lavori e delle tecniche b le diverse voci della natura animale c i suoni della campagna d tutti i suoni percepibili dall’udito 7. Le caratteristiche tecniche della poesia di Pascoli si possono definire a rispettose della tradizione b rispettose della tradizione, ma con forti tendenze all’innovazione c del tutto innovative rispetto alla tradizione d innovative rispetto alla tradizione perché recuperano elementi classici di lingua e stile

4

Rispondi alle seguenti domande. 1. Nella casa di Castelvecchio il poeta lavorava contemporaneamente a tre tavoli differenti, ognuno destinato a un diverso filone letterario: di quali filoni si trattava? 2. Riassumi i titoli e i caratteri delle principali prose pascoliane. 3. Quali furono le raccolte poetiche dell’ultimo Pascoli e come si caratterizzano? 4. Quale significato ha il titolo latino Myricae? 5. Qual è la peculiarità linguistica, nella storia della poesia pascoliana, del poemetto Italy? (max 5 righe) 6. Su quali aspetti del ritmo e della metrica intervenne lo sperimentalismo pascoliano? (max 5 righe) 7. In che senso si può dire che Pascoli abbia sperimentato, nelle sue liriche, una «lingua speciale» per la poesia? (max 10 righe) 8. Illustra i caratteri del lessico poetico pascoliano, fornendo qualche esempio concreto (max 10 righe). 9. Spiega l’occasione della stesura del Gelsomino notturno e riassumine i principali temi e valori simbolici (max 15 righe). 10. Illustra i caratteri tematici e stilistici dei Poemi conviviali (max 15 righe).

428

PROPOSTE DI LAVORO PER L’ESAME DI STATO

L’età contemporanea

Analisi del testo 1

Analizza, interpreta e commenta Temporale, una famosa lirica pubblicata da Pascoli nella terza edizione di Myricae (1894).

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Un bubbolìo1 lontano... Rosseggia l’orizzonte, come affocato,2 a mare: nero di pece,3 a monte, stracci di nubi chiare: tra il nero un casolare: un’ala di gabbiano. 1. bubbolìo: brontolio. 2. affocato: infuocato, rosso per il sole calante. 3. di pece: come la pece, sostanza vischiosa e nerissima.

Comprensione A. Riassumi sinteticamente, con le tue parole, il contenuto della poesia. B. Perché il primo verso è separato dai successivi, come a costituire una strofa a sé stante?

Analisi A. Individua nella breve lirica le immagini principali: • distinguile tra immagini acustiche e immagini visive; • spiegale una per una. B. Analizza il componimento sul piano metrico: di quale quantità sono i versi che lo compongono? Individui delle rime? C. Esamina ora la sintassi: predomina la paratassi o l’ipotassi? Le immagini risultano collegate tra loro, oppure no? D. Di quale lessico si avvale il poeta: letterario e colto, oppure comune e quotidiano, o di altro tipo ancora? Motiva la risposta con opportuni riferimenti al testo. E. Raccogli ora queste osservazioni analitiche in un commento conclusivo, nel quale illustrare le caratteristiche dello stile di Pascoli a partire proprio da Temporale.

Interpretazione A. La breve lirica costituisce una chiara illustrazione dell’«impressionismo» pascoliano. • Che cosa s’intende con questo termine e perché possiamo definire Pascoli un poeta «impressionista»? • Quali altri testi poetici da te letti di Pascoli possono avvicinarsi a Temporale in virtù di queste caratteristiche d’impressionismo poetico? B. Commenta l’immagine conclusiva: qual è, a tuo giudizio, il suo significato simbolico, nel contesto della breve lirica?

Le poesie di Pascoli sono molto accurate nel loro sistema formale, tanto che in esse si stabilisce una stretta relazione fra suoni e significati. Analizza da questo punto di vista una delle liriche lette, a tua scelta.

Esamina in particolare, nella tua analisi, i seguenti aspetti. • Livello metrico: identifica il tipo di strofa, il verso e lo schema delle rime; valuta poi se la metrica risulta adeguata ai contenuti. • Livello fonico: riconosci i fonemi o i gruppi di fonemi maggiormente ripetuti; in quali momenti del testo se ne ha la maggiore concentrazione? Si può stabilire una relazione tra ripetizione sonora e sviluppo dei temi? • Livello ritmico: quale effetto hanno sul testo enjambements, sinalefi (fusione di due vocali tra la fine e l’inizio di parole diverse) e dialefi (separazione di due sillabe distinte della vocale finale e della vocale iniziale di due parole contigue), sospensioni e altri artifici? Come tale effetto si collega al significato del testo?

Saggio breve 1

Il simbolo del «nido» nella poesia pascoliana.

Materiali di lavoro Profilo introduttivo • Il «nido» domestico e la paura della vita, E p. 358 • Il «nido» e la madre, E p. 364 • La crisi dell’uomo contemporaneo E p. 365

Testi • • • • • •

Il lampo, E Testo 6, p. 385 X agosto, E Testo 8, p. 388 Digitale purpurea, E Testo 10, p. 398 La mia sera, E Testo 11, p. 404 Il gelsomino notturno, E Testo 12, p. 411 La cavalla storna, E Testo 13, p. 415

La parola al critico • G. Bàrberi Squarotti, Il «nido» nella simbologia di Pascoli, E p. 391 Elio Gioanola, La metafora del nido Il Pascoli, dotato come tutti i poeti di un’eccezionale sensibilità, che gli permette di intuire la crisi dei valori romantici e della fede nelle possibilità conoscitive della ragione, traumatizzato dalla morte violenta del padre e poi dalla scomparsa 429

L’età contemporanea

della madre e dei suoi fratelli, istituisce il «nido» come centro della sua costellazione simbolica perché, attraverso questa immagine, può esprimere la sua paura del mondo e della vita e il desiderio di protezione, secondo un tipico modello psicologico che è quello della «regressione verso l’infanzia», nel tentativo di recuperare immaginativamente uno stato di sicurezza e di felicità. Il nido significa la sicurezza del cibo (padre) e degli affetti (madre): cose che vengono assicurate al bambino, come ai piccoli degli uccelli, prima dell’autosufficienza. Nella vita adulta invece il cibo bisogna procurarselo, con tutta l’incertezza, la fatica e il difficile contatto con gli uomini che la necessità comporta; e bisogna procurarsi anche l’affetto, attraverso la formazione di una nuova famiglia, cioè assumendosi la responsabilità di creare un sistema di rapporti non vincolati dalle affinità viscerali, di sangue, che caratterizzano la famiglia d’origine (padre, madre, fratelli). Il Pascoli ha testimoniato prima di tutto nella vita questa «incapacità di vivere», cioè di uscire dal nido. È sempre vissuto con la sorella e non si è mai sposato, perché appunto il matrimonio esige un atto di fiducia nel prossimo e di coraggio per superare la difese sterili della solitudine. La metafora del nido traduce questa forma psicologica: infatti il nido è per eccellenza il luogo della famiglia originaria, dove il padre distribuisce pane e protezione, la madre affetto e preoccupazioni: là c’è il tepore senza turbamenti, la sicurezza contro i pericoli umani e naturali, la completa non-responsabilità. Il «nido» è il tentativo di recuperare l’età dell’oro dell’infanzia, l’unica veramente felice perché non esposta alle frustrazioni dell’esistenza. Si può dire che la struttura della maggior parte delle poesie di Myricae e dei Canti di Castelvecchio sia fondata sulla coppia oppositiva nidorealtà esterna, in cui tutte le connotazioni della dolcezza, del riposo, della sicurezza, del conforto sono racchiuse nelle metafore del «dentro» e tutte quelle del pericolo, della minaccia, del freddo, del dolore, nelle metafore del «fuori».

E. Gioanola, La poesia del Pascoli, in Id., La poesia decadente. Pascoli e D’Annunzio, Itaca, Faenza 1991

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Svolgimento A. Il primo passo è documentare la presenza, più o meno esplicita, del «nido» in moltissimi componimenti pascoliani. • Nel Tuono il «nido» viene raffigurato come precario rifugio dalla violenza della natura. • Ai vv. 11 e 13 di X agosto è lampante l’associazione tra gli occupanti del nido, che saranno costretti a morire di stenti, pigolando sempre più piano, a causa dell’uccisione della rondine madre che procurava loro il cibo, e l’omicidio del padre del poeta, che inutilmente sarà atteso a casa con i doni che recava con sé. • In Digitale purpurea il convento delle due amiche può essere accostato a un «nido» che protegge dalle sofferenze e dall’ignoto della vita esterna. • La mia sera è una lirica tutta orientata a costruire un’immagine «mitica» del «nido», nel quale aspira a ritornare il poeta-fanciullo, dimenticando gli scoppi e i gridi della vita adulta. • Nel Gelsomino notturno osserva (in particolare il v. 7) l’immagine degli uccellini che dormono tranquilli nel loro nido, protetti dalle calde ali materne; la successiva similitudine (v. 8) rafforza il concetto. • Nella Cavalla storna spicca il ruolo della madre come custode e garante del «nido», profanato dalla violenza esterna e che va risarcito mediante la vendetta. Il dialogo tra la madre e la cavalla storna evidenzia l’unione profonda che lega tutti gli abitanti del «nido». B. Il secondo passo, alla fine di quest’analisi, è riassumere sinteticamente le funzioni che il «nido» assume nella poesia di Pascoli: • «nido» come luogo in cui si può trovare riparo e conforto (Il tuono, La mia sera); • «nido» come centro degli affetti familiari (Il gelsomino notturno); • «nido» come ambito dell’infanzia e cioè spazio privilegiato dell’esistenza umana (La mia sera); • «nido» come alternativa alla vita adulta, che intimorisce e spaventa (Digitale purpurea). All’opposto, il «nido» è costantemente sottoposto alle minacce e alle violenze del mondo esterno (X agosto, La cavalla storna). C. È opportuno convalidare queste conclusioni alla luce dei saggi critici di Bàrberi Squarotti e di Gioanola, citandone passaggi significativi. • Tali autori evidenziano anche i limiti della posizione pascoliana, in cui si può cogliere una vera «regressione all’infanzia» tipica di chi non è riuscito a superare in modo maturo i conflitti e le angosce dell’adolescenza. D. In conclusione, è utile riportare più in generale questi caratteri alla poetica pascoliana, incentrata sull’immagine cardine del «fanciullino», cioè su colui che, appunto, vive e si forma nel «nido» domestico.

PROPOSTE DI LAVORO PER L’ESAME DI STATO

L’età contemporanea

Il lavoro nei campi, così come viene descritto da Pascoli, è molto cambiato nel corso del secolo che ci separa dalle sue poesie. Rifletti su questi mutamenti in un tema di tipo tradizionale.

• Quali nuovi strumenti e tecniche sono subentrati nel frattempo? • Quali effetti tutto ciò ha prodotto sul lavoro, sull’occupazione e sul problema della povertà nelle campagne? • Come è cambiata la mentalità del mondo rurale? • La campagna raffigurata da Pascoli, oggi esiste solo in parte, o non esiste assolutamente più?

Relazione 1

Il paesaggio naturale costruito da Pascoli suscita spesso, a una lettura superficiale, un’impressione di serenità. Però, a una considerazione più attenta, compaiono regolarmente uno o più elementi di tristezza, di desolazione, che visualizzano nella natura il destino umano di sofferenza.

Documenta questa funzione che il paesaggio assume in alcune tra le poesie lette. A. Prendi in esame qualche lirica a tua scelta. B. Analizza il tipo di paesaggio e di immagini naturali in essa presenti, rispondendo a queste domande. • Come vi si rispecchia lo stato d’animo del «fanciullino»? • In che modo natura e paesaggio riflettono la sofferenza e il male del mondo? • In conclusione: la cornice naturale trasmette un’impressione di positività, di negatività o di ambiguità? Hai a disposizione 2 facciate di foglio protocollo (35004000 battute).

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Pascoli è, fra i poeti italiani, quello che maggiormente si può avvicinare al Decadentismo europeo.

Rifletti sui termini di questo rapporto e illustrali. A. Nel tuo lavoro metterai la poesia di Pascoli in rapporto ai principali riferimenti della poesia decadente, ovvero: • la ricerca delle «universali analogie» di Baudelaire; • il motto «La musica prima di ogni cosa» di Verlaine; • lo «sregolamento dei sensi» di Rimbaud. B. Illustrerai questi postulati dei tre scrittori francesi prima su un piano teorico (per la loro relazione con il Decadentismo e il Simbolismo) e poi con qualche esempio testuale desunto dalle loro poesie. C. In seguito rifletterai sulla posizione di Pascoli riguardo a ciascuno dei tre ambiti considerati, esaminando in concreto qualche lirica a tua scelta.

Hai a disposizione 3 facciate di foglio protocollo (55006000 battute).

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Flora e fauna di Pascoli appaiono molto diverse da quelle solo letterarie di Leopardi o da quelle «di carta», cioè artificiose, irreali, di D’Annunzio. Pascoli possiede infatti una diretta esperienza della vegetazione e degli animali del paesaggio contadino; ma a questa percezione unisce poi altri elementi, di carattere simbolico.

Illustra e commenta tali elementi di differenza. A. Nel tuo lavoro partirai da una diretta analisi di qualche testo che ritieni particolarmente significativo per documentare il ruolo della flora e della fauna nel mondo pascoliano. B. In che senso si può dire che flora e fauna assumono una funzione simbolica nelle poesie di Pascoli? Che cosa simboleggiano nelle varie situazioni da te considerate? C. Per meglio evidenziare le differenze, citerai anche, a confronto, qualche verso o espressione di Leopardi e D’Annunzio. Il tuo scopo è documentare la qualità letteraria del paesaggio leopardiano e la qualità estetizzante e decorativa di quello dannunziano. Hai a disposizione 2 facciate di foglio protocollo (35004000 battute).

Articolo 1

Per i lettori di una rivista culturale, illustra l’importanza di una recente edizione che accoglie entrambe le maggiori raccolte poetiche pascoliane, cioè Myricae e Canti di Castelvecchio.

Hai a disposizione 1 facciata e mezzo di foglio protocollo (2500-3000 battute).

Intervista 1

Accogliendoti nella sua casa di Castelvecchio, il poeta ti concede un’intervista per un quotidiano di tiratura nazionale. Attraverso le sue risposte, fai emergere soprattutto l’importanza che l’ambiente domestico e familiare ha per la figura e l’opera di Pascoli.

Hai a disposizione 2 facciate di foglio protocollo (35004000 battute). 431

Monografia

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Una lingua per scrivere

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Scheda

Lingua parlata e lingua scritta

Il parlato: dalla viva voce

EDUCAZIONE LINGUISTICA

Una lingua esiste prima di tutto per essere parlata. La comunicazione orale (dal latino os, oris, “bocca”) precede lo scritto per più motivi: a. perché, rispetto alla lingua scritta, la lingua parlata si usa molto più spesso; b. perché gli esseri umani hanno conosciuto per molti millenni solo la lingua parlata: la scrittura nacque intorno al 3000 a.C. in Egitto e in Mesopotamia; c. perché i bambini imparano la loro lingua anzitutto nella forma parlata, e lo fanno in modo istintivo, mentre l’apprendimento della lingua scritta richiede studio e fatica; d. perché parlare è più facile, richiede poca fatica, quasi tutti lo possono fare; non servono strumenti e supporti (carta e penna) necessari invece per scrivere; ed è possibile parlare (per esempio al cellulare) e nello stesso tempo lavorare, correre ecc.

I canali della comunicazione orale Quando io parlo con qualcuno, ciò che dico, le mie parole, sono in stretto rapporto con l’intonazione della mia voce, con i gesti che compio, con l’atteggiamento che assumo mentre parlo: un gesto, uno sguardo scelto opportunamente possono «dire» più di molte parole; una frase magari semplice, ma ripetuta con forza e con il giusto tono, può esprimere assai di più di un discorso accurato ed elegante. Secondo gli studi di psicologia della comunicazione, circa il 7080% del messaggio passa attraverso questi canali, mentre una parte assai minore è affidata al significato vero e proprio delle parole. Gli elementi deittici (i gesti che accompagnano le parole) caratterizzano un dialogo faccia a faccia, in cui gli interlocutori si vedono e vedono le stesse cose intorno a loro.

L’interazione emittente-destinatario Inoltre, nella comunicazione orale si attiva una costante interazione tra il locutore (colui che parla), 432

RISORSA LESSICO

o emittente, e il destinatario, con frequenti scambi di ruolo; chi parla osserva chi lo ascolta, ne riceve i commenti e le richieste esplicite, si accorge se il suo messaggio è correttamente interpretato, se sono necessarie delle integrazioni o la riformulazione di qualche concetto. Talvolta l’emittente non completa la frase, perché si accorge da segni non verbali che l’informazione è già stata compresa; oppure apre incisi, ripete periodi o parti di periodi per chiarire il discorso, o per sottolineare un giudizio. In sostanza, la comunicazione è gestita dall’emittente, ma viene influenzata dalle reazioni del destinatario.

La «mobilità» del parlato La possibilità, per chi parla, di autocorreggersi di continuo, di modificare il discorso in relazione al fluire dei suoi pensieri, anche in relazione al mutare dell’atteggiamento dell’interlocutore, si può riassumere in un concetto: nella «mobilità» del discorso orale. Esso si regge su frasi brevi, talvolta brevissime, talvolta lasciate a mezzo, sul rapido spostarsi da un argomento all’altro, su frequenti ripetizioni e riprese. Nel discorso orale si ravvisano spesso false partenze (il discorso comincia in un modo, s’interrompe e riprende in un altro), correzioni e talora contraddizioni, perché chi parla «perde il filo», distratto dalle reazioni altrui e dai pensieri propri. S’incontrano intercalari come beh, cioè, praticamente, cosa vuoi, voglio dire, diciamo: tutte espressioni prive di significati particolari, ma che servono a «riempire» i vuoti del discorso. Il lessico del discorso orale è certamente più povero rispetto al testo scritto: le parole sono quelle comuni, spesso generiche (bello, cosa, fare), molto spesso di carattere dialettale (roba, statti zitto).

Gli scambi tra parlato e scritto Tra parlato e scritto avviene talvolta uno scambio: accade sempre più spesso che parole, locuzio-

ni, modi di dire della lingua parlata vengano ripresi nella lingua scritta per dare maggiore espressività a quest’ultima. Il fenomeno è comune nella letteratura, dalle origini ai nostri giorni. Da questo punto di vista la novella di Andreuccio da Perugia nel Decameron di Boccaccio (II, 5) costituisce un caso assai significativo: il dialogo che si svolge tra il protagonista Andreuccio e gli abitanti del Malpertugio napoletano (E volume 1) ci offre una delle più straordinarie sequenze in «presa diretta» della nostra letteratura. Ma anche l’odierno linguaggio delle comunicazioni di massa ricorre sovente agli esempi del parlato. Ecco, per esempio, alcune espressioni tratte dal linguaggio del giornalismo sportivo: fare autogol, salvarsi in corner, tagliare il traguardo, fare uno slalom ecc.

Svantaggi e vantaggi della comunicazione scritta Chi scrive non può contare su tutti quei sostegni che rendono subito comprensibile ed efficace un di-

IL LESSICO

1 Leggi questa trascrizione di un’intervista di un giornalista a uno scrittore, Poi sottolinea tutte le imprecisioni e gli errori presenti nel testo. Giornalista – Partiamo dal primo oggetto: l’ACE. Scrittore – Sì, è la bibita che a un certo punto è comparsa e in tutti i bar unendo insieme appunto arancio limone insomma erano le vitamine; a un certo punto ci siamo vitaminizzati; sembrava che dovessimo essere in forma per ogni cosa per cui anche al bar diventava un centro di bellezza. Giornalista – Che tra l’altro esatto, tutti, e; la notizia è questa: una volta l’ACE non c’era, cioè tu andavi a prendere un succo di frutta e c’erano i gusti classici; poi è comparso questo ACE con le tre immagini dell’arancio della carota e del limone; tutti pensano infatti che ACE voglia dire arancio carota e Scrittore - No, non vuol dire così, non vuol dire, non vuol dire, cioè è un acronimo chiaramente però insomma indica anche le vitamine che ci sono dentro, insomma. (intervista a Marco Belpolitis, “L’altro lato” – www.rai.it)

2 Procurati il testo della novella di Andreuccio da Perugia (E volume 1), in particolare la parte relativa al dialogo del Malpertugio. Identifica tutte le espressioni più chiaramente riferibili al parlato trecentesco e trascrivile. ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... 433

EDUCAZIONE LINGUISTICA

lavoriamo su

scorso orale. Privandosi del rapporto faccia a faccia con l’interlocutore, rinuncia all’intonazione, ai gesti, agli sguardi. Ciò che può dare tanta efficacia all’esposizione orale – interruzioni, ripetizioni, i cambiamenti della linea discorsiva: tutti gli elementi dinamici o mobili della conversazione – appare di solito «brutto» nella lingua scritta. Un testo scritto deve organizzare la propria situazione comunicativa, costruendo con pazienza un contesto e, quindi, dei significati. Deve prestare maggiore cura nella scelta dei vocaboli; maggiore attenzione nel disporre le frasi l’una dopo l’altra, secondo un progetto preordinato. La comunicazione scritta presenta però un grande vantaggio rispetto a quella orale: il tempo. Chi scrive, infatti, ha a disposizione un tempo maggiore, rispetto a chi parla, per elaborare un testo pienamente corrispondente alle sue esigenze. Ha il tempo per progettarlo, per scriverlo, per correggerlo e completarlo: infatti solo nei testi scritti informali la prima stesura è quella definitiva; nei testi di maggiore impegno, la revisione è un’operazione molto importante e necessaria.

Una lingua per scrivere

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Scheda

RISORSA LESSICO

I registri e gli stili del discorso

La lingua in situazione Quando si comunica, è sempre opportuno adattare il livello del linguaggio alla situazione, cioè al contesto in cui avviene quella comunicazione. Infatti, in base all’ambiente sociale in cui ci si trova e agli interlocutori a cui ci si rivolge, si devono scegliere le forme con cui comunicare: costruzioni sintattiche, parole, anche intonazioni, più o meno vivaci. L’insieme di questi elementi determina il cosiddetto registro linguistico, o livello espressivo. In linguistica esso viene chiamato di solito varietà situazionale, o contestuale, della lingua: esistono tante varietà quante sono le diverse situazioni in cui si comunica, cioè i contesti in cui si parla, gli scopi per cui lo si fa, il genere di destinatario a cui è indirizzato il messaggio ecc.

EDUCAZIONE LINGUISTICA

Saper scegliere il registro più opportuno In termini molto generali, possiamo dire che esistono tre fondamentali livelli espressivi: livello formale, livello medio, livello informale. In realtà i registri linguistici sono più numerosi, graduabili secondo molteplici diverse sfumature, tante quante possono essere le diverse situazioni comunicative della vita sociale. Noi possiamo scegliere di esprimerci con un tono più o meno familiare o formale: tale scelta deve dipendere dal tipo di persone con cui stiamo comunicando, dal contesto in cui avviene la comunicazione, dallo scopo che vogliamo raggiungere con il nostro testo. Una delle competenze comunicative più importanti è proprio questa capacità di saper scegliere (e poi utilizzare), di volta in volta, il registro linguistico più opportuno. Così sostiene Cesare Segre: «Sappiamo che ci si esprime diversamente parlando a un re o a uno straccivendolo, in un’assemblea o all’osteria, a un superiore o a un compagno di bisbocce; o anche a un vecchio o a un bambino. Cambia la scelta delle parole: sventurato, sfortunato, scalognato, iellato, sfigato hanno, più o meno, lo stesso significato, ma appartengono a registri diversi» (Corriere della sera, 13/1/2010). Un altro esempio. Rifiuti solidi urbani, immondi434

zia, spazzatura, mondezza, monnezza sono termini o espressioni equivalenti, per contenuto, ma non per registro linguistico: – rifiuti solidi urbani è una locuzione di ambito burocratico; – immondizia è un termine che appartiene all’italiano comune o standard; – spazzatura è una voce propria dell’italiano colloquiale (non è elegante da utilizzarsi in un testo scritto); – mondezza è un termine tipico dell’italiano parlato regionale; – infine monnezza è una voce prettamente dialettale.

Il rapporto con gli interlocutori Solo le prime due voci dell’elenco precedente sono adatte a comparire in un testo scritto (la prima, per la verità, è una locuzione molto impersonale). Non lo sono le altre tre, sia pure per gradi differenti. «Chi non sa usare i registri crea situazioni d’imbarazzo, e può persino offendere, quasi ricusasse le differenze tra le categorie e le funzioni sociali. [...] I giovani sono quelli che sembrano ignorare di più i registri, e con ciò stesso si mettono in condizione d’inferiorità, perché mostrano di non aver rilevato, nel parlare, che la scelta linguistica denota la loro attitudine a posizionarsi rispetto ai propri simili, e a riconoscere il ruolo o i meriti degli interlocutori» (C. Segre).

Evitare gli scarti di registro In un testo scritto in cui è richiesto un certo grado di formalità, sbagliare registro è grave quasi quanto andare fuori tema. Attenzione: un testo ben formato non deve soltanto avere un proprio «tono» o registro, ma anche mantenerlo, evitando quindi d’inserire nel discorso parole o frasi appartenenti a registri differenti. Leggiamo, per esempio, questo paragrafo, nel quale viene evidenziato uno sgradevole scarto di registro espressivo: Attenzione: è un medicinale che può dare assuefazione e provocare effetti collaterali indesiderati. Se vi

vengono brufoletti o se dovete andare troppo spesso al gabinetto, è necessario consultare il medico. Qui, come si vede, in un discorso di registro mediamente colto, la frase sottolineata inserisce inopportunamente, al proprio interno, espressioni di uso colloquiale.

Oltre i bisogni comunicativi primari Concludiamo con quanto si dice in un documento (Lingua italiana, scuola, sviluppo, 18-12-2009) promosso e sottoscritto da Accademia della Crusca, Accademia dei Lincei e Associazione per la Storia

IL LESSICO

1 Riformula i seguenti messaggi nel registro di volta in volta indicato. a. registro aulico: Avvertii distintamente che ogni sforzo di rimuoverlo dal suo proposito sarebbe stato vano. in registro intimo, confidenziale: ➔ ...................................................................................... b. registro colto: La pellicola tratta, con notevole originalità, il tema dei conflitti di famiglia; il regista firma qui una delle sue opere migliori. in registro colloquiale: ➔ ...................................................................................... c. registro colloquiale: Che stress! Tutti i giorni ’sta rottura dei compiti! in registro medio: ➔ ...................................................................................... d. registro colloquiale: È inutile che fai ’sta faccia da santerellina, tanto lo so benissimo che mi hai fregato tu gli orecchini! in registro medio: ➔ ...................................................................................... e. registro medio, corretto: Entri pure, le consegno subito ciò che desidera. in registro colloquiale ➔ ...................................................................................... f. registro colto: La studentessa si applica in modo superficiale e discontinuo, trascurando le discipline che non sente congeniali a sé. in registro colloquiale: ➔ ......................................................................................

2 Questi brevi testi provengono da due scrittori e sono dunque scritti in un registro letterario. Riscrivili utilizzando un registro comunicativo medio. a. Leo posò il cucchiaio: “E del resto siete tutti malcontenti voi... non creda signora di esser la sola... vuol vedere?... Dunque, tu Carla, di’ la verità, sei contenta tu? ...”. La fanciulla alzò gli occhi: questo spirito gioviale e falsamente bonario inaspriva la sua impazienza: [...] Leo veniva a pungerla proprio dove tutta l’anima le doleva; ma si trattenne: “Infatti potrebbe andare meglio,” ammise; e riabbassò la testa. (A. Moravia, Gli indifferenti, cap. 2)

........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... ........................................................................................... b. Ecco come nei giovanissimi petti, chi ben li studiasse, si vengono a scorgere manifestamente i semi diversi delle virtú e dei vizj. Questo certamente in me era un seme di amor di gloria. (V. Alfieri, Vita, Epoca I, capitolo V)

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EDUCAZIONE LINGUISTICA

lavoriamo su

della Lingua Italiana (ASLI): «Una conoscenza della lingua materna sicura e ricca, che non si limiti ai bisogni comunicativi primari, elementari, ma includa un ampio repertorio lessicale, una flessibilità di usi sintattici e una capacità di passare da un registro comunicativo all’altro in modo appropriato e cioè con sensibilità all’occasione e alla concreta circostanza comunicativa, è insomma una precondizione per un paese civile che intenda restare competitivo nella contemporaneità e nel futuro prossimo» (http://www.comunitaitalofona.org/).

Una lingua per scrivere

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Scheda

RISORSA LESSICO

Eliminare (sempre) le ripetizioni?

EDUCAZIONE LINGUISTICA

C’è ripetizione e ripetizione Normalmente si dice che le ripetizioni sono inutili e brutte, perché appesantiscono il discorso e lo rendono monotono, evidenziando, in chi le usa, lessico scarso e scarsa fantasia. Sono critiche fondate, certamente, anche se non bisogna generalizzare. Nella comunicazione orale, in particolare, le ripetizioni possono rivelarsi efficaci e addirittura necessarie: per esempio, se un conduttore radiofonico o televisivo sta riferendo una qualche notizia, è bene che ricordi più di una volta di che cosa sta parlando; gioverà all’ascoltatore distratto o che si fosse sintonizzato a trasmissione già iniziata. Lo stesso vale per un conferenziere che ami la chiarezza, o per un insegnante che voglia spiegarsi bene. La situazione è differente nel caso della comunicazione scritta. Chi legge, infatti, ha la possibilità di ritornare su ciò che non ha colto bene e persino di rileggere l’intero testo: in questo caso le ripetizioni risultano superflue e fastidiose. Perciò quando scriviamo dobbiamo evitare le ripetizioni: è meglio sostituire una parola già usata con un pronome o con un sinonimo appropriato e, più generale, è consigliabile variare le strutture sintattiche. Otterremo uno stile più elegante, grazie al quale la lettura risulterà più scorrevole e interessante.

Eliminare le ripetizioni sostituendo le parole (i richiami testuali) Per eliminare le ripetizioni si può ricorrere ai cosiddetti richiami testuali: aggettivi o pronomi, oppure verbi o nomi, in grado di sostituire un termine già utilizzato. Per esempio, nella frase • Se questa torta ti piace, prendine un’altra fetta il richiamo testuale è esercitato dalla particella pronominale ne. In assenza di tale richiamo, saremmo costretti a ripetere: «... prendi un’altra fetta di questa torta». Attraverso i pronomi si può rinviare a elementi precedenti o ad elementi successivi: • La ragazza prese la matita nell’astuccio e la portò alla sorella. 436

• Gli aveva esposto tutta la questione; ora era il capo a dover decidere. Nel primo esempio il pronome la rinvia a un elemento precedente (matita). Nel secondo esempio il pronome gli rinvia a un elemento successivo (il capo). Leggiamo quest’altra frase: • Il negoziante mostrò al cliente una decina di cravatte, senza spazientirsi per la sua indecisione. Qui la ripetizione è evitata grazie a un aggettivo (sua). Un modo raffinato per evitare la ripetizione è l’ellissi, con cui si elimina il soggetto della seconda frase: • Detesto la pioggia. Rende insopportabile... Talvolta una parola, o un’intera frase, possono riprendere (ma non ripetere) un elemento del testo che precede, come in questa frase: • Estrasse dalla borsa il denaro: erano quattro banconote da cento dollari. Il modo più facile, per eliminare le ripetizioni, è utilizzare un sinonimo o una perifrasi (un giro di parole) che riprendano il concetto già espresso; per esempio: • Da giorni non faceva che sospirare. Sì, la tristezza era ormai il suo stato d’animo abituale. Qui il verbo sospirare viene sostituito dal sostantivo (la tristezza). Più complessa quest’altra soluzione: • Gli piaceva andare di qua e di là. Girovagare senza meta era il suo spasso. I termini della prima frase, sostituiti nella seconda, sono due: a) Gli piaceva, ripreso da era il suo spasso; b) andare di qua e di là, ripreso da Girovagare senza meta.

Eliminare le ripetizioni costruendo la frase in modo differente A volte possiamo eliminare una ripetizione realizzando un diverso collegamento tra le parti che compongono un periodo. Leggiamo questa frase: • Sono certo che la proposta che hai avanzato avrà successo. Qui la congiunzione che è seguìta a breve distanza da un altro che, pronome relativo; sono casi

Quando la ripetizione è efficace (e voluta) A volte però la ripetizione può essere un utile espediente comunicativo per sottolineare ed evidenziare l’elemento che viene ripetuto. Leggiamo questa frase: Detesto la pioggia. La pioggia rende insopportabile anche il paesaggio più verde o la vacanza più bella, se dura per troppo tempo e ti fa stare in casa ad aspettare. Qui la ripetizione non disturba affatto, sia perché mette l’accento sull’oggetto logico di tutto il ragionamento, sia per l’alternanza tra il periodo iniziale, molto breve (di sole tre parole: Detesto la pioggia), e quello successivo, più lungo e articolato. Anche gli scrittori ricorrono talvolta alla ripetizione, per scopi espressivi: in questo caso non si deve parlare di ripetizione, ma, più propriamente, di anafora. Ecco, per esempio, come Manzoni (I promessi sposi, cap. VIII) sa trarre un effetto umoristico dall’anafora di un aggettivo molto comune:

Ecco un altro esempio, dal poemetto di Guido Gozzano L’amica di nonna Speranza: «Ma bene... ma bene... ma bene...» – diceva [gesuitico e tardo lo Zio di molto riguardo – «Ma bene... ma bene... [ma bene... Capenna? Conobbi un Arturo Capenna... [Capenna... Capenna... Sicuro! Alla Corte di Vienna! Sicuro... sicuro... [sicuro...» Se lo Zio avesse pronunciato una sola volta le espressioni ma bene, Capenna, sicuro, nessuna informazione essenziale si sarebbe persa. È su un altro piano che queste ripetizioni introducono una modifica di rilievo. Di solito, quando noi ripetiamo parole o frasi, lo facciamo per enfatizzarle, sottolineandone l’importanza: se dico «Ti amo, ti amo, ti amo moltissimo», lo faccio per dare al concetto la maggior forza possibile. Ma, curiosamente, la ripetizione può servire a produrre anche l’effetto contrario, ovvero smorzare un’idea, una frase. È quanto accade nei versi citati di Gozzano. Egli ha accostato quasi a caso dei brandelli di conversazione, allo scopo di sottolineare la vuotezza dei dialoghi tra i suoi personaggi. Nel salotto di nonna Speranza le persone parlano, ma senza avere nulla d’importante da dirsi: ripetono parole e frasi solo per colmare il silenzio, per nascondere il vuoto. L’anafora, dunque, è un’arma di cui il poeta si serve a fini ironici.

Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina.

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EDUCAZIONE LINGUISTICA

frequenti, ma producono sempre fastidio all’orecchio di chi legge o ascolta. Nella frase citata, si può eliminare la ripetizione sopprimendo la relativa (…che hai avanzato) e trasformandola in attributo: • Sono certo che la proposta da te avanzata avrà successo. oppure facendo della reggente Sono certo un’incidentale: • La proposta da te avanzata – ne sono certo – avrà successo. o ancora si può semplificare il costrutto in questo modo: • La tua proposta avrà certamente successo.

lavoriamo su

IL LESSICO

1 Per evitare le ripetizioni, utilizza in ciascuno di questi brevi testi un pronome adeguato, come nell’esempio. Ho comprato tre romanzi e ho letto i tre romanzi in due giorni.

Ho comprato tre romanzi e li ho letti in due giorni.

➔ ......................................................................................

EDUCAZIONE LINGUISTICA

a. I gatti del cortile sono sempre affamati, così io do ai gatti del cortile i nostri avanzi. ➔ ...................................................................................... b. Se telefoni a Grazia di’ a Grazia che ci riuniremo a casa mia. ➔ ...................................................................................... c. Vado a comprare della frutta al mercato: vuoi che compri della frutta anche per te? ➔ ...................................................................................... d. Simone e Lucia non hanno ancora visto le tue foto del matrimonio. Fa’ vedere a Simone e Lucia le tue foto del matrimonio. ➔ ...................................................................................... e. Hanno invitato a cena gli amici e hanno offerto agli amici diverse specialità della loro terra. ➔ ...................................................................................... f. «Verrai in piscina domani?» «Non so se verrò in piscina domani». ➔ ......................................................................................

2 Sottolinea, come nell’esempio, i richiami testuali presenti in queste frasi, utili a evitare ripetizioni. Attenzione: devi segnalare anche il caso dell’ellissi, usando una ✓. Il volontariato per me è molto importante: senza il volontariato la vita mi sembrerebbe inutile.

Il volontariato per me è molto importante: senza di esso la vita mi sembrerebbe inutile. a. Una mamma che ama i propri figli conosce anche i loro difetti. b. Mi ha riferito il suo progetto: far nascere un centro dove i ragazzi del quartiere possano socializzare.

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c. Un proverbio dice che l’ozio è il padre dei vizi, la pigrizia ne è la madre. d. Anche lo sposo era elegantissimo: indossava un abito grigio in perfetto stile inglese. e. Parlale tu, ti prego: a me Luisa non dà mai retta. f. Abbiamo l’onore di avere tra noi un vero esperto del settore: parteciperà alla serata il professor Leandri. g. Gli amici mi hanno invitato a una festa in maschera, ma io non ci voglio andare. h. Quel bambino è insopportabile, fa capricci per nulla.

3 Identifica in queste frasi le parole tra le quali si realizzano i richiami testuali. a. Non volli impegnarlo oltre; sapevo che Michele era molto impegnato e non credetti giusto fargli sprecare altro tempo. a volli, sapevo, credetti b -lo, Michele, -gli c impegnarlo, impegnato, sprecare b. Non illuderti che la tua decisione sia un segreto: gli altri ne parlano e la giudicano una scelta precipitosa. a segreto, decisione, scelta b pensare, segreto, precipitosa c decisione, ne, la c. Questo è un progetto che richiede molta tenacia. La tenacia, del resto, è un requisito indispensabile per crescere professionalmente. a molta tenacia, tenacia b questo, del resto, una vera c requisito indispensabile, professionalmente d. Maria ha comprato al mercato pesce, frutta e verdura, con cui cucinerà una cenetta leggera per tutti noi. a mercato, ha comprato, cucinerà b pesce, frutta, verdura, cenetta c pesce, frutta, verdura, con cui e. Stupita per la sua prontezza, la vicina volle sapere quanto tempo avesse il neonato, poi gli regalò un cagnetto di pezza. a stupita, vicina, tempo b prontezza, neonato, pezza c sua, il neonato, gli f. Il cane, con grande fiuto, riuscì a trovare l’uccello che il cacciatore aveva colpito e lo riportò. a uccello, che, lo b cane, fiuto, cacciatore c cane, riuscì, riportò

Una lingua per scrivere

Lo stile nominale

La rinuncia al verbo Le frasi nominali sono quelle in cui il verbo è sottinteso o ridotto alle sue forme nominali, cioè participio e infinito: Cento romanzi da leggere. Aperto tutto agosto. Inizio anticipato delle scuole. Niente telegiornali oggi? Costrutti di questo tipo, nei quali il comando, l’interrogazione si fondano per lo più su nomi (accompagnati da aggettivi, preposizioni, avverbi ecc.), sembrano contraddire l’idea comune secondo cui il verbo è il centro sintattico della frase.

Verbo sottinteso o verbo assente? Certo, nella maggior parte degli esempi citati possiamo sottintendere il verbo essere o altre forme verbali: avremo dunque «Questi sono i cento romanzi da leggere», «Il negozio rimane aperto per tutto agosto», «Ci sarà un inizio anticipato delle scuole», «Oggi non ci sono telegiornali?». Tuttavia non pochi linguisti ritengono che la nozione di «sottinteso» sia una specie di sotterfugio: spiega ma non convince. Tra l’altro in molte frasi nominali è possibile sottintendere più di un verbo. Per esempio: «Questi sono i cento romanzi da leggere», ma anche: «Acquistate i cento romanzi che dovete leggere», oppure: «Ricordatevi dei cento romanzi da leggere». Ciò significa che le frasi nominali funzionano, di fatto, di per sé. Perciò qualche linguista le condanna: la rinuncia al verbo equivarrebbe a una rinuncia al discorso linguistico, al ragionamento ecc. È più verosimile, però, che lo stile nominale rinunci non al discorso, ma a quel tipo di discorso linguistico in cui il verbo è il centro della frase. È il tipo di discorso a cui noi siamo abituati, ma non è detto che sia l’unico.

L’uso giornalistico Lo stile nominale è frequente nei titoli dei giornali e nella prosa giornalistica, perché dona emotività e ritmo al linguaggio. Mettiamo a confronto i due passi che seguono: il secondo è caratterizzato da una forte nominalizzazione (i nomi e le forme implicite dei verbi, in particolare i participi passati, sostituiscono i verbi veri e propri).

a. Il contenuto della cassaforte, che è stata recuperata a bordo del Titanic nella notte tra mercoledì e giovedì, davanti alle telecamere che trasmettevano in diretta mondiale l’evento, era solo una cassetta metallica con dentro un sacchetto di monete. Si è così conclusa in modo deludente un’operazione che era stata montata e colorita di suspence. b. (stile nominale) Solo una cassetta metallica con dentro un sacchetto di monete: questo il contenuto della cassaforte recuperata a bordo del Titanic e “aperta” nella notte tra mercoledì e giovedì, davanti alle telecamere che trasmettevano in diretta mondiale l’evento. Un epilogo deludente per un’operazione “montata” e colorita di suspence. Il testo b. è ben più di «effetto»: ricorda una sequenza cinematografica che inizi con un primo piano della cassetta, per allargarsi poi al luogo in cui essa si trova e ai protagonisti della vicenda. Come si vede, lo stile nominale consente di accelerare il ritmo dell’esposizione, concentrando l’attenzione sui risultati delle azioni piuttosto che sul loro svolgimento.

L’ambiguità dello stile nominale Lo stile nominale è oggi diffuso anche nella lingua comune: pensiamo al linguaggio degli SMS, oppure ai post che circolano nei blog di Internet. D’altra parte la nominalizzazione risponde a un principio di economia di mezzi linguistici e, come tale, è probabilmente un fenomeno inarrestabile. Ma come valutarlo? Di sicuro, lasciando ampi margini all’interpretazione di chi riceve il messaggio, lo stile nominale permette di essere reticenti e porta quindi con sé larghi margini di ambiguità. Un verbo ha bisogno di un soggetto: con un verbo si deve dire chi fa l’azione, quando e in che modo. Se dico «Previsto lo sciopero dei treni», rimane da decidere chi è che prevede e che cosa è davvero previsto: lo sciopero suddetto ci sarà, non ci sarà, è probabile o solo possibile? Per questo motivo lo stile nominale è una risor439

EDUCAZIONE LINGUISTICA

8

Scheda

RISORSA LESSICO

sa a cui ricorrere con prudenza e raramente in contesti comunicativi formali (per esempio negli scritti scolastici).

Le sue potenzialità In altri contesti, invece, può rivelarsi una risorsa linguistica assai interessante, perché consente il ricorso a descrizioni veloci che impressionano l’interlocutore. Per esempio, una madre potrà descrivere la stanza in disordine del figlio con frasi nominali di questo tipo: Armadio spalancato. Vestiti dappertutto. Dischi perfino sotto il letto. Una montagna di giornali, libri e quaderni, e sul tavolo... le scarpe infangate! Lo stile nominale attiva chi legge, lo mette davanti a messaggi dalla forma talora inattesa. Il risultato è un uso del linguaggio meno banale o passivo rispetto a quello comune.

EDUCAZIONE LINGUISTICA

lavoriamo su

Nella lingua letteraria lo stile nominale dipende da una precisa scelta da parte dell’autore, ha cioè una funzione espressiva: per esempio è utile a rendere con efficacia e immediatezza una descrizione. Consideriamo per esempio un passo come questo, tratto da Notturno di D’Annunzio: Le mura di Pescara, l’arco di mattone, la chiesa screpolata, la piazza con i suoi alberi patiti, l’angolo della mia casa negletta. Lo stile nominale ci introduce nella città come potrebbe farlo una macchina da presa, accostando, in un suggestivo montaggio, un’inquadratura all’altra: è un procedimento tipico di prosa fortemente sensoriale, impressionistica, colma di annotazioni, sogni, visioni, libere associazioni mentali, quale è appunto quella del D’Annunzio di Notturno.

IL LESSICO

1 Trasforma le frasi nominali in frasi verbali e viceversa, come nell’esempio. Banda del buco arrestata.

La banda del buco è stata arrestata

➔ .....................................................................................

a. Negozio chiuso per lutto. ➔ ..................................................................................... b. Sono stati resi noti i risultati elettorali. ➔ ..................................................................................... c. È stato revocato lo sciopero dei treni. ➔ ..................................................................................... d. Bibite, gelati, panini! ➔ ..................................................................................... e. Vorrei un tè, grazie. ➔ ..................................................................................... f. Caduto il governo! ➔ ..................................................................................... g. Cattura di un ladro nella nottata. ➔ ..................................................................................... h. I negozi rimarranno aperti di domenica. ➔ ..................................................................................... 440

Nella lingua letteraria: D’Annunzio

i. Terremoto in Turchia. ➔ ..................................................................................... l. Strada interrotta! ➔ ..................................................................................... m. Non è stato ucciso nessuno nella sparatoria. ➔ ..................................................................................... n. Mi dà un etto di parmigiano? ➔ .....................................................................................

2 Sottolinea le frasi nominali presenti in questo breve paragrafo di Dino Buzzati. Dodici guardiaboschi, con un cappello verde, su cui qualcuno mette una piccola piuma. Sulla giacca un distintivo che rappresenta lo stemma del paese. [...] Non facile dire da dove sono venuti. Qualcuno figlio di guardiaboschi. Qualcuno nato tra i monti da quelle famiglie patriarcali. (D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne)

Raccordo Il Futurismo “

in ogni ambito: vita sociale, politica, tecnica, spettacolo, moda, riviste

successo della proposta



al centro il tema della modernità

movimento organizzato, elaborazione collettiva _ è una vera avanguardia

molti manifesti dedicati a vari campi e discipline



inizio: Marinetti, Manifesto del Futurismo, 1909



La sola, vera avanguardia italiana



1

gusto per la provocazione e la sfida, linguaggio violento, esaltazione della guerra _ affinità con il fascismo

entusiasmo per il «futuro» (civiltà industriale, macchine)



“ contro il passato e la tradizione

L’origine, i linguaggi, le riviste ■ Il Futurismo fu l’unica vera avanguardia italiana, nel contesto delle «avanguardie storiche» di primo Novecento (E p. 55). Fu fondato in Francia da Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), con la pubblicazione

(1909) del Manifesto del Futurismo (E p. 56) sul quotidiano «Le Figaro» di Parigi. All’inizio il Futurismo fu un fenomeno italo-francese, ma in breve allargò la sua influenza, trovando le maggiori espressioni nel Futurismo russo, con il poeta Vladimir Majakovskij (18931930), il pittore Kazimir Malevicˇ (1878-1935) e altri. 441

Tra Ottocento e Novecento

■ I futuristi stessi affermavano che «nel Futurismo, l’arte non è la cosa più importante». Essi volevano influire in primo luogo sulla vita sociale, sulla mentalità; dunque, prima ancora che di arte, s’interessavano di politica, spettacolo, tecnica, moda, della vita delle masse in ogni sua forma. In questo senso il Futurismo fu un fenomeno pienamente e fortemente «moderno». ■ Tale attenzione a vasto raggio sulla vita contemporanea alimentò l’anima eclettica del Futurismo, cioè la sua versatilità e varietà d’interessi. La proposta futurista si estese a ogni genere di comunicazione e di spettacolo (fotografia, radio, teatro, cinema, danza). Dopo il primo Manifesto del 1909, vennero molti altri «manifesti» dedicati alle varie discipline (pittura, danza, cinema, teatro) e anche a campi estranei all’arte (come l’abbigliamento, l’arredamento, l’alimentazione, la flora, la matematica e persino i culti funerari), in una ricerca di libertà che proseguisse attraverso esperienze e linguaggi sempre nuovi. ■ Fin dagli inizi il movimento di Marinetti operò come gruppo organizzato, che realizzò in Italia e all’estero «serate» in teatri pubblici (letture e azioni sceniche che spesso degeneravano in provocazioni e risse), esposizioni e mostre d’arte, conferenze, spettacoli teatrali, attività editoriali. Fu accompagnato da un proliferare di riviste e rivistine (per fare alcuni esempi: «Dinamo» di Roma, «Rovente» di Parma, «La scintilla» di Cremona, «La Testa di Ferro» di Fiume, «Originalità» di Reggio Calabria, «Vesuvio» di Napoli), numeri unici e proclami di battaglia: il movimento incarnava un bisogno reale di rinnovamento e di proposta, non limitato a pochi intellettuali.

L’ideologia del «futuro» e i suoi limiti ■ A inizio Novecento l’epoca della rivoluzione tecnologica, contrassegnata dall’elettricità, dall’aviazione, dall’automobile, suggeriva entusiasmo per il «futuro». La «futurolatria», la «modernolatria» (cioè l’esaltazione del moderno e del futuro), l’esaltazione della civiltà industriale, fatta di folla e di macchine, costituirono gli aspetti più appariscenti del Futurismo. Si accompagnarono al gusto della provocazione, al desiderio di distruggere il passato in ogni sua forma: il Manifesto marinettiano del 1909 auspicava la distruzione di «musei», «biblioteche», «accademie d’ogni specie», paragonati a «cimiteri di sforzi vani». ■ La lotta e la distruzione presupponevano una concezione violenta del mondo e dell’uomo: scaturirono da questo clima intellettuale l’esaltazione della guerra (celebrata come la «sola igiene del mondo») e dell’aggressione, la celebrazione della vita breve ed eroica, la sfida temeraria, il disprezzo dei deboli e della pace. Diversamente dalle altre avanguardie storiche europee, come Dadaismo, Espressionismo e Surrealismo, o anche come il Futurismo russo, il movimento di Marinetti elaborò un’ideologia autoritaria e militarista, che celebrava lo stato totalitario. Su questo terreno si consumò dopo il 1922 l’abbraccio tra Futurismo e fascismo. Tale esito però negava e tradiva l’ansia di libertà intrinseca al movimento futurista, la sua istintiva (e rivoluzionaria) diffidenza nei confronti di ogni forma di autorità e di tradizione.

Un vasto retroterra culturale: le fonti del Futurismo Fondando il Futurismo, Marinetti raccolse e realizzò molti temi e motivi, nati sul terreno irrazionalistico e individualistico della cultura decadente ed elaborati da filosofi come Friedrich Nietzsche (1844-1900), profeta del nichilismo e dell’ebbrezza, Georges Sorel (1847-1922), teorico della violenza come forza originaria e pulsione vitale, Henri Bergson (1859-1941), dal quale i futuristi ricavarono l’idea che solo l’intuizione può cogliere il dinamismo della realtà. Altre fonti erano più letterarie. Un precursore del Futurismo fu D’Annunzio, sia per la sua concezione del superuo-

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mo, sia per l’amore verso il mondo moderno (motori, aviazione ecc.). Marinetti, che si era formato in area francese, guardò però soprattutto alle idee che si stavano elaborando, nei primi anni del XX secolo, a Parigi. Colse la novità dei poeti simbolisti (da Rimbaud a Gustave Kahn, che propose in Francia il verso libero). Da Mallarmé riprese l’idea che il «segno» da solo può esprimere moltissimo, anche al di fuori di un discorso razionale. Infine dalle avanguardie di quegli anni (fauves, cubisti) riprese una visione più dinamica della realtà, sganciata dalla percezione comune.

A quell’epoca, in Italia, Marinetti non era l’unico a coltivare questi temi. Per esempio lo scrittore Mario Morasso (18711938) esaltava in quegli anni temi come la macchina, la velocità, la guerra. Il poeta Gian Pietro Lucini (1867-1914) proponeva poi il verso libero come mezzo per liberare la poesia da ogni legame con la tradizione. Uno stimolo al rinnovamento veniva anche dalle riviste fiorentine d’inizio secolo, da «Leonardo» a «Lacerba» e «Il Regno» (E p. 483). Marinetti però fu il più lucido a cogliere il bisogno di novità che circolava in tante forme; lo incanalò, gli diede un nome (Futurismo) ed ebbe successo.

Il Futurismo

1 punto di partenza

2 sviluppo

3 strumenti

poesia simbolista di fine Ottocento

◗ pochi oggetti

verso libero

◗ rifiuto della metrica tradizionale

paroliberismo («parole in libertà»)

◗ esprimere simultaneamente i diversi livelli della realtà

«immaginazione senza fili»

◗ al di là delle leggi della logica e di spazio/tempo

Contesto

La poetica futurista ◗ puri segni come emblemi

i segni del linguaggio si realizzano direttamente sulla pagina

Monografia Raccordo

2

◗ soppressione di sintassi e punteggiatura ◗ verbi all’infinito, non più coniugati ◗ sostantivo doppio ◗ abolizione di avverbi e aggettivi

Dal Simbolismo al Futurismo ■ Sul piano letterario, un momento decisivo fu la fondazione (a opera di Marinetti) della rivista «Poesia», che uscì dal febbraio 1905 all’ottobre 1909 per un totale di 31 fascicoli. Nata come l’organo del Simbolismo italiano, chiamò a collaborare gli scrittori italiani più importanti del momento (tra cui Pascoli, D’Annunzio, Gozzano) e ospitò alcuni dei protagonisti europei, come Laforgue, Kahn, Jarry, Verhaeren, e come Moréas, l’estensore del manifesto del Simbolismo. Nel 1905 la rivista organizzò un’importante inchiesta sul «verso libero», alla quale risposero molti poeti. Infine, nel 1909 «Poesia» cessò le pubblicazioni, quasi a sancire che Simbolismo e verso libero erano stati ormai superati: si preparava l’avventura delle «parole in libertà». ■ Protagonista del Futurismo fu Filippo Tommaso Marinetti. All’inizio, dai primi versi del 1902 fino al romanzo (scritto in francese) Mafarka il futurista (1910), egli era stato uno scrittore esasperatamente simbolista: utilizzava un linguaggio quasi solo di segni e vuoto di oggetti, costruito su versi liberi di difficilissima decifrazione. Il Marinetti futurista nacque con l’invenzione delle «parole in libertà». La novità fu suggerita dalla guerra di Libia (1911): il poeta-cronista sentiva l’esigenza di annotare velocemente (o meglio, simultaneamente) i fatti bellici e di restituirli sulla pagi-

na con i loro rumori, odori ecc. Nacque così, in occasione della successiva guerra turco-bulgara (ottobre 1912), il poemetto Zang Tumb Tumb, un’opera lontanissima dal linguaggio letterario e in cui la scrittura cerca di esprimere «in diretta» l’intuizione, utilizzando sillabe slegate, grafismi, suoni onomatopeici. ■ A leggere i testi di Marinetti futurista oggi restiamo perplessi. Ma per cogliere il senso della sua proposta dobbiamo riportarci a un secolo fa, quando essa fu concepita. Il linguaggio tradizionale – così pensava Marinetti – non poteva più esprimere la vita moderna, fatta di macchine, velocità, grandi folle. Bisognava abbandonare la sequenza di frasi coordinate, una dopo l’altra; la stessa struttura del verso libero restava fondato sulla comunicazione logica (anche se espressa con metafore). In quel momento occorreva una nuova poetica della «simultaneità», dove le frasi si affastellavano l’una sull’altra, non più una dopo l’altra.

«Immaginazione senza fili» e «parole in libertà» ■ Tutto ciò viene in buona parte teorizzato nel Manifesto tecnico della letteratura futurista (maggio 1912). Tra le sue molte intuizioni, la più rivoluzionaria concerne la distruzione dell’io, della coscienza individuale. 443

Tra Ottocento e Novecento

Marinetti non punta più a conoscere, a capire. Gli interessa «l’ossessione lirica della materia», l’esserci nudo e crudo delle cose, governato da leggi di «molecole in massa» e di «turbini di elettroni». Per esprimere tutto ciò, dice il Manifesto tecnico, non servono belle frasi e discorsi: occorre una scrittura «analogica», che sbatta in faccia al lettore la violenza delle sensazioni. È il trionfo dell’«immaginazione senza fili», svincolata da qualsiasi legge spazio-temporale o della logica. ■ Per mettere in pratica queste affermazioni, Marinetti propone il «paroliberismo», le parole in libertà, liberate dalle regole della sintassi. Se la poetica simbolista era centrata sull’immagine, sulla metafora, che suggeriva «altri» significati, adesso si passa a una nuova poetica del linguaggio: «non si tratta più di operare con il linguaggio, ma sul linguaggio e attraverso il linguaggio» (S. Jacomuzzi). La «parola in libertà» non serve a richiama-

3

re ciò che non si vede: è un segno che «si realizza» direttamente. ■ Da qui, gli espedienti suggeriti dal Manifesto tecnico: • l’uso del verbo all’infinito, non più sottomesso «all’io dello scrittore che osserva o immagina», ma coniugato nella forma primordiale e collettiva; • l’abolizione dell’aggettivo, considerato una semplice «sfumatura» di significato, e dell’avverbio, «vecchia fibbia che tiene unita l’una all’altra le parole»; • la «distruzione della sintassi», in particolare la sostituzione della punteggiatura con segni matematici o musicali; • l’uso del «sostantivo doppio», per condensare rapidamente le percezioni, senza più bisogno di perdere tempo con paragoni e similitudini: avremo dunque uomotorpediniera, donna-golfo, folla-risacca, piazza-imbuto, espressioni in cui l’oggetto si fonde con l’immagine.

Scrittori futuristi scrittori che «attraversano» il Futurismo

poeti futuristi (oltre a Marinetti)

prosatori futuristi (oltre a Marinetti)







◗ Paolo Buzzi

◗ Corrado Govoni ◗ Aldo Palazzeschi ◗ Ardengo Soffici

◗ Enrico Cavacchioli

◗ Mario Carli

◗ Luciano Folgore

◗ Bruno Corra

◗ Francesco Cangiullo

grandi intuizioni artistiche, spesso, però, non sviluppate



Futurismo italiano: una vera avanguardia europea

Protagonisti noti e meno noti ■ Molti scrittori di quell’epoca, specie i più giovani e sperimentali, aderirono al Futurismo; ma si trattò di un’adesione quasi sempre temporanea. Uno di loro fu Corrado Govoni (1884-1965), incerto, all’inizio, tra 444

Futurismo e Crepuscolarismo (E p. 462). Del Govoni futurista si ricorda il libro Rarefazioni e parole in libertà (1915), nel quale il paroliberismo giunge talvolta alla poesia visiva. Invece Aldo Palazzeschi portò nel Futurismo, con i versi di L’incendiario (la prima stampa uscì nel 1910 per le edizioni di «Poesia»), il gusto dell’irri-

All’inizio essi si esercitarono soprattutto nel genere del poemetto in prosa, già praticato da Rimbaud e altri simbolisti.

■ Al Futurismo guardarono per qualche anno anche scrittori di ambiente vociano, in particolare Giovanni Papini (1881-1956) e Ardengo Soffici (1879-1964), i due fondatori della rivista «Lacerba». Soffici auspicava che il Futurismo si fondesse con il Cubismo pittorico; nel 1915 pubblicò Bif&zf + 18, Simultaneità, Chimismi lirici, raccolta di paroliberismi e calligrammi (poesie visive) ispirate da Guillaume Apollinaire, uno dei protagonisti dell’avanguardia parigina. Poco dopo Soffici si spostò sulle posizioni classicistiche della «Ronda».

■ Si ebbe anche qualche prova interessante, come Retroscena (1915), un romanzo di Mario Carli (18881935): l’opera comincia narrando la scrittura di un romanzo; quindi si arresta e, per contestarne la falsità, ne offre un brano, presentando più avanti un’analitica ricostruzione delle fasi di elaborazione. Sembra di leggere un’anticipazione di certi libri di Borges o di Calvino, dove il «farsi» del romanzo si sposa con una riflessione critica in proposito.

■ Più vicini al nucleo del Futurismo marinettiano furono altri autori, tra cui: • il milanese Paolo Buzzi (1874-1956), autore di Aeroplani (1909) e di Versi liberi (1913); • Enrico Cavacchioli (1885-1954), poeta e drammaturgo; • Omero Vecchi (1888-1966), conosciuto con lo pseudonimo di Luciano Folgore: nei versi liberi di Il canto dei motori (1912) celebrò la civiltà delle macchine; in Ponti sull’oceano (1914) macchine e velocità si rincorrono, nell’intento di accorciare ogni distanza, liberando l’inconscio; • l’estroso napoletano Francesco Cangiullo (18881977), imitatore del grottesco palazzeschiano (Le cocottesche, 1912) e poi sperimentatore fonovisivo (parole + immagini) in Caffé concerto (1916, 1918) e in Poesia pentagrammata (1923).

I prosatori del Futurismo ■ Il Futurismo ebbe anche i suoi prosatori, raccolti attorno alle riviste «La Difesa dell’Arte» e «Il Centauro».

■ Da ricordare è anche il «romanzo sintetico» Sam Dunn è morto (1915) di Bruno Corra (1892-1976), che narra una vicenda di medium e di psiche turbata. In seguito lo stesso Corra passò disinvoltamente dall’avanguardia alla scrittura di romanzi popolari.

Un bilancio del Futurismo ■ Il Futurismo italiano ebbe molti limiti: la violenza dei suoi proclami, le «serate» troppo gridate, l’approssimazione di certe proposte, che negavano la tradizione senza realmente conoscerla. Soprattutto, per realizzare il programma dei vari «manifesti» di Marinetti occorrevano veri artisti, mentre i futuristi rimasero, per lo più, dei comprimari. ■ Ciononostante, il Futurismo rimane un fenomeno degno del massimo interesse e che infatti continua a suscitare studi e analisi critiche. Ebbe intuizioni geniali e anche importanti realizzazioni, specie nell’ambito delle arti figurative, con Umberto Boccioni (18821916), Gino Severini (1883-1966), Giacomo Balla (1871-1958). Più in generale, fu una grande avanguardia storica, una di quelle che maggiormente influirono sulla letteratura e sulla cultura contemporanee.

La seconda generazione futurista e nuove sperimentazioni Protetta dal fascismo, l’avanguardia futurista finì, con il tempo, per smarrire la sua originale carica di contestazione. Nella nuova generazione di poeti futuristi, attivi dopo il 1920, si segnalano comunque alcuni autori, come Alceo Folicaldi (Nudità futuriste, 1933) e Farfa (pseudonimo di Vittorio Tommasini), che in Noi, miliardario della fantasia (1933)

liberò un immaginario irridente, grottesco. Si ebbero anche sperimentazioni di «aeropoesia» (Aeropoema futurista della Sardegna di Gaetano Pattarozzi, 1939; Aeropoema futurista delle torri di Siena di Dina Cucini, 1943). Le volontà del regime incombevano: i poeti futuristi dovettero farsi cantori del potere (come in Studenti fascisti cantano

così di Emilio Buccafusca, 1936); alcuni intonarono l’«estetica della guerra» perfino durante la tragedia della Seconda guerra mondiale (Bombardata Napoli canta di Piero Bellanova, 1943; A passo romano, 1943, di Fortunato Depero). Più interessanti i Testi-poemi murali (1944) di Carlo Belloli, che anticipavano la «poesia concreta» delle avanguardie post-1945. 445

Monografia Raccordo

sione, l’eversione contro l’onorabilità borghese, le forme, dissacratorie e anche un po’ melanconiche, del «saltimbanco», del clown.

Contesto

Il Futurismo

L’AUTORE

FILIPPO TOMMASO MARINETTI ◗ Marinetti nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1876, da genitori italiani; nella città africana studiò in un collegio di gesuiti. Nel 1893 andò a Parigi, dove conseguì il baccellierato in lettere; la sua famiglia si trasferì a Milano, e Marinetti iniziò a spostarsi tra Milano e Parigi. Per compiacere il padre, s’iscrisse a legge a Pavia, ma si laureò a Genova nel 1899. ◗ Il suo esordio letterario avvenne nell’incandescente clima culturale dell’avanguardia parigina. Marinetti collaborò a varie riviste e compose in francese le prime opere: I vecchi marinai (1898, un poemetto in versi liberi con cui vinse un concorso poetico parigino), La conquista delle stelle (1902), Distruzione (1904), Re Baldoria (1905, una tragedia satirica rappresentata a Parigi nel 1909, con l’immagine finale del vampiro che sputa sangue sul pubblico); seguì nel 1908 La città carnale. Sono opere che celebrano la lotta, lo scontro, la modernità tecnologica, scritte in un linguaggio ipersimbolista, fatto di analogie, metafore e «immaginazione senza fili», come più tardi Marinetti la chiamò. ◗ Nel 1905 fondò a Milano, con Sem Benelli e Vitaliano Ponti, la rivista «Poesia», che nello stesso anno promosse un’inchiesta internazionale sul «verso libero». Marinetti teneva conferenze, letture poetiche, iniziative editoriali. Il 20 febbraio 1909 pubblicò in Francia, su «Le Figaro», il Manifesto del Futurismo, cui seguì nell’ottobre 1909 un secondo manifesto (dal titolo Uccidiamo il chiaro di luna!, pubblicato da «Poesia») e poi, nel 1912, il Manifesto tecnico della letteratura futurista. Applicò la nuova poetica in diverse opere: tra queste, il romanzo di colore africano Mafarka il futurista (1910, scritto originariamente in francese), che esalta la guerra, la volontà di potenza, il disprezzo della donna; La battaglia di Tripoli (1912), originato dalle corrispondenze giornalistiche sulla guerra di Libia per un quotidiano francese; il poemetto Zang Tumb Tumb

L’OPERA

LA CITTÀ CARNALE ◗ Pubblicato in francese nel 1908, La città carnale non appartiene, di per sé, alla fase propriamente futurista dell’autore, anche se la prepara da vicino.

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(1914), «parole in libertà» nate pure dalla sua attività d’inviato speciale in Turchia, durante la seconda guerra balcanica. ◗ A Milano, dove si era trasferito, Marinetti fu il leader indiscusso di un gruppo di giovani intellettuali con i quali approfondì la poetica del Futurismo, estendendola alle varie arti. Le loro chiassose «serate futuriste» degeneravano spesso in rissa e venivano interrotte dalla polizia. Nel gennaio-febbraio 1914 si recò in Russia per una serie di conferenze, accolte con successo. Nel 1915 sollecitò l’intervento italiano nella Prima guerra mondiale (Guerra sola igiene del mondo, 1915; E p. 56) e si arruolò volontario, dando ripetute prove di coraggio. ◗ Nel 1919 fu tra i fondatori dei Fasci di combattimento: il Futurismo incarnava l’anima rivoluzionaria del fascismo. Già nel 1920, però, accusò il fascismo di difendere le tradizioni e la chiesa. Nel 1924 si riaccostò al regime di Mussolini, suo amico personale; nel 1929 venne perciò nominato accademico d’Italia. Nel 1923 aveva sposato la scrittrice e pittrice Benedetta Cappa. Nel 1935 partecipò alla guerra d’Etiopia, che celebrò con il Poema africano (1937); rifiutò però di condannare in blocco l’arte borghese «degenerata», come pretendeva il fascismo. Nel 1942 raggiunse le truppe italiane in Russia; nel 1943 rientrò, stanco e malato, in Italia. Morì a Bellagio, sul lago di Como, il 2 dicembre 1944, per una crisi cardiaca. ◗ L’ultimo Marinetti aveva rielaborato la poetica futurista in opere più complesse e ambiziose, scritte in un linguaggio ricchissimo d’immagini, vicino al Surrealismo (come, per esempio, il poemetto Spagna veloce e toro surrealista, 1931). Molto moderni sono anche i racconti di Novelle con le labbra tinte (1930), che propongono finali diversi, che il lettore deve scegliere, ai vari intrecci proposti. Un godibile romanzo d’appendice è Lo Zar non è morto (1929).

◗ L’opera si compone di una serie di testi poetici (ditirambi, poemetti ecc.) ispirati ai nuovi temi della modernità; il più famoso è All’automobile da corsa.

Il Futurismo

All’automobile da corsa La città carnale Anno: 1908-21 Temi: • l’esaltazione della macchina • il brivido della velocità • l’identificazione uomo-macchina Il componimento venne scritto originariamente in francese nel 1908 (un anno prima, dunque, che nascesse ufficialmente il Futurismo). Fu poi parzialmente tradotto in italiano nel 1921, con il titolo di Lussuria – Velocità. In Italia l’«estetica della velocità» era stata celebrata, prima che da Marinetti, da Mario Morasso, il quale sin dal 1902 aveva pubblicato, sull’importante rivista fiorentina «Il Marzocco», vari articoli di esaltazione delle nuove macchine, come emblemi di potenza e di bellezza.

la macchina da corsa è paragonata a un grande cavallo d’acciaio, a cui l’autore attribuisce una voce, sia pure mostruosa

l’aggettivo contrasta fortemente, sul piano semantico, con il suo sostantivo

di nuovo la meta fora del cavallo, per rendere più dina mico un paesaggio tradizionale (in fondo ai boschi)

Veemente dio d’una razza d’acciaio, Automobile ebbrrra di spazio, che scalpiti e frrremi d’angoscia rodendo il morso con striduli denti... Formidabile mostro giapponese, dagli occhi di fucina,1 nutrito di fiamma e d’oli minerali, avido d’orizzonti e di prede siderali...2 io scateno il tuo cuore che tonfa diabolicamente, scateno i tuoi giganteschi pneumatici, per la danza che tu sai danzare via per le bianche strade di tutto il mondo!... Allento finalmente le tue metalliche redini,3 e tu con voluttà ti slanci nell’Infinito liberatore!4 All’abbaiare della tua grande voce5 ecco il sol che tramonta inseguirti veloce accelerando il suo sanguinolento palpito, all’orizzonte... Guarda, come galoppa, in fondo ai boschi, laggiù!... Che importa, mio dèmone bello? Io sono in tua balìa!... Prrrendimi!... Prrrendimi!... Sulla terra assordata, benché tutta vibri d’echi loquaci;

Schema metrico: versi liberi. 1. occhi di fucina: occhi rossi come il fuoco. Nella fucina si lavorano a caldo i metalli. 2. prede siderali...: gli astri sono la meta

ideale verso cui tende il volo della velocità. 3. metalliche redini: i vari meccanismi (acceleratore, freni, ingranaggi vari) che regolano la corsa dell’automobile. 4. nell’Infinito liberatore!: allude all’abo-

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lizione di spazio e tempo, resa possibile dalla velocità. 5. tua grande voce: il rombo del motore. L’automobile continua a essere trattata con analogie riprese dal mondo animale.

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Monografia Raccordo

1

Contesto

Filippo Tommaso Marinetti

Tra Ottocento e Novecento

il vocabolario concreto e violento è caratteristico del linguaggio futurista

la macchina assicura al poeta futurista una superiorità rispetto ai letterati del passato; nasce da qui l’ironia sul chiaro di luna

l’onomatopea serve non solo a imitare la realtà, ma anche a denunciare i limiti del linguaggio tradizionale

l’ebbrezza del volo si mescola al disprezzo per la vita quotidiana e per gli uomini comuni

sotto il cielo accecato, benché folto di stelle, io vado esasperando la mia febbre ed il mio desiderio, scudisciandoli a gran colpi di spada. [...]

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E a quando a quando6 alzo il capo per sentirmi sul collo in soffice stretta le braccia7 folli del vento, vellutate e freschissime... O montagne dai freschi mantelli turchini!... O bei fiumi che respirate beatamente al chiaro di luna! O tenebrose pianure!... Io vi sorpasso a galoppo su questo mio mostro impazzito!... Stelle! mie stelle! l’udite il precipitar8 dei suoi passi?... Udite voi la sua voce, cui9 la collera spacca... la sua voce scoppiante, che abbaia, che abbaia... e il tuonar de’ suoi ferrei polmoni crrrrollanti a prrrrecipizio interrrrrrminabilmente?... Accetto la sfida,10 o mie stelle!... Più presto!... Ancora più presto!... E senza posa, né riposo!... Molla i freni! Non puoi? Schiàntali, dunque, che il polso del motore centuplichi i suoi slanci! Urrrrà! Non più contatti con questa terra immonda! Io me ne stacco11 alfine, ed agilmente volo sull’inebriante fiume degli astri che si gonfia in piena nel gran letto celeste!

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Opere di F.T. Marinetti, a cura di L. De Maria e P.A. Jannini, A. Mondadori, Milano 1968-83

6. a quando a quando: di quando in quando. 7. le braccia: il vortice dell’aria prodotto dalla velocità della corsa cinge il guidatore come in un abbraccio. Si ricordi che le pri-

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me automobili erano tutte decappottabili. 8. il precipitar: il movimento precipitoso, il vorticoso girare delle ruote del mostro. 9. cui: che. È un costrutto di stampo ancora classicistico.

10. Accetto la sfida: la corsa dell’auto in gara con le stelle. 11. me ne stacco: è il momento dell’immaginario decollo verso il cielo, dopo che i freni dell’auto sono stati «mollati».

■ Le principali tematiche di questo componimento sono il brivido della velocità (l’ebbrezza del pericolo) e l’esaltazione del dio-macchina, il mio dèmone bello del v. 23. I due motivi saranno poi alla base del celebre Manifesto del Futurismo (febbraio 1909). Qui, tra l’altro, Marinetti celebrerà gli spericolati guidatori che sfidano il rischio in una folle corsa in automobile, aggrappati al loro volante come all’asse terrestre. ■ La devozione totale del poeta al «moderno» e alle sue divinità (la macchina, l’industria, la città) rovescia i rapporti tradizionali. La natura viene disprezzata, al punto che il tema del canto diviene il trionfo della macchina sopra di essa. «Tutta questa poesia è una fantasia di trionfo sui limiti della natura e il paesaggio diventa una sorta di fondale su cui si staglia la potenza trascorrente dell’automobile» (E. Gioanola). Si giunge così all’apoteosi finale e alla conquista delle stelle. ■ Per rappresentare in modo adeguato la vita trasformata dalla velocità, ogni cosa e sensazione vengono rapidamente dette e subito dopo scivolano via, altrettanto rapidamente. Sempre per dare l’impressione e l’emozione della velocità, Marinetti ricorre a un fitto impasto di similitudini e all’uso dell’onomatopea: spicca l’allitterazione sulla r (ebbrrra, frrremi, Prrrendimi, crrrrollanti a prrrrecipizio / interrrrrrminabilmente), un artificio fonico che vorrebbe tradurre con immediatezza il rombo tonante del motore.

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Individua nel testo gli epiteti riferiti all’automobile. Poi rifletti: • si può riscontrare in essi una qualche progressione? • Quale immagine complessiva della macchina ne scaturisce? 2. Quale significato possono avere, nel finale, la sfida alle stelle e il volo? Proponi una tua interpretazione della chiusa (max 5 righe). 3. Danza, galoppo, volo: sono alcuni dei termini di paragone che nel testo si riferiscono alla corsa dell’automobile. Rintracciali e verifica se ne esistono altri. 4. Leggendo questo componimento, quali sono gli aspetti di maggiore novità rispetto allo stile poetico tradizionale? Motiva la risposta con qualche citazione (max 10 righe). 5. Il componimento esalta la macchina in quanto tale; l’uomo appare sottomesso al grezzo dato della materia. Illustra il concetto con riferimenti al testo. 6. Lussuria – Velocità è il titolo che l’autore attribuì al componimento dopo averlo tradotto in italiano nel 1921. Perché, a tuo avviso, mutò il titolo originario? Ti sembra un cambiamento felice, e perché?

Le corse automobilistiche Nel Manifesto del Futurismo è ben visibile, nell’entusiasmo generale per la modernità e i suoi simboli, l’eco di quel mito della velocità e delle corse automobilistiche che, a inizio Novecento, era condiviso da folle imponenti ed entusiaste. Le prime corse automobilistiche su strada si svolsero in Francia dal 1877 in avanti; in Italia dal 1895. I modelli in gara erano costruiti come grosse e pesanti carrozze, con le ruote posteriori più alte. Le velocità medie si attestavano inizialmente sui 20 km/h. L’adozione dello pneumatico (a imitazione del modello di Dunlop per la ruota di bicicletta) consentì maggiori velocità e linee più filanti e aerodinamiche. Nel 1901 Daimler progettò per Mercedes un telaio tubolare basso e dotato di motore anteriore. Intanto si realizzavano magneti e candele per automobile. Già

nel 1899 venne superata la velocità dei 100 km/h sul chilometro lanciato. Tutto ciò comportò un considerevole aumento dei rischi per piloti e spettatori di corse automobilistiche. Da qui misure restrittive e la nascita dei primi circuiti negli autodromi.

■ Automobili da corsa dei primi anni del Novecento.

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Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Il Futurismo

Sguardi sulla società La nuova architettura tra ferro, acciaio e cemento armato La tecnica al servizio del progresso Verso il 1860-70 l’evoluzione della siderurgia – grazie ai sistemi di fusione ad altissime temperature – consegnò all’edilizia nuovi materiali costruttivi. Travi di ferro di enormi dimensioni e nuove leghe metalliche, come la ghisa e l’acciaio sorreggevano ponti, viadotti, stazioni, rendendo obsolete le strutture dell’architettura tradizionale, come l’arco e la volta. Un monumento della nuova «architettura del ferro» fu la Torre costruita a Parigi, in occasione dell’Esposizione universale del 1889, su progetto di Gustave Eiffel (1832-1923): con i suoi 300 metri, era all’epoca l’edificio più alto del pianeta. La costruzione si regge su quattro pilastri reticolari, che si raccordano in due piattaforme a 57 e poi a 115 metri di altezza, fino a unirsi in un unico traliccio. La Torre non fu smontata dopo l’Esposizione: la sua sagoma slanciata e protesa verso l’alto, simile ai piloni dei ponti, era divenuta parte del panorama parigino, simbolo di un progresso che pareva inarrestabile. ■ Auguste Perret, Garage di rue de Ponthieu, Parigi.

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■ La base della torre progettata da Gustave Eiffel a Parigi.

■ Louis Sullivan, Guaranty Building, Buffalo (Stati Uniti).

Cambia il volto delle grandi città Con l’acciaio furono costruiti, negli Stati Uniti, anche i primi grattacieli, progettati dagli architetti Dankmar Adler e Louis Sullivan (1856-1924), i maestri della «Scuola di Chicago». I grattacieli, sviluppandosi in altezza e sfruttando l’ascensore, appena inventato, ovviavano alla scarsità di terreno edificabile. Nel Guaranty Building di Buffalo (1894-95) la struttura portante è un’intelaiatura di acciaio: una specie di enorme gabbia di contenimento, con la quale l’edificio cresce in altezza come mai era stato possibile fare prima di allora. Come decorazioni per l’esterno, Sullivan riprese elementi classici (colonne con capitelli al pianterreno, l’arco a tutto tondo dei por-

tali, le finestre a oculo dell’ultimo piano). I primi edifici con cemento e armatura di ferro risalivano alla fine del Settecento, ma solo all’inizio del Novecento i calcoli scientifici delle strutture permisero lo sviluppo della nuova tecnica costruttiva del cemento armato. Il calcestruzzo (un impasto di cemento, sabbia, ghiaia e acqua, già noto ai romani) viene fatto colare in una gabbia metallica (armature che costituiscono internamente il sostegno del composto): i due materiali abbinati offrono la massima resistenza possibile. Il francese Auguste Perret (18741954) realizzò diversi edifici in cemento armato, tra cui il Garage di rue de Ponthieu (1905), a Parigi: la struttura, costruita con il nuovo materiale, è ben visibile all’esterno.

Il Futurismo

◗ Pubblicato nel 1914 nelle Edizioni futuriste di «Poesia», dopo qualche anticipazione su «Lacerba», il poemetto in prosa «parolibera» si divide in dieci parti; offre un resoconto «poetico» sulla guerra turco-bulgara (nota

come seconda guerra balcanica) del 1912, alla quale Marinetti assistette come inviato del giornale «Gil Blas». L’opera obbedisce ai precetti della rivoluzionaria maniera espressiva del Futurismo.

Filippo Tommaso Marinetti

2

Bombardamento Zang Tumb Tumb Anno: 1914 Temi: • il dinamismo, la violenza e la spettacolarità della guerra Il componimento offre una rappresentazione, in parte verbale e in parte visiva (con l’uso di neretti e maiuscole e con la particolare disposizione delle parole sulla pagina), del bombardamento subito nell’ottobre 1912 da Adrianopoli, una città turca, a opera dei bulgari. Il passo costituì «il cavallo di battaglia di Marinetti declamatore» (L. De Maria).

ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrare spazio con un accordo tam-tuuumb1 ammutinamento di 500 echi per azzannarlo sminuzzarlo sparpagliarlo all’infinito nel centro di quei tam-tuuumb spiaccicati (ampiezza 50 chilometri quadrati) balzare scoppi tagli pugni batterie tiro rapido Violenza2 ferocia regolarità questo basso grave scandere gli strani folli agitatissimi acuti della battaglia Furia affanno 5 orecchie occhi narici aperti attenti forza che gioia vedere udire fiutare tutto tutto3 taratatatata delle mitragliatrici strillare a perdifiato sotto morsi schiaffffi4 traak-traak frustate pic-pac-pum-tumb bizzzzarrie salti altezza 200 m. della fucileria Giù giù in fondo all’orchestra stagni 10 diguazzare5 buoi buffali pungoli carri pluff plaff impennarsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack ilari nitriti iiiiiii... scalpiccii tintinnii 3 battaglioni bulgari in marcia croooc-craaac [LENTO DUE TEMPI]6 15 7 8 Sciumi Maritza o Karvavena croooc craaac grida degli ufficiali sbataccccchiare come piatttti d’otttttone pan di qua paack di là cing buuum cing ciak [PRESTO] ciaciaciaciaciaak su giù là là intorno in alto attenzione sulla testa ciaack bello 1. tam-tuuumb: la prima di una lunga serie di onomatopee, che alludono alla violenza anche sonora dei bombardamenti. 2. Violenza: la lettera maiuscola fissa una pausa nella libera e sfrenata orchestrazione del testo, oltre a dare risalto alla parola. 3. che gioia... tutto: la somma delle sen-

sazioni visive, uditive e olfattive produce una sorta di ebbrezza. 4. schiaffffi: l’ortografia viene stravolta, ma in modo non arbitrario; Marinetti vuole sottolineare l’importanza del concetto, che è la violenza celebrata dal Futurismo. 5. diguazzare: sguazzare.

6. [LENTO DUE TEMPI]: una notazione musicale; Marinetti vuole dire che esiste un’analogia tra la bellezza estetica del bombardamento e la bellezza di un concerto sinfonico. 7. Sciumi: città bulgara. 8. Maritza: fiume presso Adrianopoli.

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Contesto

ZANG TUMB TUMB

Monografia Raccordo

L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento

Vampe vampe vampe

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vampe vampe

vampe ribalta dei forti die-

vampe

vampe 25 vampe9 10 tro quel fumo Sciukri Pascià comunica telefonicamente con 27 forti in turco in tedesco allò Ibrahim Rudolf allô11 allô attori ruoli echi suggeritori scenari di fumo foreste applausi odore di fieno fango sterco non sento più i miei piedi gelati odore di salnitro12 30 odore di marcio Timmmpani flauti clarini dovunque basso alto uccelli cinguettare beatitudine ombrie cip-cip-cip brezza verde mandre don-dan-don-din-béèè tam-tumb-tumb tumb-tumb-tumb-tumb-tumb Orchestra pazzi bastonare professori d’orchestra questi bastonatissimi suooooonare suoooooonare Graaaaandi fragori non cancellare precisare ritttttagliandoli rumori più piccoli minutisssssssimi rottami di 35 echi nel teatro ampiezza 300 chilometri quadrati Fiumi Maritza Tungia13 sdraiati 14 Monti Ròdopi ritti alture palchi loggione 2000 shrapnels15 sbracciarsi esplodere fazzoletti bianchissimi pieni d’oro Tum-tumb 2000 granate protese strappare con 40 schianti capigliature tenebre zang-tumb-zang-tuuum tuuumb orchestra dei rumori di guerra16 gonfiarsi sotto una nota di silenzio tenuta nell’alto cielo pallone sferico17 45 dorato sorvegliare tiri parco aerostatico Kadi-Keuy Opere di F.T. Marinetti, cit. 9. vampe: la disposizione delle parole imita lo «spettacolo» del bombardamento. 10. Sciukri Pascià: il comandante delle forze turche. 11. allô: cioè “pronto” nelle conversazioni radiotelefoniche.

12. salnitro: il nitrato di potassio usato per preparare la polvere da sparo. 13. Tungia: un affluente del fiume Maritza. 14. Monti Ròdopi: catena dei Balcani a ovest di Adrianopoli. 15. shrapnels: un tipo di proiettili.

16. orchestra... guerra: i rumori della guerra vengono a comporre per il poeta una specie di concerto sinfonico (E nota 6). 17. pallone sferico: pallone aerostatico a uso militare.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il brano celebra il rito «igienico» della guerra, del quale vuole esprimere sulla pagina scritta tutta la forza dinamica. La violenza e la ferocia della guerra sono recepite da Marinetti come musica, come spettacolo bellissimo e purificatore. ■ Lo stile sostiene il messaggio: le «parole in libertà» servono a commentare come didascalie l’avvenimento guerresco. L’autore vuole rappresentare le sensazioni suggerite dal bombardamento nella maniera più «oggettiva» e fedele possibile. Non descrive, perciò, ma raccoglie con ossessiva 452

attenzione le impressioni, le immagini, i suoni e i colori di una giornata di guerra. Le forme sulla pagina imitano lo sconquasso provocato dai bombardamenti. Sono ripetuti ed evidenziati i sostantivi chiave, che esprimono le virtù e i valori che si vogliono celebrare. ■ Sul piano linguistico, spiccano tre fenomeni: • la mancanza di punteggiatura; • l’uso ossessivo dell’onomatopea, che diviene pienamente comprensibile solo se il brano viene letto ad alta voce e «recitato»;

LAVORIAMO SUL TESTO 1. A quale episodio storico si riferisce il testo? 2. Cerca in questa pagina tutti gli elementi utili a contestualizzare l’episodio: da cosa capisci che è una cronaca di

guerra? E da quali elementi puoi intuire dove si svolge e quali siano i contendenti? 3. Cerca di individuare nella pagina le possibili sequenze logiche e attribuisci a ciascuna un titolo. 4. Prova a scrivere, rispettando i criteri della sintassi tradizionale, una parafrasi del brano letto. 5. In quali momenti del testo risulta più evidente l’ideologia militarista che anima Zang Tumb Tumb? 6. Dal brano trapelano gli elementi tipici del rinnovamento espressivo del Futurismo: • un’ortografia libera; • una rivoluzione tipografica, con corsivi e neretti che svolgono la funzione di segnalatori; • lo sconvolgimento della sintassi; • le analogie; • le serie di sostantivi; • le vistose onomatopee. Illustra, con gli opportuni riferimenti testuali, ciascuno dei fenomeni citati.

Un genere futurista: il «manifesto» Una delle maggiori novità del Futurismo è l’adozione sistematica del «manifesto» come mezzo, contempora nea mente, d’intervento polemico, di progetto teorico, d’indicazione di obiettivi da perseguire. Il linguaggio dei manifesti futuristi accoglie le varie scritture dell’era industriale: programmi, bilanci e consuntivi aziendali, relazioni scientifiche, documenti di partito, piattaforme di rivendicazione sindacale. Non a caso i manifesti futuristi vengono definiti «tecnici». Sono di solito strutturati in tre parti (analisi della situazione, proposta teorica, individuazione degli strumenti utili) e guardano all’arte, nei suoi vari ambiti, come a un’attività programmabile e riproducibile. Un punto importante è che i manifesti futuristi si presentano come documenti collettivi e come una piattaforma comune, alla quale in seguito altri possono aderire. Presentandosi come «manifesti», essi annunciano un programma e lo fanno senza perdersi in argomentazioni razionali o esempi. Il linguaggio, fatto di frasi dirette e assertive, a passo di cari-

ca, senza sfumature, imita la «velocità», emblema stesso del Futurismo. I contenuti offrono spunti suggestivi: il manifesto è anche un testo creativo. Tuttavia lo stile impositivo, intimidatorio, nutrito di rumore, urlo, «schiaffo» e «pugno», impedisce una visione più meditata, capace di aggiustature e correzioni. Il più famoso dei manifesti futuristi è quello di fondazione, pubblicato da Marinetti prima in un volantino di due pagine, e poche settimane dopo su «Le Figaro» (febbraio 1909). Un altro celebre manifesto fu Uccidiamo il chiaro di luna!, uscito come volantino e poi, nell’ottobre del 1909, in «Poesia»: esso aggregava in una visione interdisciplinare letterati, pittori e musicisti. «Uccidere il chiaro di luna» significava uccidere la contemplazione e l’estasi, la poesia lirica e i suoi femminili languori. Tra gli altri manifesti si ricordano: il Primo manifesto politico (1909) e il Secondo manifesto politico futurista (1912); Contro Venezia passatista (1910), di Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo; il Manifesto dei pittori futuristi (1910); il

Manifesto tecnico della letteratura futurista, pubblicato come prefazione all’antologia I poeti futuristi (uscita a Milano per le Edizioni futuriste di «Poesia», 1912). Quest’ultimo Manifesto tecnico suggerisce anche i modi applicativi del paroliberismo: secondo lo stile proprio del manifesto futurista, la scrittura viene cioè utilizzata in funzione «attiva», come spinta all’agire. Un suo seguito è l’altro manifesto marinettiano Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in libertà (1913).

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Monografia Raccordo

• infine l’uso dell’accumulo verbale: incontriamo serie di verbi all’infinito (sventrare, balzare, scandere ecc.), sequenze di vocaboli che si richiamano per analogia (azzannarlo, sminuzzarlo, sparpagliarlo; oppure alture, palchi, loggione). ■ Malgrado tutto Marinetti non riesce però a ricorrere in maniera esclusiva alle «parole in libertà». • Nel testo incontriamo infatti frasi di sapore tradizionale (non sento più i miei piedi gelati), incentrate su quell’«io» che, in teoria, la sua poetica rifiuta. • L’autore vorrebbe eliminare gli avverbi, e invece si lascia sfuggire un «comunica telefonicamente». • La stessa caduta della punteggiatura è compensata dall’uso degli spazi bianchi, che hanno, in fondo, la medesima funzione di scandire i tempi della lettura.

Contesto

Il Futurismo

L’AUTORE

ALDO PALAZZESCHI ◗ Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Giurlani) nacque a Firenze nel 1885; diplomatosi ragioniere, frequentò poi una scuola di recitazione. Lavorò per qualche tempo come attore, ma presto la passione per le scene cedette a quella per la letteratura. Frequentò i poeti crepuscolari romani (Corazzini, Moretti, Govoni) e pubblicò a proprie spese le prime raccolte di poesia: I cavalli bianchi (1905), Lanterna (1907), Poemi (1909); come editore scelse il nome di Cesare Blanc... il suo gatto. Nel 1908 esordì come narratore, con il racconto Riflessi (poi ribattezzato Allegoria di novembre). ◗ Intanto Palazzeschi si avvicinava all’avanguardia futurista. Sulla rivista «Poesia» uscirono le liriche di L’incendiario (1910); una sperimentazione in parte futurista sorregge anche il romanzo Il codice di Perelà (1911), un piccolo capolavoro, tra fiabesco e grottesco. Nel 1914, sulla rivista futurista «Lacerba», Palazzeschi pubblicò un proprio manifesto di poetica futurista, Il controdolore. I suoi contatti con l’avanguardia italiana (Papini, Soffici) e straniera (Picasso, Apollinaire, Braque, Matisse) furono intensi, ma non vincolanti. ◗ Divergenze sull’intervento italiano nella Pri-

L’OPERA

L’INCENDIARIO ◗ La raccolta L’incendiario fu pubblicata nel 1910 e poi in seconda edizione nel 1913, accresciuta con una scelta di versi di altre precedenti raccolte. ◗ L’opera segna il momento più «futurista» della produzione lirica di Palazzeschi. Tuttavia in lui il Futurismo si presenta con una caratteristica nota di divertita ironia (e spesso di autoironia), che alleggerisce la tensione della protesta, pur lasciando intatta la carica di novità dei contenuti. Interessante la sperimentazione formale, di linguaggio e di metrica, at-

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ma guerra mondiale lo allontanarono da Marinetti. Palazzeschi fu richiamato a Firenze in servizio militare: l’esperienza rafforzò il suo pacifismo, riassunto nel libro-diario Due imperii... mancati, in cui la guerra diviene fonte di disgusto e di umiliazione. In seguito visse in disparte, a Firenze, da antifascista, con qualche ritorno a Parigi. Scrisse molto: il romanzo grottesco La piramide (1926) in forma di fiaba; i racconti di Stampe dell’800 (1932), ispirati alle memorie d’infanzia; il romanzo Le sorelle Materassi (1934); i racconti grotteschi e insieme malinconici di Il palio dei buffi (1937). ◗ Nel 1941 si trasferì a Roma, dove si riavvicinò al cattolicesimo. Toni più pacati segnano i romanzi I fratelli Cuccoli (1948) e Roma (1953). Solo l’ultimo Palazzeschi recuperò la sua vena primitiva, divertita e irridente, nelle novelle di Il buffo integrale (1966) e nei romanzi Il doge (1967), Stefanino (1969), Storia di un’amicizia (1971). Il ritorno alla poesia fu segnato nel 1968 da Cuor mio (alcune liriche sono in francese), cui seguì nel 1972 Via delle cento stelle, in cui si legge: «muoiono i poeti / ma non muore la poesia / perché la poesia / è infinita / come la vita». Morì a Roma nel 1974, quasi novantenne.

tuata nei vari componimenti. Per un ritratto letterario di Palazzeschi poeta si veda un bell’articolo di Massimo Barile sul sito www.club. it/autori/rivista/132-133/articolo.html: «La sua ilarità e la sua abilità da poeta giocoliere non possono che condurlo ad utilizzare per la sua denuncia la figura del paradosso, per dimostrare che l’unica forma di poesia che abbia un senso è quella priva di senso: è inevitabile la conseguente necessità di ripartire da zero, dal candore primitivo, dall’istinto e dall’ingenuità fanciullesca».

Il Futurismo

E lasciatemi divertire! L’incendiario Anno: 1910 Temi: • la difficile condizione dei poeti nella società attuale • l’inutilità della poesia e la scelta di «giocare» con essa • il divertimento del poeta È il componimento più interessante della raccolta, scintillante per le invenzioni linguistiche e divertente per la dissacrazione operata dal giovane scrittore fiorentino ai danni della figura tradizionale del poeta. La maschera del buffone, del clown, era stata già assunta da Palazzeschi in un’altra sua celebre poesia giovanile, Chi sono? (1909), che così si concludeva: «Chi sono? / Il saltimbanco dell’anima mia».

il poeta-clown intona subito la nota dominante, strimpellando suoni senza senso. Le onomatopee non sono casuali, però: qui ricorrono, simmetricamente, solo la i e la u

ormai il poeta-vate o il poeta-superuomo si riducono a un poveretto, anzi, a un fesso (v. 37)

parlano adesso i lettori-spettatori; la sintassi di Palazzeschi è davvero rapidissima

Tri tri tri, fru fru fru, ihu ihu ihu, uhi uhi uhi! Il poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente! Non lo state a insolentire,1 lasciatelo divertire poveretto, queste piccole corbellerie2 sono il suo diletto.

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Cuecù rurù, rurù cucù, cuccuccurucù!

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Cosa sono queste indecenze? Queste strofe bisbetiche? Licenze, licenze, licenze poetiche!3 Sono la mia passione.

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Farafarafarafa, tarataratarata, paraparaparapa, laralaralarala! Schema metrico: composizione libera, vagamente strutturata in forma di «canzonetta»; è composta di 10 strofe di varia lunghezza. I versi sono spesso settenari a rima alterna o baciata.

1. insolentire: insultare. 2. corbellerie: sciocchezze. 3. licenze poetiche: la libertà formale che consente al poeta di non obbedire ciecamente alle regole. Qui però Palazzeschi al-

lude ai poeti da strapazzo, che non sanno far quadrare i conti di prosodia e metrica e si giustificano con le licenze poetiche.

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Monografia Raccordo

3

Contesto

Aldo Palazzeschi

Tra Ottocento e Novecento

cioè è poesia fatta con gli avanzi e le scorie della poesia tradizionale

la nuova definizione del poeta sembra scaturire da un vivace dialogo a botta e risposta tra lo scrittore e il pubblico

così pure fa il poeta: scrive, senza sapere cosa

Sapete cosa sono? Sono robe avanzate, non sono grullerie,4 sono la spazzatura delle altre poesie.

25

Bubububu, fufufufu. Friu! Friu!

30

Ma se d’un qualunque nesso son prive, perché le scrive quel fesso? Bilobilobilobilobilo blum! Filofilofilofilofilo flum! Bilolù, Filolù, U. Non è vero che non voglion dire voglion dire qualcosa. Voglion dire... come quando uno si mette a cantare senza saper le parole. Una cosa molto volgare.5 Ebbene, così mi piace di fare. Aaaaa! Eeeee! Iiiii! Ooooo! Uuuuu! A! E! I! O! U!

nuova obiezione da parte dei lettoriascoltatori, sempre più scandalizzati; il gran foco richiama l’idea romantica dell’ispirazione poetica come incendio

456

40

45

50

55

Ma giovinotto, ditemi un poco una cosa, non è la vostra una posa di voler con così poco tenere alimentato un sì gran foco?6

4. grullerie: fesserie, sciocchezze. 5. volgare: comune.

35

6. gran foco: il grande impegno richiesto dalla poesia.

60

65

Ma come si deve fare a capire? Avete delle belle pretese, sembra ormai che scriviate in giapponese.8 Abì, alì, alarì. Riririrì! Rì.

Monografia Raccordo

secondo un’idea tradizionale dell’arte, l’artista deve farsi capire; ma l’artista d’avanguardia non ragiona così

Huisc... Huiusc... Huisciu... sciu sciu, Sciukoku7... Koku koku, Sciu Ko Ku.

Contesto

Il Futurismo

70

75

Lasciate pure che si sbizzarisca, anzi è bene che non lo finisca.9 Il divertimento gli costerà caro, gli daranno del somaro.

la polemica contro la cultura ufficiale ritrae, spassosamente, i tradizionalisti mentre origliano alla porta del poeta d’avanguardia

ecco la sintesi di questa lirica stramba: i poeti non hanno più nulla da dire

Labala falala falala eppoi lala. Lalala lalala.

80

Certo è un azzardo un po’ forte, scrivere delle cose così, che ci son professori oggidì a tutte le porte.

85

Ahahahahahahah! Ahahahahahahah! Ahahahahahahah!

90

Infine io ho pienamente ragione, i tempi sono molto cambiati, gli uomini non dimandano10 più nulla dai poeti, e lasciatemi divertire!

95

E. Sanguineti (a cura di), Poesia del Novecento, Einaudi, Torino 1969 7. Sciukoku: Scikoku è una delle isole maggiori dell’arcipelago giapponese. La lieve storpiatura del nome vuol denunciare la falsa vanteria di chi fa mostra di sapere il giapponese. 8. in giapponese: nei primi anni del Novecento era vivo in Europa il gusto di certa

poesia giapponese (A. Yosano, N. Sasaki). Il poeta parodizza questa moda: basta un suono inedito o un richiamo esotico, perché certi verseggiatori si possano atteggiare ad artisti originali. 9. non lo finisca: che continui cioè nel suo gioco.

10. non dimandano: non domandano. Qui Palazzeschi sembra anticipare i famosi versi di Montale «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (Non chiederci la parola, E Tomo B).

457

Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il componimento è costruito come un dialogo di stampo teatrale, quasi una pantomima. Un veloce scambio di battute oppone il poeta a un immaginario pubblico, che liberamente interloquisce con lui. All’inizio di ogni strofa compaiono suoni senza significato, oppure onomatopee. Seguono, nei versi successivi, le voci del poeta (che difende il proprio divertimento) e dei suoi interlocutori anonimi (che glielo contestano). Queste voci sono a volte isolate, a volte mescolate tra loro: ruoli e punti di vista s’intrecciano bizzarramente. In sottofondo, una divertita girandola di fonemi propone una specie di commento «canoro» e «musicale» a queste battute di dialogo. ■ Lo scopo dichiarato dall’autore è divertirsi. Tale motivo chiave viene enunciato fin dal v. 5, il primo del testo ad avere un significato (Il poeta si diverte); sarà ripreso più volte nel corso del componimento (v. 9, v. 78, e con varianti lessicali ai vv. 51 e 76); lo ritroviamo infine nella chiusa (e lasciatemi divertire!, v. 96). «Divertirsi», per Palazzeschi, significa giocare con le forme della tradizione letteraria e con le stesse parole, ridotte a suono elementare, a sberleffo. Al pubblico borghese, che protesta contro le indecenze e le strofe bisbetiche della sua poesia, il poeta oppone la libertà di fare ciò che più gli aggrada, persino la libertà di riutilizzare la roba avanzata, la spazzatura delle altre poesie. L’impertinente filastrocca prende di mira i benpensanti, i professori, chi ancora identifica la poesia in un gran foco divino, o la ritiene portatrice di valori e di significati. ■ E lasciatemi divertire! ha il ritmo delle filastrocche infantili, con i suoi versi brevi e brevissimi, spesso in rima baciata, e con le sue frequenti e comiche onomatopee. Siamo all’opposto dell’«ornato» retorico dannunziano, all’epoca lo stile più prestigioso, attento alla forma e alle sue raffinatezze «sublimi». La sintassi è quella tipica del parlato (come quando uno si mette a cantare...; che ci son professori...): si spiegano così i rapidi passaggi dalla terza singolare (il poeta si diverte, v. 5) al plurale (Cosa sono queste indecenze?, v. 16; Sono la mia passione, v. 20), fino al voi del v. 72 (sembra ormai che scriviate in giapponese).

458

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Perché il poeta prevede che sarà chiamato somaro? Da chi si aspetta critiche? ....................................................................................................... ....................................................................................................... 2. La struttura del testo è quella di un dialogo quasi teatrale: • rintraccia i segnali di questo dialogo; • precisa inoltre chi sono gli interlocutori che intervengono di volta in volta. 3. Solo nella chiusa viene meno il tono ironico del componimento: perché? ....................................................................................................... ....................................................................................................... 4. Individua nel testo tutti i segnali del divertimento e spiegali alla luce della poetica palazzeschiana. 5. La poesia, a un certo punto, viene definita la spazzatura / delle altre poesie: in che senso? ....................................................................................................... ....................................................................................................... 6. Rintraccia le altre espressioni ironiche con cui l’autore definisce la propria arte. 7. Ritrova quante più rime (anche rime al mezzo) riesci; indica in che modo esse concorrano a rafforzare il motivo della «poesia inutile», della «poesia-spazzatura». 8. Il discorso, dice Palazzeschi, si sviluppa separato da un qualunque nesso (v. 34). Non solo il poeta può fare a meno del mondo reale, della società e del pubblico; può fare a meno anche del senso e dello scopo. Proponi su questo punto un tuo commento scritto, in rapporto alla nuova visione della letteratura che matura a inizio Novecento (max 20 righe). 9. E lasciatemi divertire! è compreso in una raccolta intitolata L’incendiario: ti sembra un titolo appropriato, in rapporto al testo? Motiva in breve la risposta. ....................................................................................................... .......................................................................................................

VERIFICA

1

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.

1. 2.

Il Futurismo fu fondato in Francia. Anche D’Annunzio ebbe una fase futurista, prima di un estetismo più letterario. Il Futurismo s’interessava non solo di arte, ma anzitutto di costume sociale, tecnica, politica ecc. Una delle riviste che diffusero la poetica del Futurismo fu la fiorentina «Lacerba». Nel 1905 Marinetti pubblicò a Parigi il Manifesto del simbolismo. Nel suo famoso Manifesto Marinetti propone di distruggere musei e biblioteche.

3.

4. 5. 6.

2

V

2. V

F

V

F

V

F

5

Rispondi alle seguenti domande.

V

F

1.

V

F

2.

Quali artisti russi rimasero influenzati dalla poetica futurista? Illustra in breve in che cosa consiste l’anima eclettica del Futurismo. (max 5 righe) Spiega quale ruolo che ebbe la rivista «Poesia» per le origini del Futurismo. (max 5 righe) Ricordi il nome di alcune riviste futuriste? Cita i maggiori prosatori del Futurismo e le loro opere. Quali rapporti intrattenne il Futurismo con il fascismo? (max 5 righe) Esponi limiti e meriti del Futurismo. (max 10 righe) Riassumi le tappe principali della carriera letteraria di Palazzeschi, citando i titoli più importanti (max 10 righe). Quali fonti culturali costituirono il retroterra del Futurismo? (max 10 righe)

Collega ciascun autore alla rispettiva opera; fai attenzione all’intruso. 1 2 3 4 5 6 7

Folgore Marinetti Palazzeschi Campana Covoni Buzzi Soffici

a. b. c. d. e. f.

Aeroplani Mafarka il futurista Chimismi lirici Il canto dei motori L’incendiario Rarefazioni e parole in libertà

3

Individua l’intruso per ciascuno dei seguenti raggruppamenti.

1.

Titoli di «manifesti» futuristi a Uccidiamo il chiaro di luna! b Guerra sola igiene del mondo c Manifesto del Futurismo d Manifesto tecnico della letteratura futurista Tendenze della poetica futurista a futurolatria b pacifismo c paroliberismo d modernolatria

2.

F

d un poemetto composto durante l’attività di inviato speciale in Turchia nella seconda guerra balcanica Oltre a Marinetti, che esaltò i temi della macchina e della velocità, alla diffusione del Futurismo contribuirono anche a Mario Morasso b Gabriele D’Annunzio c i poeti crepuscolari d Benedetto Croce

4

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte.

1.

L’opera di Marinetti Zang Tumb Tumb si presenta come a un poemetto che narra le vicende della guerra di Libia b un romanzo ambientato nell’antica Adrianopoli c un diario personale dell’autore, steso rapidamente in forma di appunti

3. 4. 5. 6. 7. 8.

9.

PER L’ESAME DI STATO 1.

2.

3.

Illustra la poetica che ispira le due parole d’ordine del Futurismo: «parole in libertà» e «immaginazione senza fili» (max 15 righe). Riassumi le novità tematiche, linguistiche e metriche dei poeti crepuscolari (E p. 460) e degli scrittori futuristi rispetto alla tradizione lirica italiana; presta particolare attenzione alla tematica crepuscolare delle «piccole cose», alle «parole in libertà» e al tema della «modernità» dei futuristi (max 20 righe). Nella poesia E lasciatemi divertire! Palazzeschi riassume in modo scherzoso la difficile condizione dell’artista moderno, che la società ritiene inutile rispetto alle proprie esigenze. In quali altri autori o testi coevi, sia di prosa sia di poesia, hai ritrovato le medesime tematiche? Mettili a confronto, anche per verificare la somiglianza o la diversità delle varie reazioni (max 20 righe). 459

Contesto

Il Futurismo

Monografia

L’età contemporanea

Raccordo I poeti crepuscolari

La denominazione e la poetica Giuseppe Antonio Borgese, 1910



1

definizione spregiativa: poesia «crepuscolare» tramonto della tradizione poetica

=

MA

“ i crepuscolari si accorgono che non è più possibile una poesia elevata



cercano perciò un’ultima occasione di originalità

460





attraverso TEMI nuovi

attraverso FORME nuove

la poetica delle «piccole cose»

una poesia-in-prosa, di tono impoetico

■ I poeti «crepuscolari» costituiscono, insieme ai futuristi, l’avanguardia letteraria più interessante attiva in Italia durante l’età giolittiana. ■ L’etichetta di «poesia crepuscolare» fu coniata con intento dispregiativo dal critico e romanziere Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952). Recensendo sul quotidiano «La Stampa» del 1° settembre 1910 tre raccolte poetiche uscite in quell’anno – ovvero Poesie scritte col lapis di Marino Moretti (1885-1979), Poesie provinciali di Fausto Maria Martini (1886-1930) e Sogno e ironia di Carlo Chiaves (1882-1919) – Borgese parlò della loro poesia come di «una voce crepuscolare, la voce di una gloriosa poesia che si spegne». La metafora del «crepuscolo» serviva a indicare spazi che si chiudevano, piuttosto che aprirsi al nuovo; i poeti «crepuscolari» confermavano infatti, secondo Borgese, il generale declino della poesia italiana, la cui ultima voce era stata, a suo avviso, quella di D’Annunzio.

La poetica delle «piccole cose» ■ Ciò che caratterizza la poetica crepuscolare sono anzitutto i temi, incentrati su «piccole cose»: Guido Gozzano parla delle «buone cose di pessimo gusto», Sergio Corazzini delle «povere piccole cose». I poeti crepuscolari ritraggono gli angoli della provincia, fiori appassiti, foglie e piogge d’autunno, interni di abitazioni borghesi, orti chiusi e pallidi soli. Ancora: la farmacia del paese, corsie d’ospedale, stazioni e vecchi edifici abbandonati, i poveri infermi e i convalescenti, suore e conventi, la cappella solitaria, il fanciullo malato. Cantano stati d’animo come la malattia e l’attesa del morire, la malinconia e l’assenza, l’impossibilità di amare, il tedio domenicale. ■ Tematiche simili erano già presenti sia in Myricae (1891) di Pascoli (E p. 376) sia nel Poema paradisiaco (1893) di D’Annunzio. Esaminiamo i due casi. • Per quanto riguarda Pascoli, al poeta-fanciullo le «piccole cose» sembrano le sole davvero «grandi» e poetiche; diventano i segnali del mistero in cui il «fanciullino» si aggira e che la poesia deve sforzarsi di ricreare. Invece i crepuscolari accettano nella loro poesia le «povere piccole cose» proprio perché restano «piccole» e «povere»: la poesia non le trasforma in sublimi. • D’Annunzio, nel Poema paradisiaco, canta gli oggetti quotidiani: ma solo perché per lui, incontentabile sperimentatore, essi sono una delle forme possibili di bellezza. Invece i crepuscolari non accarezzano le «buone cose di pessimo gusto» per la loro bellezza; in ma-

no loro, esse diventano esili simboli della precarietà dell’esistenza, della mancanza di vita e di ideali.

Una silenziosa rivoluzione formale ■ Oltre ai temi, innovativi sono anche il linguaggio e le forme dei poeti crepuscolari. Il loro è un linguaggio sfumato, chiaroscurale, sospeso tra l’ironico e il sentimentale. Non rinunciano alla liricità, allo stile, o alla «letteratura»: anzi, nei loro testi, specie in quelli di Gozzano, resiste una tessitura di rime, talune alla fine del verso (e quindi ben visibili), altre nascoste nel tessuto dei suoni. Parole umili, domestiche, quasi gergali, si alternano a parole e immagini più colte. In più, nelle liriche crepuscolari si nota una fitta rete di allusioni e rimandi ad altri testi e poeti: ma è un dialogo che stravolge e «parodizza» i testi di altri autori, come D’Annunzio o alcuni poeti simbolisti europei (in particolare il belga Maurice Maeterlinck, 1862-1949). ■ Sintassi e metrica danno vita a un ritmo lento e monotono. Le liriche crepuscolari assumono le forme di una poesia-in-prosa, talvolta assomigliano a canzonette infantili. È un altro elemento di grande originalità. Pascoli e D’Annunzio avevano utilizzato metri ancora «chiusi», strofe e rime ricorrenti. I crepuscolari (soprattutto Corazzini e Govoni) sono invece tra i primissimi, in Italia, ad adottare in certe occasioni il verso libero (ciascun verso sta a sé, slegato da strofe e da rime), che sarà la conquista principale, sul piano tecnico, della lirica novecentesca. ■ Gozzano, il maggiore dei crepuscolari, sembra fare eccezione. Infatti è apparentemente ligio alle regole, tanto che adotta misure metriche più regolari. Sembra: perché in lui è forte la volontà di contestazione e di parodia della tradizione. In mano sua la rima può corrompersi fino a incontri impensabili: per esempio, nel poemetto La Signorina Felicita, accade che Nietzsche (il profeta della «volontà di potenza») sia fatto rimare con le più prosaiche, banalissime camicie! ■ Abbassare il tono poetico, o usare una sintassi semplice ed elementare, costituiva, per i crepuscolari, un’ultima occasione per essere originali sul piano letterario: il sublime era stato tutto sfruttato dai poeti precedenti; rimaneva aperta la via di cercare la poesia nei toni «bassi», nella non-poesia. Allo stesso criterio risponde, sul piano tematico, il canto delle «piccole cose»: «altro non è rimasto da dire dopo che i sommi poeti della tradizione recente e remota hanno esaurito ogni altra possibilità di canto» (G. Bàrberi Squarotti).

461

Monografia Raccordo

Una definizione riduttiva

Contesto

I poeti crepuscolari

Tra Ottocento e Novecento

2

I gruppi e i protagonisti due scuole crepuscolari

a ROMA ◗ Fausto Maria Martini ◗ Alberto Tarchiani

◗ Corrado Govoni

Sergio CORAZZINI

Guido GOZZANO

malinconia, infelicità

ironia

patetismo: in primo piano i sentimenti dell’io-poeta

distacco critico (ripudio di D’Annunzio)

Le due «scuole» crepuscolari ■ Non ci fu una sola «scuola» crepuscolare (termine pure utilizzato da Borgese), bensì due: • la prima si radunò a Roma intorno a Sergio Corazzini (1886-1907), e comprendeva Fausto Maria Martini, Alberto Tarchiani e altri; • la seconda si formò a Torino intorno a Guido Gozzano (1883-1916) e comprendeva anche Carlo Chiaves e Nino Oxilia. ■ Significativamente, non vi fu un’attività di poeti crepuscolari a Milano, dove si stava affermando il Futurismo, né a Firenze, sede delle riviste d’avanguardia, come «Leonardo», «Lacerba», «La Voce» (E p. 483). Vi erano poi scrittori che svolgevano un’opera di collegamento tra i due gruppi: Corrado Govoni (1884-1965), amico dei romani, era un poeta stimato da entrambi i gruppi; Marino Moretti (1885-1979) e Aldo Palazzeschi (1885-1974) intrecciarono rapporti epistolari sia con Gozzano sia con Corazzini. ■ I poeti crepuscolari si sostenevano a vicenda; per esempio, Corazzini e Moretti recensirono I cavalli bianchi (1905) di Palazzeschi, Palazzeschi recensì Fraternità (1905) di Moretti ecc. Rispetto ai futuristi, però, mancò ai crepuscolari un caposcuola e un organizzatore come Marinetti; essi, inoltre, non avevano una rivista da cui diffondere le loro idee. Anche i loro interventi di poetica teorica furono scarsi e poco incisivi. Ciononostante, costituirono un vero gruppo, abba462

a TORINO ◗ Carlo Chiaves ◗ Nino Oxilia

◗ Aldo Palazzeschi ◗ Marino Moretti

stanza coeso per alimentare la coscienza di combattere una difficile battaglia contro la tradizione poetica e la letteratura ufficiale.

Due capiscuola: Corazzini e Gozzano ■ Riconoscere le due scuole crepuscolari serve a spiegare le notevoli differenze tra Corazzini e Gozzano: • Corazzini privilegiava il patetico (come Govoni): si dipinge come «un piccolo fanciullo che piange», così da muovere la compassione dei lettori; • Gozzano privilegiò invece l’ironia (come Moretti). Entrambi presero le mosse dai poeti del Simbolismo europeo, soprattutto dai belgi Maeterlinck e Rodenbach. Ricavarono da queste fonti temi (cose vecchie che sprigionano nostalgia) e stati d’animo (solitudine, abbandono). Anche il giovane Palazzeschi se ne appropriò, ma provando un gusto tutto suo a giocare con questi temi e oggetti poetici (E p. 454). Invece Corazzini prendeva sul serio tali modelli: ne faceva gli emblemi del suo stato d’animo di fanciullo malato, e quindi cantava attraverso di essi la propria infelicità. ■ Gozzano invece assunse questo materiale tematico con ironia; non prese mai veramente sul serio la tipica malinconia «crepuscolare». L’ironia è una barriera difensiva, che il poeta frappone tra sé e il mondo per non doverlo affrontare; infatti anche Gozzano non riesce a vivere normalmente, a rapportarsi con la vita e

sione. Si accorge, con dolore, di non poter essere D’Annunzio; e a tale dolore reagisce con la maschera dell’ironia, del distacco critico. ■ Rinunciando a prendersi sul serio, Gozzano non può compatirsi, come fa Corazzini. Non parla neppure di sé, come Corazzini. Per dire «io» adotta delle «maschere» narrative, personaggi in cui sdoppiarsi: l’avvocato in La signorina Felicita, l’intellettuale in Totò Merùmeni, e così via). La sua poesia, come dice Montale, è quella di «un eccezionale narratore o prosatore in versi», come risulta chiaro dal suo capolavoro, il poemetto L’amica di nonna Speranza.

3 Un bilancio del Crepuscolarismo CREPUSCOLARISMO

FUTURISMO

superamento silenzioso, ma efficace, della tradizione poetica

contestazione clamorosa della tradizione





entrambi sono alla radice della nuova letteratura italiana del Novecento

Crepuscolari o futuristi? ■ Intorno al 1910 poteva sembrare che la «scuola» crepuscolare fosse ormai all’esaurimento, a paragone della ben più coinvolgente e rumorosa avanguardia futurista. «Noi vogliamo cantare...», «Noi vogliamo distruggere...», proclamava Marinetti. Le parole in libertà, la distruzione della sintassi, l’«immaginazione senza fili» garantivano ai futuristi un ben maggiore credito.

Alle origini della poesia contemporanea ■ Oggi però la critica ha sottolineato la carica innovativa presente nella poesia crepuscolare. In modi meno

evidenti e clamorosi rispetto ai futuristi, ma non meno decisivi, essa superava una lunga tradizione e sapeva, contemporaneamente, indicare sviluppi decisivi per i poeti dell’età successiva. ■ Il già citato Montale riconoscerà i propri debiti rispetto a Gozzano, che, come Montale stesso scriverà nel 1951, gli fu maestro nel far «cozzare l’aulico con il prosaico», cioè nel suggerire significati nuovi dall’accostamento di parole comuni con termini più dotti e ricercati. ■ In sostanza il Crepuscolarismo appare, come scrive Stefano Jacomuzzi, «una delle componenti fondamentali della poesia italiana contemporanea». 463

Monografia Raccordo

con gli altri. Egli raffigura tale incapacità di vivere in un personaggio autobiografico, Totò Merùmeni, che dà titolo al poemetto omonimo (il titolo proviene da una commedia del latino Terenzio, Heautontimorùmenos, «il punitore di se stesso», ma il calco linguistico è approssimativo, come si vede: è un esempio di come Gozzano spesso parodizzi i poeti del passato). Totò/Gozzano è l’intellettuale partito da D’Annunzio (anche Gozzano ai suoi inizi si presentava esteriormente come un elegante dandy giunto dalla provincia nei salotti dell’alta borghesia torinese) e che solo dopo avere «attraversato» D’Annunzio (è un’immagine di Montale) ha potuto trovare la propria reale dimen-

Contesto

I poeti crepuscolari

L’AUTORE

GUIDO GOZZANO ◗ Gozzano nacque a Torino, da famiglia agiata, il 19 dicembre 1883. Nel 1903 s’iscrisse a Giurisprudenza, ma non portò a termine gli studi giuridici, preferendo i corsi di Lettere. Negli anni universitari partecipò alla vita culturale torinese e iniziò a scrivere versi, raccolti nel 1907 nel primo libro, La via del rifugio, che gli diede buona fama; si avverte ancora, in questi versi, la presenza dei modelli poetici dannunziani. ◗ Sempre nel 1907 cominciò un’inquieta relazione con la poetessa torinese Amalia Guglielminetti; dopo alterne vicende, il rapporto si trasformò in una calda amicizia, di cui resta testimonianza nel carteggio Lettere d’amore (pubblicato nel 1951). Già nel 1904 si erano manifestati i primi sintomi della tubercolosi; un violento attacco prostrò il poeta nel 1907. La sua vita proseguì tra soggiorni marini, in Liguria, e permanenze più brevi in montagna. ◗ Nel 1911 la malattia gli concesse una pausa; Gozzano soggiornò più a lungo a Torino, col-

L’OPERA

I COLLOQUI ◗ Pubblicata nel 1911, I colloqui è la raccolta di versi più matura di Gozzano e il capolavoro della poetica «crepuscolare». L’opera si presenta come un «libro» organico, strutturato in tre parti (Il giovanile errore, Alle soglie, Il reduce) dedicate ad altrettanti momenti dell’esistenza del giovane poeta. ◗ Nelle nove liriche della sezione Il giovanile errore (il primo componimento è quello epònimo: I colloqui) il poeta tratta «episodi di vagabondaggio sentimentale», seguendo l’illusione giovanile, con le sue promesse non mantenute. I sette testi della seconda serie, Alle soglie, illustrano gli impossibili amori che si offrono al poeta quando egli è «alle soglie», ovvero sotto la minaccia della morte (quest’ultima è la «Signora vestita di nulla»). In questa seconda serie sono compresi i celebri poemetti La signorina Felicita e

464

laborando con giornali e riviste («La Gazzetta del popolo», «La Stampa», «L’Illustrazione italiana»). Sempre nel 1911 uscì la raccolta di versi più importante di Gozzano, I colloqui. Per frenare il peggioramento della tubercolosi, nel febbraio del 1912 s’imbarcò con un amico per un viaggio a Ceylon e in India, unica esperienza esotica della sua vita. Del viaggio rimangono significativi ricordi in una serie di articoli usciti sul quotidiano «La Stampa» e poi raccolti nel volume Verso la cuna del mondo (pubblicato postumo, con prefazione di G.A. Borgese, nel 1917). ◗ Negli ultimi anni, affievolitasi l’ispirazione poetica, Gozzano si dedicò alla narrativa: nel 1914 pubblicò le fiabe per ragazzi di I tre talismani. Altri volumi uscirono postumi: le fiabe di La principessa si sposa (1917), i racconti di L’altare del passato (1918) e L’ultima traccia (1919). Lo scrittore morì a Torino il 9 agosto 1916, lasciando incompiuto un poemetto dal titolo Le farfalle e ispirato ai poeti didascalici del Cinque e Seicento.

L’amica di nonna Speranza. Chiude il libro la sezione Il reduce, che canta, nei suoi otto componimenti, la rassegnazione, l’indifferenza, l’accettazione di una vita senza spessore: sono i motivi della prima lirica di questo gruppo, Totò Merùmeni. ◗ Il libro, complessivamente, segna una svolta nella poesia italiana novecentesca: il poeta assume l’ottica del «borghese onesto», affettuosamente, ironicamente critico nei confronti della società del suo tempo. Soprattutto, Gozzano dà vita a una sorta d’ironica parodia nei confronti della poetica dannunziana («invece che farmi Gozzano / un po’ scimunito, ma greggio / farmi gabrieldannunziano: / sarebbe stato ben peggio!»), rifacendosi a un linguaggio comune e a un mondo limitatamente provinciale, raffigurato con realismo.

I poeti crepuscolari

L’amica di nonna Speranza I colloqui Anno: 1907 Temi: • attrazione e ripulsa per «le buone cose di pessimo gusto» • nostalgia ironica verso un passato ormai estinto • fragilità dell’esistenza umana e dell’amore Già raccolto in La via del rifugio (1907), il poemetto fu riproposto da Gozzano, con qualche variante, nel libro successivo, I colloqui (1911). Il poeta osserva una vecchia foto di famiglia, con una dedica alla nonna Speranza (all’epoca diciassettenne) dall’amica Carlotta: riprendono così vita, nel poemetto, gli oggetti del salotto (le buone cose di pessimo gusto), gli episodi insignificanti della cronaca familiare: tutto il mondo piccolo borghese ormai lontano e dimenticato, nel suo contesto storico e sociale, dell’età risorgimentale. 28 giugno 1850 «... alla sua Speranza la sua Carlotta...» (dall’album: dedica d’una fotografia)

il poeta osserva una fotografia ed elenca gli oggetti che vede nell’immagine; erano oggetti un tempo presenti nel salotto della nonna

l’atteggiamento estatico segue la moda romantica; ma il poeta ironizza alla fine Gozzano immagina di ritrovarsi nell’epoca in cui fu scattata la fotografia

I. impagliato ed il busto d’Alfieri,2 di Napoleone i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto), il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, un qualche raro balocco,3 gli scrigni fatti di valve,4 gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di cocco, Venezia ritratta a musaici,5 gli acquerelli un po’ scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,6 le tele di Massimo d’Azeglio,7 le miniature, i dagherottìpi:8 figure sognanti in perplessità, il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il9 salone e immilla10 nel quarzo le buone cose di pessimo gusto, il cùcu11 dell’ore che canta, le sedie parate a damasco chèrmisi12... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta! Loreto1

Schema metrico: distici (coppie di 2 versi) di novenari e ottonari raddoppiati (novenario + ottonario, ottonario + ottonario, ottonario + novenario, novenario + novenario). La prima parte di un verso rima per lo più con la seconda metà del successivo. Schema: abba. 1. Loreto: il nome comunemente dato ai pappagalli. 2. Alfieri: Vittorio Alfieri (1749-1803), il poeta ribelle ed eroe. 3. un qualche raro balocco: pochi giocattoli.

4. valve: gusci di conchiglie. 5. Venezia... musaici: le riproduzioni a mosaico con le immagini di Venezia, acquistate dai turisti per ricordo. 6. albi... arcaici: le raccolte (albi è un plurale letterario di album) decorate con immagini floreali, secondo un disegno fuori moda (arcaici). 7. Massimo d’Azeglio: uomo politico e scrittore piemontese (1798-1866). Si dedicò tra l’altro alla pittura. 8. dagherottìpi: o dagherrotipi (ma Gozzano sceglie volutamente, a scopo ironico, la forma più ricercata); erano le prime fo-

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tografie, incise su lamine di rame argentato. Venivano così chiamate dal nome dell’inventore, il francese J.M. Daguerre. 9. a mezzo il: in mezzo a. È un calco letterario dantesco. 10. immilla: riflette, moltiplica all’infinito; è una parola di Dante (Par. XXVIII, 93) e di D’Annunzio (Maia, 2441). Gli oggetti del salotto si rispecchiano sulla superficie dei pendenti del lampadario, fatti di vetro di quarzo duro. 11. cùcu: l’orologio a cucù che rintocca. 12. sedie... chèrmisi: sedie foderate con tela damascata color cremisi (un rosso vivo).

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Monografia Raccordo

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Contesto

Guido Gozzano

Tra Ottocento e Novecento

il poeta rievoca il periodo trascorso dalle due ragazze in collegio; è la qualità «narrativa» della poesia di Gozzano

tra le buone cose di pessimo gusto compaiono i versi tradizionali, con i loro aggettivi: Gozzano li irride in questi versi del Giordanello, l’innamorato invoca l’amata, affinché ricambi l’amore: parole e immagini provengono dal melodramma italiano

II. I fratellini alla sala quest’oggi non possono accedere che cauti (hanno tolte le federe13 ai mobili. È giorno di gala). Ma quelli v’irrompono in frotta. È giunta, è giunta in vacanza la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta! Ha diciassett’anni la Nonna! Carlotta quasi lo stesso: da poco hanno avuto il permesso d’aggiungere un cerchio14 alla gonna, il cerchio ampissimo increspa la gonna a rose turchine. Più snella da la crinoline15 emerge la vita di vespa.16 Entrambe hanno un scialle ad arancie a fiori a uccelli a ghirlande; divisi i capelli in due bande17 scendenti a mezzo le guancie. Han fatto l’esame più egregio di tutta la classe. Che affanno passato terribile! Hanno lasciato per sempre il collegio. Silenzio, bambini! Le amiche – bambini, fate pian piano! – le amiche provano al piano un fascio18 di musiche antiche. Motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto19 di Arcangelo del Leùto e d’Alessandro Scarlatti.20 Innamorati dispersi, gementi il core e l’augello,21 languori del Giordanello22 in dolci bruttissimi versi: ... caro mio ben credimi almen! senza di te languisce il cor! Il tuo fedel sospira ognor, cessa crudel tanto rigor!

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Carlotta canta. Speranza suona. Dolce e fiorita si schiude alla breve romanza di mille promesse la vita. O musica! Lieve sussurro! E già nell’animo ascoso23 d’ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro, lo sposo dei sogni sognati... O margherite in collegio sfogliate per sortilegio24 sui teneri versi del Prati!25 13. le federe: i rivestimenti in stoffa che proteggono l’imbottitura delle sedie e la superficie di tavoli e sofà. L’assenza delle federe segnala che siamo in un giorno di gala, cioè festivo. 14. un cerchio: è la gonna a campana (o «guardinfante»), tenuta allargata da alcuni cerchi di legno. Essa faceva risaltare per contrasto la snellezza della vita. 15. crinoline: la crinolina è la sottogonna ottocentesca, ampia e rigida; la portavano le giovani uscite dall’adolescenza. 16. di vespa: snella. 17. in due bande: i capelli lunghi sono divisi in due parti.

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18. un fascio: una raccolta. 19. fronzuto: pieno di fronzoli (lo stesso che artefatto detto subito prima). L’arte barocca (il secentismo) viene presa come sinonimo di ciò che è falso, artificioso. 20. Arcangelo... Scarlatti: Arcangelo Corelli (1653-1713) e Alessandro Scarlatti (1660-1725), musicisti; il primo è detto «del Leùto» dal nome del liuto, lo strumento prediletto. 21. il core e l’augello: il cuore e l’uccello. Sono parole frequenti nelle romanze e nelle arie dei libretti d’opera, che riprendevano il linguaggio del petrarchismo di moda. 22. Giordanello: Giuseppe Giordani, detto

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il Giordanello, napoletano, visse tra il 1751 e il 1798; fu autore di musica sacra e di melodrammi. 23. ascoso: nascosto, cioè nel profondo del cuore. È complemento predicativo di lo sposo promesso, che è poi, come nelle fiabe, il Principe Azzurro. 24. sfogliate per sortilegio: per indovinare le proprie sorti amorose; è il gioco del «m’ama, non m’ama» (un petalo per il sì e uno per il no). 25. Prati: Giovanni Prati (1814-84), poeta tardoromantico, famoso per i suoi teneri versi intrisi di sentimentalismo.

nella conversa zione gli argomenti si sovrappongono; le signore si interessano di moda il re Vittorio Emanuele II era un protagonista del Risorgimento, ma qui tutto viene ridotto a pettegolezzo mondano

III. Giungeva26 lo Zio, signore virtuoso, di molto riguardo, ligio al passato, al Lombardo-Veneto,27 all’Imperatore; giungeva la Zia, ben degna consorte, molto dabbene, ligia al passato, sebbene amante28 del Re di Sardegna... «Baciate la mano alli Zii!» – dicevano il Babbo e la Mamma, e alzavano il volto di fiamma29 ai piccolini restii. «E questa è l’amica in vacanza: madamigella Carlotta Capenna: l’alunna più dotta, l’amica più cara a Speranza.» «Ma bene... ma bene... ma bene...» – diceva gesuitico30 e tardo lo Zio di molto riguardo – «... ma bene... ma bene... ma bene... Capenna? Conobbi un Arturo Capenna... Capenna... Capenna... Sicuro! alla Corte di Vienna!31 Sicuro... sicuro... sicuro...» «Gradiscono un po’ di moscato?»32 – «Signora sorella magari...» E con un sorriso pacato sedevano in bei conversari.33 «... ma la Brambilla34 non seppe...» – «È pingue già per l’Ernani35...» «La Scala non ha più soprani...» – «Che vena36 quel Verdi... Giuseppe...» «... nel Marzo avremo un lavoro alla Fenice,37 m’han detto, nuovissimo: il Rigoletto.38 Si parla d’un capolavoro.» «... Azzurri si portano o grigi?» – «E questi orecchini? Che bei rubini! E questi cammei39...» – «la gran novità di Parigi...»40 «... Radetzky?41 Ma che? L’armistizio... la pace, la pace che regna...» «... quel giovine Re di Sardegna è uomo di molto giudizio!» «È certo uno spirito insonne, e forte e vigile e scaltro...» «È bello?» – «Non bello: tutt’altro.» – «Gli piacciono molto le donne...» «Speranza! (chinavansi42 piano, in tono un po’ sibillino43) Carlotta! Scendete in giardino: andate a giocare al volano.»44 Allora le amiche serene lasciavano con un perfetto inchino di molto rispetto gli Zii molto dabbene.

26. Giungeva: equivale a un “Ecco che giunge...”. S’introducono così i nuovi personaggi degli zii. 27. al Lombardo-Veneto: era politicamente un conservatore, fedele al governo austriaco e all’imperatore Francesco Giuseppe. 28. amante: ammiratrice. La Zia è invece ammiratrice di Vittorio Emanuele II di Savoia (il Re di Sardegna). 29. il volto di fiamma: è il viso dei piccoli fratelli di Speranza. Sono intimiditi dalla presenza degli adulti di molto riguardo, e si sottraggono perciò alle cerimonie (restii). 30. gesuitico: mellifluo, simulatore; tardo indica la studiata lentezza di parole e dei gesti. 31. alla Corte di Vienna!: lo zio ci tiene, insomma, a dire (o a fingere) d’esser stato alla corte imperiale. Vienna e l’Austria erano, al

tempo di Gozzano, i simboli di un mondo splendido, ma in irreversibile declino. 32. moscato: un vino dolce spumante. 33. conversari: conversazioni. 34. la Brambilla: Teresa Brambilla (181059), celebre soprano ottocentesco; si ritirò dalle scene giusto nel 1850. È troppo grassa (pingue) per sostenere la parte di Elvira nel melodramma citato di Verdi. 35. Ernani: l’opera di Verdi che trionfò alla Scala di Milano nel 1850. 36. vena: ispirazione, capacità. Quel Verdi... Giuseppe... è il grande compositore Giuseppe Verdi, che nel 1850 aveva appena raggiunto la notorietà. 37. Fenice: il teatro lirico di Venezia. 38. il Rigoletto: melodramma di Verdi, rappresentato a Venezia nel 1851. 39. cammei: pietre dure con una o più figure colorate intagliate in bassorilievo.

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40. Parigi: la capitale della moda (come Vienna, prima citata dagli uomini, lo era della politica). 41. Radetzky: forse questa battuta va riferita a uno degli uomini presenti; dopo la moda, la conversazione tocca brevemente la politica. Il maresciallo austriaco Radetzky (1766-1858) sconfisse Carlo Alberto di Savoia nella Prima guerra d’indipendenza, conclusasi con l’armistizio di Vignale (24 marzo 1849). 42. chinavansi: si chinavano. Gli adulti allontanano con un pretesto le ragazze, perché la conversazione non si adatta alle loro pudiche orecchie. Uscite Carlotta e Speranza, si potrà liberamente parlare degli amori di Vittorio Emanuele. 43. sibillino: misterioso. 44. al volano: un gioco simile al tennis, con racchette.

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Monografia Raccordo

due figure disegnate con ironia: lo zio conservatore, la zia tradizionalista ma ammiratrice di Vittorio Emanuele

Contesto

I poeti crepuscolari

Tra Ottocento e Novecento

tutta l’esistenza delle due ragazze ruota intorno al sogno romantico dell’amore

la domanda interrompe bruscamente il sogno, richiamando il lettore alla falsità di quel mondo di cartapesta le due giovani s’identificano nelle eroine romantiche dei romanzi letti in collegio

IV. Oimè! che giocando un volano,45 troppo respinto all’assalto,46 non più ridiscese dall’alto dei rami d’un ippocastano! S’inchinano sui balaustri47 le amiche e guardano il lago, – sognando l’amore presago48 nei loro bei sogni trilustri.49 «Ah! se tu vedessi che bei denti!»50 – «Quant’anni?...» «Ventotto.» «Poeta?» – «Frequenta il salotto della contessa Maffei!»51 Non vuole52 morire, non langue il giorno. S’accende più ancora di porpora:53 come un’aurora stigmatizzata54 di sangue; si spenge55 infine, ma lento. I monti s’abbrunano in coro:56 il Sole si sveste dell’oro, la Luna si veste d’argento. Romantica Luna fra un nimbo leggiero, che baci le chiome dei pioppi, arcata siccome57 un sopracciglio di bimbo, il sogno di tutto un passato nella tua curva58 s’accampa: non sorta sei da una stampa del Novelliere Illustrato?59 Vedesti le case deserte di Parisina60 la bella? Non forse non forse sei quella amata dal giovine Werther?61 «...mah! Sogni di là da venire!» – «Il Lago s’è fatto più denso di stelle.» – «... che pensi?» – «... Non penso.» «... Ti piacerebbe morire?» «Sì!» – «Pare che il cielo riveli più stelle nell’acqua e più lustri.62 Inchìnati sui balaustri: sognamo così, tra due cieli...»63 «Son come sospesa! Mi libro nell’alto...» – «Conosce64 Mazzini...» – «E l’ami?...» – «Che versi divini!» – «Fu lui a donarmi quel libro, ricordi? che narra siccome,65 amando senza fortuna, un tale si uccida per una, per una che aveva il mio nome.»66 V. Carlotta! nome non fine,67 ma dolce che come l’essenze68 resusciti le diligenze, lo scialle, la crinoline... Amica di Nonna, conosco le aiole per ove69 leggesti

45. un volano: la pallina di sughero. 46. troppo... assalto: ribattuto con forza eccessiva. 47. sui balaustri: sulla balaustrata che guarda verso il lago. 48. presago: che prevedono e in cui sperano. 49. trilustri: sono cioè sogni di quindicenni (il lustro dura cinque anni). 50. che bei denti!: l’immagine è riferita a un qualche giovanotto di cui Carlotta è innamorata. Costui è apprezzato per i denti, quasi fosse un cavallo. 51. il salotto... Maffei!: il celebre ritrovo milanese della contessa Clara Carrara Spinelli (1814-86), moglie del poeta Andrea Maffei (1798-1885). 52. Non vuole: riferito a il giorno, giunto ormai al tramonto; non langue conferma che la luce non si affievolisce ancora. Il paesaggio assume i colori dei sogni d’amore.

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53. porpora: rosso. 54. stigmatizzata: segnata, ferita. Il rosso cielo serale richiama il sangue della sofferenza d’amore, dolce come un’aurora. 55. si spenge: il sole tramonta. 56. s’abbrunano in coro: si oscurano tutti insieme, nella sera improvvisa dopo il giorno lunghissimo. 57. siccome: come. 58. tua curva: l’immagine arcuata della luna. 59. Novelliere Illustrato: un periodico popolare di primo Ottocento. 60. Parisina: allude al poemetto Parisina del poeta romantico George G. Byron (1788-1824), nel quale la protagonista muore decapitata. 61. giovine Werther: il protagonista maschile dell’omonimo romanzo epistolare (I dolori del giovane Werther) di J.W. Goethe (1749-1832).

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62. lustri: lucenti. 63. due cieli: il cielo notturno e la sua immagine riflessa nel lago. 64. Conosce: allude ancora al giovane citato al v. 79. Un seguace di Giuseppe Mazzini poteva ben apparire, nel 1850, un eroe romantico in carne e ossa. 65. siccome: la maniera in cui. 66. il mio nome: la protagonista del romanzo I dolori del giovane Werther si chiama appunto Carlotta; per lei il protagonista si uccide. La suggestione del nome impressiona l’animo sognante della ragazza. 67. non fine: non è un nome delicato, ma ha il fascino delle care cose vecchie. 68. come l’essenze: come un acuto profumo risveglia chi dorme, così il nome Carlotta basta a risuscitare, per un attimo, il passato. 69. per ove: lungo le quali.

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G. Gozzano, Le poesie, a cura di E. Sanguineti, Einaudi, Torino 1990 70. i casi: le avventure di Jacopo Ortis, protagonista del romanzo (1802) di Ugo Foscolo. Di esso le due giovani apprezzano solo il patetismo.

71. nell’albo: lo sguardo del poeta resta fisso sull’album delle vecchie fotografie di famiglia. 72. novissima: straordinaria, come real-

mente doveva apparire la fotografia in quell’epoca. 73. nel fiore: nel fiore della giovinezza.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il punto di partenza è una vecchia fotografia, ritrovata in un polveroso album di famiglia. La foto porta la data del 28 giugno 1850 e ha una dedica scritta di pugno da Carlotta, un’amica della nonna del poeta: la nonna Speranza, appunto. A quell’epoca le due donne erano diciassettenni, appena uscite dal collegio. Mentre gli adulti conversano del più e del meno, Speranza e Carlotta giocano al volano e intanto sfogliano margherite per sortilegio sui teneri versi del Prati, scambiandosi confidenze segrete e le loro tenere pene d’amore. Nasce da qui, nel poeta, il sogno, il desiderio di «rinascere» nel 1850. Con gli strumenti della poesia e della memoria, egli ridà vita per un momento al salotto di nonna Speranza; qui inscena il dialogo tra le due amiche adolescenti, come un sogno sempre sull’orlo di infrangersi. ■ La scena si ambienta in un interno borghese di mezzo secolo prima, con le sue suppellettili (le buone cose di pessimo gusto), con le chiacchiere da salotto dei giorni della festa ecc. Qui riprendono vita la mentalità, le abitudini, i protagonisti dell’età risorgimentale: Giuseppe Verdi con i suoi melodrammi (sia tragici, sia comici: rispettivamente l’Ernani e il Rigoletto) e poi i poeti romantici, stranieri (Goethe e Byron) e italiani (Foscolo, Prati). ■ Protagonista del componimento è Carlotta, l’«amica di nonna Speranza»: spirito sognante, ama un poeta, un patriota amico di Mazzini e frequentatore del salotto della contessa Maffei. È lui che le ha donato una copia di I dolori del giovane Werther, il celebre romanzo di Goethe, la cui protagonista si chiama appunto Carlotta. Tutto il fascino del personaggio di Carlotta sta nel suo magico universo di adolescente, accarezzato nelle trepide atmosfere romantiche, dove il sole tramonta nell’oro e la luna nasce vestita d’argento.

■ Il poeta prova, insieme, attrazione e ripulsa per le buone cose di pessimo gusto. Gozzano sa che il suo sogno è nulla più che un’illusione. Egli ridesta cose, volti, gesti che appartengono a un mondo ormai estinto. Tra l’altro il mondo di oggetti del poemetto non vive di per sé, ma è osservato a partire da una fotografia, che retrocede la realtà a fantasma del passato. Il dagherotipo rende possibile una magica sospensione del presente, una fuga nel passato che si vela però di ironia. La perplessità corrode il romantico mondo di Carlotta e Speranza; la conclusione (forse) rende esplicita l’inconsistenza di questi esseri solo di carta, su cui pesa un inevitabile destino di morte e cancellazione. È il messaggio finale del testo, al di là del suo tono teneramente svagato. ■ Sul piano stilistico, l’autore ricorre a un’originale poesia di tipo narrativo, che fa spazio sia alle battute di dialogo sia alle descrizioni. Entrano nei versi anche squarci di prosa, di conversazione parlata. I dialoghi riproducono le esitazioni, le banalità, le frasi lasciate in sospeso del parlare quotidiano (Ma bene... ma bene... ma bene...; mah!). Espressioni colte e letterarie s’intrecciano a voci tecniche e scientifiche e alle forme dimesse del parlato d’ogni giorno. ■ Su tutto aleggia l’ironia del poeta, viva specie nella terza parte (quella centrale) del poemetto. Gozzano parodizza le banalità delle chiacchiere da salotto, in cui si mescolano la cronaca mondana, accenni politici, pettegolezzi di moda. L’ironia è, del resto, una delle grandi armi di Gozzano per respingere la tentazione della nostalgia o del patetismo. La stessa adozione, sul piano metrico, di un ritmo da ballata romantica, da romanza in versi di sapore ottocentesco, è una scelta che conferma l’ironia gozzaniana. 469

Monografia Raccordo

il poeta confessa di non potersi abbandonare a un amore pieno verso le donne del mio sogno; l’ironia vela e corregge il sentimento

i casi70 di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo. Ti fisso nell’albo71 con tanta tristezza, ov’è di tuo pugno la data: ventotto di giugno del mille ottocentocinquanta. Stai come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo profondo e l’indice al labbro, secondo l’atteggiamento romantico. Quel giorno – malinconia – vestivi un abito rosa, per farti – novissima72 cosa! – ritrarre in fotografia... Ma te non rivedo nel fiore,73 amica di Nonna! Ove sei o sola che, forse, potrei amare, amare d’amore?

Contesto

I poeti crepuscolari

Tra Ottocento e Novecento

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Riassumi in breve il componimento dedicando a ciascuna strofa max 5 righe. 2. Quali «tipi» umani vengono raffigurati dal poeta? A quale classe sociale appartengono? Analizzane in breve pose, convenzioni, punti di vista. Rispondi con opportune citazioni. 3. Nel poemetto sono anche citati, a vario titolo, personaggi romanzeschi e artisti. • Individuali e spiega in breve i vari riferimenti. • Ora rifletti: a quale tipo di cultura e mentalità essi rispondono?

4. Nel testo attraverso la rima alcuni termini potenziano reciprocamente il proprio significato. Rintracciali e poi cerca di illustrare le ulteriori connotazioni che vengono a crearsi. 5. Con quale stato d’animo l’io-poeta si accosta a oggetti, personaggi, situazioni? Perché si parla di «ironia» verso il mondo rievocato? 6. Chiarisci il senso del verso finale nell’economia della poesia. Si può riassumerlo dicendo che l’unica donna che il poeta avrebbe potuto amare davvero (amare d’amore) è quella della foto, cioè un’ombra su un vecchio cartoncino ingiallito, su cui si può anche fantasticare, ma senza nessuna illusione di felicità? Motiva la risposta.

Guido Gozzano

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Totò Merùmeni I colloqui Anno: 1911 Temi: • il ritratto di un letterato sterile e inutile • la sua vita solitaria, la rinuncia ad agire, l’attesa della morte

Un legame di odio-amore unì Gozzano a D’Annunzio: per anni egli imitò il «vate» pescarese, prima di divenire il suo critico più severo. Nasce da tale presa di distanza questo componimento, intitolato a un personaggio (Totò Merùmeni) che pare un esteta dannunziano, ma che in realtà è solo un poveretto, un fallito, sia come uomo sia come letterato. Lo rivela anche il nome del personaggio, ricalcato (ma con una fanciullesca, e ironica, deformazione) sul titolo di una commedia del latino Terenzio: Heautontimorùmenos, «il punitore di se stesso». Anche Totò si tormenta, consapevole che la vita gli ha riservato ben altro che i successi del superuomo. A simili tormenti, intuiamo, sottostava lo stesso Gozzano, prima di liberarsi dell’ingombrante presenza del modello dannunziano.

un primo, evidente segnale di autoironia da parte di Gozzano

I Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei balconi secentisti guarniti di verzura,1 la villa sembra tolta da certi versi miei, sembra la villa-tipo,2 del Libro di Lettura...

Schema metrico: 15 quartine di doppi settenari, divise in 5 parti (rispettivamente di 4, 5, 2, 2, 2 strofe). Le rime sono di solito alternate (schema: ABAB); nella quarta e nell’ottava stanza, lo schema diviene ABBA. 470

1. secentisti... verzura: del Seicento (quindi: di stile barocco), abbelliti da piante e fiori (verzura). 2. la villa-tipo: questa casa era la dimora del nonno materno, il senatore Mautino; il

suo aspetto richiamava l’origine nobiliare della famiglia, ma anche il suo attuale decadimento. Gozzano l’aveva già descritta nei Sonetti del ritorno (in La via del rifugio, 1907).

I poeti crepuscolari

i tratti della famiglia anticipano la malattia dell’antieroe Totò-Gozzano

in effetti tutto il ritratto del personaggio corrisponde al tipo dell’eroe decadente

ecco dove finisce la sua perizia letteraria: Totò aiuta i ragazzi a scrivere i temi e redige raccomandazioni per chi deve cercare lavoro

Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo, Casa Rattazzi, Casa d’Azeglio, Casa Oddone,5 s’arresta un automobile6 fremendo e sobbalzando, villosi7 forestieri picchiano la gorgòne.8 S’ode un latrato e un passo, si schiude cautamente la porta... In quel silenzio di chiostro e di caserma vive Totò Merùmeni con una madre inferma, una prozia canuta9 ed uno zio demente. II Totò ha venticinque anni, tempra10 sdegnosa, molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,11 scarso cervello, scarsa morale, spaventosa chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.

Contesto

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Monografia Raccordo

la raffinatezza del passato segna un forte contrasto con il presente così decaduto

Pensa migliori giorni la villa triste, pensa gaie brigate3 sotto gli amberi centenari, banchetti illustri nella sala da pranzo immensa e danze nel salone spoglio4 da gli antiquari.

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Non ricco, giunta l’ora di «vender parolette»12 (il suo Petrarca!...) e farsi baratto o gazzettiere,13 Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette ai suoi trascorsi14 che sarà bello tacere. Non è cattivo. Manda soccorso di danaro al povero, all’amico un cesto di primizie; non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro pel tema, l’emigrante per le commendatizie.15 Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti, non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche:16 «... in verità derido l’inetto che si dice buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti...».17

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Dopo lo studio grave,18 scende in giardino, gioca coi suoi dolci compagni sull’erba che l’invita;

3. gaie brigate: allegre compagnie. 4. spoglio: spogliato, saccheggiato. Mobili e oggetti erano stati venduti ai rigattieri. 5. Casa Ansaldo... Casa Oddone: cognomi di nobili famiglie piemontesi, che frequentavano la casa del nonno senatore di Gozzano. 6. un automobile: al maschile, secondo l’uso di primo Novecento. 7. villosi: coperti dalle pellicce. Le stampe dell’epoca raffiguravano gli automobilisti impellicciati per proteggersi dal freddo nelle auto scoperte. Automobili e pellicce sono il segno della nuova borghesia, che o-

stenta i simboli del suo predominio sociale. 8. la gorgòne: il battente della porta, fissato a una maschera di ferro che, secondo il gusto liberty, è scolpita in forma di Gorgone o Medusa (mostri mitologici). 9. canuta: con i capelli bianchi, vecchia. 10. tempra: carattere, indole. 11. opere d’inchiostro: scritti letterari (Gozzano cita qui un verso del canto I, 3, 6 dell’Orlando furioso di Ariosto). 12. «vender parolette»: citazione da Petrarca (Canzoniere CCCLX, 81), come dichiara il verso successivo. 13. baratto o gazzettiere: rispettivamen-

te: barattiere, negoziante (o forse: politico corrotto) e giornalista da strapazzo. 14. ai suoi trascorsi: sul suo passato. 15. commendatizie: lettere di presentazione. 16. Nietzsche: il filosofo tedesco, teorico del superuomo, derideva figure come il letterato inutile incarnato da Totò Merùmeni. 17. «... in verità... forti...»: la citazione è tratta dal capitolo «Del sublime» di Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Le ugne sono le unghie, gli artigli. 18. grave: profondo, faticoso. Ha trascorso ore sui libri.

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Tra Ottocento e Novecento

immagini di una perfetta solitudine

i suoi compagni sono: una ghiandaia roca,19 un micio, una bertuccia che ha nome Makakita...

evidente l’antitesi tra il sogno d’Amore (che merita l’iniziale maiuscola) e la realtà di questo meschino amoreggiare con la cuoca

III La Vita si ritolse20 tutte le sue promesse. Egli sognò per anni l’Amore che non venne, sognò pel suo martirio21 attrici e principesse, ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.

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Quando la casa dorme, la giovinetta scalza, fresca come una prugna al gelo mattutino, giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza su lui che la possiede, beato e resupino...22 la malattia di Totò, apprenderemo al v. 47, è l’aridità intellettuale, l’erudizione fine a se stessa

i fiori di Totò sono i suoi versi; la poesia decadente nasce dalla sterilità dei sentimenti

conclusione ambigua, riferibile sia a Totò, che aspetta solo di morire, sia al lento scorrere di giorni sempre uguali

IV Totò non può sentire.23 Un lento male indomo24 inaridì le fonti prime del sentimento; l’analisi e il sofisma25 fecero di quest’uomo ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento.

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Ma come le ruine26 che già seppero il fuoco esprimono27 i giaggioli dai bei vividi fiori, quell’anima riarsa esprime a poco a poco una fiorita28 d’esili versi consolatori...

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V Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende, quasi è felice. Alterna l’indagine29 e la rima. Chiuso in sé stesso, medita, s’accresce,30 esplora, intende la vita dello Spirito31 che non intese prima. Perché la voce è poca, e l’arte prediletta immensa,32 perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va,33 Totò opra34 in disparte, sorride, e meglio aspetta. E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.35

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G. Gozzano, Le poesie, cit.

19. ghiandaia roca: uccello simile ai passeri, dal verso assai stridulo. 20. si ritolse: si riprese, nel senso che non le realizzò. 21. pel suo martirio: cioè tormentandosi in speranze impossibili. 22. resupino: disteso sulla schiena. Un segno di passività, di fronte alla prepotente vivacità della ragazza. 23. sentire: non sa cioè provare sentimenti autentici. 24. indomo: incurabile. 25. sofisma: ragionamento sottile, appa-

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rentemente giusto ma falso nella sostanza. 26. le ruine: i ruderi, che hanno già conosciuto la furia distruttrice delle fiamme. 27. esprimono: fanno spuntare. 28. una fiorita: una fioritura. 29. l’indagine: la riflessione filosofica. La rima, parallelamente, è l’attività poetica. 30. s’accresce: migliora la propria vita interiore. 31. la vita dello Spirito: la vita spirituale, in senso lato (vita delle idee) ma anche in senso cristiano, come sappiamo dalla biografia di Gozzano.

32. la voce è poca, e l’arte... immensa: riprende una famosa sentenza latina (ars longa, vita brevis, ovvero “lunga l’arte, breve la vita”). 33. il Tempo... va: citazione di Petrarca (Canzoniere LVI, 3: «ora, mentre ch’io parlo, il tempo fugge»). 34. opra: opera, lavora (cioè: scrive). 35. Un giorno è nato. Un giorno morirà: il verso ripete un’espressione del poeta francese Francis Jammes (1868-1938), fonte prediletta dei crepuscolari.

■ Come ci rivela l’allusione a una commedia di Terenzio («il punitore di se stesso») contenuta nel titolo, il tema del poemetto è l’ossessione autopunitiva. Totò (cioè: Gozzano da giovane) non è riuscito a vivere la propria vita come un’opera d’arte, secondo il programma di Andrea Sperelli, primo eroe dannunziano. Ora se ne rende conto; non gli resta perciò che rinunciare al vivere inimitabile dell’esteta, diventando il buono deriso da Nietzsche (v. 30). ■ Questo destino di sconfitta era, per lui, inevitabile. Difficilmente avrebbe potuto realizzare i suoi sogni di grandezza, nato com’è in quella famiglia anomala, con una madre inferma, / una prozia canuta ed uno zio demente (vv. 1516). In seguito è rimasto scottato da esperienze che sembravano esaltanti (la Vita si ritolse tutte le sue promesse, v. 37) e perciò, adesso, si trattiene lontano dalla vita reale. Preferisce compiangersi, scrivendo esili versi consolatori (v. 52), piuttosto che darsi da fare per modificare la realtà. ■ Siamo dunque all’opposto del superuomo dannunziano: rifiutato il «vivere inimitabile», Totò è divenuto un uomo di solo pensiero, impermeabile agli entusiasmi, estraneo all’accendersi della vita comune. Infatti opra in disparte, sorride, e meglio aspetta (v. 59). Totò è divenuto insomma uno di quei personaggi troppo intellettuali che costellano la letteratura d’inizio secolo; una specie di teorista alla maniera di Svevo (E p. 507). ■ Il poemetto evidenzia la consueta ironia gozzaniana. L’autore si distanzia un po’ da tutto; infatti irride: • la tradizione letteraria: il mondo del Libro di Lettura, una specie di letteratura scolastica e di seconda mano; • le correnti ideologie politiche (Nietzsche); • i nuovi ceti sociali: gli arricchiti impellicciati. Le stesse maiuscole di Vita (v. 37), Amore (v. 38), Spirito (v. 56), Tempo (v. 58) ammiccano al «sublime» che Gozzano respinge da sé. ■ Questa volontà dissacratoria e il sorriso distaccato si esprimono anche nel lessico. Si va da toni aulici (numerosi risultano gli echi letterari del testo, da Dante a Petrarca ad Ariosto) a toni prosaici (gazzettiere) e situazioni quotidiane (gli amori con la cuoca, il gioco in cortile con il gatto e la scimmia). Il linguaggio esprime molto da vicino lo scarto fra la vita reale e la vita soltanto sognata da Totò.

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Tratteggia con le tue parole un ritratto di Totò Merùmeni, utilizzando opportunamente termini ed espressioni tratti dal testo (max 10 righe). 2. La prima strofa descrive la villa in cui vive il protagonista. • Quali sono le sue caratteristiche esteriori? ...................................................................................................... ....................................................................................................... • Quali sentimenti suscita? ....................................................................................................... ....................................................................................................... • Quale immagine della vita, complessivamente, esprime? ....................................................................................................... ....................................................................................................... 3. L’autore definisce Totò prima non... cattivo, poi buono. Rifletti su questa bontà: è vera bontà d’animo? oppure nasce dalla mancanza di coraggio e di vere alternative? Motiva la tua risposta in max 10 righe. 4. Prova a suddividere il testo in sezioni, in base al loro argomento, indipendentemente dalle cinque strofe. Attribuisci a ciascuna sezione il titolo opportuno. 5. Un forte contrasto si stabilisce, nel testo, fra Totò e la giovinetta cuoca: perché? Che cosa vuole simboleggiare l’autore? 6. Rintraccia nel testo immagini ed espressioni che alludono parodisticamente al superuomo-esteta dannunziano. Commenta poi brevemente questi riferimenti. ...................................................................................................... ....................................................................................................... 7. L’ultimo verso riporta nel testo una forte dose di ambiguità: perché? Spiega con le tue parole. 8. Quali temi tipicamente crepuscolari si possono individuare in questo poemetto? Riassumi in max 10 righe. 9. Come avviene, in questo componimento, il «cozzo» tra «l’aulico e il prosaico» di cui Montale ha parlato per la poesia gozzaniana? Rispondi esaminando il lessico e le immagini. 10. D’Annunzio ha ricavato da Nietzsche il mito del «superuomo». Invece l’esteta gozzaniano ne ricava la figura dell’heautontimorùmenos, del «punitore di se stesso». Sviluppa questa traccia in un breve elaborato (max 20 righe).

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Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

I poeti crepuscolari

Sguardi sulla società La vita quotidiana nell’Italia di inizio Novecento ■ Impiegate all'ufficio contabilità della Fiat a inizio Novecento.

Le abitazioni Nell’Italia «giolittiana» comincia a diffondersi un po’ di benessere, ma per il momento riguarda una quota piuttosto piccola di popolazione, non più del 20% circa. Anche la vita media delle persone è assai più bassa di oggi: 45 anni circa contro i 70-75 attuali. Ancora nel 1910 un nato su due non raggiunge la maggiore età! Una famiglia operaia conta 5-6 persone, che vivono con difficoltà con il salario del capofamiglia. La moglie integra con lavori domestici di sarta, cuoca, balia (cioè allatta i figli dei ricchi). Gli operai specializzati, che guadagnano anche 160-180 lire al mese, sono veri benestanti. Un po’ meno fortunati sono gli impiegati statali e i maestri. Nelle case più modeste non ci sono né il riscaldamento (ci si arrangia con una stufa a legna) né l’acqua corrente (si attinge al pozzo comune). I servizi igienici sono in cortile o in fondo al ballatoio. Nelle case dei ricchi, invece, sono da poco entrate la luce elettrica, il riscaldamento e l’acqua corrente.

L’alimentazione Sulla mensa dei poveri compaiono pane nero, pasta, polenta, qualche verdura. La carne si mangia solo in occasione di alcune feste. Ogni capofamiglia, però, si concede tabacco e un po’ di vino, così come il giornale quotidiano, con le ultime novità della politica e della cronaca. La tavola dei ricchi, assai più varia e curata, propone anche il caffè, il pane bianco o di frumento, il dolce e il gelato. Nelle abitazioni delle famiglie benestanti fanno la loro comparsa i libri delle prime collane economiche. Nelle campagne si sta un po’ meglio, perché l’allevamento di animali da cortile e un angolo di orto mettono a disposizione qualche risorsa in più. 474

■ Il salottino di una sartoria di alta moda a Torino e un manifesto pubblicitario per una ditta di abiti e confezioni di Napoli.

■ Operaie al lavoro in un grande laboratorio di sartoria. ■ Manifesto pubblicitario per una delle prime macchine italiane per il caffè espresso.

I nuovi prodotti Ciò nonostante, tutti sognano di andare a vivere nelle città, dove si stanno diffondendo l’illuminazione elettrica, i tram elettrici, i negozi che offrono una straordinaria novità, ovvero i primi cibi in scatola (dadi da brodo, pomodori pelati, pasta). Nei grandi magazzini si trovano i tessuti per la casa (coperte, tovaglie, asciugamani) e anche i primi abiti confezionati industrialmente: fino ad allora i ricchi se li facevano realizzare su misura dai sarti, mentre la gente comune se li cuciva in casa, adattando i panni dai figli più grandi ai più piccoli, e passandosi i costosissimi cappotti di padre in figlio.

SERGIO CORAZZINI ◗ Nato a Roma nel 1886 da agiata famiglia borghese, primo di tre fratelli (morti giovanissimi), Corazzini compì gli studi elementari dal 1895 al Collegio nazionale Umberto I di Spoleto. Proseguì poi il ginnasio a Cremona, dove la famiglia, a causa di difficoltà economiche, aveva dovuto stabilirsi nel 1900. Pubblicò nel 1902 le prime poesie in dialetto romanesco e in lingua italiana, sul «Marforio», il «Fracassa», il «Rugantino». ◗ Nel 1904 fu costretto a interrompere gli studi e trovare un impiego, a Roma, presso una compagnia di assicurazioni. Corazzini divenne un punto di riferimento del mondo letterario romano; spesso trascorreva le serate nei caffè, in compagnia di intellettuali come Fau-

L’OPERA

sto Maria Martini, Corrado Govoni, Alberto Tarchiani, Luciano Folgore. Nel 1905-06 fondò con gli amici la rivista «Cronache latine», destinata a breve vita. In questi anni uscirono presso la Tipografia cooperativa operaia romana le sue esili raccolte di versi. ◗ Nel 1906 fu colpito dai primi sintomi della tubercolosi, la malattia di famiglia; per curarsi si recò a Nocera e quindi nel sanatorio di Nettuno, ma inutilmente. All’amico Alfredo Tusti scrisse: «Io non so quello che accade, ma un invisibile vampiro mi succhia lentamente e continuamente il sangue, ed io mi trovo ogni giorno più prostrato, stanchissimo». Tornato a Roma, Corazzini si spense di tubercolosi nel 1907, a soli 21 anni.

LIRICHE ◗ Le brevi raccolte di versi di Corazzini furono inizialmente stampate in poche decine di copie e destinate a essere diffuse solo tra gli amici. Ricordiamo: Dolcezze (1904; 17 liriche), L’amaro calice (1905; 10 liriche), Le aureole (1905; 12 liriche), Piccolo libro inutile (1906; 8 liriche), Elegia (1906; un unico poemetto di 83 versi), Libro per la sera della do-

menica (1906; 10 liriche). Vennero successivamente ristampate nell’edizione postuma intitolata Liriche (1908; edizione definitiva a cura di F.M. Martini, 1922). ◗ La raccolta più famosa, Piccolo libro inutile, comprendeva le otto liriche di Corazzini, stampate insieme ad alcuni componimenti dell’amico Alberto Tarchiani (1885-1964).

«Io non sono un poeta» Uno dei temi prediletti dai crepuscolari è la protesta di «non [voler] essere poeta». Frequentemente essi dichiarano di «non avere nulla da dire», di «vergognarsi d’essere poeta», di «non saper far altro che morire». Già nel 1903 Corrado Govoni si chiede nelle Fiale: «Perché triste poeta il tuo dolore / a l’incredule genti vuoi narrare?», invitandolo a «imparare a piangere in silenzio». Le dichiarazioni più celebri sono quelle di Sergio Corazzini («io non sono un poeta») e di Marino Moretti («Io non ho nulla da dire»). Il torinese Carlo Chiaves prevede addirittura l’estinzione della razza dei poeti. I crepuscolari negano; e quando affermano, gli argomenti non cambiano molto:

• si dipingono come individui deboli e malati (Corazzini: «Oh, io sono, veramente malato!»), spesso in attesa della morte; • Gozzano in La signorina Felicita dichiara: «mi vergogno d’essere un poeta»; • si giunge alle formule dissacratorie (il poeta come «pagliaccio» o come «saltimbanco») di Moretti e Palazzeschi. Per Moretti «...il poeta che si mostra / su un cavallo della giostra / sembra il pagliaccio ch’egli è» (La giostra); Palazzeschi, in Chi sono?, si definisce non poeta, bensì «il saltimbanco dell’anima mia». Queste prese di posizione dei crepuscolari nascono da una precisa scelta di poetica: dal rifiuto, cioè, di un’idea aristocratica di poesia, vista come merce di

lusso, bella ma inutile. Siamo dunque all’opposto del letterato esteta incarnato da D’Annunzio. Quest’ultimo, in un’intervista del 1895 a Ugo Ojetti, aveva giudicato positivo il fatto che «l’appetito sentimentale della moltitudine non era mai giunto a un così rapido consumo di alimenti letterari». Invece i crepuscolari rappresentano la fragilità e la malattia della poesia, che si rivela spiazzata, inutile. Prendono atto che la poesia non può più ambire al canto sublime, al messaggio profetico o pedagogico; può sopravvivere solo come canto dimesso, che assume, con coerenza, temi secondari, situazioni comuni e oggetti quotidiani, giungendo fino all’autoironia e all’autodistruzione.

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Monografia Raccordo

L’AUTORE

Contesto

I poeti crepuscolari

Tra Ottocento e Novecento

Sergio Corazzini

3

Desolazione del povero poeta sentimentale Piccolo libro inutile Anno: 1906 Temi: • la rinuncia a essere poeta per rimanere fanciullo • la malattia come tristezza e inettitudine È il componimento più noto di Corazzini e il più significativo della sua poesia.

il ricorso al tu generico era già frequente in D’Annunzio; tornerà poi in Montale

il poeta crepuscolare cerca temi e situazioni quotidiani, lontani dall’eccezionalità

ritorna la dichiarazione fondamentale di poetica, con la rinuncia a questo ruolo così prestigioso

un’esclamazione tipica del linguaggio familiare

I Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta.1 Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. Perché tu mi dici: poeta? II Le mie tristezze sono povere tristezze comuni. Le mie gioie furono semplici, semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei. Oggi io penso a morire. III Io voglio morire, solamente, perché sono stanco; solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle catedrali mi fanno tremare d’amore e di angoscia; solamente perché, io sono, oramai, rassegnato come uno specchio,2 come un povero specchio melanconico. Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

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IV Oh, non maravigliarti della mia tristezza! E non domandarmi; io non saprei dirti che parole così vane, Dio mio, così vane, che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire. Le mie lagrime avrebbero l’aria

Schema metrico: sequenza lirica dal ritmo di prosa poetica; i versi sono liberi. 1. Io non sono un poeta: riprende un verso del poeta francese Francis Jammes

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5

(«Penser cela est-ce être poète? Je ne suis pas»: “Pensar questo vuol dire essere poeta? Io non lo sono”; da Les dimanches, 1898). 2. come uno specchio: in quanto riflette

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la realtà come fredda, distante; la passività è tipica dell’inettitudine novecentesca. 3. sgranare un rosario: di essere cioè come i tanti grani di un rosario, ciascuno dedicato a una diversa sofferenza.

I poeti crepuscolari

la religiosità del poeta si esprime in questo suo immedesimarsi nel sacrificio di Cristo in croce

un’immagine colma di dolce masochismo, di ambiguità

il colloquio, che il poeta tanto desidera, si rivela molto difficile

ecco il punto d’arrivo della lunga autocommiserazione dell’autore

V Io mi comunico del6 silenzio, cotidianamente, come di Gesù. E i sacerdoti del silenzio sono i romori,7 poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio. VI Questa notte ho dormito con le mani in croce.8 Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo dimenticato da tutti gli umani, povera tenera preda del primo venuto; e desiderai di essere venduto, di essere battuto9 di essere costretto a digiunare per potermi mettere a piangere tutto solo, disperatamente triste, in un angolo oscuro. VII Io amo la vita semplice delle cose. Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco, per ogni cosa che se ne andava! Ma tu non mi comprendi e sorridi. E pensi che io sia malato. VIII Oh, io sono, veramente malato! E muoio, un poco, ogni giorno. Vedi: come le cose.10 Non sono, dunque, un poeta: io so che per esser detto: poeta, conviene viver ben altra vita!11 Io non so, Dio mio, che morire. Amen.

Contesto

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Monografia Raccordo

di sgranare un rosario3 di tristezza davanti alla mia anima sette volte dolente4 ma io non sarei un poeta; sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo cui avvenisse di pregare,5 così, come canta e come dorme.

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S. Corazzini, Poesie edite e inedite, a cura di S. Jacomuzzi, Einaudi, Torino 1968 4. anima... dolente: nuovo richiamo al linguaggio religioso. Simili echi rispondevano al gusto prezioso ed estetizzante dell’epoca (si pensi ai pittori preraffaelliti, o al Poema paradisiaco di D’Annunzio); in Corazzini hanno però un fondo di sincerità. 5. cui avvenisse di pregare: sorpreso nell’atto di pregare; se qualcuno gli domandasse perché è così triste, otterrebbe in

risposta lagrime e un rosario di tristezze. 6. mi comunico del: assume il silenzio come un sacramento, come l’eucaristia. 7. romori: rumori; detti i sacerdoti del silenzio in quanto, senza di loro, il silenzio non sarebbe percepibile. 8. le mani in croce: la figurazione di un morto o di una vittima destinata al sacrificio. 9. battuto: percosso. La letteratura per ra-

gazzi dell’epoca si soffermava volentieri su vicende di adolescenti abbandonati e soli per il mondo. 10. Vedi: come le cose: muoio un po’ ogni giorno, come si spegne, impercettibilmente, ogni altra realtà. 11. ben altra vita!: la vita mondana del successo, dei gesti eccezionali, della poesia solenne e convenzionale.

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Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il primo tema in evidenza, nel testo, è la rinuncia a essere «poeta», esplicitata già al v. 2: Io non sono un poeta. Siamo davanti a un ribaltamento: la poesia, l’arte non hanno più una funzione d’insegnamento e orientamento presso gli uomini; io non saprei dirti che parole così vane, / Dio mio, così vane, dice Corazzini. L’artista non è più un genio o un eroe, e neppure un vate-cantore dei destini nazionali, come era accaduto per millenni e ancora fino a Carducci e D’Annunzio. Il poeta si ritira nel suo mondo, si fa piccolo e indifeso, sceglie un suo linguaggio, senza più pretese d’insegnare il Vero e il Bene: è la nuova posizione dell’«autonomia» (come l’ha chiamata Luciano Anceschi) della letteratura. ■ Un secondo tema concerne la volontà di rimanere fanciullo, come conseguenza della rinuncia al ruolo di poeta. Qui Corazzini si mette in forte contrasto sia rispetto al poeta-superuomo dannunziano, sia rispetto al poeta-fanciullo pascoliano. • D’Annunzio, in L’Isottèo-La Chimera, aveva cantato: «O poeta, divina è la Parola; / ne la pura Bellezza il ciel ripose / ogni nostra letizia; e il Verso è tutto» (E p. 307). Alla Parola di D’Annunzio (la maiuscola indicava appunto la parola poetica), Corazzini oppone il Silenzio (pure in maiuscolo). • Il «fanciullino» di Pascoli, nonostante il preteso candore, nutriva in realtà delle ambizioni; si poneva come il nuovo Adamo che ridà nome e rifà nuove le cose. Invece il fanciullo di Corazzini «è colui che sa soltanto morire, cioè affidare alla parola poetica il messaggio supremo della vita che si cancella e scompare, non in senso tragico, ma piangendo, offrendo la propria pena, fornendo agli uomini l’unico possibile modo di solidarietà che è il pianto di fronte alla sorte comune» (G. Bàrberi Squarotti). In tal modo Corazzini diviene una voce della nuova poesia in umiltà, che rifiuta i titoli e le forme altisonanti, e predilige i toni dimessi e le piccole cose quotidiane (la vita semplice delle cose). ■ Terzo tema, che ha grande rilievo, è quello della malattia. Il poeta non si definisce semplicemente un fanciullo, ma di più, un individuo malato (Oh, io sono, veramente malato!). La figura dell’uomo inetto e malato è una delle caratterizzazioni più tipiche della letteratura d’inizio Novecento (per esempio in Svevo). ■ L’elemento meno moderno del testo, invece, è la continua effusione dell’io. Corazzini ripete molte volte il pronome di prima persona e questo è un elemento ancora romantico (il

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titolo parla infatti di poeta sentimentale) e decadente: lo ritroviamo in Pascoli e in D’Annunzio (in La fiaccola sotto il moggio il personaggio di Simonetto dichiara: «Oh! Oh! Oh! Sono un povero malato... – Oh! Oh! altro non posso che morire...»). Gli autori successivi tenderanno invece a una presa di distanza dal proprio e dall’altrui dolore: sia Montale sia Svevo opteranno per l’«indifferenza». ■ Sul piano dello stile, sono tre gli elementi più interessanti: • anzitutto il fatto che la lirica si strutturi in forma di dialogo (Perché tu mi dici..., Vedi che io..., Ma tu non mi comprendi...), anche se, in realtà, siamo davanti a un monologo del poeta tra sé e sé; • in secondo luogo la scelta di un verso «lungo», così da spezzare la metrica tradizionale e avvicinarsi al ritmo della prosa; • infine, Corazzini ricorre frequentemente a metafore del linguaggio religioso: il testo finisce così per avvicinarsi a una sorta di preghiera cantilenante.tata «Perché, Dio mio, mi sono sposata?». LAVORIAMO SUL TESTO 1. Perché il poeta sostiene di non poter essere definito «poeta»? Che cosa gli manca per diventarlo? 2. Quali sono gli elementi più tipicamente crepuscolari presenti nel componimento? Rispondi con opportuni richiami al testo (max 15 righe). 3. Individua le metafore religiose presenti nel testo e spiegane il significato. 4. Rifletti ora sulla religiosità di Corazzini: ti sembra artificiale o autentica? Motiva la risposta in max 10 righe. 5. Io non so, Dio mio, che morire. Ti sembra che questa conclusione giunga dopo una progressione logica? O non è piuttosto un dato di partenza? Motiva la risposta. 6. Documenta con esempi la natura di «poesia-in-prosa» tipica di questa lirica. 7. Ti sembra che si possa trovare una corrispondenza tra l’affievolirsi della voce del poeta e la misura prosastica dei suoi versi? Motiva la tua risposta. 8. A parere del critico Stefano Jacomuzzi, nel testo si può individuare la figura retorica della «preterizione»: il poeta finge, cioè, di non voler dire qualcosa, nel momento stesso in cui la dice; nega per meglio affermare e sottolineare una nuova condizione di poeta. Rifletti su quest’affermazione. • Che cosa nega Corazzini? • E nega per affermare quale altra verità?

MARINO MORETTI ◗ Nato a Cesenatico nel 1885 da una madre maestra e da un padre imprenditore di trasporti marittimi, dopo gli studi ginnasiali Moretti fu per qualche tempo a Firenze, allora il centro più importante della cultura italiana. Vi frequentò la Regia Scuola di recitazione di Luigi Rasi ed ebbe come compagno di corso Palazzeschi. ◗ A Firenze fiorì la sua stagione di poeta crepuscolare: dopo l’esordio con Fraternità (1905), vennero le raccolte Sentimento (1907), Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911) e Il giardino dei frutti (1916). Incontrò intanto Corazzini e Govoni, e iniziò una corrispondenza epistolare con Gozzano, oltre a collaborare all’importante rivista letteraria «La Riviera Ligure». Nel 1917 pubblicò il romanzo Il sole del sabato (già apparso nel 1913 nell’appendice letteraria del «Giornale d’Italia»), con successo di pubblico e di critica. ◗ Partecipò alla Prima guerra mondiale nei servizi della Croce Rossa. Nel 1922 cominciò

L’OPERA

la sua collaborazione trentennale con la pagina letteraria del «Corriere della Sera». Nel 1925 firmò il manifesto antifascista di Croce e per questo si vide rifiutare da Mussolini, nel 1932, il Premio dell’Accademia d’Italia. Dopo una lunga carriera letteraria si spense a Cesenatico nel 1979. ◗ Moretti visse quasi sempre a Cesenatico, con qualche viaggio nei paesi europei. Scrisse numerose raccolte di racconti e romanzi, che ritraggono semplici protagonisti e vicende provinciali, con attenzione al dettaglio d’ambiente e un tono di sorridente malinconia. Fra i titoli più noti: La voce di Dio (1920); I puri di cuore (1923); Il segno della Croce (1925); Andreana (1935); La vedova Fioravanti (1941; quest’ultima è l’opera migliore); I coniugi Allori (1946); La camera degli sposi (1958). Negli ultimi anni tornò alla poesia, con L’ultima estate (1969), Tre anni e un giorno (1971), Le poverazze. Diario a due voci (1973).

POESIE DI TUTTI I GIORNI ◗ La raccolta fu pubblicata nel 1911 e fu la prima di Moretti a suscitare interesse nella critica. È uno dei libri emblematici della «condizione crepuscolare» (come l’ha defini-

ta il critico Natale Tedesco), per il clima familiare e paesano, per il colore grigio della quotidianità che avvolge emozioni, ricordi, personaggi e vicende quotidiane.

Marino Moretti

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Io non ho nulla da dire Poesie di tutti i giorni Anno: 1911 Temi: • l’incapacità del poeta di rispondere alle domande del presente Questa lirica costituisce indubbiamente uno dei testi più noti e importanti del Crepuscolarismo, sia per i contenuti (o meglio: non contenuti) sia per il tono dimesso, anche se espresso dall’autore in veste rigorosamente letteraria, con metrica, rime ecc.

la prima delle molte domande che si intrecciano nel testo, come per attivare la riflessione dei lettori

Avere qualche cosa da dire nel mondo a se stessi, alla gente. Che cosa?1 Non so veramente perché io non ho nulla da dire.

Schema metrico: quartine di versi novenari. Schema ABBA.

1. Che cosa?: che cosa dire?

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Monografia Raccordo

L’AUTORE

Contesto

I poeti crepuscolari

Tra Ottocento e Novecento

spiegazione ironica: non si avanza di un solo passo

chiarissima la polemica contro ogni atteggiamento intellettualistico ed estetizzante

Che cosa? Io non so veramente.2 Ma ci son quelli che sanno. Io no – lo confesso a mio danno – non ho da dir nulla ossia niente. Perché continuare a mentire, cercare d’illudersi? Adesso ch’io parlo a me mi confesso: io non ho nulla da dire. Eppure fra tante persone, fra tanti culti3 colleghi io sfido a trovar chi mi neghi d’aver questa o quella opinione, e forse mia madre,4 la sola che veda ora in me fino in fondo, è certa che anch‘io venni al mondo per dire una grande parola.

per secoli, sono stati gli argomenti della poesia tradizionale

la rinuncia a qualsiasi ruolo intellettuale

la condizione che Baudelaire aveva chiamato spleen: un senso di estraneità a se stessi e al mondo

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Gli amici discutono d’arte, di Dio, di politica, d’altro: e c’è chi mi crede il più scaltro perché mi fo5 un poco in disparte; qualcuno vorrebbe sentire da me qualche cosa di più. «Hai nulla da aggiungere tu?» «Io, no, non ho niente da dire.» È triste. Credetelo, in fondo, è triste. Non essere niente. Sfuggire così facilmente a tutte le noie del mondo. Sentirsi nell’anima il vuoto quando altri più parla e ragiona. Veder quella brava persona imporsi un gran compito ignoto. E quelli che chiedono a un tratto: «Che avresti tu detto al mio posto?» «Io... Non avrei forse risposto... Io... mi sarei finto distratto...»

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Non aver nulla, né mire, né bei sopraccapi,6 né vizi;

2. Io non so veramente: non saprei proprio spiegare il perché non ho nulla da dire. 3. culti: colti, poeti e intellettuali (colleghi).

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4. mia madre: è una presenza costante nell’opera dello scrittore di Cesenatico; in questa poesia ritornerà nel finale.

5. mi fo: mi faccio (toscanismo). 6. sopraccapi: grattacapi, preoccupazioni.

I poeti crepuscolari

va in frantumi anche l’immagine del poeta amante e amato

un ben triste privilegio! Anche i poeti del passato si reputavano diversi dagli altri, ma in quanto superiori; qui la prospettiva si rovescia

Ed esser creduto un insonne, un uomo che veglia sui libri, un’anima ardita che vibri da tutto uno stuolo di donne.

Contesto

osar fino in mezzo ai comizi: «No, sa? Non ho niente da dire». 45

«Mi dica, sua madre che dice? Io so dai suoi libri che adora sua madre. Nevvero, signora? nevvero che è tanto felice?

Monografia Raccordo

il luogo del poetavate e tribuno come D’Annunzio

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Un figlio! Vederlo salire; seguirne il pensiero profondo...» Ed io son l’unico al mondo che non ha niente da dire.

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Marino Moretti in versi e in prosa, a cura di G. Pampaloni, A. Mondadori, Milano 1979

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Io non ho nulla da dire presenta l’immagine, tipicamente «crepuscolare», del poeta privo di scopo, un uomo «indeciso a tutto»; insistentemente e con monotona, ripetitiva puntigliosità, egli ricorda la propria inutilità, estraneità e incapacità di rispondere alle domande del presente. Con garbo e sorridente ironia, Moretti prende qui posizione contro chi, come D’Annunzio o i futuristi, esaltava il ruolo del poeta-superuomo e profeta. Respinge il modello di poeta come individuo vitale, attorniato da donne fatali e innamorate, e presenta la nuova figura di un ometto banale, apprezzato solo dalla madre. ■ Questa lirica di Moretti testimonia una condizione propria non solo dei poeti crepuscolari, ma degli intellettuali novecenteschi in genere: essi sperimentano e confessano a se stessi l’esaurirsi della funzione «eroica» dell’arte; non è più possibile, per i poeti, esprimere alcun parere autorevole, su nessuna questione. ■ Il componimento racconta e intanto commenta, definisce, generalizza: una maniera di procedere tipica dei crepuscolari. Lo stile mantiene un registro ragionativo, «parlato». Presenta infatti: • pause e ritorni; • domande ed esclamazioni di dialogo; • espressioni colloquiali, interiezioni e particelle d’attesa; • frequenti ripetizioni. Tutto serve infatti a evitare l’enfasi, antitetica alla condizione «crepuscolare». Il tono oscilla fra l’ironico e il malinconico: viene rifiutata

la baldanza dei poeti d’un tempo, ma non si accetta neppure la banalità piccolo borghese. Perciò la malinconia (È triste. Credetelo, in fondo, / è triste) è l’esito finale dell’ironia, dopo la scoperta del vuoto dell’anima. LAVORIAMO SUL TESTO 1. La lirica costituisce una riflessione sul ruolo e sull’identità del poeta. Riassumi le conclusioni alle quali giunge l’autore (max 15 righe). 2. Rifletti sui contenuti di Io non ho nulla da dire rispondendo alle seguenti domande. • Quale funzione riveste, nel testo, il personaggio della madre? • Di che cosa discutono gli amici? E perché il poeta cita proprio tali argomenti? • A chi allude, secondo te, Moretti quando parla di un personaggio insonne, / un uomo che veglia sui libri, / un’anima ardita che vibri / da tutto uno stuolo di donne? 3. Nel testo alcune frasi e parole chiave si ripetono ossessivamente: rintracciale e commentale. 4. Moretti vena regolarmente le proprie liriche di un’ironia bonaria ma graffiante. Come e dove la esprime, qui? 5. Individua nel testo gli enjambements e chiariscine la funzione. 6. Analizza, con opportune citazioni, il linguaggio discorsivo del testo, tutto costruito su toni domestici, semplificati (max 15 righe). 7. Perché, secondo te, il poeta ricorre alle rime baciate? 481

VERIFICA L’età contemporanea

1

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.

1.

Borgese chiamò «crepuscolare» l’opera di alcuni giovani poeti imitatori di D’Annunzio. V Sia Corazzini che Gozzano si spensero, V ancora giovani, a causa della tubercolosi. I poeti crepuscolari discutevano intensamente tra loro e sulla stampa, e diedero perciò vita a un nutrito gruppo di interventi teorici da cui V ricavare la loro poetica. Anche Pascoli aveva trattato, prima dei crepuscolari, la tematica delle «piccole cose». V A Milano, centro dell’avanguardia letteraria italiana di allora, non sorse alcun gruppo di V poeti crepuscolari.

2. 3.

4. 5.

2

F

5. F

F

F

F

Collega ciascun autore alla rispettiva opera; fai attenzione all’intruso. 1 2 3 4

Martini Gozzano Moretti Corazzini

a. Poesie scritte col lapis b. Piccolo libro inutile c. I colloqui d. Poesie provinciali e. Le povere piccole cose

3

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte.

1.

G.A. Borgese parlò esplicitamente di a «poeti crepuscolari» b «una voce [poetica] crepuscolare» c «poesia al crepuscolo» d «crepuscolo della poesia» Sul piano metrico i crepuscolari adottarono a per lo più forme libere e spesso innovative b per lo più forme «chiuse» e tradizionali c ora forme libere ora forme tradizionali d soltanto forme libere Quale tra questi poeti non appartenne al gruppo dei crepuscolari? a Eugenio Montale b Corrado Govoni c Aldo Palazzeschi d Marino Moretti Nel suo intervento critico, Borgese intendeva sottolineare a il tono dimesso dei nuovi poeti, a paragone della più energica avanguardia futurista b l fatto che l’esperienza artistica dei poeti crepuscolari era ormai giunta al «crepuscolo», cioè alla fine c il ruolo centrale che nei loro versi assumevano

2.

3.

4.

482

6.

situazioni di tramonto, di crisi, di decadenza, con l’inevitabile senso di malinconia che ciò produce d lo spegnersi della gloriosa tradizione poetica del passato, soffocata da nuovi poeti senza ambizioni Individua l’intruso tra i seguenti giudizi di Montale su Gozzano a fu «un eccezionale narratore o prosatore in versi» b «diede scintille nel far cozzare l’aulico con il prosaico» c fu senza saperlo un «punitore di se stesso» d bisognò che «attraversasse» D’Annunzio Individua l’intruso tra i seguenti temi tipici della poesia crepuscolare a interni domestici di tipo borghese b la folla assordante della metropoli c malati, vecchi, ospedali d vita provinciale e poco appariscente

4

Rispondi alle seguenti domande.

1.

In quale sua opera D’Annunzio aveva trattato la tematica delle piccole cose quotidiane? Quali fonti europee influirono sulla poesia dei crepuscolari? Chiarisci dove sorsero le due «scuole» crepuscolari e riassumi gli appartenenti a esse, ripartendoli correttamente tra l’una e l’altra.

2. 3.

PER L’ESAME DI STATO 1.

2.

3. 4.

5.

6.

7.

In quale ottica D’Annunzio si era occupato delle piccole cose quotidiane? Quale differenza separa questa poetica da quella crepuscolare? (max 5 righe) Quali differenze sussistono tra le piccole cose cantate dal poeta-fanciullo di Pascoli e quelle cantate, invece, dai poeti crepuscolari? (max 5 righe) Illustra le differenze tra le due scuole crepuscolari, con qualche riferimento ai testi (max 10 righe). Quale importanza autobiografica assume il personaggio di Totò Merùmeni nella poesia di Gozzano? (max 10 righe) Si può dire che i crepuscolari cercavano una qualche originalità letteraria? E se sì, quale? (max 10 righe) In che modo Gozzano spesso ironizza sulla tradizione del passato e la parodizza? Rispondi con qualche riferimento ai testi (max 10 righe). Illustra lo stile e il linguaggio tipici dei poeti crepuscolari, con qualche esempio ripreso dai loro testi (max 15 righe).

Raccordo Gli scrittori «vociani» 1

Le riviste fiorentine «Il Leonardo» 1903-07 ◗ Prezzolini ◗ Papini

◗ divulgazione filosofica ◗ aggiornamento culturale e letterario

«Il Regno» 1903-06

«Hermes» 1904-06

◗ Corradini

◗ Borgese

◗ ideologia nazionalistica

◗ culto dell’estetismo dannunziano

Un quadro di mutamenti storici e culturali ■ Anche in Italia, come nel resto d’Europa, il primo Novecento fu segnato da profondi mutamenti in campo politico, sociale e culturale. Sul piano politico si consumava lo sviluppo economico dell’età giolittia-

«Lacerba» 1913-15 ◗ Papini ◗ Soffici

◗ anticonformismo ◗ dibattito sul Futurismo

na, accompagnato da tensioni che sfociarono nel tragico sbocco della Prima guerra mondiale. In campo culturale, la profonda insoddisfazione verso la cultura positivistica alimentava un’esigenza di rinnovamento, molto avvertita dalle giovani generazioni. ■ Su questo terreno si ebbe la fioritura delle riviste fiorentine, che avvenne parallelamente al maturare 483

Tra Ottocento e Novecento

della grande stagione dell’avanguardia europea. Tra il 1903 e il 1914 Firenze divenne la capitale di un rigoglioso fenomeno culturale, riassunto nella nascita di ben quattro riviste culturali: «Il Leonardo» (1903-07), «Il Regno» (1903-06), «Hermes» (1904-06) e «Lacerba» (1913-15).

«Il Leonardo»: novità e programma ■ La prima di esse, «Il Leonardo», uscì nel gennaio 1903 su impulso di due giovani intellettuali, Giuseppe Prezzolini (1882-1982) e Giovanni Papini (18811956). Si trattava di una rivista non specificamente letteraria, ma culturale in genere: questo interesse per il dibattito delle idee rimarrà una costante delle riviste fiorentine. La testata additava a modello la figura di Leonardo da Vinci, scrittore, pittore e scienziato poliedrico, che aveva cercato la verità nei diversi campi del pensiero, della vita, dell’arte. Leonardo, con la sua sensibilità per lo sfumato, per le ombre, e con il suo gusto per la raffinatezza e morbidezza di forme e contorni, era un personaggio emblematico per la cultura decadente: D’Annunzio, che si era ispirato a lui per il titolo del suo romanzo Le vergini delle rocce, in un primo tempo finanziò la pubblicazione del periodico. ■ Il programma iniziale del «Leonardo» presentava molti punti, non tutti chiari; ne segnaliamo due in particolare: • sul piano politico, la rivista era contraria al giolittismo e alle sue discutibili pratiche di governo: tale posizione ispirava ora una positiva idea della responsabilità della politica, ora posizioni autoritarie e antidemocratiche, ostili a socialismo e cristianesimo; • sul piano culturale, spiccava l’avversione al Positivismo: Papini e Prezzolini si rifacevano, anche se in modo confuso, alla filosofia dell’intuizione di Henri Bergson (1859-1941) e soprattutto al pragmatismo americano, la filosofia di William James (1842-1910, fratello del romanziere Henry James) e di John Dewey (1859-1952), che sostenevano la priorità della volontà e dell’azione e la capacità del pensiero di creare e modificare la realtà.

letteraria). L’altro suo merito fu il contributo offerto alla sprovincializzazione della cultura italiana. Attraverso le edizioni della «Biblioteca del Leonardo» e della «Cultura dell’anima», diffuse infatti l’opera di scrittori e filosofi poco o per nulla noti in Italia (il romantico tedesco Novalis, i francesi Henri Bergson e Maurice Blondel). La rivista cessò le pubblicazioni nel 1907.

«Il Regno», «Hermes», «Lacerba» ■ Orientato a interessi ideologici e politici fu «Il Regno», pubblicato dal 1903 al 1906 da Enrico Corradini (1865-1931), uno dei più accesi interventisti alla vigilia della Prima guerra mondiale e poi fiancheggiatore del movimento fascista di Mussolini. «Il Regno» intendeva contrapporsi alla «viltà dell’ignobile socialismo» e intendeva «vituperare la borghesia italiana che regna e governa». Ebbe perlomeno la funzione di dare al nazionalismo una coscienza e una dimensione culturale. ■ Nel 1904 nacque «Hermes», fondata dall’allora ventenne Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952): una rivista estetizzante, di stampo dannunziano e con interessi quasi esclusivamente letterari. ■ Di qualche anno successiva fu la pubblicazione, sempre a Firenze, di «Lacerba» (1913-15), fondata dal già citato Papini e da Ardengo Soffici (1879-1964) a seguito di una scissione interna alla redazione della «Voce», come vedremo. «Lacerba» si presentava come un foglio violentemente anticonformista: dalle sue colonne Papini diede le sue prove più famose di polemista e stroncatore. La rivista aderì al Futurismo (E p. 445), sul conto del quale ospitò un animato dibattito. Negli ultimi mesi di vita «Lacerba» promosse un’intensa campagna per l’entrata in guerra dell’Italia: quando questo obiettivo fu realizzato, cessò di essere pubblicata.

■ Perciò, nel primo numero del «Leonardo», Papini afferma che anche in Italia i «giovini, desiderosi di liberazione [dalle strettoie della cultura positivistica], vogliosi d’universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale» sono «personalisti e idealisti, cioè superiori ad ogni sistema e ad ogni limite, convinti che ogni filosofia non è che un personal modo di vita – negatori di ogni altra esistenza di fuor dal pensiero». ■ Il primo merito del «Leonardo» fu proprio questo sguardo attento al dibattito delle idee (una novità rispetto all’impostazione retorica della nostra tradizione 484

■ Frontespizio del primo numero della rivista «Hermes».

Gli scrittori «vociani»

prima fase: 1908-14 «La Voce»

seconda fase: 1914-16 «La Voce bianca»

fondatore: Giuseppe Prezzolini

direttore: Giuseppe De Robertis

◗ aggiornamento culturale e letterario ◗ dibattito civile

«La Voce» di Prezzolini ■ La più importante rivista fiorentina fu «La Voce», fondata nel dicembre 1908. Il suo carattere saliente fu la vastità d’interessi culturali e di temi esaminati. Vi collaborarono i più autorevoli uomini di cultura del tempo, dal filosofo e critico Benedetto Croce (1866-1952) al liberale Giovanni Amendola (1886-1926), dallo storico ed economista Gaetano Salvemini (1873-1957), socialista, all’economista Luigi Einaudi (1874-1961), che nel 1948 diverrà il primo presidente della repubblica italiana. A loro si affiancarono, ovviamente, i molti scrittori che esordirono proprio sulla «Voce» (e sui libri editi dalla «Libreria della Voce»). ■ «La Voce» (prima settimanale, poi quindicinale) fu diretta dal 1908 al 1914 da Giuseppe Prezzolini (salvo un breve periodo, fra l’aprile e l’ottobre del 1912, in cui la direzione passò a Papini). Obiettivi dichiarati della rivista erano la divulgazione culturale e l’aggiornamento delle idee rispetto al un panorama europeo. Gli articoli spaziavano da problemi d’attualità (come il decentramento amministrativo o il suffragio universale) a temi letterari (il Decadentismo, il teatro di Ibsen) e filosofici (le correnti del pensiero contemporaneo).

Intellettuali e vita sociale ■ Prezzolini impresse alla rivista l’inconfondibile sua esigenza di «stare al sodo»: di occuparsi cioè di temi pratici e sociali, non astratti o solo letterari: un’impostazione che ricorda la lezione pragmatica del «Caffè» (1764-66), la rivista illuministica di Verri e Beccaria, e, più da vicino, l’eredità del «Politecnico», la rivista fondata nel 1839 da Carlo Cattaneo. Non pochi numeri monografici della «Voce» furono dedicati alla realtà sociale ed economica della provincia italiana, esclusa dal sistema burocratico e accentratore del governo di

Contesto

«La Voce»

Monografia Raccordo

2

◗ interessi letterari e stilistici ◗ poetica del «frammento» (prosa breve)

Giolitti. Grande importanza era attribuita ai problemi della scuola e dell’educazione (biblioteche, università, aggiornamento dei maestri). In generale, la prima necessità della società italiana era identificata nell’allargamento del sapere e della cultura. ■ Il proposito di Prezzolini, l’ideologo del gruppo, era far partecipare gli intellettuali alla politica: ma non come protagonisti, in un qualche partito, bensì come osservatori e custodi di un corretto funzionamento della vita democratica, cioè come coscienze critiche della nazione. «Noi sentiamo fortemente – scrisse Prezzolini fin dal primo numero della rivista – l’eticità della vita intellettuale». L’eredità lasciata dalla «Voce» di Prezzolini al successivo Novecento italiano consiste proprio in ciò: nell’impegno civile e nell’opera di svecchiamento, nell’attenzione a integrare i fatti del pensiero con quelli della vita, nell’idea della necessità di «inventare» una cultura più qualificata.

«La Voce bianca» di De Robertis ■ Nel 1913 la rivista visse una crisi interna, allorché l’ala più battagliera dei redattori fondò «Lacerba». Prezzolini guidò allora una nuova fase della «Voce», fortemente caratterizzata dalla filosofia dell’Idealismo, bandiera di tutti coloro che si opponevano al Positivismo e al primato delle scienze fisiche. ■ Poco dopo la redazione scelse come direttore il critico letterario Giuseppe De Robertis (1888-1963). Dal dicembre 1914 al dicembre 1916 «La Voce» fu mutata nel formato e azzerata nella numerazione (si ripartì cioè dal n. 1); venne chiamata, dal colore della copertina, «La Voce bianca». Indebolitisi gli interessi civili ed etico-politici, si accrebbe l’attenzione per la letteratura e per lo stile, specie verso la forma della prosa breve o frammento. 485

Tra Ottocento e Novecento

3

Prosatori e poeti della «Voce» prosatori

poeti ◗ attenzione alle realtà comuni

interesse autobiografico

poetica del «frammento»

◗ tensione morale ◗ stile più prosastico (verso lungo)

◗ Papini, Un uomo finito ◗ Slataper, Il mio Carso ◗ Boine, Il peccato ◗ Serra, Esame di coscienza di un letterato

◗ Boine, Frantumi ◗ Sbarbaro, Trucioli

◗ Sbarbaro, Pianissimo

◗ Campana, prose raccolte in Canti orfici

◗ Rebora, Frammenti lirici

Gli scrittori «vociani» ■ Gli scrittori che collaborarono con frequenza alla «Voce» sono, globalmente, definiti come scrittori «vociani». Si tratta di: • prosatori, come il citato Papini, Scipio Slataper (1888-1915), Giani Stuparich (1891-1961), Giovanni Boine (1887-1917), Piero Jahier (1884-1966), Carlo Michelstaedter (1887-1910); • poeti, come Dino Campana (1885-1932), Arturo Onofri (1885-1928), Camillo Sbarbaro (1888-1967), Clemente Rebora (1885-1957); • critici, come Renato Serra (1884-1915) e il già citato Giuseppe De Robertis.

I prosatori: l’autobiografia ■ Pur nella diversità d’idee e di esperienze artistiche, vari aspetti accomunano i vociani. Anzitutto, essi amano la confessione in prima persona, lo sfogo personale, anche come mezzo per esprimere il bisogno di un rinnovamento etico e civile: chiarificazione interiore e autobiografia si sposano in loro alla volontà di partecipazione attiva alle sorti del paese. Questi caratteri spiccano in alcuni libri emblematici, come Un uomo finito di Papini (1913), Il mio Carso di Slataper (1912) o Il peccato di Giovanni Boine (1914). ■ Il capolavoro dell’autobiografismo vociano è il monologo-confessione di Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato (1915), scritto subito prima che l’autore partisse per il fronte, dove trovò la morte. L’autore apre il proprio animo, nell’ora estrema della guerra e del rischio mortale. Compie un «esa486

◗ Campana, Canti orfici

me di coscienza» nel quale può riconoscersi, oltre all’autore, un’intera generazione. Abbiamo sbagliato, dice Serra, noi letterati, a starcene rinchiusi nella nostra torre d’avorio, lontani dai problemi della vita sociale e della gente comune. Le tragedie della storia attuale ci impongono invece di abbandonare l’isolamento di quella «religione delle lettere» e di assumere nuove responsabilità morali e civili. E se da intellettuali, conclude Serra, non possiamo più essere le guide della società, quantomeno possiamo camminare al fianco degli altri, condividendo i drammi di tutti.

«Frammento» e prosa lirica ■ Alcuni scrittori «vociani» scelsero un tipo di prosa lirica o di «frammento», raccomandato soprattutto da De Robertis nella fase della «Voce bianca». Nacquero così opere come Frantumi di Boine (pubblicati postumi nel 1918) e come Trucioli di Sbarbaro (1920): opere che crescono su pagine brevi, nutrite di immagini precise, frasi secche, di una scrittura «pura» ed essenziale, che valorizza brevi «momenti» lirici e ricorre ad accostamenti spesso violenti (è la linea che viene chiamata dell’espressionismo stilistico). ■ Questi «frammenti» in prosa dei vociani non nacquero dal nulla; attecchirono su un terreno già preparato, a quell’epoca, da esperienze e teorie importanti, come: • la poesia-in-prosa proposta da Rimbaud in Illuminazioni (1885) (E p. 265); • le parallele ricerche svolte da D’Annunzio in Notturno (E p. 346);

I poeti della «Voce»: i caratteri comuni ■ Molti poeti collaborarono alla «Voce»; tra loro, vanno ricordati anche Corrado Govoni, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, Vincenzo Cardarelli, oltre agli stranieri Guillaume Apollinaire, Paul Claudel, Paul Fort, Charles Péguy. ■ Per alcuni di questi autori la collaborazione alla «Voce» fu solo un momento di passaggio nella loro carriera poetica. Altri invece si possono a pieno titolo definire «poeti vociani» perché evidenziano, pur nella diversità delle esperienze, alcuni caratteri comuni: • il rifiuto del tono «alto», sonoro, cioè dello stile di Carducci o di D’Annunzio; • il gusto per realtà comuni e prosaiche, riprese senza vergogna dalla vita quotidiana; • la tensione morale, talora connotata (come in Rebora) in direzione religiosa; • l’adozione di un verso lungo, dalle cadenze prosastiche, simile a quello utilizzato dal poeta americano Walt Whitman (1819-92).

Camillo Sbarbaro e Clemente Rebora ■ Questi tratti si manifestano in particolare nelle poesie di Sbarbaro e Rebora, i cui libri d’esordio (Pianissimo e Frammenti lirici) furono editi tra 1913 e 1914. Il ligure Camillo Sbarbaro mette in versi la fragilità dell’esistere e la scissione tra uomo e società; è il primo poeta novecentesco che canti il motivo dell’inesistenza («Mi tocco per sentir se sono»). Egli opera sul

linguaggio poetico un processo di semplificazione e scarnificazione, che troverà lo sbocco più alto in un altro poeta ligure, Montale, l’autore di Ossi di seppia (1925). ■ Anche il lombardo Clemente Rebora è un tipico scrittore «vociano». Lo dimostrano: • la sua acuta tensione morale; • il tema del contrasto tra il «banale» quotidiano, da una parte, e l’ansia di assoluto, dall’altra; • infine il linguaggio «teso», che ricorda gli espressionisti per la sua forza d’urto («O carro vuoto sul binario morto» è un famoso inizio reboriano). Rebora fu – assieme al romano Arturo Onofri – uno degli anticipatori dell’Ermetismo. La sua poesia meditativa, che si fa grido della coscienza, trovò in seguito uno sbocco religioso (nel 1931 Rebora entrò nella congregazione dei rosminiani, dove poi ricevette l’ordinazione sacerdotale, nel 1936).

Dino Campana, poeta «maledetto» ■ Il più originale tra questi poeti fu il toscano Dino Campana, l’autore dei Canti orfici (1914). Visse un’esistenza sregolata da «poeta maledetto», alla maniera di Rimbaud. Sempre minacciato dalla follia, egli trascorse l’ultimo quindicennio di vita in un manicomio presso Firenze. ■ Quella di Campana è una poesia simbolista, ma sul versante più acceso: è un’arte visionaria, talora allucinata, esuberante d’immagini e d’«illuminazioni». Gli stessi caratteri si ritrovano nelle prose liriche comprese esse pure nei Canti orfici. ■ Si trattava, in complesso, di caratteri davvero inconsueti per la nostra cultura letteraria, che tende invece, da sempre, alla «classicità». Da qui l’originalità di Campana e anche il singolare fascino esercitato dai suoi versi sui lettori di oggi.

487

Monografia Raccordo

• le teorie estetiche di Benedetto Croce, secondo cui la fonte della vera poesia è l’«intuizione lirica». Questa «poetica del frammento» sfocerà pochi anni dopo nella «prosa d’arte», divulgata dalla rivista «La Ronda» a partire dal 1919.

Contesto

Gli scrittori «vociani»

L’AUTORE

RENATO SERRA ◗ Nato a Cesena nel 1884, Serra si laureò in Lettere nel 1904 a Bologna con una tesi su Petrarca. Fu allievo di Carducci, il cui magistero rimase in seguito un riferimento nella sua attività di critico letterario. All’inizio si dedicò sia all’insegnamento sia a diverse attività editoriali; nel 1909 assunse finalmente l’incarico stabile di direttore della Biblioteca Malatestiana di Cesena. Pubblicò articoli di letteratura, inizialmente su riviste provinciali come «La Romagna»; al 1910 risalgono il suo primo articolo sulla «Voce» e la pubblicazione, nei «Quaderni della Voce», del volume Scritti critici. ◗ L’interesse critico di Serra era ormai rivolto

L’OPERA

alla letteratura contemporanea; egli studiò gli autori italiani (da Gabriele D’Annunzio ad Alfredo Panzini, ad Alfredo Oriani) e quelli stranieri (da Kipling a Paul Fort, a Romain Rolland). All’interesse per le vicende letterarie del suo tempo va ricondotto anche il volume Le lettere (1914), in cui tratteggiò le linee e i protagonisti della cultura letteraria di primo Novecento. ◗ Quando l’Italia entrò in guerra (maggio 1915), partì volontario per il fronte. Ebbe appena il tempo per scrivere e pubblicare il saggio Esame di coscienza di un letterato, prima di trovare la morte, nel luglio 1915, in un’azione di guerra.

ESAME DI COSCIENZA DI UN LETTERATO ◗ Serra scrisse l’Esame dal 20 al 25 marzo 1915, cioè prima di partire per il fronte. Il saggio fu pubblicato sulla «Voce» un mese più tardi. ◗ L’Esame è un’ampia prosa di sapore autobiografico, in cui l’autore annuncia un «esame di coscienza», sollecitato dalla drammatica urgenza della guerra. Nel corso del testo oscilla tra stati d’animo differenti: si va da propositi di impegnarsi attivamente nella storia e nella vita, a nostalgie per l’antica abitudine dei letterati a isolarsi dal mondo e coltivare da lì il loro sogno di bellezza. ◗ Nella prima parte dell’Esame sembra imporsi la difesa delle ragioni della cultura, messa

in campo come argine contro la barbarie che porterà solo inaudite distruzioni. Già qui l’Esame si discosta dai miti bellicistici del nazionalismo, dall’idea della guerra come evento magico e liberatorio, dai quali lo stesso Serra si era lasciato conquistare, chiedendo di partire volontario per il fronte. ◗ Man mano però prevale nel testo un sentimento diverso: l’«angoscia» della guerra va superata in un altro modo; il desiderio di non lasciar passare invano l’occasione del riscatto, infatti, suggerisce a Serra la riscoperta dei valori più autentici («istinto di umanità ricuperata»), come stimolo per una via alla fraternità con tutti gli uomini.

Renato Serra

1

Fratelli? Sì, certo Esame di coscienza di un letterato Anno: 1915 Temi: • il ritrovato senso di solidarietà e di fratellanza con gli uomini comuni • la rinuncia a capire tutto e la decisione di affidarsi alla vita così come viene Leggiamo l’ultima parte dell’Esame di coscienza: l’autore decide ormai di «andare insieme», di essere parte di un’umanità comune, confondendosi con essa, senza più barriere né isolamenti.

488

la modestia di Serra è contrapposta alla superbia degli intellettuali dannunziani; lo scrittore non esalta se stesso né il proprio ruolo di guida

è il filo conduttore del testo: questo passo collettivo esprime la riscoperta del senso di comunità tra uomini fratelli

l’Italia del popolo gli sembrava priva di valori; ma adesso che l’autore marcia con gli altri, quell’Italia si riempie di uomini veri, concreti

Fratelli?1 Sì, certo. Non importa se ce n’è dei riluttanti;2 infidi, tardi, cocciuti, divisi; così devono essere i fratelli in questo mondo che non è perfetto. E accanto a quello che brontola o si ritrae diffidente, ci son tutti quelli che si aprono a un sorriso istintivo nell’incontrarmi – sorriso semplice e lieto che ha vent’anni un’altra volta sui volti cambiati, colle pieghe fisse e la barba aspra dell’uomo già logoro –; quelli che mi sten- 5 don la mano dura con una timidezza affettuosa; quelli che posano sopra di me i loro occhi un po’ turbati con un senso di improvvisa fiducia, come avendo ritrovata, nel momento dubbioso, la loro guida di ieri... Guida da poco:3 ma io andavo avanti, e loro dietro. Così si farebbe ancora. L’uomo non ha bisogno di molto4 per sentirsi sicuro. Purché si vada! Dietro di me son tutti fratelli, quelli che vengono, anche se non li 10 vedo e non li conosco bene. Mi contento di quello che abbiamo di comune, più forte di tutte le divisioni. Mi contento della strada che dovremo fare insieme, e che ci porterà tutti egualmente: e sarà un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo, per tutti. Dopo i primi chilometri di marcia, le differenze saranno cadute come il sudore a goccia a goccia dai 15 volti bassi giù sul terreno, fra lo strascicare dei piedi pesanti e il crescere del respiro grosso; e poi ci sarà solo della gente stanca che si abbatte, e riprende lena, e prosegue; senza mormorare, senza entusiasmarsi; è così naturale fare quello che bisogna. Non c’è tempo per ricordare il passato o per pensare molto, quando si è stretti gomi20 to a gomito, e c’è tante cose da fare; anzi una sola, fra tutti. Andare insieme. Uno dopo l’altro per i sentieri fra i monti, che odorano di ginestre e di menta; si sfila come formiche per la parete, e si sporge la testa alla fine di là dal crinale, cauti, nel silenzio della mattina. O la sera per le grandi strade soffici, che la pesta5 dei piedi è innumerevole e sorda nel buio, e sopra c’è un filo di luna verdina lassù tra le piccole bianche vergini stelle d’aprile; e quando ci si ferma, si sente sul col- 25 lo il soffio caldo della colonna che serra sotto.6 O le notti, di un sonno sepolto nella profondità del nero cielo agghiacciato; e poi si sente tra il sonno il pianto fosco dell’alba, sottile come l’incrinatura di un cristallo; e su, che il giorno è già pallido. Così, marciare e fermarsi, riposare e sorgere, faticare e tacere, insieme; file e file di uomini che seguono la stessa traccia, che calcano la stessa terra; cara terra, dura, solida, eter- 30 na; ferma sotto i nostri piedi, buona per i nostri corpi. E tutto il resto che non si dice, perché bisogna esserci e allora si sente; in un modo, che le frasi diventano inutili.7 Laggiù in città si parla forse ancora di partiti, di tendenze opposte; di gente che non va d’accordo; di gente che avrebbe paura, che si rifiuterebbe, che verrebbe a ma35 lincuore. Può esserci anche qualche cosa di vero, finché si resta per quelle strade, fra quelle case. Ma io vivo in un altro luogo. In quell’Italia che mi è sembrata sorda e vuota, quando la guardavo soltanto; ma adesso sento che può esser piena di uomini come son io, stretti dalla mia ansia e incamminati per la mia strada, capaci di appoggiarsi l’uno al40 l’altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perché se venga l’ora. Può darsi che non venga mai. È tanto che l’aspettiamo e non è mai venuta!

1. Fratelli?: il senso della domanda è: dobbiamo considerarci tutti fratelli? 2. se ce n’è dei riluttanti: se ci sono ancora individui ostili al senso di fraternità. 3. da poco: di scarso valore. 4. non... di molto: ha bisogno soltanto di

calore d’amicizia e di fraternità. 5. la pesta: il calpestio dell’esercito in marcia, fatto di innumerevoli, sordi scalpiccii nel buio della notte. 6. serra sotto: si raggruppa, compattandosi. 7. diventano inutili: la letteratura perde –

davanti a tale epica e cosmica fraternità – la sua efficacia. Ciò che rimane è l’indistruttibile senso dell’amore e della sofferenza solidale.

489

Monografia Raccordo

si può accostare questa espressione alla celebre, omonima lirica di Ungaretti in L’allegria («Di che reggimento siete / fratelli?», E Tomo B)

Contesto

Gli scrittori «vociani»

Tra Ottocento e Novecento

frasi brevi, intense, tipiche dello stile «vociano» del «frammento»

come una profezia: presto Serra morirà, ma prima, perlomeno, ha fatto in tempo ad aprire gli occhi sulla vita reale

Che cosa ho io oggi di più sicuro a cui fidarmi, all’infuori del desiderio che mi stringe sempre più forte? Non so e non curo.8 Tutto il mio essere è un fremito di speranze a cui mi abbandono senza più domandare; e so che non son solo. Tutte le inquietudini e le agita- 45 zioni e le risse e i rumori d’intorno nel loro sussurro confuso hanno la voce della mia speranza. Quando tutto sarà mancato, quando sarà il tempo dell’ironia e dell’umiliazione, allora ci umilieremo: oggi è il tempo dell’angoscia e della speranza. E questa è tutta la certezza che mi bisognava. Non mi occorrono altre assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il 50 presente mi basta; non voglio né vedere né vivere al di là di questa ora di passione. Comunque debba finire, essa è la mia; e non rinunzierò neanche a un minuto dell’attesa, che mi appartiene. Dirai che anche questa è letteratura? E va bene. Non sarò io a negarlo. Perché dovrei darti un dispiacere? Io sono con- 55 tento, oggi. Cesena, 20-25 marzo. R. Serra, Scritti letterari, morali e politici: saggi e articoli dal 1900 al 1915, a cura di M. Isnenghi, Einaudi, Torino 1974

8. non curo: non mi interessa (sottinteso: rispondere alla domanda precedente).

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Nelle pagine iniziali dell’Esame di coscienza Serra aveva cercato di «salvare» la letteratura, come progetto di vita superiore a quello dell’esistenza comune; come un porto in cui ancorarsi, per trovare rifugio. Adesso non più: la prospettiva si rovescia proprio nel momento cruciale in cui bisogna partire per la guerra e viverla da soldato comune, insieme a milioni di altri soldati. Cresce allora il bisogno di solidarietà, il senso del camminare insieme, senza più gerarchie né sentimenti di superiorità intellettuale: uomini come son io, [...] capaci di appoggiarsi l’uno all’altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perché. ■ Lo scrittore avverte adesso – con una chiarezza mai raggiunta prima – tutti i limiti della sua condizione di letterato, tutte le strettezze del suo «carcere d’inchiostro» (l’espressione figura nel testo omesso). Non si può continuare a far letteratura malgrado la guerra, come se niente fosse. Basta con l’isolamento, basta con la «religione delle lettere» (Serra, in un saggio dedicato a Pascoli, aveva appunto parlato di «religione delle lettere umane»). «Passione» e «fraternità» diventano perciò i concetti chiave del testo. La poesia non può rimanere degustazione della pura bellezza, ma deve diventare condivisione di un’esistenza più positiva e vera. Questo invito alla partecipazione risuonerà spesso nella letteratura novecentesca, ispirando più tardi, al tempo del Neorealismo, la stagione dell’«impegno» dell’intellettuale nella società. 490

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Rintraccia nel testo tutti i riferimenti, impliciti o espliciti, alla guerra. 2. Individua ora tutti i riferimenti alla letteratura, alla cultura, alla formazione umanistica dell’autore. Rispondi poi alle seguenti domande. • Da quali particolari si capisce che abbandonare i libri costituisce, per lo scrittore, un sacrificio? • In nome di quali valori egli compie tale sacrificio? 3. Analizza in breve lo stile del testo. Prendi in considerazione il lessico e la sintassi e poi cerca di caratterizzare lo stile scegliendo uno di questi aggettivi: a essenziale b poetico c retorico d didascalico e narrativo Scegli l’aggettivo che ti soddisfa di più e motiva la risposta con gli opportuni riferimenti al testo. 4. Nelle Chiavi del testo si afferma che «passione» e «fraternità» costituiscono i concetti chiave del testo: perché? Motiva la risposta con qualche riferimento al brano letto (max 15 righe). 5. Uno dei temi del testo è la rinuncia a capire tutto e la decisione di affidarsi alla vita così come viene. In quale punto, o in quali punti, esso emerge? 6. Spiega con le tue parole, riferendola al contesto, la frase: Quando sarà il tempo dell’ironia e dell’umiliazione, allora ci umilieremo: oggi è il tempo dell’angoscia e della speranza (rr. 47-48).

L’OPERA

Testi • Viatico (Canti anonimi)

◗ Nato a Milano nel 1885 da famiglia ligure, Rebora si laureò in Lettere con una tesi sul filosofo Gian Domenico Romagnosi. Insegnante e collaboratore della «Voce» di Prezzolini, pubblicò nel 1913 i Frammenti lirici, trascurati dalla critica. Partecipò alla guerra sugli altopiani di Asiago e poi a Gorizia come ufficiale di fanteria, rimanendo molto turbato dalla violenza bellica. ◗ Tornato dal fronte, ricominciò a insegnare, sempre più interessato a problemi religiosi e a un cristianesimo di tipo francescano. Nacquero in questo periodo le poesie raccolte in Canti anonimi (1922) e le traduzioni dal russo, tra cui spicca Il cappotto di Gogol’ (1922). Maturava intanto il suo riavvicinamento alla

religione, fino alla conversione nel 1929 e all’ingresso nel convento rosminiano di Stresa nel 1931, dove venne ordinato sacerdote nel 1936. ◗ Da sacerdote, Rebora cantò in versi la natura religiosa dell’esistenza; il suo stile rimane sostenuto da un’alta tensione poetica e morale, alla ricerca di una giustizia e di una pietà che non si trovano in questo mondo, come dimostrano il Curriculum vitae (1955) e i Canti dell’infermità (1957). A lungo provato da una grave malattia, Rebora si spense a Stresa nel 1957. La raccolta completa dei suoi versi è apparsa in edizione critica nel 1988. Di notevole importanza anche la raccolta delle Lettere, uscita nel 1982.

FRAMMENTI LIRICI ◗ I Frammenti lirici, pubblicati a Firenze nel 1913 dalla «Libreria della Voce», raccolgono 72 componimenti. Il poeta dedica l’opera «ai primi dieci anni del secolo XX»; di quest’epoca vuole ritrarre i dubbi, la crisi di valori, il bisogno di nuove certezze morali. Il titolo, Frammenti, denuncia l’impossibilità di approdare a una versificazione di vaste proporzioni e insieme risponde alla poetica «vociana», che si concentra sul «frammento» (in prosa o in poesia) con forte tensione intellettuale ed esistenziale, così da comunicare un bisogno assoluto di verità. I temi della raccolta sono la difficoltà del vivere, il senso della fatica quotidiana, un desiderio di solitudine nella natura. ◗ Il linguaggio poetico di Rebora appare ora scabro ed essenziale, ora raffinatamente prezioso. Proprio lo stile, tra i più originali del

primo Novecento, è forse il dato di maggiore interesse: l’autore esprime la sua ardua meditazione attraverso il ritmo irregolare delle strofe, l’uso di un lessico teso fino all’eccesso, le atmosfere concettuali. ◗ «Nel quadro del nostro Novecento, la poesia di Rebora è quella che si regge sulla più ostinata e raccolta tensione morale, su di una costante interrogazione dell’incertezza e della difficoltà della ragione [...]. La spinta razionale e l’attenzione al reale risalgono a una tradizione lombarda, entro cui Rebora s’inscrive [...]. [Egli vuole ricavare] dai limiti del fare poetico una “forza”: una possibilità di seguire l’intreccio tra bene e male, di creare un contatto morale, di cercare la via difficile di una conoscenza condivisa (insistenti sono i suoi richiami al lettore)» (G. Ferroni).

Clemente Rebora

2

Dall’intensa nuvolaglia Frammenti lirici Anno: 1913 Temi: • il grigiore e l’alienazione della vita contemporanea • la dissoluzione dei valori e dell’energia morale È il terzo dei 72 componimenti raccolti nei Frammenti lirici; un testo molto denso, che fonde la raffigurazione del paesaggio (qui, sconvolto dal temporale) con la risonanza interiore di esso. 491

Contesto

CLEMENTE REBORA

Monografia Raccordo

L’AUTORE

Tra Ottocento e Novecento

Dall’intensa nuvolaglia giù – brunita la corazza, con guizzi di lucido giallo, con suono che scoppia e si scaglia – piomba il turbine e scorrazza sul vento proteso a cavallo1 campi e ville, e dà battaglia; ma quand’urta una città si scàrdina2 in ogni maglia, s’inombra come un’occhiaia,3 e guizzi e suono e vento tramuta in ansietà d’affollate faccende in tormento: e senza combattere ammazza.4

Parafrasi

5

10

Dalla fitta coltre di nubi – (come un cavaliere che indossa) la corazza scura [brunita], con lampi dal riverbero chiaro [giallo], con il tuono che esplode e si scaraventa (a terra) – si scatena giù il temporale [turbine] e cavalcando colpisce [scorrazza] campi e borghi [ville]; ma quando (il temporale) s’imbatte in una città, si suddivide [si scàrdina] in tanti piccoli scrosci e venti [in ogni maglia], si scurisce come l’occhiaia profonda (di un malato) e trasforma i suoi sussulti e il rimbombo e il vento in una condizione d’ansia e di tormento per l’affannato succedersi delle incombenze quotidiane [affollate faccende]: e (in tal modo) uccide (gli abitanti) senza neppure combattere.

P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, A. Mondadori, Milano 1981 Schema metrico: versi vari, con prevalenza di novenari e ottonari. Schema ABC, ABC, ADAE, FDFB. 1. scorrazza... cavallo: il turbine spazza la

campagna, cavalcando proteso in avanti. 2. si scàrdina: si divide in tanti piccoli venti e scrosci. I pezzi (maglie metalliche) dell’armatura, cioè gli scrosci del temporale, si scompaginano, nell’urto contro la città.

3. occhiaia: è la cavità ossea che accoglie il globo oculare. 4. ammazza: «la città uccide il coraggio umano subdolamente, senza combattere» (F. Fortini).

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il testo si suddivide in due parti, separate dalla congiunzione ma del v. 8; gli ultimi tre versi costituiscono l’epilogo. • Nella prima sequenza (vv. 1-7) si osserva la tempesta (il turbine, v. 5) nel momento in cui si sfoga liberamente sulla campagna: i lampi (v. 3), i tuoni (v. 4) e il vento (v. 6) scatenano la potenza della natura. • La seconda sequenza (vv. 8-12) raffigura l’abbattersi del temporale sulla città, quando la pioggia scende frangendosi fra le vie e i palazzi, mentre il vento, trovando ostacoli innaturali, forma gorghi e mulinelli. • Nell’epilogo (vv. 12-14) si passa dalla raffigurazione naturalistica alla riflessione morale e psicologica. ■ Un fatto naturale diviene spunto per una riflessione morale. Un improvviso temporale diviene l’occasione per denunciare la caduta dei valori, per condannare il grigiore e l’alienazione contemporanea. Le affollate faccende in tormento spersonalizzano gli uomini e li rendono fragili e incerti. Messo a contatto con la città estesa e impersonale, persino il temporale muta, alla fine, la propria natura. All’inizio esso si presentava come una gioiosa giostra cavalleresca, un turbine elegante e velocissimo sui campi. Ma poi esso diviene qualcosa di molto diverso, che ammazza, in quanto trasmette ansietà alla gente di città, intralciata nei propri pressanti affari. L’agire fisico della tempesta (tema della prima sequenza) si muta così nella violenta lacerazione interiore che essa produce nell’individuo (tema della seconda 492

sequenza). La sconfitta è inevitabile: il vento non può più combattere la sua epica battaglia, in quanto nessuno è pronto a raccoglierne la sfida. ■ Sul piano stilistico, all’inizio le sensazioni si affastellano; il lettore giunge d’un fiato fino al punto e virgola del v. 7. Quando ricomincia la lettura, la forte pausa del ma attenua il ritmo, proprio come rallenta dell’impeto temporalesco: le ondate della burrasca si frangono sulla città, diminuiscono il loro impeto, pur senza cessare (infatti il testo consta di un solo, lungo periodo, frenato ma non interrotto). ■ Sul piano fonico, 12 versi su 14 presentano la vocale a in posizione di ultima sillaba tonica (cioè accentata), con effetti di drammatizzazione. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Molte immagini e vocaboli sono attinti dal linguaggio guerresco e cavalleresco. Rintracciali nella lirica. 2. Quale significato assume questo ricorso al linguaggio cavalleresco? Motiva in breve la tua risposta. 3. Il lessico risponde allo stile «teso» di Rebora: si notino al v. 5 il verbo «scorrazzare» usato transitivamente, l’ardita similitudine del v. 10 ecc. Continua tu l’analisi. 4. Nel componimento la descrizione di un fenomeno atmosferico (il temporale) si tramuta in una raffigurazione simbolica, attraverso la quale l’autore cerca di esprimere un concetto astratto. Quale? Riassumilo in max 5 righe.

Leggere l’arte La visione utopica, dai preraffaelliti a Gauguin Rifugiarsi nel passato Dalla Repubblica di Platone a Utopia (1516) di Thomas More, fino a Eros e civiltà (1955) di Marcuse, la cultura europea ha riflettuto spesso, in modi vari, sull’utopia. Il termine significa in greco “non luogo”, “luogo inesistente”: prima lo si applicò a comunità di tipo ideale e perfetto, poi, in senso spregiativo, a progetti politici astratti e irrealizzabili. Alla fine dell’Ottocento, la nuova civiltà industriale riaccese, per reazione, visioni utopiche: chi rifiutava le macchine e il progresso si rifugiava nel passato, unica culla possibile del bene. Un’utopia di tipo regressivo nutrì il movimento «preraffaellita», corrente artistica inglese attiva dal 1848. Pittori come William Holman Hunt (1827-1910), John Everett Millais (1829-96) e Dante Gabriel Rossetti (1828-82), figlio di un esule mazziniano, reagirono al materialismo della società industriale e allo sfruttamento delle classi povere, evocando immagini «primitive» e medievali. Essi auspicavano un ritorno ai pittori anteriori («pre-») a Raffaello, da loro accusato di aver troppo intellettualizzato l'arte. Per esempio in Il prato di Bower (1872) Dante Gabriel Rossetti esprime la sua concezione utopica di una società spirituale attraverso la bellezza, la grazia e la serenità di alcune figure femminili che suonano e danzano immerse nella natura.

■ Dante Gabriel

Rossetti, Il prato di Bower, 1872, olio su tela, 85x67 cm, Manchester, City Art Gallery.

L’autenticità delle società primitive L’utopia come ritorno al passato anima anche i dipinti del «periodo polinesiano» del postimpressionista francese Paul Gauguin (1848-1903). Nella natura e nella società delle isole polinesiane egli individuò l'alternativa alla società industriale e di massa, il luogo ove ritrovare la condizione di autenticità e di ingenuità primitive, proprie della natura umana originaria: la Polinesia di Gauguin funziona come la civiltà medievale amata dai preraffaelliti.

■ Paul Gauguin, Arearea, 1892, olio su tela, 75x94 cm, Parigi, Museo d’Orsay.

In Arearea (1892), per esempio, Gauguin rappresenta il senso di innocenza e d’integrità morale della società polinesiana. Sulle sue tele ritorna quel mito del «buon selvaggio» elaborato nel

Settecento dall’illuminista Jean-Jacques Rousseau, critico verso le istituzioni sociali e desideroso di tornare alla vita semplice e felice delle prime stagioni umane. 493

L’AUTORE

CAMILLO SBARBARO ◗ Sbarbaro nacque nel 1888 a Santa Margherita Ligure. La sua vita si svolse tutta, tranne la parentesi della Prima guerra mondiale e qualche viaggio, nella natia Liguria. Lavorò inizialmente nell’industria siderurgica, poi come insegnante di greco e latino, dedicandosi nel frattempo alla raccolta e allo studio dei muschi e dei licheni: in questo campo divenne uno specialista di fama mondiale. ◗ Dopo la raccolta giovanile di versi Resine, edita a Genova nel 1911, si affermò come poeta con il suo secondo libro, Pianissimo, pubblicato a Firenze nel 1914 per le edizioni della «Voce».

L’OPERA

PIANISSIMO ◗ Sbarbaro pubblicò Pianissimo nel 1914. Il libro esprime nel modo più compiuto la sua concezione poetica. Dopo la prima edizione, il poeta tornò più volte sui testi della raccolta, rielaborandoli profondamente per le stampe successive (1954 e 1960).

Testi • Padre, se anche tu non fossi...

◗ Il successo gli aprì le porte alla collaborazione a diverse riviste letterarie, tra cui «La Voce» e «La Riviera ligure». ◗ Nel 1951 Sbarbaro si ritirò con la sorella a Spotorno; a quest’epoca risalgono gli ultimi libri di poesie: Rimanenze (1955) e Primizie (1958). Morì a Savona nel 1967. I suoi frammenti in prosa sono raccolti nei volumi Trucioli (1920), Liquidazione (1928), Fuochi fatui (1956), Scampoli (1960). Si ricordano inoltre sue traduzioni dal greco (le tragedie di Euripide) e dal francese (Flaubert e Huysmans).

◗ Il tema centrale della raccolta è l’estraniazione dell’uomo dalla società e da se stesso: ciò produce una sorta di pietrificazione interiore, per la quale il dolore, alla fine, appare l’unica possibilità di relazionarsi con il reale.

Camillo Sbarbaro

3

Taci, anima stanca di godere Pianissimo Anno: 1914 Temi: • l’alienazione come sentimento di estraneità da tutto • l’io ridotto a «cosa» e il mondo ridotto a deserto • la rassegnazione di fronte a tale condizione È il testo d’apertura della raccolta: una poesia di sorprendente modernità, per i temi e il linguaggio adottato.

il verbo indica sia l’inutilità della protesta, sia l’urgenza di un colloquio intimo con se stesso un concetto chiave del Decadentismo, da Baudelaire in poi

Taci, anima stanca di godere e di soffrire (all’uno e all’altro1 vai rassegnata). Nessuna voce tua odo se ascolto: non di rimpianto per la miserabile2 giovinezza, non d’ira o di speranza, e neppure di tedio.

Schema metrico: versi liberi, con prevalenza di endecasillabi; vi sono settenari, qualche novenario e altre misure più brevi. 494

1. all’uno e all’altro: verso il piacere come verso il dolore l’anima si avvia con pari indifferenza.

5

2. miserabile: degna di compassione, e anche riprovevole.

altra immagine di estraneità, di alienazione di fronte alla vita

la realtà esterna non offre più gioie o prospettive; il poeta è senza speranza

Giaci come il corpo, ammutolita, tutta piena d’una rassegnazione disperata. Noi non ci stupiremmo non è vero, mia anima, se il cuore si fermasse, sospeso se ci fosse3 il fiato... Invece camminiamo. Camminiamo io e te come sonnambuli. E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano son donne, e tutto è quello che è, soltanto quel che è. La vicenda di gioia e di dolore non ci tocca. Perduto ha la sua voce la sirena del mondo,4 e il mondo è un grande deserto. Nel deserto io guardo con asciutti5 occhi me stesso.

10

Monografia Raccordo

è l’unico atteggiamento possibile di fronte alla consapevolezza del nulla

Contesto

Gli scrittori «vociani»

15

20

25

P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, cit. 3. sospeso... fosse: come se ci fosse tolto. 4. Perduto... la sirena del mondo: le cose

e le esperienze allettanti della vita terrena non hanno più attrattive.

5. asciutti: privi di lacrime.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ La lirica è dominata da due immagini di totale silenzio (v. 1, Taci; vv. 22-23, Perduto ha la sua voce / la sirena del mondo): l’anima, stanca di ogni esperienza, tace, e neppure il mondo parla più al poeta; ne deriva la rassegnazione disperata del v. 10. L’uomo è ridotto a «sonnambulo», a spettatore inerte della propria vita (v. 16). ■ Il tema del componimento è, in sostanza, l’alienazione, un motivo tipico della lirica di Sbarbaro. L’incapacità di riconoscersi, di affermarsi positivamente nel mondo, produce il ridursi dell’io a «cosa» (la reificazione), e quindi l’interruzione dei rapporti tra l’uomo e il mondo (l’estraneità totale). Sono i caratteri di un’alienazione che si espande ovunque e che si traduce nell’assoluta solitudine delle cose: all’io che si fa pietra corrisponde il mondo ridotto a un deserto. ■ Questi contenuti suggeriscono al linguaggio poetico una forma di silenzio (Taci), di rinuncia. Il tormento esistenziale si esprime con un tono soffocato, mai esibito; con un ritmo spezzato, che ritrae il dolore senza lacrime, senza sfoghi. La «poesia in prosa» di Sbarbaro è totalmente priva di musicalità; si affida a una serie di immagini-oggetto, di sistematiche

negazioni. Di questo linguaggio si ricorderà il Montale di Ossi di seppia, con la sua poetica dell’«aridità». LAVORIAMO SUL TESTO 1. Individua nel testo tutte le immagini di negatività. 2. Esistono elementi positivi? Motiva la risposta. 3. In che senso quella che hai letto è una «poesia in prosa»? Motiva la risposta con qualche esempio. 4. Il componimento è retto da una spasmodica ricerca di un colloquio, di un incontro. Da quali elementi lo capisci? 5. Ci sono momenti o accenni che ti permettono di dire che il colloquio, infine, si stabilisce? Motiva in breve la risposta. 6. Il sottofondo della lirica è un giudizio sulla realtà del proprio tempo. Riassumi tale giudizio in max 5 righe. 7. Nel testo si individuano alcuni enjambements: in quali versi? Quale ti sembra la loro funzione? 8. Il contenuto etico-psicologico, l’autobiografismo e il moralismo di questo testo consentono di accostare Sbarbaro all’area culturale vociana. Spiegane il motivo facendo gli opportuni riferimenti ai testi e agli autori vociani incontrati in precedenza. 495

L’AUTORE

DINO CAMPANA ◗ Campana nacque nel 1885 a Marradi, un paese sull’Appennino tosco-romagnolo. Dopo gli studi liceali, nel 1903 si iscrisse alla facoltà di Chimica all’Università di Bologna, per passare poi a Chimica farmaceutica a Firenze. Nel 1906 fu ricoverato per qualche tempo, come «squilibrato di mente», nel manicomio di Imola. ◗ Dimesso contro il parere dei medici, per volontà del padre, tra il 1906 e il 1910 viaggiò in Svizzera, Francia, Belgio, e poi in Argentina e Uruguay, vivendo dei mestieri più disparati (fuochista, meccanico, poliziotto, infine mozzo su un mercantile per pagarsi il viaggio di ritorno). Nel 1909 fu nuovamente ricoverato a Tournai, in Belgio. Nel dicembre

L’OPERA

Testi • Viaggio a Montevideo

1913, a Firenze, strinse rapporti con Soffici e Papini, i direttori di «Lacerba», la rivista che per prima pubblicò alcuni suoi versi. Fece stampare nel 1914, a proprie spese, il libro poetico dei Canti orfici. Operaio a Ginevra, venne licenziato nel maggio 1915; si sarebbe voluto arruolare volontario nella Prima guerra mondiale, ma fu riformato, cioè dichiarato inabile alle armi. ◗ Nel 1916 conobbe Sibilla Aleramo, con la quale strinse un’alterna relazione sentimentale che durò fino all’inverno del 1917, allorché fu arrestato per vagabondaggio a Novara. Nel gennaio 1918 venne definitivamente internato nell’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, dove rimase fino alla morte, nel 1932.

CANTI ORFICI ◗ Campana consegnò nel 1913 a Papini e Soffici, perché fosse esaminato in vista di una pubblicazione integrale, il quadernetto autografo dei suoi Canti orfici, con il titolo di Il più lungo giorno. Quel manoscritto fu però smarrito da Soffici durante un trasloco. Campana ricostruì e riscrisse a memoria l’opera, che fu pubblicata a sue spese nel 1914, a Marradi, suo paese natale, dal tipografo Ravagli. Nel 1971, anno del ritrovamento del quaderno perduto, ci si è resi conto delle divergenze fra le due redazioni. ◗ Il libro si compone di «frammenti» in poesia (versi liberi) e prosa (prose liriche). Visioni di

paesaggio, sensazioni e ricordi si fondono in un’originale atmosfera, nel tipico linguaggio, allucinato e febbrile, dell’autore. ◗ Campana è stato salutato da vari critici come il padre della lirica moderna italiana, precursore di Ungaretti e degli ermetici. Altri invece limitano il suo ruolo a quello di un semplice, pur se originale, continuatore della tradizione. Di sicuro ha contribuito allo svecchiamento della lingua poetica tradizionale, introducendo nella nostra letteratura le decisive novità del Simbolismo francese (di Rimbaud soprattutto) e fornendo un modello per gli sviluppi successivi.

Dino Campana e l’orfismo Il titolo Canti orfici (1914) allude esplicitamente all’«orfismo», una dottrina filosofica e religiosa dell’antichità greca. Essa si richiamava a Orfeo, il mitico poeta cantore dotato del prodigioso potere di ammaliare animali, uomini e dèi; con la sua arte Orfeo aveva addirittura riportato alla vita, dall’Ade, l’amata Euridice (seppure per un tempo limitato). Tutti i poeti che si richiamano all’orfismo attribuiscono un significato magico

496

ed evocativo alla parola poetica; la poesia è vista come fonte di salvezza, capace di riportare alla luce un’anima immortale, ma che va risvegliata, proprio come Euridice fu strappata alle tenebre. La poesia dunque non è decorazione, ma ha una missione suprema. Tali presupposti animano appunto i Canti orfici di Campana, un libro in cui dominano i colori (l’oro, l’azzurro) che esprimono il bisogno di luce, e in cui ri-

troviamo le tematiche della notte infera e della liberazione. Dopo il francese Ar thur Rimbaud (autore di Una stagione all’inferno) e Dino Campana, una linea di poesia orfica è presente in tutta la poesia novecentesca. La troviamo per esempio nella prima raccolta del giovane Ungaretti, Il porto sepolto, che canta la salvezza, una liberazione che – orficamente – è vista risiedere fin dall’inizio in noi.

Gli scrittori «vociani»

L’invetriata Canti orfici Anno: 1914 Temi: • la contemplazione di un tramonto estivo • l’emozione, intensissima, del contatto con i colori della sera e della notte • la ferita sempre aperta nel cuore dell’esistenza umana All’interno dei Canti orfici, una serie di sette poesie (i Notturni) s’ispira all’esperienza «notturna»: una dimensione favorevole, perché la notte consente all’io-poeta di sganciarsi dalla realtà contingente, così da afferrare e intuire, per il tramite della memoria, gli spiragli che dall’esperienza umana, terrena, si dischiudono in direzione dell’essenziale e del sacro. Di questa serie fa parte L’invetriata (cioè: “La vetrata”, “La finestra”). Origine della lirica è il desiderio di descrivere i passaggi atmosferici e paesaggistici che conducono dall’ora del tramonto al buio della notte, così come il poeta li osserva attraverso una vetrata. Fin da subito, però, la contemplazione del mondo esterno assume forme alterate per il traboccare dei sentimenti che agitano l’animo dell’autore.

la sintassi libera e le ripetizioni fanno spazio all’affiorare delle pure sensazioni l’emozione si riveste delle sfumature di colore

La sera fumosa1 d’estate dall’alta invetriata2 mesce3 chiarori nell’ombra e mi lascia nel cuore un suggello4 ardente. Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha a la Madonnina del Ponte5 chi è chi è che ha acceso la lampada? c’è nella stanza un odor di putredine:6 c’è nella stanza una piaga rossa languente.7 Le stelle sono bottoni di madreperla8 e la sera si veste di velluto: e tremola la sera fatua:9 è fatua la sera e tremola ma c’è nel cuore della sera c’è, sempre una piaga rossa languente.

5

10

D. Campana, Canti orfici, a cura di F. Ceragioli, Rizzoli, Milano 1989

Schema metrico: versi liberi. 1. fumosa: avvolta dalla foschia (creata dalla calura estiva). 2. invetriata: vetrata. Il poeta descrive una condizione di separazione: una stanza chiusa, le luci del mondo fuori.

3. mesce: versa. 4. suggello: sigillo, impronta; ma qui va parafrasato con “emozione, eccitazione”. 5. Madonnina del Ponte: un’immagine religiosa a Marradi. 6. putredine: putrefazione, sporcizia. 7. languente: che langue e soffre.

8. Le stelle... di madreperla: quindi chiare e luminose. 9. tremola la sera fatua: l’evanescente paesaggio serale ondeggia leggermente. L’aggettivo fatua va collegato all’idea che in questo paesaggio si vedono fantasmi (i fuochi fatui dei cimiteri).

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Monografia Raccordo

4

Contesto

Dino Campana

Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il poeta osserva da una finestra il calare della sera, fino al buio della notte; rappresenta anche le reazioni interiori che tale contemplazione gli suscita. Egli si sente ferito nel cuore dall’impronta ardente del sole; poco dopo qualcuno accende una lampada e allora l’io-poeta rivolge a se stesso domande senza risposta. La sera muore entrando nella nuova dimensione della notte; a ricordare il passato fulgore della sera è solo il rosso della ferita nel cuore dell’io-poeta. ■ Possiamo suddividere il componimento in tre parti: • vv. 1-3: il rosso caldo e acceso di un tramonto estivo riversa il suo chiarore nell’ombra della stanza dove si trova il poeta; egli si sente inspiegabilmente piagato, nel suo cuore, dalla luce color del sangue che invade la stanza; • vv. 4-7: ormai è buio; l’accendersi improvviso di un lampione (presso un’immagine della Madonna dipinta all’inizio di un ponte) sconvolge le tenebre. Nascono, nello spirito eccitato del poeta, inquieti interrogativi: chi è chi è che ha acceso la lampada? Il semplice avvenimento sembra inspiegabile e si carica perciò di mistero. Il turbamento (la putredine, la forza corrosiva delle domande senza risposta) si espande, contagiando la stanza in cui si trova il poeta e che sembra caricarsi degli estremi bagliori del tramonto (una piaga rossa languente); • vv. 8-11: è il momento della notte; le stelle brillano quali bottoni di madreperla, nel cielo buio, che pare dolce e morbido come una scura stoffa di velluto. Campana sottolinea però la natura fatua e tremola di questa bellezza: essa è destinata a svanire con il ritorno del giorno. Non svanirà però sempre una piaga rossa languente (v. 11), ovvero la nota di malinconia e tristezza che si è destata nell’animo del poeta nell’ora iniziale del tramonto: essa, ora, pervade sia il suo cuore sia il cuore della sera. ■ La poesia è originata dal parallelismo tra la “ferita” (piaga) del tramonto e la «ferita» che Campana sente nel proprio animo. L’autore tenta così di comunicare l’esistenza di una realtà interiore che non è percepibile dai sensi, e che si manifesta attraverso segni quotidiani che si trasformano in elementi turbanti. ■ Il testo s’intesse su poche parole, che Campana cerca di dilatare sfruttando le varie figure retoriche basate sulla ripetizione; esse coinvolgono sia le forme minime del discorso (come c’è, che compare alla fine dei vv. 5, 6, 9, 10), sia porzioni più estese del verso (una piaga rossa languente ai vv. 7 e 11). Il discorso poetico fa un uso sapiente degli aggettivi, così da mettere in risalto le sfumature psicologiche e i sentimenti dell’io poeta. ■ Le due metafore che riempiono il v. 8 traducono ciò che i critici chiamano l’«espressionismo» di Campana:

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• le stelle non sono solo stelle, ma bottoni di madreperla; • la sera è un vestito di velluto che tutto ricopre. La percezione del poeta non è esprimibile altrimenti che per mezzo di simili immagini, ai limiti dell’allucinazione onirica. LAVORIAMO SUL TESTO 1. La linearità logica del discorso appare, in questa poesia, piuttosto precaria. a. Quali elementi la compromettono? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... b. Quali effetti si ripromette di raggiungere, in tal modo, il poeta? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 2. Quali tipi di sensazioni prevalgono nel testo: uditive, visive, cromatiche? Motiva la risposta con opportuni riferimenti. 3. Il componimento ha l’aspetto di una prosa poetica, che si spezza e va a capo in momenti inaspettati. a. Attraverso quali strumenti il poeta ottiene questo effetto? ...................................................................................................... ....................................................................................................... ............................................................................................... b. Secondo te, quali concetti o termini vengono messi in rilievo in tal modo? Motiva la risposta. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... c. Le immagini, in questa cornice, risultano spezzate oppure più fluide? Perché? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 4. Indica le cinque emozioni secondo te più forti che il poeta prova e vuole comunicare; motiva la tua scelta con riferimenti al testo. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 5. Proponi adesso un tuo riassunto ragionato o, se preferisci, una parafrasi, del componimento.

Gli scrittori «vociani»

Sogno di prigione Canti orfici Anno: 1914 Temi: • ricordo, sogno, allucinazione • la bellezza della natura e della libertà • la visione dell’io in fuga da se stesso È notte. Dino Campana è recluso nella sua cella di «prigione», cioè di prigioniero. Può osservare il mondo solo da dietro le sbarre, ma la bellezza che intuisce al di là è sufficiente a trasformare la povera realtà della prigione in qualcosa di angelico. Poi giunge il momento dolcissimo del sonno: ora la mente conduce il poeta alla visione di Anika (una creatura misteriosa, priva di connotati reali) e poi al ricordo della stazione di Marradi, il suo paese. Si arriva così fino all’immagine del treno in corsa, rombante nella notte, sul quale l’io-poeta crede di vedere se stesso. Tutto si consuma in un attimo, in un susseguirsi di colori e di voci alternate a silenzi, secondo il rapidissimo processo di associazioni mentali proprio, appunto, dei sogni.

un ambiente, insieme, fisico e simbolico il «prigioniero» comincia a sognare; le visioni si succedono, nel disordine del sogno

l’incubo si materializza: l’io vede se stesso, rapito dal treno, in fuga

Nel viola della notte odo canzoni bronzee.1 La cella è bianca, il giaciglio è bianco. La cella è bianca, piena di un torrente di voci che muoiono nelle angeliche cune,2 delle voci angeliche bronzee è piena la cella bianca. Silenzio: il viola della notte: in rabeschi3 dalle sbarre bianche il blu del sonno. Penso ad Anika:4 stelle deserte sui monti nevosi: strade bianche deserte: poi chiese di marmo bianche: nelle strade Anika canta: un 5 buffo5 dall’occhio infernale la guida, che grida. Ora il mio paese tra le montagne.6 Io al parapetto7 del cimitero davanti alla stazione che guardo il cammino nero delle macchine,8 sù, giù. Non è ancor notte; silenzio occhiuto9 del fuoco: le macchine mangiano rimangiano il nero silenzio nel cammino della notte. Un treno: si sgonfia10 arriva in silenzio, è fermo: la porpora11 del treno morde la notte:12 dal parapetto del cimitero le 10 occhiaie rosse che si gonfiano nella notte:13 poi tutto, mi pare, si muta in rombo: Da un finestrino in fuga io? io ch’alzo le braccia nella luce! (il treno mi passa sotto14 rombando come un demonio). D. Campana, Canti orfici, cit.

1. canzoni bronzee: i canti hanno cioè la sonorità del bronzo. 2. muoiono... cune: vanno a finire nelle culle (cune) degli angeli. La dolcezza celestiale del canto, cioè, investe le brande delle celle, trasformandole in culle. 3. rabeschi: fregi geometrici; qui si tratta delle inferriate della cella. 4. Anika: un nome nordico, che Campana stesso indicò come «di fantasia». 5. un buffo: un buffone, ma dallo sguardo diabolico (occhio infernale). 6. Ora... montagne: sottinteso «vedo» o

simili. Il paese di Campana è Marradi, in provincia di Firenze. 7. Io al parapetto: sottintendi «sono». 8. macchine: locomotive, motrici di treni. 9. occhiuto: questi «occhi» sono i fanali delle locomotive o gli sportelli delle caldaie dei treni. 10. si sgonfia: arriva alla stazione per inerzia e si ferma senza azionare i freni, ma solo allentando la pressione delle caldaie; perciò sembra «sgonfiarsi», per la fuoriuscita del vapore. 11. porpora: luce rossa.

12. morde la notte: il linguaggio di Campana è sempre teso, fisico, «espressionista». 13. le occhiaie... nella notte: nel buio si vedono (il verbo è sottinteso) i fanali del treno farsi più luminosi e grandi. 14. mi passa sotto: al di sotto; nel sogno, l’io-poeta osserva le cose come dall’alto, forse solo perché si sporge dal parapetto sulla stazione.

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Monografia Raccordo

5

Contesto

Dino Campana

Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Nel testo (un frammento di prosa poetica sul tipo di quelli diffusi tra gli scrittori «vociani») si possono individuare tre momenti: • la cella e il sopraggiungere del sonno; • la «visione fantastica» di Anika e della sua guida, un buffo dall’occhio infernale; • la visione-ricordo di Marradi e della stazione al sopraggiungere della notte. ■ Ogni cosa viene osservata e ritratta come nel dormiveglia notturno: le sensazioni normali della vita (suoni e colori) si trasformano in altre percezioni, solo sognate. Mancano rapporti logici o di consequenzialità fra le varie immagini. Alla fine giunge il particolare più inquietante: lo sdoppiamento dell’io; l’io-poeta vede se stesso in sogno, rapito dal treno in corsa nella notte. Ciò che all’inizio era musica celestiale si muta adesso in inquietudine, in un «urlo», quello della figura a braccia levate nella carrozza del treno. ■ Grande rilievo hanno, nel testo, colori e suoni. • Tra i colori, emerge un contrasto tra il viola (due volte ripetuto) della notte al di fuori della cella e il colore bianco all’interno di essa (più volte ripetuto). Al centro del testo i bianchi della cella si trasformano in altri «bianchi» (la neve sui monti, le strade, le chiese). Infine al nero del cimitero e della notte si oppone il rosso fuoco dei treni e delle caldaie, che paiono occhi spalancati nel buio. • Tra i suoni, spicca il canto celestiale dell’inizio, capace di trasformare la realtà (anche i giacigli diventano angelici). Subentra poi il silenzio del buio e della notte, interrotto dal canto di Anika. Poi la scena cambia e con la stazione ritorna il silenzio: anche il treno giunge senza fare rumore, come «sgonfiandosi». Viene poi l’improvviso rombo di un treno in movimento che, rombando come un demonio nel buio, si porta via l’immagine (appena intravista) di sé. ■ La scrittura si affida alla punteggiatura, molto accurata, e alle ripetizioni, spesso insistenti: • La cella è bianca, il giaciglio è bianco. La cella è bianca... la cella bianca; • nelle angeliche cune, delle voci angeliche. Questa ripetizione di parole crea come un refrain o ritornello musicale.

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LAVORIAMO SUL TESTO 1. Scrivi un riassunto del testo (max 5 righe). 2. Il tema della prigione è, di solito, associato a squallore, desolazione, solitudine. In questa breve pagina esso si trasfigura invece in qualcosa di assai diverso: sei d’accordo con questa interpretazione? Motiva la risposta con riferimenti al testo. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 3. Nella prosa si combinano ricordi (il mio paese tra le montagne) e fantasie (Anika), dati realistici e percezioni immaginarie (canzoni bronzee). Prosegui tu nell’analisi. 4. Il testo ti sembra costruito logicamente? Oppure ti sembra seguire le leggi dell’allucinazione? Motiva in breve la risposta. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 5. Violente frasi nominali (cioè prive di verbo reggente) sono alternate, nel testo, a frasi brevissime, segmentate da frequenti punti e due punti. Evidenzia sul testo questi fenomeni. Proponi poi un tuo commento personale su questo personalissimo stile letterario. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 6. Canzoni bronzee, silenzio occhiuto sono due sinestesie. Definisci tale figura retorica e cerca di chiarire perché il poeta ne fa uso. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... .......................................................................................................

VERIFICA L’età contemporanea

Il Futurismo

1

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.

1.

Le riviste fiorentine, tra cui «La Voce», costituirono in Italia un’esperienza paragonabile V a quella delle grandi avanguardie europee. Tutte le riviste fiorentine furono pubblicate V nel primo decennio del Novecento. «Il Regno» di Corradini fu la rivista schierata a favore del socialismo rivoluzionario e perciò prese posizione contro l’entrata in guerra V dell’Italia. «Lacerba nacque da una scissione interna V consumatasi fra i redattori del «Leonardo». Sul piano politico i giovani fondatori del «Leonardo» si dicevano ostili alla democrazia parlamentare, al socialismo V e al cristianesimo.

2. 3.

4. 5.

2

d

1 2 3 4 5 6 7 8

Frammenti lirici Esame di coscienza di un letterato Canti orfici Il mio Carso Un uomo finito Hermes Trucioli Frantumi

4

Rispondi alle seguenti domande.

1.

Perché Leonardo da Vinci fu preso a modello culturale e diede quindi il nome alla rivista omonima? Quali uomini di cultura e intellettuali collaborarono alla «Voce»? Che cosa si intende per «La Voce bianca»? Da quale poeta vociano prenderà le mosse Eugenio Montale per i suoi Ossi di seppia? Per quale motivo il poeta americano Walt Whitman esercitò un influsso sui poeti vociani? Per quali motivi le riviste fiorentine avversavano la politica di Giolitti? Riassumi il programma del «Leonardo» (max 5 righe). Riassumi il programma della «Voce»(max 5 righe). Che cos’era il pragmatismo e quale influsso esercitò sui giovani intellettuali fiorentini dell’epoca? (max 5 righe)

F

F

F

Sbarbaro Rebora Boine Campana Papini Soffici Slataper

3

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte.

1.

Papini e Prezzolini a fondarono e diressero insieme «Il Leonardo» e «La Voce» b fondarono e diressero insieme «Il Leonardo» e, per qualche mese, «La Voce» c fondarono e diressero insieme «La Voce» d fondarono e diressero insieme «Il Leonardo», «La Voce» e, per qualche tempo, anche «Lacerba»

2.

I caratteri prevalenti dei poeti vociani furono a una poesia di tipo morale, introspettiva, che rifiuta le forme liriche tradizionali b una poesia simbolica, che rinuncia a comunicare contenuti per concentrarsi sulla visione c una poesia che canta realtà lontane dalla deludente realtà, per spronare i lettori a reagire ai mali contemporanei d una poesia di tipo morale, che rinnova i contenuti ma mantenendosi fedele alle forme della tradizione

F

a. Serra b. c. d. e. f. g. h.

3. F

Collega ogni raccolta lirica al corrispondente autore; fai attenzione all’intruso.

Quali furono i caratteri prevalenti dei prosatori vociani? a un tipo di prosa «oggettiva» e il desiderio di spronare i lettori a reagire ai mali del presente b temi sociali e tendenza al «frammento» lirico in prosa c autobiografismo e desiderio di spronare i lettori a reagire ai mali del presente

autobiografismo e tendenza al «frammento» lirico in prosa

2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

PER L’ESAME DI STATO 1.

2.

3.

Quali caratteri stilistici presenta il «frammento» in prosa caro ai prosatori vociani, e da quali fonti essi derivano? Inoltre: c’è qualche testo di questo raccordo che possa esemplificare tali indicazioni? (max 10 righe) Spiega con le tue parole, con riferimenti ai testi letti in questo raccordo, l’affermazione di Prezzolini «Noi sentiamo fortemente l’eticità della vita intellettuale» (max 10 righe). Illustra i caratteri prevalenti della poesia di Dino Campana, con qualche riferimento ai testi letti (max 10 righe).

501

Monografia Monografia

Italo Svevo 502

Italo Svevo

1 La formazione di Ettore Schmitz Italo Svevo nasce a Trieste il 19 dicembre 1861 da famiglia di origine ebraica (il padre è un impiegato statale di nazionalità tedesca). Il suo vero nome è Aron Hector Schmitz, ma dopo aver sperimentato vari pseudonimi (Erode, Ettore Samigli, E. Mugliano) nel 1892 lo scrittore assumerà quello, definitivo, di Italo Svevo, giustificandolo nel Profilo autobiografico del 1928 come volontà di «affratellare la razza italiana e quella germanica» (E Testo 1, p. 517). Dopo un’«infanzia felicissima», come egli stesso la definì, nel 1874 viene mandato a vivere e studiare, assieme a due fratelli, nel collegio di Segnitz, in Baviera (Germania). Ritornato in Italia nel 1878, completa gli studi commerciali all’Istituto Revoltella di Trieste, presso i cui corsi serali, anni dopo, sarà egli stesso docente. Acquista intanto una buona conoscenza letteraria: legge prima gli autori classici della letteratura tedesca, in lingua originale, poi gli italiani, che accosta da autodidatta, frequentando la Biblioteca Civica di Trieste. Conosce e apprezza precocemente la nuova narrativa naturalista di Zola. Assiduo spettatore dei teatri di prosa, scrive intorno al 1880 i primi abbozzi di commedie.

2 L’impiego, i primi romanzi, l’abbandono della letteratura Le difficoltà economiche del padre lo spingono (settembre 1880) a prendere servizio come impiegato nella filiale di Trieste della viennese Unionbank. Dal 1886 stringe una duratura amicizia con il pittore triestino Umberto Veruda (1868-1904). In quest’epoca pubblica, sul quotidiano triestino «L’Indipendente», articoli di critica letteraria (firmati con lo pseudonimo di E. Samigli) e le prime opere di narrativa: il racconto lungo L’assassinio di via Belpoggio (1890) e il romanzo Una vita (1892; titolo originario Un inetto), da lui stampato a proprie spese dopo il rifiuto dell’editore Treves di Milano, e passato inosservato. Nel 1896 sposa Livia Veneziani, più giovane di lui di tredici anni; l’anno dopo nasce la figlia Letizia. Il padre di Livia, Gioacchino Veneziani, era l’inventore della formula chimica per vernici sottomarine e la sua ditta era celebre e prospera, fornitrice delle maggiori flotte europee. Nel 1899 Svevo può così dimettersi dalla Unionbank e cominciare a lavorare nella ditta Veneziani. L’insuccesso anche del secondo romanzo, Senilità, apparso a puntate nell’estate del 1898 sull’«Indipendente», lo induce, come scriverà in Soggiorno londinese (1926), ad «abbandonare del tutto la letteratura. M’ero sposato, avevo una figlia e bisognava diventare seri». A partire dal 1901, per conto della ditta Veneziani stringe relazioni d’affari in tutta Europa; dedica le ore lasciate libere dal lavoro allo studio del violino. Dal 1902 al 1912 comincia a risiedere regolarmente per diversi mesi all’anno a Londra.

3 L’incontro con la psicoanalisi e il successo tardivo Nel 1906, quando già aveva ripreso a lavorare ad alcune commedie, conosce personalmente lo scrittore irlandese James Joyce, che insegna inglese alla Berlitz School di Trieste; Svevo ne diviene allievo per ragioni di lavoro. Probabilmente da allora comincia a riprendere saltuariamente l’attività di scrittore, sia pure coltivandola nei ritagli di tempo. Dal 1910-11 entra in contatto con la psicoanalisi, in seguito alla cura del cognato Bruno Veneziani presso Freud e all’incontro con Wilhelm Stekel, collaboratore del grande medico viennese. Dal 1915 503

Monografia Raccordo

Contesto

La vita

Tra Ottocento e Novecento

Svevo collabora per un breve periodo al quotidiano triestino «La Nazione» (continuatore dell’«Indipendente») e frequenta il circolo irredentistico-patriottico del Caffè Tergesteo. Nel 1917 la ditta Veneziani deve chiudere a causa della guerra. Dal 1919 al 1922 elabora il suo terzo romanzo, La coscienza di Zeno. L’opera è pubblicata nel 1923 dall’editore Cappelli di Bologna e il suo insuccesso lo convince «che se la letteratura era nociva sempre, a quell’età era addirittura perniciosa» (Profilo autobiografico). Tuttavia Svevo fa giungere il libro a James Joyce, allora a Parigi; su incoraggiamento di quest’ultimo, lo invia ai critici «italianisti» Benjamin Crémieux e Valéry Larbaud, che favoriscono una prima diffusione di Svevo presso il pubblico francese. Invece, in Italia, è il giovane poeta Eugenio Montale il precoce scopritore del romanziere triestino. Quasi improvvisamente, tra il 1926 e il 1927, scoppia il «caso Svevo»: lo scrittore, ormai sessantaseienne, conosce per la prima volta la notorietà. Mentre sta lavorando agli abbozzi di un quarto romanzo di memorie, muore il 13 settembre 1928 a Motta di Livenza, per le conseguenze di un incidente automobilistico.

Vita e opere di Svevo VITA

OPERE nasce a Trieste

studia nel collegio di Segnitz in Germania s’impiega nella Unionbank a Trieste

sposa Livia Veneziani

1861 1874-78 1880

scrive i primi abbozzi di commedie

1890

pubblica articoli di critica letteraria e il racconto L’assassinio di via Belpoggio

1892

pubblica il romanzo Una vita

1896 1898

pubblica il romanzo Senilità

si dimette dalla banca ed entra nella ditta del suocero

1899

l’insuccesso dei suoi romanzi lo convince ad abbandonare la letteratura

conosce Joyce

1906

conosce la psicoanalisi di Freud

1910-11 1923

raggiunge una prima notorietà critica muore a Motta di Livenza dopo un incidente d’auto 504

1926-27 1928

pubblica La coscienza di Zeno

Quando nacque Svevo, Trieste apparteneva ancora all’Impero asburgico (verrà annessa all’Italia nel 1919, alla conclusione della Grande guerra). La città costituiva una tipica zona di confine, ai margini di un grande stato, in cui si incrociavano lingue e civiltà diverse: • la cultura tedesca, severa e molto rigorosa anche sul piano religioso; • la cultura viennese, pure di lingua tedesca ma più vivace e raffinata; • la cultura italiana, condizionata dai problemi della lingua e da forti spinte all’annessione all’Italia («irredentismo»); • le culture slovena e serba (legate al mondo contadino); • sopravvivenze orientali (greca, armena, turca); • infine era presente una forte comunità ebraica, con le sue millenarie tradizioni. L’opera di Svevo rappresenta la sintesi di questo coacervo di tradizioni. Egli stesso volle sottolineare la propria «duplicità», letteraria e culturale, adottando lo pseudonimo di Italo Svevo. La sua famiglia era di origine ebraica, in parte italiana, in parte tedesca (di provenienza renana); egli studiò in Germania ma, benché non fosse «italiano» per nazionalità, scelse l’«italianità». Questo è un punto che va sottolineato, anche per i suoi riflessi linguistici. Svevo dovette impegnarsi in una difficile educazione linguistica, leggendo gli scrittori classici italiani (da Machiavelli a De Sanctis e Carducci); ma nel suo vocabolario rimangono visibili tracce d’«impurità», quali usi stranieri (tedeschi, in particolare) e arcaismi, fenomeni tipici di chi scrive in una lingua «imparata». In seguito la critica gli avrebbe imputato una cattiva assimilazione e gli avrebbe rimproverato di «scrivere male» (E scheda a p. 538); oggi però gli studiosi ridimensionano tali accuse.

5 Svevo intellettuale di frontiera D’altra parte, proprio la condizione di marginalità faceva di Trieste un terreno multiforme e fertilissimo di sperimentazione culturale, e fu in questo contesto che si formò la personalità così ricca e «diver-

Una città di confine fra Italia e Impero asburgico Trieste è una città di antiche origini romane, ma la sua importanza risale alla prima metà del Settecento, allorché l’imperatore d’Austria Carlo VI d’Asburgo (la città apparteneva all’Impero fin dal 1382) le concesse il privilegio di essere «porto franco», cioè l’esenzione da dazi e tariffe doganali. Trieste (e in particolare il suo porto) poté così svilupparsi come centro di scambi commerciali: anche grazie alla crisi di Venezia, divenne nell’arco di pochi decenni il porto dell’Impero austroungarico, sede di una Borsa, di banche, di società di assicurazione e di compagnie di navigazione. Oltre che luogo di traffici commerciali, era anche un punto d’incontro di differenti tradizioni culturali. Ricorderà un grande scrittore triestino, Umberto Saba (1883-1957): «Trieste è sempre stata un crogiuolo di razze. La città fu

popolata da genti diverse: Italiani nativi della città, Slavi nativi del territorio, Tedeschi, Ebrei, Greci, Levantini, Turchi col fez rosso e non so quante altre. [...] Su questo trafficato amalgama di persone così etnicamente diverso [...] la lingua e la cultura italiane fecero da cemento». Sul piano politico, fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento erano attivi a Trieste movimenti irredentisti, che rivendicavano cioè la «redenzione» della città e la sua annessione all’Italia, pur nella consapevolezza che ciò ne avrebbe peggiorato la situazione economica. Il dibattito «irredentista» si fece ancora più vivo intorno alla prima metà degli anni dieci, subito prima della Grande guerra, anche per la sensazione dell’imminente dissoluzione dell’Impero austroungarico. A tale dibattito, che aveva a Trieste un punto di ritrovo nel Caffè Tergesteo, parteciparono anche gli scrittori triestini

Scipio Slataper (1888-1915) e Giani Stuparich (1891-1961). Allo scoppio della Prima guerra mondiale, nel 1914, i cittadini triestini (con l’eccezione dei pochissimi che, come Umberto Saba, avevano la cittadinanza italiana) furono mobilitati nell’esercito austroungarico; pene severissime erano previste per chi fosse passato nelle file italiane (si ricordano, fra le altre, le fucilazioni dei trentini Nazario Sauro, Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa). I combattimenti si avvicinarono al centro urbano di Trieste solo in rare occasioni, come la conquista da parte italiana di Gorizia (agosto 1916); per il resto il teatro di guerra rimase piuttosto lontano dalla città, che soffrì però lungamente per la scarsità di cibo. Infine, dopo lo sfondamento del fronte operato dagli italiani a Vittorio Veneto, Trieste venne occupata dalle truppe italiane nel novembre 1918. 505

Monografia Raccordo

4 La Trieste di Svevo, un crocevia di culture

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

sa» di Italo Svevo. Le più vive istanze della cultura della Mitteleuropa (l’“Europa di mezzo”) penetrarono a Trieste con netto anticipo rispetto all’Italia: per esempio la psicoanalisi e una nuova forma di romanzo psicologico, in cui si rifletteva la crisi delle certezze ottocentesche e del primato della borghesia. Ma Svevo era un intellettuale «di frontiera» anche per altri motivi: • anzitutto, per la sua educazione di indirizzo commerciale (quindi non letterario, come è quasi sempre accaduto per la maggior parte degli scrittori italiani), svolta in ambiente per metà tedesco e per metà italiano; • in secondo luogo, per la sua origine ebraica, che lo poneva in una condizione marginale sia rispetto alla maggioranza della popolazione (cattolica), sia rispetto ai suoi stessi correligionari, perché Svevo non era credente né praticante; • infine, per la sua precoce vocazione di intellettuale e scrittore, che tuttavia egli coltivò bilanciandola sempre con l’impiego in banca e un’esistenza solidamente «borghese».

La formazione e le idee 1 L’attenzione al romanzo In gioventù Svevo fu un lettore avido, eclettico, pur rimanendo sempre un lettore «dilettante» (un termine da intendersi nel senso nobile di “colui che si diverte”). In particolare: • lesse i classici italiani, che gli furono maestri di lingua e stile; • lesse gli autori del Realismo e del Naturalismo francese (Flaubert, Balzac, Zola) e del grande romanzo russo, in particolare Turgenev (uno dei primi a creare già nell’Ottocento personaggi deboli e maldestri, non lontani dagli «inetti» sveviani) e Dostoevskij, capostipite del moderno romanzo psicologico; • coltivò infine, negli anni della maturità, un forte interesse per la cultura inglese, grazie anche ai soggiorni a Londra e all’amicizia con Joyce. Fu proprio la cultura inglese, con i suoi scrittori umoristi, come Jonathan Swift, William M. Thackeray, Jerome K. Jerome, George Bernard Shaw, a incrementare nella narrativa sveviana gli accenti ironici e autoironici dell’ultima stagione. L’attenzione verso il romanzo moderno fu un tratto decisivo nella formazione del futuro scrittore. Fin da giovane Svevo accolse il genere romanzesco come luogo non di «letteratura», ma di analisi della vita; ne valorizzò perciò la tensione conoscitiva e la volontà di utilizzare la narrazione come mezzo di indagine della psicologia umana e delle forze che si scontrano nel tessuto sociale.

2 Il tema darwiniano della «lotta per la vita» La formazione intellettuale di Svevo fu più ampia di una semplice formazione letteraria. Ebbe una conoscenza di prima mano (pur se procurata anch’essa con modalità «dilettantesche») del celebre naturalista inglese Charles Darwin (1809-82): anzi, Svevo riteneva le sue tesi evoluzionistiche un contributo decisivo per giungere a comprendere davvero la natura umana. Da Darwin provengono alcuni temi tipici della narrativa sveviana: • la lotta per la vita, anzitutto; • il difficile adattamento dell’uomo all’ambiente; • la trasmissione più o meno ereditaria dei caratteri; • l’influsso della società sull’indole e sul comportamento individuali. 506

Un’altra delle principali fonti di Svevo fu Arthur Schopenhauer (1788-1860), il filosofo tedesco che, secondo Svevo, aveva smascherato l’ingannevolezza del libero arbitrio e il «carattere effimero e inconsistente della nostra volontà e dei nostri desideri». La debolezza della volontà diventerà uno dei temi prevalenti nei romanzi sveviani, traducendosi nel motivo dell’inettitudine e nel parallelo motivo della falsità: le ragioni che i personaggi adducono per le loro scelte sono, in realtà, fittizie e possono essere smascherate. Un altro tema schopenhaueriano è quello (già darwiniano) del conflitto di tutti contro tutti. Secondo il filosofo tedesco, da esso provengono sia un’istintiva e tumultuosa volontà di vivere, sia, più in generale, il male inguaribile della vita sociale: una forza cieca muove gli esseri umani, angosciandoli in uno spreco di energia e di volontà mal finalizzata. Solo l’«uomo geniale», colui che sa ritagliarsi uno spazio di contemplazione e riflessione, può sottrarsi alla condizione degli «uomini comuni», che lottano per la supremazia individuale. È lo spunto che condurrà Svevo a idealizzare il personaggio del «teorista» che si apparta con «indifferenza» a esaminare la vita altrui, dal di fuori.

4 Domande inquietanti Combinando Darwin con Schopenhauer, Svevo elaborò fin dal 1885-90, come documentano gli articoli pubblicati via via sull’«Indipendente», una propria sintesi intellettuale. Il mondo gli appare la sede di un inevitabile conflitto: ogni essere contende ai suoi simili il diritto all’esistenza; ciascuno è cacciatore e preda nel medesimo tempo. Ma tutto ciò non produce il bene dell’umanità, come ipotizzavano gli evoluzionisti, bensì una diminuzione della capacità vitale. Svevo ritornerà su queste idee in saggi composti nel primo decennio del Novecento (come La teoria darwiniana e La corruzione dell’anima). In essi l’autore rileva il malcontento che ha preso la specie umana e l’ha spinta a trasformarsi per raggiungere il successo, a prezzo però della «corruzione» dei suoi impulsi vitali e migliori. Il punto d’arrivo di questo processo non sarà forse, si chiede Svevo, «l’epoca in cui il tempo si fermi e i suoi ordigni, opera della sua anima, non più si sviluppino?». Una domanda inquietante, che sembra preparare l’apocalittica profezia di distruzione della vita universale che chiuderà la Coscienza di Zeno (E Testo 8, p. 562).

5 L’influsso di Marx e l’incontro con Freud L’apertura di Svevo ai nuovi fermenti ideologico-politici che si stavano sviluppando e diffondendo in Europa è testimoniata anche dall’interesse con cui egli lesse Karl Marx. In gioventù, infatti, nutrì simpatie per il socialismo; nel romanzo Senilità (1898) tali simpatie vengono attribuite al protagonista Emilio Brentani, anche se con una punta d’ironia che è tipica di Svevo. Da Marx, in particolare, egli maturò una forte consapevolezza circa i riflessi che l’economia e i processi della produzione esercitano sulla psicologia e sui comportamenti individuali. Un incontro decisivo fu poi quello con le nuove teorie psicoanalitiche. Svevo conobbe l’opera di Sigmund Freud nel 1910-11, con largo anticipo rispetto agli altri scrittori italiani; intorno alla dottrina freudiana strutturerà il suo capolavoro, La coscienza di Zeno (1923). Tuttavia, anche nei confronti della psicoanalisi Svevo mostra un atteggiamento fortemente critico: in una lettera privata egli affermò che essa è utile più come spunto letterario che non come strumento medico e terapeutico (E scheda a p. 561).

6 L’influenza della cultura ebraica Da non dimenticare è poi l’influsso che provenne a Svevo dalle sue origini ebraiche. Benché egli non fosse credente né praticante, la «cultura dei padri» si rende presente in lui per due motivi: • anzitutto per l’atteggiamento arguto e tragico, fantasioso e realista, incline all’autoanalisi e all’ironia, tipico dei gruppi intellettuali ebrei della Mitteleuropa: con questo sentimento di fondo il protagonista della Coscienza di Zeno guarderà all’esistenza umana; • in secondo luogo per la sensibilità dell’«uomo di pena», per usare le parole di Saba, poeta ebreo e anch’egli triestino. I protagonisti dei due primi romanzi sveviani vivono il dolore fino al suicidio o alla rinuncia alla vita; Zeno, il terzo protagonista, assume invece la sofferenza in modo critico, come strumento di conoscenza. L’epilogo di questo terzo romanzo pronostica infine che sarà il dolore del mondo intero a esplodere in un’apocalisse generale. 507

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3 Schopenhauer e la volontà inconsistente

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

7 Un intellettuale di profilo europeo Riassumendo, il profilo culturale di Svevo appare ben più ampio e variegato rispetto a quello degli intellettuali italiani dell’epoca. La conoscenza delle lingue straniere gli consentì letture in lingua originale che lo resero realmente un «intellettuale europeo»: le sue idee e le sue scelte espressive appaiono vicine a quelle dei grandi autori della sua generazione (Robert Musil, Marcel Proust, James Joyce, Franz Kafka) che, come lui, avvertirono i limiti della mentalità e della cultura ottocentesche e che, come lui, esplorarono le zone della coscienza e dell’inconscio, aprendo la via al romanzo moderno e fornendo nuovi paradigmi di scrittura. Nelle sue opere Svevo narra l’impossibilità, tipica dell’uomo moderno, d’inserirsi nella società, e spiega come questo mancato inserimento derivi da motivazioni e disagi sia individuali o psicologici, sia determinati da fattori sociali ed economici (la lezione di Marx si sposa qui a quella di Schopenhauer). Svevo ha narrato, superando la forma di «romanzo-realtà» elaborata dal Naturalismo, la fine dei grandi imperi e la crisi della borghesia, come pure la solitudine di piccoli uomini. In sostanza, la sua è una delle voci più alte dell’«età della crisi» e della letteratura che la testimonia. Su queste basi, possiamo spiegarci l’incomprensione che a lungo lo circondò: la cultura italiana era troppo legata a modelli antiquati (tardoromantici, veristi, carducciani o dannunziani) per capire questo anomalo letterato «dilettante», di formazione commerciale e non umanista, con i suoi radicali ripensamenti sull’uomo e sulla società, con la sua attenzione a svelare le menzogne, le falsità e gli autoinganni che spesso mascheriamo con scelte e ideali. L’ironia di Svevo, davvero insolita nella nostra tradizione, non poteva certo essere apprezzata dalla mentalità retorica e nazionalista che il fascismo stava imponendo alla cultura italiana. La parola al critico • G. Luti, La crisi della borghesia nei romanzi di Svevo

Le fonti culturali di Svevo ◗ carattere illusorio di volontà e sentimenti umani

da SCHOPENHAUER

◗ frenetica lotta per l’esistenza ◗ risultato: malcontento, corruzione ◗ bisogno di sosta, di contemplazione

da DARWIN

da MARX

da FREUD

dalla CULTURA EBRAICA

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◗ lotta per la vita, difficile adattamento dell’uomo all’ambiente ◗ influsso della società sull’indole e sui comportamenti individuali

◗ simpatie per il socialismo in gioventù ◗ importanza dei fattori economici

◗ importanza dell’inconscio per spiegare le contraddizioni dell’esistenza

◗ tendenza all’autoanalisi, all’ironia (vedi gli scrittori mitteleuropei) ◗ tema del dolore, dell’«uomo di pena» (vedi Saba)

pluralità di influssi culturali



SVEVO intellettuale europeo

Italo Svevo

1 La letteratura ridotta a fatto privato Svevo fu tra i primi scrittori del Novecento a concepire la letteratura in modo assai diverso da come la concepiva la tradizione (per esempio D’Annunzio, in quell’epoca l’autore italiano più letto e influente). Egli infatti ridimensiona nettamente il ruolo della letteratura e del poeta, allontanandosi notevolmente dalla figura di poeta-eroe dell’età classica, o da quella di poeta-genio dei romantici. Svevo, al contrario, attribuisce ai letterati molti difetti: sono lenti (non «possono dare un giudizio sintetico su questa vita che analizzarono con tanta lentezza» – Diario, 1893), indecisi («Sto per giornate intere dinanzi alle mie cartelle e fumo, fumo, fumo» – Terzetto spezzato, 1912), perfino immorali («Bastava perciò non scrivere ed egli diventava l’uomo virtuoso ch’era stato sempre» – La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, 1926). Il punto è che i poeti non possono più conoscere il mondo, non hanno più certezze o valori o ideali da comunicare. Se vogliono davvero rimanere fedeli alla vita ed essere sinceri, come Svevo auspica, non possono che ridursi a parlare dell’unica cosa che conoscono, pur se parzialmente: la propria vita interiore. La letteratura, scrive Svevo, è semplicemente un modo per conoscersi meglio: «Io voglio soltanto – leggiamo in un appunto di diario datato 1902 – attraverso a queste mie pagine arrivare a capirmi meglio. [...] La penna m’aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere». L’opera che ne nascerà avrà carattere introspettivo (come avviene nei primi due romanzi sveviani) o diventerà, addirittura, un’«autobiografia», qual è La coscienza di Zeno. In tal modo, la letteratura perde la sua «aura», non ha più nulla a che fare con il bello, con l’arte; diviene un fatto privato, che può sopravvivere solo se si rende utile a chi la pratica. Il «vecchione» del quarto romanzo (appena abbozzato) affermerà, con forte autoironia, che la letteratura ha per lui il semplice valore di un «purgante». Questa poetica della riduzione della letteratura giunge fino al rifiuto. In un altro famoso appunto di diario, sempre datato 1902, leggiamo: «Io, a quest’ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura». Svevo però non mantenne fede al proposito: dopo i primi due romanzi, sarebbe giunto il capolavoro della Coscienza.

2 Due temi prediletti: il ricordo e la malattia In quest’ottica privata e individuale, il tema prediletto diviene quello del ricordo, la parte più intima dell’autore, la più adatta all’autoconoscenza, all’introspezione. Ricordare significa, per i personaggi di Svevo, muoversi nel tempo (E scheda a p. 552), anche se questa è un’operazione difficile: gli «occhi presbiti» separano Zeno dal passato. «Io non so muovermi abbastanza sicuramente nel tempo. [...] Il tempo fa le sue devastazioni con ordine sicuro e crudele» (Il vecchione). Il tempo che ritorna nel ricordo è sempre soggettivo («Il presente dirige il passato come un direttore d’orchestra i suoi suonatori», La morte), ovvero, in altre parole, il tempo «puro» non esiste: nel ricordo rivive «un tempo misto com’è il destino dell’uomo» (Il vecchione). Accanto al tema del ricordo, quello della malattia. Vita, letteratura e malattia s’intrecciano strettamente nell’opera sveviana. La letteratura non può che ritrarre la vita, ma quest’ultima è malata o «inquinata» fin dalle radici, affermerà Zeno; per vivere meglio bisognerebbe rinunciare all’una e all’altra, o forse utilizzare la letteratura per vivere di meno e, quindi, per essere un po’ meno malati. Se queste sono le premesse, comprendiamo il perché, nell’arco dei suoi tre romanzi, Svevo prospetti un itinerario complessivo di guarigione: • l’Alfonso Nitti di Una vita (1892) si suicida, perché riconosce una sproporzione troppo grande tra il sogno e la realtà, una sproporzione cui non sa adeguarsi; • l’Emilio Brentani di Senilità (1898) può sopravvivere, ma solo nel ricordo di Angiolina: un ricordo totalmente idealizzato e disincarnato, tale da non dolergli più; 509

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Contesto

Una poetica di «riduzione» della letteratura

Tra Ottocento e Novecento

• infine Zeno Cosini, il protagonista della Coscienza di Zeno (1923), riesce a sconfiggere la «passione» per la vita mediante lo scetticismo: impara a convivere con i limiti propri e della realtà. Non è perfettamente guarito, ma riesce perlomeno a tenere a freno la nevrosi e sopravvive, in tal modo, meglio che può.

3 Lo stile: la scelta del realismo Lo stretto contatto fra vita e letteratura porta Svevo a una scelta fondamentale per la sua produzione: quella del realismo come mezzo di fedeltà alla vita. Svevo rifiuta un’idea classicistica di arte: il poeta, secondo lui, deve testimoniare «questa» realtà, non crearne un’altra; perciò sceglie uno stile vivo, parlato, un linguaggio fedele alla vita anche nei suoi momenti bassi o ordinari (in questo senso Montale definì quello di Svevo uno «stile commerciale»). Tutto ciò è molto vicino al Verismo di Verga e soprattutto al «sincerismo» propugnato dal giovane Pirandello. Svevo rifiuta invece D’Annunzio, perché gli appare il tipico «letterato»: «Da buon letterato egli non diceva mai la verità» (Incontro di vecchi amici). I protagonisti dei tre romanzi principali di Svevo (tutti e tre, a loro modo, dei letterati) giungono però gradualmente alla «parola semplice» amata da Zeno. • Alfonso Nitti di Una vita fallisce come romanziere perché imita i classici, perché formula teorie «di stile fiorito o meno, lingua pura o impura», e sogna di «divenire il divino autore». • Anche Emilio Brentani di Senilità è un letterato di vecchio stampo. Apprezza l’arte dell’amico scultore Stefano Balli (controfigura del pittore triestino Umberto Veruda, amico di Svevo), perché mira alla «riconquista della semplicità o ingenuità che i cosiddetti classici ci avevano rubate». Il suo «ideale di spontaneità», di «ruvidezza voluta» è l’obiettivo stesso di Svevo narratore. • Tale ideale viene realizzato da Zeno, nel suo diario così privato, così (apparentemente) improvvisato della Coscienza, un libro che nasce non come libro, ma come somma di ricordi e appunti stesi alla rinfusa. Zeno vorrebbe addirittura scrivere le proprie memorie in dialetto, perché «con ogni parola toscana noi mentiamo!».

La letteratura secondo Svevo

scopo

fare chiarezza nell’io individuale MA in una dimensione privata



la letteratura non serve a conoscere il mondo, ma se stessi

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tematiche

stile

◗ il ricordo: lo scavo nell’io

fedeltà alla vita reale

◗ la malattia: l’io è debole e inetto

scelta del realismo







lo spazio tematico si riduce a una dimensione privata

rifiuto di ogni forma di letteratura «alta»

Italo Svevo

1 Gli esordi Come scrittore Svevo esordisce intorno al 1880. I suoi primi testi sono pensati per il teatro: Svevo è un appassionato frequentatore dei teatri cittadini e comincia dunque con il comporre abbozzi di commedie, oltre ad articoli di critica per il giornale irredentista «L’Indipendente». Accanto alla passione per il teatro Svevo coltiva quella per la musica e suona in un quartetto come violinista dilettante. Legge i grandi romanzieri europei, tedeschi e russi. Sul finire del decennio pubblica i racconti Una lotta (1888) e L’assassinio di via Belpoggio (1890). In essi Svevo rappresenta, rispettivamente, un tema tratto da Darwin (la lotta per la vita) e uno da Schopenhauer (la debolezza della volontà): • Una lotta rappresenta la vittoria che l’uomo energico e sportivo riporta sul letterato galante, nella competizione per la bella Rosina; • L’assassinio di via Belpoggio raffigura le conseguenze psicologiche di un omicidio (il colpevole, perseguitato dal rimorso, deve infine confessare il delitto). In questi stessi anni, tra il 1887 e il 1889, scrive anche il romanzo Una vita, pubblicato nel Testi • La madre (Racconti) 1892.

2 Una vita: fra autobiografia e distanza critica Una vita racconta, con un intreccio piuttosto lineare, la sconfitta esistenziale di Alfonso Nitti, un giovane impiegato di banca che coltiva sogni letterari. Alfonso abbandona il paese d’origine e si stabilisce a Trieste, ma qui emerge la grande distanza che intercorre tra i suoi sogni e la dura realtà quotidiana. La sconfitta, per lui, è così dolorosa e bruciante da indurlo a suicidarsi. Il romanzo rielabora abbastanza da vicino alcuni elementi della biografia sveviana: l’ambiente triestino, la professione (bancaria) di Alfonso e il rapporto del protagonista con Annetta, che s’ispira al legame fra Ettore Schmitz e la moglie Livia Veneziani (a partire dalla marcata differenza di ceto sociale e d’età). Fin d’ora, dunque, Svevo appare impegnato a studiare e rappresentare la propria esperienza in forma romanzesca. Pur mantenendo in apparenza un impianto tradizionale, il narratore interviene spesso (talora con ironia) per commentare le «contorsioni» psichiche del suo protagonista e non esita a interferire con il lettore, guidandolo a interpretare i pensieri di Alfonso, svelando le maschere, le menzogne, gli alibi, gli inganni con cui il personaggio, invano, tenta di difendersi da una realtà che lo delude profondamente.

3 Il tema dell’inettitudine Sul piano narrativo Una vita appare un racconto ancora tradizionale, vicino al realismo, anche se a tratti emerge già la vocazione sveviana al romanzo analitico, centrato sullo studio della psicologia dei personaggi. L’aspetto più interessante, però, riguarda per ora il significato complessivo dell’opera: Una vita verte infatti su una vicenda di fallimento. Dunque all’eroe, che trionfa nel romanzo ottocentesco, Svevo sostituisce la figura dell’«inetto» (dal latino in-aptus, “inadatto, inopportuno, quindi sciocco”), la cui immaturità psicologica è il vero filo conduttore del racconto. Non a caso il titolo originariamente pensato dall’autore per il romanzo era Un inetto. Infatti Alfonso Nitti fallisce non semplicemente per gli ostacoli che una società ostile gli dissemina sul cammino, bensì per la sua profonda «inettitudine». Alfonso è nato così: non riesce mai ad accordare il mondo della realtà con i sentimenti, le aspirazioni, le energie della sua vita interiore. Forse soffrirebbe meno se si accontentasse della sua cultura umanistica, della «contemplazione», come Schopenhauer suggeriva. Invece è ambizioso: rifiuta lo studio severo e la solitudine, per coltivare piuttosto il proposito, superficiale e velleitario, di affermarsi tanto nella vita come nell’arte. Sogna a occhi aperti: desidera amori, dominio, successo. La vita crudele gli sbatterà la porta in faccia e solo allora Alfon511

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Contesto

Il percorso delle opere

Tra Ottocento e Novecento

so dovrà tragicamente ammettere che i suoi sogni erano del tutto irrealizzabili. A quel punto si suicida: un gesto inutile, ma che Alfonso mette in atto come per prendersi una rivincita nei confronti di Annetta (che si è fidanzata con un altro) e dell’ambiente circostante.

4 Da Una vita a Senilità Il secondo romanzo sveviano, Senilità, fu pubblicato nel 1898. L’autore prosegue sulla via di una trama esile e poco originale, ma utilissima all’analisi psicologica del protagonista, Emilio Brentani. È lui il personaggio «senile» del titolo, è lui – ancora giovane d’età – l’uomo «vecchio» che rinuncia a vivere per osservare la vita dal di fuori, conservando nel ricordo ciò che ha vissuto. Come già in Una vita, anche in Senilità il tema di fondo è la sconfitta del protagonista. Infatti, nel primo romanzo Alfonso Nitti, sognatore, ricco di pseudoideali che tali, però, non sono (l’onore, la superiorità culturale), urtava contro una società spregiudicata e opportunista, ma più forte di lui (come Annetta); non poteva, perciò, che soccombere. Anche Emilio Brentani, nel secondo romanzo, è uno «sconfitto»: è un letterato solitario, introverso e malinconico, che s’illude troppo facilmente, rimanendo estraneo alla realtà. Più che vivere, si «guarda vivere». È un sognatore – un teorista, dice Svevo. Arriva così ad attribuire qualità del tutto astratte e immaginarie a una persona volgare, sfacciata e bugiarda come Angiolina. Finché può, Emilio nasconde a se stesso i tradimenti di Angiolina; ma dovrà infine ammettere la verità e, quindi, la propria sconfitta. La differenza più rilevante di Senilità rispetto a Una vita è la conclusione del romanzo: Emilio infatti non si toglie la vita, ma sopravvive al proprio fallimento sentimentale. Ci riesce allontanando il dolore patito nel ricordo, trasfigurando nella memoria l’immagine di Angiolina: come fosse un simbolo, un ideale assoluto di bellezza, di sanità, di purezza.

5 Salute e malattia: verso il romanzo psicologico L’elemento più interessante e moderno dei primi due romanzi sveviani, come si è visto, è l’inettitudine, una «malattia» che colpisce entrambi i protagonisti. Alfonso, appena morta sua madre, si ammala gravemente; in Senilità, Angiolina (detta «Giolona» dall’amico Balli) è sanissima, mentre Emilio vive la sua avventura come una malattia. Anche la sorella del protagonista, Amalia, è una malata cronica. Sia in Una vita sia in Senilità la «malattia» (cioè l’inettitudine) dei protagonisti viene contrapposta alla «salute» degli altri, i «normali». In entrambi i romanzi questi ultimi vengono incarnati dalla figura di un rivale, l’antagonista. In Una vita a rivestire tale ruolo è il cugino di Annetta, Macario, un giovane spregiudicato e brillante; in Senilità il rivale è invece l’amico di Emilio, lo scultore Balli. Sia Macario sia Balli sono dei vincenti nella lotta per la vita: hanno il successo e l’amore, e soprattutto non soffrono di alcuna scissione interiore – cioè, di alcuna malattia. Ritroveremo nella Coscienza di Zeno i temi della malattia e della salute, insieme al conflitto con l’antagonista. Là questi motivi verranno trattati con maggiore problematicità; ma già Senilità si propone come un moderno romanzo d’indagine psicologica, il primo della nostra letteratura. L’autore, infatti, racconta l’intera vicenda attraverso il filtro della memoria di Emilio e del suo punto di vista, tutto soggettivo e deformante. È questo punto di vista, onnipresente, del personaggio a fungere da chiave di lettura (o di riflessione) di ogni avvenimento: il lettore non può mai verificare la realtà dei fatti, né inquadrare la vicenda in un tempo cronologico e «oggettivo». Perciò, narrando, Svevo dedica ampio spazio a sogni, immagini mentali, allucinazioni e fantasie.

6 La coscienza di Zeno: un libro nuovo per tempi nuovi Dopo il duplice insuccesso di Una vita e Senilità, Svevo accantonò per più di vent’anni la scrittura, per dedicarsi completamente agli affari di famiglia. In realtà continuò a scrivere alcuni racconti e commedie, ma tenendo quelle pagine nel cassetto, senza velleità di pubblicazione. Fu un periodo di apparente inattività letteraria, ma in realtà esso costituisce l’insieme di esperienze letterarie che confluiranno nelle prove della maturità. A suggerire il ritorno alla scrittura intesa come produzione letteraria fu il ridursi dell’attività commerciale dovuto alla Grande guerra. Ma il desiderio di scrivere tornò anche come reazione al grande male del conflitto, e nel 1923 fu pubblicato il suo terzo romanzo, La coscienza di Zeno. 512

7 La «diversità» di Zeno Rispetto a Una vita e a Senilità, il terzo romanzo ribalta la prospettiva generale del racconto: si passa dalla «malattia» alla «salute», almeno parziale; si giunge dall’inettitudine alla lotta e al successo. Se Alfonso ed Emilio erano personaggi «bloccati» dalla propria inettitudine, abulici e passivi (al punto da

L’inettitudine dei tre protagonisti sveviani EMILIO BRENTANI Senilità, 1898

ZENO COSINI La coscienza di Zeno, 1923

antagonista: Macario

antagonista: Stefano Balli

antagonisti: il padre, il cognato Guido, il dottor S.

◗ sono due letterati, «teoristi», ambiziosi ◗ non vivono, ma si lasciano vivere, e soffrono

◗ proviene dall’alta borghesia ◗ è scettico e disincantato, scrive solo come terapia psicoanalitica



◗ sono due piccolo-borghesi





ALFONSO NITTI Una vita, 1892

◗ osserva se stesso con ironia





INETTITUDINE come MALATTIA della volontà (non riescono mai a concretizzare i loro sogni)

coglie l’inettitudine, propria e di tutti

=

SIAMO TUTTI MALATI!

esito

ALFONSO: suicidio

EMILIO: ricordo

ZENO: guarigione (parziale)

513

Monografia Raccordo

Rispetto ai primi due romanzi erano trascorsi circa venticinque anni e Svevo aveva maturato tante nuove esperienze: innanzitutto una posizione sociale più favorevole (da piccolo impiegato di banca a industriale), poi il confronto letterario con Joyce e la conoscenza della psicoanalisi. Rispetto a prima, anche la forma del romanzo non poteva più essere quella che era: benché ritornino nella Coscienza molti temi cari all’autore, l’opera si presenta come un romanzo sperimentale, dall’impianto e dalla struttura assai diversi dai libri precedenti. Tra questi, un ruolo primario spetta alla psicoanalisi. Essa diviene addirittura il motore narrativo del romanzo, che infatti nasce come diario personale su consiglio del dottor S., il medico psicoanalista che ha in cura Zeno. Inoltre, intorno alla psicoanalisi ruotano molte situazioni narrative: per esempio, invece di seguire il carro funebre del cognato Guido, Zeno sbaglia funerale, commettendo così un tipico lapsus (errore inconscio) freudiano, che rivela l’odio inconfessabile che il protagonista nutre per il cognato-rivale. Diversa anche la fortuna dell’opera: questa volta infatti, anche se faticosamente (E p. 543), il libro ottenne successo. Ormai una parte del pubblico era finalmente in grado di recepire il nuovo linguaggio e le nuove problematiche proposte dall’autore triestino.

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

giungere l’uno al suicidio, l’altro a guardare tristemente la sorella che muore), Zeno invece si riscatta dalla propria inferiorità (zoppica leggermente, non ha abilità negli affari, non conquista la donna che ama ecc.). Egli guarda a tutto ciò con «indifferenza», ed è questa la risorsa che gli serve per vincere, o quantomeno per sopravvivere. A suicidarsi, stavolta, è Guido Speier, il rivale di Zeno, colui che al lettore era parso il lottatore, il vincente. Le differenze di Zeno rispetto ad Alfonso ed Emilio sono evidenti, anche sul piano sociale: i protagonisti dei primi due romanzi erano intellettuali piccolo borghesi, i quali non sapevano concretizzare le proprie ambizioni e ne venivano schiacciati; Zeno proviene invece dall’alta borghesia imprenditoriale triestina (in lui si riflette la superiore posizione sociale guadagnata dallo stesso Svevo grazie al matrimonio con Lidia Veneziani) ed è libero da preoccupazioni economiche, tanto che può vivere di rendita grazie al patrimonio ereditato dal padre. Può dunque trascurare i bisogni pratici, la vita attiva, per fissare l’attenzione esclusivamente sui meccanismi che regolano la vita interiore degli individui e ne governano, segretamente, i comportamenti. In tal modo, con il suo distacco contemplativo, si conquisterà una conoscenza disincantata e profonda della realtà umana. Distacco significa anche uso sapiente dell’ironia, che è, assieme alla psicoanalisi, l’impalcatura su cui cresce l’intero romanzo. È infatti l’ironia il sentimento attraverso cui il protagonista Zeno rivive la propria esistenza e la vita intera, rinunciando a prendere sul serio se stesso, gli ideali comuni, le regole sociali. L’ironia sveviana è molto simile all’«umorismo» di Pirandello: l’una e l’altro esprimono un bisogno di distanza critica sia dalla vita sia dalla letteratura, e al tempo stesso diventano l’unica arma attraverso cui difendersi dalla tragedia del vivere.

8 L’ultimo Svevo: i racconti e i frammenti del quarto romanzo Dopo la pubblicazione della Coscienza di Zeno, l’ultima fase dell’attività sveviana è segnata dai racconti (alcuni incompiuti) e dagli abbozzi preparatori del quarto romanzo, oltre alla commedia La rigenerazione. Tra i racconti spiccano Corto viaggio sentimentale (1924-25), La novella del buon vecchio e della bella fanciulla (1926) e Una burla riuscita (1926). I temi trattati sono ancora quelli della vecchiaia (con tutte le sue contraddizioni), della malattia e della letteratura, assieme all’analisi dei propri desideri e mistificazioni; ritorna anche l’ironia con cui Svevo caratterizza i suoi personaggi, mentitori e doppi, sempre desiderosi di affermare la propria «innocenza». Intanto l’autore lavora anche a una lunga serie di frammenti, che avrebbero probabilmente dovuto fondersi nel cosiddetto «quarto romanzo» (il cui titolo era forse Il vecchione o Il vegliardo). L’autore ne dà ripetutamente notizia ai suoi amici francesi: «Mi sono messo a fare un altro romanzo, una continuazione di Zeno. [...] Tempo fa in un momento di buon umore Zeno vegliardo stese una prefazione delle sue nuove memorie». I titoli di questi frammenti, alcuni piuttosto estesi, sono Un contratto, Le confessioni del vegliardo, Umbertino, Il mio ozio e Il vecchione. Furono tutti scritti rapidamente da Svevo, con correzioni e varianti, negli ultimi mesi di vita, fra l’aprile e il maggio del 1928. Essi si riallacciano all’ottavo e ultimo capitolo della Coscienza e abbozzano un ritratto della psicologia di Zeno diventato ormai anziano. Non più costretto a narrare su invito del dottor S., egli ci presenta ora nuove avventure (per esempio una scappatella extraconiugale con una sigaraia) e riflessioni, assieme ai ritratti di familiari che già conosciamo (la moglie) e nuovi (il nipotino Umbertino). Malgrado le ripetizioni e le incongruenze proprie di un testo non portato a termine, ne risulta un complesso narrativo molto interessante. Svevo assume come tema privilegiato la condizione alienata del vecchio nel mondo contemporaneo, nella civiltà del produttivismo, dell’efficienza e del successo. Il suo scopo è riscattare dall’emarginazione il «vegliardo» Zeno, mettendo a fuoco, mediante le sue memorie, tutte le qualità e virtù del suo «ultimo tempo» di vita, consegnato alla meditazione, al ricordo e al raccoglimento che conducono alla saggezza ultima. Intanto prende corpo un ritratto perfido e demistificante della famiglia borghese, lo stesso che già affiorava dalle pagine della Coscienza.

9 Gli scritti teatrali e la commedia La rigenerazione Fin dalla giovinezza Svevo aveva coltivato, accanto alla narrativa, la scrittura teatrale. Le prime commedie risalgono al 1880-90 (Le teorie del conte Alberto, Le ire di Giuliano ecc.). Seguirono poi le 514

SINTESI VISIVA

Generi e opere di Svevo ■ Una vita, 1892 ■ Senilità, 1898

romanzi

■ La coscienza di Zeno, 1923 ■ frammenti (Un contratto, Le confessioni del vegliardo, Umbertino, Il mio ozio, Il vecchione), risalenti al 1928 e destinati al quarto romanzo (dal titolo: Il vecchione o Il vegliardo) ■ Le teorie del conte Alberto (1880 circa), Le ire di Giuliano (1881)

commedie

■ Atto unico (1890 circa, in dialetto triestino), Terzetto spezzato (1890, ripreso nel 1912) ■ Un marito (1903), L’avventura di Maria (1915-19 circa) ■ Con la penna d’oro (incompiuto, 1926), La rigenerazione (1927-28) ■ Una lotta (sull’«Indipendente», 1888), L’assassinio di via Belpoggio (1890) ■ La tribù (racconto politico-allegorico, pubblicato nel 1897 su «Critica sociale» di Turati)

racconti

■ Lo specifico del dottor Menghi (1904, racconto umoristico), La madre (1910, favola tragica), Vino generoso (risalente al 1905-09, ripreso e terminato nel 1924) ■ Corto viaggio sentimentale (1924-25), La novella del buon vecchio e della bella fanciulla (1926), Una burla riuscita (1926) ■ L’autobiografia di R. Wagner (sull’«Indipendente», 1884)

articoli e saggi

■ La teoria darwiniana e La corruzione dell’anima (1900-10 circa) ■ Trattato sulla teoria della pace (1915)

scritti autobiografici

■ Diario per la fidanzata (1896) ■ Soggiorno londinese (1926) ■ Profilo autobiografico (1928) 515

Monografia Raccordo

commedie nate nella fase del «silenzio» sveviano, fra Senilità e La coscienza di Zeno: ricordiamo Terzetto spezzato e l’Atto unico in dialetto triestino. Infine, a ridosso del suo terzo romanzo, Svevo scrisse l’incompiuta commedia Con la penna d’oro e La rigenerazione. Quest’ultima commedia, del 1927-28, è considerato il capolavoro drammaturgico di Svevo, l’unico suo testo teatrale in cui la propensione all’analisi psicologica e al ritratto di vita interiore non cozzano contro le esigenze di azione, dialogo e sintesi tipiche della scrittura scenica. Protagonista della Rigenerazione è un vecchio che s’illude di poter ringiovanire con un’operazione chirurgica, poiché – a suo dire – «in questa epoca non è permesso di essere vecchi». Le sue riflessioni sulla scena costituiscono una sintesi dei motivi più originali dell’ultima produzione letteraria di Svevo.

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

La parola al critico La linea Svevo-Pirandello Secondo Renato Barilli (1935), Svevo e Pirandello sono i due autori italiani più moderni e più europei d’inizio Novecento: esprimono infatti una profonda novità culturale, perché fanno spazio a personaggi «aperti» e problematici e perché, nella loro scrittura, lasciano emergere (anche se in forme sempre controllate) il flusso dell’inconscio. La coppia Svevo-Pirandello costituisce il baricentro della nostra narrativa, o se si preferisce, la linea portante, l’unica ad aver raggiunto un buon grado di equilibrio tra tradizione e innovazione, tra autonomia di valori interni (tecnici, linguistici) ed eteronomia1 di partecipazione ai più grossi problemi della cultura contemporanea. [...] Non c’è dubbio che per certi versi Svevo e Pirandello continuano una grande tradizione «occidentale» [...] in cui, per dirla con gli schemi aristotelici,2 l’ethos, lo studio di carattere, d’ambiente, di introspezione va guadagnando terreno sul mythos, sui valori di trama; con l’effetto correlativo di portare a un uso «trasparente» del linguaggio: il linguaggio è strumentale, tende a sparire, quasi a non farsi vedere, per permettere che l’attenzione vada tutta agli oggetti, alle entità psicologiche e sociali che stanno dall’altra parte; i significanti, in sostanza, cedono ai significati; il materiale verbale non è rivolto al raggiungimento di valori immanenti, bensì d’ordine rappresentativo. [...] La grandezza di Svevo e di Pirandello sta nell’aver superato decisamente la dialettalità (malgrado il loro forte radicamento in ambiti regionali) e nell’aver istituito una koiné,3 una lingua unica, a costo di deprimere apparentemente i valori espressivi, di spegnerli o nel grigiore del referto analitico (Svevo) o nella banalità della parlata propria della media e piccola borghesia centro-meridionale (Pirandello). [...] Tutto ciò in palese e violenta contraddizione con quelli che sembrerebbero canoni ben stabiliti delle avanguardie: valore autonomo, intrinseco dei significanti4 [...]. Ma [...] le indagini di uno Svevo e di un Pirandello sull’ethos non sono più di ordine psicologico, ma psicanalitico [...] portano al [...] personaggio «aperto», non definibile entro un unico carattere, ma capace di raccogliere in sé uno spettro vastissimo di motivazioni tali da elidersi anche a vicenda; tanto è vero che il concetto stesso di carattere5 è la prima e la più illustre vittima di un simile tipo di avvicinamento; [...] come atto preliminare vengono posti in discussione i metodi e i criteri per studiare il comportamento umano, con la necessità di sostituire all’epistemologia6 del prevedibile, della media statistica, quella dell’imprevisto e del contingente. [...] Rispetto all’ideale della «natura morta», della rappresentazione oggettiva e impersonale, che è stata l’aspirazione costante della linea «rinascimentale», il narrare di Svevo e di Pirandello è certamente più discorsivo, come rivolto a un pubblico presente, e misto di riflessioni di genere vario. [...] È in fondo il punto in cui Svevo differisce radicalmente dal giovane amico Joyce, che tenta varie tecniche «attuali», tali cioè da rendere in atto il flusso psichico, senza mediazioni discorsive [...]. Svevo e Pirandello, pur convinti come Joyce che ci si debba rivolgere a una realtà psichica avente la natura del flusso, della «corrente di coscienza», non rinunciano mai a «dire» una tale convinzione, piuttosto che a renderla in atto, tangibilmente. Del resto, in ciò sono assai prossimi a un Proust o a un Musil. R. Barilli, La linea Svevo-Pirandello, Mursia, Milano 1977 1. autonomia... eteronomia: criteri legati, rispettivamente, agli aspetti interni dell’opera letteraria (forma, lingua) e ai valori esterni (contenuti, ideologia). 2. schemi aristotelici: le regole dettate da Aristotele nella Poetica.

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3. koiné: era la lingua greca comune (su base ateniese) parlata anticamente nel bacino del Mediterraneo. 4. valore... dei significanti: cioè, grande attenzione rivolta alle forme, su cui esercitarono la loro sperimentazione gli auto-

ri delle avanguardie di primo Novecento. 5. carattere: personalità ben individualizzata e stabile nel tempo. 6. epistemologia: Svevo e Pirandello discutono cioè i metodi e gli scopi della loro operazione letteraria.

Italo Svevo

Contesto

PROFILO AUTOBIOGRAFICO

Svevo parla di sé ◗ Svevo amava parlare di sé, mettersi a nudo, un po’ come fanno i protagonisti delle sue opere narrative. Ci ha lasciato diversi scritti autobiografici, ovvero il Diario per la fidanzata (scritto nel 1896 per la futura moglie Livia Veneziani, su un grosso album illustrato, dono di Livia stessa), pagine di diario sparse, molte lettere e un Profilo autobiografico, steso nel 1928. ◗ Il Profilo autobiografico costituisce un’autobiografia scritta in terza persona (Svevo cioè non dice «io», ma si nomina come «Italo Svevo») e quasi completa: rievoca infatti l’origine della famiglia, gli anni dell’infanzia e della formazione ecc., e giunge fino al 1928, cioè fino a pochi mesi prima della morte, avvenuta nel settembre di quello stesso anno per le conseguenze di un incidente automobilistico.

Ironia e annotazioni di poetica ◗ Si tratta di un testo molto significativo: l’autore infatti scrive nel 1928, quando ormai la critica sta riconoscendo il valore della sua opera: è quindi dalla prospettiva della fama letteraria, da poco raggiunta (1926-27), che Svevo parla di sé, rievocando con ironica soddisfazione sia gli sforzi fatti per giungere al successo, sia le tante incomprensioni che in precedenza lo avevano ostacolato. ◗ Molto interessanti nel Profilo, oltre a questo atteggiamento ironico e autoironico che appartiene all’humus profondo di Svevo, sono anche sparse annotazioni di poetica, raccolte assieme a quelle relative all’ambiente letterario in cui l’autore si formò. Trovano spazio, in queste pagine, anche l’amicizia con Joyce e l’incontro con il pensiero di Freud.

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Profilo autobiografico Racconti Saggi Pagine sparse Anno: 1928 Temi: • la rievocazione dell’ambiente culturale triestino • le incomprensioni e i silenzi intorno alla propria opera • la temporanea rinuncia alla letteratura • l’amicizia con Joyce e l’incontro con il pensiero di Freud Leggiamo gli stralci più interessanti del Profilo autobiografico, a partire dalla scelta dello pseudonimo (si ricordi che il vero nome dello scrittore era Ettore Schmitz) e dalla rievocazione del vivace ambiente culturale triestino dell’epoca.

nello pseudonimo «Italo Svevo» s’incontrano due lingue e due culture differenti

Per comprendere la ragione di uno pseudonimo1 che sembra voler affratellare la razza italiana e quella germanica, bisogna aver presente la funzione che da quasi due secoli va compiendo Trieste alla Porta Orientale d’Italia: funzione di crogiolo assimilatore degli elementi eterogenei che il commercio e anche la dominazione straniera attirarono nella vecchia città latina. Il nonno d’Italo Svevo era stato un funzionario 5 imperiale a Treviso, dove sposò un’italiana. Il padre suo, perciò, essendo vissuto a

1. uno pseudonimo: «Italo Svevo»; il vero nome dello scrittore era Ettore Schmitz.

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Monografia Raccordo

L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento

luogo d’incontro e scambio: nell’opera di Svevo si riflette questa apertura «europea»

trapela qui la consueta ironia sveviana

a motivare la rinuncia alla letteratura sono ragioni pratiche (il bisogno di occuparsi d’altro) e ideali: la letteratura non è una cosa «seria»

Trieste, si considerò italiano, e sposò un’italiana da cui ebbe quattro figliole e quattro maschi.2 Al suo pseudonimo «Italo Svevo» fu indotto non dal suo lontano antenato tedesco, ma dal suo prolungato soggiorno in Germania nell’adolescenza.3 [...] Trieste era allora un terreno singolarmente adatto a tutte le coltivazioni spirituali. 10 Posta al crocevia di più popoli, l’ambiente letterario triestino era permeato dalle colture più varie. Alla «Minerva» (la Società letteraria triestina) non si trattavano soltanto argomenti letterari paesani o nazionali. Le persone colte di Trieste leggevano autori francesi, russi, tedeschi, scandinavi ed inglesi. E nel piccolo ambiente si coltivava assiduamente e musica e pittura. Italo Svevo si trovò naturalmente attratto da tutti i 15 cenacoli artistici e letterari della sua giovinezza. Un pittore di sei anni più giovane di lui, Umberto Veruda,4 già celebre, si legò a lui di un’amicizia intima che doveva durare fino alla propria morte. [...] Italo Svevo fu per lunghi anni collaboratore assiduo dell’Indipendente.5 Prima ancora di pubblicare Una vita, godette di una certa rinomanza di critico letterario nell’ambien- 20 te cittadino. [...] Una vita ebbe un certo successo sebbene non vasto e privo di eco. [...] La stampa triestina fece una bella accoglienza al nuovo romanzo, ma l’edizione di mille copie fu pian pianino smaltita in doni che l’autore fece ad amici e conoscenti. (Quest’anno apparirà in seconda edizione coi tipi dell’editore Morreale di Milano.) [...] Senilità fu pubblicata sei anni appresso dallo stesso editore Vram (poi 1927, in se- 25 conda edizione dall’editore Morreale). [...] Il successo del romanzo in Italia fu nullo del tutto. Nessun giornale italiano se ne occupò, fuori dell’«Indipendente» che lo aveva pubblicato nelle proprie appendici. Persino a Trieste, il giornale più importante6 non ne volle parlare proprio perché il romanzo era stato pubblicato nelle appen30 dici del giornale concorrente. Pochi anni prima di pubblicare Senilità Italo Svevo s’era sposato e aveva avuto una figlia.7 Il romanzo che a lui allora tuttavia piaceva gli era venuto fatto quasi senza fatica e lo pubblicò animato da un’ultima speranza. Scrivere dell’altro era difficile perché allora per poter corrispondere un po’ meglio ai proprii impegni lo Svevo occupava tre impieghi: la Banca, poi quello d’insegnante di corrispondenza commerciale al- 35 l’Istituto Revoltella8 e infine passava una parte della notte nella redazione di un giornale a «spogliare» i giornali esteri. Derivava la necessità della rinunzia.9 Il silenzio che aveva accolto l’opera sua era troppo eloquente. La serietà della vita incombeva su lui. Fu un proposito ferreo. Gli

2. quattro figliole e quattro maschi: in questa numerosa prole, il futuro scrittore era il quintogenito. 3. prolungato soggiorno in Germania nell’adolescenza: fin dal 1874, quando aveva solo 12 anni, Svevo venne mandato a studiare nel collegio di Segnitz, presso Würzburg (in Baviera), frequentato soprattutto da figli di commercianti ebrei; vi si trattenne fino al 1878. 4. Umberto Veruda: Veruda (1868-1904) era uno degli artisti allora emergenti a Trieste; divenne amico di Svevo nel 1890. 5. dell’Indipendente: il quotidiano esprimeva allora la tendenza politica irredentista, ostile cioè all’Austria e favorevole alla cultura italiana. Svevo prese a collaborarvi dal 1880, pubblicandovi parecchi elzeviri e

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saggi su scrittori europei. «L’Indipendente» sospese la pubblicazione durante la Prima guerra mondiale e poi la riprese con la nuova denominazione di «La Nazione», per la quale Svevo tornò a scrivere. 6. il giornale più importante: il quotidiano «Il Piccolo». 7. s’era sposato... una figlia: il 30 luglio 1896 Svevo aveva sposato Livia Veneziani, con rito civile; le nozze furono poi ripetute nel 1897 con rito cattolico (Livia era cattolica) nella chiesa di San Giacomo a Trieste, dopo che Svevo ebbe abbracciato (almeno esteriormente) la religione cattolica. L’anno successivo nacque la figlia Letizia. 8. poi quello d’insegnante... all’Istituto Revoltella: era allora la più importante scuola di commercio di Trieste, nucleo di

quella che sarebbe diventata la prima facoltà dell’Università di Trieste (Economia). Svevo cominciò a insegnarvi nel 1891, come docente di corrispondenza commerciale. 9. la necessità della rinunzia: così Livia Veneziani annotò in Vita di mio marito: «Con uno sforzo doloroso si distaccò dalla letteratura. Chiudeva dentro di sé il suo rammarico e non lo faceva trapelare che raramente. Non parlava più né di commedie né di novelle, ma nel silenzio della notte appagava la sua vocazione segreta immergendosi nella lettura. Le sue simpatie dai francesi erano passate ai nordici: Ibsen, Dostoevskij, Tolstoj dominavano ora il suo mondo spirituale. [...] I sogni letterari repressi talvolta ancora insorgevano: scri-

un motivo occa sionale favorisce l’incontro con il grande romanzo europeo, attraverso Joyce

ulteriore, essenziale tappa della cultura europea di Svevo

veva allora a qualsiasi ora, in qualsiasi posto su fogli volanti. Annotava saltuariamente pensieri e impressioni quasi per penetrare più a fondo se stesso». 10. entrò... direzione di un’industria: il 24 maggio 1899 Svevo entrò nella ditta Veneziani, diretta dal suocero. 11. dal tedioso... d’ufficio: della banca.

12. James Joyce: lo scrittore irlandese era giunto a Trieste nell’ottobre 1904, attratto dalla possibilità di ottenere un posto d’insegnante nella Berlitz School locale. Ottenne l’impiego effettivamente nel 1905, ma nel 1907 si licenziò, preferendo dare lezioni private. Joyce lascerà Trieste per l’ultima volta nel luglio 1920.

13. ad un suo congiunto: il cognato Bruno Veneziani, affetto da paranoia; fu in cura nel 1910 presso Freud in persona a Vienna. 14. per i suoi doveri professionali: connessi alla direzione della ditta Veneziani.

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Monografia Raccordo

l’attività letteraria distoglie dai doveri della vita pratica

fu più facile di tenerlo perché in quel torno di tempo entrò a far parte della direzione 40 di un’industria10 alla quale era necessario dedicare innumerevoli ore ogni giorno. In complesso finì con l’avere una vita più felice di quanto avesse temuto. In gran parte si vide esonerato dal tedioso lavoro d’ufficio11 e visse coi suoi operai in fabbrica. Dapprima a Trieste, poi a Murano presso Venezia, e infine a Londra. Restavano certamente delle ore libere e lo Svevo racconta volentieri che non poteva dedicarsi al piacere di 45 scrivere, perché bastava un solo rigo per renderlo meno adatto al lavoro pratico cui giornalmente doveva attendere. Subentrava subito la distrazione e la cattiva disposizione. Trovò il modo di occupare anche quelle ore eliminando ogni pericolo. Si dedicò con grande fervore allo studio del violino che nella giovinezza aveva suonato discretamente. Presto poté avvedersi degl’irrimediabili impedimenti che il suo non più 50 giovine organismo offriva ad un suo sviluppo quale esecutore. Tali impedimenti sono descritti con qualche tristezza nella Coscienza di Zeno. Ma allora non lo rattristavano perché certo dal violino non domandava di più di quanto gli era concesso. Trovò un posto di secondo violino in un quartetto di buoni dilettanti e così almeno ebbe il 55 vantaggio di conoscere ampiamente la musica classica per quartetto. I suoi amici possono testificare ch’egli mai ammise che i suoi romanzi valessero poco. Sapeva chiaramente dei loro difetti ma non si decideva d’attribuire a questi il suo insuccesso. Era perciò vano un suo sforzo ulteriore. Credette sempre che anche a chi ha il talento di fare dei romanzi spetti una vita degna di essere vissuta. E se per otte60 nerla bisognava rinunziare all’attività per cui si era nati, bisognava rassegnarsi. [...] Lo Svevo continuò a vivere fra violino e fabbrica fino allo scoppio della guerra. Però prima gli capitarono, non voluti da lui, due avvenimenti veramente letterari ch’egli accolse senza sospetto non sapendoli tali. Intorno al 1906 egli sentì il bisogno per i suoi affari di perfezionarsi nella lingua inglese. Prese perciò alcune lezioni dal professore più noto che ci fosse a Trieste: Ja- 65 mes Joyce.12 James Joyce già allora si trovava in condizioni letterarie un po’ (ma non molto) migliori di quelle dello Svevo. Molto migliori in quanto a stato d’animo: il Joyce si sentiva in pieno rigoglioso sviluppo mentre lo Svevo s’accaniva ad impedire il proprio. Era persino riluttante a parlare del proprio passato letterario ed il Joyce dovette insistere perché gli fossero consegnati per la lettura i due vecchi romanzi. 70 Una Vita gli piacque meno. Invece ebbe subito un grande affetto per Senilità di cui ancora oggidì sa qualche pagina a memoria. [...] Il secondo avvenimento letterario e che allo Svevo parve allora scientifico fu l’incontro con le opere del Freud. Dapprima le affrontò solo per giudicare delle possibilità di una cura che veniva offerta ad un suo congiunto.13 Per vario tempo lo Sve- 75 vo lesse libri di psicoanalisi. Lo preoccupava d’intendere che cosa fosse una perfetta salute morale. Nient’altro. [...] Dal 1902 in poi fino al 1912, per i suoi doveri professionali,14 lo Svevo soggiorna-

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

nuova nota ironica, tipica dello stile sveviano è l’assoluto distacco da un’idea romantica di letteratura, tipico della poetica di Svevo

va annualmente per qualche mese in un sobborgo di Londra. Anche tale soggiorno 80 gli alleviò il suo destino e lo fortificò nelle sue risoluzioni. [...] Nel ’19 egli s’era messo a scrivere La Coscienza di Zeno. Fu un attimo di forte travolgente ispirazione. Non c’era possibilità di salvarsi. Bisognava fare quel romanzo. Certo si poteva fare a meno di pubblicarlo, diceva. Finalmente gli abitanti della sua casa ebbero gli orecchi salvi dall’increscioso rumore del suo violino aritmico. [...] Questo romanzo fu pubblicato nel 1922 (se ne sta preparando la ristampa). Meno 85 che a Trieste trovò un’incomprensione assoluta ed un silenzio glaciale. [...] Lo Svevo diceva che ad onta della sua lunga esperienza tale insuccesso lo stupì e lo addolorò tanto profondamente da danneggiare la sua salute. Aveva 62 anni e scopriva che se la letteratura era nociva sempre, a quell’età era addirittura pericolosa. I. Svevo, Tutte le opere, a cura di M. Lavagetto, vol. II: Racconti e scritti autobiografici, a cura di C. Bretoni, A. Mondadori, Milano 2004

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Per prima cosa spicca in questo Profilo autobiografico l’importanza che l’autore attribuisce al proprio ambiente di formazione. Svevo sottolinea il fatto che Trieste rappresenta un vero crocevia di popoli, lingue tradizioni: è la medesima qualità che si riverbera nello pseudonimo da lui scelto, «Italo Svevo», che vuole appunto rappresentare l’affratellamento di due mondi, quello italiano e quello germanico. Ciò in un’epoca e in una città in cui quei due mondi si guardavano senza alcuna simpatia, visti gli sforzi irredentisti (contro cioè la dominazione asburgica) messi in atto da larga parte della popolazione triestina di allora. ■ Un’altra importante dimensione presente nel Profilo riguarda gli insuccessi letterari che ripetutamente salutano le opere di Svevo; la situazione sembra peggiorare dal primo al terzo romanzo. L’autore peraltro non accusa, non recrimina, non protesta, anzi mantiene un’ammirevole serenità, limitandosi a registrare l’accaduto e ammettendo, con sincerità, il proprio rammarico di fronte all’insuccesso. ■ L’incontro con Joyce e Freud introduce alla dimensione propriamente europea della letteratura sveviana; dal punto di vista dell’aggiornamento culturale, a quell’epoca in Italia solo Pirandello seguiva il suo stesso percorso: questo autore, non a caso, proveniva da un’area periferica (la Sicilia) e come Svevo studiò per un certo periodo all’estero (anch’egli in Germania). ■ Nel Profilo emerge infine una delle concezioni più care a Svevo, la letteratura come attività inutile e dannosa. Più precisamente: • dannosa per le ripercussioni nella vita pratica (bastava un solo rigo per renderlo meno adatto al lavoro pratico cui giornalmente doveva attendere); • soprattutto, dannosa per la serenità d’animo dello scrittore 520

stesso: dopo Senilità, Svevo aveva allontanato il pericolo della letteratura per consentirsi una vita degna di essere vissuta; e, dopo La coscienza di Zeno, con cui è ricaduto nel vecchio vizio di scrivere, deve amaramente ammettere che la disillusione e l’insuccesso, in età avanzata, pesano di più e risultano quasi intollerabili. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Rintraccia nel testo tutte le persone che Svevo cita come importanti per la propria vita. 2. Nella ricostruzione dell’autore, quali eventi pesarono di più sulla sua vita? 3. Gli insuccessi letterari si confermano per tutti e tre i romanzi, e addirittura diventano più dolorosi. Individua nel testo la spia di questo peggioramento della situazione. 4. Individua tutti i riferimenti ad autori e opere che documentano l’apertura di Svevo a un respiro culturale davvero europeo. 5. In che modo Svevo presenta il lavoro da lui svolto nella ditta del suocero? a come una vera liberazione dalla banca b come l’ostacolo maggiore alla propria vocazione letteraria c come un mezzo per conoscere il mondo d come un’occasione per allontanarsi dall’ormai detestata letteratura Puoi scegliere anche più di una risposta. Motiva in breve la/e tua/e scelta/e. 6. Svevo giudica immotivato l’insuccesso: I suoi amici possono testificare ch’egli mai ammise che i suoi romanzi valessero poco. Questa frase però appare ambigua: in che senso?

Italo Svevo

Contesto

L’ASSASSINIO DI VIA BELPOGGIO

Una prima prova di maturità artistica ◗ Pubblicato a puntate sul quotidiano triestino «L’Indipendente» nell’ottobre 1890, L’assassinio di via Belpoggio costituisce una prova decisiva dell’acquisita maturità artistica dello scrittore alle prese con la forma insolita del «giallo». Si tratta di un «racconto lungo» orchestrato in tre tempi: • la fuga e lo smarrimento di un assassino; • la sua crisi d’identità e un tentativo di fuga dalla realtà, nel ritorno alla casa della madre; • gli ultimi scomposti tentativi di scampo, fino alla confessione finale.

Un «giallo» in chiave psicologica ◗ La narrazione ha la forma esteriore del «giallo», ma manca a ben vedere di alcuni elementi indispensabili al genere: non vi è infatti un vero movente e non vi è un’inchiesta. A Svevo interessa invece proporre un’accurata indagine psicologica sul tema del delitto e della colpa. Prendendo a modello Delitto e castigo del russo Dostoevskij (E p. 678) si sofferma sulle motivazioni interiori che guidano a un delitto e segue i contraddittori meccanismi della coscienza di Giorgio, l’assassino. Parallelamente, il racconto ricostruisce il sordido ambiente triestino in cui Giorgio vive: un anticipo delle pagine dedicate da Una vita ai quartieri operai in cui prenderà dimora Alfonso Nitti. ◗ Svevo dedica la maggiore attenzione ad analizzare il protagonista, assassino per caso, incapace poi di gestire un atto così definitivo e forte: porta alla luce i suoi sensi di colpa e gli alibi che si costruisce per giustificare il proprio gesto e rappresenta la sua inettitudine, i suoi maldestri tentativi di fuga, che si risolvono infine in una completa paralisi della volontà e quindi nella non-azione. Giorgio non sa perché ha ucciso, prova sgomento davanti a un sé che si rivela inesplicabile; scopre di essere alle prese con un io che non controlla, un io sconosciuto che risponde a istinti ignoti: «l’assassinio era venuto a dividere la sua vita in due parti e al di là di quell’avvenimento egli non ricordava le proprie idee, le proprie sensazioni, il proprio individuo che oscuramente, come si fosse trattato di cose non vissute ma udite raccontare». Giorgio, forse, ha scoperto l’inconscio.

Un delitto «schopenhaueriano» ◗ Ma perché Giorgio diviene all’improvviso un assassino? Non è un bruto, una delle «bestie umane» di Zola; né è spinto dalle ragioni di onore o vendetta, che agitano le novelle di Verga. Il critico Gennaro Savarese trova la risposta nella lettura di Schopenhauer compiuta dal giovane Svevo. Il più potente motore delle azioni umane, secondo Schopenhauer, è l’egoismo: per esso l’uomo è «pronto a distruggere il mondo, solo per conservare un po’ più a lungo il proprio io».

LA TRAMA ◗ Protagonista è Giorgio, un giovane proveniente da famiglia agiata, ma indolente e pigro. Dopo aver frequentato per due anni il liceo, ora di mestiere fa il facchino e vive dividendo una misera camera con un collega, Giovanni. Senza premeditazione, commette un delitto: uccide un uomo che conosce appe-

na, Antonio, e gli ruba un pacco di banconote. Vorrebbe fuggire in treno, ma, vista una guardia, s’impaurisce e torna a casa. ◗ Il mattino dopo, terrorizzato, Giorgio legge la cronaca del delitto sul giornale cittadino. Giovanni gli rivela che è so-

spettato: una donna ha descritto l’assassino mentre fuggiva. Giorgio decide di far visita alla madre, ma apprende che è morta da giorni. Vuol cambiare aspetto e acquista un nuovo cappello, ma il suo atteggiamento insospettisce la commessa del negozio. Arrestato, confessa spontaneamente il delitto.

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L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento

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«Sono io l’assassino» L’assassinio di via Belpoggio – Racconti Anno: 1890 Temi: • la colpa, il rimorso e la consapevolezza di aver compiuto un’azione atroce • il senso di estraneità rispetto a se stesso e agli altri • l’inettitudine, che impedisce di agire con risolutezza In queste pagine finali il protagonista Giorgio è alle prese con gli ultimi, inutili tentativi di mutare aspetto (mediante l’acquisto di un cappello nuovo) o di passare inosservato (invitando i compagni di lavoro all’osteria); ma è tutto inutile. L’arresto, seguito dalla pronta confessione, giungerà per lui come una vera liberazione.

Giorgio è spesso preda di «visioni» e allucinazioni; la sua vita interiore è troppo complessa per lasciarlo agire con efficacia all’esterno

è pentito del delitto, perché l’angoscia del rimorso lo affligge

uno dei tanti sforzi di autogiustificazione con cui Giorgio cerca di sfuggire alla realtà

Nella oscurità accanto a piazza della Barriera, ebbe una strana visione. Con lo stesso suo passo veloce camminava dinanzi a lui un ometto curvo, piccolo, misero, le mani ostinatamente in tasca, Antonio Vacci1 insomma. Lo vedeva distintamente, scorgeva tutte le particolarità della miserabile personcina, persino i radi capelli grigi accuratamente lisciati sulle tempie, e per un istante non ebbe dubbio di 5 sorta: Antonio era vivo! Non si fermò a riflettere come ciò potesse essere dopo ch’egli l’aveva visto giacere in terra come cosa senza vita. Antonio era vivo ed egli non aveva ucciso. Si cacciò innanzi con un urlo. Voleva offrirgli la restituzione di tutti i suoi denari, magari obbligandosi a dargliene degli altri in futuro e non chiedergli nulla in compenso, soltanto 10 che vivendo testificasse ch’egli non aveva ucciso.2 Stupefatto si trovò dinanzi ad una faccia misera, dalla pelle incartapecorita3 ma del tutto sconosciuta, non quella di Antonio, e ripiombò nella sua disperazione con questo di più4 che essendosi trovato a desiderare la vita di Antonio con una intensità maggiore, egli si giudicò anche meno degno di odio5 e di persecuzione e provò una 15 forte compassione di se stesso che gli cacciò le lagrime agli occhi. Egli si vedeva come un uomo che capitato per propria colpa su un’erta china precipita e rimangono inutili tutti i suoi sforzi per fermarsi perché il terreno frana sotto ai suoi piedi e gli arbusti a cui si attacca non resistono. Gli sembravano sforzi per fer20 marsi quella gita in cerca di sua madre6 e la speranza di ritrovare Antonio vivo! Invece appena allora, in quell’agitazione in cui si trovava, fece l’unico sforzo per salvarsi, ma tanto balordamente che fu quello stesso sforzo che lo perdette.7 L’uomo sulla china, per salvarsi, non aveva trovato di meglio che secondarla8 e precipitarsi da sé a valle.

1. Antonio Vacci: l’uomo ucciso e derubato da Giorgio. 2. soltanto che... ucciso: con il solo patto che, per il fatto di essere vivo, testimoniasse che Giorgio non lo aveva ucciso. 3. incartapecorita: grinzosa, secca (per la vecchiaia). 4. con questo di più: con quest’altra aggravante.

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5. meno degno di odio: pensa che gli altri lo debbano perdonare, perché desidererebbe non avere ucciso. 6. quella gita in cerca di sua madre: poco prima Giorgio si era recato nello squallido quartiere dove viveva l’anziana madre, allo scopo di dare corpo a un possibile alibi: il suo delitto intendeva solo dare sollievo alla misera vecchiaia dell’anziana don-

na. Ma là aveva appreso che sua madre era morta pochi giorni prima. 7. ma tanto balordamente... lo perdette: ma in modo così sciocco, maldestro, che proprio quello sforzo di salvarsi causò invece la sua fine (l’arresto). 8. secondarla: assecondarla, seguire la via del precipizio.

quasi fosse scrutato nel suo segreto, che tanto gli pesa

un oggetto inerte, il cappello, viene a rivelare l’estraneità di Giorgio a se stesso

Bisognava liberarsi da quel cappello a cencio9 che gli pesava sulla testa come il suo 25 delitto stesso. Non rammentò l’intelligente osservazione di Giovanni10 e risoluto entrò da un cappellaio. Era l’ora in cui si doveva venir osservati meno perché si stava già chiudendo il negozio, ma egli non pensò che trasudato dalla corsa11 e agitato da tante emozioni, sarebbe bastato un solo sospetto per scoprire in lui il malfattore che fugge. Una ragazza già vestita per abbandonare il negozio, inguantata, elegante, con certi 30 occhi neri spiritati12 dall’impazienza, gli chiese che cosa desiderasse e udito che voleva un cappello con una smorfia ritornò dietro al banco. Il padrone un giovine alto e magro si alzò da un piccolo tavolo posto nel fondo del negozio. Prima che si alzasse Giorgio non lo aveva veduto ed ora non lo guardava ma si senti35 va osservato da lui, ciò che finì con lo sconcertarlo. «Presto» mormorò con accento supplichevole che alla ragazza dovette sembrare fuori di posto. Ella gli offerse un altro cappello a cencio. «No!» disse lui con qualche vivacità. Ella gliene porse un altro ch’egli prese in mano risoluto di non rimanere più oltre in quella luce, osservato con intensa curiosità dalla ragazza, dal padrone e dal facchino 40 che aveva tralasciato di ritirare i cappelli esposti evidentemente soltanto per guardarlo. Egli ben volentieri avrebbe fatto a meno di provare il cappello nuovo prima di pagarlo, ma capi che ne era obbligato dalla più rudimentale prudenza. Si levò il cappello a cencio e la faccia venne inondata da un sudore abbondante. 45 «Caldo?» chiese la ragazza motteggiando.13 Egli esitò un istante prima di rispondere. Gli parve che da quella domanda gli fosse stata data l’occasione di spiegare che si trovava in quello stato in seguito alla lunga gita14 da lui fatta e non per altra ragione. Ma non seppe avere tanta audacia. «Sì! Molto caldo!» mormorò rasciugandosi la fronte. Pagò e usci dimenticandosi di prendere con sé il cappello a cencio. Il cappello 50 nuovo, troppo piccolo, gli stava in testa in equilibrio15 e malfermo gli dava immenso fastidio. In piazza della Barriera per la quale dovette ripassare vide Giovanni con altri tre operai. Si avvicinò loro esitante, sapendo allora per esperienza16 che ogni sua parola ogni 55 suo gesto sarebbe stato tanto strano da destare sospetto. 17 L’accolsero con saluto glaciale e lo guardarono con diffidenza. Non era un inganno della sua paura; così non lo avevano trattato mai. Lo guardavano con curiosità e nessuno gli rivolse la parola.18 A mezzo ubbriaco dal terrore egli ebbe un ultimo tentativo di disinvoltura: 60 «Si va all’osteria? Pagherò io per questa sera». Giovanni gli disse: «Essi sospettano che tu sii l’assassino di via Belpoggio e finché non ti sei nettato19 di questo sospetto non vogliono venire con te!». Egli comprese che se fosse stato innocente avrebbe dovuto atterrare20 chi per primo elevava un si-

9. cappello a cencio: cappello di feltro, morbido e floscio. 10. l’intelligente osservazione di Giovanni: una testimone aveva visto l’assassino portare un cappello a cencio, oltre a capelli ricci e neri; il suo amico Giovanni aveva allora fatto notare a Giorgio che, poiché era lui uno dei sospettati, avrebbe fatto bene a non cambiare, per il

momento, il cappello e il suo aspetto esteriore. 11. trasudato dalla corsa: tutto sudato perché aveva corso. 12. spiritati: agitati. 13. motteggiando: scherzando. 14. gita: lungo giro a piedi in città. 15. in equilibrio: cioè stava sulla punta. 16. per esperienza: per tutto ciò che gli

era capitato di recente, dopo il delitto. 17. glaciale: di ghiaccio, per nulla amichevole. 18. Lo guardavano... la parola: è la consapevolezza della propria colpa a renderlo così diverso (e «inetto») agli occhi suoi e altrui. 19. nettato: ripulito, discolpato. 20. atterrare: colpire e gettare a terra.

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il rimorso produce un’estraniazione da se stesso

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

l’inettitudine porta Giorgio alla paralisi nell’azione

realtà e ossessione, in Giorgio, s’intrecciano e si confondono, in un groviglio inestricabile

nuovo, vano tentativo di autogiustificazione

mile sospetto. Ma che cosa poteva fare con quel tremito che gl’invadeva le membra e 65 gl’impediva persino la parola? I quattro operai si allontanarono inorriditi da lui. Il loro sospetto era divenuto certezza. Barcollando egli si allontanò. Aveva fatto pochi passi quando si sentì preso con violenza per ambedue le braccia 70 e udì qualcuno che vicinissimo al suo orecchio gridò: «In nome della legge». 21 Ebbe una violenta allucinazione mentre gli rimaneva abbastanza di coscienza per capire che non era altro che un’allucinazione. Intese un enorme fragore, il rumore di cose enormi che crollavano, le imprecazioni di una folla armata e vide dinanzi a sé Antonio che rideva sgangheratamente, le mani nelle tasche, nelle quali certo aveva 75 riposto il suo tesoro riconquistato.22 Poi più nulla. Si ritrovò adagiato sul suo giaciglio. Nella stanza v’era una sola guardia. Due uomini vestiti in borghese, di cui uno, piccolo e tarchiato, con un volto grasso e dolce sembrava il superiore, contavano i denari che già avevano trovati sotto il giaciglio di Giovanni. Costui li aveva aiutati e stava in posizione rispettosa in un canto della stanza. Alla 80 porta vi era un’altra guardia, che tratteneva la folla che si spingeva innanzi. «Assassino!» gli gridò una vecchia alla quale era riuscito di giungere fino sul limitare della porta, e sputò. Era perduto! Non poteva negare, ma quello ch’era peggio non avrebbe mai trovato le parole per descrivere le torture da lui sofferte e che avrebbero attenuato la sua colpa. 85 Per tutti costoro egli era una macchina malvagia di cui ogni movimento era una mala azione o il desiderio di farla, mentre egli sentiva di essere un miserabile giocattolo abbandonato in mano capricciosa. Con voce dolcissima l’uomo dal volto dolce gli chiese se stesse meglio, poi il nome. In quella faccia non vi era segno di odio o di disprezzo e Giorgio dicendo il pro- 90 prio nome lo guardò fisso per non vedere la folla alla porta. Poi la medesima persona comandò alla guardia di far entrare per il confronto23 quella donna e il cappellaio. «No!» pregò Giorgio, e abbondanti lagrime gl’irrigarono il volto. «Ella mi sembra 95 buono e non mi torturerà inutilmente; le dirò tutto, tutta la verità». Poi indugiò alquanto quasi per attendere una ispirazione che lo portasse a tacere, a salvarsi, ma bastò un piccolo movimento d’impazienza del suo interlocutore per far cessare ogni esitazione. «Sono io l’assassino di Antonio» disse con voce semispenta. I. Svevo, Tutte le opere, vol. II: Racconti e scritti autobiografici, cit.

21. abbastanza di coscienza: sufficiente prontezza.

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22. il suo tesoro riconquistato: il denaro che gli era stato rubato da Giorgio.

23. per il confronto: con i testimoni; quella donna lo aveva visto fuggire dopo il delitto.

■ Il primo importante racconto di Svevo porta i segni chiarissimi di una grande novità narrativa: la faccia nascosta della realtà prevale su quella esterna, ciò che è soggettivo su ciò che è oggettivo, la coscienza sui fatti. Emerge così il tema che sta più a cuore all’autore, ovvero l’indagine nelle zone più ambigue e nascoste della personalità, l’inconscio. Svevo è uno dei primi scrittori (in Italia il primo in assoluto) a interessarsene e ad assumere l’inconscio come centro tematico della propria narrativa. ■ Questo emergere dell’inconscio si rivela, nel testo, grazie a diversi elementi: • nelle deboli autogiustificazioni del protagonista, che si convince di essere buono, malgrado le apparenze: egli si giudicò anche meno degno di odio e di persecuzione, e provò una forte compassione di se stesso; e in seguito mette avanti le torture da lui sofferte e che avrebbero attenuato la sua colpa; • nella massiccia presenza di sogni, incubi e allucinazioni: all’inizio del brano antologizzato, Giorgio ha la forte sensazione di vedere Antonio vivo (ebbe una strana visione...); più avanti, quando si sente afferrare per le braccia mentre qualcuno gli grida: «In nome della legge!», ha una violenta allucinazione; • nel senso di estraneità verso se stesso, che si rivela nel brano al momento in cui si cala sulla testa il nuovo cappello, ma questo gli stava in testa in equilibrio e malfermo gli dava immenso fastidio: in altre parole, Giorgio non riconosce più il proprio corpo. Tale divisione o dissociazione è una delle forme che fa emergere l’inconscio, e con esso un inizio di follia. ■ Il risultato di questi elementi è l’inettitudine. Giorgio non si ritrova più di fronte a se stesso: il suo io gli diventa sconosciuto. Questa crisi d’identità lo scuote al punto da renderlo incapace di qualunque efficace reazione. È appunto un «inetto», proprio come inetti saranno gli altri protagonisti di Svevo. Ha saputo uccidere, quindi per un istante ha creduto di essere un vincitore. Ma poi stenta a salvarsi: pensa troppo, perdendo tempo prezioso mentre gli eventi incalzano. Impacciato e confuso, maldestro e impaurito, la sua impotenza a dominare gli eventi diviene, nel finale, una vera e propria paralisi ad agire. ■ Per lunghi tratti Svevo racconta secondo l’ottica del personaggio, come avverrà nei romanzi maggiori. Ciò si traduce in un’ambivalenza narrativa: • ora emerge la voce narrante che registra gli eventi in terza persona; • ora invece il narratore mette a fuoco l’angoscioso agitarsi della coscienza di Giorgio. Svevo cioè alterna momenti in cui narra da un punto di vista esterno a momenti in cui, allontanando l’«oggettività» dei fatti narrati, racconta dal punto di vi-

sta del personaggio (secondo il criterio detto «focalizzazione interna», tipico del moderno romanzo psicologico), portando quindi in primo piano l’autoanalisi. Vedi per esempio le rr. 64-65 (Ma che cosa poteva fare con quel tremito che gl’invadeva le membra e gl’impediva persino la parola?), dove la considerazione dell’autore appartiene in realtà al personaggio: si tratta di un breve monologo interiore. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Riconosci nel testo le principali sequenze narrative e attribuisci a ciascuna un titolo. 2. Quali elementi nel testo si possono riferire alla raffigurazione dell’ambiente esterno, in questo caso Trieste? E come viene caratterizzato, nell’assieme, questo ambiente? .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... 3. Giorgio alla fine confessa il proprio delitto senza opporre resistenza a perché non vuole subire violenza da parte della folla inferocita b perché pensa di potersi salvare al processo c perché non riesce a reggere psicologicamente il peso dei rimorsi d perché non riesce a reggere psicologicamente la pressione da cui si sente costretto Motiva in breve la tua risposta. 4. Quali particolari narrativi rendono sempre più chiara l’inettitudine che caratterizza il personaggio? .................................................................................................... .................................................................................................... .................................................................................................... 5. Rintraccia nel testo la similitudine con cui Giorgio viene paragonato a un uomo che sta cadendo da un’altura. Quali elementi si adattano più da vicino al personaggio e alla situazione in cui si trova? 6. Nello sviluppo del brano si accumulano le espressioni rivelatrici dell’angoscia che prende sempre più il protagonista. Sottolineale nel testo e poi chiariscile in un breve commento (max 15 righe). 7. Svevo, soprattutto nelle sue prime prove narrative, appare un autore a tratti un po’ impacciato nell’uso della lingua italiana. Cerca nel testo qualche espressione che possa testimoniare questo aspetto e commentala. 8. L’unico vero personaggio del racconto è il protagonista Giorgio; la vicenda vive davanti a noi solo per quanto egli la vive, la soffre, la giudica. Illustra in una breve relazione i caratteri della narrativa soggettiva e psicologica di Svevo, a partire già da questo testo (max una facciata e mezzo di foglio protocollo, 2500-3000 battute) 525

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LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Italo Svevo

L’OPERA

UNA VITA

Il titolo: da Un inetto a Una vita ◗ Svevo scrisse il romanzo tra il 1887 e il 1889. Sottopose quindi il manoscritto, con il titolo Un inetto, a Emilio Treves, un triestino d’origine ebraica trasferitosi a Milano, dove aveva fondato la più importante casa editrice italiana d’allora. Treves tuttavia rifiutò la pubblicazione e Svevo si rassegnò a rivolgersi a un piccolo editore triestino, Ettore Vram, che nell’autunno del 1892 stampò mille copie del libro a spese dell’autore. Il romanzo uscì con un titolo diverso: fu l’editore a proporre Una vita, formulazione che suonava meno urtante e più rassicurante rispetto a Un inetto.

Un romanzo di tipo naturalistico ◗ Con un titolo che sembrava promettere un resoconto biografico (similmente a Une vie, “Una vita”, romanzo del francese Guy de Maupassant, 1883), il primo romanzo sveviano s’inseriva nel solco del Naturalismo: al momento della stampa (1892) era trascorso un decennio soltanto dall’uscita dei Malavoglia di Verga. L’impianto di fondo del racconto è in effetti naturalistico: utilizzando la sua diretta conoscenza del mondo triestino, Svevo compie un’indagine minuziosa e rigorosa dei caratteri dei personaggi e dei loro ambienti sociali. ◗ Si tratta di tre ambienti e quindi di tre livelli di vita, fra loro diversi e lontani. • Il livello intermedio è quello del mondo bancario, con le sue severe leggi di lavoro, dominato dal dispotico principale Gustavo Maller; qui si svolge la vicenda principale del protagonista, Alfonso Nitti. • A un livello più alto vi sono gli eleganti ritrovi in casa Maller: qui spadroneggia Annetta, la donna vanamente amata da Alfonso. È il mondo della ricca borghesia cittadina, un mondo da poco affacciatosi alla letteratura, e che ne diverrà l’assoluto protagonista da qui in avanti. • All’estremo opposto, Svevo descrive l’umile ambiente popolano di casa Lanucci, dove il protagonista ha preso alloggio. ◗ L’esito di questa indagine d’ambiente è negativo: attraverso il fallimento di Alfonso si delinea sia l’incapacità degli intellettuali di origine piccolo borghese (com’è Alfonso, romanziere frustrato) di misurarsi con i mutamenti sociali e culturali in atto, sia la sconfitta di una società per la quale il valore più alto è l’affermazione sociale dell’individuo e la conquista del profitto a ogni costo.

Il racconto di un fallimento esistenziale ◗ Il romanzo rivela una profonda natura filosofica: il malessere del protagonista, infatti, reca le tracce inconfondibili della lettura che Svevo-Schmitz aveva compiuto dell’opera del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer. Alfonso insegue nel campo letterario la pace interiore e la felicità, ma il suo è uno sforzo vano: non può accedere a quei valori perché, secondo l’insegnamento di Schopenhauer, non riesce a spogliarsi del proprio attaccamento alla vita, della propria «volontà» di potenza. Alfonso coltiva la letteratura non come forma di conoscenza pura, bensì quale strumento di rivalsa e di promozione sociale: perciò non riesce a giungere all’«ascesi» raccomandata da Schopenhauer, non può conquistare uno stato di contemplazione, cioè il distacco dalla vita. ◗ Alfonso esaurisce la propria spinta artistica nelle fantasticherie di cui popola il suo universo interiore. Cerca il distacco ma soffre di un ossessivo disagio, spirituale e sociale insieme. In lui prevalgono i segni della fragilità nervosa, della debolezza psichica. Da questo punto di vista, più che un racconto di stampo naturalistico Una vita è soprattutto un moderno romanzo psicologico. L’atto estremo compiuto da Alfonso, il suicidio, è lo sbocco per lui purtroppo inevitabile di una spirale di esperienze dolorose, destinate a ripetersi senza vie d’uscita. Esso rappresenta anche l’ultimo modo per esprimere la sua «volontà» d’affermazione (un altro tema schopenhaueriano) e, insieme, un’autopunizione da parte di chi scopre che non potrà mai raggiungere il successo desiderato. 526

◗ Il romanzo narra le vicende di Alfonso Nitti, che lascia il suo villaggio nel Carso e trova impiego a Trieste, presso la banca Maller, dove però è scontento della vita che conduce. Trascorre le sue giornate tra il lavoro in ufficio e la biblioteca comunale, dove si reca a leggere e studiare, sognando per sé il successo letterario. Ma Alfonso non sa mettere a frutto i suoi studi umanistici: non riesce a concludere il romanzo progettato con Annetta, la figlia di Maller, né sa vivere l’amicizia con Lucia, la figlia dei Lanucci, una famiglia piccolo borghese che lo ospita a pensione. Il suo orgoglio intellettuale cade di fronte alla superiorità pratica del brillante avvocato Macario, cugino di Annetta e suo rivale in amore. Alfonso si rivela un «teorista», analizzatore di se stesso ma destinato alla rinuncia alla vita.

3

◗ Grazie alle velleità intellettuali di Annetta, Alfonso riesce a vederla quasi ogni sera, con il pretesto di scrivere assieme a lei un romanzo «a quattro mani»; ma non sa mettere a frutto i consigli di Francesca, la governante di casa Maller. Dopo un imprevedibile amplesso, Annetta, spaventata da un possibile scandalo, pretende che Alfonso la lasci. Egli allora abbandona Trieste per assistere la madre malata; alla morte della quale vende la casa e fa ritorno in città. ◗ Annetta si è frattanto fidanzata con Macario e rifiuta di vedere Alfonso. Questi soccorre con il proprio denaro Lucia Lanucci, figlia del suo affittacamere, che nel frattempo è stata sedotta e abbandonata da un uomo. Annetta accetta un ultimo colloquio con Alfonso, ma i due ex fidanzati litigano; allora Federico Maller, fratello di Annetta, sfida Alfonso a duel-

lo. La notte precedente allo scontro, dopo aver rinunciato a scrivere ad Annetta, Alfonso si uccide con le esalazioni di una stufa a gas. «Quella era la rinunzia – scrive Svevo – ch’egli aveva sognata. Bisognava distruggere quell’organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo» (E p. 573). ◗ Il romanzo è inquadrato, all’inizio e alla fine, tra due lettere. Nella prima Alfonso annuncia alla madre il proprio arrivo in città («Non credere, mamma, che qui si stia tanto male; son io che ci sto male!»); la seconda è una lettera fredda, burocratica, della direzione della banca, che annuncia la morte del proprio impiegato «per cause del tutto ignote» e precisa ora e luogo del funerale, avvenuto «addì 18 con l’intervento dei colleghi e della direzione».

Gabbiani e pesci Una vita, capitolo VIII Anno: 1892 Temi: • l’inettitudine del protagonista • il senso di superiorità e la capacità d’agire del «rivale» • le vittime (come i pesci) e i predatori (come i gabbiani) nella lotta per la vita Una gita in barca nel golfo di Trieste diviene, nel contesto del romanzo, un episodio significativo per rivelare il carattere di «sognatore» di Alfonso (Svevo, altrove, lo chiama teorista), messo qui a confronto con il ben più pragmatico Macario.

Macario infatti, a paragone dell’«inetto» Alfonso, sente esaltata la propria superiorità

La sua1 compagnia doveva piacere a Macario. La cercava di spesso; qualche sera gli usò anche la gentilezza di andarlo a prendere all’ufficio. Ad Alfonso non sfuggì la causa di quest’affetto improvviso. Lo doveva alla sua docilità e, pensò, anche alla sua piccolezza. Era tanto piccolo e insignificante, che accanto a lui Macario si trovava bene. Non si compiacque meno di tale amicizia.2 Le 5 cortesie, anche se comperate a caro prezzo, piacciono. Non disistimava Macario. Per certe qualità ammirava quel giovine tanto elegante, artista inconscio,3 intelligente anche quando parlava di cose che non sapeva.

1. sua: di Alfonso. 2. Non... amicizia: non per questo apprezzò di meno le attenzioni di Macario.

3. artista inconscio: cultore del bello per natura, quindi artista, non dichiarato.

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LA TRAMA

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

la salute che Alfonso cerca non è quella del corpo, ma dell’animo, minato da una malattia psicologica: l’«inettitudine»

Ferdinando, agile ed efficiente; è un «doppio» di Macario, un «vincente» anche lui, in grado di vincere i pericoli

un sorriso di superiorità, appena dissimulato; superiorità esaltata dalla lotta in corso contro gli elementi naturali

Macario possedeva un piccolo cutter4 e frequentemente invitò Alfonso a gite mattutine nel golfo. Nella sua vita triste, quelle gite furono per Alfonso vere feste. In bar- 10 ca gli era anche più facile di dare il suo assenso alle asserzioni di Macario e in gran parte non le udiva. Si trovava ancora sempre alla conquista della solida salute che gli occorreva, riteneva, per sopportare la dura vita di lavoro a cui faceva proponimento di sottoporsi, e gli effluvi marini dovevano aiutarlo a trovarla. Una mattina soffiava un vento impetuoso e alla punta del molo, ove si trovavano 15 per attendere la barca che doveva venirli a prendere, Alfonso propose a Macario di tralasciare per quella mattina la gita che gli sembrava pericolosa. Macario si mise a deriderlo e non ne volle sapere. Il cutter si avvicinava. Piegato dalle vele bianche gonfiate dal vento, sembrava ad ogni istante di dover capovolgersi e di raddrizzarsi all’ultimo estremo sfuggendo al 20 pericolo imminente. Alfonso da terra era colto da quei tremiti nervosi che si hanno al vedere delle persone in pericolo di cadere e fu solo per la paura delle ironie di Macario che non seppe lasciarlo partir solo. Ferdinando, un facchino ch’era stato marinaio, dirigeva la barca. Lasciò il posto al timone a Macario il quale sedette dopo toltasi la giubba quasi per prepararsi a gran- 25 di fatiche: – Ora fuoco alla macchina, – gridò a Ferdinando. Ferdinando scese a terra e trascinò il cutter per l’albero di prora da un angolo del molo all’altro; poi, un piede puntellato a terra, l’altro sul cutter, lo spinse al largo. Alfonso lo guardò tremando; temeva di vederlo piombare in acqua e, per quanto 30 piccolo, l’imminenza di un pericolo lo faceva sussultare. – Che agile! – disse a Ferdinando. Gli pareva d’essere in mano sua e aveva il desiderio quasi inconscio d’amicarselo.5 Ferdinando alzò il capo, giovanile ad onta del grigio nella barba e della calvizie abbastanza inoltrata, e ringraziò. Non essendo suo il mestiere, ci teneva molto ad ap- 35 parire abile. Comprese però male lo scopo della raccomandazione. Trasse con forza a sé la vela e la fissò, aiutando poscia6 a tenderla con tutto il peso del suo corpo. Immediatamente il vento che pareva sorgesse allora la gonfiò e la barca si piegò con veemenza proprio dalla parte ove sedeva Alfonso. S’era proposto di far mostra di grande sangue freddo, ma i propositi non bastaro- 40 no all’improvviso spavento. Poté trattenersi dal gridare ma balzò in piedi e si gettò dall’altra parte sperando di raddrizzare la barca con il suo peso. Si tranquillò alquanto sentendosi più lontano dall’acqua e sedette afferrandosi con le mani alla banchina.7 Macario lo guardò con un leggero sorriso. Si sentiva bene nella sua calma accanto ad 45 Alfonso e per rendere più evidente il distacco tenne il cutter sotto la piena azione del vento. Alfonso vide il sorriso e volle prendere l’aspetto di persona calma. Segnalò a Macario all’orizzonte delle punte bianche di montagne di cui non si vedevano le basi. Passando accanto al faro poté misurare la rapidità con la quale tagliavano l’acqua; diede un balzo sembrandogli che la barca andasse a sfracellarsi sui sassi che la con- 50 tornavano.

4. cutter: piccola imbarcazione a vela, a un solo albero.

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5. amicarselo: renderselo amico. 6. poscia: poi (forma letteraria).

7. banchina: sedile.

una visibile dimostrazione d’inferiorità

i gabbiani incarnano l’efficienza, l’attitudine a vincere nella lotta per la vita; la loro scarsità di cervello risulta non un danno, ma un vantaggio

8. sgangheratamente: in modo scomposto ed eccessivo. 9. verde Sant’Andrea: un’area cittadina

prospiciente al mare, ornata di giardini. 10. un romoreggiare allegro: i gridi dei gabbiani, come poi si capirà.

11. da negligersi: trascurabile. 12. un essere inutile: cioè il cervello.

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il mal di mare, ma non solo: è anche un malessere provocato dall’umiliazione appena subita

– Sa nuotare? – gli chiese Macario con tranquillità. – Alla peggio ritorneremo a casa a nuoto. Ma – e finse grande preoccupazione – anche se si sentisse andare a fondo non si aggrappi a me perché saremmo perduti in due. Penseremo a lei io e Nando. 55 Nevvero, Nando? Ridendo sgangheratamente,8 costui lo promise. Coi suoi modi di pensatore, Macario si dilungò in considerazioni sugli effetti della paura. Ogni dieci parole alzava la mano aristocratica, l’arrotondava e tutti i sottintesi che quel gesto segnava, cui nel vuoto della mano creava il posto, Alfonso lo sapeva, 60 dovevano andare a colpire lui e la sua paura. – Muore maggior numero di persone per paura che per coraggio. Per esempio in acqua, se vi cadono, muoiono tutti coloro che hanno l’abitudine di afferrarsi a tutto quello che loro è vicino, – e fece una strizzatina d’occhio verso le mani di Alfonso che si chiudevano nervosamente sulla banchina. E passarono accanto al verde Sant’Andrea9 senza che Alfonso potesse padroneg- 65 giarsi. Guardava, ma non godeva. La città, quando al ritorno la rivide, gli parve triste. Sentiva un grande malessere, una stanchezza come se molto tempo prima avesse fatto tanta via e che poi non lo si fosse lasciato riposare mai più. Doveva essere mal di mare e provocò l’ilarità di Ma70 cario dicendoglielo. – Con questo mare! Infatti il mare sferzato dal vento di terra non aveva onde. Vi erano larghe strisce increspate, altre incavate, liscie liscie precisamente perché battute dal vento che sembrava averci tolto via la superficie. Nella diga c’era un romoreggiare allegro10 come quello prodotto da innumerevoli lavandaie che avessero mosso i loro panni in ac- 75 qua corrente. Alfonso era tanto pallido che Macario se ne impietosì e ordinò a Ferdinando di accorciare le vele. Si era in porto, ma per giungere al punto di partenza si dovette passarci dinanzi 80 due volte. Si udivano i piccoli gridi dei gabbiani. Macario per distrarlo volle che Alfonso osservasse il volo di quegli uccelli, così calmo e regolare come la salita su una via costruita, e quelle cadute rapide come di oggetti di piombo. Si vedevano solitarii, ognuno volando per proprio conto, le grandi ali bianche tese, il corpicciuolo spro85 porzionato piccolo coperto da piume leggiere. – Fatti proprio per pescare e per mangiare, – filosofeggiò Macario. – Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi.11 Quello ch’è la sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l’appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall’alto. Ma il cer- 90 vello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile!12 Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

la poesia «vola» in spazi solo intellettuali: è quindi un’attività inutile e, anzi, è un impedimento all’agire

altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani 95 organi per afferrare o anche inabili a tenere. Alfonso fu impressionato da questo discorso. Si sentiva molto misero nell’agitazione che lo aveva colto per cosa di sì piccola importanza. – Ed io ho le ali? – chiese abbozzando un sorriso. – Per fare dei voli poetici13 sì! – rispose Macario, e arrotondò la mano quantunque 100 nella sua frase non ci fosse alcun sottinteso che abbisognasse di quel cenno per venir compreso. I. Svevo, Tutte le opere, cit., vol. I: Romanzi e «Continuazioni», a cura di N. Palmieri e F. Vittorini

13. voli poetici: le fantasie e le immagini lontane dalla realtà, tipiche dei testi di poesia.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il brano offre la prima raffigurazione di una fondamentale struttura che regge l’opera sveviana, ovvero il confronto/scontro tra il protagonista (l’«inetto») e l’antagonista (colui che è «adatto» a vivere): è proprio la lotta contro il rivale a nutrire l’immaginario dei protagonisti dei tre romanzi di Svevo (Alfonso contro Macario in Una vita, Emilio contro Stefano Balli in Senilità, Zeno contro Guido nella Coscienza di Zeno). ■ Nel testo risalta l’inettitudine di Alfonso, paragonata alle doti di Macario, l’individuo perfettamente adeguato alle esigenze della vita. Il confronto si svolge durante una gita in barca a vela, un ambito adatto a far emergere i tratti peculiari dei contrapposti caratteri. La gita dimostra all’impacciato passeggero, Alfonso, la sicurezza e abilità del velista, Macario. Quest’ultimo appare perfettamente conscio delle sue possibilità e della sua abilità nel governare il cutter; invece Alfonso è completamente passivo, in balia degli altri e delle onde. ■ Il rapporto che s’instaura fra i personaggi è molto complesso. I due sembrano infatti dipendere l’uno dall’altro, sia pure per motivi opposti: • Alfonso ammira Macario perché è sicuro di sé, elegante, intelligente; • Macario vuole Alfonso accanto a sé, perché lo vede debole e spaventato: Alfonso, quindi, gli risulta indispensabile per far emergere la propria superiorità. ■ Il senso del brano viene riassunto, nel finale, in una similitudine: una sorta di parabola, che raffigura la lotta tra gabbiani e pesci. Macario fa osservare ad Alfonso la grande efficacia del volo dei gabbiani, capaci di gettarsi nel modo più rapido e infallibile sulla preda: come se il piccolo cervello di quegli uccelli fosse progettato solo a quello scopo. Alfonso (come la gita in barca a vela ha appena dimostrato) possiede invece le caratteristiche opposte a quelle dei 530

gabbiani: il suo cervello, nutrito di studi e letture, gli è d’impaccio, anziché d’utilità, nella lotta per la vita. I soli voli a cui è adatto, come ironicamente commenta Macario, sono quelli poetici, voli, cioè, del tutto inutili. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Riconosci nel testo le principali sequenze narrative e attribuisci a ciascuna un titolo. 2. Perché Alfonso non vorrebbe uscire in mare? E perché, invece, accetta di andarci? 3. Chi è Ferdinando e a quale dei due antagonisti assomiglia? 4. Durante la gita in barca il comportamento di Alfonso e quello di Macario sono antitetici: perché? 5. Che cosa sono i voli poetici di cui parla Macario e perché si tratta di un’espressione ironica? 6. Rintraccia nel brano i momenti nei quali emergono più esplicitamente gli opposti caratteri e le diverse concezioni di vita dei due protagonisti. 7. Il narratore sembra mantenere un atteggiamento ambiguo e non parteggiare né per l’uno né per l’altro dei personaggi. Condividi questa impressione? Motiva la risposta con precisi riferimenti al testo. 8. La gita in cutter ha un valore simbolico, in quanto sembra una metafora della vita. Illustrala con precisi riferimenti al testo. 9. Metti a confronto i due personaggi di Giorgio, protagonista dell’Assassinio di via Belpoggio, e di Alfonso Nitti, per quanto ne emerge in questo testo, segnando analogie e differenze (max 15 righe). 10. Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Commenta l’affermazione di Macario in rapporto a quanto emerge nel brano e a ciò che sai di Svevo (max 10 righe).

Italo Svevo

Contesto

SENILITÀ

Emilio, il «fratello carnale» di Alfonso ◗ Scritto tra il 1896 e il 1897, il romanzo uscì a stampa nel 1898, dapprima in 79 puntate in appendice al quotidiano triestino l’«Indipendente», tra luglio e settembre, e poco dopo in volume presso l’editore triestino Vram, lo stesso che aveva pubblicato Una vita. ◗ A un primo livello di lettura, Senilità si presenta come la naturale continuazione di Una vita. I tratti psicologici e sociali di Emilio Brentani sono infatti gli stessi di Alfonso Nitti: entrambi sono impiegati piccolo borghesi (ma provenienti da famiglie un tempo benestanti e poi decadute), con velleità intellettuali, pur se incapaci di perseguire le proprie ambizioni, frustrati dall’inerzia. Lo stesso Svevo dichiara che Emilio è il «fratello carnale» di Alfonso, poiché anch’egli è sostanzialmente un «inetto», incapace di rapportarsi con la realtà circostante e con le persone, impaurito dal mondo e dai sentimenti. La differenza più importante riguarda l’esito del racconto: alla fine della vicenda, diversamente da Alfonso, Emilio non si suicida, ma accetta di rientrare nei ranghi del borghese pacifico, rassicurato dalla tranquilla routine quotidiana. ◗ Anche l’ambientazione esterna ci riporta a quella di Una vita. Il mondo in cui si svolge il racconto è descritto nei primi capitoli con accuratezza veristica: una Trieste talora notturna, piovosa e deserta, talora solare e affollata, bilanciata tra il Corso, brillante di mondanità, e le zone industriali, dove ferve il lavoro. ◗ Man mano, però, che la narrazione avanza, il lettore avverte l’inconsistenza di tale scenario. La Trieste reale cede il campo a una sorta di «paese dell’anima», ricostruito da Emilio sulla scorta del suo sogno e della sua nevrosi. Anche il tempo reale pare sfumare nel tempo tutto interiore dei ricordi, delle attese, dei sogni del protagonista Emilio. Dal punto di vista cronologico, la vicenda è molto compatta e copre all’incirca l’arco di un anno. ◗ Molto curato è anche il sistema dei personaggi. Una vita, il primo romanzo di Svevo, gravitava per intero sulle vicende di Alfonso Nitti e sulla sua solitudine, raffigurata nei mesti monologhi del protagonista. Invece Senilità mostra una più armoniosa struttura «a quadrilatero»: agiscono quattro personaggi, che si equivalgono nella narrazione come presenza e «peso» narrativo. Tutto però, a ben vedere, ruota intorno al protagonista Emilio: gli altri tre personaggi servono a rispecchiare la sua inettitudine, per analogia (la sorella Amalia) o per contrasto (l’amico Balli), oppure a mettere in luce l’inconsistenza della sua volontà (Angiolina).

Una relazione sentimentale fra realtà e nevrosi ◗ La parabola narrata dal romanzo si può riassumere così: nel momento in cui Emilio cerca un’avventura amorosa per uscire in qualche modo dalla mediocrità, si rivela poi incapace di gestirla per quello che è, cioè come un diversivo, un’avventuretta per nulla impegnativa. Egli inizia la relazione con Angiolina convinto di poter facilmente «educare» la ragazza; ma, al contrario, finisce per subire da lei un’educazione sentimentale a rovescio, nel senso che riceve dalla ragazza clamorose lezioni di vita, tradimenti e abbandono. ◗ Per nascondere debolezze e sconfitte, Emilio costruisce per sé e per la ragazza maschere fittizie, fortemente illusorie e deformanti. Ad Angiolina attribuisce tratti di fragilità e innocenza che decisamente non appartengono alla ragazza. Quanto a se stesso, si presenta sulla scena come uomo cinico, maturo e sicuro di sé, mentre nella realtà è tutt’altro; ha solo voluto adeguarsi agli stereotipi dominanti del maschio aggressivo, senza possederne affatto la natura, che è quella di un individuo incerto, timoroso di affrontare la realtà, in una parola «inetto». 531

Monografia Raccordo

L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento

La doppia prospettiva della narrazione ◗ Tutto ciò accade nella disturbata «coscienza/incoscienza» di Emilio: il mondo reale viene come inghiottito, pagina dopo pagina, dallo sguardo soggettivo del protagonista, e finisce per svaporare e dissolversi in esso. Il narratore onnisciente dei primi capitoli si ritira via via nell’ombra, fino a sparire: e quello che poteva sembrare, all’inizio, un romanzo naturalista, si tramuta sempre più apertamente in un moderno romanzo psicologico, dall’impianto narrativo nuovo ed efficacissimo. ◗ Questo sguardo soggettivo dal quale filtra tutta la narrazione di Senilità è, a ben vedere, uno sguardo a due facce: • da una parte abbiamo la sistematica mistificazione con cui Emilio guarda alla realtà e agisce; • dall’altra la rivelazione – anch’essa sistematica – con cui il narratore smaschera le menzogne del protagonista. La prima visuale è quella dominante, nel senso che il lettore apprende le vicende sempre dal punto di vista di Emilio. Ma sono sufficienti brevi notazioni da parte dell’autore (un cenno, un aggettivo o un avverbio) perché il lettore riconosca come false e inattendibili le motivazioni e le giustificazioni che il personaggio fornisce per il proprio agire. ◗ Alla fine il narratore scopre e svela la «falsa coscienza» del suo personaggio. • Emilio vuole mostrarsi un rude donnaiolo, ma in realtà è debolissimo, incapace di gestire un rapporto di coppia; • vuole apparire un cinico e disincantato amorale, ma in realtà è ossessionato dalla gelosia, dal perbenismo e da una concezione antiquata e letteraria della femminilità (la donna come essere dolce, fragile, innocente, bisognoso di guida e protezione); • vorrebbe presentarsi come un individuo maturo e deciso, mentre è eternamente incerto, lacerato nel suo intimo. Il narratore annulla così ogni possibilità d’identificazione e di simpatia verso il proprio personaggio, che rimane costantemente sotto il bersaglio del giudizio e dell’analisi.

LA TRAMA ◗ La trama di Senilità è stata riassunta dallo stesso Svevo nel Profilo autobiografico del 1928. Il romanzo, scrive l’autore, «è il racconto dell’avventura amorosa che il trentenne Emilio Brentani si concede cogliendola di proposito sulle vie di Trieste. Emilio è un impiegatuccio che gode nei circoli cittadini di una piccola fama letteraria e si duole di aver sprecata (e di non aver goduto) tanta parte di vita. Vorrebbe vivere come fa lo scultore Balli, suo amico, ch’è indennizzato dell’insuccesso artistico da un grande successo personale, con le donne specialmente. Finora ad Emilio era sembrato di non aver saputo imitare l’amico, per le grandi responsabilità che su di lui incombevano, la sorte di una sorella, Amalia, che vive accanto a lui nella stessa inerzia, non più giovine e affatto bella. Subito la sorella è agitata vedendo che il fratello senza alcun ritegno si dedica al giuoco perico-

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loso e proibito dell’amore, ma presto si convince in seguito all’esempio del fratello e alle teorie del Balli, che essa fu ingannata e che l’amore dovrebbe essere il diritto di tutti. Per Emilio intanto la piccola avventura cui aveva voluto abbandonarsi si fa importante proprio in sproporzione al valore morale di Angiolina. Anzi ogni scoperta di una bassezza o di un tradimento di Angiolina non ha altro effetto che di legarlo meglio a lei. Egli sente il suo attaccamento e la sua soggezione a quella donna quale un delitto. Non sapendo imitare il Balli ne invoca l’aiuto. L’intervento del Balli fra i due amanti ed anche tra il fratello e la sorella ha degli effetti disastrosi. Tutt’e due le donne s’innamorano di lui. Inutilmente Emilio tenta di allontanarlo da Angiolina, perché costei gli si attacca, ma con facilità l’allontana dalla sorella, che ora dovrebbe ritornare alla sua prima inerzia e che invece segreta-

mente si procura l’oblio con l’etere profumato [con l’alcol]. Un giorno Emilio trova la sorella nel delirio della polmonite. Richiama il Balli e i due uomini aiutati da una vicina assistono la moribonda. Ancora una volta per aver scoperto un nuovo tradimento di Angiolina, Emilio lascia sola la sorella, ma poi ritorna a lei e le resta accanto finché chiude gli occhi». ◗ L’epilogo vede Emilio finalmente distanziarsi dai continui tradimenti di Angiolina. Profondamente deluso e affranto, decide di isolarsi da tutto, evadendo dalla triste realtà: finirà per vivere da solo e soltanto nei propri ricordi, come un vecchio (da qui il titolo Senilità). Per se stesso conserverà un’immagine tutta idealizzata di Angiolina, accarezzandola nella memoria come un «simbolo alto, magnifico» di bellezza e bontà (E Testo 5, p. 539).

Un pranzo, una passeggiata – e l’illusione di Ange Senilità, capitolo 5 Anno: 1898 Temi: • la rivalità tra l’inetto (Emilio) e l’uomo sicuro di sé (Stefano Balli) • ambiguità e falsità nei rapporti interpersonali • un’immagine irreale e distorta di femminilità • l’inettitudine di Amalia È l’unica pagina di Senilità in cui si affacciano contemporaneamente i quattro protagonisti della vicenda, inclusa Angiolina, che s’impone nella conversazione e nei pensieri degli altri tre. La scena comincia in casa di Emilio Brentani e di sua sorella Amalia; è giunto in visita Stefano Balli, lo scultore amico di Emilio e che Amalia segretamente ama. Dopo pranzo, i tre decidono di fare una passeggiata; è domenica e tutta la città sembra riversata sul passeggio di Sant’Andrea. Qui i tre protagonisti incontrano per caso Angiolina, accompagnata dal suo nuovo amante, il sarto Volpini.

l’esclamazione appartiene ad Amalia: il narratore interpreta i pensieri del personaggio

ecco l’esito del confronto, sempre perdente per Emilio, con l’amico Balli

Stefano restò a pranzo. Un po’ turbata, Amalia aveva annunziato che ci sarebbe stato poco da mangiare, ma il Balli ebbe anzi la sorpresa di trovare che in quella casa si mangiava molto bene. Da anni Amalia passava una buona parte della sua giornata al focolare e s’era fatta una buona cuciniera1 quale occorreva al palato delicato 5 d’Emilio. Stefano era rimasto volentieri. [...] Per lui e per Amalia quel pranzo fu lietissimo. Egli fu ciarliero. Raccontò della sua prima gioventù ricca di avventure sorprendenti. Quando la penuria2 che lo costringeva ad aiutarsi con espedienti più o meno delicati, ma sempre allegri, minacciava di farsi miseria, era capitato sempre il soccorso.3 Raccontò in tutt’i dettagli un’avventura che lo aveva salvato dalla fame facendogli 10 guadagnare una mancia per un cane trovato. [...] Com’era bello il destino del Balli per cui egli non era neppure obbligato a riconoscenza per i benefici che gli piovevano dal cielo. La ricchezza e la felicità erano i portati4 del suo destino; perché avrebbe dovuto sorprendersene o esserne grato a chi era inviato dalla provvidenza a portargli i suoi doni? Amalia, incantata, stava a sentire 15 quel racconto che le confermava la vita essere ben differente di quella ch’ella aveva conosciuta. Era naturale che a lei e al fratello fosse stata tanto dura e naturalissimo che al Balli fosse toccata tanto lieta. Ella ammirò la felicità del Balli e amò in lui la forza e la serenità che erano le sue prime grandi fortune. Invece il Brentani stava a udire con amarezza e invidia. Pareva che il Balli si vantas- 20 se della fortuna come di propria virtù. A Emilio non era toccato mai niente di lieto anzi neppure niente d’inaspettato. [...] Egli non aveva mai ispirato niente di forte, né amore, né odio; il vecchio5 tanto ingiustamente odiato dal Balli non era intervenuto nella sua vita. La gelosia, nel suo6 animo, crebbe in modo ch’egli ne provò persino per l’ammirazione che al Balli dedicava Amalia. Il pranzo divenne molto animato 25 perché anche egli vi collaborò. Lottò per conquistarsi l’attenzione di Amalia!

1. cuciniera: cuoca. 2. penuria: povertà. 3. il soccorso: un espediente per tirare avanti.

4. i portati: i doni gratuiti. 5. il vecchio: un anziano signore, «originale, ricco come un personaggio da fiaba», che prima aveva incaricato Balli di scolpir-

gli il busto e il monumento funebre, e poi, alla morte, gli aveva lasciato del denaro nel suo testamento. 6. suo: di Emilio.

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Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

Amalia è una persona grigia, rassegnata, «inetta» come il fratello

il nero, il bianco, l’effetto grigio come il cielo invernale

entra in scena anche la quarta protagonista del romanzo, finora assente

Ma non vi riuscì! Che cosa avrebbe potuto dire che stesse degnamente accanto alla bizzarra autobiografia del Balli? Nient’altro che la propria attuale passione7 e non potendo parlare di quella, immediatamente egli fu confinato alla seconda parte8 ch’era sua per destino. [...] Mai Amalia era stata l’oggetto di tante attenzioni. Ella sta- 30 va ad ascoltare le confidenze che le faceva lo scultore e non s’ingannava: le erano fatte proprio per conquistarla ed ella infatti si sentiva tutta sua. Per la mente della grigia fanciulla non passarono speranze per l’avvenire. Era proprio del presente che ella gioiva, di quell’ora in cui ella si sentiva desiderata, importante. Uscirono insieme. Emilio avrebbe voluto andarsene col Balli, ma ella gli ricordò 35 una promessa fattale il giorno innanzi di condurla seco.9 Quella festa10 non doveva ancora terminare. Stefano l’appoggiò. A lui pareva che l’attaccamento per Amalia avrebbe potuto combattere nel Brentani l’influenza di Angiolina e non ricordava più che pochi minuti prima aveva lottato per porsi tra fratello e sorella. Ella fu pronta in un batter d’occhio e aveva trovato anche il tempo di riformare 40 sulla fronte i ricci dei capelli fini ma piuttosto variamente macchiati che coloriti. Quando, infilandosi i guanti, invitò il Balli ad uscire, ebbe per lui un sorriso col quale pregava di piacergli. Sulla via ella era più insignificante che mai, vestita tutta di nero, una piccola piuma bianca sul cappellino. Il Balli scherzò su quella piuma. Disse però che gli piaceva 45 e seppe celare11 il malumore che lo colse all’idea di dover traversare la città accanto a quella donnina di un gusto tanto perverso da porre un segnale bianco12 a sì piccola distanza da terra. L’aria era tepida ma, coperto da una fitta bianca nebbia, tutta una cappa dello stes50 so colore, il cielo era veramente invernale [...]. «Fra noi tre conosciamo tutta la città» mormorò il Balli. Sul passeggio avevano dovuto rallentare il passo. Così festiva e romorosa e ufficiale,13 nel grande triste paesaggio e accanto al vasto mare bianco, quella folla era poco seria; aveva del14 formicaio. «Ella conosce tutti, non noi»;15 disse Amalia che ricordava d’essere venuta spesso a quel passeggio senza aver avuto perciò da stancarsi troppo nei saluti. Tutte le perso- 55 ne che passavano avevano il saluto amichevole o rispettoso per il Balli e i saluti gli venivano anche dagli equipaggi. Ella si sentiva bene accanto a lui e gioiva di quella passeggiata trionfale come se una parte della riverenza che veniva dimostrata allo scultore fosse stata destinata a lei. [...] «Ange!»16 mormorò Amalia ridendo con discrezione. L’aveva riconosciuta alla de- 60 scrizione che gliene era stata fatta e al turbamento di Emilio. «Non ridere!» pregò Emilio con calore e confermando la scoperta di Amalia. Anche lui vedeva qualche cosa di nuovo: il sarto Volpini,17 un esile omino più insignificante ancora per colpa della splendida figura femminile18 accanto alla quale marcia-

7. la propria attuale passione: l’amore per Angiolina. 8. alla seconda parte: a una semplice parte di comprimario sulla scena della vita. 9. fattale... condurla seco: il giorno prima Emilio aveva promesso alla sorella di portarla a passeggio, per distrarla. 10. Quella festa: il pranzo con Stefano e le mille attenzioni di cui ella è circondata. 11. celare: nascondere.

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12. un segnale bianco: la piuma. 13. ufficiale: solenne. 14. aveva del: pareva un. 15. non noi: noi invece conosciamo poca gente, diversamente da Stefano (a cui Amalia si rivolge con Ella). 16. Ange: Angiolina. È sottinteso: «Eccola là» o simili; Amalia infatti la riconosce (senza mai averla vista prima) mentre passa per la via.

17. il sarto Volpini: accompagnatore e amante di Angiolina, in comproprietà, diciamo così, con Emilio. Emilio stesso aveva insistito per trovare qualcuno che facesse da copertura alla loro relazione, e Angiolina vi si era adattata volentieri. Ora però Emilio è geloso del sarto. 18. splendida figura femminile: Angiolina.

è l’effetto dei toni idealizzati con i quali Emilio parla alla sorella della propria relazione con Angiolina

Angiolina incarna quella «salute» che manca sia a Emilio sia ad Amalia

I. Svevo, Tutte le opere, vol. I: Romanzi e «Continuazioni», cit.

19. il colore: il colorito sano, simbolo di salute e forza. 20. Suo zio: per difendere l’onorabilità di Angiolina agli occhi della sorella, Emilio

mente sul conto del sarto. 21. novella: recente. 22. suo amore: verso Angiolina. 23. luceva: si illuminava.

24. si guardasse: si tenesse in guardia (da Angiolina).

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a contatto con Angiolina il piccolo sarto Volpini riacquista un portamento da uomo sano

va con un suo passo allungato con isforzo e vanto. I due uomini salutarono ed il 65 Volpini rispose con esagerata gentilezza. «Ha il colore19 di Angiolina, quel signore», rise il Balli. Emilio protestò: come si poteva confrontare la paglia del Volpini con l’oro d’Angiolina? Si volse e vide che Angiolina china, parlava al suo compagno il quale guardava in alto, finalmente non gobbo. Parlavano certo di loro. Soltanto più tardi, quando si trovarono di nuovo in città e in procinto di dividersi, 70 Amalia che improvvisamente era ammutolita sentendosi di nuovo vicina alla sua abituale solitudine, per dire qualche cosa e rompere il silenzio che già su lei incombeva, domandò chi fosse l’uomo che accompagnava Angiolina. «Suo zio»20 disse il Brentani serio, serio, dopo una lieve esitazione, mentre Stefano lo guardava ironico vedendolo arrossire. L’occhio innocente della sorella lo faceva 75 vergognare. Come Amalia sarebbe stata sorpresa che il grande amore del fratello, quell’amore pel quale ella già tanto aveva sofferto, fosse fatto a quel modo. «Grazie!» disse Amalia congedandosi da Stefano. Oh! quale ricordo dolce di quelle ore le sarebbe rimasto se, per disgrazia, non si fosse accorta che in quel momento il Balli non poteva parlare perché in lotta con uno sbadiglio che gli paralizzava la 80 bocca. «Ella s’è annoiato! Tanto più la ringrazio!» Umile e buona tanto, commosse Stefano il quale sentì subito di volerle bene. Spiegò che lo sbadiglio da lui era affare di nervi. Le avrebbe provato ch’egli non s’annoiava in loro compagnia e se lo sarebbero trovato molto spesso fra’ piedi. Infatti mantenne la parola. Sarebbe stato difficile di dire perché egli ogni giorno fa- 85 cesse quelle scale per andare a prendere il caffè dai Brentani. Era gelosia, probabilmente; egli lottava per conservarsi l’amicizia di Emilio. Ma Amalia non poteva indovinare tutto ciò. Ella riteneva ch’egli venisse più spesso da loro per il più semplice affetto pel fratello, affetto di cui ella stessa godeva perché una parte su lei ne riverberava. Tra fratello e sorella non vi furono più diverbi. Emilio sentì che la sorella lo soppor- 90 tava, lo comprendeva meglio; anzi sentì che la novella21 benevolenza si estendeva persino al suo amore.22 Quando egli le parlava di questo, il volto di Amalia si rischiarava, luceva.23 Ella cercava di farlo parlare d’amore e non gli diceva mai ch’egli si guardasse24 o che dovesse lasciare Angiolina. Perché avrebbe dovuto lasciare Angiolina visto ch’ella era la felicità? Un giorno domandò di conoscerla e più volte ne espres- 95 se poi il desiderio; ma Emilio si guardò bene dal compiacerla. Ella non sapeva di quella donna altro fuori ch’era un essere molto differente di lei, più forte, più vitale, e ad Emilio piacque di aver creata nella sua mente un’Angiolina ben diversa dalla reale. Quando si trovava con la sorella, amava quell’immagine, l’abbelliva, vi aggiungeva tutte le qualità che gli sarebbe piaciuto di trovare in Angiolina e quando capì che an- 100 che Amalia collaborava a quella costruzione artificiale, ne gioì vivamente.

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ Nel brano si possono riconoscere tre sequenze: 1. un’introduzione, in cui il narratore, riferendo liberamente e interpretando i pensieri dei tre personaggi (Emilio, Amalia e Stefano) durante il loro pranzo, riflette sui tratti essenziali della loro personalità; 2. un ampio arco narrativo, che descrive la passeggiata in città e l’incontro, imprevisto, con Angiolina;

3. infine una breve conclusione finale, che vede in scena soltanto i due fratelli, gli «inetti» del racconto. Qui Emilio e Amalia elaborano di comune accordo un’immagine idealizzata di Angiolina: una pura illusione, che però costituirà, nella «coscienza» di Emilio, il punto d’arrivo di tutto il romanzo (E Testo 5 p. 539).

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Apparentemente questo brano non racconta quasi nulla, se non i rapporti fra i personaggi. Ma dietro questa pàtina, divertita e un po’ superficiale, il narratore guida i lettori a intuire anche gli elementi ambigui e potenzialmente conflittuali che legano le tre figure. ■ Emergono così • la rivalità e l’antagonismo, sotto l’aspetto di apparente amicizia, fra Emilio e Stefano; • il disappunto e la gelosia di Emilio quando si accorge che la sorella si è innamorata dell’amico Stefano, che egli stesso, d’altra parte, ammira e invidia; • infine la costruzione artificiale (r. 101) della figura di An-

giolina. Questa distorsione si produce nella fantasia sia di Emilio (che si costruisce un’Angiolina inesistente) sia di Amalia (che collabora all’illusione del fratello vincendo, ma solo in apparenza, la propria gelosia verso Angiolina). ■ In questa rete complessa di rapporti s’insinua fin dall’inizio il tema, prettamente sveviano, della distanza che separa due categorie d’individui: gli «inetti» da una parte (Emilio, Amalia) e gli «eroi» o vincenti (Stefano) dall’altra: Era naturale che a lei e al fratello [la vita] fosse stata tanto dura e naturalissimo che al Balli fosse toccata tanto lieta (rr. 17-18). Ai due Brentani la fortuna di Balli e la propria sventura paiono condizioni fatali, che non si possono modificare in alcun modo.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. Svevo si concentra sulla rete delle relazioni affettive che si stringono tra i quattro protagonisti: oltre alla relazione fra Emilio e Angiolina, infatti, qui hanno gran parte anche i personaggi di Stefano Balli e Amalia. a. Riassumi con le tue parole i rapporti che legano tra loro, in questo testo, i tre personaggi: – i rapporti tra Emilio e Stefano sono ............................. ............................................................................................... come si capisce da ............................................................. ............................................................................................... – i rapporti tra Emilio e Amalia sono ................................ ............................................................................................... come si capisce da ............................................................. ............................................................................................... – i rapporti tra Amalia e Stefano sono ............................. ............................................................................................... come si capisce da ............................................................. ............................................................................................... 2. Emilio Brentani è la figura centrale del romanzo: Svevo stesso lo definì il «fratello carnale» di Alfonso Nitti, protagonista di Una vita. L’elemento centrale del suo carattere è che Emilio sistematicamente copre e mistifica la realtà. 536

a. In quale momento (o in quali momenti) di questo brano emerge tale caratteristica? Cerca la risposta sul testo, cita il punto, o i punti, e poi scrivi un tuo breve commento. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 3. In questa pagina un ruolo di primo piano è riservato anche allo scultore Balli, il quale è al centro delle attenzioni dei due fratelli. a. In un punto egli scherza sulla piuma, il dettaglio più appariscente, e più doloroso, dell’abito di Amalia. – Rintraccia il punto nel testo. – Balli finge il proprio apprezzamento ma cela, in realtà, il malumore. Perché? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... – Come evolve, lungo il testo, il suo rapporto con Amalia? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

a. Nel testo Svevo ritrae Amalia come una figura in grigio, attribuendo alla sua fisionomia dei «non colori». – Dove si evidenzia, nel passo letto, questo elemento? – L’abbigliamento di Amalia non piace al Balli: perché? Motiva in breve la tua risposta. b. Ritrova nel testo gli elementi (impliciti o espliciti) che differenziano Amalia da Angiolina. Commentali poi brevemente con le tue parole. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 5. Per Svevo, lettore di Darwin, è la lotta la misura dominante che regola i rapporti umani: una lotta psicologica e sentimentale, per conquistarsi spazi d’affetto e di ammirazione nella società borghese.

{ Forme e stile 6. L’episodio è una pagina minore del romanzo, ma interessante: malgrado l’apparente svagatezza, essa ci dà l’esatto respiro – narrativo e psicologico – dell’opera. a. Individua nel testo le principali sequenze narrative, indicando il punto d’inizio e di conclusione. b. Attribuisci a ciascuna sequenza un titolo. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... c. Riassumile brevemente con le tue parole. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

a. Come e dove emerge, nel brano letto, questa tematica? Rispondi citando qualche frase o espressione del testo. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

LAVORIAMO SU

LINGUA E LESSICO

1. Molti critici hanno accusato Svevo di «scrivere male», dal punto di vista strettamente linguistico. Del resto l’origine triestina di Svevo e la sua prima formazione, avvenuta in Germania, lo condizionarono fortemente (E scheda a p. 538). a. Individua nel brano letto alcuni costrutti ed espressioni a tuo avviso linguisticamente poco eleganti e prova a riscriverli più correttamente completando la tabella.

s’era fatta una buona cuciniera

era divenuta una buona cuoca

quel racconto che le confermava la vita essere ben differente

quel racconto da cui riceveva una conferma: la vita è ...

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Monografia Raccordo

4. La vera protagonista dell’episodio è però Amalia: un individuo ancor più fragile del fratello e che vive un’altrettanto forte situazione di «senilità». A lei sono attribuiti caratteri di femminilità opposti a quelli che determinano il fascino dell’esuberante Angiolina.

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

Ma è vero che Svevo «scrive male»?

Svevo come Manzoni Dopo aver conquistato la notorietà, dal 1926 in avanti, Svevo fu molto contestato dai critici per il suo stile, giudicato inadeguato e approssimativo. Le critiche si appuntarono sia sulla Coscienza di Zeno, sia soprattutto sui primi due romanzi. Ma per valutare se si tratta di critiche giuste, dobbiamo esaminare in quale situazione linguistica Svevo si trovò a vivere e a operare come scrittore. Si trattava di una condizione simile a quella in cui si era trovato Manzoni quasi un secolo prima. • Sia Svevo sia Manzoni erano dialettofoni, parlavano cioè il dialetto per la comunicazione quotidiana e familiare: Svevo il dialetto triestino, affine al veneto, Manzoni il dialetto milanese. • Entrambi usavano invece una lingua straniera per gli usi sociali: Svevo usava il tedesco (a scopi burocratici e commerciali), Manzoni si serviva del francese per fini culturali. • Entrambi, infine, scelsero l’italiano per la scrittura letteraria. Era una scelta dettata anche da finalità politiche: l’attaccamento alla letteratura italiana era tradizionale per la società triestina che si sentiva estranea al mondo asburgico, proprio come Manzoni aveva scelto l’italiano per i suoi Promessi sposi, finalizzati a dare una comune patria linguistica a tutte le genti della penisola. La scelta della lingua La scelta dell’italiano come lingua letteraria implicò per Svevo e Manzoni la necessità d’imparare l’italiano come si farebbe con una lingua straniera. A tale scopo Manzoni nel 1827 dimorò alcuni mesi in Toscana; Svevo s’immerse intorno al 1880-85 nei libri della Biblioteca Civica di Trieste. Altri concittadini di Svevo sceglieranno come lui la professione

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di scrittori, come Slataper e Saba: essi però ebbero la possibilità di recarsi a Firenze per impratichirsi nel toscano. Invece Svevo poté contare su una preparazione scolastica di tipo solo tecnicocommerciale (appresa in tedesco); inoltre dovette iniziare presto a lavorare. Non poté dunque conoscere il toscano di «prima mano». Tale lacuna ha ripercussioni evidenti nelle sue opere, soprattutto per due aspetti: • le incertezze morfosintattiche: spesso Svevo usa in modo scorretto alcune preposizioni in espressioni che sono «calchi» dal tedesco (per esempio: Sarebbe stato difficile di dire perché...; Attraverso al pensiero nobilitante di Amalia ecc.); • le incertezze lessicali: da qui il suo vocabolario ora arcaicizzante (per esempio: i portati per «i doni», adusti per «inariditi», aggradevoli per «gradevoli» ecc.), ora sciatto e povero (continuammo a succhiellare, termine gergale per «sfogliare le cartelle»). Uno stile «realistico» Tuttavia Svevo non era affatto un illetterato o uno scrittore «ingenuo» o naïf. Soprattutto al tempo della Coscienza di Zeno avrebbe potuto scrivere in modo più elegante o letterario; ma non volle mai «ripulire» in profondità la propria lingua dalla patina di dialettalismi e arcaismi. In sostanza, scelse di scrivere «male», o meglio, di utilizzare quello che Montale chiamò «uno stile commerciale». Sempre Montale però si accorse che quel linguaggio era «il solo che fosse connaturale ai suoi [di Svevo] personaggi». La neutralità e piattezza stilistica erano per Svevo un mezzo di sincerità, di adesione ai contenuti. La sua prosa scialba e uniforme intendeva infatti riprodurre la banalità e la monotonia della psicologia e della vita dei suoi personaggi: il voca-

■ Umberto Veruda, Ritratto di Italo Svevo con la sorella Ortensia.

bolario è povero perché è povera l’esistenza interiore di chi lo parla. Si rivela qui quella scelta di realismo che è il fondamento della poetica sveviana: una scelta vicina a quella compiuta, negli stessi anni, da Pirandello, un altro prosatore che preferisce la sobrietà a qualsiasi affettazione e magniloquenza. Va perciò preso con prudenza quanto Zeno affermerà nella Coscienza, scusandosi per il suo brutto italiano: «Una confessione per iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana [cioè di buona forma letteraria] noi mentiamo! Se egli [lo psicoanalista] sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto». L’osservazione di Zeno è uno degli infiniti sotterfugi dietro cui egli si nasconde per mascherare e mistificare la realtà: Zeno utilizza cioè la propria (pretesa) scarsa padronanza della lingua per giustificare preventivamente le proprie bugie.

La «metamorfosi strana» di Angiolina Senilità, capitolo 14 Anno: 1898 Temi: • uno squallido ambiente di vita familiare • la costante distanza tra sogno e realtà • l’idealizzazione della figura femminile • l’affidarsi ai ricordi come mezzo di sopravvivenza Nell’ultimo capitolo del romanzo si esaurisce definitivamente ogni tentativo di riscossa o cambiamento da parte del protagonista. Emilio, precocemente invecchiato e prostrato dai tradimenti di Angiolina, prima assiste al capezzale la sorella morente, le cui condizioni psichiche erano state aggravate dal suo comportamento con Angiolina e con Balli. Poi, rimasto solo, in questo brano tenta di riannodare i fili della sua grigia vita quotidiana. La sua mente non riesce però a liberarsi del ricordo delle due donne: anzi, nel sogno giunge a costruire una nuova, ibrida figura femminile, che combina miracolosamente le qualità di Angiolina (la bellezza, la passionalità) e quelle di Amalia (la pudicizia, il riserbo, la timida dolcezza).

l’arte, la lettera tura, come strumento per consolarsi e sostituire ciò che non si riesce a vivere Emilio soffre di una carenza di vitalità

la breve annotazione del narratore smaschera la vera natura di Angiolina

Emilio aveva sempre incarnato questo ruolo di precettore, finendo così per rimanere del tutto lontano da Angiolina (e dalla realtà)

Le prime prove1 che fece fallirono. Aveva tentata di nuovo l’arte2 e non gliene era risultata alcuna commozione. Avvicinò delle donne e le trovò poco importanti. “Io amo Angiolina!” pensò. Un giorno il Sorniani3 gli raccontò che Angiolina era fuggita col cassiere infedele 5 di una Banca. Il fatto aveva dato scandalo in città. Fu una sorpresa dolorosissima per lui. Si disse: «M’è fuggita la vita». Invece, per qualche tempo, la fuga d’Angiolina lo ripose in piena vita, nel più vivace dei dolori e dei risentimenti. Sognò vendette e amore come la prima volta in cui l’aveva abbandonata. Andò dalla madre d’Angiolina quando già questo risentimento s’era affievolito [...]. La vecchia l’accolse con l’antica gentilezza. La stanza d’Angiolina aveva cambiato 10 un poco d’aspetto, denudata di tutte le cianfrusaglie che Angiolina aveva raccolte nella sua lunga carriera. Anche le fotografie erano scomparse e dovevano oramai adornare la parete di qualche stanza situata in un altro paese. «È dunque fuggita?» domandò Emilio con amarezza e ironia. Gustava quell’istante 15 come se avesse parlato ad Angiolina stessa. La Zarri4 negò che Angiolina fosse fuggita. Era andata a stare in casa di parenti che abitavano a Vienna. Emilio non protestò, ma poco dopo, cedendo al suo imperioso desiderio, riprese il tono d’accusatore che si era tentato di togliersi. Disse ch’egli aveva previsto tutto. Aveva tentato di correggere Angiolina e di segnarle la via retta.5 Non vi era riuscito e ne rimaneva scorato,6 ma era ben peggio per Angiolina ch’egli 20 non avrebbe lasciata mai se ella l’avesse trattato altrimenti. Non avrebbe poi saputo ripetere le parole ch’egli pronunziò in quel momento tanto importante, ma dovettero essere efficacissime perché la vecchia Zarri si mise a singhiozzare con certi singhiozzi strani, secchi; gli volse le spalle e se ne andò. Egli le guardò dietro un po’ sorpreso dell’effetto prodotto. I singhiozzi erano certo sinceri; 25 la scuotevano tutta fino ad impedirle il passo.

1. Le prime prove: per scordare Angiolina. 2. l’arte: la letteratura; Emilio era uno scrittore dilettante.

3. Sorniani: un amico di Emilio. 4. La Zarri: la vecchia madre di Angiolina.

5. la via retta: la strada dell’onestà. 6. scorato: scoraggiato e addolorato.

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Monografia Raccordo

5

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

un’evidente nota di falsità

ecco svelato il vero intento della ragazza: sedurre Emilio, sostituendosi ad Angiolina

è la condizione di «senilità» del titolo: sostituire la vita con altro (in questo caso, il ricordo)

in questa figura del tutto irreale gli elementi di Angiolina si combinano con quelli di Amalia

«Buon giorno signor Brentani» gli disse entrando con un bell’inchino e offrendogli la mano la sorella d’Angiolina. «Mamma è andata di là perché sta poco bene. Se ella vuole ritorni un altro giorno.» «No!» disse Emilio solennemente come se stesse per abbandonare Angiolina. «Io 30 non ritornerò mai più.» Accarezzò i capelli della fanciulla più scarsi ma del colore identico di quelli di Angiolina. «Mai più!» ripeté e con intensa compassione baciò la fanciulla sulla fronte. «Perché?» domandò ella gettandogli le braccia al collo. Stupefatto egli si lasciò co35 prire la faccia di baci tutt’altro che infantili. Quando riuscì di levarsi da quell’abbraccio, la nausea aveva distrutta in lui qualsiasi commozione. Non sentì alcun bisogno di continuare la predica incominciata e se ne andò dopo di aver fatta una carezza paterna, indulgente alla fanciulla ch’egli non voleva lasciare afflitta. Una grande tristezza lo colse quando si trovò solo sulla via. Sentiva che la carezza 40 fatta per compiacenza a quella fanciulla segnava proprio la fine della sua avventura. Egli stesso non sapeva quale periodo importante della sua vita si fosse chiuso con quella carezza. Lungamente la sua avventura lo lasciò squilibrato, malcontento. Erano passati per la sua vita l’amore e il dolore e, privato di questi elementi, si trovava ora col senti- 45 mento di colui cui è stata amputata una parte importante del corpo. Il vuoto però finì coll’essere colmato. Rinacque in lui l’affetto alla tranquillità, alla sicurezza e la cura di sé stesso gli tolse ogni altro desiderio.7 Anni dopo egli s’incantò ad ammirare quel periodo della sua vita, il più importante, il più luminoso. Ne visse come un vecchio del ricordo della gioventù. Nella sua 50 mente di letterario ozioso Angiolina subì una metamorfosi strana. Conservò inalterata la sua bellezza, ma acquistò anche tutte le qualità d’Amalia che morì in lei una seconda volta. Divenne triste, sconsolatamente inerte, ed ebbe l’occhio limpido e intellettuale. Egli la vide dinanzi a sé come su un altare, la personificazione del pensiero e del dolore e l’amò sempre, se amore è ammirazione e desiderio. Ella rappresen- 55 tava tutto quello di nobile ch’egli in quel periodo avesse pensato o osservato. Quella figura divenne persino un simbolo. Ella guardava sempre dalla stessa parte, l’orizzonte, l’avvenire8 da cui partivano i bagliori rossi che riverberavano sulla sua faccia rosea, gialla e bianca. Ella aspettava! L’immagine concretava il sogno ch’egli una volta aveva fatto accanto ad Angiolina e che la figlia del popolo9 non aveva compreso. 60 Quel simbolo alto, magnifico, si rianimava talvolta per ridivenire donna amante, sempre però donna triste e pensierosa! Sì! Angiolina pensa e piange! Pensa come se le fosse stato spiegato il segreto dell’universo e della propria esistenza; piange come se nel vasto mondo non avesse più trovato neppure un Deo Gratias10 qualunque. I. Svevo, Tutte le opere, vol. I: Romanzi e «Continuazioni», cit.

7. Rinacque in lui... altro desiderio: Emilio è fondamentalmente un grande egoista. 8. Ella guardava... l’avvenire: in precedenza, Emilio aveva cercato di spiegare ad Angiolina l’importanza della lotta di classe e dell’avvento del socialismo per il progresso dell’umanità, incontrando però la forte ostilità della fanciulla. Ora, nella tra-

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sfigurazione, il sogno «si invera» e Angiolina diventa il simbolo vincente del socialismo che rappresenta il «sol dell’avvenire». 9. la figlia del popolo: Angiolina, appunto. Il socialismo è per il popolo, ma Angiolina mirava a traguardi ben più borghesi. 10. Deo Gratias: in latino significa “grazie a Dio”; è l’espressione con la quale Angio-

lina indicava e ricambiava i favori degli amanti che le erano rimproverati da Emilio. La stessa Angiolina, nel capitolo 12, aveva pronunciato le medesime parole intendendo che si trattava di un fatto da nulla. È chiaro il valore volgarmente allusivo dell’espressione.

■ Emilio sta provando a esistere senza Angiolina. Torna perciò all’attività letteraria, come mezzo di compensazione per sostituire ciò che gli manca. Talora si avvicina ad altre donne, ma senza effetti positivi: non riesce a tornare alla vita, rimane un «inetto». Quando gli viene comunicato che Angiolina è fuggita con un altro uomo, con una frase enfatica e solenne ma calzante sintetizza la sua situazione: «M’è fuggita la vita». Riassume così ciò che davvero era stata, per lui, Angiolina: non una persona con cui instaurare un rapporto, ma una creazione immaginaria, l’incarnazione di un elemento vitale. ■ Poi Emilio si reca a casa di Angiolina, dove viene a contatto con la volgarità della famiglia Zarri. Il ruolo che si era assunto di saggia guida e precettore della fanciulla (Aveva tentato di correggere Angiolina e di segnarle la via retta) viene demistificato dai baci tutt’altro che infantili della sorella di Angiolina. Emergono qui tutta l’ambiguità, la sensualità, la bassezza di quella casa in cui Angiolina era vissuta. ■ Negli ultimi capoversi Svevo ci svela le illusioni che Emilio appronta per continuare la sua vita falsificando la realtà dei ricordi. Ai suoi occhi, Angiolina continua a incarnare la fondamentale simbologia legata alla vitalità, alla «salute» (quella che manca a Emilio); contemporaneamente, però, la donna subisce, sempre nella mente del protagonista, una metamorfosi strana, in quanto assume anche altre due connotazioni: • da una parte s’identifica con Amalia, appena scomparsa, assumendo quindi caratteri di tristezza, purezza, come su un altare; • dall’altra incarna gli ideali del socialismo: per quel suo sguardo sempre rivolto verso l’orizzonte, cioè verso l’avvenire da cui partivano i bagliori rossi. ■ Il narratore segnala la falsa coscienza del protagonista, che definisce «letterato ozioso». Inoltre, nota ironicamente il contrasto fra sogno e realtà: Emilio trasforma infatti Angiolina in una creatura spirituale e nobile; le attribuisce la pensosità, l’altezza del sentire, l’intelligenza, tutti connotati che la ragazza, volgare e godereccia, non ha mai avuto. Angiolina diviene la personificazione del pensiero e del dolore; e se prima si era detta avversa al socialismo, ora ne diviene l’emblema. Il narratore smaschera così, senza concedere più alibi, tutte le menzogne che Emilio si è costruito attorno alla figura di Angiolina. ■ Ma quest’ultimo autoinganno è necessario a Emilio per poter pacificare, nel sogno, i contrasti che ancora lo agitano. Identificando Angiolina e Amalia, egli costruisce una figura in cui armonizzare i due aspetti della femminilità che apparivano inconciliabili ai suoi occhi: la passione e l’affetto, il godimento e la purezza. Angiolina, che è stata finora soltanto una donna amante, adesso può assumere anche le fattezze tristi e pensierose di Amalia, che ha sacrificato la sua vita per il benessere dei membri della famiglia.

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Perché Emilio si reca a casa Zarri? Che cosa cerca e che cosa trova? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 2. Quali sono i tratti della «nuova» Angiolina che Emilio attribuisce, nel ricordo, all’amante perduta? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 3. A tuo avviso, in questo finale, Emilio a ritorna a una condizione di senilità b riscatta finalmente la propria inettitudine c si avvicina finalmente alla vita del popolo d comprende, quando ormai è tardi, i valori e le virtù di Amalia Scegli la risposta più appropriata e motivala (max 5 righe). ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 4. Quale significato assumono, in questo finale, i termini «gioventù» e «vecchiaia»? Rispondi con riferimenti al testo (max 10 righe). 5. Possiamo affermare che il nome Angiolina è fortemente ironico? Motiva la risposta in max 10 righe. 6. Nel finale il narratore giudica il protagonista: a. rileva e sottolinea nel testo tutti gli elementi da cui si evince il punto di vista del narratore; b. poi elabora, in max 10 righe, un tuo commento conclusivo: quale giudizio emette il narratore? Si può intendere anche come un «autogiudizio» che appartiene a Emilio? 7. Secondo te, a chi possiamo attribuire la frase finale? A Emilio o al narratore? Perché? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 8. Fra le tematiche presenti nel brano troviamo: • uno squallido ambiente di vita familiare; • la costante distanza tra sogno e realtà; • l’idealizzazione della figura femminile; • l’affidarsi ai ricordi come mezzo di sopravvivenza. Rintracciale nel testo, illustrando ciascuna in max 10 righe.

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Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Italo Svevo

Leggere l’arte La rappresentazione della donna ■ Henri Toulouse-Lautrec, La cantante Yvette Guilbert, 1894, pastello e tempera su cartone, 57x42 cm, Mosca, Museo Puskin.

■ Gustav Klimt, Giuditta I., 1901, olio su tela, 84x42 cm, Vienna, Osterreichische Galerie.

■ Egon Schiele, Moa, 1911, acquerello e matita su carta, Vienna, collezione privata. ■ Pablo Picasso, Ritratto di Dora Marr, 1937, olio su tela, 92x65 cm, Parigi, Museo Picasso.

Uno specchio della società Negli artisti di fine Ottocento e inizio Novecento domina la tendenza simbolista, la tensione cioè a scorgere altri significati dietro a quelli più superficiali e immediati della vita quotidiana. In questo contesto il corpo femminile – spesso nudo, anche come forma di contestazione delle convenzioni sociali correnti – assume un forte valore simbolico. Paul Gauguin (1848-1903) identifica nei nudi delle donne polinesiane l’innocente felicità di una natura libera e incontaminata dalla civiltà. Altri pittori, come Gustave Moreau (1826-98), Aubrey Beardsley (1872-89) o Gustav Klimt (1862-1918), scelgono come soggetto di raffigurazione la provocante Salomé e riprendono l’interpretazione della donna come conturbante trappola sensuale, bella e irrazionale, miscela di amore e morte, di inquietudini sadiche, di eleganze perverse. Nel viso e nel corpo femminile sembra esprimersi spesso il senso di precarietà e di decadenza avvertito dagli artisti: le ballerine o le prostitute di Henri Toulouse-Lautrec (1864-1901) esprimo542

no un’allegria forzata; i visi un po’ androgini e indistinti di Edvard Munch (18631944) comunicano sofferenza e terrore; infine i pittori espressionisti Egon Schiele (1890-1918) e Oskar Kokoschka (18861980) rivelano nei corpi straziati e febbrili l’angoscia di un’epoca militarista e fal-

cidiata dalla tragedia della Prima guerra mondiale. Anche la scomposizione dei volti e dei corpi soprattutto femminili operata da Pablo Picasso (1881-1973) nella sua fase cubista e surrealista crea effetti di grande espressività, dolente e intensa.

Italo Svevo

Contesto

LA COSCIENZA DI ZENO

Testi • Augusta, la «salute» personificata

Il caso Svevo: alla scoperta di «un grande scrittore misconosciuto» ◗ Svevo scrisse il suo terzo romanzo tra il 1919 e il 1922. Sperando di ottenere una risonanza maggiore rispetto ai primi due, decise di rivolgersi a un editore di qualche prestigio. Dopo alcuni tentativi infruttuosi presso altri editori, fu infine Cappelli di Bologna che accettò di pubblicare il libro, dietro compenso da parte dell’autore. Il romanzo uscì nell’aprile del 1923: erano trascorsi ben 25 anni dalla stampa di Senilità. ◗ Inizialmente l’opera passò inosservata presso critici e lettori; ma nel giro di qualche anno divenne nota e apprezzata. Ripercorriamo le tappe di questa scoperta nello schema.

La scoperta di Svevo

1923

1924

1925

1926

1927

◗ pubblicazione a stampa della Coscienza di Zeno ◗ silenzio glaciale di pubblico e critica ◗ Svevo spedisce il libro a Joyce, a Parigi ◗ su consiglio di Joyce, Svevo spedisce il romanzo ai critici Crémieux e Larbaud, a Parigi ◗ Montale si accosta l’opera di Svevo grazie all’intellettuale triestino Bobi Bazlen (1902-65) ◗ dicembre: Montale pubblica l’articolo Omaggio a Italo Svevo sulla rivista letteraria «L’Esame» ◗ saggi critici su Svevo di Crémieux e Larbaud sulla rivista letteraria «Le Navire d’argent» ◗ esce a stampa la traduzione francese della Coscienza di Zeno ◗ esce a stampa la seconda edizione di Senilità

◗ Maturarono in tal modo le condizioni perché l’opera fosse conosciuta e apprezzata e perché il suo autore si guadagnasse quel posto centrale nella storia del romanzo novecentesco (italiano ed europeo) che oggi, concordemente, la critica gli assegna.

Zeno, un uomo malato in un mondo malato ◗ Così, nel Profilo autobiografico del 1928 (E p. 517), Svevo raffigura il protagonista del suo terzo romanzo: Zeno è evidentemente un fratello di Emilio e di Alfonso. Si distingue da loro per la sua età più avanzata e anche perché è ricco. Potrebbe fare a meno della lotta per la vita e stare in riposo a contemplare la lotta degli altri. Ma si sente infelicissimo di non poter parteciparvi. È forse ancora più abulico degli altri due. Passa continuamente dai propositi più eroici alle disfatte più sorprendenti. Sposa ed anche ama quando non vorrebbe. Passa la sua vita a fumare l’ultima sigaretta. Non lavora quando dovrebbe e lavora quando farebbe meglio ad astenersene. Adora il padre e gli fa la vita e la morte infelicissima. Rasenta una caricatura, questa rappresentazione; e infatti il Crémieux lo metteva accanto a Charlot, perché veramente Zeno inciampa nelle cose. Ma [...] è il destino di tutti gli uomini d’ingannare se stessi sulla natura delle proprie preferenze per attenuare il dolore dei disinganni che la vita apporta a tutti. [...] Zeno si crede un malato eccezionale di una malattia a percorso lungo. E il romanzo è la storia della sua vita e delle sue cure.

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Monografia Raccordo

L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento

◗ Il punto di partenza del terzo romanzo sveviano è il tema della malattia: Zeno si sente malato e perciò intraprende una cura psicoanalitica per guarire. La cura consiste nel portare alla luce della coscienza tutti gli atti della propria vita: perciò, su consiglio dello psicoanalista, Zeno decide di scrivere un diario strettamente privato. Esso sarà però pubblicato, per vendetta, da quello stesso medico. Curandosi e scrivendo, Zeno scopre di essere effettivamente malato: • non è mai riuscito a smettere di fumare; • non ha mai terminato gli studi; • non ha mai seriamente lavorato: più volte, dopo la morte del padre, ha tentato, maldestramente, di darsi agli affari, ma Olivi, l’amministratore delle sue proprietà, lo ha ogni volta dissuaso, per il suo bene; • lo stesso matrimonio di Zeno è stato deciso da altri: dopo essere stato rifiutato dalla bella Ada, egli non è poi stato capace di dire di no ad Augusta, la sorella di lei; • per sentirsi più legato alla moglie, che afferma di amare, non ha trovato di meglio che intrecciare una relazione extraconiugale con la giovane cantante Carla. • Zeno si sente malato anche fisicamente: soffre di mille piccoli sintomi (primo tra tutti, una leggera zoppia), tutte manifestazioni della sua cattiva coscienza. Per tutto ciò egli è perennemente in cerca di figure «sane» (il padre, la moglie, il signor Malfenti) che gli diano sicurezza. ◗ L’ossatura del romanzo è dunque il contrasto, già vivo in Una vita e in Senilità, fra normalità e malattia. Il fatto nuovo è che a soccombere, adesso, sono i «normali». Infatti Zeno si salva da una situazione fallimentare grazie a un evento imprevedibile (e da lui avversato) come la Prima guerra mondiale. Per diverse circostanze, la guerra gli reca l’inattesa fortuna economica e soprattutto una consapevolezza (una «coscienza») nuova e decisiva: non è lui a essere malato, ma è la vita stessa a essere «inquinata» alle radici. Zeno si accorge che i cosiddetti «sani», coloro che appaiono bene inseriti nella vita, per esempio il cognato Guido Speier e la cognata Ada, sono in realtà individui conformisti e ottusi, come Guido, o malati, come Ada. Quest’ultima, dice Zeno, soffre del cosiddetto «morbo di Basedow», cioè di uno spreco di «energia vitale»: Ada non ha mai imparato a prendere la vita come viene; si appassiona troppo, ne soffre e alla fine viene travolta. Invece Zeno ha conquistato un distacco che gli permette di sorridere di tutto e di tutti, in primo luogo di se stesso; il suo sguardo «straniato», «diverso», obliquo, gli fa vedere la banalità altrui, dei borghesi soddisfatti, e l’assoluta relatività delle scelte e della volontà.

Il ruolo della psicoanalisi ◗ Per raccontare la storia di Zeno, Svevo ricorre al cosiddetto narratore interno: è Zeno stesso a raccontare la propria storia, persuaso a ciò dallo psicoanalista che lo ha in cura. In tal modo la psicoanalisi fa il proprio ingresso per la prima volta nella narrativa italiana, ponendosi addirittura quale motore della vicenda e ispirando direttamente molti episodi del romanzo. Per esempio, a un certo punto Zeno incorre in uno degli «atti mancati» diagnosticati da Freud come luogo di emersione del «rimosso»: Zeno segue infatti per errore il funerale di uno sconosciuto, anziché seguire il funerale del cognato Guido; ciò avviene perché egli odiava Guido, anche se non lo confesserebbe mai. ◗ Un altro tema chiaramente psicoanalitico è il rapporto conflittuale fra padre «saggio» e figlio «inetto» (un tema che la psicoanalisi riporta al cosiddetto complesso di Edipo). Un po’ in tutto il romanzo Zeno appare circondato da figure paterne, ed è un ulteriore motivo prettamente freudiano applicato alla letteratura: di volta in volta il padre (che avendo intuito tutta l’inettitudine del figlio, lo disprezzava), il suocero, l’amministratore, il medico e l’analista diventano per lui interlocutori e giudici severi. Sono tutte figure in apparenza positive, ma in realtà il protagonista odia questi personaggi, o perlomeno è in continuo conflitto con loro. Alla fine però Zeno si prenderà – grazie a circostanze fortuite – la rivincita su coloro che l’hanno sempre stimato poco. In tale conflitto affiora anche una componente sociale: Svevo vuole smascherare le ipocrisie e le falsità del mondo borghese; la famiglia in sostanza non è un ambiente più puro di una banca. Anche questo è un motivo profondamente freudiano, visto che fu proprio Freud a insistere su questi temi. 544

Italo Svevo



la malattia di cui soffre è la vita

si cura dal dottor S.

ma



non crede nella psicoanalisi

è inetto

ma



alla fine ha successo negli affari

ama suo padre

ma



contemporaneamente lo odia

sposa la donna che non vorrebbe

ma



il suo matrimonio si rivela accettabilmente felice

ama la moglie

ma



ha una relazione extraconiugale

odia il cognato-rivale Guido

ma



lo aiuta negli affari

vuole smettere di fumare

ma



fuma sempre l’ultima sigaretta

ritrae con curiosità e interesse la vita

ma



non prende nulla sul serio

smaschera le menzogne della società borghese

ma

vi si adagia placidamente

Contesto

ma

Monografia Raccordo

è malato



Ambiguità e contraddizioni di Zeno

L’ambiguità e la testimonianza della crisi ◗ Vecchio; nevrotico; gaffeur ma lungimirante; appartenente a una ricca famiglia borghese ma inetto negli affari; capace però di risollevare le finanze della cognata, forse solo per ripicca; dispettoso e mentitore; sempre ironico e perplesso, Zeno è un personaggio supremamente sfuggente, ambiguo. Da malato, ama il proprio stato di malato e quasi quasi si rifugia in tale condizione, perché – malgrado gli autoinganni con cui continuamente maschera le proprie pulsioni – intuisce che essa può dargli una percezione più autentica, o meno distorta, della realtà. ◗ La conclusione del romanzo pare segnare una svolta: Zeno si dice guarito e lo dichiara con orgoglio al dottor S.; ad averlo guarito, afferma, non è la psicoanalisi, ma il commercio, ovvero l’attività pratica, incarnata nel successo (inaspettato per lui stesso) negli affari. Il protagonista dunque non è più un inetto? Ha davvero vinto la sua amata malattia? Non proprio. Più semplicemente, ha imparato a convivere con essa. Rispetto ad Alfonso Nitti (Una vita) e ad Emilio Brentani (Senilità) una cosa l’ha guadagnata: ora la sua inettitudine non si rovescia più in tragedia (suicidio), come accadeva in Una vita, né si traduce in inadattabilità al mondo (autoesilio), come in Senilità. Rimasto l’unico superstite dopo una vera e propria «strage di rivali» (il padre, il cognato Guido, lo stesso dottor S.), Zeno può accettare con maggiore serenità la vita e la sua «originalità» (la vita, egli ama ripetere, «è originale»), incluso il fatto che a dargli successo negli affari sono state circostanze imprevedibili, legate all’evento tragico (e da lui non auspicato) della Prima guerra mondiale. ◗ In sostanza, Zeno rimane un inetto, anche se è più maturo rispetto al passato. Rievocare la propria vita lo ha reso più lucido e più consapevole. Grazie alla terapia psicoanalitica, alla quale si è volentieri sottoposto, ha imparato a «guardarsi dentro», e in tal modo: • ha capito quanto sia difficile conoscere l’universo umano dei sentimenti e della volontà; • conosce le menzogne di cui si ammanta la «salute» borghese, con la sua ottusità e il conformismo, con i suoi alibi e le mistificazioni (che Zeno identifica nell’amore, nella famiglia, nelle leggi, nella religione); • è consapevole di avere lui stesso sempre agito per motivi irrazionali e inconoscibili, ogni volta diversi da quelli che egli adduce davanti agli altri. 545

Tra Ottocento e Novecento

◗ In tal modo Zeno diviene il testimone, forse inconsapevole e forse no, della crisi di certezze che investiva tutta la società del primo Novecento e che si traduceva nell’impossibilità di conoscere non solo la realtà esterna, ma anche e principalmente se stessi. Lo vediamo dall’apocalittica conclusione del romanzo, che si congeda dai lettori con la visione di una società violenta, incamminata verso la propria distruzione. L’umanità si è allontanata dalle sue origini, si è complicata la vita e l’ha resa terribilmente innaturale e violenta; e adesso, così pronostica Zeno/Svevo, la fine è dietro l’angolo.

La sperimentazione narrativa ◗ Inattendibile come personaggio, Zeno lo è anche come narratore (lo dice il dottor S. e lo conferma lo stesso protagonista nel capitolo Psico-analisi). Tutto, nel romanzo, affiora dal punto di vista soggettivo di Zeno e noi non possiamo essere certi che egli dica la verità, se cioè davvero sia l’unico sano (consapevole della natura umana) in un mondo di malati (ottusi e mediocri borghesi). Non abbiamo più il superpersonaggio del narratore che smentisce sistematicamente le prospettive anomale dei personaggi Alfonso o Emilio: esiste un solo punto di vista, Zeno, ed è inaffidabile; cosicché tutto, nel romanzo, diviene inattendibile, ambiguo e sfaccettato. ◗ Nel romanzo Svevo utilizza una particolare tecnica narrativa in fieri: l’opera cioè prende forma poco per volta, crescendo su se stessa. L’io narrante descrive eventi che gli sono capitati quando era molto più giovane: c’è dunque lo Zeno di oggi, che scrive nel presente, e c’è lo Zeno di ieri, che riprende vita dal proprio passato. In tal modo il narratore, mentre racconta, contemporaneamente giudica il proprio vissuto, passando dalla memoria all’intelligenza critica. Nasce da qui l’ironia di Zeno, quel distacco, cioè, verso la vita, propria e di tutti, che è ciò che lo salva dall’assurdità del vivere. ◗ Non è tutto: Zeno, con il suo stile «parlato» e svagato, rievoca i fatti non in modo lineare, bensì con moltissime interferenze. Ripercorre più volte i medesimi anni di vita, a seconda del nucleo tematico cui essi si riferiscono (il fumo, il matrimonio, il rapporto con Guido ecc.); ricorre di continuo alla «retrospezione» (che informa il lettore su ciò che precede una determinata situazione) e alla «prolessi» narrativa (che informa sugli eventi futuri). In mano a Zeno, il passato si frantuma, perdendo compattezza e consequenzialità: è ciò che lo stesso Svevo ha chiamato «il tempo misto». Perciò, per ricostruire la sequenza cronologica delle diverse vicende, chi legge deve «ristrutturare» l’ordine narrativo, al di là di come esso riaffiora nella coscienza del protagonista. ◗ Non si deve pensare però a una struttura caotica: situazioni e allusioni s’intrecciano e si collegano armonicamente lungo tutto il libro, dando vita a una narrazione coerente e unitaria. In complesso, queste novità di struttura consegnano l’autore della Coscienza di Zeno alla stagione «sperimentale» del grande romanzo europeo (E p. 672), il romanzo di Proust, Joyce, Mann, Musil, Kafka).

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narrazione inattendibile, ambigua



ogni fatto è narrato in base a ricordi, giudizi e racconti di Zeno



narrazione totalmente soggettiva

i ricordi affiorano in modo caotico («tempo misto» di Svevo)



punto di partenza: un diario in prima persona

ma: mancano le prese di distanza dell’autore



Un grande romanzo sperimentale

narrazione non lineare

Italo Svevo

◗ Il diario di Zeno è strutturato in parti staccate, che narrano non in ordine cronologico vicende databili tra il 1870 circa e il 1914. Segue un ultimo capitolo, Psico-analisi, con le successive riflessioni di Zeno databili al 1915-16. Il libro non risulta una narrazione distesa, bensì un racconto a molte dimensioni, in cui s’intrecciano costantemente il passato, che è l’oggetto della narrazione, e il presente, l’ambito nel quale chi scrive (Zeno) si forma il giudizio e riattraversa continuamente il passato con commenti e divagazioni. ◗ Il romanzo si struttura in 8 capitoli o parti; le prime due sono solo introduttive. I. Prefazione. Uno psicoanalista, il dottor S., aveva in cura il «vecchio» Zeno (siamo nel 1913): per aiutarlo nella guarigione gli aveva consigliato di scrivere le sue memorie. Il paziente ha però interrotto (1914) la terapia. Adesso lo psicoanalista pubblica quel diario, sia per rivalsa sia perché Zeno riprenda la terapia. II. Preambolo. Zeno prende direttamente la parola e spiega la difficoltà di «vedere» la propria infanzia; ogni volta che prova ad abbandonarsi alla memoria, cade in un sonno profondissimo e ristoratore. III. Il fumo. Comincia qui la narrazione vera e propria. Zeno narra come, fin da ragazzino (siamo intorno al 1870-75), avesse iniziato a fumare soprattutto per emulare il padre, figura amata e, insieme, rivale; ripetutamente, e vanamente, aveva tentato di liberarsi dal vizio, con l’aiuto della moglie e di un medico; infine il fumo è divenuto per lui, in età adulta, una sorta di alibi, per giustificare

le sue nevrotiche incertezze o «malattie». IV. La morte di mio padre. Si tratta, in chiave psicoanalitica, di un capitolo centrale: è infatti un tema tipicamente freudiano la necessità, per l’adolescente, di liberarsi dalla figura paterna (vista come autorevole e oppressiva) per giungere alla maturità. Qui Zeno narra la morte del padre (avvenuta il 15 aprile 1890); l’uomo, nel momento dell’agonia, ha un movimento inconsulto, che Zeno crede essere uno schiaffo a lui rivolto. Ne scaturiranno per Zeno infiniti sensi di colpa. Successivamente egli dipinge la propria drammatica condizione di «orfano», ma esagera di gran lunga i toni, se si pensa che ha già trent’anni! V. La storia del mio matrimonio. Zeno, alla disperata ricerca di padri supplementari, conosce un ricco e solido borghese, Giovanni Malfenti, e inizia a frequentare la sua casa. L’uomo ha quattro figlie e Zeno decide di innamorarsi di una di loro: in tal modo potrebbe, attraverso il suocero, recuperare la perduta figura autorevole. Zeno vorrebbe per sé la bella Ada che, però, è fidanzata con Guido, un giovane affascinante, elegante, sicuro di sé, abile negli affari, ottimo suonatore di violino. Guido diviene così l’amico-rivale del protagonista. Frattanto Zeno ha la prima forte crisi di zoppia, per essersi dichiarato ad Ada e all’altra sorella Alberta ed essere stato respinto da entrambe. Si rassegna così a sposare la terza sorella, Augusta, scialba e bruttina. Zeno giunge a questo risultato durante una seduta spiritica. Vorrebbe indirizzare la sua dichiarazione d’amore alla bella Ada, ma al momento cruciale commette un errore. Le modalità con cui ciò avviene, peraltro, fanno pensare che Zeno, inconsciamente, volesse proprio questo esito, ovvero una rassicurante moglie-madre. VI. La moglie e l’amante. La scelta (o meglio, la non-scelta) di Augusta si rivela peraltro felicissima: il matrimonio procede bene e Zeno può scegliersi in tutta serenità una giovane amante, nonostante la quale egli tornerà ogni vol-

ta, e con maggiore felicità, dalla moglie. Il suo rapporto con la cantante Carla è un altro groviglio di contraddizioni: dapprima Zeno si presenta a lei come un benefattore che intende aiutarla negli studi, poi inizia una relazione vera e propria, vissuta da lui con notevole lascivia e desiderio, ma anche sensi di colpa e propositi di redenzione. Sarà la donna, non casualmente, a decidere di troncare il legame. VII. Storia di un’associazione commerciale. Guido, marito di Ada e «amico» di Zeno, prova a diventare un uomo d’affari. Tenta impossibili operazioni commerciali e azzardati giochi in Borsa: ma è un individuo ottuso, frivolo e incapace (l’esatto contrario, cioè, di come Zeno lo aveva giudicato). Perde così molto denaro e, per convincere la moglie a dargliene altro, inscena un finto suicidio; ma qualcosa va storto e Guido muore davvero. Toccherà proprio all’inetto Zeno rimettere in sesto le finanze di Ada con arrischiate operazioni di Borsa. Tutto preso in questo sforzo, Zeno giunge in ritardo alle esequie e «sbaglia» carro funebre. Non vale a scusarlo presso Ada il successo delle sue manovre finanziarie: la donna crede che quello sforzo provi, in realtà, solo l’amore che Zeno ancora nutre per lei e quindi la sua ostilità verso Guido (Zeno avrebbe cioè agito per dimostrarle di essere superiore al marito morto). Quest’ultimo incontro tra i due lascia interdetto Zeno, il quale comincia a pensare che Ada abbia ragione. Subito dopo la donna parte per sempre per il Sudamerica. VIII. Psico-analisi. Sono passati molti anni. Il vecchio Zeno (che scrive tra il maggio del 1915 e il marzo del 1916) ha deciso di porre fine alla terapia, ma continua a tenere un diario su cui ora annota «sinceramente», a suo dire, le proprie vicende e le menzogne dette al dottor S. Scoppia la Prima guerra mondiale; diviso dai suoi parenti, in una Trieste divenuta città di prima linea, Zeno immagina un tremendo ordigno che distruggerà il mondo.

547

Monografia Raccordo

◗ Zeno Cosini era in cura dal dottor S., medico psicoanalista, per guarire dalla sua nevrosi e smettere di fumare. Ha redatto un diario di ricordi; adesso però, deluso, ha interrotto la terapia. Per vendicarsi, il dottor S. ha deciso di pubblicare (senza alcun rispetto della privacy del suo paziente) quel manoscritto privato.

Contesto

LA TRAMA E LA STRUTTURA

Tra Ottocento e Novecento

6

Il fumo La coscienza di Zeno, capitolo 3 Anno: 1923 Temi: • il continuo ricorso agli alibi • la perenne indecisione, la mancanza di volontà e l’inettitudine del protagonista • l’affiorare della «malattia» Obbedendo alla prescrizione del dottor S., Zeno comincia con il ricordare la propria vita passata. Inizia ricostruendo la precoce passione per il fumo, nata dal divieto paterno di fumare e intrecciata, nell’arco degli anni, con ripetute e sempre vane intenzioni di smettere.

la proibizione e lo stesso malessere fisico aumentano il gusto della trasgressione

il padre dimostra insensibilità, anche se mascherata da sollecitudine verso il figlio

Ricordo di aver fumato molto, celato1 in tutti i luoghi possibili. Perché seguito da un forte disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato per una mezz’ora in una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui non ritrovo nella memoria altro che la puerilità del vestito: due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro c’è stato un corpo che il tempo eliminò.2 Avevamo molte sigarette e volevamo vedere 5 chi ne sapesse bruciare di più nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente celai il malessere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all’aria. Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito. Mi rimisi e mi vantai della vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora: «A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m’occorre».3 Ricordo la parola sana e non la faccina certamen- 10 te sana anch’essa che a me doveva essere rivolta in quel momento. Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi a vent’anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di un violento male di gola accompagnato da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l’assoluta astensione dal fumo. 15 Ricordo questa parola assoluta! Mi ferì e la febbre la colorì.4 Un vuoto grande e niente per resistere all’enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto. Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni) con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia. Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante, mi 20 disse: «Non fumare, veh!» Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: “Giacché mi fa male non fumerò mai più, ma prima voglio farlo per l’ultima volta”.5 Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall’inquietudine ad onta che6 la febbre forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone arden- 25 te. Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi: «Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!»

1. celato: nascosto, a causa delle proibizioni paterne. 2. il tempo eliminò: l’aspetto dei compagni non è sopravvissuto nella memoria di Zeno, cancellato dallo scorrere del tempo.

548

3. m’occorre: ovviamente fumare non è necessario; da qui l’ironia che investe la successiva considerazione sulla «sanità» del ragazzo. 4. la colorì: la ammantò di molte fantasie.

5. per l’ultima volta: di simili propositi riguardanti l’«ultima sigaretta» è ricco anche l’Epistolario di Svevo. 6. ad onta che: nonostante.

espressione ironica: Zeno, infatti, è piuttosto un «teorista», incapace di rinunciare a tutte le sue riflessioni

il personaggio sta chiarendo a se stesso che il fumo è per lui un alibi per nascondere la sua inettitudine

per Zeno non esistono convinzioni assolute

7. sono ancora tali: sono cioè rimasti semplici propositi. 8. ridda: danza agitata e scomposta, che si muove tuttavia (tuttavia = “ancora oggi”). 9. frontispizio: il frontespizio è la prima pagina di un libro, che reca il nome dell’autore, il titolo, luogo e anno di stampa, il nome dello stampatore. 10. ornato: decorazione sulle lettere. 11. diritto canonico: la disciplina che studia le leggi della chiesa cattolica. 12. matraccio: dal francese matras, “vaso”, è un contenitore di vetro, dal collo

lungo e stretto, utilizzato negli esperimenti di chimica. 13. sobrio e sodo: concreto, pratico. 14. alla catena delle combinazioni del carbonio: cioè agli studi di chimica. 15. a quelle complicazioni... suo: i complessi regolamenti del diritto civile. Interessante questa definizione della legge come puro ambito di regolazione degli egoismi. 16. latente: che esiste come possibilità, ma non si riesce a realizzare concretamente. È un tipico termine psicoanalitico. 17. senza una decisa convinzione: si ri-

vela qui l’ambiguità fondamentale che caratterizza il personaggio. 18. tuttavia: continuamente. 19. quell’igienista vecchio, descritto dal Goldoni: il personaggio a cui allude Svevo è forse quell’Alvise Corner o Corsaro, nobile veneziano, autore del trattato Della vita sobria (1558), ricordato da Goldoni nelle sue Memorie (III, capitolo 30). Potrebbe anche trattarsi del «Vecchio cortesan» protagonista dell’omonima commedia goldoniana, rappresentata nel 1754 e modellata sul Malato immaginario di Molière.

549

Monografia Raccordo

Zeno adesso è più sereno: il suo vizio non lo angoscia più come in passato

Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per 30 permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima. Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali.7 La ridda8 del- 35 le ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette... che non sono le ultime. Sul frontispizio9 di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella 40 scrittura e qualche ornato:10 «Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studi di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!» Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. M’ero arrabbiato col diritto canonico11 che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matrac- 45 cio.12 Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.13 Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio14 cui non credevo ritornai alla legge. Purtroppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegna- 50 vo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo15 coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco? Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia 55 amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.16 Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione.17 60 Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia18 da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto dal Goldoni19 vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

un segno in contrasto (come la scelta di date significative) con la debole volontà del protagonista

esce allo scoperto l’autoironia di Zeno

ecco la particolare e ancora una volta ironica concezione «ciclica» del tempo sveviano

Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie 65 spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo più possibile di formarne in quel luogo degli altri. Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal 70 sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano. Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori più vari ed anche ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede più ingenua, trovava adeguata espressione 75 nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato al proponimento anteriore. Certe date erano da me preferite per la concordanza delle cifre. Del secolo passato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare per sempre la bara in cui volevo mettere il mio vizio: «Nono giorno del nono mese del 1899». Significativa nevvero? Il secolo nuovo m’apportò delle date ben altrimenti musicali: «Primo giorno 80 del primo mese del 1901». Ancora oggi mi pare che se quella data potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita. Ma nel calendario non mancano le date e con un po’ d’immaginazione ognuna di esse potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perché mi parve contenesse un imperativo supremamente categorico, la seguente: «Terzo giorno del sesto 85 mese del 1912 ore 24». Suona come se ogni cifra raddoppiasse la posta.20 L’anno 1913 mi diede un momento d’esitazione. Mancava il tredicesimo mese per accordarlo con l’anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una data per dare rilievo ad un’ultima sigaretta. Molte date che trovo notate su libri o quadri preferiti, spiccano per la loro deformità. Per esempio il terzo giorno del secondo mese 90 del 1905 ore sei! Ha un suo ritmo quando ci si pensa, perché ogni singola cifra nega la precedente. Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX21 alla nascita di mio figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito ferreo proposito. Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversari lieti e tristi nostri e mi 95 credono tanto buono! Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: «mai più!» Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa? L’atteggiamento non è possibile di averlo22 che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è 100 quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna. I. Svevo, Tutte le opere, vol. I: Romanzi e «Continuazioni», cit.

20. Suona... la posta: poiché le cifre successive alla prima sono un multiplo della precedente, la data pare l’ideale per sottolineare la ferma rilevanza del proposito.

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21. morte di Pio IX: avvenuta il 7 febbraio 1878. 22. non è possibile di averlo: una delle consuete imprecisioni sintattiche della lin-

gua di Svevo; il di è pleonastico (è un calco della sintassi tedesca).

IL TESTO PUNTO PER PUNTO

■ Zeno dedica un intero capitolo del diario a spiegare la sua viziosa passione per il fumo. In apparenza vorrebbe smettere di fumare, così almeno dice; tuttavia non riesce mai a realizzare questo proposito: da un lato afferma di conoscere e desiderare la strada della «salute», dall’altro non si sa decidere ad abbandonare la via della libertà. ■ Non sapendo risolversi per il fumo o la salute, per vincere l’ansia il protagonista adotta un compromesso: si abbandona al rituale dell’«ultima sigaretta», gustata con una vo-

luttà speciale, poiché fumata con la prospettiva ambigua del «mai più». La sua esistenza viene così a essere costellata di molte «ultime sigarette», disordinatamente ricordate, con tanto di data, ovunque, sui libri, perfino sulle pareti della sua stanza. Ogni occasione è buona per essere immortalata da un’ultima sigaretta. Dalla morte del papà alla nascita del figlio, fino a giorni numericamente significativi (come: Nono giorno del nono mese del 1899), tutto si presta a essere immortalato mediante un’ultima sigaretta.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO

■ Il comportamento ambiguo di Zeno nei riguardi del fumo è una spia, più in generale, della sua ambivalenza psicologica come personaggio: il perpetuarsi del vizio traduce infatti la sua tortuosa e imbelle volontà e la sua sostanziale inettitudine. La malattia di cui parla non è semplicemente il vizio del fumo in quanto tale, ma piuttosto l’inefficacia dei suoi continui tentativi di smettere. Precisamente la moltiplicazione degli alibi e degli ostacoli per spiegare l’impossibilità di smettere di fumare si rivela sia come uno dei tratti caratteristici della psicologia di Zeno, sia come una manifestazione della sua inettitudine. La sigaretta stessa diventa nello stesso tempo sintomo, causa e alibi della malattia: Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? (rr. 57-58). ■ Nel testo sono presenti anche significati connessi alla lettura psicoanalitica della realtà, di cui Svevo/Zeno è ben consapevole. Fumare rappresenta infatti anche la liberazione dalla figu-

ra paterna e l’infrazione ai suoi comandi: il rapporto di amore e odio con il genitore è un motivo cruciale del romanzo. Freudiano è anche il motivo dell’«ultima sigaretta». In un libro del 1901, Psicopatologia della vita quotidiana, Sigmund Freud aveva evidenziato come, nella coscienza dell’individuo, ogni dichiarazione o proposito troppo radicale sottintende sempre l’inconscia volontà di un’immediata trasgressione: chiunque dica «farò questo, pur sapendo che non dovrei farlo, ma solo per l’ultima volta», in realtà intende solo amplificare la gioia di sentirsi libero da ogni prescrizione. Anche Zeno, con l’alibi dell’«ultima sigaretta», si garantisce non solo la soddisfazione di un desiderio (fumare), ma anche il piacere supplementare derivante dall’infrazione di un divieto (non dovrebbe fumare). Alla fine il moltiplicarsi dei buoni propositi non ha, per lui, altro scopo che quello di accrescere il godimento. Perciò quei propositi di fumare solo un’ultima sigaretta sono sempre illusori; e del resto in nessun ambito le sue decisioni sono mai definitive.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. Un complesso intreccio fra desiderio e rimorso è alla base del rapporto del personaggio con il fumo. A perpetuare in lui l’attaccamento al fumo è, paradossalmente, l’impegno solenne di astenersene d’ora in avanti per sempre. a. In quali importanti occasioni Zeno fuma le sue ultime sigarette? Individuale nel testo e trascrivile. ............................................................................................... ............................................................................................... b. Egli fornisce alcune spiegazioni per giustificare il suo vizio: quali? ............................................................................................... c. Perché per lui è così importante l’«ultima sigaretta»? ............................................................................................... 2. Via via Zeno adduce degli alibi per giustificare la propria incapacità di smettere di fumare. a. Cerca tali alibi nel testo e riassumili.

b. E quali sono i «buoni propositi» di cui Zeno parla? Cerca anche questa risposta nel testo. 3. Una figura molto importante per Zeno è quella del padre, con il quale il protagonista intrattiene un rapporto di amore e odio. a. Come viene presentato, in questo episodio, il padre? a come una figura positiva b come una figura negativa Motiva in breve la tua risposta. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 4. Il tema della malattia, centrale in tutto il romanzo, emerge anche in queste pagine. a. Che cosa dice Zeno stesso della propria «malattia»? Individua i punti in cui ne parla e riassumi le sue osservazioni. 551

Monografia Raccordo

ANALISI DEL TESTO

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

b. E come si manifesta, in lui, tale malattia? ............................................................................................... c. Secondo te è possibile considerare la sigaretta come un sintomo di malattia? Spiega in breve la tua risposta. ............................................................................................... ............................................................................................... 5. Infine, già in questa prima parte del suo diario, Zeno espone la propria concezione del tempo. a. Evidenzia il passo in cui emerge la sua concezione «ciclica» e non lineare del tempo. b. Rintraccia inoltre i punti del testo in cui compaiono i giudizi di Zeno vecchio sulla sua vita giovanile.

{ Forme e stile 6. Una delle maggiori novità della Coscienza di Zeno è la continua mescolanza, sul piano narrativo, di eventi e giudizio; quest’ultimo, fra l’altro, viene formulato da Zeno a molti anni di distanza.

LAVORIAMO SU

a. Individua nel testo i punti da cui, a tuo avviso, emerge con maggiore chiarezza la mescolanza tra fatti e giudizio. b. Ora rifletti: quale tipo di narrazione viene prodotta da una simile mescolanza? a lineare e bene ordinata b oggettiva e fattuale c soggettiva e disordinata d impersonale Spiega in breve il perché della tua scelta. 7. Il protagonista, come sempre avviene nel romanzo, viene presentato su diversi piani temporali. a. Individua nel testo: – gli eventi riferibili soltanto al passato: ............................................................................................... – gli eventi riferibili al solo presente: ............................................................................................... – gli eventi in cui il passato s’intreccia con il presente: ...............................................................................................

LINGUA E LESSICO

1. La coscienza di Zeno si distingue dai due romanzi precedenti perché il protagonista parla in prima persona. L’ironia, che in precedenza era prerogativa del narratore, qui si accresce e diviene autoironia, a testimonianza della maggiore complessità del personaggio. a. Proponi una tua definizione, rispettivamente, di ironia e di autoironia. b. Ora rifletti su quale effetto produca il sistematico uso dell’ironia in un’opera letteraria come la Coscienza di Zeno. Essa serve

a a rendere più credibile l’analisi psicologica che Zeno compie su di sé b a creare distacco tra il personaggio e il lettore c a divertire il lettore, rendendo meno noioso il romanzo d a rendere meno credibili le affermazioni del protagonista Motiva in breve la tua scelta. c. Individua due o tre punti del testo letto dai quali emerge meglio, a tuo avviso, questa natura ironica della scrittura di Zeno. d. Commenta in breve i punti sopra identificati, spiegando perché hai scelto proprio quelli.

«Il tempo ritorna»: Svevo e Proust Nella rievocazione di Zeno, il corso degli eventi non si dispone in modo uniforme e progressivo. Appare invece un circolo vizioso di gesti ossessivi, che si ripetono con l’esattezza di un rito: «il tempo [...] da me, solo da me, ritorna». Si tratta di un motivo tipicamente proustiano. Proust, autore del ciclo romanzesco Alla ricerca del tempo perduto (E p. 698), fu uno dei padri del moderno romanzo psicologico ed è avvicinabile per più ragioni a Svevo. Tuttavia esiste una forte differenza tra i due scrittori: 552

• a Proust interessa recuperare il passato per se stesso: vuole dimostrare che, con l’ausilio dei ricordi e della scrittura, ciò che è passato non è morto per sempre, anzi, può essere recuperato e fissato in una forma letteraria immutabile, sottratta alla corruzione; • Svevo/Zeno attinge al passato solo in funzione del presente, quando gli avvenimenti trascorsi possono giovare a spiegare la situazione attuale. Perciò Svevo scrive, in un’altra pagina della Coscienza, che il «tratto» delle persone

evocate dal passato non è «bastevole [...] a commovermi per l’impensato incontro». La rinascita del passato, in realtà, «commuove» Proust, che con l’ausilio della «memoria involontaria» si abbandona con emozione al fluire dei ricordi, alla ricostruzione di un mondo scomparso. Svevo invece adopera il passato come terreno d’analisi e di scavo: lo accosta con le armi della ragione, per trovare in esso una spiegazione della propria attuale condizione psicologica.

Italo Svevo

Il monologo interiore Tecniche del romanzo psicologico ■ La novità più visibile del nuovo romanzo psicologico d’inizio Novecento è certamente il monologo interiore, che nella sua applicazione più radicale si trasforma nel «flusso di coscienza». Sono due tecniche attraverso cui il narratore fa spazio, sulla pagina, ai pensieri del personaggio: il quale, per così dire, pensa a voce alta, in forma più o meno libera. • Se i pensieri del personaggio emergono sì sulla pagina, ma sempre sottoposti al controllo logico-razionale da parte del narra-

tore, allora si parla di monologo interiore. Questa è la modalità prediletta, nei suoi romanzi, da Svevo, che ebbe a definire il monologo interiore come la tecnica del «teschio scoperchiato». • Se invece il personaggio pensa con libertà a voce alta, mediante una spontanea catena di ricordi, considerazioni, associazioni d’idee (spesso così libera e spontanea da risultare poco decifrabile per il lettore), allora si parla di flusso di coscienza. È la modalità prediletta da James Joyce nell’Ulisse (1922).

Il monologo interiore lungo i secoli ■ Il monologo interiore non è una novità della narrativa novecentesca; si mostra a tratti in opere e autori anche della letteratura classica. Un celebre esempio di monologo interiore è quello che Apollonio Rodio, autore del poema Le Argonautiche, scritto intorno al 250 a.C., attribuisce a Medea, interiormente divisa tra l’amore per Giasone e la fedeltà al padre e alla patria. Un’altra opera che fa largo spazio al monologo interiore del protagonista è Vita e opinioni di Tristram Shandy dell’inglese Laurence Sterne (pubblicato tra il 1760 e il 1767).

Monografia Raccordo

Contesto

SCHEDA VISIVA

■ Nel romanzo naturalistico di fine Ottocento, il monologo interio-

re fu utilizzato dagli autori per mostrare nel modo più veritiero i processi mentali dei personaggi. Per esempio Verga utilizza il monologo interiore nel Mastro-don Gesualdo, per far emergere nel protagonista i ricordi e l’empito della vita interiore (E Testo 12, p. 187). Un’altra celebre pagina di monologo interiore è quella che narra gli ultimi momenti di Anna Karenina nell’omonimo romanzo di Tolstoj (1877; E Testo 2, p. 687).

Un primo esempio: Dujardin ■ A parere di Joyce, il primo autore a utilizzare con sistematicità il monologo interiore in un suo romanzo fu il francese Édouard Dujardin nel romanzo I lauri senza fronde (1888). L’opera è costituita da una narrazione in prima persona, intercalata da dialoghi e con frequenti associazioni d’idee e riflessioni, che rapidamente si formano e si spostano nella mente del protagonista: Da-

niel Prince, giovane studente figlio di una ricca famiglia, che a Parigi, nell’arco di una giornata, incontra alcuni amici per strada e si prepara a trascorrere la serata con l’amata, l’attricetta Léa. Il monologo interiore fa emergere le connessioni tra gli stimoli della città, le sensazioni prodotte su Daniel dalla bellezza di Léa e il suo mondo interiore, come avviene nell’esempio seguente.

dimensioni temporali

E. Dujardin, I lauri senza fronde

idee e associazioni mentali

• pensieri al ristorante

E il cameriere, cosa fa? Arriva, con la sogliola. Che strani pesci! Questa sogliola andrà via in quattro bocconi; ce ne sono che bastano per dieci persone; la salsa ha la sua importanza, è vero. Attacchiamola. Una salsa di vongole e gamberetti andrebbe assai meglio. Ah! la nostra pesca ai gamberi, laggiù! Misera pesca, e che stanchezza, e le gambe bagnate! Eppure avevo le mie grosse scarpe gialle di Piazza della Borsa. Non si finisce mai di piluccare un pesce; sono sempre allo stesso punto. Devo cento franchi, e più, al calzolaio. Dovrei cercare di capire gli affari di Borsa; sarebbe pratico; non ho mai capito che cosa vuol dire giocare al ribasso; che guadagno ci può essere su dei valori al ribasso?

• il cameriere • la sogliola

• dal presente al passato • un altro ricordo • ritorno al presente • proposito per il futuro • considerazioni sulla Borsa

• come cucinare la sogliola • le salse • un giorno a pesca • il pesce, questo pesce • l’acquisto delle scarpe e il calzolaio • associazione mentale: il negozio del calzolaio è in Piazza della Borsa E 553

Tra Ottocento e Novecento

E

Svevo, Una vita (1892) ■ Il primo notevole utilizzo del monologo interiore nella nostra let-

teratura avvenne nei romanzi di Svevo. Già in Una vita (1892) il monologo interiore diviene, almeno a tratti, un mezzo efficace per spostare l’interesse del racconto dai fatti alla loro rifrazione nella

coscienza. Osserviamo questo passaggio, in cui Svevo considera le cose dal punto di vista stesso di Alfonso deluso; il ragionamento del personaggio viene sottolineato nei momenti più emotivamente vivi attraverso l’uso di esclamazioni, domande, supposizioni. idee e associazioni mentali

i fatti

Una vita, capitolo XI

• il contesto (Trieste), l’evento • dal fatto a un’«abitudine»

Gironzò per le vie della città malcontento degli altri e di sé. Avendo l’abitudine quando era agitato di monologare, doveva accorgersi del ridicolo che c’era nella sua ira. Anche nel sogno più astratto una parola precisa pronunziata richiama alla realtà. Egli era giunto a desiderare Annetta, amarla, esserne geloso; ella invece sapeva appena appena quale suono avesse la sua voce. Con chi doveva prendersela? Lo aveva offeso più di tutto la stretta di mano di congedo ch’ella gli aveva dato freddamente e tenendo gli occhi rivolti a Spalati che continuava a parlare! Avrebbe forse voluto ch’ella si mettesse a meditare sulle cause dell’improvviso pretestato malessere?

• i fatti cedono alla riflessione su di essi: riflessioni che appartengno non solo al narratore ma, ancor più, al personaggio

• ecco utilizzato il termine «monologo»

• domanda

• esclamazione • nuova domanda e supposizione

La pagina d’apertura di Senilità ■ L’enfatizzazione dei momenti più emotivamente vivi risulta an-

cora più pronunciata in Senilità (1898), dove la narrazione vie-

ne filtrata dal punto di vista soggettivo del protagonista. Leggiamo un passo del primo capitolo del romanzo.

i fatti

Senilità, capitolo 1

• i fatti si intrecciano al giudizio dell’autore

Fatte quelle premesse, [...] si sentì tranquillo e ripigliò un tono più adatto alla circostanza. Fece piovere sulla bionda testa le dichiarazioni liriche che nei lunghi anni il suo desiderio aveva maturate e affinate, ma, facendole, egli stesso le sentiva rinnovellare e ringiovanire come se fossero nate in quell’istante, al calore dell’occhio azzurro di Angiolina. Ebbe il sentimento che da tanti anni non aveva provato, di comporre, di trarre dal proprio intimo idee e parole: un sollievo che dava a quel momento della sua vita non lieta, un aspetto strano, indimenticabile, di pausa, di pace. La donna vi entrava! Raggiante di gioventù e bellezza ella doveva illuminarla tutta facendogli dimenticare il triste passato di desiderio e di solitudine e promettendogli la gioia per l’avvenire ch’ella, certo, non avrebbe compromesso.

• l’esclamazione non appartiene più all’autore, ma al personaggio • l’avverbio certo è una spia che la narrazione proviene dal personaggio

■ Il paragrafo evidenzia una progressione introspettiva: l’analisi ci

conduce via via fino al cuore segreto dei pensieri di Emilio. Il narratore è totalmente complice del suo personaggio: l’io di Emilio è 554

idee e associazioni mentali

• la bionda testa di Angiolina riempie il campo visivo di Emilio

• l’occhio azzurro di Angiolina scruta in profondità Emilio, rivelando il suo sentimento • si accumulano i termini poetici che mostrano l’essenza (tutta teorica) del letterato Emilio • una conclusione azzardata, che presto smaschererà l’inettitudine del personaggio

al centro della scena (egli stesso le sentiva); suo è il sollievo, evidenziato dai due punti, che prepara l’esclamazione sulla prossima «entrata» della donna in questa vita.

Il monologo interiore di Zeno ■ Simile ma non identico è il ricorso al monologo interiore nell’ul-

timo romanzo, La coscienza di Zeno (1923). Qui si passa dalla narrazione in terza persona alla narrazione in prima persona: anche questo elemento contribuisce a dare al romanzo l’aspetto di

un unico, interminabile monologo interiore, attraverso il quale vengono sistematicamente fatte riemergere dalla mente del protagonista esperienze, riflessioni, emozioni, nonché luoghi e persone. Leggiamo un passaggio del Preambolo del romanzo.

contenuti

La coscienza di Zeno, Preambolo

significati

• un ricordo: ciò che avvenne ieri

Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finì nel sonno più profondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre. Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui!

• scrutarsi dentro è faticoso...

• il giudizio sull’esperienza compiuta • la coscienza vigile • un giudizio • domanda senza risposta

■ La differenza, rispetto a Senilità, è visibile già al livello della finzione letteraria: il diario che, su consiglio dello psicoanalista,

Zeno Cosini è tenuto a redigere non è l’esatto equivalente del libero fluire del pensiero sul lettino dell’analista, in quanto la me-

• ... ma produce benefici effetti!

• lo sforzo di «vedersi» dentro • un’immagine dall’inconscio: la locomotiva e i vagoni

diazione della scrittura impone che i contenuti della mente vengano sottoposti al vaglio della ragione e della coscienza. Perciò le associazioni del pensiero vengono ordinate e ricomposte in un discorso logicamente, sintatticamente e narrativamente coerente.

Il «flusso di coscienza» di Joyce ■ Nell’Ulisse (1922) di Joyce, invece, abbiamo l’applicazione

più radicale del monologo interiore, definita «flusso di coscienza». Un esempio celebre è offerto, nel capitolo conclusivo, dal lun-

ghissimo soliloquio di Molly Bloom, moglie del protagonista. L’autore raffigura i contenuti della mente di Molly nel momento del dormiveglia.

contenuti

Ulisse, «Penelope» - Il letto

• il marito

Sì perché prima non ha mai fatto una cosa del genere chiedere la colazione a letto con due uova da quando eravamo all’albergo City Arms quando faceva finta di star male con la voce da sofferente e faceva il pascià per rendersi interessante con Mrs Riordan vecchia befana e lui credeva d’essere nelle sue grazie e lei non ci lasciò un baiocco tutte messe per sé e per l’anima sua spilorcia maledetta aveva paura di tirar fuori quattro soldi per lo spirito da ardere mi raccontava di tutti i suoi mali aveva la mania di far sempre i soliti discorsi di politica e i terremoti e la fine del mondo divertiamoci prima Dio ci scampi e liberi tutti se tutte le donne fossero come lei a sputar fuoco contro i costumi da bagno e le scollature...

• l’altra donna • è morta senza lasciare nulla

• una morale ipocrita • il giudizio di Molly

forma

• ricordi, riflessioni, impressioni si aggregano e si disarticolano in forma continuata e caotica • spesso i pensieri sono troncati a metà

• abolite sintassi e punteggiatura

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Monografia Raccordo

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

7

Il funerale mancato La coscienza di Zeno, capitolo VII Anno: 1923 Temi: • la ribellione inconscia ai torti subiti • la rivincita postuma sull’amico-rivale Protagonista del settimo capitolo è, oltre a Zeno, suo cognato Guido Speier. Costui è il marito di Ada, la più bella delle sorelle Malfenti, la preferita di Zeno; ma Ada lo ha rifiutato e Zeno ha dovuto ripiegare su Augusta. Questo matrimonio peraltro si rivela più fortunato di quello tra Guido e Ada. Quando Guido decide di fondare un’impresa commerciale e chiede a Zeno di aiutarlo, il protagonista accetta, lusingato e persino commosso. Rievocando il passato, tuttavia, Zeno sottolinea in più punti di non essere stato corresponsabile di quanto era accaduto poi: Guido infatti, prima con alcuni affari arrischiati e poi giocando in Borsa, si riduce al fallimento; per salvarsi, simula un suicidio (non il primo, in verità), ma i soccorsi giungono troppo tardi e Guido muore davvero. Comincia a questo punto l’episodio qui antologizzato, uno dei più famosi del romanzo.

Zeno s’impegna come non mai, perché ci tiene molto a dimostrarsi superiore a Guido negli affari una falsa giustificazione: non si tratta, in realtà, di bontà!

Così s’iniziarono per me le cinquanta ore1 di massimo lavoro cui abbia atteso2 in tutta la mia vita. Dapprima e fino a sera restai a misurare a grandi passi su e giù l’ufficio in attesa di sentire se i miei ordini3 fossero stati eseguiti. Io temevo che alla Borsa si fosse risaputo del suicidio di Guido e che il suo nome non venisse più ritenuto buono per impegni ulteriori. Invece per varii giorni non si attribuì quella morte 5 a suicidio. Poi, quando il Nilini4 finalmente poté avvisarmi che tutti i miei ordini erano stati eseguiti, incominciò per me una vera agitazione, aumentata dal fatto che al momento di ricevere gli stabiliti,5 fui informato che su tutti io perdevo già qualche frazione abbastanza importante. Ricordo quell’agitazione come un vero e proprio lavoro. [...] 10 Fin qui m’accompagnava il sogno di bontà che avevo fatto lungo tempo prima accanto a lui. Soffersi tanto di quell’agitazione, che non giuocai mai più in Borsa per conto mio. Ma a forza di “succhiellare”6 (questa era la mia occupazione precipua7) finii col non intervenire al funerale di Guido. La cosa avvenne così. Proprio quel giorno i va- 15 lori in cui eravamo impegnati fecero un balzo in alto. Il Nilini ed io passammo il nostro tempo a fare il calcolo di quanto avessimo ricuperato della perdita. Il patrimonio del vecchio Speier8 figurava ora solamente dimezzato! Un magnifico risultato che mi riempiva di orgoglio. [...] Partimmo dall’ufficio alle tre e corremmo perché allora ricordammo che il funera- 20 le doveva aver luogo alle due e tre quarti. All’altezza dei volti di Chiozza,9 vidi in lontananza il convoglio10 e mi parve persi-

1. le cinquanta ore: i due giorni circa successivi al suicidio di Guido. 2. abbia atteso: mi sia impegnato. 3. i miei ordini: ordini di acquistare azioni in Borsa. 4. Nilini: un agente di Borsa, ex compagno di liceo di Zeno. Era stato lui a indurre Guido a speculare in Borsa. Zeno lo giudica infido e ipocrita, tuttavia si serve di lui per condurre le operazioni con le quali recupe-

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rare, almeno in parte, il patrimonio di Guido e Ada. 5. gli stabiliti: documenti relativi agli acquisti di azioni. 6. “succhiellare”: il gesto di scoprire lentamente le carte che si hanno in mano, allorché si gioca al tavolo. È un termine gergale, ripetuto varie volte nel corso del capitolo, in riferimento alle quotazioni di Borsa, a indicare che per Zeno investire in

Borsa era una specie di gioco d’azzardo. 7. precipua: principale. 8. vecchio Speier: il padre di Guido, che aveva messo a disposizione i capitali per la ditta fondata da Guido. 9. volti di Chiozza: un portico nel centro di Trieste. 10. convoglio: il corteo funebre.

un evento solo in apparenza comico, ma rivelatore, in realtà, di ben altro

l’ironia di Svevo si traduce in immagini anche molto divertenti

no di riconoscere la carrozza di un amico mandata al funerale per Ada. Saltai col Nilini in una vettura di piazza,11 dando ordine al cocchiere di seguire il funerale. E in quella vettura il Nilini ed io continuammo a succhiellare. Eravamo tanto lontani dal 25 pensiero al povero defunto che ci lagnavamo dell’andatura lenta della vettura. Chissà quello che intanto avveniva alla Borsa non sorvegliata da noi? Il Nilini, a un dato momento, mi guardò proprio con gli occhi e mi domandò perché non facessi alla Borsa qualche cosa per conto mio. «Per il momento,» dissi io, e non so perché arrossissi, «io non lavoro che per conto 30 del mio povero amico.»12 Quindi, dopo una lieve esitazione, aggiunsi: «Poi penserò a me stesso». Volevo lasciargli la speranza di poter indurmi al giuoco sempre nello sforzo di conservarmelo interamente amico. Ma fra me e me formulai proprio le parole che non osavo dirgli: 35 «Non mi metterò mai in mano tua!» Egli si mise a predicare. «Chissà se si può cogliere un’altra simile occasione!» Dimenticava d’avermi insegnato che alla Borsa v’era l’occasione ad ogni ora. Quando si arrivò al posto dove di solito le vetture si fermavano, il Nilini sporse la testa dalla finestra e diede un grido di sorpresa. La vettura continuava a procedere 40 dietro il funerale che si avviava al cimitero greco. «Il signor Guido era greco?» domandò sorpreso. Infatti il funerale passava oltre il cimitero cattolico e s’avviava a qualche altro cimitero, giudaico, greco, protestante o serbo. «Può essere che sia stato protestante!» dissi io dapprima, ma subito mi ricordai 45 d’aver assistito al suo matrimonio nella chiesa cattolica. «Dev’essere un errore!» esclamai pensando dapprima che volessero seppellirlo fuori posto. Il Nilini improvvisamente scoppiò a ridere di un riso irrefrenabile che lo gettò privo di forze in fondo alla vettura con la sua boccaccia spalancata nella piccola faccia. «Ci siamo sbagliati!» esclamò. Quando arrivò a frenare lo scoppio della sua ilarità, 50 mi colmò di rimproveri. Io avrei dovuto vedere dove si andava perché io avrei dovuto sapere l’ora e le persone ecc. Era il funerale di un altro! Irritato, io non avevo riso con lui ed ora m’era difficile di sopportare i suoi rimproveri. Perché non aveva guardato meglio anche lui? Frenai il mio malumore solo perché mi premeva più la Borsa, che il funerale. Scendemmo dalla vettura per orizzon- 55 tarci meglio e ci avviammo verso l’entrata del cimitero cattolico. La vettura ci seguì. M’accorsi che i superstiti dell’altro defunto ci guardavano sorpresi non sapendo spiegarsi perché dopo aver onorato fino a quell’estremo limite quel poverino lo abbandonassimo sul più bello. Il Nilini spazientito mi precedeva. Domandò al portiere dopo una breve esitazio- 60 ne: «Il funerale del signor Guido Speier è già arrivato?» Il portiere non sembrò sorpreso dalla domanda che a me parve comica. Rispose che non lo sapeva. Sapeva solo dire che nel recinto erano entrati nell’ultima mezz’ora due funerali.

11. una vettura di piazza: un taxi, insomma, all’epoca trainato da cavalli. 12. io non lavoro che... povero amico:

cioè investe in Borsa il denaro di Guido e della vedova di costui, Ada.

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Monografia Raccordo

emerge da questa osservazione l’indifferenza che Zeno nutre verso il defunto

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

una falsa giustificazione che copre l’avversione di Zeno verso Guido (e anche la sua paura verso la morte)

nuova falsa giustificazione

il vittorioso confronto con Guido trasforma Zeno, per una volta, da inetto a vincente

appena rientrato a casa, cioè nella realtà, Zeno perde la baldanzosa sicurezza di poco prima

Perplessi ci consultammo. Evidentemente non si poteva sapere se il funerale si tro- 65 vasse già dentro o fuori. Allora decisi per mio conto. A me non era permesso d’intervenire alla funzione forse già cominciata e turbarla. Dunque non sarei entrato in cimitero. Ma d’altronde non potevo rischiare d’imbattermi nel funerale, ritornando. Rinunziavo perciò ad assistere all’interramento e sarei ritornato in città facendo un lungo giro oltre Servola.13 Lasciai la vettura al Nilini che non voleva rinunciare a 70 far atto di presenza per riguardo ad Ada ch’egli conosceva. Con passo rapido, per sfuggire a qualunque incontro, salii la strada di campagna che conduceva al villaggio. Oramai non mi dispiaceva affatto di essermi sbagliato di funerale e di non aver reso gli ultimi onori al povero Guido. Non potevo indugiarmi in quelle pratiche religiose. Altro dovere m’incombeva:14 dovevo salvare l’onore del 75 mio amico e difenderne il patrimonio a vantaggio della vedova e dei figli. Quando avrei informata Ada ch’ero riuscito di ricuperare tre quarti della perdita (e riandavo con la mente su tutto il conto fatto tante volte: Guido aveva perduto il doppio del patrimonio del padre e, dopo il mio intervento, la perdita si riduceva a metà di quel patrimonio. Era perciò esatto. Io avevo ricuperato tre quarti della perdita), essa certa- 80 mente m’avrebbe perdonato di non essere intervenuto al suo funerale. Quel giorno il tempo s’era rimesso al bello. Brillava un magnifico sole primaverile, e, sulla campagna ancora bagnata, l’aria era nitida e sana. I miei polmoni, nel movimento che non m’ero concesso da varii giorni, si dilatavano. Ero tutto salute e forza. La salute non risalta che da un paragone. Mi paragonavo al povero Guido e salivo, salivo in 85 alto con la mia vittoria nella stessa lotta nella quale egli era soggiaciuto. Tutto era salute e forza intorno a me. Anche la campagna dall’erba giovine.15 [...] In quel momento c’era nel mio animo solo un inno alla salute mia e di tutta la natura; salute perenne. Il mio passo si fece più rapido. Mi beavo di sentirlo tanto leggero. Scendendo dalla collina di Servola s’affrettò fin quasi alla corsa. Giunto al passeggio di Sant’Andrea, 90 sul piano, si rallentò di nuovo, ma avevo sempre il senso di una grande facilità. L’aria mi portava. Avevo perfettamente dimenticato che venivo dal funerale del mio più intimo amico. Avevo il passo e il respiro del vittorioso. Però la mia gioia per la vittoria era un 95 omaggio al mio povero amico nel cui interesse ero sceso in lizza. 16 Andai all’ufficio a vedere i corsi di chiusa. Erano un po’ più deboli, ma non fu questo che mi tolse la fiducia. Sarei tornato a «succhiellare» e non dubitavo che sarei arrivato allo scopo. Dovetti finalmente recarmi alla casa di Ada. Venne ad aprirmi Augusta. Mi domandò subito: «Come hai fatto a mancare al funerale, tu, l’unico uomo della nostra famiglia?» 100 Deposi l’ombrello e il cappello, e un po’ perplesso le dissi che avrei voluto parlare subito anche con Ada per non dover ripetermi. Intanto potevo assicurarla che avevo avute le mie buone ragioni per mancare dal funerale. Non ne ero più tanto sicuro e improvvisamente il mio fianco s’era fatto dolente forse per la stanchezza. I. Svevo, Tutte le opere, vol. I: Romanzi e «Continuazioni», cit.

13. Servola: una zona periferica di Trieste; vi si trovava villa Veneziani, la residenza di Svevo dopo il matrimonio. 14. Altro dovere m’incombeva: un altro

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compito esigeva la mia attenzione. 15. Anche la campagna dall’erba giovine: anche sui prati, bagnati dalla pioggia recente, l’erba sembrava più fresca.

16. i corsi di chiusa: le quotazioni di chiusura dei titoli azionari.

IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ Il cognato Guido è appena morto e Zeno se ne sente responsabile. Subito egli si getta nell’impresa di recuperare, almeno in parte, il patrimonio dissipato da Guido, investendo in Borsa a nome suo: e ci riesce, con suo stesso stupore, anche grazie all’aiuto del furbo Nilini. In quelle ore convulse, però, si ricorda troppo tardi di dover partecipare al funerale di Guido… e finisce così per seguire il corteo funebre di un altro. ■ Accortosi di aver sbagliato funerale, Zeno avrebbe an-

cora la possibilità di accodarsi al corteo funebre dei suoi parenti, ma non lo fa, per non turbare la cerimonia (così dice a se stesso). Decide allora di rientrare in città da un’altra parte. In quel tragitto si sente bene e pieno di vita come mai gli era accaduto prima. ■ Tornato a casa, però, quell’impressione di forza e di sicurezza rapidamente svanisce, di fronte al rimprovero della moglie Augusta.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Zeno afferma di lavorare per la famiglia, per bontà. In realtà, a farlo impegnare su quel terreno così «adulto» e difficile della speculazione finanziaria, sono altri fattori: • il desiderio di prendersi una rivincita postuma sul cognato Guido; • il rimorso per aver tanto detestato Guido quand’era in vita. ■ Infatti, al di là dell’affetto apparente verso il cognato, Zeno nasconde un sentimento di rancore e di odio per il brillante rivale che gli ha sottratto Ada, la donna amata, e che lo ha sconfitto e umiliato, agli occhi dei parenti, con il suo fascino e la sua eleganza.

■ Accortosi di aver sbagliato funerale, Zeno potrebbe ancora partecipare alla cerimonia, sia pure in ritardo. Così fa infatti il Nilini. Invece Zeno decide di rientrare a casa a piedi: tale ritorno si trasforma in una specie di passeggiata trionfale, affrontata con il passo e il respiro del vittorioso; non c’è traccia della zoppìa che spesso frena Zeno nei momenti di disagio. È un momento di salute e forza, sentimenti che nascono dal paragone tra la sua sorte e quella di Guido e dalla consapevolezza della propria vittoria sul rivale.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. L’errore per il quale Zeno segue, invece del funerale di Guido, il corteo di uno sconosciuto, si spiega con la teoria freudiana dell’«atto mancato»: si tratta cioè di un’inconscia ribellione e di una forma di risarcimento verso i torti subiti. Perciò, quando si rende conto dell’errore, Zeno accampa false giustificazioni, alibi che oscurano il suo rimorso e sollecitano l’euforia per suoi successi finanziari. a. Identifica i punti del testo dai quali, a tuo giudizio, trapela questo inconscio desiderio di rivalsa che Zeno nutre verso l’amico-rivale Guido. b. Evidenzia nel testo le giustificazioni che il protagonista adduce, per convincersi, rispettivamente: – che c’è un qualche motivo per scusare la sua mancanza alla cerimonia; – e che in ogni caso, adesso, è più opportuno non turbare il rito durante il suo svolgimento. 2. Alcuni critici hanno interpretato quella di Zeno come una fuga dal cimitero e quindi dalla morte. A ogni modo, uscito dal cimitero, Zeno si sente interiormente trasformato: l’inetto è diventato un lottatore.

a. Sei d’accordo con chi dice che Zeno sta fuggendo dalla (propria) morte? Rispondi facendo attenzione al contesto e quindi alle immagini naturali presenti nel testo: sono immagini di sapore positivo o negativo? Perché? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... b. In che modo si esprime, nel testo, la consapevolezza di avere vinto? Identifica le frasi o espressioni più significative e commentale in breve. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 3. C’è una frase centrale nel testo: Mi paragonavo al povero Guido e salivo, salivo in alto. a. Rintraccia il punto nel brano. b. Spiega con le tue parole l’importanza che la frase assume per il significato dell’intero capitolo. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 559

Monografia Raccordo

ANALISI DEL TESTO

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

4. La prima accoglienza che Zeno riceve, una volta tornato a casa, non è però pari alle sue attese. La moglie Augusta se ne esce in un’affermazione curiosa: Zeno, dice, è l’unico uomo della nostra famiglia. a. Quali effetti produce, sul protagonista, l’accoglienza ricevuta dai familiari? b. La frase di Augusta può essere definita: a realistica (dal punto di vista di Augusta) b ironica (dal punto di vista di Augusta) c realistica (dal punto di vista di Zeno) d ironica (dal punto di vista di Zeno) Motiva in breve la tua scelta.

{ Forme e stile 5. La tecnica narrativa usata da Svevo per scrivere la Coscienza di Zeno è quella del monologo interiore (E scheda a p. 553), che ha come effetto quello di far «entrare» i lettori all’interno dei pensieri del protagonista, narrando gli eventi dal punto di vista del personaggio. a. Identifica nel testo una sequenza a tua discrezione e poi prova ad analizzare in che modo l’autore usa, in es-

LAVORIAMO SU

LINGUA E LESSICO

1. Quando Zeno vuole giustificarsi per aver mancato il funerale di Guido, utilizza dei verbi al condizionale. a. Evidenzia nel testo queste forme condizionali. b. Perché, a tuo avviso, il narratore Svevo fa ricorso a questo modo verbale? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 560

sa, la tecnica del monologo interiore. Soffermati su questi punti: – Quali elementi linguistici (uso dei verbi, costruzione delle frasi ecc.) differenziano questa sequenza da una sequenza di racconto oggettivo e realistico? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... – In quali punti esce maggiormente allo scoperto il punto di vista del personaggio-narratore? Evidenziali nel testo, soffermandoti sui particolari narrativi che non possono che appartenere alla sua personale ottica. – A quale scopo, secondo te, il narratore lascia emergere tali particolari? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... b. Illustra adesso quale significato abbia l’uso sistematico del monologo interiore in un romanzo psicologico quale la Coscienza di Zeno (max 10 righe).

2. Nella prima parte del testo si evidenziano diversi termini tecnici, riferibili all’ambito della finanza e della Borsa. Nel finale invece il lessico si fa più poetico, in sincronia con lo stato d’animo di Zeno. a. Individua nel testo gli elementi riferibili a entrambi gli ambiti: – termini tecnico-finanziari ............................................................................................... ............................................................................................... – lessico poetico ............................................................................................... ...............................................................................................

Svevo e la psicoanalisi Freud e la teoria psicoanalitica La psicoanalisi è la scienza che analizza i processi dell’inconscio (psyché significa, in greco, “anima”) per scoprire e chiarire alcune delle motivazioni più profonde e nascoste dei comportamenti umani, e curare così le sofferenze e malattie mentali. Fondatore della psicoanalisi fu il medico viennese Sigmund Freud (1856-1939); il suo primo saggio importante, L’interpretazione dei sogni, uscì nel 1899. Secondo Freud, in ogni individuo, al di sotto della coscienza, c’è l’inconscio: insieme di contenuti psichici non compresi nel campo della coscienza dell’individuo, che sono rimossi dalla volontà e riemergono attraverso i sogni, i lapsus, gli atti mancati, persino i motti o le battute di spirito. Se l’inconscio e le sue pulsioni sessuali vengono repressi troppo bruscamente, si possono generare vere malattie psichiche: fobie, ossessioni ecc. Per curarle, dice Freud, bisogna guidare il paziente a recuperare le esperienze rimosse (come il conflitto con il genitore del proprio sesso, il cosiddetto complesso di Edipo), facendo affiorare i più lontani ricordi: prendendo consapevolezza dei motivi profondi che hanno causato il suo turbamento, il paziente potrà accettarsi per ciò che è, respingere i sensi di colpa e vivere così un’esistenza serena.

Svevo e la psicoanalisi Svevo poté precocemente conoscere la psicoanalisi freudiana, verso il 191011. In città era attivo divulgatore della nuova disciplina il medico Edoardo Weiss, un ebreo triestino già allievo di Freud a Vienna. Fu lui a consigliare un cognato di Svevo (Bruno Veneziani, affetto da una leggera forma di paranoia) a farsi curare (1910) da Freud in persona, a Vienna. Inoltre nel 1915 Svevo tradusse, insieme al nipote Aurelio Finzi, un testo di Freud (Über den Traum, “Sul sogno”).

Nella Coscienza di Zeno la psicoanalisi diviene un tema fondamentale, una sorta di «cornice» per l’intera opera. È il dottor S. (nome che allude a «Sigmund», cioè Freud) il committente e, insieme, il destinatario del diario di Zeno. Questi scrive le proprie memorie a scopo terapeutico, come si racconta nella Prefazione. L’ultimo capitolo del romanzo è poi dedicato alle meditazioni del protagonista, il quale spiega perché abbia interrotto la terapia e racconta (freudianamente) i propri sogni. Lo stesso Svevo riconobbe il ruolo centrale esercitato dalla psicoanalisi nel suo romanzo. Così egli scrisse nelle pagine autobiografiche di Soggiorno londinese (1926): «In quanto alla Coscienza io per lungo tempo credetti di doverla al Freud ma pare mi sia ingannato. Adagio: vi sono due o tre idee nel romanzo che sono addirittura prese di peso dal Freud. L’uomo che per non assistere al funerale di colui che dice suo amico si sbaglia di funerale è Freudiano con un coraggio di cui mi vanto». Attraverso il motivo dell’atto mancato e del lapsus compare infatti la verità del protagonista Zeno, cioè la sua profonda avversione per Guido. Numerosi altri episodi, nel romanzo, si sviluppano sulla base dei medesimi meccanismi di scambio tra verità e menzogna. Tra questi: • il legame di amore-odio per il padre (per Freud tale conflitto è centrale nella crescita di un individuo); • il carattere ambiguo delle scelte di Zeno, spesso dettate da motivi diversi da quelli creduti o dichiarati; • la traduzione all’esterno del disagio psicologico di Zeno, ovvero la sua zoppìa: in linguaggio psicoanalitico, essa è la somatizzazione di un male interiore.

Le diffidenze di Svevo/Zeno Benché interessato alla nuova disciplina, Svevo era però scettico nei suoi confronti; per lui era semplicemente

uno strumento di scavo psicologico, un aiuto a mettere a fuoco quelle zone segrete della volontà e degli istinti su cui si era soffermato già in Una vita e in Senilità (in entrambe le opere, per esempio, risultava centrale l’ambiguo rapporto dei due protagonisti con un personaggio – rispettivamente Macario e Balli – che Alfonso ed Emilio vivono come più forte di loro e «castrante»). Perciò, nella conclusione della Coscienza, Zeno si dimostra così severo nei confronti del dottor S. che lo aveva in cura e che pretendeva di poter estrarre dai racconti del paziente una diagnosi sicura e una terapia risolutiva. Anche Svevo, in diverse lettere (1927-28) a Valerio Jahier, minimizza, e anzi irride, la portata scientifica della psicoanalisi: «Grande uomo, quel nostro Freud, ma più per i romanzieri che per i malati. Un mio congiunto uscì dalla cura durata per varii anni addirittura distrutto. Fu per lui ch’io una quindicina d’anni or sono conobbi l’opera di Freud. E conobbi alcuni di quei medici che lo circondano». Tali diffidenze verso la psicoanalisi dimostrano, paradossalmente, che Svevo aveva colto la vera portata della dottrina freudiana. Nata in un contesto positivistico, la psicoanalisi si era inizialmente presentata come terapia di guarigione: conoscere la causa del comportamento nevrotico ha l’effetto di guarirlo. Questo è quanto pensa il dottor S. rappresentato nelle prime pagine del romanzo, e giustamente Zeno/Svevo non ha fiducia in lui, o la perde. Più tardi lo stesso Freud, in opere più mature, allontana ogni determinismo dalla psicoanalisi: è sbagliato pretendere di dedurre, in materia psichica, spiegazioni di causa-effetto; l’analisi dei sintomi, dice l’ultimo Freud, è un’operazione sempre aleatoria: richiede una «costruzione» (anche sul piano linguistico) che non può che essere «interminabile». 561

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Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

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Psico-analisi La coscienza di Zeno, capitolo VIII Anno: 1923 Temi: • la dichiarazione di guarigione del protagonista • la visione pessimistica della vita e del progresso dell’uomo • la previsione di una catastrofe che ripristinerà la salute sulla Terra Nelle ultime pagine del romanzo, Zeno appare trasformato: afferma infatti di possedere una salute perfetta e invidiabile, acquisita mediante il successo negli affari. Riflettendo però più in generale sulla vita, sull’uomo e sugli ordigni che questi ha inventato, non riesce a vedere, intorno a sé, altro che segnali di morte e distruzione. Per risolvere i mali da cui, dice, «la vita attuale è inquinata alle radici», occorrerebbe forse un’apocalittica «rigenerazione»... Siamo davanti a un epilogo assai complesso, a un «lieto fine» così problematico da rovesciarsi nel suo contrario.

un collegamento circolare all’inizio dell’opera

Zeno racconta la propria guarigione

24 Marzo 1916 Dal Maggio dell’anno scorso1 non avevo più toccato questo libercolo.2 Ecco che dalla Svizzera il dr. S.3 mi scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato. È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui4 e della sua cu- 5 ra. Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione. Ho poco tempo perché il mio commercio occupa la mia giornata. Ma al signor dottor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare. Intanto egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece 10 riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martirî.5 Non è per il confronto ch’io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. Da lungo tempo io sapevo che la mia 15 salute non poteva essere altro che la mia convinzione6 e ch’era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico7 di volerla curare anziché persuadere. Io soffro bensì8 di certi dolori, ma mancano d’importanza nella mia grande salute. Posso mettere un impiastro9 qui o là, ma il resto10 ha da moversi e battersi e mai indu-

1. Dal Maggio dell’anno scorso: nelle pagine precedenti, facenti pure parte del capitolo VIII (Psico-analisi), Zeno aveva raccontato che il 23 maggio 1915, a Lucinico (fuori Gorizia), dove si trovava con la famiglia, era stato raggiunto dalla guerra. Stava facendo una passeggiata quando aveva incontrato una pattuglia di soldati austriaci che gli avevano impedito di raggiungere la villa, costringendolo a tornare a Trieste. Qui, un mese dopo (26 giugno), aveva scritto il racconto di quella giornata, che così si concludeva: «Adesso che so che la mia famiglia è sana e salva, la vita che faccio non mi dispiace. Non ho molto da fare ma non si può dire che io sia inerte. Non si deve né comperare né vendere.

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Il commercio rinascerà quando ci sarà la pace... Io, intanto, per il momento, non faccio nulla». 2. libercolo: nella finzione che costituisce il patto narrativo si tratta delle pagine che formano il capitolo VIII. Ormai l’autobiografia si era conclusa ed era terminato il trattamento psicoanalitico a cui Zeno si era sottoposto. 3. il dr. S.: lo psicoanalista che ha (o aveva) in cura Zeno. 4. come io la pensi di lui: in apertura del capitolo Zeno ha già avuto parole durissime per il dottor S.: «L’ho finita con la psico-analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima. Non ho ancora congedato il dotto-

re, [...] ho paura che finirei col mettergli le mani addosso». 5. tanti martirî: le sofferenze e i lutti della guerra. 6. Da lungo tempo... la mia convinzione: la salute, dice Zeno, è il prodotto di una convinzione, ovvero di un accurato esercizio autoriflessivo che conduce l’individuo alla profonda conoscenza di sé. 7. un sognatore ipnagogico: un sognatore consapevole della natura irreale di ciò che sta sognando, pur mantenendosi tra il sonno e la veglia. 8. bensì: effettivamente. 9. un impiastro: una crema. 10. il resto: la parte restante di lui. Nell’espressione mai indugiarsi avvertiamo la

Zeno racconta i propri successi economici; spinto da fiducia nella vita, comprava qualsiasi merce

Zeno ottiene successo comportandosi da odioso speculatore di guerra

Zeno vuole riscrivere la storia della propria malattia alla luce delle sue nuove scoperte: la sua letteratura è sempre provvisoria

giarsi nell’immobilità come gl’incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, 20 non può essere considerata quale una malattia perché duole.11 Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto col trionfo.12 Fu il mio commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia. Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell’Agosto 25 dell’anno scorso. Allora io cominciai a comperare.13 Sottolineo questo verbo perché ha un significato più alto di prima della guerra. In bocca di un commerciante, allora, significava ch’egli era disposto a comperare un dato articolo. Ma quando io lo dissi, volli significare ch’io ero compratore di qualunque merce che mi sarebbe stata offerta. Come tutte le persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e 30 fu la mia fortuna. L’Olivi14 non era a Trieste, ma è certo ch’egli non avrebbe permesso un rischio simile e lo avrebbe riservato agli altri. Invece per me non era un rischio. Io ne sapevo il risultato felice con piena certezza. Dapprima m’ero messo, secondo l’antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro, ma v’era una certa difficoltà di comperare e vendere dell’oro. L’oro per così dire liquido, per- 35 ché più mobile, era la merce e ne feci incetta. Io effettuo di tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in misura inferiore agli acquisti. Perché cominciai nel giusto momento i miei acquisti e le mie vendite furono tanto felici che queste mi davano i grandi mezzi di cui abbisognavo per quelli. Con grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparente- 40 mente una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una partita non grande d’incenso. Il venditore mi vantava la possibilità d’impiegare l’incenso quale un surrogato della resina che già cominciava a mancare, ma io quale chimico15 sapevo con piena certezza che l’incenso mai più avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente toto genere.16 Secondo la mia idea il mondo sarebbe ar- 45 rivato ad una miseria tale da dover accettare l’incenso quale un surrogato della resina. E comperai! Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai l’importo che m’era occorso per appropriarmi della partita intera. Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della 50 mia salute. Il dottore, quando avrà ricevuta quest’ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto. Lo rifarei17 con chiarezza vera perché come potevo intendere la mia vita quando non ne conoscevo quest’ultimo periodo? Forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad esso! Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa 55 una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi18 ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle

manifestazione di quella «grande energia» che Zeno ammirava e invidiava negli altri. 11. Dolore... perché duole: benché comporti sia dolore che amore, la vita non va considerata una malattia per il solo fatto di procurare dolore. 12. lotta... trionfo: il concetto richiama il darwinismo e la sua idea di «lotta per la vita».

13. comperare: in precedenza Zeno aveva indicato l’azione del comprare come una manifestazione vitale, energica, dunque come emblema della salute. 14. L’Olivi: l’amministratore del patrimonio lasciato a Zeno dal padre. 15. quale chimico: Zeno in giovinezza aveva a lungo oscillato fra gli studi di giurisprudenza e la passione per la chimica,

iscrivendosi ora all’una ora all’altra facoltà. 16. toto genere: in tutto. 17. rifarei: riscriverei; riscriverebbe, cioè, l’intero romanzo. 18. per crisi e lisi: termini medici che indicano rispettivamente il graduale accrescimento e la scomparsa della febbre.

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Monografia Raccordo

la sofferenza è connaturata all’esistenza umana; ma se la si affronta nel modo giusto si è sani, dice Zeno

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

una delle contraddizioni di Zeno: poco prima aveva dichiarato che la vita non va considerata una malattia

lo studioso è simbolo di una vita non più autentica né naturale

la lotta per la vita non obbedisce più alla legge del più forte, ma a violenza e crudeltà assolute una profezia davvero inquietante, spia del pessimismo radicale del pur «guarito» Zeno

altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non 60 appena curati. La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale19 potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci 65 guarirà della mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!20 Ma non è questo, non è questo soltanto. Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, es- 70 sa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute. Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni21 fuori del suo corpo e se c’è sta- 75 ta salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni22 del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con 80 l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. 85 Quando i gas velenosi23 non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato,24 ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo 90 nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà25 e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie. I. Svevo, Tutte le opere, vol. I: Romanzi e «Continuazioni», cit.

19. Il triste e attivo animale: l’uomo. 20. Ogni metro quadrato... soffoco!: il passo rivela l’influenza delle idee dell’economista scozzese Robert Malthus (17661834), che nel Saggio sulla popolazione osservava che l’umanità è condannata a una perenne penuria dei mezzi di sussistenza,

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in quanto la popolazione aumenta in proporzione tale da rendere sempre più scarse le risorse alimentari. 21. ordigni: macchine, rimedi ecc.; ma nella parola c’è una chiara sfumatura negativa. 22. prolungazioni: prolungamenti.

23. i gas velenosi: utilizzati per la prima volta nella guerra 1914-18. 24. un po’ più ammalato: perché spinto dalla passione del dominio, che è distruttiva come tutte le passioni. 25. nessuno udrà: perché l’intera umanità si sarà già estinta in quell’istante.

IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ La chiusa del romanzo può essere divisa in tre momenti. 1. All’inizio, simmetricamente con la pagina d’apertura dell’opera, ritorna il personaggio del dottor S. e viene riproposta la situazione che dà vita al romanzo, cioè il contrasto fra paziente e analista. Esso porta all’interruzione della cura e quindi alla situazione conclusiva; inoltre giustifica la pubblicazione delle memorie da parte del medico, che vuole in tal modo vendicarsi del proprio paziente. 2. Subito dopo (dalla r. 10) Zeno si congeda dal lettore lasciando non confessioni di malattia e debolezza da parte di un inetto, ma la descrizione di una salute solida, perfetta. Chiarisce di essere stato guarito con il mezzo non della psico-

analisi, ma del commercio (l’attività che suo padre aborriva), favorito dalla nuova situazione creata dalla guerra. Vincendo l’inerzia che attanagliava tutti, Zeno ha infatti cominciato a comprare merci di ogni tipo, aspettando il momento propizio per rivenderle ad acquirenti bisognosi di tutto. Ha saputo adeguare il proprio comportamento alla situazione, con i mezzi discutibili degli speculatori; e ha così ottenuto il successo. 3. Nella conclusione (dalla r. 61), le note di fiducia e felicità si dissolvono di fronte alla sconsolata osservazione che la vita attuale è inquinata alle radici. L’unico modo in cui l’umanità può guarire è… scomparire, mediante una catastrofe inaudita che distrugga ogni forma di vita sul pianeta.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Zeno comunica la conquista della propria sanità: ha superato l’inettitudine, ha «vinto». Ma non possiamo appagarci di questa conclusione: il testo è infatti cosparso di ambiguità, come sempre avviene nel romanzo. Sono due i maggiori elementi di tale ambiguità. • Zeno sta scrivendo al proprio ennesimo «rivale», il dottor S., e quindi, probabilmente, non fa che ingigantire la portata della propria guarigione, così da irridere la cura psicoanalitica. D’altra parte lo stesso Freud aveva previsto il rifiuto verso la psicoanalisi (e quindi verso la verità che essa ha dimostrato: Zeno è malato di nevrosi). Il disprezzo di Zeno potrebbe costituire una paradossale conferma della dottrina freudiana. • Zeno (ecco un secondo elemento di ambiguità) dice di essere guarito solo per quel poco che è possibile guarire da quella particolare malattia che è la vita. Nessuno sforzo (né commercio né psicoanalisi né altro) può davvero guarire la vita: essa va presa così com’è. È questo, forse, il vero messaggio del romanzo. ■ Se Zeno è (come dice) guarito, sono però malati tutti gli

altri. Per denunciare il fallimento dell’umanità, il testo ricorre a concetti darwiniani. Il progresso è sicuro solo per gli animali, le bestie, che si adattano all’ambiente ed evolvono in modo naturale; non lo è per la civiltà umana, nella quale gli «ordigni», sempre più efficaci, soffocano le risorse naturali dell’organismo, che si corrompe e si atrofizza. L’uomo diviene sempre più furbo e sempre più debole, sempre più ammalato e irresponsabile. La guerra mondiale ha smascherato l’enorme potenziale di violenza che si annida nella storia e nella società. Neppure Zeno si salva da questa violenza: è «guarito» in un modo ripugnante, mediante le speculazioni di guerra, cioè a danno dei più deboli. Ma se, per guarire, un individuo deve fare violenza agli altri, ciò significa che la società è malata, senza speranza di vera guarigione. ■ Scaturisce da qui il paradosso finale, così negativo, nichilista: l’unica speranza di rinnovamento, dice Zeno, risiede… nell’apocalissi universale! Solo un’esplosione enorme, solo una catastrofe inaudita e senza rimedio potrà eliminare la malattia, cancellando per sempre la vita che l’ha prodotta. È l’ultimo scatto di (inquietante) ironia, l’ultimo geniale paradosso del libro.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. Congedandosi dal suo diario, Zeno sostiene di aver raggiunto una salute solida, perfetta […] Io sono guarito!; e lo fa rinfacciando questo successo al medico che lo aveva in cura. a. Quale atteggiamento egli tiene verso la psicoanalisi e il dottor S.? b. Da quali cause, a suo dire, è stata prodotta tale guarigione? c. Come valuti la precisazione per cui il personaggio si

dice guarito quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere (rr. 11-12)? Si tratta di una precisazione secondaria o importante? Motiva in breve la risposta. d. Infine: l’autore condivide oppure no, a tuo avviso, la fiducia del personaggio nella propria perfetta salute? Motiva anche in questo caso la risposta. 2. Zeno, dopo essersi dichiarato sano, protesta però di non esser un ingenuo e afferma che è tutta la vita moderna a essere malata: A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure (r. 58). 565

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ANALISI DEL TESTO

Contesto

Italo Svevo

Tra Ottocento e Novecento

a. Zeno si ritrova a essere l’unico ad aver capito, o a vivere, ciò che sfugge a tutti gli altri: è corretto affermarlo, secondo te? Motiva la risposta. b. In che cosa consiste, a parere di Zeno, la malattia della vita attuale? Riassumi le sue argomentazioni (max 5 righe). 3. Nell’epilogo del romanzo Zeno fa i conti con alcune questioni di fondo: a) la condizione umana quale naturale condizione di dolore; b) la civiltà e la società come costruzioni della «cattiveria» degli uomini, del loro malcontento; c) infine, l’incapacità di individuare cure efficaci: tali non gli sembrano né le utopie socialiste, né le vecchie prospettive dell’ottimismo positivista. a. Secondo te, si può sostenere che malcontento è qui in sostanza un sinonimo di malattia? Motiva in breve la risposta. b. Quando e come Svevo aveva aderito all’utopia socialista e al Positivismo? 4. L’ultimo capoverso, con l’immagine di distruzione universale, si carica, a posteriori, di significati profetici, a motivo di ciò che accadde nel 1945 con le esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki. a. Questa esplosione di cui parla Zeno, secondo te, viene da lui a solo immaginata come una possibilità irreale b temuta c auspicata d sia temuta sia auspicata Motiva in breve la risposta sulla base del testo.

LAVORIAMO SU

a. A tuo giudizio questo finale è definibile come a un lieto fine b un finale tragico c una profezia indeterminata d un paradossale non senso b. Scegli la risposta o proponine un’altra ancora; motiva in breve la tua scelta.

{ Forme e stile 6. Il gioco dell’ambiguità, del rovesciamento, del paradosso, è sempre all’opera nella Coscienza di Zeno e lo è a maggior ragione in questo finale. Quasi in ogni punto Zeno fa affermazioni destinate a essere smentite, esplicitamente o meno, da quanto afferma poco prima o poco dopo. a. Sottolinea nel testo i segnali a tuo giudizio più evidenti di tale ambiguità. b. Spiega quindi in breve in che cosa consiste l’ambiguità di ciascuno di questi punti da te rilevati. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

LINGUA E LESSICO

1. Con enfasi, all’inizio del brano, l’io narrante sottolinea il proprio stato attuale di benessere e salute. a. Rintraccia nel testo le espressioni più significative in tal senso: – trascrivi gli avverbi che enfatizzano la sua condizione di salute ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... – trascrivi anche la frase o le frasi che utilizzano le forme esclamative ............................................................................................... ............................................................................................... 2. A un certo punto Zeno intravede, come unica via d’uscita per la crisi, una rigenerazione. 566

5. La conclusione del romanzo si presenta come un’appassionata autodifesa (Io sono sano, assolutamente, r.15) e anche come una terribile accusa all’umanità e una previsione di catastrofe futura.

a. «Rigenerazione» è un termine tipicamente sveviano: perché? ............................................................................................... b. Zeno lo usa qui in senso ironico o no, secondo te? Motiva la risposta. 3. Molti hanno definito una profezia l’apocalittica visione dell’ultimo capoverso. a. Normalmente in un testo profetico sono presenti termini o immagini attinenti al linguaggio religioso. Ne ritrovi anche in questa pagina sveviana, oppure no? Spiega brevemente. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

Fin dall’inizio della sua carriera Svevo si ispira alla teoria darwiniana della «lotta per la vita» (cara già ai naturalisti francesi e ai veristi italiani), ma legge il darwinismo in modo molto personale, pessimistico. Agisce qui anche l’influsso di un filosofo molto amato da Svevo, il tedesco Arthur Schopenhauer, che già a metà Ottocento aveva denunciato le storture prodotte nell’umanità dallo sviluppo capitalistico: esso rende ormai impossibile, per l’uomo, l’autenticità. Combinando il darwinismo con il pensiero di Schopenhauer, Svevo ritiene che nella «lotta per la vita» non ci possano essere vincitori. Ciò vale anzitutto a livello collettivo: la civiltà attuale, fondata sui capitali finanziari e sulla violenza di armi potentissime («ordigni», «gas velenosi», fino all’«esplosivo incomparabile» che potrebbe esplodere «al centro della terra»), ha imboccato un corso contrario a quello della natura, vista come luogo di lotta ma anche di autenticità. La società dell’«occhialuto uomo», insieme debole e forte, costituisce un ambiente di fronte al quale la natura non può difendersi. Ma ciò vale anche a livello individuale: Zeno, nel finale del romanzo, proclama la sua «salute solida, perfetta», ma quella guarigione non può che essere imperfetta, visto che – come dice lo stesso Zeno – è la vita nel suo assieme a essere malata e dunque nessuno può davvero definirsi guarito. E poi lo stesso Zeno, con il suo egoistico comportamento di profittatore di guerra, è uno dei tanti che costruiscono, comprano e vendono «ordigni» di distruzione. Dunque la sua vittoria nella «lotta» l’ha ottenuta al prezzo di sofferenze altrui. Lo sfondo di queste riflessioni è quel «disagio della civiltà» che entro breve sarebbe stato evidenziato da Freud in

Contesto Monografia Raccordo

Il «disagio della civiltà» e il nuovo ruolo dello scrittore ■ George Grosz, I funerali del poeta Oskar Panizza (1917-18).

un libro famoso, intitolato appunto Il disagio della civiltà e uscito nel 1929 (ed. it. in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1978). L’inquietante profezia di Svevo/Zeno, secondo la quale un’esplosione apocalittica cancellerà la civiltà delle macchine («Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà»), è un motivo presente anche nel libro di Freud, che analizza a fondo i pericoli dell’autodistruzione dovuta ai ritrovati della tecnologia: Freud parla di un «dio-protesi» non molto diverso dall’uomo che in Svevo si avvale degli «ordigni». Ma nella Coscienza di Zeno, oltre a Darwin, Schopenhauer e Freud, si combinano indubbiamente molti altri spunti presenti nella cultura di quell’epoca (il libro fu scritto tra 1919 e 1922): da Einstein (per l’idea della relatività: per Zeno nessuna verità è mai definitiva) a Nietzsche (per l’idea dell’affermazione dell’individuo), da Marx (per la critica al capitalismo e all’egoismo sociale) indietro fino a Leopardi, nel cui Cantico del gallo silvestre (una delle Operette morali scritta nel 1824) Svevo poteva ritrovare un’analoga profezia di distruzione: «delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così

questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perdurassi». Questa ricchezza di spunti e di fonti ci conferma che La coscienza di Zeno e il suo autore si pongono come uno dei crocevia della civiltà letteraria novecentesca. Ciò vale anche per il ruolo attribuito all’artista. Svevo, con la sua ironia, finisce per scardinare e ribaltare la concezione vigente: quello che era stato considerato fino ad allora, nella comune opinione, un compito fondamentale per l’intellettuale, cioè proclamare il valore assolutamente unico e superiore dell’arte, viene svuotato dall’interno e quindi ripudiato. Nella società massificata e mercificata di primo Novecento, Svevo (assieme a Pirandello e a pochi altri spiriti critici) avverte che non è più il tempo di scrittori «superuomini» ed «esteti». A quel modello, ormai, deve subentrare un artista problematico, che in un mondo di valori inautentici non proponga più l’idea della missione salvifica dell’arte. La novità di Svevo sta anche in questo complesso rovesciamento di valori: la crisi della società borghese si configura come «disagio» insanabile del ruolo intellettuale, come denuncia della falsità degli stereotipi della società contemporanea.

567

Tra Ottocento e Novecento

La parola al critico Svevo «scrittore asburgico» e «postmoderno» Claudio Magris (1939), esperto conoscitore della letteratura mitteleuropea tra Otto e Novecento, sottolinea il peso che la dimensione «asburgica» esercitò nella cultura e nell’opera sveviana. Svevo nacque infatti a Trieste, suddito dell’imperatore d’Austria: conobbe e assimilò fin dalla giovinezza, anche per i soggiorni di studio in Germania, i germi di una cultura e una società largamente dissimili dalla realtà italiana. Magris ci invita perciò a percepire, dietro ai temi e alle forme peculiari della scrittura sveviana, un riflesso della crisi, della decadenza e della finale dissoluzione del mondo asburgico ottocentesco. Sono tematiche che fanno di Svevo un autore «d’avanguardia», pienamente connaturato alla cultura novecentesca e al suo senso della crisi. Scrittore asburgico, Svevo è figlio di quell’Austria che Musil definiva un esperimento del mondo, un modello della condizione umana contemporanea priva di centro, di unità e di valore [...]. Il riso di Zeno nasce da questo vuoto e dall’ironica, dolorosa guerriglia per aggirarlo. Poeta dell’assenza e dell’esilio, Svevo prende atto che il centro del mondo s’è reso irreperibile, ma ne prende atto con dolore, sia pur dissimulato nell’ironia. L’eclissi della totalità è analizzata con spietato rigore o satireggiata con tagliente umorismo, ma viene sentita quale una ferita. L’unità del pensiero o della poesia non risolve la lacerazione del reale, ma segretamente quel pensiero e quella poesia desiderano ancora, vietandosi perfino di formulare tale desiderio per la consapevolezza della sua impossibilità, l’unità e integrità del senso. Pioniere della frantumazione di ogni ordine e di ogni unità, Svevo contrappone felicemente e paradossalmente a questa disgregazione sostanziale, attuata dalla sua scrittura, i modi e le forme della sua scrittura stessa che, aspra e irregolare nella sua irripetibile originalità, ignara di purismi e talora anche di correttezza grammaticale, sembra ispirarsi alla laconica essenzialità dei classici. Svevo ritrae implacabilmente la dissoluzione dell’unità del mondo e del grande stile che la racchiude o meglio la crea ma esprime la centrifuga anarchia del molteplice con una sobrietà stilistica che mira a distillare l’essenziale e non già a mimare il caos. Come gli scrittori classici, Svevo ama l’apologo,1 la moralità apparentemente chiara e limpida, la concisione del dettato e l’asciuttezza dell’espressione. È un autore ingannevolmente facile, perché rifugge dall’esplicita complicazione culturale e dal manierismo intellettuale, per rivolgersi alla ruvida presenza delle cose: in realtà è un autore estremamente arduo, per il garbo incredulo e discreto col quale dissimula la sua profondità, nascondendola [...]. Svevo è lo scrittore postmoderno2 che forse più d’ogni altro ha compreso il crepuscolo del soggetto, sul quale si basano l’idea di sostanza e la forma, che la esprime fondandola con la sintesi estetica. Ma se ciò fa di lui uno dei padri dell’avanguardia, della letteratura che vuol rifiutare ogni sintesi azzerandosi al livello dell’immediatezza, egli è anche lo scrittore dell’intervallo e del sottaciuto, del non-detto e della pausa; è un maestro in quell’arte della reticenza e del taciuto che Hofmannsthal identificava col grande stile. Alieno dalla speranza come dalla protesta, Svevo si limita a registrare – nel godibilissimo e autoironico Soggiorno londinese3 – «quella mia certa assenza continua ch’è il mio destino». Svevo cerca una salvezza da quest’assenza in una continua oscillazione tra la vita e la rappresentazione della vita. C. Magris, Presentazione a Svevo, in Svevo, Racconti, Garzanti, Milano 1985 1. apologo: breve storiella che nasconde un significato morale sotto la veste leggera e divertente. 2. postmoderno: Magris addirittura avvi-

568

cina Svevo al postmoderno, corrente culturale nata intorno al 1980-90, che rinuncia alle grandi sintesi e riduce l’arte a una «citazione» ironica di autori e opere del

passato. 3. Soggiorno londinese: uno scritto sveviano, di carattere autobiografico, del 1926.

Svevo nel suo tempo ■ Svevo nasce in una realtà periferica e marginale come la Trieste di fine Ottocento, un crocevia di differenti tradizioni culturali. Nel suo stesso pseudonimo, «Italo Svevo», vuole riflettere questa sua natura «di frontiera». Si dedica sempre alla letteratura come

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. Svevo non si laureò, ma seguì solo un corso di studi commerciali. 2. Svevo si decise ad abbandonare definitivamente la letteratura dopo il clamoroso insuccesso della Coscienza di Zeno. 3. Svevo lasciò l’impiego in banca dopo che rimase vedovo. 4. Dopo il 1902 Svevo prese a soggiornare regolarmente per alcuni mesi all’anno a Londra. 5. Svevo conobbe Joyce durante i suoi soggiorni a Londra per affari. 6. L’opera di Svevo fu apprezzata da James Joyce.

2

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Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. Il vero nome di Svevo era a Mario Samigli b Umberto Veruda

c

Wilhelm Stekel

d

Ettore Schmitz

2. Svevo si interessò alla psicoanalisi a perché conobbe personalmente un collaboratore di Freud b solo attraverso letture c perché conobbe personalmente Freud d solo perché un suo parente fu in cura da Freud 3. Quale personaggio frequentato da Svevo fu determinante per il suo ritorno alla scrittura letteraria? a Joyce b Montale c Freud d Crémieux

3

Rispondi alle seguenti domande. 1. 2. 3. 4.

In che senso si può definire Svevo uno «scrittore a tempo perso»? Illustra la complessità dell’ambiente sociale e culturale triestino al tempo di Svevo (max 15 righe). Chiarisci perché lo scrittore adottò lo pseudonimo di «Italo Svevo» e commentalo (max 10 righe). Quali elementi rendevano Svevo un intellettuale «di frontiera»? (max 10 righe)

Le idee e la poetica ■ Fin da giovane Svevo coltiva idee e letture lontane dalla cultura italiana coeva: romanzieri stranieri (stringe amicizia con Joyce), la filosofia di Schopenhauer, la teoria dell’evoluzione di Darwin, il socialismo e Marx. Le sue origini ebraiche lo portano all’autoanalisi, all’ironia, a riflettere sul tema della sofferenza. Può infine accostare «precocemente» la psicoanalisi di Freud. Dall’insieme di tali fonti, Sve-

vo realizza una sua sintesi, imperniata su un ragionato, ironico pessimismo, specchio della «crisi» culturale novecentesca. Da questo punto di vista, il ruolo della letteratura stessa non può che essere ridimensionato (anche sul piano linguistico): essa si privatizza, si marginalizza, diventa utile per conoscere se stessi, ma non più per insegnare (improbabili) verità assolute. 569

Monografia

1

a un’attività secondaria, nelle ore sottratte prima al lavoro impiegatizio in banca e poi all’attività di dirigente industriale. In vita ottiene uno scarsissimo successo letterario; solo negli ultimi anni gode di una meritata ma tardiva notorietà.

Contesto

SINTESI OPERATIVA

L’età contemporanea

Storia

L’età contemporanea

1

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. L’unico autore di quell’epoca accostabile a Svevo per scelte di poetica era D’Annunzio. 2. Secondo Svevo un «letterato» non dice mai, o quasi mai, la verità. 3. Svevo si accostò al romanzo europeo, naturalista e non, solo in età avanzata, dopo aver conosciuto Joyce. 4. I protagonisti dei tre romanzi sveviani sono dei letterati, tutti – a loro modo – falliti.

2

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Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. Quando Svevo afferma che «fuori della penna non c’è salvezza» intende che a solo la letteratura e l’arte possono salvarci dalla volgarità della vita b solo entrando nel mondo immaginario della letteratura si può trovare un compenso a una realtà che delude c la letteratura ci permette, forse, di ottenere quel successo che ci è negato in altri campi della vita d la letteratura permette di conoscerci e quindi di accettarci meglio 2. Parlando di «tempo misto» in Svevo si allude a alla mescolanza etnica e culturale dell’ambiente triestino b al suo rapporto instabile con la letteratura, fatto ora di dedizione e interesse, ora di delusione e abbandono c alla mescolanza, nella memoria, dei ricordi e degli eventi, che produce una distorsione nell’asse temporale del racconto d all’instabilità e mancanza di certezze, proprie della cultura di primo Novecento, che egli riflette nei protagonisti delle sue opere 3. Svevo scrive in italiano a come scelta di una precisa identità culturale e linguistica b a seguito della formazione culturale di scrittore, avvenuta sui classici italiani dei secoli passati c perché, all’epoca, era la lingua più diffusa a Trieste d perché Trieste, pur facendo parte dell’Impero asburgico, denotava una cultura prettamente italiana

3

Definisci i seguenti termini o espressioni, in rapporto alla poetica di Svevo. a. inetto ............................................................................................................................................................... b. malattia ............................................................................................................................................................ c. salute ................................................................................................................................................................ d. vecchiaia .......................................................................................................................................................... e. originalità della vita ......................................................................................................................................... f. ironia ..................................................................................................................................................................

4

Rispondi alle seguenti domande. 1. Quali problemi linguistici dovette affrontare Svevo nella sua attività letteraria? (max 5 righe) E come li risolse? (max 5 righe) 2. Illustra l’influsso culturale esercitato su Svevo dalla filosofia di Schopenhauer (max 10 righe). 3. Illustra in max 10 righe l’influsso culturale esercitato su Svevo dalla tradizione ebraica (max 10 righe). 4. Illustra in max 10 righe l’influsso culturale esercitato su Svevo dalla teoria dell’evoluzione di Darwin (max 10 righe). 5. In che senso si può definire Svevo un intellettuale «di profilo europeo»? (max 10 righe) 6. Illustra il complesso rapporto tra Svevo e la psicoanalisi (max 15 righe). 7. Illustra la «riduzione della letteratura» operata dalla poetica sveviana (max 10 righe). 8. Che cos’è il monologo interiore e in che modo Svevo lo applica nei suoi romanzi? (max 15 righe)

570

SINTESI OPERATIVA

Italo Svevo

Le opere ■ L’opera di Svevo comprende scritti saggistici, pagine di diario (l’autobiografia è una misura connaturata allo scrittore triestino), racconti, numerose commedie (alcune concluse, altre solo abbozzate) e soprattutto tre romanzi, Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno. Essi narrano storie di sconfitte e sofferenze interiori; i loro protagonisti sono «inetti», deboli e incapaci a competere con gli altri nella lotta per la vita. Si ritirano perciò in disparte, a studia-

1

re la vita umana da fuori. Zeno però, diversamente dai protagonisti dei primi due romanzi, non soccombe, anzi, trova parziali vittorie e soddisfazioni; ha il merito di accettare le contraddizioni che fanno parte della vita comune e riesce così a tenere meglio a freno la nevrosi che, chi più chi meno, caratterizza tutti gli uomini. In Zeno, personaggio ambiguo e paradossale, si riassume ciò che Svevo chiamava l’«originalità» dell’esistenza.

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. Il titolo Senilità fa riferimento all’età avanzata del suo protagonista. 2. Svevo continuò a scrivere commedie dall’età giovanile fino agli ultimi mesi di vita. 3. L’ultima commedia di Svevo, capolavoro del suo teatro, s’intitola La burla del buon vecchio alla bella fanciulla. 4. I primi abbozzi della Coscienza di Zeno risalgono già al 1900-02 circa.

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2 3 4 5 6 7

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Soggiorno londinese La rigenerazione Senilità Una lotta La coscienza di Zeno Una vita L’assassinio di via Belpoggio

a. b. c. d. e. f. g.

1927-28 1892 1898 1890 1888 1926 1923

Collega il nome del personaggio all’opera in cui compare. 1 2 3 4

4

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Collega ciascuna delle seguenti opere alla corrispondente data di stesura o pubblicazione. 1

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Alfonso Nitti Giorgio Umbertino Emilio Brentani

a. b. c. d.

Senilità Il vecchione L’assassinio di via Belpoggio Una vita

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. Emilio Brentani inizia la relazione con Angiolina a per puro divertimento b convinto di avere incontrato l’amore della sua vita c per osservare da vicino il comportamento femminile così da farne materia di un romanzo d per educare alla moralità una ragazza di facili costumi 2. Alfonso Nitti si suicida a perché viene licenziato dalla banca b perché il romanzo in cui riponeva tutte le sue speranze di rivincita non ottiene successo c come forma di rivincita verso Annetta e verso chi lo ha rifiutato d perché, sfidato a duello dal fratello di Annetta, sa di avere le ore contate 571

Monografia Raccordo

Contesto

L’età contemporanea

Storia

L’età contemporanea

SINTESI OPERATIVA

3. Il dottor S. pubblica il diario di Zeno a perché coglie il valore letterario del testo (ed è segretamente interessato ai diritti d’autore) b a scopo scientifico, in accordo con il suo paziente c per far conoscere un caso clinico, utile allo sviluppo della psicoanalisi d per vendetta nei confronti del paziente che ha abbandonato la cura 4. Zeno dice di voler smettere di fumare e a alla fine ci riesce, grazie alla psicoanalisi e all’aiuto della moglie b alla fine ci riesce, ma come rivalsa contro il dottor S. c alla fine non ci riesce, perché il fumo è per lui un comodo alibi d alla fine riprende a fumare per dimenticare le sofferenze causate dalla guerra 5. Zeno sposa Augusta a per una casualità b per fare dispetto a suo padre c per le insistenze del signor Malfenti d perché è la più bella e intelligente delle tre sorelle 6. Umbertino a è un frammento narrativo rimasto escluso dalla Coscienza di Zeno b è uno dei racconti scritti da Svevo nel venticinquennio che separa Senilità dalla Coscienza c è uno dei racconti giovanili pubblicati sull’«Indipendente» d è un frammento narrativo destinato al «quarto romanzo» di Svevo 7. Secondo Zeno, la guarigione dalla malattia è possibile a solo in un’ipotetica purificazione dell’universo b sottoponendosi, con serietà, alle cure della psicoanalisi c adeguandosi alla dominante mentalità borghese d attraverso l’affetto della famiglia

5

Rispondi alle seguenti domande. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

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Che cos’è il «morbo di Basedow»? Riassumi il rapporto tra Zeno e la moglie Augusta (max 5 righe). Riassumi il rapporto tra Zeno e il cognato Guido (max 5 righe). Qual è la novità del racconto L’assassinio di via Belpoggio, rispetto alla narrativa di fine Ottocento? (max 10 righe) Che cosa s’intende per «quarto romanzo» di Svevo e quali sono le sue caratteristiche? (max 10 righe) Spiega il ruolo della psicoanalisi nella Coscienza di Zeno (max 10 righe). Illustra gli elementi per cui, nel terzo romanzo sveviano, il tipo tradizionale di narrazione romanzesca finisce per dissolversi (max 10 righe). Riassumi la trama di Una vita (max 15 righe). Riassumi la trama di Senilità (max 15 righe).

PROPOSTE DI LAVORO PER L’ESAME DI STATO

L’età contemporanea

Analisi del testo 1

Analizza, interpreta e commenta la pagina conclusiva del romanzo Una vita.

Non aveva pensato mai al suicidio che col giudizio alterato dalle idee altrui. Ora lo accettava non rassegnato ma giocondo. La liberazione! Si rammentava che fino a poco prima aveva pensato altrimenti e volle calmarsi, vedere se quel sentimento giocondo che lo trascinava alla morte non fosse un prodotto della febbre da cui poteva essere posseduto. No! Egli ragionava calmo! Schierava dinanzi alla mente tutti gli argomenti contro al suicidio, da quelli morali dei predicatori a quelli dei filosofi più moderni; lo facevano sorridere! Non erano argomenti ma desiderî, il desiderio di vivere. Egli invece si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che altri nelle più dolorose. L’abbandonava senza rimpianto. Era la via per divenire superiore ai sospetti e agli odii. Quella era la rinunzia ch’egli aveva sognata. Bisognava distruggere quell’organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo. Non avrebbe scritto ad Annetta. Le avrebbe risparmiato persino il disturbo e il pericolo che poteva essere per lei una tal lettera.

Comprensione A. Riassumi con le tue parole il contenuto del testo in max 10 righe. B. Alfonso valuta gli elementi pro e contro il suicidio: riconoscili nel brano. Quali lo fanno sorridere, e perché? C. Il centro narrativo di Una vita è il rapporto tra Alfonso e Annetta. Come si presenta, in questo epilogo?

Analisi A. Per quanto sai di Una vita, questa conclusione giunge inattesa? O è coerente con la trama e il carattere del personaggio? Motiva la risposta in max 5 righe. B. Come definiresti lo stato d’animo del protagonista? Rispondi citando opportunamente il testo. C. Quale frase o espressione ritieni che potrebbe essere assunta come emblematica di questo epilogo del romanzo? D. Nel brano emergono alcune spie della graduale educazione linguistica di Svevo a un italiano letterario ed ele-

gante. Quali termini o espressioni denunciano qualche difficoltà espressiva?

Interpretazione A. Secondo te, perché il protagonista decide di «non scrivere» ad Annetta? B. Alfonso intende il suicidio come un gesto di sconfitta o di vittoria? Motiva la risposta in max 10 righe.

Saggio breve 1

Le caratteristiche dell’«inetto» sveviano nei primi racconti e romanzi.

Materiali di lavoro Profilo introduttivo • Due temi prediletti: il ricordo, la malattia, E p. 509 • Una vita: fra autobiografia e distanza critica, E p. 511 • Il tema dell’inettitudine, E p. 511 • Da Una vita a Senilità, E p. 512 • Salute e malattia: verso il romanzo psicologico, E p. 512 • La doppia prospettiva della narrazione, E p. 532

Testi • «Sono io l’assassino» E Testo 2, p. 522 • Gabbiani e pesci E Testo 3, p. 527 • Un pranzo, una passeggiata – e l’illusione di Ange E Testo 4, p. 533 • La «metamorfosi strana» di Angiolina E Testo 5, p. 539 • La pagina conclusiva di Una vita, nell’Analisi del testo, qui a fianco

La parola al critico Giacomo Debenedetti, Lo scompenso vitale dei protagonisti sveviani L’eroe di Svevo è generato dalla sensazione fondamentale di uno scompenso fra l’orientamento che l’individuo dà alla propria vita, e la curva che poi la vita descrive: incarna questo difetto, questo errore di calcolo e, colle sue vicende, viene a testimoniarlo e a patirlo tra il gioco delle sorti umane. Svevo rinchiude nel bozzolo trasparente e sensibile dei suoi eroi la crucciata esperienza di una tara; la quale, come tutte le tare, è in parte congenita e irresponsabile; ma rimorde e fa soffrire esattamente come una colpa. Un difetto, ma 573

L’età contemporanea

tale che si espia come un fallo. Questi personaggi sono degli inetti consapevoli (Un inetto era il primo titolo di Una vita, e varrebbe anche per gli altri due romanzi): distrutti, prima ancora che dai risultati, dalla intima coscienza della loro inettitudine. Di mano in mano che quei personaggi giungono alla constatazione, più o meno confusa, ma sempre straziata, di questa incapacità nel loro intimo, di questo fatum all’esterno, sembra si mettano loro stessi, e proprio quanto più si affannano per scongiurarla, a cooperare alla propria caduta. Anche quando hanno infilato la strada giusta, vi sdrucciolano per difetto di destrezza, abbandonandosi agli scarti più meschini e insensati; oppure non la riconoscono perché, sfiduciati, non possono credere di averla saputa infilare; o infine la sfuggono di proposito, perché l’abitudine dell’infelicità è divenuta in loro un tetro e rassegnato gusto di sentirsi infelici. Ecco la storia, la ragione e la morale dei romanzi di Svevo. G. Debenedetti, Svevo e Schmitz, in Saggi critici, OET Edizioni del secolo, Roma 1945, cit. in S. Del Messier, Italo Svevo, Le Monnier, Firenze 1984

Maurizio Tura, Gli eroi negativi di Svevo I dati realistici, la rappresentazione dei vari ceti (sia borghesi che popolari) e dell’ambiente (una Trieste impiegatizia, commerciale e plebea), la descrizione degli avvenimenti vanno incontro, nelle pagine di Svevo, ad una crescente interiorizzazione, vengono cioè usati sempre più come specchi per chiarire i complessi e contraddittori moti della coscienza. Nell’analizzare i suoi personaggi, i processi che portano questi ultimi a comportarsi da inetti che tentano di nascondere la propria inettitudine sognando evasioni o diversivi (pensiamo ad Emilio Brentani, per esempio), nell’esaminarne l’inconscio, Svevo smonta l’io del protagonista, mettendo in evidenza le complicate stratificazioni di una psiche instabile, in cui passato e presente, ricordi e desideri si intrecciano e condizionano reciprocamente. Ma questa indagine è anche carica di un affetto dolente, quasi che fautore volesse salvare dalla estrema umiliazione della condanna il suo eroe negativo, che è, in fondo, il ritratto di noi stessi (e la cui “malattia” è da assimilare alla crisi di un’intera società, ormai priva di fedi e valori certi). M. Tura, Svevo, scrittore europeo, in «Cultura Oggi», 1998, n. 3 574

Svolgimento A. Il primo passo è definire il concetto di «inetto» in rapporto alla poetica di Svevo e allo sviluppo della sua narrativa. Vedi in particolare: • Il tema dell’inettitudine • G. Debenedetti, Lo scompenso vitale dei protagonisti sveviani • M. Tura, Gli eroi negativi di Svevo B. Il secondo passaggio è illustrare in concreto, sui testi, il modo in cui i protagonisti della prima stagione sveviana preferiscano coltivare sogni piuttosto che agire concretamente. Vedi in particolare: • Un pranzo, una passeggiata – e l’illusione di Ange • La «metamorfosi strana» di Angiolina C. Ricostruisci quindi la capacità di questi personaggi di giustificare sempre e comunque la propria condizione. Vedi in particolare: • «Sono io l’assassino» D. La messa in luce della loro inettitudine avviene di preferenza mediante l’istruttivo confronto con l’antagonista. Vedi in particolare: • Salute e malattia: verso il romanzo psicologico • Gabbiani e pesci E. Il narratore impietosamente smaschera menzogne e illusioni del personaggio. Vedi in particolare: • La doppia prospettiva della narrazione • M. Tura, Gli eroi negativi di Svevo F. In conclusione, evidenzia il fallimento del loro agire, che può spingersi fino al suicidio o al ripiegamento in una condizione di «senilità». Vedi in particolare: • Due temi prediletti: il ricordo, la malattia • La pagina conclusiva di Una vita • La «metamorfosi strana» di Angiolina

Relazione 1

Protagonisti e antagonisti nella narrativa sveviana.

A. La traccia chiede di analizzare l’abitudine di Svevo di mettere a confronto due personaggi opposti. • La troviamo attuata per la prima volta in Una vita, dove compaiono i personaggi di Alfonso e Macario. • La ritroviamo in Senilità, dove però le coppie oppositive sono due: Emilio/Balli a Amalia/Angiolina. • La coppia di opposti caratterizza anche La coscienza di Zeno, dove si presenta in particolare sotto le vesti di Zeno/Guido (ma anche: Ada/Augusta; padre di Zeno/Zeno).

PROPOSTE DI LAVORO PER L’ESAME DI STATO

L’età contemporanea

B. Descrivi le coppie principali, Alfonso/Macario, Emilio/Balli, Zeno/Guido: • Rileva anzitutto le analogie: i due uomini sono amici; sono innamorati (o presumono di esserlo) della stessa donna; l’uno è forte e l’altro è debole (magari solo apparentemente); l’uno è sano mentre l’altro è malato. • Verifica però anche l’evoluzione di questo rapporto dai due romanzi giovanili alla Coscienza di Zeno, dove la situazione, imprevedibilmente, muta a vantaggio dell’«inetto» Zeno: come e perché ciò avviene? Hai a disposizione 2 facciate di foglio protocollo (35004000 battute).

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Svevo e Trieste: illustra l’importanza di questo rapporto.

A. Rileva l’importanza avuta dall’ambiente triestino nel cammino culturale e artistico di Svevo. • Evidenzia la particolare natura di Trieste, fiorente centro commerciale e città ponte tra culture differenti. • Illustra la condizione storica dell’Impero austroungarico. • Chiarisci in questa chiave il significato dello pseudonimo «Italo Svevo». B. Ritrova nelle sue opere i segni di questo influsso. • Svevo si mantenne personalmente sempre fedele a una vocazione borghese e commerciale. • Poté accostare autori e idee estranei al circolo più abituale della cultura italiana. • Nella sua opera si riflette il concetto di crisi di una civiltà. • Anche sul piano linguistico la letteratura sveviana si trova all’incrocio di tradizioni differenti. C. Infine, analizza le influenze più importanti che Svevo ricevette. • Schopenhauer: la malattia della volontà (il tema dell’inettitudine), il bisogno della contemplazione (tutti e tre i personaggi sveviani sono dei «teoristi». • Freud e la psicoanalisi (e i suoi riflessi nella Coscienza). Hai a disposizione 2 facciate di foglio protocollo (35004000 battute).

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Uno dei maggiori critici sveviani, Giacomo Debenedetti, ha definito il personaggio sveviano «trino e uno». Sulla sua scia, altri critici hanno evidenziato come, in un certo senso, Svevo abbia scritto per tre volte il medesimo romanzo, in quanto i suoi tre protagonisti sono legati da una visione alquanto simile della realtà. Verifica l’assunto con precisi riferimenti ai testi letti.

A. Soffermati in primo luogo sulle analogie sussistenti fra i tre personaggi: carattere abulico e inetto (ciò vale, per Zeno, solo all’inizio del romanzo), spaesamento di fronte alla realtà, incapacità di vivere relazioni sociali e amorose soddisfacenti ecc. Illustra tutto ciò con citazioni dai testi.

B. Verifica poi le differenze fra i tre personaggi: differenze sociali (Alfonso ed Emilio sono piccoli impiegati di banca, Zeno invece è ricco), culturali (i primi due sono scrittori falliti, Zeno invece si appresta a scrivere il suo diario per ordine dello psicoanalista). C. Rifletti infine se si tratta di differenze decisive. La condizione parzialmente differente di Zeno aiuta il personaggio a trovare successo negli affari e quindi ciò che egli stesso definisce, nel finale della Coscienza, la «salute». D. Ma si tratta di una salute alquanto precaria e ambigua: analizza in tal senso l’ultimo brano antologizzato della Coscienza. Si dimostra dunque anche per questa via l’esattezza dell’intuizione critica di Debenedetti.

Articolo 1

In un breve articolo per un fascicoletto a cura dell’Azienda di Promozione Turistica di Trieste devi illustrare il rapporto tra Svevo e il contesto culturale, sociale e storico della città giuliana.

Hai a disposizione 2 facciate di foglio protocollo (35004000 battute).

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In una pagina di un suo diario segreto, Augusta offre un proprio personale ritratto di suo marito Zeno Cosini.

Hai a disposizione una facciata di foglio protocollo (15002000 battute).

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Continua tu, con le ultime notizie, il Profilo autobiografico che Svevo lasciò interrotto dopo aver constatato che la sofferenza prodotta dall’insuccesso letterario è «addirittura pericolosa».

Utilizza – per quanto ti è possibile – lo stesso stile ironico e «leggero» di Svevo. Hai a disposizione una facciata di foglio protocollo (1500-2000 battute).

Intervista 1

Per una rivista d’attualità, hai l’occasione d’intervistare Stefano Balli, lo scultore di Senilità amico di Emilio Brentani.

Chiedigli notizie su quest’ultimo, su sua sorella Amalia e infine su Angiolina. Metti in evidenza retroscena inediti e interessanti per i tuoi lettori. Hai a disposizione 2 facciate di foglio protocollo (3500-4000 battute). 575

Questione di scelte (e di regole) LE NORME E L’USO

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Scheda

La bellezza del congiuntivo

Errori «economici»

EDUCAZIONE LINGUISTICA

Si moltiplicano gli allarmi sulla presunta morte del congiuntivo nell’italiano contemporaneo. Qualche timore c’è, perché in effetti per i parlanti è poco «economico», cioè difficile da gestire, e tende quindi a essere sostituito con l’indicativo. Ciò accade soprattutto in frasi come «Credo che sei bravo», «Non voglio che fai tardi», ovvero nella seconda persona singolare del presente. Da un punto di vista sintattico, sono errori. Infatti, mentre l’indicativo esprime la certezza o la realtà constatata (magari solo immaginata) nella nostra mente, il congiuntivo è il modo verbale con cui si enuncia un fatto come incerto, possibile, sperato, e del cui esito, perciò, non si è sicuri. Quindi diremo: «Sono certo che sono già arrivati» (indicativo); ma: «Spero che arrivino presto» (congiuntivo).

Il congiuntivo nelle proposizioni indipendenti... Per ricapitolare i vari usi del congiuntivo, cominciamo a esaminare i casi in cui esso è necessario nelle proposizioni indipendenti, cioè non subordinate ad altra proposizione reggente. In queste frasi indipendenti il congiuntivo può avere valore: • esortativo (sostituisce l’imperativo nelle forme mancanti): Esca subito, per favore! • dubitativo: E se decidessi di rimanere? (analogamente si può usare l’indicativo futuro: Rimarrò?; l’infinito: Rimanere?; il condizionale: Potrei rimanere) • concessivo (indica un’adesione, anche forzata, a qualcosa): Cada pure il mondo, non ci vado più! • esclamativo: Sapessi quanto è difficile! • ottativo (esprime augurio, speranza, timore): Magari tu avessi ragione!

... e nelle proposizioni dipendenti Nelle proposizioni subordinate, invece, in certe situazioni è d’obbligo il congiuntivo, in altre si può 576

scegliere tra congiuntivo e indicativo (con conseguenze sul significato). Il congiuntivo nelle subordinate si usa sempre: a. con alcune congiunzioni subordinanti, quali affinché, benché, sebbene, a meno che, nel caso che, qualora, prima che, senza che, a patto che ecc.: Parlo affinché tutti mi ascoltino; Non uscire prima che faccia buio. b. con aggettivi o pronomi indefiniti: qualunque, chiunque, qualsiasi, ovunque, dovunque, comunque: Chiunque venga, sarà il benvenuto; Comunque vada, sarà un successo. c. con espressioni impersonali, come è necessario che, è probabile che, è bene che: È necessario che tu stia al caldo; È probabile che piova. d. in formule come Vada come vada; Costi quel che costi; Sia come sia. Inoltre vogliono sempre il congiuntivo, retto dalla congiunzione che, i verbi che esprimono volontà (nelle sue sfumature: ordine, preghiera, permesso), aspettativa (desiderio, timore, sospetto), opinione o convinzione. Questo è il caso più classico in cui usare il congiuntivo: chi parla, parla di qualcosa come incerto, possibile, sperato. I più importanti verbi che vogliono il congiuntivo sono: accettare, aspettare, assicurarsi, attendere, augurare, chiedere, credere, curarsi, desiderare, domandare, dubitare (ma all’imperativo negativo questo verbo può richiedere l’indicativo: Non dubitare che ci metteremo d’accordo), esigere, fingere, illudersi, immaginare, ipotizzare, lasciare, negare, ordinare, permettere, preferire, pregare, pretendere, raccomandare, rallegrarsi, ritenere, sospettare, sperare, supporre, temere, volere. Quindi avremo: Voglio che leggiate quel romanzo (non è sicuro che lo farete, e pertanto il congiuntivo è d’obbligo). Oppure: Auguriamoci che la squadra A batta la squadra B: poiché l’esito della gara è incerto, anche qui il congiuntivo è d’obbligo.

Alcuni verbi possono reggere, dopo il che, l’indicativo o il congiuntivo, con sfumature diverse di significato. In particolare: • ammettere: con l’indicativo significa “riconoscere”: Ammisi che l’altra squadra aveva giocato meglio; con il congiuntivo significa invece “supporre, permettere”: Ammettendo che l’altra squadra giochi meglio, potremo vincere comunque; • badare: con l’indicativo significa “osservare, farci caso”: Non badò che stava piangendo; con il congiuntivo significa invece “aver cura”: Badava che non cadessi un’altra volta; • capire, comprendere: con l’indicativo significa “rendersi conto”: Capisco bene che sei bravo; con il congiuntivo significa invece “apparire chiaro, trovare naturale”: Capisco che dopo la scuola siate stanchi; • pensare: con l’indicativo significa “essere convinto”: Penso (proprio) che sei affamato; con il congiuntivo significa invece “supporre, ritenere”: Penso che tu sia stanco.

Non bisogna neppure abusare del congiuntivo D’altro canto, non bisogna abusare del congiuntivo. In una frase come: Ho sognato che ero sull’orlo di un precipizio, «fossi» sarebbe errato: nel sogno, infatti, il precipizio era ben reale e quindi qui l’indicativo è corretto. In generale richiedono l’indicativo i verbi che

lavoriamo su

esprimono giudizio o percezione, tra cui accorgersi, affermare, confermare, constatare, dichiarare, dimostrare, dire, giurare, insegnare, intuire, notare, percepire, ricordare, riflettere, rispondere, sapere, scoprire, scrivere, sentire, sostenere, spiegare, udire, vedere. Per esempio: Giuro che è andata così; Ricordo che c’era bel tempo; Abbiamo visto che non si poteva far nulla. Anche qui, però, occorre valutare caso per caso: non basta la semplice presenza di uno di questi verbi nella frase reggente a imporre l’uso dell’indicativo, come evidenzia questa frase: Mi spiegò come e perché il padre l’avesse sorpreso. Al di là del verbo reggente, indicativo o congiuntivo sono delle modalità semantiche, delle aree di significati. Scegliere l’uno o l’altro non implica, da parte di chi comunica, delle semplici scelte di registro: prima che l’eleganza del dire, è in gioco la sostanza del messaggio.

Usare il congiuntivo «è sexy» Concludiamo con un’annotazione di Beppe Severgnini. Osservando due ex alunne rivolgersi alle loro coetanee con tutti i congiuntivi al loro posto, così commenta: «Se quello fosse stato un colloquio di lavoro le avrei assunte tutt’e due. Usare il congiuntivo vuol dire avere il cervello con le marce: è più facile salire, qualunque sia la montagna. [...] Il linguaggio sempre più diventerà un segno distintivo, qualcosa che permetterà di farsi notare. [...] Fidatevi ragazzi: conosco ragazze che considerano un congiuntivo più sexy dell’orologio di lusso o del pantalone firmato. Non fate quella faccia: sono pure carine».

LE NORME E L’USO

1 La scelta tra indicativo o congiuntivo dipende dalle diverse sfumature che chi comunica intende conferire alla frase. Scrivi per ogni frase una possibile giustificazione che spieghi la scelta dell’uno o dell’altro modo. a. Credo che sei l’uomo che fa per noi. ........................................................................................... b. Credo che tu sia l’uomo che fa per noi. ........................................................................................... c. Te lo dico perché tu capisci. ...........................................................................................

d. Te lo dico perché tu capisca. ........................................................................................... e. Conosci qualcuno che vuole farsi interrogare? ........................................................................................... f. Conosci qualcuno che voglia farsi interrogare? ........................................................................................... g. Rifletteva sul fatto che l’amico aveva torto. ........................................................................................... h. Rifletteva sul fatto che l’amico avesse torto. ...........................................................................................

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EDUCAZIONE LINGUISTICA

Quando in una proposizione dipendente si può scegliere tra congiuntivo e indicativo

Questione di scelte LE NORME E L’USO (e di regole)

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Scheda

Modo verbale e modalità: la soggettività di chi comunica

I modi verbali e i loro valori

EDUCAZIONE LINGUISTICA

Chi comunica può scegliere di presentare il proprio messaggio in diversi modi che, in termini grammaticali, corrispondono in italiano a sette modi verbali: quattro finiti (indicativo: io parlo; congiuntivo: che io parli; condizionale: io parlerei; imperativo: parla!) e tre indefiniti (infinito: parlare; participio: parlante; gerundio: parlando). Ciascuno dei modi verbali indica un particolare punto di vista o atteggiamento psicologico, e anche un certo rapporto comunicativo rispetto a chi ascolta. Lo si vede bene con i quattro modi finiti: • l’indicativo è il modo della realtà: Luigi parte; • il congiuntivo e il condizionale sono i modi della possibilità: Se venisse [congiuntivo], gli parlerei [condizionale]; • l’imperativo è il modo del comando: Luigi, parti!

I modi e le loro ulteriori sfumature di significato Tuttavia i modi verbali non conservano in qualsiasi contesto l’identico valore. Infatti: • l’indicativo, oltre che la realtà di un evento, può anche esprimere la possibilità (o probabilità) che si verifichi (Ormai Gigi avrà finito di dormire); altre volte l’indicativo può esprimere un ordine (Ora andrai da lui e gli dirai ecc.), oppure un dubbio (Riuscirò a finire?), una supposizione (Saranno state le nove quando ecc.); • il congiuntivo è il modo della possibilità, ma può anche esprimere un ordine (Esca!), un’esortazione (Parliamone insieme), stupore (Sentissi che musica!), una concessione (Ammesso che piova, non avremo problemi); • anche il condizionale è il modo della possibilità (Verrei da te adesso), ma può esprimerla con numerose sfumature: dubbio (Che cosa potrei dirti?), desiderio (Preferirei andare), supposizione (Secondo la Tv, i morti sarebbero decine), richiesta cortese 578

(Apriresti la finestra?), un’affermazione attenuata (Inviterei anche Gloria); • l’infinito può esprimere istruzioni (Mescolare il tuorlo e la farina), comando (Allacciare le cinture), desiderio (Oh, starsene qui per sempre!).

Mezzi verbali e mezzi lessicali Oltre che essere affidata a uno o all’altro dei modi verbali, e dunque a scelte di tipo morfologico, la soggettività del parlante può venire espressa con mezzi diversi: non più verbali, ma di tipo lessicale (cioè mediante particolari scelte di vocabolario). Questi altri mezzi, differenti dalla forma del verbo, sono: – avverbi: forse, certamente, davvero; – locuzioni avverbiali: a mio giudizio, senza dubbio; – locuzioni verbali: mi pare che, non è sicuro che, auguriamoci che, può darsi che ecc.; – i verbi servili potere e dovere, che, in certe circostanze, possono assumere valore suppositivo e potenziale: Piero dev’essere uscito = È probabile che sia uscito. Nella lingua parlata la soggettività del parlante si manifesta in modi anche ulteriori: per esempio mediante una certa intonazione della voce, che la lingua scritta può rappresentare solo molto parzialmente, mediante il punto interrogativo, quello esclamativo, i puntini di sospensione; oppure attraverso gesti, sguardi ecc.

Il concetto di modalità e le sue applicazioni Fu il linguista svizzero Charles Bally (1865-1947) a distinguere i modi verbali dalla modalità: quest’ultima è la soggettività del parlante, il suo atteggiamento riguardo alla frase che egli stesso produce. • Se chi comunica vuole esprimere realtà, può usare il modo verbale dell’indicativo (Parlerà) oppu-

Nelle lingue romanze si ritrovano quattro modi: indicativo, congiuntivo, condizionale, imperativo. Lo spagnolo presenta una particolarità, in quanto possiede un futuro del congiuntivo. Il greco antico conosceva l’indicativo, il con-

lavoriamo su

LE NORME E L’USO

1 Attribusci a ciascuna espressione la modalità che le è propria. a b c d e f

Vieni subito! Mi passeresti il sale? Poter dormire tutto il giorno! Chissà se verrà. Vedessi che meraviglia! Oggi partiamo.

1. 2. 3. 4. 5. 6.

desiderio realtà dubbio comando stupore richiesta

2 A partire dall’infinito del verbo chiedere, crea delle frasi in cui esprimerai la modalità suggerita prima con mezzi verbali e poi con mezzi lessicali, come nell’esempio. Infinito: restare – modalità: ordine con mezzi verbali ➔ Resta qui! con mezzi lessicali ➔ È bene che resti qui.

a. chiedere – modalità: realtà con mezzi verbali ➔ ........................................................ b. chiedere – modalità: realtà con mezzi lessicali ➔ ..................................................... c. chiedere – modalità: ordine con mezzi verbali ➔ ....................................................... d. chiedere – modalità: ordine con mezzi lessicali ➔ ..................................................... e. chiedere – modalità: esclamazione con mezzi verbali ➔ ....................................................... f. chiedere – modalità: esclamazione con mezzi lessicali ➔ ..................................................... g. chiedere – modalità: domanda con mezzi verbali ➔ ....................................................... h. chiedere – modalità: domanda con mezzi lessicali ➔ .....................................................

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Monografia Raccordo

Contesto L’italiano e le altre lingue: un confronto su modi e modalità

giuntivo, l’ottativo e l’imperativo; l’ottativo (dal latino optare “desiderare”) serviva ad esprimere un augurio, un desiderio. Il latino non conosceva il condizionale e per dire la possibilità/probabilità usava il congiuntivo. Il tedesco conserva indicativo e imperativo e solo qualche residuo del congiuntivo. In inglese i modi morfologici sono pressoché scomparsi: l’imperativo semplice ha le medesime forme dell’indicativo; il congiuntivo si è conservato solo nel verbo to be “essere” (per esempio, if I were “se io fossi”). Proseguiamo il confronto spostandoci dal modo alla modalità. Per esempio, l’interrogazione è rappresentata in italiano quasi solo dall’intonazione della voce: Maria è venuta? In altre lingue, invece, la modalità della domanda può avvalersi di fattori ulteriori, come: – l’uso di una particella interrogativa: per esempio in latino Marius venitne? “È venuto Mario?”; – l’ordine delle parole: per esempio in tedesco Kommt er? “Viene [egli]?”; – l’uso dell’ausiliare: per esempio in inglese Does he come? “Viene [egli]?”.

EDUCAZIONE LINGUISTICA

re una locuzione esprimente certezza (Ero sicuro che avrebbe parlato). • Se chi comunica vuole impartire un ordine, può usare il modo verbale dell’imperativo (Parla!) oppure una locuzione esprimente comando (Ti ordino di parlare). • Se chi comunica vuole esprimere un commento in forma di esclamazione, può scegliere tra il modo verbale dell’infinito (Parlare, lei?) o una locuzione o enunciato di giudizio (Sono stupito che proprio lei parli; oppure: Non vorrei proprio che lei parlasse; e simili). • Se chi comunica vuole esprimere domanda, può usare la forma interrogativa dell’indicativo (Parlerà?) oppure una frase esprimente dubbio (Mi chiedo se parlerà).

Questione di scelte LE NORME E L’USO (e di regole)

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Scheda

Il periodo ipotetico

Due proposizioni in stretta correlazione

EDUCAZIONE LINGUISTICA

Il periodo ipotetico è una delle strutture più complesse della sintassi. È formato da due proposizioni, in stretta correlazione tra loro anche per i loro modi e tempi verbali. Delle due proposizioni, una esprime la condizione necessaria perché si avveri quanto viene espresso dall’altra; per esempio: Se piove, il campo si fa pesante; Risponderò, qualora mi scrivesse. La proposizione che esprime la condizione è la subordinata, chiamata condizionale oppure pròtasi (in greco prótasis, “premessa”); la conseguenza viene dichiarata nella reggente o apòdosi (in greco apódosis, “conseguenza”). subordinata condizionale

proposizione reggente

Se stai attento in classe,

risparmi tempo a casa.

pròtasi

apòdosi PERIODO IPOTETICO

La protasi, le sue congiunzioni, i suoi modi verbali La congiunzione più comune per introdurre la protasi è se, ma si possono usare anche altre congiunzioni (qualora, purché) o locuzioni (a patto che, posto che, nel caso che, nell’eventualità che ecc.). C’è però una differenza di uso: infatti le congiunzioni diverse da se e le locuzioni vogliono dopo di sé, nella protasi, soltanto il congiuntivo; invece il se può reggere sia il congiuntivo sia l’indicativo. La differenza è motivata dal fatto che il se può esprimere una condizione ritenuta probabile o certa (e in questo caso regge l’indicativo: Se non piove, vengo a trovarti), laddove le altre congiunzioni o locuzioni possono esprimere, invece, un’ipotesi presentata come possibile o irreale (ipotesi possibile: Qualora ci fossi anche tu, sarei molto contento; ipote580

si irreale: Purché tu rimanga a cena, ti farò una torta buonissima). Anche il se, ovviamente, può esprimere un’ipotesi soltanto possibile o irreale e in questo caso regge anch’esso il modo congiuntivo: Se fossi stato più attento, te la saresti cavata senza danno; Viaggerei molto, se conoscessi le lingue.

L’apodosi o reggente Dalla natura dell’ipotesi o condizione, dipende il modo verbale dell’apodosi o reggente. L’apodosi vuole il modo indicativo (oppure l’imperativo o il congiuntivo esortativo, che è anch’esso un modo indipendente) nel caso in cui la condizione sia presentata dalla protasi come realistica: Se alzi la voce, riesco a sentirti. Altrimenti, se nella protasi l’ipotesi è presentata come improbabile o addirittura irrealistica, allora l’apodosi vuole il condizionale: Se alzassi la voce, riuscirei a sentirti; Se fossimo stati presenti, ce ne saremmo accorti.

Tre tipi di periodo ipotetico Le grammatiche distinguono tre tipi di periodo ipotetico: della realtà, della possibilità e dell’irrealtà. • Nel primo caso (realtà) l’ipotesi è ritenuta probabile o certa; qui protasi e apodosi vogliono entrambe, come detto, l’indicativo: Se stai attento in classe, risparmi tempo a casa. • Nel secondo caso (possibilità/improbabilità) l’ipotesi è presentata come solo possibile: la protasi vuole sempre il congiuntivo imperfetto (Se fossi un amico), mentre l’apodosi richiede il condizionale presente (ti comporteresti meglio). • Nel terzo caso (irrealtà) l’ipotesi è posta come irrealistica. Qui la protasi vuole il congiuntivo imperfetto per una condizione nel presente (Viagge-

Il periodo ipotetico dipendente Abbiamo finora esaminato il caso del periodo ipotetico indipendente: Mario verrà da noi, se viene il sole. Ma esiste un caso più complesso, quello in cui l’apodosi è, a propria volta, una proposizione subordinata, cioè retta da un’altra proposizione. In questo caso, i tempi e i modi dell’apodosi possono variare, secondo questo schema: • realtà:

So bene che Mario verrà da noi, se viene il sole; • possibilità: So bene che Mario verrebbe da noi, se venisse il sole; • irrealtà: So bene [nel presente] / Sapevo bene [nel passato] che Mario sarebbe venuto da noi, se fosse venuto il sole.

lavoriamo su

Quando la protasi è implicita La protasi, o proposizione condizionale, si può anche presentare in forma implicita, cioè all’infinito, o al participio, o al gerundio. Quando è all’infinito, questo è introdotto dalla preposizione a: A sentire Miriam (= se le credessimo), potremmo stare tranquilli; altrimenti la protasi si presenta espressa con il gerundio presente o il participio passato semplici (cioè senza preposizioni): Mangiando [=Se mangiate] in questo modo, vi scoppierà la pancia; Ben allenato [= Se si allenerà bene], potrà vincere la gara.

Mai il se con il condizionale Un’avvertenza. La congiunzione se, quando introduce una proposizione condizionale, regge sempre l’indicativo o il congiuntivo, mai il condizionale. È un grave errore dire: Se dormirebbe di più, starebbe meglio in luogo della forma corretta: Se dormisse di più, starebbe meglio. Il condizionale, infatti, si accompagna a se solo nelle interrogative indirette: Mi chiedo se non sarebbe stato meglio disobbedire.

LE NORME E L’USO

1 Trasforma questi periodi ipotetici della realtà, come nell’esempio. Se mi viene fame ti avviso. improbabilità ➔ Se mi venisse fame, ti avviserei. irrealtà ➔ Se mi fosse venuta fame, ti avrei avvisato. a. Ti consiglio di fermarti a metà strada se trovi code o nebbia. improbabilità ➔ ................................................................ irrealtà ➔ .......................................................................... b. Se mi dici chi ha suonato al citofono, ti sono grato. improbabilità ➔ ................................................................ irrealtà ➔ ..........................................................................

c. Se per domenica sarò guarito, partiremo per il mare. improbabilità ➔ ................................................................ irrealtà ➔ .......................................................................... d. Se verrete da noi, vi accoglieremo con gioia. improbabilità ➔ ................................................................ irrealtà ➔ .......................................................................... e. Se il viaggio non è troppo faticoso, è un lusso inutile prendere l’aereo. improbabilità ➔ ................................................................ irrealtà ➔ .......................................................................... f. Se mi porti la tua collezione, posso stimare quanto vale. improbabilità ➔ ................................................................ irrealtà ➔ ..........................................................................

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EDUCAZIONE LINGUISTICA

rei molto, se conoscessi le lingue), trapassato per una condizione nel passato (Se fossi stato più attento, te la saresti cavata). Parallelamente, l’apodosi richiede il condizionale presente se la condizione è posta come attuale (Viaggerei molto, se conoscessi le lingue), il condizionale passato se riguarda il passato (Se fossi stato più attento, te la saresti cavata).

Monografia Tra Ottocento e Novecento

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello

1 La formazione e gli esordi letterari Nato ad Agrigento (all’epoca chiamata Girgenti), in Sicilia, nel giugno 1867, Pirandello trascorre un’infanzia agiata; riceve una prima istruzione in casa, poi si iscrive al ginnasio. Fin da ragazzo si appassiona al tradizionale teatro dei pupi siciliani e scrive alcune tragedie, ma esordisce in campo letterario, nel 1889, con i versi raccolti in Mal giocondo (un titolo già rivelatore della sua visione paradossale e «umoristica» della vita). Nel 1891 si laurea in filologia romanza a Bonn, in Germania, con una tesi in tedesco sull’amato dialetto siciliano; l’anno successivo si trasferisce a Roma, dove può vivere grazie al sostegno economico del padre, proprietario di zolfare in Sicilia. Nella capitale frequenta scrittori siciliani come Luigi Capuana, Ugo Ojetti e altri. Nel 1893 scrive il primo romanzo, L’esclusa, pubblicato nel 1901.

2 La malattia della moglie, l’insegnamento, i primi successi Nel 1894 sposa la conterranea Antonietta Portulano; dal matrimonio nasceranno tre figli: Lietta, Stefano e Fausto. Un dissesto economico, provocato dall’allagamento della grande zolfara paterna presso Aragona, sconvolge l’equilibrio familiare: la moglie è afflitta da un grave scompenso psichico, destinato a divenire, con il tempo, vera follia (E scheda a p. 638), e Pirandello deve iniziare a lavorare per vivere. Collabora alle riviste letterarie dell’epoca; dal 1897 al 1922 si dedica all’insegnamento – che, dice, «gli pesa enormemente» – presso l’Istituto Superiore di Magistero Femminile di Roma. Nel 1904 Pirandello ottiene un discreto successo con il romanzo Il fu Mattia Pascal, tanto che dal 1909 inizia a collaborare alla prestigiosa terza pagina del «Corriere della Sera», dove pubblica numerose novelle. Intanto, su invito dell’amico siciliano Nino Martoglio, comincia a scrivere testi per il teatro: nel 1910 vanno in scena a Roma i suoi primi atti unici, La morsa e Lumìe di Sicilia.

3 Il teatro, l’adesione al fascismo, la fama internazionale Come drammaturgo Pirandello raggiunge la notorietà solo nel 1923, grazie al grande successo, a Parigi, dei drammi Sei personaggi in cerca d’autore (del 1921) ed Enrico IV (del 1921). Il suo nome si impone nel panorama culturale e letterario dell’epoca per merito soprattutto del pubblico teatrale; fino ad allora, infatti, la critica si era mostrata assai fredda verso la sua arte così rivoluzionaria. Nel 1924 Pirandello s’iscrive al Partito nazionale fascista, proprio mentre il caso Matteotti fa vacillare il regime. Ma i rapporti tra Pirandello e il fascismo si raffreddano ben presto: la visione paradossale e «relativistica» dello scrittore mal si concilia con l’ideologia del partito unico. Nel 1925 conosce Marta Abba, che diverrà la sua ispiratrice e la primattrice del Teatro d’Arte (o degli Odescalchi), il teatro fondato e diretto da Pirandello con il sussidio dello stato. Assieme alla compagnia viaggia in lunghe tournée in Europa e in Sudamerica. Nel 1925-26 esce l’ultimo romanzo, Uno, nessuno e centomila, sintesi del suo «relativismo». Nel 1929 riceve la prestigiosa nomina ad Accademico d’Italia. Ha ormai raggiunto una fama internazionale: nel 1932 si gira a Hollywood il film As You Desire Me, tratto dal suo dramma Come tu mi vuoi, di cui sono interpreti Greta Garbo, Erich von Stroheim e Melvyn Douglas; nel 1934 vince il premio Nobel per la letteratura. Pirandello muore nel dicembre 1936: lascia scritto di volere un funerale umile e povero, in netto contrasto con la volontà del regime di celebrare solenni esequie di stato. Le sue ceneri vengono quindi trasferite ad Agrigento, presso la casa natale, sulla collina detta «Caos». 583

Monografia Raccordo

Contesto

La vita

Tra Ottocento e Novecento

Le idee e la poetica: relativismo e umorismo 1 La crisi storica e culturale e la «relatività» di ogni cosa Pirandello, nato nel 1867, si formò in una fase segnata da una duplice crisi: • da una parte, la crisi storica e sociale dell’Italia postrisorgimentale; • dall’altra, la crisi della cultura positivistica, corrispondente alla caduta dei valori e delle certezze acquisite. La crisi storica e sociale era particolarmente avvertita nel Mezzogiorno d’Italia e in Sicilia; già Verga l’aveva rappresentata nei romanzi e nelle novelle. Sui temi della prepotenza dello stato centralistico e del tradimento di ogni vera prospettiva unitaria e nazionale, Pirandello darà un vasto e pessimistico affresco, nel 1909, con I vecchi e i giovani, il suo «romanzo storico». Ma ancora più grave è l’altra crisi. Il crollo dei miti della ragione, della scienza, del progresso, che si esprime nella contemporanea cultura del Decadentismo, trova nell’opera di Pirandello una delle sue più importanti espressioni: l’uomo non è più in grado di conoscere e di padroneggiare il mondo esterno e, soprattutto, non conosce più se stesso e non «si appartiene» più. Da queste riflessioni deriva il relativismo di Pirandello. Già in un saggio giovanile, Arte e coscienza d’oggi, risalente al 1893, Pirandello denunciava profeticamente la «relatività» di ogni cosa: «Nei cervelli e nelle coscienze regna una straordinaria confusione. [...] Crollate le vecchie norme, non ancora sorte o bene stabilite le nuove; è naturale che il concetto della relatività d’ogni cosa si sia talmente allargato in noi [...]. Non mai, credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata». La condizione «copernicana». Un simbolo del «relativo», secondo Pirandello, è Copernico, il primo a vedere nel XVI secolo che è la Terra a girare intorno al Sole, e non viceversa: un mutamento epocale, che incrinò molte certezze. Perciò: «Maledetto sia Copernico!», dirà Mattia Pascal nel romanzo di cui è protagonista (1904). Il suo ospite romano, Anselmo Paleari, troverà una metafora straordinaria per esprimere la condizione «copernicana» dell’umanità di oggi (siamo nel XII capitolo del Fu Mattia Pascal): un tempo, dice Paleari, sui teatrini di marionette si stendeva un bel cielo di carta (metafora del mondo), e da lì il burattinaio (metafora di Dio) guidava le sue marionette; ma ora si è prodotto «uno strappo nel cielo di carta del teatrino», e nulla è più in ordine, ben regolato.

2 La personalità molteplice La crisi generale si accompagna poi alla crisi dell’individuo: l’opera di Pirandello, che a differenza di Svevo non lesse direttamente Freud, è piena di richiami al mondo dell’inconscio, al sogno, alla follia. Egli lesse infatti già nell’originale francese Le alterazioni della personalità (1892), un libro dello psicologo Alfred Binet (1857-1911), precursore di Freud e della psicoanalisi. Da Binet lo scrittore siciliano apprese l’idea che la personalità degli uomini non è una, ma molteplice: cambia, cioè, a seconda delle situazioni e delle convenienze. Questo spunto, lungamente meditato e rielaborato, suggerì a Pirandello l’idea che noi non siamo sempre uguali a noi stessi: cambiamo, fino al punto di non riconoscerci più e diventare altro da noi stessi. Nasce da qui uno dei più caratteristici temi pirandelliani, la follia. Essa scoppia nel momento in cui i personaggi si scoprono contemporaneamente «uno e due», come lo Stefano Giogli protagonista della novella omonima (1909); si scoprono «uno, nessuno e centomila», come Vitangelo Moscarda, protagonista dell’omonimo romanzo del 1925-26. Lo sdoppiamento, la dissociazione interiore non può non generare un’angoscia profonda, che si traduce appunto, all’esterno, in follia. 584

Accanto a Binet, un’altra fonte decisiva, per Pirandello, fu il Saggio sul genio nell’arte (1884) del filosofo francese Gabriel Séailles (1852-1922). In quest’opera Pirandello trovò un’importante suggestione: noi non percepiamo le cose per come esse sono, ma le apprendiamo soggettivamente, per come ci appaiono, a seconda della nostra educazione, della nostra mentalità e della situazione in cui ci troviamo. La vita ci si mostra in base a quello che Pirandello definirà il nostro «sentimento della vita». Così egli scriverà nel saggio L’umorismo: «Noi non abbiamo della vita un’idea, una nozione: abbiamo un sentimento, mutabile e vario, a seconda dei casi e della fortuna». Infine, dal libro Le finzioni dell’anima (1905) del pedagogista italiano Giovanni Marchesini (18681931) ricavò l’idea che non esistono valori morali certi: l’idea del bene, il dovere e gli altri valori sono semplici «credenze», che Pirandello chiamerà «forme». Si tratta di ideali astratti, di convenzioni prive di sostanza: poiché si oppongono al «flusso della vita», bloccano la libera esplicazione delle nostre energie vitali. Tale contrasto fra «vita» e «forma» è uno dei grandi temi pirandelliani.

4 La poetica dell’Umorismo Quelle che abbiamo esposto sono le idee che Pirandello recepì da molteplici fonti e che rielaborò nel suo personale relativismo. La traduzione letteraria del relativismo fu l’umorismo, come Pirandello stesso volle battezzare la propria poetica nel più importante fra i suoi saggi teorici, L’umorismo (1908, E p. 593). In esso l’autore esamina l’arte «umoristica» che rese grandi alcuni autori del passato, come Ariosto, Cervantes, Manzoni; ma in realtà vuole parlare soprattutto di sé e della propria arte. Secondo Pirandello, l’umorismo «consiste nel sentimento del contrario, provocato dalla speciale attività della riflessione che non si cela». La prerogativa dell’umorista è appunto vedere il «contrario» di tutte le cose (cioè il loro lato nascosto): nascono di qui i tanti casi paradossali, le stranezze, le situazioni abnormi tipiche delle pagine pirandelliane. Eppure l’umorista non è lieto di una simile capacità; come le antiche statue («erme») a due facce, anch’egli «è [...] un’erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta». Chiarisce Pirandello: «Vi prego di credere che non può esser lieta la condizione d’un uomo che si trovi ad esser quasi sempre fuori di chiave, a essere a un tempo violino e contrabbasso; d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione ch’egli abbia di dir sì, subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringano a dir no, immediatamente dopo; e tra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta la vita». La s-ragione pirandelliana. L’umorismo di Pirandello attribuisce un ruolo di primo piano alla ragione e, in effetti, i suoi personaggi discutono, distinguono, spiegano, «ragionano» con accanimento. Tuttavia, le loro vicende dimostrano che è impossibile una qualsiasi conclusione razionale, una sintesi, visto che la vita stessa, a parere di Pirandello, «non conclude». Egli, dunque, non ha alcuna fiducia nella ragione, e se la usa è per dimostrare che essa non conduce da nessuna parte. È un tema profondamente novecentesco, in quanto antipositivistico, cioè contro ogni progresso derivato dall’uso della ragione. Ragionare significa, per Pirandello, «sragionare»; perciò, nell’Umorismo, la logica viene definita una «macchinetta infernale», un diabolico meccanismo, che nega e capovolge la fiducia ottocentesca nella scienza e nel progresso. Il pensiero razionale, in Pirandello, si sovverte nel suo esatto contrario: conduce non a vivere, ma a non vivere. È il trionfo dell’irrazionalismo.

5 I temi dell’umorismo: il «contrario», l’«ombra», l’«oltre» L’arte che nasce da tale concezione, cioè l’arte umoristica, non potrà che essere assai diversa da quella a cui siamo abituati: sarà un’arte paradossale, che rivela il «contrario», l’«ombra», l’«oltre» (tutte parole chiave per Pirandello). Il «contrario» è ciò che la riflessione umoristica scopre: la realtà non è mai pacifica e «neutra» come potrebbe sembrare. L’«ombra» è il lato nascosto delle cose, e solo l’umorista può vederlo; essa rappresenta anche l’«altro» me stesso, l’«io» segreto che affiora in certi momenti di «vuoto» interiore. Si tratta di una concezione molto simile a quella di inconscio (freudiano). Infine, l’«oltre»: un mondo (a cui l’umorista aspira) fatto di sincerità e autenticità, attingibile forse nella condizione dell’infanzia o in una vita più naturale; ma è una sfera lontanissima dalla vita quotidiana, che è invece governata dalle apparenze e dalle regole sociali, che Pirandello chiama «forme». 585

Monografia Raccordo

3 Il «sentimento della vita» e le «forme» che ci ingabbiano

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

SINTESI VISIVA

La poetica pirandelliana crisi storica e culturale di fine Ottocento

RELATIVISMO

= visione della vita di Pirandello

la VERITÀ assente o inconoscibile

estrema debolezza dell’IO ◗ personalità molteplice (Binet)

◗ non esistono certezze morali (Marchesini)

◗ percezione soggettiva (Séailles)

UMORISMO

= poetica letteraria MA: ragionare = s-ragionare

= i paradossi, l’«oltre», l’«ombra», l’«altro»

MEZZO: attivare la ragione , che coglie il «contrario» di ogni cosa

ESITO: l’umorista ride e insieme piange

= è un’«erma bifronte»



“ ARTE scomposta, slegata

debolezza dell’AUTORE

REALISMO: la vita così com’è

personaggio senza autore

Secondo Pirandello, noi tutti finiamo per accettare queste «forme» e indossiamo la nostra «maschera» di rispettabilità. Ebbene, l’umorista rivela queste falsità, strappa la «maschera» dal viso – suo e di tutti – e rivela ciò che essa nasconde: il «contrario», l’«ombra», l’«oltre». Per lui, che ha osato tanto, non potranno esserci che un destino di esclusione dalla vita sociale e l’accusa di pazzia. Ma Pirandello sospetta che, in fin dei conti, ad avere ragione siano proprio i pazzi, o meglio, i saggi-folli (e umoristi) come Mattia Pascal o come Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila.

6 La rivoluzione di autore e personaggio Anche l’autore-umorista non può che essere il «contrario» degli autori della tradizione: invece di ragionare, sragiona; invece di mettere se stesso al centro dell’opera, come il poeta-genio del Romanticismo, si emargina; invece di comporre opere «belle», lascia che nelle sue pagine emerga la relatività di ogni cosa, e che ciò avvenga nella forma più adeguata, cioè caotica e «scomposta». È così che la nuova arte umoristica rivela le molteplici, confuse apparenze dell’esistere. Il traguardo di quest’arte è il trionfo del caos: Pirandello stesso si definiva «figlio del Caos», ricordando di essere nato in una campagna che gli abitanti di Agrigento chiamavano Càvusu, «Caos». Il «personaggio senza autore». Caos della vita, caos dell’arte. Questa concezione trova espressione nella nuovissima poetica del personaggio senza autore (E scheda a p. 613). In una novella del 586

L’itinerario di uno scrittore sperimentale 1 Le raccolte di versi: una poesia in prosa Pirandello è un autore ricco di opere e di problemi, «sperimentale» perché portato per natura ad attraversare – e rivoluzionare – un po’ tutti i generi e le forme della tradizione. I tre generi in cui ha lasciato l’impronta più profonda sono la novella, il romanzo e il teatro. Esordì però come poeta in versi: dopo Mal giocondo, del 1889, il cui titolo era già sottilmente «umoristico», pubblicò altri quattro libri poetici; l’ultimo fu Fuori di chiave (1912), un altro titolo squisitamente «pirandelliano». Nei versi di quel libro, la «stonatura» si esprimeva in un’originale forma di poesia dall’andamento prosastico, che rovesciava i luoghi comuni e cantava la dissonanza, il paradosso, la «disarmonia».

2 La ricca produzione novellistica Nell’arco di tutta la sua vita Pirandello coltivò il genere del racconto breve, o novella, fino a concepire il disegno, rimasto incompiuto, di comporre un corpus di racconti che proponesse una novella per ogni giorno dell’anno (Novelle per un anno). Scrisse ben 246 racconti, molti dei quali cominciano con un fatto imprevedibile, che sconvolge abitudini e aspettative: sono accidenti banali e quotidiani (un filo d’erba strappato, il fischio di un treno, il posarsi di una mosca, una fotografia), ma che suscitano all’improvviso nel personaggio un forte disagio. A questo punto si mette in moto in lui un processo faticoso ma salutare, al termine del quale il protagonista è in grado di vedere meglio se stesso e il mondo. Infine, di solito, egli acquisisce piena consapevolezza dell’assurdità della vita. Neppure il narratore può fornire spiegazioni per quanto accade: sembra sorpreso anche lui come i suoi lettori, perciò narra «di sbieco», con uno stile antirealistico che diviene l’immagine eloquente del caos del mondo. 587

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1906, Personaggi, Pirandello immagina un autore che dà udienza ai suoi personaggi: si presenta davanti a lui un certo Leandro Scoto, che gli chiede di essere fatto vivere in un’opera d’arte. L’autore non accetta, eppure il dottor Scoto è vivo e reale, di fronte a lui! Il tema, del tutto originale, dei personaggi nati senza l’intervento dell’autore e che si recano a fargli visita ritornerà in altre novelle (E La tragedia di un personaggio, del 1911; E Testo 4, p. 607); Colloqui coi personaggi, del 1915); diventerà il nucleo centrale di Sei personaggi in cerca d’autore, il famoso dramma del 1921. Già Verga aveva parlato di un’opera che «sembrerà essersi fatta da sé»; ma solo «sembrerà». Invece Pirandello teorizza un’arte che non solo sembra, ma è autonoma dal suo autore: l’opera nasce senza l’intervento dell’autore, addirittura fuori dalla sua volontà, contro l’autore stesso. L’autore infatti non vorrebbe dare spazio a quelle creature della fantasia che si sono impossessate di lui; non vorrebbe, ma alla fine i fantasmi della mente gli prendono la mano ed egli è costretto a lasciare che si aggirino, liberi, per il mondo o per il palcoscenico. Il teatro giunse per Pirandello quale approdo naturale di questa idea di spossessamento dell’autore: risultato di una poetica nuova e sperimentale, vicina alla «riduzione» della letteratura elaborata da Svevo (E p. 509) in quegli stessi anni.

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

Dalle novelle al teatro. Va sottolineata la stretta parentela che corre tra la novellistica e il teatro di Pirandello. Dei 44 lavori che compongono la sua produzione teatrale, ben 30 derivano da novelle (da una sola o da più di una). Pirandello è uno scrittore «circolare» (J.M. Gardair), che ritorna costantemente su di sé, come per un bisogno di approfondire la realtà sempre mutevole e sfuggente: le vicende tendono a sovrapporsi e a intrecciarsi, molte novelle diventano drammi, spunti drammatici sono sviluppati in percorsi narrativi, nomi e figure rivivono a distanza di anni, personaggi si ripropongono in lievi ma continue variazioni d’intreccio, e tutto ciò non fa che riproporre l’enigmatico, inafferrabile divenire della vita.

3 La varietà dei sette romanzi Pirandello scrisse sette romanzi, molto difformi per ampiezza e per struttura: • L’esclusa (pubblicato nel 1901, ma risalente, in realtà, al 1893): una storia di adulterio e di emarginazione, nel contesto siciliano; • Il turno (1902), un «imbroglio di provincia» ambientato ancora in Sicilia e imperniato sul tema del rapporto coniugale come pura «forma» esteriore; • Il fu Mattia Pascal (1904), indubbiamente il capolavoro del Pirandello romanziere, sintesi della poetica «umoristica» elaborata dall’autore; • I vecchi e i giovani (1909), vasto affresco generazionale sulla crisi che aveva investito il Mezzogiorno e l’Italia postunitaria; • Suo marito (1911; poi ribattezzato Giustino Roncella nato Boggiòlo), che si svolge negli ambienti pseudointellettuali di Roma in cui agiscono una scrittrice famosa e il suo sprovveduto marito; Testi • “W la macchina che • Si gira... (1915; la seconda edizione, col nuovo titolo di Quaderni di Serafino Gubbio operameccanizza la vita!” tore, è del 1925), primo romanzo europeo ambientato nel mondo del cinema; (Quaderni di Serafino • Uno, nessuno e centomila (1925-26), il romanzo della scomposizione della personalità e Gubbio operatore, Quaderno 1, capp. 1 e 2) del relativismo. Ciò che differenzia tra loro i romanzi citati è soprattutto il ruolo che, in essi, viene attribuito ai «fatti». • L’intreccio svolge una funzione centrale sia nell’Esclusa e nel Turno (imperniati su squallide storie di provincia siciliana e vicini alla tecnica del racconto verista), sia in I vecchi e i giovani, opera d’interesse politico e sociale. Cambia anche lo sviluppo di questo intreccio: infatti mentre Il turno è un romanzo breve (o racconto lungo), I vecchi e i giovani sembra riprendere le vaste narrazioni del romanzo naturalista dell’Ottocento, alla maniera di Verga e De Roberto. • Invece opere come Si gira... o come Uno, nessuno e centomila adottano una modernissima struttura a diario, in cui le vicende prendono vita nel soliloquio del personaggio-narratore, che ricorda, narra, commenta. E così in questi romanzi (ma già, nettamente, nel Fu Mattia Pascal) assistiamo a una sorta di «dissoluzione» dei fatti in nome del primato della «coscienza» – o meglio, dell’inconscio. Si tratta di strutture narrative tipicamente novecentesche, che avvicinano Pirandello a Svevo e agli altri grandi narratori europei del primo Novecento, come Thomas Mann, Franz Kafka, Robert Musil.

4 L’antiromanzo: l’esplosione dei «veri» e lo stile assente Al di là di queste differenze, i romanzi di Pirandello si caratterizzano per alcuni elementi comuni. • In primo luogo, in tutti ritroviamo una costante predisposizione alla riflessione, alla meditazione filosofica o parafilosofica: in realtà, non c’è filosofia autentica, perché per Pirandello, lo abbiamo già detto, quanto più si ragiona tanto più ci si allontana dalla verità. Se però la ragione non sa stabilire che cosa è vero, può almeno scoperchiare le false certezze, denunciando le illusioni di cui ci ammantiamo. • In secondo luogo, Pirandello racconta la vita così com’è, non un’esistenza artificiale o sublimata. In ciò si riallaccia al «vero» di Manzoni o Verga; la differenza è che per Manzoni, e anche per i veristi, il vero c’è e si può mostrare: per Manzoni il vero era Dio, per il Naturalismo veri erano i «fatti» scientificamente documentabili. Invece in Pirandello il vero si amplia a dismisura, fino a comprendere la realtà e il sogno, la ragione e la follia, l’immersione nella natura e il paradosso. Alla fine nulla più sembra vero, e questo lascia al lettore dei suoi romanzi l’impressione di trovarsi di fronte a enormi macchine di ragionamento, che però non servono a nulla e finiscono per confondere ogni idea. 588

◗ ◗ ◗ ◗

romanzi d’intreccio

romanzi dell’io in primo piano

L’esclusa, 1893-1901 Il turno, 1902 I vecchi e i giovani, 1909 Suo marito, 1911



eredità del Verismo



Pirandello e il romanzo autobiografismo, primato della coscienza

◗ Il fu Mattia Pascal, 1904 ◗ Si gira..., 1915 ◗ Uno, nessuno e centomila, 1925-26

◗ disposizione al ragionamento o, meglio, allo s-ragionamento ◗ ampliamento del «vero» fino al paradosso, al sogno, alla follia ◗ linguaggio medio, stile anonimo e assente



ANTIROMANZO

5 Il teatro delle «maschere nude» Pirandello fu uno sperimentatore, e di grande portata, anche nella scrittura teatrale e nella sua opera di regista e allestitore, che svolse soprattutto in qualità di direttore del Teatro d’Arte di Roma, negli anni 1925-28. Lo entusiasmava la possibilità di far immedesimare gli attori nel loro personaggio (una tematica vicina al famoso «metodo» di recitazione elaborato dal regista russo K. Stanislavskij, morto nel 1938, che chiedeva ai propri attori di «vivere» con la massima immediatezza la loro parte). Raccolto sotto il titolo complessivo di Maschere nude, il teatro di Pirandello rappresenta il coronamento di un’attività letteraria che da sempre, in fondo, puntava all’espressione teatrale. Nelle novelle e nei romanzi è infatti frequentissimo il tema della «maschera» come espressione della falsità delle «forme» che ingabbiano la «vita». Inoltre quelle pagine narrative manifestano l’evidente attitudine di Pirandello alla scrittura teatralizzata; sembrano orchestrate in una sorta di presceneggiatura, con didascalie, entrate e uscite, colpi di scena, battute di dialogo. Il teatro dunque divenne per lui, dal 1910 in avanti, il modo più diretto per rappresentare il relativizzarsi delle certezze, la dispersione della co589

Monografia Raccordo

Perciò la critica parla di antiromanzi, diversissimi dai romanzi ottocenteschi tradizionali. Pirandello realizza in essi quel «libero spontaneo movimento della forma» a suo tempo teorizzato nell’Umorismo. Ironia, paradosso, dissacrazione per il culto borghese delle «forme»: i romanzi pirandelliani rovesciano le strutture della narrativa tradizionale, per isolare i temi della solitudine, del dolore, dell’«esclusione» (dal titolo del primo romanzo, L’esclusa). Su tutto si sofferma lo sguardo, amaro e umanissimo, dell’autore-umorista. I romanzi di Pirandello si differenziano dai «libri» della tradizione anche dal punto di vista dello stile. L’autore siciliano mette infatti sulla pagina un linguaggio monocorde, dialoghi «parlati», parole quotidiane. Siamo davanti a un linguaggio «medio», a una sorta di stile anonimo, per non dire assente: uno stile che conserva le interiezioni e gli intercalari del parlato, le segmentazioni e le pause di un’espressione che può procedere solo a tentoni, per strappi successivi. D’altra parte, sembra suggerire Pirandello, di fronte a un mondo in frantumi è impossibile un parlare «bello». L’unica forma possibile sarà l’analisi, che prende il posto della sintesi; il caos dell’«opera aperta» subentra alle forme classicamente composte dell’opera chiusa di un tempo.

Contesto

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Tra Ottocento e Novecento

scienza, il precipitare di un mondo in rovina. I personaggi del teatro pirandelliano (possidenti siciliani oppure professori di liceo, impiegati di ministero, burocrati e gentildonne della media borghesia, ufficiali e attrici) aspirano a verità e pienezza di vita; ma devono sopportare l’insostenibile peso di una «maschera» che li schiaccia. Le convenzioni sociali li obbligano ad assumere ruoli e identità innaturali, ad accettare umilianti compromessi con la propria coscienza. Vivono «così», senza consapevolezza, fino a quando un qualche evento, anche piccolo o di nessuna importanza, non spalanca loro la visione della «vita nuda» che pulsa dietro l’illusorio schermo della finzione. Ma anche allora, come uscirne? La funzione di questi personaggi è testimoniare il dramma della «persona» che vive dietro la «maschera» del personaggio; denunciare l’intollerabilità del «giuoco delle parti», senza potersene staccare. La sfida di Pirandello è questa: far indossare ai personaggi la maschera del burattino (pupo) per testimoniarne la falsità. «Pupi siamo, caro signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti [...]. Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede d’essere. E allora cominciano le liti! Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori» (Il berretto a sonagli, 1917).

6 Il percorso del teatro pirandelliano I primi lavori teatrali di Pirandello messi in scena, nel dicembre 1910, sono due atti unici: Lumìe di Sicilia (in dialetto siciliano) e La morsa. Sono i primi di 44 testi teatrali, scritti prevalentemente nella forma del dramma in tre atti. C’è anche un esempio di dramma in versi: la Favola del figlio cambiato, del 1934, nucleo originario dei Giganti della montagna. Un primo gruppo omogeneo è quello delle commedie in dialetto siciliano, tutte del 1916-17: Liolà, storia di un dongiovanni di provincia, e poi Pensaci, Giacomino!, Il piacere dell’onestà e Il berretto a sonagli, grottesche e insieme dolenti parabole sull’onore, l’apparenza e la realtà. Da precedenti novelle derivano alcuni atti unici in siciliano, come La giara (1917) e La patente (1919). Alcuni testi teatrali di Pirandello sono divenuti veri e propri «classici» del teatro contemporaneo. Tra questi, Così è (se vi pare), del 1917, dove il dramma è già avvenuto e tutto risiede in un (inutile) dibattito per ristabilire una verità nascosta e assente: siamo di fronte a una perfetta parabola di «relativismo». Più umano e toccante il monologo dell’Uomo dal fiore in bocca (1923), il cui protagonista è un malato di cancro posto a confronto con la morte imminente. Ma il capolavoro del teatro italiano del Novecento rimane Sei personaggi in cerca d’autore (1921, E p. 641): qui, nella struttura nuovissima del «teatro nel teatro» (c’è in scena una compagnia di attori che sta provando un lavoro da mettere in scena), Pirandello raffigura la tragica esplosione dei conflitti familiari. La sperimentazione del teatro nel teatro ritorna anche in Questa sera si recita a soggetto (1930), dove un gruppo di attori propone al pubblico un dramma «da fare», elaborato lì per lì, senza copione scritto (cioè appunto «a soggetto»), dopo aver cacciato dal palcoscenico il suo invadente regista. Un capolavoro è anche la «tragedia» dell’Enrico IV (1922), che porta alla ribalta il tema dell’identità personale (o meglio, del suo sciogliersi), intrecciandolo con l’altro grande tema pirandelliano della follia. La struttura dell’Enrico IV e anche la sua ambientazione sembrano riportarci alle grandi tragedie classiche, ma con una differenza decisiva: l’antica tragedia era retta dalla legge della «catarsi», cioè della purificazione finale, ottenuta mediante la sofferenza; invece in Pirandello non c’è più alcuna certezza né purificazione per gli uomini. Ora il cielo appare «di carta», come leggiamo nel Fu Mattia Pascal: è un cielo vuoto, senza giustizia né destino. E la sofferenza del mondo esplode con forza ancora maggiore, perché ammantata dalle ridicole «pagliacciate» della vita moderna. L’ultimo grande dramma pirandelliano è l’incompiuto I giganti della montagna (1934, E p. 658): qui è il mito della poesia e dell’arte (e, in controluce, della follia come barriera e rifugio) a essere celebrato quale ultima, precaria difesa contro gli sconvolgimenti della storia e la violenza delle dittature.

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Luigi Pirandello

teatro nel teatro

◗ Sei personaggi in cerca d’autore (1921) ◗ Questa sera si recita a soggetto (1930)

tragedia della follia

◗ Enrico IV (1922)

mito dell’arte

◗ I giganti della montagna (1934)

“ “

◗ Così è (se vi pare) (1917)



dramma del relativismo

l’inganno delle forme di famiglia e l’impossibile rispettabilità



commedie in dialetto siciliano

◗ Liolà, Pensaci, Giacomino! (1916) ◗ Il piacere dell’onestà, Il berretto a sonagli (1917)

il peso della maschera, il soffocante «giuoco delle parti»

la verità assente o inafferrabile



atti unici (in italiano e in dialetto siciliano)

◗ Lumìe di Sicilia, La morsa (1910) ◗ La giara (1917) ◗ La patente (1919)

TEMI RICORRENTI

il teatro messo a nudo per rivelare la verità della vita



in tutto: 44 testi teatrali

esordio di Pirandello drammaturgo: Roma, 1910

l’intuizione della «vita nuda», oltre le «forme»



GENERI

l’arte pirandelliana tende naturalmente al teatro



in precedenti novelle e romanzi: ◗ tema della maschera ◗ gusto del dialogo ◗ colpi di scena



Il teatro pirandelliano

l’evasione nella natura e nella bellezza del teatro

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Monografia Raccordo

Contesto

SINTESI VISIVA

Sguardi sulla società Le inquietudini del presente in una visione di futuro: Metropolis di Fritz Lang ■ Due fotogrammi dal film Metropolis.

■ La locandina di Metropolis (1926).

La fantascienza come lettura della realtà La Repubblica di Weimar, proclamata in Germania nel 1919 alla fine del primo conflitto mondiale, si trovò ad affrontare una grave crisi economica e una difficile situazione sociale. Nonostante queste difficoltà rappresentò uno straordinario laboratorio di sperimentazioni in campo artistico e culturale. Uno degli interpreti della realtà tedesca di quell’epoca fu il regista austriaco Fritz Lang (1890-1976). Una delle sue migliori opere è Metropolis, un film muto ambientato in un immaginario futuro (cento anni dopo, nel 2026). «Metropolis» è la megalopoli in cui tutta la società è regolata da meccani592

Tutta la vicenda si svolge in un’atmosfera spettrale, che rende bene il senso dell’incubo che si sta preparando nella realtà: la crisi della Repubblica di Weimar si risolverà, per la Germania, nel modo peggiore. Il nazismo e la dittatura di Hitler sono alle porte e presto si concretizzerà l’incubo, anzi la tragedia, della Seconda guerra mondiale. Il film Metropolis costituì il modello di gran parte del successivo cinema di ■ Fotogramma dal film Blade Runner (1982). fantascienza. Ispirò infatti pellicole quali Blade Runner di Ridley Scott (1982) e smi immutabili e inesorabili sotto il doBrazil di Terry Gilliam (1985), anch’essi minio dello spietato Joh Fredersen. In ambientati in uno spaventoso futuro buquesto mondo del futuro, padroni e serrocratico e impersonale. vi vivono esistenze rigidamente separaAnche la visione del futuro di 1984, il te; i ricchi e i potenti abitano negli sfavilfamoso romanzo di George Orwell (1903lanti grattacieli, mentre nel cupo sotto50) è debitrice del film di Lang. suolo vivono gli operai e i diseredati.

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Contesto

L’UMORISMO

Sintesi teorica e carriera universitaria ◗ Quando Pirandello compose L’umorismo, nel 1908, aveva circa quarant’anni ed era uno scrittore abbastanza affermato, anche se poco noto al grande pubblico. Aveva alle spalle una produzione letteraria già piuttosto ricca e varia: saggi critici, raccolte di poesie, tre romanzi (L’esclusa, Il turno e Il fu Mattia Pascal), molte novelle. Erano però opere un po’ troppo innovative perché potessero subito incontrare il favore dei lettori e, soprattutto, dei critici. ◗ Perciò Pirandello decise di sintetizzare in un saggio teorico, L’umorismo appunto, la propria poetica. Alla base di questo lavoro c’era anche una ragione più pratica. Infatti Pirandello, che dal 1897 insegnava, con incarico annuale, lingua italiana, stilistica e precettistica all’Istituto Superiore di Magistero Femminile di Roma, desiderava passare di ruolo e ottenere la cattedra definitiva: la pubblicazione di un libro gli avrebbe garantito i titoli necessari. La prima edizione del saggio fu stampata nel 1908 dall’importante editore Carabba di Lanciano, e in quello stesso anno Pirandello ottenne, per concorso, la cattedra desiderata.

Un autoritratto ideale ◗ La destinazione universitaria del libro è ben visibile nella prima parte, dove l’autore riprende e sviluppa le lezioni da lui tenute presso l’Istituto. Assai più originale e interessante è la seconda parte dell’Umorismo, che non assomiglia quasi più per nulla a un saggio accademico, per la scrittura ironica, gli esempi presentati, l’argomentazione fantasiosa e letteraria. ◗ Ma che L’umorismo fosse un saggio speciale e fuori dagli schemi lo annunciava già la dedica sul frontespizio. Pirandello dedicava infatti l’opera a un personaggio di fantasia, cioè «Alla buon’anima di Mattia Pascal, bibliotecario». Non era una scelta casuale: Mattia Pascal, protagonista del romanzo uscito nel 1904, costituiva l’incarnazione perfetta della poetica umoristica. ◗ Nel complesso, con L’umorismo, oltre a ricapitolare e sintetizzare la propria poetica, Pirandello finiva per comporre una sorta di autobiografia intellettuale: una specie di autoritratto, che era sia sguardo sul proprio passato di scrittore, sia progettazione per il futuro.

I CONTENUTI E LA STRUTTURA ◗ L’umorismo è diviso in due parti. Nella prima, di sei capitoli, risalta la cultura di Pirandello, ottimo conoscitore della letteratura medievale e moderna, italiana ed europea, e critico perspicace e originale. Per esempio, nel capitolo iniziale, dal titolo La parola «Umorismo», l’autore esamina i molteplici modi con cui è stato utilizzato il termine «umorismo», con molte citazioni e riferimenti. Parte da autori antichi (Plauto, Cicerone), passa ai poeti medievali (Cecco Angiolieri, Dante) e rinascimentali (Ariosto, Rabelais), spazia quindi fra gli scrittori e i filosofi moderni: da Sterne a Manzoni, da Twain a Heine, da Dickens a De Musset, da Hegel a Croce. L’autore distingue «ironia» da

«umorismo»: «Dall’ironia, anche quando sia usata a fin di bene, non si sa disgiungere l’idea di un che di beffardo e di mordace. Ora, beffardi e mordaci possono essere anche scrittori indubbiamente umoristici, ma il loro umorismo non consisterà già in questa beffa mordace». ◗ Nell’umorismo vero e proprio è infatti presente una dimensione intellettuale: la volontà di far emergere il «contrario» attraverso la ragione. È il tema della seconda parte, anch’essa in sei capitoli, intitolata Essenza, caratteri e materia dell’umorismo. Pur citando come esempi i prediletti Cervantes e Manzoni, assunti a modello, Pirandello qui parla dell’umori-

smo in modo più personale. L’umorista è colui che sa vedere il «contrario» di tutte le cose, nascosto a tutti gli altri; questa scoperta lo induce al riso (perché non si può non sorridere di tutte le stranezze della vita) e al pianto (perché è davvero triste pensare a quale sia realmente l’esistenza umana sulla Terra). In tal modo il saggio diviene un’esposizione ragionata della propria poetica d’autore. ◗ Una seconda edizione del saggio uscì nel 1920, con aggiunte e precisazioni resesi necessarie dopo la severa e sprezzante recensione che Benedetto Croce aveva pubblicato sulla rivista «La Critica», da lui diretta.

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L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento

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L’arte umoristica «scompone», «non riconosce eroi» e sa cogliere «la vita nuda» L’umorismo, parte II, capitolo 6 Anno: 1908 Temi: • la critica all’arte tradizionale • la ricerca del «contrario» • il «vero» della vita nell’arte umoristica Quasi al termine del lungo saggio, Pirandello ricapitola le sue tesi principali e ci offre in sostanza la sintesi delle sue convinzioni. L’arte umoristica, dice, è un’arte del tutto diversa da quella tradizionale: rifiuta infatti le costruzioni «ideali»; «scompone» anziché abbellire; vede il mondo «com’è» e non come dovrebbe essere; infine, lo ritrae nella maniera più diretta e sincera, senza paura di quanto può sembrare sconveniente.

l’arte deve sforzarsi di essere più sincera e aderente alla vita, anche nelle sue imperfezioni è una delle convinzioni di Pirandello; nell’io coesistono tante diverse personalità, che emergono a tratti e mettono in crisi la nostra immagine «unitaria»

l’arte umoristica vuole essere stonata, dissonante, antitradizionalista

L’arte1 in genere astrae e concentra, coglie cioè e rappresenta così degli individui come delle cose, l’idealità essenziale e caratteristica. Ora pare all’umorista che tutto ciò semplifichi troppo la natura e tenda a rendere troppo ragionevole o almeno troppo coerente la vita. Gli pare che delle cause, delle cause vere che muovono spesso questa povera anima umana agli atti più inconsulti,2 assolutamente imprevedibi- 5 li, l’arte in genere non tenga quel conto che secondo lui dovrebbe. Per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate, come nelle nostre comuni opere d’arte, in cui tutto è, in fondo, combinato, congegnato, ordinato ai fini che lo scrittore s’è proposto. L’ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro: l’anima istintiva, l’anima morale,3 l’anima affettiva, 10 l’anima sociale? E secondo che domina questa o quella, s’atteggia la nostra coscienza; e noi riteniamo valida e sincera quella interpretazione fittizia4 di noi medesimi, del nostro essere interiore5 che ignoriamo, perché non si manifesta mai tutt’intero, ma ora in un modo, ora in un altro, come volgano6 i casi della vita. Sì, un poeta epico o drammatico può rappresentare un suo eroe, in cui si mostrino 15 in lotta elementi opposti e repugnanti; ma egli di questi elementi comporrà un carattere, e vorrà coglierlo coerente in ogni suo atto. Ebbene, l’umorista fa proprio l’inverso: egli scompone il carattere7 nei suoi elementi; e mentre quegli cura di coglierlo coerente in ogni atto, questi si diverte a rappresentarlo nelle sue incongruenze. L’umorista non riconosce eroi; o meglio, lascia che li rappresentino gli altri, gli eroi 20 [...]. Il mondo, lui, se non propriamente nudo, lo vede, per così dire, in camicia8 [...].

1. l’arte: l’arte tradizionale. 2. inconsulti: impulsivi, azzardati. 3. l’anima morale: la parte di noi che obbedisce alla legge del dovere e della coscienza. 4. fittizia: fasulla, illusoria. 5. del nostro essere interiore: del nostro vero «io».

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6. come volgano: a seconda di come si sviluppano. 7. scompone il carattere: evidenzia cioè la diversità degli impulsi, la ricchezza (e problematicità) della sua vita interiore, le tante facce di quell’«io». 8. Il mondo... in camicia: non in giacca e cravatta, insomma. L’umorista sa scorgere

la sostanza oltre le apparenze; non si lascia ingannare dall’eleganza delle forme. Sa vedere il re «nudo», come nella favola di Hans Christian Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore (1837), in cui tutti vedono il re nudo mentre soltanto lui, comicamente, si crede vestito.

i contenuti a cui s’interessa l’umorista: la sua misura è il realismo uno dei grandi temi di Pirandello: la follia che cova, nascosta, dentro di noi

ma qui la riflessione, la ragione, non serve a ragionare, bensì a s-ragionare!

La vita nuda, la natura senz’ordine almeno apparente, irta di contradizioni, pare all’umorista lontanissima dal congegno ideale delle comuni concezioni artistiche, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano. Nella realtà vera le azioni che mettono in rilievo un carattere si stagliano su un 25 fondo di vicende ordinarie, di particolari comuni.9 Ebbene, gli scrittori, in genere, non se n’avvalgono, o poco se ne curano, come se queste vicende, questi particolari non abbiano alcun valore e siano inutili e trascurabili. Ne fa tesoro invece l’umorista. [...] L’umorista sa che le vicende ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita in somma, così varia e complessa, contradicono poi aspramente 30 quelle semplificazioni ideali, costringono ad azioni, ispirano pensieri e sentimenti contrarii a tutta quella logica armoniosa dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori ordinarii.10 E l’impreveduto11 che è nella vita? E l’abisso che è nelle anime? Non ci sentiamo guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti,12 inconfessabili finanche13 a noi stessi, come sorti davvero da un’anima 35 diversa da quella che normalmente ci riconosciamo? Di qui, nell’umorismo, tutta quella ricerca dei particolari più intimi e minuti, che possono anche parer volgari e triviali se si raffrontano con le sintesi idealizzatrici dell’arte in genere, e quella ricerca dei contrasti e delle contradizioni, su cui l’opera sua14 si fonda, in opposizione alla coerenza cercata dagli altri; di qui quel che di scomposto, di slegato, di capriccioso, 40 tutte quelle digressioni che si notano nell’opera umoristica, in opposizione al congegno ordinato, alla composizione dell’opera d’arte in genere. Sono il frutto della riflessione che scompone. L. Pirandello, Saggi, poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio Musti, A. Mondadori, Milano 1960

9. vicende ordinarie... comuni: nel Fu Mattia Pascal Pirandello aveva addirittura mostrato il protagonista... al WC! 10. ordinarii: gli scrittori della tradizione

classicistica. 11. l’impreveduto: tutto ciò che vi è d’imprevedibile. 12. inconseguenti: incoerenti, disinibiti.

13. finanche: persino. 14. sua: dell’umorista.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il testo è una lucida esposizione dei motivi caratteristici dell’arte umoristica in genere, e pirandelliana più in particolare. Elenchiamoli: • l’arte umoristica rifiuta il procedimento dell’arte tradizionale: quest’ultima infatti astrae e concentra e, idealizzando la realtà, finisce per tradire l’autenticità della vita; • l’umorista sa invece che la realtà (del mondo e degli individui singoli) è molto più ricca, imprevedibile, contraddittoria; • per rivelare tale ricchezza, l’umorista va in cerca del contrario: è soprattutto attento ai particolari più intimi e minuti, che possono anche parer volgari e triviali (rr. 37-38), guarda ai contrasti e alle contradizioni (r. 39); • i suoi personaggi non sono perciò «eroi» disegnati a tavolino; sono personaggi veri e vivi, colti talora in camicia, cioè negli aspetti più quotidiani e a volte ripugnanti; • dunque l’umorista, quando fa arte, evita di comporre, cioè di dare un’immagine idealizzata del mondo e degli uomini; al contrario, scompone, disarticola: di qui quel che di scomposto, di slegato, di capriccioso (r. 40) si può riscontra-

re nell’opera umoristica. ■ Pirandello non si accontenta, nell’Umorismo, di esporre teoricamente i caratteri dell’arte umoristica. Con il suo modo di scrivere e di esporre ci offre una diretta esemplificazione di umorismo in atto. La pagina che abbiamo letto è ben più vivace di quanto ci aspetteremmo da un saggio universitario. Troviamo infatti, qua e là: • battute rivolte al lettore, quasi fosse fisicamente presente sulla scena del testo (L’ordine? la coerenza? Ma se noi..., rr. 9-10); • interiezioni tipiche di uno stile narrativo o teatrale (Sì, un poeta epico o drammatico può... rr. 15-16); • voluti abbassamenti di tono, come in II mondo, lui, se non propriamente nudo, lo vede, per così dire, in camicia (r. 21): in questo caso l’abbassamento è attuato sia attraverso l’anacolutico pronome lui, sia attraverso la metafora del mondo... in camicia. 595

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l’umorismo cerca il «contrario»: la verità nascosta dietro le maschere di convenienza e rispettabilità

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Oggetto dell’arte umoristica è la vita nuda, scrive Pirandello: in che senso? 2. Rintraccia nel testo e spiega con le tue parole le seguenti espressioni. • noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro ....................................................................................................... • congegno ideale delle comuni concezioni artistiche ....................................................................................................... ....................................................................................................... • logica armoniosa dei fatti e dei caratteri ....................................................................................................... ....................................................................................................... • quel che di scomposto, di slegato, di capriccioso, tutte quelle digressioni che si notano nell’opera umoristica .......................................................................................................

....................................................................................................... 3. Pirandello offre una discussione critica, «in negativo», sui procedimenti dell’arte tradizionale, che egli rifiuta. Sottolineali nel testo. 4. Rintraccia anche le indicazioni «in positivo» che egli offre su come fare arte in modo diverso da quello tradizionale. 5. Affiorano qua e là, nel brano, richiami al tema della follia. Rintracciali. Richiamandoti poi a quanto hai studiato nel profilo, spiega in breve perché si tratta di un tema tipicamente pirandelliano. 6. Nell’Umorismo Pirandello richiama a un certo punto il motto di Giordano Bruno, un filosofo e letterato vissuto nella seconda metà del Cinquecento: In tristitia hilaris, in hilaritate tristis («sereno nelle avversità, pensoso nella buona sorte»); e aggiunge che tali parole paiono «il motto stesso dell’umorismo». Spiega perché in max 15 righe.

Un’autodichiarazione di poetica Fu Pirandello stesso a tracciare una delle sintesi più calzanti e autorevoli della sua

visione della vita e dell’arte nella Lettera autobiografica, scritta nel 1912-13 e ap-

parsa sul periodico «Le Lettere» del 15 ottobre 1924.

Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, perché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di un tratto si scopre vana e illusoria. Chi ha capito il giuoco, non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Così è. La mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che si ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino, che condanna l’uomo all’inganno. Questa, in succinto, la ragione dell’amarezza della mia arte, e anche della mia vita. L. Pirandello, Saggi, poesie, scritti varii, cit. Il breve testo tratto dalla Lettera autobiografica mette in luce alcuni aspetti centrali nella poetica pirandelliana, ovvero: • il contrasto realtà/finzione (una realtà... vana e illusoria); • il bisogno d’ingannarci, di costruirci una realtà ideale del tutto soggettiva (una per ciascuno);

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• la metafora teatrale (buffoneria) per definire la vita (già in una lettera giovanile alla sorella Lina, Pirandello scriveva che il mondo gli appariva come un’«enorme pupazzata»; definizione che ritorna nel romanzo Il turno: «Questa sciocca fantocciata che chiamiamo vita»); • la posizione dell’umorista, colui che

ha capito il giuoco, destinato a rimanere escluso dalla vita; • la compresenza, nell’umorismo, di comico e di tragico (nella coppia compassione/irrisione); • infine, il pessimismo (amarezza) appena venato d’indifferenza (non può più prendere... gusto... alla vita).

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Contesto

Luigi Pirandello

Esempi di umorismo Anno: 1908 Temi: • la definizione di «sentimento del contrario» • i misteri e le contraddizioni della personalità • la fatica di riconoscerci nel nostro corpo • le tante maschere che indossiamo per coprire il vuoto interiore Sempre dalla seconda parte dell’Umorismo abbiamo estrapolato alcuni passaggi illuminanti perché mettono a fuoco con esattezza ciò che Pirandello chiamava il «sentimento del contrario» (testi A e B) e che, a sua volta, ci rivelerebbe aspetti della realtà che di solito sottovalutiamo o nascondiamo a noi stessi (testi C e D).

ecco ciò che appare a prima vista, ma l’umorista sa andare oltre le apparenze

nell’umorismo pirandelliano si mescolano il riso e il pianto, la commedia e il dramma

uno di quegli ideali astratti e nobili cari all’arte di tipo tradizionale Pirandello apprezza Manzoni, perché fa spazio anche alla realtà umana più bassa

A) Una vecchia imbellettata e il «sentimento del contrario» [dal paragrafo 1] Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca,1 e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili.2 Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta3 e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. 5 Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi4 così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie,5 riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessio- 10 ne, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario.6 Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico. B) Manzoni e don Abbondio [dal paragrafo 4] Dove sta il sentimento del poeta? Nel disprezzo o nel compatimento per don Abbondio? Il Manzoni ha un ideale astratto, nobilissimo della missione del sacerdote su 15 la terra, e incarna questo ideale in Federico Borromeo.7 Ma ecco la riflessione, frutto della disposizione umoristica, suggerire al poeta che questo ideale astratto soltanto per una rarissima eccezione può incarnarsi e che le debolezze umane sono pur8 tante. [...] Don Abbondio è quel che si trova in luogo9 di quello che ci sarebbe voluto. Ma il poeta non si sdegna di questa realtà che trova, perché, pur avendo, come abbiamo 20 detto, un ideale altissimo della missione del sacerdote su la terra, ha pure in sé la riflessione che gli suggerisce che quest’ideale non si incarna se non per rarissima eccezione, e però10 lo obbliga a limitare quell’ideale, come osserva il De Sanctis.11 Ma

1. manteca: unguento, cosmetico. 2. imbellettata e parata d’abiti giovanili: truccata e ammantata in vesti troppo giovanili per la sua età. 3. a prima giunta: in un primo momento. 4. pararsi: agghindarsi. 5. canizie: i capelli bianchi. 6. avvertimento... sentimento del contrario: dopo il primo impatto, segue, grazie alla

riflessione, un’elaborazione; l’umorista non si accontenta di sorridere delle contraddizioni del vivere, cioè del contrario: ci riflette e ne trae conclusioni generali. 7. Federico Borromeo: il cardinale Federico Borromeo (1564-1631), arcivescovo di Milano dal 1595, è uno dei protagonisti positivi dei Promessi sposi. 8. pur: davvero.

9. in luogo: al posto. Si vorrebbe sempre incontrare uomini coraggiosi e di animo nobile, come Borromeo; ma nella maggior parte dei casi non avviene così, e abbiamo a che fare per lo più con dei don Abbondio. 10. però: perciò. 11. il De Sanctis: Francesco De Sanctis (1817-73), il maggior critico letterario del secondo Ottocento.

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L’umorismo, parte II, passim

Tra Ottocento e Novecento

questa limitazione dell’ideale che cos’è? è l’effetto appunto della riflessione che, esercitandosi su quest’ideale, ha suggerito al poeta il sentimento del contrario. E don 25 Abbondio è appunto questo sentimento del contrario oggettivato e vivente;12 e però non è comico soltanto, ma schiettamente e profondamente umoristico.

un uomo pienamente rispettabile e rispettato; è un caso limite, esempio di chi si rovina la vita e la carriera per un solo istante di follia il secondo esempio rafforza la teoria: noi siamo un mistero a noi stessi

l’anima muta incessantemente come la vita, mentre il corpo è fissato in una forma

ogni pagina di Pirandello tende irresistibilmente verso il teatro

è assurdo pensare di «fissare» la vita in una forma, in una maschera, perché il flusso vitale è invincibile

la sintesi del relativismo pirandelliano

C) Ladri e assassini senza saperlo [dal paragrafo 5] Le varie tendenze che contrassegnano la personalità fanno pensare sul serio che non sia una13 l’anima individuale. [Ognuno vive] come se veramente in lui fossero 30 più anime diverse e perfino opposte, più e opposte personalità. Ecco un alto funzionario, che si crede, ed è, poveretto, in verità, un galantuomo. Domina in lui l’anima morale. Ma un bel giorno, l’anima istintiva,14 che è come la bestia originaria acquattata in fondo a ciascuno di noi, spara un calcio all’anima morale,15 e quel galantuomo ruba. Oh, egli stesso, poveretto, egli per il primo,16 poco dopo, ne prova stupore, piange, domanda a se stesso, disperato: – Come, come mai ho potuto far 35 questo? – Ma, sissignori, ha rubato. E quell’altro là? Uomo dabbene, anzi dabbenissimo:17 sissignori, ha ucciso. L’idealità morale18 costituiva nella personalità di lui un’anima che contrastava con l’anima istintiva e pure in parte con quella affettiva o passionale;19 costituiva un’anima acquisita20 che lottava con l’anima ereditaria,21 la quale, la40 sciata per un po’ libera a se stessa, è riuscita d’improvviso al22 furto, al delitto. D) Maschere, maschere... [dal paragrafo 5] Per tutti può rappresentare talvolta una tortura, rispetto all’anima che si muove e si fonde, il nostro stesso corpo fissato per sempre in fattezze immutabili. Oh perché proprio dobbiamo essere così, noi? – ci domandiamo talvolta allo specchio, – con questa faccia, con questo corpo? – Alziamo una mano, nell’incoscienza;23 e il gesto 45 resta sospeso. Ci pare strano che l’abbiamo fatto noi. Ci vediamo vivere. [...] Oggi siamo, domani no. Che faccia ci hanno dato per rappresentar la parte del vivo? Un brutto naso? Che pena doversi portare a spasso un brutto naso per tutta la vita... Fortuna che, a lungo andare, non ce n’accorgiamo più. Se ne accorgono gli altri, è vero, quando noi siamo finanche24 arrivati a credere d’avere un bel naso; e allora non sappiamo più spiegarci perché gli altri ridano, guardandoci. Sono tanti sciocchi! 50 Consoliamoci guardando che orecchi ha quello e che labbra quell’altro; i quali non se n’accorgono nemmeno e hanno il coraggio di ridere di noi. Maschere, maschere... Un soffio e passano, per dar posto ad altre. Quel povero zoppetto là... Chi è? Correre alla morte con la stampella... La vita, qua, schiaccia il piede a uno; cava là un occhio a un altro... Gamba di legno, occhio di vetro, e avanti! Ciascuno si racconcia la ma- 55 schera come può – la maschera esteriore. Perché dentro poi c’è l’altra,25 che spesso non s’accorda con quella di fuori. E niente è vero! L. Pirandello, Saggi, poesie, scritti varii, cit.

12. oggettivato e vivente: reso insomma dall’artista un personaggio «vivo». 13. una: unica e immutabile nel tempo. 14. l’anima istintiva: l’inconscio, sede di pulsioni, istinti ecc. 15. all’anima morale: cioè a quella parte di anima che coltiva il senso del dovere e della morale; in termini psicoanalitici, si chiama Super-io. 16. per il primo: per primo.

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17. dabbenissimo: onestissimo e irreprensibile. 18. L’idealità morale: la sfera ideale da cui ricavava il senso del dovere. 19. con quella affettiva o passionale: non era in perfetta sintonia neppure con i sentimenti (l’anima affettiva e passionale). 20. un’anima acquisita: qualcosa di poco spontaneo e quindi fragile. 21. l’anima ereditaria: la personalità vera,

biologica. È un termine che Pirandello trae da Darwin e dalla cultura positivistica. 22. è riuscita d’improvviso al: si è espressa improvvisamente nel. 23. nell’incoscienza: istintivamente, senza volere. 24. finanche: persino. 25. l’altra: la maschera interiore, cioè la nostra personalità segreta, che spesso non va d’accordo con il corpo.

■ Il testo A offre un esempio assai chiaro di ciò che Pirandello intende per: • avvertimento del contrario: lo spettacolo delle mille assurdità della vita quotidiana, che suscita il riso; • sentimento del contrario: qui interviene la riflessione, che aggiunge ulteriori elementi al riso di prima; in tal modo si giunge a una consapevolezza maggiore. L’esempio della vecchia signora costretta a pararsi come un pappagallo forse solo per compiacere il marito più giovane è un’immagine eloquente della comicità di Pirandello: che non è mai solo comica, perché dietro al riso si nasconde sempre un fondo di amarezza, dietro alla commedia, il dramma. ■ Nel testo B Pirandello loda Manzoni, perché non si è accontentato di rappresentare l’ideale astratto (nel suo caso, del sacerdozio), ma si è soffermato a osservare gli uomini concreti, che vivono nel mondo della realtà; e ha così rappresentato, con la massima serietà artistica, un sacerdote debole e limitato come don Abbondio. Quest’ultimo equivale alla vecchia signora... imbellettata del testo A. ■ Nel testo C l’autore raffigura la compresenza, nell’io, di sfere diverse e opposte: • da una parte, l’anima morale, il senso del dover essere; • dall’altra, l’anima istintiva, sede degli istinti più profondi e, alla fine, irrefrenabili. A chiunque, persino all’individuo più insospettabile, può accadere che gli istinti prendano il sopravvento sulla ragione e sulla morale. Si verificano allora comportamenti apparentemente inspiegabili, furti, assassinii, che in un istante compromettono la rispettabilità di una vita intera. Ma l’umorista non se ne stupisce: sa bene che la personalità umana è molteplice, e che le sue schegge di follia possono attivarsi in ogni momento. ■ Il testo D esamina l’opposizione, nella vita e nell’animo umano, di due sfere ben distinte: • il corpo, che si mostra all’esterno; • e l’anima, che vive all’interno, nascosta. Noi siamo abituati al nostro corpo; ci rifugiamo in esso come in una forma, come una maschera di rispettabilità, in cui ci illudiamo di poterci proteggere. Ma può accadere, dice Pirandello, che a un tratto non ci riconosciamo più nel nostro corpo: ci vediamo al di fuori della costruzione mentale a cui ci eravamo abituati. Separarsi dal corpo porta a ciò che gli psicologi chiamano dissociazione, preludio alla schizofrenia, cioè alla follia. È la situazione in cui cadono molti personaggi-umoristi pirandelliani, come Mattia Pascal o come Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila.

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Sintetizza i quattro testi dedicando a ciascuno un riassunto di max 5 righe. 2. Che cos’è per Pirandello il sentimento del contrario e da dove nasce? Prova a produrre un tuo esempio per spiegarlo. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 3. Pirandello illustra a un certo punto i misteri e le contraddizioni della personalità. Metti in rapporto questo motivo con il relativismo illustrato alle pp. 584-585, nel profilo introduttivo dell’autore. 4. Pirandello parla a un certo punto di maschera e di maschere. Rispondi ai seguenti quesiti motivando le tue risposte. • Quando e perché accade che indossiamo la maschera? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... • Ne indossiamo una sola o tante? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... • Indossare la maschera è un sintomo di vitalità oppure no? Di sincerità oppure no? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 5. In un punto non antologizzato, Pirandello scrive: «Nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione...» a non si nasconde, non resta invisibile b si nasconde, resta invisibile c ricompone i frammenti della realtà d osserva da lontano il mondo Individua la continuazione più adatta per questa affermazione e giustifica in breve la tua scelta. 6. Anche in questi passi è all’opera il caratteristico stile dell’Umorismo, fatto di: • battute quasi teatrali (Ma, sissignori, ha rubato); • gesti scenici (Ecco un alto funzionario...); • abbassamenti di tono (Ma un bel giorno...). Rintraccia nel testo, per ciascuno dei fenomeni citati, altri esempi.

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LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Luigi Pirandello

L’OPERA

NOVELLE PER UN ANNO

Il progetto iniziale Laboratori interattivi • La carriola

◗ Pirandello cominciò molto presto a scrivere racconti: già nel 1884, quando l’autore era appena diciassettenne, uscì su un periodico il suo primo, breve «bozzetto» siciliano, Capannetta; l’ultima novella, Effetti d’un sogno interrotto, uscì sul «Corriere della Sera» nel dicembre 1936, due giorni prima che Pirandello morisse. Scrisse in tutto 246 racconti, via via pubblicati su periodici e giornali diversi (preferibilmente – dal 1909 in avanti – sul «Corriere della Sera»). A un certo punto (1922) pensò di raccogliere quei racconti in un corpus unitario, che titolò Novelle per un anno. ◗ Il titolo ci rivela l’intento di Pirandello di scrivere 365 novelle, una per ogni giorno dell’anno, suddividendole in 24 volumi: uno schema di sintesi che derivava dalle grandi raccolte medievali (come le novelle arabe delle Mille e una notte o il Decameron di Boccaccio) e che voleva suggerire l’idea di una perpetua «narrabilità» della vita umana. Questo progetto non fu realizzato; il crescente successo dei suoi lavori teatrali orientò infatti Pirandello, dal 1916-17 in poi, a comporre prevalentemente per le scene teatrali. Tuttavia non tralasciò mai del tutto la scrittura novellistica.

Narrazioni brevi, incalzanti, senza respiro ◗ Le caratteristiche più evidenti delle novelle di Pirandello sono la brevità della narrazione, il piglio incalzante, l’essenzialità. I suoi racconti, del resto, nascevano per essere pubblicati su giornali e riviste, una destinazione che esigeva forte concisione espressiva. Il genere stesso della novella richiede ai narratori di concentrarsi su un «caso» singolare, eccentrico, su un unicum individuale, che attiri immediatamente l’attenzione. Ecco perché Pirandello prediligeva in particolare il genere della novella. Più ancora del romanzo, con la sua misura lunga e articolata, il racconto gli consentiva infatti di «fotografare» i tanti frammenti della vita, gesti e destini molteplici, spesso casuali e incoerenti. ◗ Sono famose le aperture improvvise delle novelle pirandelliane. La novella Pallottoline! comincia così: «Ventotto agosto. Benone!». La novella Ma non è una cosa seria comincia così: «Perazzetti? No». Si potrebbe continuare con gli esempi. Gli attacchi di Pirandello tendono a spiazzare il lettore: un massimo di «oggettività» apparente (il fatto sembra accadere proprio lì, davanti a chi legge) viene combinata con informazioni ridotte al minimo (quel fatto è inesplicabile). Sembra che il narratore non sappia che cosa sta per accadere e che cosa dovrà raccontare; dunque sul lettore si rovescia una massa disordinata di informazioni: solo dettagli di primo piano, di cui nulla o quasi capisce, perché gli sfugge la prospettiva più ampia. ◗ Anche la presentazione degli antefatti è assai diversa dalle ordinate ricapitolazioni della narrativa tradizionale. Nelle novelle di Pirandello il passato riemerge per spezzoni e nel bel mezzo dell’azione, quasi fossero i personaggi, e non lo scrittore, a chiarirsi faticosamente le idee sulla vita e sul mondo.

Oltre il Naturalismo, verso un’arte nuova ◗ Tutto ciò ci dice che Pirandello rifiuta l’«onniscienza» del narratore tradizionale, padrone del prima e del dopo, del come e del perché. Sceglie piuttosto una visuale soggettiva, il sapere scarso e confuso del personaggio; narra «di sbieco», senza motivare adeguatamente reazioni e conseguenze, perciò le sue vicende risultano tanto imprevedibili. La sua è una «visuale multiprospettica» (U. SchulzBuschhaus), come se fossero in tanti (i personaggi) a narrare, e non uno solo (l’autore): in tal modo si frantumano i punti di vista e il lettore non si raccapezza più. ◗ Pirandello supera così nettamente il Realismo e il Verismo ottocenteschi. Se la narrativa realistica, da Balzac a Flaubert a Verga, evidenziava un unico punto di vista, da cui tutto prende senso, Pirandello vuole invece denunciare l’ambiguità e l’irrazionalità del reale. Viene meno perciò, in lui, la fedeltà al vero ed esplode l’assurdo: è il trionfo del relativismo. 600

Pallottoline! Novelle per un anno Anno: 1895-1902 Temi: • un’esistenza solitaria, tutta dedita allo studio e alla ricerca • la piccolezza dell’uomo e delle sue vicende rispetto alla vastità dell’universo • le bizzarrie dell’umorista pirandelliano Una trama esile, personaggi paradossali, un significato filosoficamente impegnativo: c’è molto di Pirandello in questo racconto composto, pare, nel 1895 e poi pubblicato nel 1902. Siamo quindi in una fase precedente il saggio L’umorismo: anche per questo motivo Pallottoline! risulta uno dei testi più importanti per studiare la concezione «relativistica» del mondo di Pirandello.

per usi igienici: è un esempio del dissacrante realismo di Pirandello

quasi una battuta teatrale nel dialogo a distanza tra i due personaggi, l’astronomo e l’oste

Ventotto agosto. Benone! Pochi giorni ancora: meno che un mese. Benone! E riponeva da parte il fogliolino del calendario insieme con gli altri precedenti, perché ottimo per... – Ssss! 5 – Che c’è di male? – Bada, vien gente. – Zitta lì, zitta lì. Non ci sono; o, se mai: Il professore studia! di’ così, di’ così, mi raccomando. Chiudeva subito l’uscio; poi, trac! accostava la persiana. Oh, e ora... Eccolo là: se10 gnale a pagina 124. L’universo è finito o infinito? Questione antica. È certo che a noi riesce assolutamente impossibile... – Ufff! ufff! ufff! – tre volte di seguito, sempre allo stesso posto: lì, nel mezzo della fronte, ronzando. Ah, ma anche per le mosche, se Dio voleva, erano gli ultimi giorni di baldoria, come per gli «insetti umani» che, a piedi o su somarelli, s’inerpicavano 15 fin lassù, a circa mille metri sul livello del mare. E per vedere che cosa infine? I laghi d’Albano e di Nemi: un paio d’occhiali insellato1 su quel gran naso con la punta all’insù, ch’è il Monte Cavo.2 [...] Ma nel mentre3 Jacopo Maraventano si fregava lieto le mani, tappato là, in quel camerino dell’Osservatorio Metereologico, al piano superiore dell’antico convento, si- 20 tuato con l’attigua chiesetta su la cima del monte; alla nebbia invadente imprecava all’incontro l’oste velletrano,4 che aveva avuto la cattiva ispirazione di ridurre a miseri camerini d’albergo le povere cellette dei frati cacciati via da quel loro alpestre romitorio,5 e tavole e tavolini aveva disposti per gli avventori su la spianata dietro al 25 convento, dalla parte di levante, sotto un enorme faggio secolare. [...] 6 – Ecco la nebbia, asino! Ben ti stia! Piacere, piacerone! Non la pensavano però come lui la moglie e la figlia Didina, già su i vent’anni, e neanche Franceschino, che pure era nato e cresciuto lassù. Per loro l’estate era una

1. insellato: inforcato. I due laghi di Albano e di Nemi, sui colli Albani (in provincia di Roma), appaiono al protagonista, per la loro vicinanza, due lenti inforcate come un paio d’occhiali sulla montagna che li divide. 2. il Monte Cavo: alto 949 metri, è il mon-

te più visibile da Roma; lì Pirandello trascorse le vacanze estive del 1893, durante le quali scrisse il suo primo romanzo, L’esclusa. 3. nel mentre: nel frattempo. 4. all’incontro... velletrano: contrariamente a quanto faceva Maraventano,

l’albergatore di Velletri imprecava contro la nebbia perché portava la fine dell’estate e quindi dei suoi affari con i villeggianti (gli avventori). 5. romitorio: luogo d’eremitaggio. 6. asino... piacerone!: sono le parole di Maraventano rivolte all’oste.

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Monografia Raccordo

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Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

un ritratto espressionistico, che deforma i contorni per evidenziare tutta la diversità del personaggio

l’astronomo è uno dei tipici «umoristi» pirandelliani, indifferenti a tutto e a tutti, «lontani» o «assenti» dal mondo, perché se ne sono volontariamente estraniati

benedizione, e la sospiravano ardentemente in segreto tutto l’inverno. Potevano almeno sentire in quei mesi un po’ di vita attorno e veder gente e scambiare qualche 30 parola; e Didina, chi sa! poteva anche dar nell’occhio a qualche giovanotto, tra i tanti che salivano a visitare l’Osservatorio, ai quali la buona signora Guendalina, bruna, magra, ossuta, col volto bruciato dai rigori invernali, non mancava di ripetere, invece del7 marito, come poteva (cioè sempre con le stesse parole e gli stessi gesti), la spiegazione dei pochi strumenti per le osservazioni meteorologiche. Dopo la spiegazio- 35 ne presentava ai visitatori un registro, perché vi apponessero la firma e, accanto, qualche pensiero. Lasciava andar certi sospironi la povera Didina rileggendo in quel registro, nelle serate d’inverno lassù, quei pensieri in margine e talvolta qualche poesiola: quella, per esempio, indirizzata proprio a lei (All’edelweiss8 di Monte Cavo). Ah, il giovane 40 poeta che l’aveva scritta chi sa dov’era ormai, se9 pensava più a lei, se sarebbe ritornato la ventura estate! La signora Guendalina tentava, ma timida, d’indurre il marito rinchiuso a farsi vedere dai visitatori. Non foss’altro, per dovere d’ospitalità, diceva. Ma Didina, ogni qualvolta la madre si provava a muovere questo discorso, le dava sotto sotto gomi- 45 tate: poi, a quattr’occhi, le faceva notare che, se il babbo non si persuadeva prima a farsi tagliare quell’aspra selva di capelli riccioluti e quel barbone mostruoso, arruffato che gli aveva invaso le guance fin sotto gli occhi, era meglio che non si lasciasse vedere. 50 La madre ne conveniva,10 sospirando; e alla domanda dei visitatori: – Il professore dov’è? – Il professore studia, – rispondeva con gli occhi bassi, invariabilmente. Studiava davvero il Maraventano, o almeno stava immerso tutto il giorno nella lettura di certi libracci che trattavano d’astronomia, unico suo pascolo.11 La lettura però andava a rilento, poiché egli si lasciava distrarre dalla fantasia, rapire da ogni frase 55 per le infinite plaghe12 dello spazio, da cui non sapeva poi ridiscendere più, come la moglie avrebbe desiderato. Ma ridiscendere perché? Per mostrare lì alla gente che veniva a frastornarlo, a seccarlo, e da cui una così sterminata distanza13 lo allontanava, come agisse un pluviometro14 o un anemometro15 [...] Eh via! Un giorno gli sapeva 60 un anno,16 che quella processione di seccatori terminasse. [...] Su la vetta ormai si udiva solo il vento parlare con gli alberi antichi. Jacopo Maraventano restava assoluto padrone della solitudine, libero in mezzo alla nebbia, signore dei venti, piccolo su quell’alta punta nevosa al cospetto del cielo che da ogni parte lo abbracciava e nel quale d’ora in poi poteva tornare a immergersi, a naufragare, non più infastidito o distratto. Assistendo, come gli pareva d’assistere con la fan- 65

7. invece del: quando le capitava di sostituire il; molto spesso, come vedremo. 8. edelweiss: stella alpina. L’appellativo con cui un ammiratore chiama Didina. 9. se: chissà se. 10. ne conveniva: si diceva d’accordo. 11. unico suo pascolo: quei libri erano il suo unico nutrimento intellettuale.

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12. plaghe: regioni. 13. una... distanza: tra lui e la gente non c’è nulla in comune: i visitatori sono solo curiosi di conoscere il funzionamento degli strumenti, mentre Maraventano si allontana con la mente nelle infinite plaghe dello spazio. 14. pluviometro: strumento che misura la

quantità d’acqua piovana caduta in un determinato intervallo di tempo. 15. anemometro: strumento per misurare velocità e direzione del vento. 16. sapeva un anno: aveva per lui il sapore di un anno; Maraventano è impaziente che i seccatori se ne vadano al più presto.

l’argomentazione ha lo scopo di ridimensionare il Sole

tocca ora alla Terra, pianetino minuscolo e invisibile

è il motivo che dà il titolo alla novella

17. nel fondo: gli sembra di essere al centro del cosmo, nel punto d’osservazione più privilegiato. 18. soli: stelle che irradiano luce, e attorno a cui si formano sistemi di pianeti ruotanti. 19. afflizioni: sofferenze. 20. stima: ben poca stima; per Maraventano gli uomini e il loro mondo hanno scarsissimo se non nessun valore.

21. argomento: motivo. 22. senza... sventolava: in modo automatico, inconscio, agitava una ventola, per attizzare il fuoco della stufa. 23. Sirio: una stella molto grande e luminosa. Se soffiasse (sputa) sul Sole, come gli uomini soffiano su una candela, esso si spegnerebbe. 24. sego: il grasso di bue con cui si impa-

stano le candele. 25. per l’anno santo: cioè non bolle più. L’Anno Santo veniva proclamato, a quell’epoca, ogni cinquant’anni. 26. comincia a muoversi: l’acqua comincia a bollire. 27. nostri: i pianeti del sistema solare, che noi pensiamo grandi. 28. s’involerebbero: sparirebbero.

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Monografia Raccordo

una sintesi del relativismo pirandelliano

tasia, nel fondo17 dello spazio, alla prodigiosa attività, al lavoro incessante della materia eterna, alla preparazione e formazione di nuovi soli18 nel grembo delle nebulose, al germogliare dei mondi dall’etere infinito: che cosa diventava per lui questa molecola solare, chiamata Terra, addirittura invisibile fuori del sistema planetario, cioè di questo punto microscopico dello spazio cosmico? Che cosa diventavano que- 70 sti polviscoli infinitesimali chiamati uomini; che cosa, le vicende della vita, i casi giornalieri, le afflizioni19 e le miserie particolari, le generali calamità? E di questo suo disprezzo, non che della Terra, ma di tutto il sistema solare, e della stima20 che si era ridotto a far delle cose umane, considerandole da tanta altezza, avrebbe voluto far partecipi moglie e figliuola, che si lamentavano di continuo ora 75 per il freddo ora per la solitudine, traendo da ogni piccola infelicità argomento21 di lagni e sospiri. E le sere d’inverno, lassù, mentre Didina e la madre, infreddolite, se ne stavano raccolte in cucina e lui, senza neppure saperlo, sventolava22 davanti al fornello per far 80 bollire la pentola, parlava loro delle meraviglie del cielo, spiegava la sua filosofia. – Punto di partenza: ogni stella un mondo a sé. Un mondo, care mie, non crediate, più o meno simile al nostro; vale a dire: un sole accompagnato da pianeti e da satelliti che gli rotano intorno, come i pianeti e i satelliti del nostro sistema attorno al sole nostro, il quale, sapete che cos’è? Vi faccio ridere: nient’altro che una stella di media grandezza della Via Lattea. Ne volete un’idea? Trasportate nello spazio il nostro 85 mondo – questo così detto sistema solare – a una distanza uguale... non dico molto – a poche migliaja di volte il suo diametro, cioè, alla distanza delle stelle più vicine. Orbene, il nostro gran sole sapete a che cosa sarebbe ridotto rispetto a noi? Alle proporzioni d’un puntino luminoso, alle proporzioni di una stella di quinta o sesta grandezza: non sarebbe più, insomma, che una stellina in mezzo alle altre stelle. [...] 90 – Che c’entra! Il sole è sempre il sole. – E che cos’è? – le gridava allora il padre sdegnatissimo. – Ma lo sai che se Sirio23 sputa, il sole ti si spegne, come una candela di sego?24 Sappilo: – pah! – si spegne. – Jacopo, – diceva placidamente la signora Guendalina. – Se non ci metti altro car95 bone, ti si spegne pure il fuoco e l’acqua ti bolle per l’anno santo.25 Egli allora scoperchiava la pentola, guardava dentro, poi rispondeva alla moglie: – No, comincia a muoversi.26 Faccio vento, lo vedi. Ma veniamo ai nostri27 grandi pianeti. Care mie, alla distanza che vi ho detto, s’involerebbero28 addirittura al nostro sguardo, tutti, meno, forse, Giove... forse! Ma non crediate che potreste scorgerlo a occhio nudo! Forse con qualche telescopio di prim’ordine; e non lo so di certo. 100 Pallottoline, care mie, pallottoline! Quanto a noi, alla nostra Terra, non se ne sospetterebbe nemmeno l’esistenza. E volete far sparire anche il sole? Basta, col beneplacito di Didina, senz’altro, là![...]

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

viene ora il turno dell’uomo, ridimensionato nella sua pretesa di essere razionale e intelligente

Maraventano polemizza ora con la religione

nella filosofia di Maraventano, niente più merita serietà e considerazione

E con la ventola faceva un largo gesto indeterminato. Poi riprendeva, con gli occhi 105 immobili e invagati: – Pensare... pensare che la stella Alfa della costellazione del Centauro, vale a dire la stella più vicina a questo nostro cece,29 alias il signor pianetino Terra, dista da noi trentatré miliardi e quattrocento milioni di chilometri! Pensare che la luce, la quale, se non lo sapete, cammina con la piccolissima velocità di circa duecento novantotto mila e cinquecento chilometri al minuto secondo (dico secondo), non può giungere a noi da 110 quel mondo prossimo30 che dopo tre anni e cinque mesi – l’età cioè del nostro buon Franceschino31 che sta a sfruconarsi il naso col dito, e non mi piace... Pensare che la Capra32 dista da noi seicentosessantatré miliardi di chilometri, e che la sua luce, prima d’arrivare a noi, con quel po’ po’ di velocità che v’ho detto, ci mette settant’anni e qualche mese, e, se si tien conto dei calcoli di certi astronomi, la luce emessa da alcuni re- 115 moti ammassi ci mette cinque milioni d’anni, come mi fate ridere, asini! L’uomo, questo verme che c’è e non c’è, l’uomo che, quando crede di ragionare, è per me il più stupido fra tutte le trecento mila specie animali che popolano il globo terraqueo, l’uomo ha il coraggio di dire: “Io ho inventato la ferrovia!”. E che cos’è la ferrovia? Non te la comparo33 con la velocità della luce, perché ti farei impazzire; ma in confronto allo 120 stesso moto di questo cece Terra che cos’è? Ventinove chilometri, a buon conto, ogni minuto secondo;34 hai dunque inventato il lumacone, la tartaruga, la bestia35 che sei! E questo medesimo animale uomo pretende di dare un dio, il suo Dio a tutto l’Universo! Qui il Maraventano e la moglie si guastavano.36 – Jacopo! – pregava la signora Guendalina. – Non bestemmiare. Fallo almeno per 125 pietà di noi due povere donne esposte quassù... – Hai paura? – le gridava il marito. – Temi che Dio, perché io bestemmio, come tu dici, ti mandi un fulmine? C’è il parafulmine, sciocca. Vedi dond’è nato il vostro Dio? Da codesta paura. Ma sul serio potete credere, pretendere che un’idea o un sentimento nati in questo niente pieno di paura che si chiama uomo debba essere il 130 Dio, debba essere quello che ha formato l’Universo infinito? Le due donne si turavano gli orecchi, chiudevano gli occhi; allora il Maraventano scaraventava per terra la ventola, e gridando con le braccia per aria: – Asine! asine! – andava a chiudersi nella sua stanzetta e, per quella sera, addio cena. Simili scene avvenivano assai di frequente, poiché né Didina né la moglie volevano 135 adattarsi alla filosofia di lui, specialmente quando avevano bisogno di qualche cosa. – Diviene,37 – diceva loro il Maraventano – dal non sapere filare38 un ragionamento semplicissimo; dal non volere guardare in su un momentino. Oh Alfa del Centauro! oh Sirio, oh Capella! sapete perché piange Didina? Piange perché non ha una veste nuova d’inverno da farsi ammirare in chiesa, le domeniche, a Rocca di Pa- 140 pa. Roba da ridere! – Roba da ridere; ma io mi muojo dal freddo, – rispondeva tra le lagrime Didina. E il Maraventano:

29. cece: un piccolo legume di forma rotonda. 30. prossimo: il più vicino alla Terra. 31. Franceschino: il secondogenito di Maraventano.

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32. la Capra: un’altra costellazione. 33. comparo: paragono. 34. Ventinove chilometri... secondo: la velocità della Terra nel suo moto di rotazione; i treni viaggiano assai più lentamente.

35. la bestia: bel somaro! 36. si guastavano: litigavano vivacemente. 37. Diviene: tale bisogno scaturisce. 38. filare: seguire.

L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di C. Alvaro, vol. II, A. Mondadori, Milano 1956 39. padre abate: l’abate, a capo del monastero, è secondo la tradizione florido e ben

pasciuto. L’ascesso che tormenta il povero Maraventano è dunque grosso e doloroso!

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ L’astronomo Jacopo Maraventano dirige l’Osservatorio Meteorologico sulla vetta del Monte Cavo, sui colli Albani, vicino a Roma. Qui egli vive in compagnia della moglie Guendalina, della figlia Didina, ventenne, e del piccolo Francesco. La sua famiglia soffre di solitudine e sospira perciò l’estate, la stagione in cui giungono fin lassù un po’ di visitatori, in cerca di fresco e curiosi degli strumenti astronomici. Invece Maraventano desidera l’inverno, per non essere disturbato nei suoi studi e riflessioni. Nelle lunghe sere, quando la famiglia si riunisce presso la stufa, il capofamiglia espone le proprie teorie.

■ Tali teorie riguardano: • l’immensità dell’universo e, per contrasto, la piccolezza del Sole e della Terra; •di conseguenza, la nullità dell’uomo, questo verme che c’è e non c’è (rr. 116-117); •da qui l’assurdità dell’idea di Dio, formatasi invece per la paura; •sempre di conseguenza, l’assurdità dei lamenti su ciò che ci manca e anche sulle sofferenze fisiche, come il mal di denti.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Jacopo Maraventano incarna la filosofia del lontano, come la chiamerà il dottor Fileno nella novella La tragedia di un personaggio (E Testo 4, p. 607). Egli vive infatti quell’assoluta, siderale distanza da tutto che caratterizza gli umoristi pirandelliani: chi è consapevole di ciò – l’umorista, appunto – non può che stimare un nulla le vicende della vita, i casi giornalieri, le afflizioni e le miserie particolari (rr. 71-72). Gli umoristi di Pirandello guardano l’esistere comune, ma non lo vivono più. Ne sono osservatori, come è l’astronomo del Monte Cavo, «esclusi» dall’esistenza comune (esclusa è la Marta Ayala del primo romanzo di Pirandello, 1893), «forestieri della vita», come sarà Mattia Pascal nel romanzo del

1904. Lontani da tutto, essi sono principalmente lontani da se stessi. ■ E del resto, che cosa può sembrare la vita, considerata dall’altezza abissale degli astri, se non appunto – come dice Maraventano – un punto microscopico dello spazio cosmico (r. 70)? E in tale contesto, che cosa appaiono gli uomini, se non polviscoli infinitesimali (r. 71)? Tutto scompare, in questo sguardo che distanzia e relativizza: gli umoristi-folli di Pirandello posseggono quella suprema capacità di riduzione e insieme di elevazione che, un tempo, era prerogativa dei mistici, degli asceti. In loro, però, l’estasi è guidata non dalla fede, ma dalla consapevolezza del nulla; la fiducia in Dio si capovolge in una quieta, muta disperazione.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. L’astronomo Maraventano incarna in se stesso quelle idee che egli elabora ed espone a moglie e figlia. Maraventano rappresenta il tipico umorista

(un po’ folle e un po’ savio) che appare così di frequente nelle pagine di Pirandello. a. Maraventano è un po’ folle: da quali elementi lo capisci? Rintracciali nel testo. 605

Monografia Raccordo

– Senti freddo, perché non ragioni! Non a parole soltanto dimostrava egli il disprezzo in cui teneva la terra e tutte le 145 cose della vita. Soffriva di mal di denti, e talvolta la guancia per la furia del dolore gli si gonfiava sotto il barbone come un’anca di padre abate:39 ebbene, senz’altro, retrospingeva nello spazio il sistema planetario: spariva il sole, spariva la terra, tutto diventava niente, e con gli occhi chiusi, fermo nella considerazione di questo niente, a 150 poco a poco addormentava il suo tormento. – Un dente cariato, che duole nella bocca di un astronomo... Roba da ridere.

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

b. Sottolinea nel testo anche i particolari fisici che contribuiscono a distanziare Maraventano dall’umanità comune. c. In che cosa risiede, invece, la particolare saggezza del protagonista? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... d. Secondo te, quale dei due aspetti viene maggiormente sottolineato dall’autore? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 2. La vicenda dell’astronomo Maraventano e della sua famiglia conta per il suo significato filosofico, definibile con la formula di relativismo. a. Secondo Maraventano le vicende della vita, i casi giornalieri, le afflizioni e le miserie particolari, le generali calamità ci dovrebbero insegnare a ad affrontare con coraggio le difficoltà b a dimenticare queste miserie, in quanto per nulla importanti c ad attribuirle a precise cause scientifiche, che vanno di volta in volta precisate Scegli la risposta e motivala in breve. b. In un punto si affronta anche il problema di Dio: dove? Rintraccialo nel testo. Quali conclusioni trae il protagonista? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... c. Ora riassumi il relativismo pirandelliano in un tuo testo, nel quale avrai cura di riutilizzare termini ed espressioni ripresi da questa novella (max 15 righe).

LAVORIAMO SU

a. Rintraccia nel testo i punti in cui questa tematica emerge. b. Per il critico Arturo Janner, l’originalità di Pallottoline! consiste nel fatto che Maraventano «non può comprendere i desideri, le nostalgie e le ansie che travagliano sua moglie e sua figlia», in quanto esse perdono d’importanza a paragone con l’immensità del cosmo; se misurato su quella scala, tutto appare dunque relativo. Roberto Alonge, invece, sostiene che «è proprio l’incapacità di risolvere quelle ansie e quei travagli a portarlo ad applicare ad essi il metro cosmico-astrale». Quale delle due interpretazioni ti sembra più convincente? e perché? Rispondi in max 10 righe.

{ Forme e stile 4. Già prima di approdare alle scene, Pirandello evidenzia una forte attitudine alla scrittura teatrale. I dialoghi delle sue novelle e dei suoi romanzi assomigliano a una pre-sceneggiatura, con didascalie, battute di dialogo, gesti di accompagnamento e di commento. a. Prova ad analizzare la novella letta da questo punto di vista: – evidenzia sul testo le battute di dialogo più vive ed efficaci; – sottolinea i gesti che più efficacemente illustrano le parole; – rintraccia la presenza di battute di dialogo implicito anche in punti non dialogati ma solo narrativi, come per esempio: Ah, ma anche per le mosche, se Dio voleva, erano gli ultimi giorni di baldoria (rr. 14-15).

LINGUA E LESSICO

1. La lingua di Pirandello nasce da un impasto originale, che oscilla tra due toni principali: a) un tono volutamente basso o medio; b) un tono più caratterizzato e definibile come espressionistico (E l’avanguardia artistico-letteraria p. 55). Completa la tabella con termini ed espressioni tratti dal testo della novella.

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3. In Pallottoline! emerge anche una dimensione caratteristica del mondo pirandelliano, ovvero un’idea di famiglia come gabbia di sofferenza non solo per i coniugi, ma anche per i figli.

termini bassi e quotidiani

lessico acceso ed espressionistico

il fogliolino del calendario… .............................................. ottimo per... .............................................. .............................................. .............................................. .............................................. ..............................................

quell’aspra selva di capelli .............................................. riccioluti e quel barbone .............................................. mostruoso, arruffato .............................................. ............................................. ............................................. .............................................

La tragedia di un personaggio Novelle per un anno Anno: 1911 Temi: • il paradossale colloquio tra un autore e i personaggi della fantasia • la richiesta di un personaggio di essere fatto vivere in un’opera d’arte di valore e il rifiuto dell’autore di accontentarlo • i personaggi sono più vivi e più veri delle persone reali Siamo davanti a una «metanovella», ovvero a un racconto utilizzato come una sorta di saggio critico, di scritto teorico; lo scopo è una riflessione sui fini e sui modi del narrare. L’inizio racconta un’«udienza», una delle tante – si legge – che abitualmente lo scrittore concede ai suoi personaggi. Entriamo così nel laboratorio creativo di Pirandello: del resto, questa dimensione teorica risponde bene ai caratteri dell’umorismo, di una poetica, cioè, che al centro dell’arte pone appunto la riflessione.

l’insolita trovata da cui la novella si avvia; una situazione in cui è già contenuto, in germe, lo sviluppo successivo

Pirandello sembra provare gusto a scompigliare la maschera di rispettabilità esteriore dei suoi personaggi

nell’arte umoristica il riso e il pianto si mescolano naturalmente

È mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle. Cinque ore, dalle otto alle tredici. M’accade quasi sempre di trovarmi in cattiva compagnia.1 Non so perché, di solito accorre a queste mie udienze la gente più scontenta del 5 mondo, o afflitta da strani mali, o ingarbugliata in speciosissimi2 casi, con la quale è veramente una pena trattare. Io ascolto tutti con sopportazione; li interrogo con buona grazia; prendo nota de’ nomi e delle condizioni di ciascuno; tengo conto de’ loro sentimenti e delle loro aspirazioni. Ma bisogna anche aggiungere che per mia disgrazia non sono di facile 10 contentatura. Sopportazione, buona grazia, sì; ma esser gabbato3 non mi piace. E voglio penetrare in fondo al loro animo con lunga e sottile indagine. Ora avviene che a certe mie domande più d’uno aombri4 e s’impunti e recalcitri furiosamente, perché forse gli sembra ch’io provi gusto a scomporlo5 dalla serietà con 15 cui mi s’è presentato. Con pazienza, con buona grazia m’ingegno di far vedere e toccar con mano, che la mia domanda non è superflua, perché si fa presto a volerci in un modo o in un altro;6 tutto sta poi se possiamo essere quali ci vogliamo. Ove quel potere manchi, per forza questa volontà deve apparire ridicola e vana.7 20 Non se ne vogliono persuadere. E allora io, che in fondo sono di buon cuore, li compatisco. Ma è mai possibile il compatimento di certe sventure, se non a patto che se ne rida? Orbene, i personaggi delle mie novelle vanno sbandendo8 per il mondo, che io sono uno scrittore crudelissimo e spietato. [...] Quest’ultima domenica sono entrato nello scrittojo, per l’udienza, un po’ più tardi 25 del solito.

1. in cattiva compagnia: intende con i suoi personaggi. 2. speciosissimi: curiosi e piuttosto strani. 3. gabbato: preso in giro. 4. aombri: si adombri, se ne abbia a male.

5. scomporlo: turbarlo. 6. volerci... o in un altro: cioè a costruirci una «forma», la personalità da noi desiderata. Essa, però, non corrisponde alla realtà interiore.

7. ridicola e vana: come ogni sforzo che, alla fin fine, risulti inutile. 8. sbandendo: proclamando.

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Monografia Raccordo

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Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

il traguardo di tanti personaggi umoristi di Pirandello

il tipico sguardo deformato di Pirandello (vedi per esempio l’occhio strabico di Mattia Pascal)

tutti gli umoristi pirandelliani si «lontanano» dal mondo e scrutano con indifferenza le vicende degli uomini ecco un personaggio che sembra vivere indipendentemente dall’autore, dotato di volontà propria

Un lungo romanzo inviatomi in dono, e che aspettava da più d’un mese d’esser letto, mi tenne sveglio fino alle tre del mattino per le tante considerazioni che mi suggerì un personaggio di esso, l’unico vivo tra molte ombre vane. Rappresentava un pover’uomo, un certo dottor Fileno, che credeva d’aver trovato il 30 più efficace rimedio a ogni sorta di mali, una ricetta infallibile per consolar se stesso e tutti gli uomini d’ogni pubblica o privata calamità. Veramente, più che rimedio o ricetta, era un metodo, questo del dottor Fileno, che consisteva nel leggere da mane9 a sera libri di storia e nel veder nella storia anche il presente, cioè come già lontanissimo nel tempo e impostato10 negli archi- 35 vii del passato. Con questo metodo s’era liberato d’ogni pena e d’ogni fastidio, e aveva trovato – senza bisogno di morire – la pace: una pace austera e serena, soffusa di quella certa mestizia senza rimpianto, che serberebbero ancora i cimiteri su la faccia della terra, 40 anche quando tutti gli uomini vi fossero morti. Non si sognava neppure, il dottor Fileno, di trarre dal passato ammaestramenti per il presente.11 [...] E nemmeno si sognava di trarre dal presente norme o previsioni per l’avvenire; anzi faceva proprio il contrario: si poneva idealmente nell’avvenire per guardare il presente, e lo vedeva come passato. Gli era morta, per esempio, da pochi giorni una figliuola. Un amico era andato a 45 trovarlo per condolersi con lui della sciagura. Ebbene, lo aveva trovato già così consolato, come se quella figliuola gli fosse morta da più che cent’anni. La sua sciagura, ancor calda calda,12 l’aveva senz’altro allontanata nel tempo, respinta e composta nel passato. Ma bisognava vedere da quale altezza e con quanta 50 dignità ne parlava! Insomma, di quel suo metodo il dottor Fileno s’era fatto come un cannocchiale rivoltato.13 Lo apriva, ma non per mettersi a guardare verso l’avvenire, dove sapeva che non avrebbe veduto niente; persuadeva l’anima a esser contenta di mettersi a guardare dalla lente più grande, attraverso la piccola, appuntata al14 presente, per modo che tutte le cose subito le apparissero piccole e lontane. E attendeva da varii anni a 55 comporre un libro, che avrebbe fatto epoca certamente: La filosofia del lontano. Durante la lettura del romanzo m’era apparso manifesto che l’autore, tutto inteso ad annodare artificiosamente una delle trame più solite, non aveva saputo assumere intera coscienza di questo personaggio, il quale, contenendo in sé, esso solo, il germe d’una vera e propria creazione, era riuscito a un certo punto a prender la mano 60 all’autore e a stagliarsi per un lungo tratto con vigoroso rilievo su i comunissimi casi narrati e rappresentati; poi, all’improvviso, sformato e immiserito,15 s’era lasciato piegare e adattare alle esigenze d’una falsa e sciocca soluzione. Ero rimasto a lungo, nel silenzio della notte, con l’immagine di questo personaggio davanti agli occhi, a fantasticare. Peccato! C’era tanta materia in esso, da trarne 65 fuori un capolavoro! [...] E una gran pena e un gran dispetto s’erano impadroniti di me per quella vita miseramente mancata.

9. mane: mattina. 10. impostato: sistemato. 11. Non si sognava... presente: Fileno ripudia l’antico precetto per cui la storia sarebbe «maestra di vita». La storia è invece una costruzione artificiale, una «forma», fis-

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sata a posteriori da chi la scrive e opposta alla vita (che è flusso indistinto di eventi e, dunque, non si può fissare in alcun modo). 12. calda calda: recente e quindi dolorosa. 13. un cannocchiale rivoltato: guardato dalla parte opposta, il cannocchiale rim-

picciolisce le cose vicine, invece che ingrandire quelle lontane. 14. appuntata al: rivolta verso il. 15. sformato e immiserito: per colpa dell’autore (non precisato) del lungo romanzo letto da Pirandello.

il personaggio vive di una realtà non materiale, ma non per questo meno «vera» delle persone comuni

Ebbene, quella mattina, entrando tardi nello scrittojo, vi trovai un insolito scompiglio, perché quel dottor Fileno s’era già cacciato in mezzo ai miei personaggi aspettanti, i quali, adirati e indispettiti, gli erano saltati addosso e cercavano di cacciarlo 70 via, di strapparlo indietro. – Ohé! – gridai. – Signori miei, che modo è codesto? Dottor Fileno, io ho già sprecato con lei troppo tempo.16 Che vuole da me? Lei non m’appartiene. Mi lasci attendere17 in pace adesso a’ miei personaggi, e se ne vada. Una così intensa e disperata angoscia si dipinse sul volto del dottor Fileno, che su- 75 bito tutti quegli altri (i miei personaggi che ancora stavano a trattenerlo) impallidirono mortificati e si ritrassero. – Non mi scacci, per carità, non mi scacci! Mi accordi cinque soli minuti d’udienza, con sopportazione di questi signori, e si lasci persuadere, per carità! 80 Perplesso e pur compreso di pietà, gli domandai: – Ma persuadere di che? Sono persuasissimo che lei, caro dottore, meritava di capitare in migliori mani. Ma che cosa vuole ch’io le faccia? Mi sono doluto già molto della sua sorte; ora basta. – Basta? Ah, no, perdio! – scattò il dottor Fileno con un fremito d’indignazione per tutta la persona. – Lei dice così perché non son cosa sua!18 La sua noncuranza, 85 il suo disprezzo mi sarebbero, creda, assai meno crudeli, che codesta passiva commiserazione, indegna d’un artista, mi scusi! Nessuno può sapere meglio di lei, che noi siamo esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni; forse meno reali, ma più veri!19 Si nasce alla vita in tanti modi, caro signore; e lei sa bene che la natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di 90 creazione. E chi nasce mercé quest’attività creatrice che ha sede nello spirito dell’uomo, è ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal grembo mortale d’una donna. Chi nasce personaggio, chi ha l’avventura di nascere personaggio vivo, può infischiarsi anche della morte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore più! 95 E per vivere eterna, non ha mica bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Mi dica lei chi era Sancho Panza!20 Mi dica lei chi era don Abbondio!21 Eppure vivono eterni perché – vivi germi22 – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire per l’eternità. – Ma sì, caro dottore: tutto questo sta bene, – gli dissi. – Ma non vedo ancora che 100 cosa ella possa volere da me. – Ah no? non vede? – fece il dottor Fileno. – Ho forse sbagliato strada? Sono caduto per caso nel mondo della Luna? Ma che razza di scrittore è lei, scusi? Ma dunque sul serio lei non comprende l’orrore della tragedia mia? Avere il privilegio inestimabile di esser nato personaggio, oggi come oggi, voglio dire oggi che la vita materiale 105 è così irta di vili difficoltà che ostacolano, deformano, immiseriscono ogni esistenza; avere il privilegio di esser nato personaggio vivo, ordinato23 dunque, anche nella

16. troppo tempo: Pirandello era rimasto sveglio fin quasi all’alba per leggere il libro che ne trattava. 17. attendere: badare. 18. cosa sua: cioè, una sua creatura. 19. più veri!: “veri”, ovviamente, di una verità spirituale e artistica, non naturale. 20. Sancho Panza: lo scudiero di don Chi-

sciotte nel romanzo (il Don Chisciotte) di Miguel de Cervantes. 21. don Abbondio: il curato di campagna dei Promessi sposi di Manzoni. Gli esempi si riferiscono a personaggi comici, tipici della poetica umoristica di Pirandello. Sono personaggi senza doti grandiose, che non hanno compiuto imprese memorabili.

22. vivi germi: esistevano solo come potenzialità non ancora tradotte in atto. Tra i tanti scudieri e parroci possibili, proprio su di loro è caduta la scelta dei rispettivi autori, che li hanno così chiamati alla vita. 23. ordinato: destinato.

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Monografia Raccordo

ritorna l’invenzione dell’inizio: l’autore che dà udienza alla folla dei suoi personaggi

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

contro la vecchia letteratura costruita con ingredienti falsi e non con la vita vera

Pirandello si schermisce; riesce a respingere l’invito del dottor Fileno: non lo metterà per iscritto

mia piccolezza, all’immortalità, e sissignore, esser caduto in quelle mani,24 esser condannato a perire iniquamente,25 a soffocare in quel mondo d’artifizio, dove non posso né respirare né dare un passo, perché è tutto finto, falso, combinato, arzigogo- 110 lato! Parole e carta! Carta e parole! Un uomo, se si trova avviluppato26 in condizioni di vita a cui non possa o non sappia adattarsi, può scapparsene, fuggire; ma un povero personaggio, no: è lì fissato, inchiodato a un martirio senza fine! Aria! aria! vita! Ma guardi... Fileno...27 mi ha messo nome Fileno... Le pare sul serio che io mi possa chiamar Fileno? Imbecille, imbecille! Neppure il nome ha saputo darmi! [...] Con- 115 dannato a morte,28 io, l’autore della Filosofia del lontano, che quell’imbecille non ha trovato modo neanche di farmi stampare a mie spese! [...] Su, su, all’opera, all’opera, caro signore! Mi riscatti lei, subito subito! mi faccia viver lei che ha compreso bene tutta la vita29 che è in me! A questa proposta avventata furiosamente come conclusione del lunghissimo sfo- 120 go, restai un pezzo a mirare30 in faccia il dottor Fileno. – Si fa scrupolo?31 – mi domandò, scombujandosi.32 – Si fa scrupolo? Ma è legittimo, legittimo, sa! È suo diritto sacrosanto riprendermi e darmi la vita che quell’imbecille non ha saputo darmi. È suo e mio diritto, capisce? – Sarà suo diritto, caro dottore, – risposi, – e sarà anche legittimo, come lei crede. 125 Ma queste cose, io non le faccio. Ed è inutile che insista. Non le faccio. Provi a rivolgersi altrove. – E a chi vuole che mi rivolga, se lei... – Ma io non so! Provi. Forse non stenterà molto a trovarne qualcuno perfettamente convinto della legittimità di codesto diritto. Se non che, mi ascolti un po’, caro 130 dottor Fileno. È lei, sì o no, veramente l’autore della Filosofia del lontano? – E come no? – scattò il dottor Fileno, tirandosi un passo indietro e recandosi le mani al petto. – Oserebbe metterlo in dubbio? [...] – Mi lasci dire. Se Ella crede sul serio, come me, alla virtù della sua filosofia, perché non la applica33 un po’ al suo caso? Ella va cercando, oggi, tra noi, uno scrittore che la 135 consacri all’immortalità? Ma guardi a ciò che dicono di noi poveri scrittorelli contemporanei tutti i critici più ragguardevoli. Siamo e non siamo,34 caro dottore! E sottoponga, insieme con noi, al suo famoso cannocchiale rivoltato i fatti più notevoli, le questioni più ardenti e le più mirabili opere dei giorni nostri. Caro il mio dottore, ho gran paura ch’Ella non vedrà più niente né nessuno. E dunque, via, si consoli, o piut- 140 tosto, si rassegni, e mi lasci attendere a’ miei poveri personaggi, i quali, saranno cattivi, saranno scontrosi, ma non hanno almeno la sua stravagante ambizione.35 L. Pirandello, Novelle per un anno, cit., vol. I

24. in quelle mani: del modesto autore di cui si è parlato. 25. iniquamente: ingiustamente. 26. avviluppato: soffocato in un abbraccio mortale (nella «trappola» delle «forme»). 27. Fileno: è un nome buffo, dato dai poeti dell’Arcadia settecentesca ai pastori-musici. Siamo in pieno «contrario» umoristico. 28. a morte: alla non-vita dei personaggi che non sono stati trasfigurati da un autore.

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29. tutta la vita: i possibili sviluppi drammatici a cui egli, in quanto personaggio, può dar luogo. 30. mirare: guardare. 31. Si fa scrupolo: Pirandello è forse perplesso, e non vuole appropriarsi del personaggio di un altro autore facendolo vivere in una storia diversa. 32. scombujandosi: turbandosi (per timore che la sua richiesta resti insoddisfatta).

33. perché non la applica: perché il dottor Fileno non si rassegna, applicando a se stesso la sua filosofia dell’indifferenza? 34. Siamo e non siamo: la nostra (di autori) è un’esistenza precaria; abbiamo scarso prestigio e scarso potere. 35. stravagante ambizione: il desiderio di diventare a tutti i costi immortale.

IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ La tragedia di un personaggio è una novella teorica, in cui Pirandello espone le sue idee sulla natura dei personaggi dell’arte. Lo fa però servendosi di due figure ben distinte e caratterizzate: • l’autore, in questo caso Pirandello, che ogni domenica mattina «dà udienza» ai personaggi della fantasia; • uno di questi personaggi, lo strambo (ma lucidissimo) dottor Fileno. ■ Una bella mattina di domenica, Fileno giunge allo studio

di Pirandello con una richiesta: vuole essere fatto vivere dall’autore in una vera opera d’arte. L’autore precedente, infatti, lo aveva sì creato come personaggio, ma per abbandonarlo poi in una narrazione priva di sviluppo e d’interesse. Solo Pirandello, dice Fileno, può donargli realmente tutta la vita che è in lui. ■ Davanti a questa richiesta, Pirandello rifiuta. Non vuole impadronirsi di una creatura della mente altrui. E poi – aggiunge – i critici parlano così male di noi autori contemporanei…!

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ La novella tratteggia la decisiva problematica del «personaggio senza autore», fulcro della poetica pirandelliana (E scheda a p. 613): siamo davanti a un racconto fondamentale in vista dei successivi sviluppi drammaturgici della scrittura pirandelliana. Fileno si presenta come un personaggio già completo, potenzialmente grande (C’era tanta materia in esso, da trarne fuori un capolavoro!, rr. 65-66), ma irrealizzato. Un precedente autore, non nominato, l’ha infatti utilizzato in modo molto banale, per uno «stupido garbuglio di casi»; così adesso egli non ha alcuna vera identità. Per esempio, Fileno non si riconosce nel proprio nome.

■ Oltre al tema del personaggio senza autore, la novella ne pone un altro in controluce, ovvero la polemica di Pirandello contro la narrativa dalla facile presa sul pubblico, ma priva di coscienza artistica. Nelle Novelle per un anno, viceversa, la trama non è il fine della narrazione, ma solo uno strumento attraverso cui far emergere problematiche importanti, decisive. Gli speciosissimi casi (r. 6) narrati da Pirandello diventano così altrettanti exempla, come si diceva nel Medioevo, modi cioè per verificare su piani diversi l’assurdità del vivere umano.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. I primi capoversi della novella raffigurano le caratteristiche dell’autore e dei suoi personaggi: è un ritratto di arte umoristica in presa diretta. a. Cominciamo dall’autore: egli appare a un individuo attento solo ai riflessi umani dei personaggi b un intellettuale attento solo alla sfera dell’arte c uno che compatisce e insieme ride delle sventure dei personaggi d un uomo qualunque, che assomiglia in tutto ai suoi personaggi b. Quanto invece ai personaggi dell’umorismo, essi sono caratterizzati come individui a comuni b strani c tragici d comici Motiva in breve entrambe le risposte. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

2. A un certo punto si presenta un tipo strambo ma interessante, il dottor Fileno. Egli sostiene di avere elaborato un suo metodo di vita: la filosofia del lontano. a. Riassumi in che cosa consiste tale metodo o filosofia di vita (max 5 righe). ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... b. Pirandello adduce un esempio per illustrarlo meglio: quale? ............................................................................................... c. Perché usa a un certo punto la metafora del cannocchiale rivoltato? Spiegala con le tue parole. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... d. Ora metti a confronto il metodo di Fileno con quello di Maraventano, l’astronomo di Pallottoline!. Essi giungono a risultati analoghi partendo da premesse, o meglio, da campi d’osservazione differenti. In che senso? (max 10 righe) 611

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ANALISI DEL TESTO

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

3. Un punto molto importante nella novella è la disquisizione di Fileno sulla natura dei personaggi rr. 87-99). La lunga battuta in cui Fileno definisce la superiore realtà ed eternità dei personaggi sarà ripetuta con le stesse parole nel famoso monologo del Padre in Sei personaggi in cerca d’autore. a. In che senso Fileno sostiene che noi siamo esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni? ............................................................................................... ............................................................................................... b. Che cosa intende con l’aggiunta forse meno reali, ma più veri? ............................................................................................... ............................................................................................... c. Fileno esemplifica citando due celebri personaggi: quali? Sono personaggi comici o drammatici? ............................................................................................... ............................................................................................... d. Quale ruolo, in tutto ciò, viene riconosciuto all’autore? ............................................................................................... ............................................................................................... e. Ora puoi chiarire il titolo della novella: in che cosa consiste realmente la «tragedia» dei personaggi? Essa riguarda soltanto il dottor Fileno o no? ............................................................................................... ............................................................................................... 4. Lungo il racconto emergono alcuni spunti polemici che Pirandello indirizza da una parte contro i critici del suo tempo, e dall’altra contro i romanzieri suoi colleghi. a. Individua nel testo e riassumi: – gli spunti polemici verso i critici – gli spunti polemici verso i romanzieri (presta attenzione, fra l’altro, al nome stesso di Fileno)

LAVORIAMO SU

a. Con quali argomenti Pirandello si rifiuta di accogliere il dottor Fileno come un suo nuovo personaggio? Riassumili in max 5 righe. b. Si possono individuare già in questo racconto segni di esitazione e di cedimento da parte di Pirandello? Cita nella risposta eventuali espressioni del testo.

{ Forme e stile 6. Uno dei temi presenti nella novella è quello dell'antitesi tra vita e forma; esso lascia evidenti tracce nel dialogo e nelle scelte stilistiche. Tale tema risalta, per esempio, in questo discorso di Fileno: Un uomo, se si trova avviluppato in condizioni di vita a cui non possa o non sappia adattarsi, può scapparsene, fuggire; ma un povero personaggio, no: è lì fissato, inchiodato a un martirio senza fine! (rr. 111-113). a. Spiega in primo luogo, con riferimento alla poetica pirandelliana, in che cosa consiste l'antitesi tra vita e forma. ............................................................................................... ............................................................................................... b. La tematica vita/forma viene espressa, nella citazione sopra riportata, con un'immagine metaforica molto efficace: quale? ............................................................................................... c. Ora individua e sottolinea nel brano altre espressioni o immagini attinenti al medesimo campo semantico.

LINGUA E LESSICO

1. Il dialogo di Pirandello è sempre molto vivo, anche grazie all’uso di espressioni provenienti dalla lingua parlata, come per esempio esser gabbato non mi piace. a. Rintraccia nella novella, e trascrivi, altri esempi di espressioni della lingua parlata. ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

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5. In questa novella Pirandello riesce, per così dire, a cavarsela, rifiutando di accontentare Fileno. Successivamente, però, i personaggi torneranno ad assediare come un’ossessione la sua mente, ed egli dovrà accontentarli, cioè farli vivere. Nascerà così il dramma dei Sei personaggi in cerca d’autore.

2. In questa che è una metanovella ricorrono con frequenza termini appartenenti alla sfera linguistica della poetica e dell’estetica. a. Chiarisci anzitutto cosa s’intende per metanovella. b. Rileggi il testo e individua tutti i termini relativi alla sfera lessicale citata. c. Ora rifletti: perché, secondo te, Pirandello affida l’illustrazione della sua teoria del personaggio non a un saggio teorico, ma a una novella? (max 5 righe) ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

Contesto

Luigi Pirandello

Il relativismo suggeriva a Pirandello l’idea di un io debole, disgregato, frammentario. I personaggi che nasceranno da questo io non saranno creazioni d’arte ma frammenti, schegge di una personalità disgregata. Non potranno che nascere autonomi, del tutto indipendenti da lui. Simili personaggi non si stancano di cercare un autore, perché aspirano a diventare come le altre creature dell’arte, che «non muoiono mai». Ma l’autore non vuole (né può) dare loro alcuna forma o stabilità. Questa originale teoria del personaggio viene preparata già in un saggio del 1899, L’azione parlata. Pirandello esprimeva in esso l’idea che l’opera teatrale è prodotta non dall’autore, ma dai personaggi: «Un lavoro drammatico dovrebbe risultare come scritto da tanti e non dal suo autore, come composto [...] dai singoli personaggi, nel fuoco dell’azione, e non dal suo autore». Già qualche anno prima, nel poemetto giovanile Belfagor (1892), Pirandello aveva mostrato il colloquio di un autore, solo nel suo studio, a cui si presenta un personaggio, «un signore sconosciuto»: questi gli porge «una lettera in latino, / con la firma: Nicolaus, / segretario fiorentino». Quel «bel tipo» è Belfagor arcidiavolo, protagonista di una novella di Machiavelli. La ripresa di questo spunto avviene in una novella del 1906, Personaggi. Qui Pirandello immagina un autore che dà udienza ai suoi personaggi: si presenta davanti a lui Leandro Scoto, che gli chiede di essere fatto vivere in un’opera d’arte. Pirandello rifiuta, eppure il dottor Scoto insiste: afferma di essere vivo e reale, di fronte a lui! Temi analoghi ritornano in altre novelle di poco successive: La tragedia di un personaggio (1911) e Collo-

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L’originale teoria del personaggio «senza autore» ■ Il pino, nella località di Caos (Agrigento), ai piedi del quale sono murate, in un masso di pietra, le ceneri di Pirandello.

qui coi personaggi (1915). Protagonisti di questi racconti sono creature puramente ideali eppure esistenti, vive malgrado il rifiuto dello scrittore a dar loro vita; o meglio, non malgrado, ma mediante quel rifiuto. La sintesi di questa teoria del personaggio «senza autore» sarà espressa nella Prefazione (1925) al dramma Sei personaggi in cerca d’autore. In questo testo, Pirandello rifletterà sulla nascita del personaggio, definendo il mistero della creazione artistica come «il mistero stesso della nascita naturale»: la «fantasia» (anch’essa è, per Pirandello, un personaggio, tanto che nella Prefazione egli la definisce come una «servetta sveltissima» e un po’ pettegola) gli aveva condotto in casa, anni prima, «una famiglia», i cui membri (Padre, Madre, Figlia, un Giovane sui vent’anni, una Bambina e un Ragazzo) esigono da lui di essere messi per iscritto in un dramma; lo scrittore si era rifiutato, aveva cercato di «allontanare» da sé i per-

sonaggi, senza successo, però. Infine si è deciso: «O perché – mi dissi – non rappresento questo novissimo caso d’un autore che si rifiuta di far vivere alcuni suoi personaggi, nati vivi nella sua fantasia, e il caso di questi personaggi che, avendo ormai infusa in loro la vita, non si rassegnano a restare esclusi dal mondo dell’arte? Essi si sono già staccati da me, vivono per conto loro [...]. E allora, ecco, lasciamoli andare dove son soliti d’andare i personaggi drammatici per aver vita: su un palcoscenico. E stiamo a vedere che cosa ne avverrà». Questa teoria pirandelliana del personaggio autonomo, indipendente dal suo autore, è un motivo pienamente novecentesco. Essa ribalta infatti l’idea romantica dell’autore come «genio» che crea, e apre la via alla dissoluzione della funzione dello scrittore e, in ultima analisi, della letteratura stessa: secondo quella riduzione dell’arte letteraria a misura d’igiene, o a «purgante», che avevamo riscontrato già in Svevo (E p. 509).

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Tra Ottocento e Novecento

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Il treno ha fischiato Novelle per un anno Anno: 1914 Temi: • la monotonia della vita impiegatizia • l’improvvisa scoperta di un «altro» orizzonte di vita • la solitudine e l’estraneità di chi lo scopre Leggiamo un racconto assai rivelatore dell’umorismo pirandelliano. La vicenda dell’impiegato Belluca, che di colpo, per un’inezia, smarrisce il contatto con la realtà e si estranea in un suo mondo, ricorda la sorte di Mattia Pascal, il «forestiere della vita»: colui che si emargina dall’esistenza comune e la osserva da «fuori».

la diagnosi dello strano male che ha colpito il protagonista

il narratore ricostruisce da qui il retroterra umano del personaggio

Farneticava.1 Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio,2 ov’erano stati a visitarlo. Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, 5 appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via: – Frenesia,3 frenesia. – Encefalite.4 – Infiammazione della membrana.5 – Febbre cerebrale. E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere 10 compiuto;6 nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale. – Morrà? Impazzirà? – Mah! 15 – Morire, pare di no... – Ma che dice? che dice? – Sempre la stessa cosa. Farnetica... – Povero Belluca! E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tut- 20 to ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso. Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato al suo capoufficio, e che poi, all’aspra riprensione7 di questo, per poco non gli s’era scagliato addosso, dava un serio argomento8 alla supposizione che si trattasse d’una vera e pro- 25 pria alienazione mentale. Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare. Circoscritto... sì, chi l’aveva definito così? Uno dei suoi compagni d’ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di com- 30

1. Farneticava: delirava, vaneggiava. 2. ospizio: manicomio. 3. Frenesia: termine medico per uno stato di pazzia furente, di allucinata eccitazione.

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4. Encefalite: grave infiammazione cerebrale. 5. membrana: la meninge. 6. quel dovere compiuto: l’obbligo mora-

le, appunto, di visitare il collega malato. 7. riprensione: rimprovero. 8. argomento: indizio.

il protagonista sembra respirare in un’altra atmosfera, del tutto diversa da quella abituale

ecco la dichiarazione del fatto (minuscolo, insignificante) che ha rivoluzionato la vita del personaggio

putista,9 senz’altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, librimastri, partitarii, stracciafogli10 e via dicendo. Casellario ambulante:11 o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d’un passo,12 sempre per la stessa strada la car35 retta, con tanto di paraocchi.13 Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire14 un po’, a fargli almeno almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare15 un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture16 in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccasse- 40 ro, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte. Inconcepibile, dunque, veramente,17 quella ribellione in lui, se non come effetto d’una improvvisa alienazione mentale. Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava18 la riprensione; proprio aveva il 45 diritto di fargliela, il capo-ufficio. Già s’era presentato, la mattina, con un’aria insolita, nuova; e – cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d’una montagna – era venuto con più di mezz’ora di ritardo. Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’in- 50 torno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai. Così ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato all’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente. 55 La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte: – E come mai? Che hai combinato tutt’oggi? Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza, aprendo le mani. – Che significa? – aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi e pren60 dendolo per una spalla e scrollandolo. – Ohé, Belluca! – Niente, – aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impudenza e d’imbecillità su le labbra. – Il treno, signor Cavaliere. – Il treno? Che treno? – Ha fischiato. 65 – Ma che diavolo dici? – Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare... – Il treno? – Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere!

9. mansione di computista: lavoro di contabile, di ragioniere. Quanto di più meccanico e anonimo si possa immaginare. 10. note... stracciafogli: termini tecnici che indicano tipi di contabilità e operazioni di calcolo. 11. Casellario ambulante: una specie di uomo-schedario, dunque.

12. sempre d’un passo: con andatura costante. 13. paraocchi: la maschera che si pone sul muso del cavallo o del mulo, per limitarne la visuale. 14. imbizzire: imbizzarrire. 15. levare: alzare. 16. punture: punzecchiature.

17. Inconcepibile... veramente: il narratore presta voce all’ottusa mentalità dei colleghi di lavoro, che non comprendono come appunto quel meccanismo ripetitivo e spersonalizzante, da loro evocato, abbia determinato la reazione di Belluca. 18. proprio gli toccava: se l’era meritato, quel rimprovero.

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Monografia Raccordo

il giudizio della gente su Belluca è implacabilmente negativo

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

la follia (o presunta tale), con l’emarginazione che ne deriva, è il consueto destino dei protagonisti pirandelliani

chi esce dalle «forme» che imprigionano la vita, si ritrova sbalzato in un’atmosfera celestiale, quasi estatica

nell’umorismo pirandelliano il narratore prova pietà per l’esistenza dolorosa dei personaggi

Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati nella stan70 za e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi. Allora il capo-ufficio – che quella sera doveva essere di malumore – urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato19 la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischia- 75 to, e che, perdio, ora non più, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato20 e trascinato all’ospizio dei matti. Seguitava ancora, qua,21 a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio 80 assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva: – Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove? E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi.22 Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro,23 aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza costrutto24 gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite, espressioni poetiche,25 immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non 85 si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s’era mai occupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, volumi90 nosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite. Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell’improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa. Difatti io accolsi in silenzio la notizia. E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca 95 contratti in giù, amaramente, e dissi: – Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa26 dev’essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi 100 spiegherò tutto naturalissimamente, appena l’avrò veduto e avrò parlato con lui. Cammin facendo verso l’ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio: “A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita ‘impossibile’, la cosa più ovvia, l’incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d’un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui 105

19. malmenato: maltrattato. 20. imbracato: legato da capo a piedi. 21. qua: nel manicomio. 22. non erano... suoi: la perdita dell’identità, l’uscita dal proprio corpo, è il segnale certo della follia. Ma il Belluca è folle di quella particolare follia ben diversa dalla diagnosi (frenesia, febbre cerebrale ecc.) dei medici, riportata in apertura. La sua è una pazzia lu-

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cida, che riesce a vedere un orizzonte che agli altri, i «sani», è precluso. 23. senza lustro: senza luce. Occhi senza vita. 24. senza costrutto: senza senso (perlomeno senza il senso comune del linguaggio quotidiano). 25. espressioni poetiche: ripresa quell’autenticità che era stata soffocata per

tanti anni, il Belluca si esprime adesso col linguaggio che è proprio della verità: la lingua allusiva, immaginifica, della poesia. 26. Qualche cosa: in effetti gli è capitato un fatto, un incidente naturalissimo (la tipica trovata pirandelliana) che sconvolge radicate abitudini di vita, rivelando di colpo al personaggio – come fosse uno smascheramento – l’altra faccia delle cose.

solo adesso emerge l’antefatto: Pirandello ama raccontare «di sbieco», senza seguire la logica tradizionale

basta un evento qualunque a rivoluzionare l’esistenza dei protagonisti pirandelliani

Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca. Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle condizioni 115 di vita. Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta;28 l’altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate. Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una 120 con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto. Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette 125 ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali; ma tre. Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch’esse tra loro, 130 perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta. Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé. Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più in- 135 tontito che mai. Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo. Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credeva- 140 no impazzito. – Magari! – diceva. – Magari! Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva. Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il 145 giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia

27. facendo astrazione dal: prescindendo dal, dimenticando il.

28. cataratta: una malattia degli occhi che impedisce la vista.

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Monografia Raccordo

nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell’uomo è ‘impossibile’. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal27 mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; 110 ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro. “Una coda naturalissima.”

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

il narratore ripete il fatto naturalissimo che dà titolo al racconto: solo adesso diviene comprensibile

l’unico riscatto a una vita impossibile è la fantasia: a suo modo, Belluca è un poeta

dunque Belluca non è folle, ma solo ubriaco di vita e di libertà

bendata, aggiogata alla stanga d’una nòria29 o d’un molino,30 sissignori, s’era dimenticato da anni e anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva. Due sere avanti,31 buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi subito. E, 150 d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno. Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati. Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di 155 tutte quelle sue orribili angustie,32 e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante33 nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno. S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era 160 corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte. C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre segui- 165 tato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava,34 come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immagina- 170 zione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande,35 montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita “impossibile”, tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo 175 notturno le azzurre fronti... Sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così... c’erano gli oceani... le foreste... E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con 180 l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo. Gli bastava! Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro36 della troppa troppa aria, lo sentiva.

29. nòria: rudimentale meccanismo per attingere acqua dal pozzo. 30. molino: forma desueta per mulino. 31. avanti: prima. 32. angustie: la parola, che deriva dal latino angustia, significa “ristrettezza”, “oppressione”; ha la stessa radice di angoscia, che è l’ansia da soffocamento. Appunto le orribili angustie del quotidiano hanno de-

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terminato, nel Belluca, l’impossibilità ad adattarsi a quella morte lenta, all’asfissia di un’esistenza troppo grigia e monotona per poter essere vissuta. 33. anelante: desideroso di respirare aria pura. 34. gli rientrava: il fischio misterioso ha prodotto uno squarcio, grazie a cui il mondo è improvvisamente entrato nella prigio-

ne del protagonista. Si tratta, ovviamente, del «mondo» tutto immaginario dello spirito, che si nutre di sensazioni ed esperienze reali, ma su un piano diverso dall’ordinario. Per entrarvi, occorre una non facile capacità di vedere, che è la caratteristica dell’umorista (il saggio-folle) pirandelliano. 35. lande: terre, spazi ampi e sconosciuti. 36. ebro: ebbro, stordito come un ubriaco.

L. Pirandello, Novelle per un anno, cit., vol. I

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Protagonista del racconto è un individuo insignificante e sfortunato, il Belluca, un «uomo senza qualità», secondo il titolo di un celebre romanzo (1930) dell’austriaco Robert Musil. Un giorno però tutto cambia, per Belluca e in Belluca. Dalla prigione delle «forme» borghesi e quotidiane, egli passa alla libertà fantastica dei poeti, dei bambini, dei matti. È un passaggio conquistato mediante l’avventura dell’immaginazione: una folgorazione notturna (il fischio di un treno in corsa), che produce all’improvviso la presa di coscienza del personaggio; uno degli accidenti minimi, quotidiani, che vengono a sconvolgere l’esistenza di tanti protagonisti delle Novelle per un anno. Ma è un evento che sbalza il Belluca fuori dalla cappa soffocante delle abitudini e dei compromessi di cui è piena la sua esistenza di computista. Il fischio del treno gli rivela a un tratto un universo di libertà, di possibilità in cui egli si perde, come ubriaco. Perde, sì, la propria tranquillità mentale (il Belluca è uno dei tipici filosofi-folli di Pirandello), ma per acquisire in cambio una consapevolezza totale, che gli dà la nozione della propria dignità. ■ Il racconto è giocato su due piani contrastanti. Da una parte c’è la gente comune, che non capisce l’improvvisa follia del Belluca; dall’altra parte il narratore, che si sforza di ricostruire le ragioni di quella ribellione. Sul piano più superficiale, dunque, c’è la caratterizzazione (deformante e animalesca) del protagonista: egli è ritratto così come la gente lo vede, come un vecchio somaro, una bestia bendata, aggiogata alla stanga. Sull’altro piano si porrà una nuova caratterizzazione: Belluca, il giorno dopo, si presenta in ufficio senza più i paraocchi, come se gli si fosse... spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. ■ Le misteriose ragioni del fatto sono ricostruite solo a posteriori; anche il titolo rivelerà soltanto alla fine la sua carica informativa. In tal modo si crea una sottile ambiguità, che ha il compito di tener desta l’attenzione fino alla fine. Si parte dalle diagnosi iniziali (frenesia, encefalite); poi si racconta il fatto; quindi si ricostruisce il retroterra umano del protagonista; infine il narratore espone le motivazioni del fatto naturalissimo, raccontandolo come sostiene di averlo ap-

preso dalla viva voce del protagonista. È un percorso, come si vede, a zig zag, un oscillare continuo tra racconto e commento, tra il piano oggettivo dei fatti (che in sé sono poca cosa) e quello, soggettivo, del giudizio. ■ Questa esigenza comunicativa (ricostruire, spiegare, giudicare) attraversa l’intero tessuto della novella, come ci rivelano molti elementi: l’apertura vivacissima, giocata sul coro degli interlocutori; i numerosi inserti dialogici (Orbene, Niente!, Ebbene, signori, Signori, Belluca...); le didascalie quasi teatrali, come in una pre-sceneggiatura (per esempio qua, riferito all’ospedale); gli spunti interrogativi (Chi l’aveva definito così?, poteva Belluca...?). LAVORIAMO SUL TESTO 1. Il protagonista di questa novella è un «uomo senza qualità», ovvero un individuo senza storia, senza speranza, senza vita: da quali elementi del racconto lo capisci? 2. Poi però, in un secondo momento, egli cambia: come si manifesta tale cambiamento? E perché? 3. Una coda naturalissima. Quale paradossale ragionamento sorregge l’immagine? 4. La vicenda del Belluca ha un prima e un poi: c’è un evento, imprevedibile, che viene a sconvolgere la sua esistenza. Qual è? Si tratta di un evento preparato o improvviso? E quali sono le sue diverse conseguenze? 5. Il narratore sostiene che persino la coda di un mostro, vista nel contesto dell’animale, può sembrare una cosa naturalissima. Trovi un nesso fra questo paragone e la vicenda del Belluca? 6. Uno dei caratteri tipici dei personaggi di Pirandello è la follia. Come si manifesta, in questa novella? 7. Anche in questa novella vi sono diversi elementi che richiamano la «teatralità» della narrativa di Pirandello. Sai ritrovarli nel testo? 8. Uno dei grandi temi dell’umorismo pirandelliano è l’evasione dalla «forma». In che modo esso prende vita, in questo racconto? Lo hai incontrato anche in altri testi pirandelliani? 619

Monografia Raccordo

Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e 185 avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo: 190 – Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...

Contesto

Luigi Pirandello

L’OPERA

IL FU MATTIA PASCAL

Il primo libro di successo di Pirandello Testi • «Io mi chiamo Mattia Pascal» (cap. I) Laboratori interattivi • Una «babilonia» di libri (capp. I, II)

◗ Il più famoso romanzo di Pirandello uscì a puntate nel 1904 sulle pagine della rivista «La Nuova Antologia». L’anno seguente fu tradotto con buon successo in tedesco. Nel 1910 uscì quindi in volume presso l’importante casa editrice Treves di Milano; in quello stesso anno il romanzo fu pubblicato in francese, a Ginevra e a Parigi. Era il primo libro di Pirandello a godere di una discreta fortuna. L’edizione definitiva del Fu Mattia Pascal uscì nel 1921 presso l’editore Bemporad di Firenze, con alcune varianti e con l’aggiunta di un’interessante appendice intitolata Avvertenza su gli scrupoli della fantasia, in cui l’autore sosteneva che il caso paradossale toccato al protagonista non era poi così inverosimile. ◗ L’opera portava a maturazione i vari spunti di riflessione che Pirandello aveva già svolto o accennato in precedenza: nei saggi giovanili, nei primi romanzi (soprattutto L’esclusa, scritto nel 1893), nelle numerose novelle pubblicate fino a quel momento. Il risultato finale è un’opera del tutto nuova, di grande maturità e originalità tematica ed espressiva.

Un’avventura paradossale ◗ Il racconto è svolto in prima persona: l’io narrante è lo stesso protagonista, Mattia Pascal, che riepiloga, alla fine della propria straordinaria avventura, quanto gli è accaduto. Bibliotecario in un piccolo paese ligure, Miragno, ha trovato l’occasione di fuggire dalla famiglia opprimente e da un lavoro monotono: giocando al casinò di Montecarlo vince infatti una cospicua somma, grazie a cui può conquistare finalmente la libertà negatagli dall’esistenza quotidiana. Assume così il nuovo nome, da lui inventato, di «Adriano Meis», e cambia vita. ◗ Mattia deve però dolorosamente constatare che nemmeno questa nuova condizione gli consente di raggiungere la felicità: anzi, la sua solitudine si è fatta ancora più inesorabile. Non possiede infatti documenti che comprovino formalmente la sua identità: di fatto «non esiste» e lo constata amaramente al momento in cui vorrebbe sposare la donna di cui si è innamorato, Adriana, ma non può farlo. La sua evasione si conclude così con un deludente fallimento. Il protagonista decide allora di recuperare la vecchia identità di Mattia Pascal e torna al paese natale, ansioso di mostrarsi vivo agli antichi compaesani, ma scopre di essere stato del tutto o quasi dimenticato da loro. ◗ Di lui rimane solo la tomba dove, dopo la sua improvvisa scomparsa, è stato erroneamente sepolto il cadavere di uno sconosciuto suicida. Mattia Pascal è dunque ormai solo «il fu Mattia Pascal»: un redivivo sopravvissuto a se stesso, un essere alienato ed emarginato, un individuo che non ha – e non è – più nulla, nemmeno il proprio nome.

L’evasione impossibile e gli interrogativi sulla propria identità ◗ Seguendo la fallimentare esperienza del suo personaggio, Pirandello ritrae il sogno di un’evasione impossibile, il desiderio irrealizzabile di afferrare per sé un’identità che non sia quella imposta dal destino. L’esistenza di ogni persona è infatti governata da vicende che non possono essere controllate o mutate; è in balìa di convenzioni sociali, rigide e anonime, capaci di imbrigliare ogni anelito di libertà. La fuga non serve, poiché per riscattare la vita che abbiamo ricevuto non ci sono sbocchi o reali alternative. Quello di Mattia è dunque un tentativo fallito in partenza: gli è utile soltanto a scoprire la natura ingannevole dei rapporti sociali, ma gli impedisce di rientrare ed essere nuovamente accolto nella «vita». ◗ Il romanzo, però, non si arresta al livello di una protesta contro le strutture sociali. Al centro del racconto vi è infatti la tematica tipicamente pirandelliana del divario che separa la verità dei fatti dalle loro apparenze; dove sta la verità? E possiamo, noi, conoscerla? Domande vive, brucianti soprattutto per il protagonista: chi è Mattia? Se stesso o un «altro»? Chi è, adesso, Mattia? Esiste ancora o è, semplicemente, un morto-in-vita? 620

◗ Chi è dunque, realmente, Mattia? Soltanto un «fu»: il fu Mattia Pascal, appunto. In lui, eroe senza identità, e dunque perfetto antieroe, si anticipa quel processo di dissoluzione della figura «a tutto tondo» del personaggio ottocentesco che contraddistinguerà la letteratura del Novecento. È uno dei maggiori elementi di modernità di questo romanzo, così problematico e complesso.

La novità delle strutture narrative ◗ Grande è la novità del Fu Mattia Pascal anche sul piano narrativo. L’autore presenta il libro come se raccogliesse le memorie postume del protagonista, il quale, per chiarire il senso delle proprie vicende, ne racconta liberamente alcuni episodi principali. L’impianto è però fortemente innovativo, poiché si immagina di riferire non l’oggettività dei fatti, bensì il continuo fluire dei pensieri sorti nella mente di chi li narra, sia durante la sua vita (come emozioni «in presa diretta»), sia durante il racconto (come riflessioni successive). ◗ In tal modo, nella narrazione s’intrecciano due livelli: • da una parte, le vicende del protagonista, spesso prive di un fondamento «reale», proprio come fasulli sono i ricordi inventati da Adriano Meis per fingersi una nuova identità; • dall’altra, le riflessioni e i commenti del personaggio che scrive e ricorda e che non sempre riproducono il pensiero dell’autore. E così, dietro l’apparenza di una costruzione narrativa tradizionale, che adotta forme linguistiche e stilistiche riconducibili al Verismo ottocentesco, il romanzo di Mattia si trasforma in un contenitore multiforme, in cui s’intersecano più generi di racconto: • la cronaca e la meditazione; • l’esposizione degli eventi e il relativo commento; • il resoconto delle avventure di Mattia e il «diario» del suo percorso esistenziale, dubbioso e autoironico. ◗ S’infrangono d’un tratto, in tal modo, i canoni della narrativa di stampo verista. In apparenza, il narratore autobiografico (Mattia) adotta la maniera delle autobiografie ottocentesche (dai Ricordi di Massimo d’Azeglio alle Confessioni d’un italiano di Ippolito Nievo); ma nella realtà egli illustra un’avventura del tutto estranea ai cliché della letteratura romantica e risorgimentale: • non racconta infatti il proprio eroismo, non difende canoni morali e comportamentali riconoscibili, non espone l’opinione di una classe sociale definita; • denuncia semmai la propria inettitudine, la dissoluzione di sé, i propri tentativi di riscatto, tutti inevitabilmente votati al fallimento. ◗ Tutto ciò non può non avere riflessi anche sulla lingua e sullo stile. Infatti, una volta ritornato al paese natio e presa la decisione di scrivere le proprie memorie, Mattia non potrà che mettere sulla pagina una letteratura strabica com’è lui, paradossale, improbabile: scrittura antiretorica e caotica com’è la vita, miscuglio di passato e presente, racconto e commento. È la letteratura più adeguata a un tempo di crisi, di vuoto di valori. Una letteratura che arriva, persino, a mostrarci un protagonista al WC, il luogo meno probabile dove seppellire un amore. Il libro di Mattia è l’improbabile produzione di un antiscrittore, l’immagine più coerente di un mondo caotico, un mondo «senza autore». Egli darà voce perciò a uno stile anonimo per non dire assente, con le interiezioni, gli intercalari, le segmentazioni e le pause di un’espressione che sembra poter procedere solo per strappi successivi: immagine dell’impossibilità di ogni «parlar bello» davanti ai frantumi del mondo. 621

Monografia Raccordo

◗ Nella sua vicenda è simbolicamente raffigurato il destino fallimentare di un’intera generazione, disorientata dinnanzi agli interrogativi dell’esistenza, incapace di guidare il corso della propria vita: Mattia, l’«inetto a tutto», diviene un emblema del disagio intellettuale del primo Novecento e dei suoi uomini «senza qualità». Per tutto il romanzo egli rimane un io debole, perennemente diviso tra passato e presente, tra il «fu» Mattia e il nuovo «Adriano Meis». È un’«ombra» di uomo, un’«invenzione»: «Or che cos’ero io, se non un uomo inventato? Una invenzione ambulante...». Pagina dopo pagina, dovrà constatare il proprio fallimento. Inesorabilmente Mattia smarrisce il senso e i confini del suo vero essere, per assumere, assieme al proprio «doppio» Adriano Meis, contorni sempre più evanescenti, impalpabili e contraddittori. Rimarrà alla fine come paralizzato. Dovrà rinunciare a sposare Adriana e tornarsene a Miragno, il paese da cui è partito. Ma neppure lì potrà più ritrovarsi: un altro uomo, Pomino, ha preso il suo posto nella sua casa; al cimitero la sua tomba è occupata dal cadavere di un altro, lo sconosciuto suicida che si affogò, un giorno, alla Stìa.

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

LA TRAMA ◗ Mattia Pascal, il protagonista, è un povero bibliotecario di Miragno, un paesino della Liguria. Egli si sente «come fuori della vita» (capitolo IV); travolto da rovesci economici, afflitto da continue angustie familiari, ma con il «gusto di ridere di tutte le sue sciagure» (capitolo V), decide allora di fuggire. La sua meta ideale è l’America. Ma raggiunta la città di Montecarlo, gioca alla roulette del famoso casinò e vince un’ingente somma. Divenuto ricco decide, in un primo tempo, di tornare al paese; rimane tuttavia sbalordito leggendo su un giornale la notizia del proprio «suicidio»: moglie e suocera, quasi felici di «sbarazzarsi» in tal modo di lui, lo hanno erroneamente riconosciuto nel cadavere di un uomo annegato in un canale presso Miragno. ◗ Gli si offre così, inaspettata, l’occasione per cambiare identità e vita: visto che tutti, al paese, lo credono morto, può

costruirsi, con il finto nome da lui inventato di Adriano Meis, una nuova esistenza. Dunque si attribuisce un passato ricco di fantastici ricordi, muta il proprio aspetto fisico (si fa tagliare la barba, si fa correggere lo strabismo dell’occhio ecc.), prende residenza in una grande città, Roma, dove vive a pensione nella casa di Anselmo Paleari, uno strambo personaggio. In casa Paleari vivono anche la signorina Caporale – una maestra di pianoforte fallita, che annega le proprie delusioni nel bere e che pratica lo spiritismo come medium – e l’ambiguo Terenzio Papiano, con il fratello epilettico. Mattia, alias Adriano Meis, s’innamora della figlia del proprietario, Adriana. ◗ Tuttavia il protagonista non è appagato, e sente crescere in sé la coscienza del vuoto che gli sta intorno. Certo, per lui era alienante la precedente condizione, con una vita familiare infelice e un lavoro

insoddisfacente; essa però gli offriva perlomeno, nella trama abituale delle relazioni sociali, la sicurezza di esistere. Questa nuova condizione, sotto le mentite spoglie di Adriano Meis, gli ha consegnato una libertà solo apparente. Derubato da Papiano, non può denunciare il furto; privo di documenti, non può sposare Adriana. Dopo oltre due anni, Mattia decide di «suicidare» Adriano Meis. ◗ Torna così al paese, dove scopre però che tutti l’hanno dimenticato; la moglie si è risposata con Pomino, un vecchio amico di Mattia, da cui ha avuto una figlia. Mattia non può reinserirsi nella vita normale; non gli rimane altra possibilità che guardare da lontano gli altri, scrivere le sue memorie, chiacchierare con l’unico amico che gli è rimasto, don Eligio, rifugiarsi nella vecchia biblioteca del paese. Da lì esce di tanto in tanto per portare fiori sulla tomba che reca il suo nome.

Il fu Mattia Pascal al cinema Le opere di Pirandello hanno ispirato circa una cinquantina di film tratti da novelle, drammi e romanzi. Si trattava di un rapporto per così dire reciproco: lo stesso Pirandello, infatti, sempre aggiornatissimo sul piano culturale e curioso di quanto gli succedeva intorno, s’interessò precocemente al nuovo mondo della celluloide. Lo scrittore espresse apertamente questa attenzione nel romanzo Si gira... (1915), il cui titolo ripete fedelmente il fatidico grido dell’operatore: «ciak, si gira!» che egli doveva aver udito molte volte dalla sua abitazione romana di via Bosio 15 che dava proprio sui capannoni della casa cinematografica Film d’Arte Italiana. Quest’opera rappresenta il primo racconto europeo che trattava di cinema.

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Tra il 1918 e il 1921 furono girati diversi film ispirati ad alcune sue novelle (Il lume dell’altra casa, Lo scaldino, Lumìe di Sicilia ecc.), purtroppo non giunti sino a noi. Ci è invece giunto il Feu Mathias Pascal, prodotto in Francia nel 1925 e girato dal giovane regista Michel L’Herbier, un intellettuale vicino all’avanguardia espressionistica, ma capace anche di parlare al grande pubblico. Il risultato è un film interessante, che piacque anche a Pirandello. L’Herbier tradusse sullo schermo soprattutto la sostanza visionaria e stravolta del romanzo: l’ambientazione ricorda a tratti le scene «metafisiche» di De Chirico; invece l’attore protagonista, Ivan Mosjoukine, sembra ridurre l’inquietante personaggio pirandelliano alla cifra di un indivi-

duo bizzarro ma cordiale. Il finale segna una sorta di riscatto, perché il Mathias Pascal di L’Herbier torna a Miragno nei panni, un po’ vampireschi, di chi si vendica dei torti subiti. Il periodo della filmografia muta pirandelliana si chiuse l’anno successivo con l’Enrico IV, girato nel 1926 dal regista italiano Amleto Palermi da una produzione tedesca. Siamo davanti a una pellicola davvero inquietante, che è incentrata sul primo piano dell’attore protagonista Conrad Veidt e richiama la produzione espressionistica per il grande schermo (culminata nel famoso film Il gabinetto del dottor Caligari, girato nel 1920 da Robert Wiene con protagonista lo stesso Veidt).

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Contesto

Luigi Pirandello

Adriano Meis Anno: 1904 Temi: • l’entusiasmante prospettiva di forgiarsi una vita nuova • la difficile ricerca di una nuova identità • il dialogo del personaggio con se stesso Mattia ha da poco ottenuto una clamorosa vincita al casinò di Montecarlo, e ha appena letto sul giornale la notizia che, a Miragno (il paese da cui è fuggito), qualcuno si è ucciso gettandosi in un canale, qualcuno che è stato riconosciuto come Mattia Pascal! In quattro e quattr’otto il protagonista decide: non si lascerà scappare l’occasione; ricco e libero, sarà «un altr’uomo». Sarà «Adriano Meis», un individuo di pura fantasia. L’idea di costruirsi una vita nuova e libera sembra davvero eccitante, ma presto i primi, tormentosi dubbi cominceranno a farsi largo in lui. Il testo antologizzato riproduce buona parte dell’ottavo capitolo del romanzo, intitolato appunto Adriano Meis.

questo sforzo del protagonista è il tema fondamentale del capitolo

il motivo del «fu» ritorna più volte nel romanzo come un segno di sconfitta Mattia (come gli altri umoristi pirandelliani) contempla da fuori la vita degli altri, come una recita o uno spettacolo

Subito [...] mi posi a far di me un altr’uomo. Poco o nulla avevo da lodarmi di quel disgraziato che per forza avevano voluto1 far finire miseramente nella gora2 d’un molino. Dopo tante sciocchezze commesse, egli non meritava forse sorte migliore. Ora mi sarebbe piaciuto che, non solo esteriormente, ma anche nell’intimo, non 5 rimanesse più in me alcuna traccia di lui. Ero solo ormai, e più solo di com’ero non avrei potuto essere su la terra, sciolto nel presente d’ogni legame e d’ogni obbligo, libero, nuovo e assolutamente padrone di me, senza più il fardello del mio passato, e con l’avvenire dinanzi, che avrei potu10 to foggiarmi a piacer mio.3 Ah, un pajo d’ali! Come mi sentivo leggero! Il sentimento che le passate vicende mi avevano dato della vita non doveva aver più per me, ormai, ragion d’essere. Io dovevo acquistare un nuovo sentimento della vita, senza avvalermi neppur minimamente della sciagurata esperienza del fu Mattia Pascal. Stava a me: potevo e dovevo esser l’artefice del mio nuovo destino, nella misura 15 che la Fortuna aveva voluto concedermi. “E innanzi tutto,“ dicevo a me stesso, “avrò cura di questa mia libertà: me la condurrò a spasso per vie piane e sempre nuove, né le farò mai portare alcuna veste gravosa. Chiuderò gli occhi e passerò oltre appena lo spettacolo della vita in qualche punto mi si presenterà sgradevole. Procurerò di farmela4 più tosto con le cose che si 20 sogliono chiamare inanimate, e andrò in cerca di belle vedute, di ameni luoghi tranquilli. Mi darò a poco a poco una nuova educazione; mi trasformerò con amoroso e paziente studio, sicché, alla fine, io possa dire non solo di aver vissuto due vite, ma d’essere stato due uomini”. Già ad Alenga,5 per cominciare, ero entrato, poche ore prima di partire, da un barbie- 25

1. per forza avevano voluto: i concittadini di Mattia avevano frettolosamente creduto di riconoscere proprio lui nel cadavere di uno sconosciuto suicida, che si era annegato a Miragno, il paese natale del protagonista, nel podere chiamato Stìa. 2. gora: fossato, stagno.

3. foggiarmi a piacer mio: costruirmi secondo la mia voglia e il mio capriccio. Decisosi a passare per morto, Mattia deve ridarsi un’identità; abbraccerà le mentite spoglie di un individuo immaginario, Adriano Meis. 4. farmela: avere a che fare. 5. Alenga: è l’immaginario paese ligure

(trasparente il richiamo ad Albenga, in provincia di Savona) in cui Mattia era sceso di ritorno da Montecarlo. Lì si era fatto recapitare il giornale locale di Miragno e aveva avuto la certezza che i concittadini lo credevano morto.

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Monografia Raccordo

Il fu Mattia Pascal, capitolo VIII

Tra Ottocento e Novecento

i personaggi di Pirandello spesso dialogano allo specchio con il proprio io: un segno di separazione da se stessi, e quindi un inizio di follia

lo strabismo di Mattia rivela che lo sguardo degli umoristi come lui, strambi e un po’ folli, è distorto, perché l’umorista è colui che vede il «contrario» di tutte le cose non un «pensiero forte», ma un sorriso di fronte alle debolezze umane e alle mille contraddizioni della vita

re, per farmi accorciar la barba: avrei voluto levarmela tutta, lì stesso, insieme coi baffi; ma il timore di far nascere qualche sospetto in quel paesello6 mi aveva trattenuto. Il barbiere era anche sartore,7 vecchio, con le reni quasi ingommate8 dalla lunga abitudine di star curvo, sempre in una stessa positura, e portava gli occhiali su la punta del naso. Più che barbiere doveva esser sartore. Calò come un flagello di Dio 30 su quella barbaccia che non m’apparteneva più, armato di certi forbicioni da maestro di lana,9 che avevan bisogno d’esser sorretti in punta con l’altra mano. Non m’arrischiai neppure a fiatare: chiusi gli occhi, e non li riaprii, se non quando mi sentii scuotere pian piano. Il brav’uomo, tutto sudato, mi porgeva uno specchietto perché gli sapessi dire se 35 era stato bravo. Mi parve troppo! – No, grazie, – mi schermii. – Lo riponga. Non vorrei fargli paura. Sbarrò tanto d’occhi, e: 40 – A chi? – domandò. – Ma a codesto specchietto. Bellino! Dev’essere antico... Era tondo, col manico d’osso intarsiato: chi sa che storia aveva e donde10 e come era capitato lì, in quella sarto-barbieria. Ma infine, per non dar dispiacere al padrone, che seguitava a guardarmi stupito, me lo posi sotto gli occhi. 45 Se era stato bravo! Intravidi da quel primo scempio qual mostro11 fra breve sarebbe scappato fuori dalla necessaria e radicale alterazione dei connotati di Mattia Pascal! Ed ecco una nuova ragione d’odio per lui! Il mento piccolissimo, puntato12 e rientrato, ch’egli aveva nascosto per tanti e tanti anni sotto quel barbone, mi parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo! E che naso mi aveva lascia- 50 to in eredità! E quell’occhio!13 “Ah, quest’occhio,“ pensai, “così in estasi da un lato, rimarrà sempre suo nella mia nuova faccia! Io non potrò far altro che nasconderlo alla meglio dietro un pajo d’occhiali colorati, che coopereranno, figuriamoci, a rendermi più amabile l’aspetto. Mi farò crescere i capelli e, con questa bella fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto 55 raso, sembrerò un filosofo14 tedesco. Finanziera15 e cappellaccio a larghe tese.“ Non c’era via di mezzo: filosofo dovevo essere per forza con quella razza d’aspetto. Ebbene, pazienza: mi sarei armato d’una discreta filosofia sorridente per passare in mezzo a questa povera umanità, la quale, per quanto avessi in animo di sforzarmi, 60 mi pareva difficile che non dovesse più parermi un po’ ridicola e meschina. [Viaggiando in treno verso Torino Mattia decide casualmente, ascoltando una conversazione tra due viaggiatori, il proprio nuovo nome: «Adriano Meis»]

6. quel paesello: Alenga. 7. sartore: sarto. 8. reni quasi ingommate: la schiena irrigidita. 9. forbicioni da maestro di lana: enormi forbici da artigiano della lana. 10. donde: da dove. 11. mostro: motivo collegato allo specchio,

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che suscita angoscia nei personaggi, perché, specchiandosi, rischiano di non ritrovare più la propria immagine, ma di vedere quella, spaventosa, dell’«altro» io (l’inconscio, il mostro, con le sue inconfessabili pulsioni). 12. puntato: appuntito. 13. quell’occhio: Mattia è affetto da stra-

bismo e quindi deciderà, più tardi, di farsi correggere il difetto con un’operazione. 14. un filosofo: la filosofia è in certo qual modo una dimensione naturale di Mattia; ce lo dice il suo cognome stesso, Pascal, che ricorda Blaise Pascal (1623-62), celebre matematico e filosofo francese. 15. Finanziera: lunga giacca.

un protagonista letterario al WC, per la prima volta nella nostra letteratura

prima, dolorosa ammissione: forse si può essere un altro agli occhi degli altri, ma non davanti a se stessi

16. sceverato: separato. 17. certi bisogni: bisogni corporali. Infatti butterà l’anello nel WC. 18. cordoglio: sentimento. Anche nei mo-

menti più solenni, può insorgere il «bisogno» di cui sopra. 19. intombai il mio anellino di fede: buttai via l’anello nuziale.

20. ambulante: che cammina. 21. stare per sé: vivere in modo solitario.

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Monografia Raccordo

un sentimento d’esultanza accompagna, per ora, questa impresa della costruzione di un nuovo io

Recisa di netto ogni memoria in me della vita precedente, fermato l’animo alla deliberazione di ricominciare da quel punto una nuova vita, io era invaso e sollevato come da una fresca letizia infantile; mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza, e lo spirito vigile e pronto a trar profitto di tutto per la costruzione del mio nuovo io. Intanto l’anima mi tumultuava nella gioja di quella nuova libertà. 65 Non avevo mai veduto così uomini e cose; l’aria tra essi e me s’era d’un tratto quasi snebbiata [...]. La Fortuna mi aveva sciolto di ogni intrico, all’improvviso, mi aveva sceverato16 dalla vita comune, reso spettatore estraneo della briga in cui gli altri si dibattevano ancora, e mi ammoniva dentro: 70 “Vedrai, vedrai com’essa t’apparirà curiosa, ora, a guardarla così da fuori! [...]” A un certo punto, mi cadde lo sguardo su l’anellino di fede che mi stringeva ancora l’anulare della mano sinistra. Ne ricevetti una scossa violentissima: strizzai gli occhi e mi strinsi la mano con l’altra mano, tentando di strapparmi quel cerchietto d’oro, così, di nascosto, per non vederlo più. Pensai ch’esso si apriva e che, internamente, vi erano incisi due nomi: Mattia-Romilda, e la data del matrimonio. Che do- 75 vevo farne? Aprii gli occhi e rimasi un pezzo accigliato, a contemplarlo nella palma della mano. Tutto, attorno, mi s’era rifatto nero. Ecco ancora un resto della catena che mi legava al passato! Piccolo anello, lieve per sé, eppur così pesante! Ma la catena era già spezzata, e dunque via anche quell’ulti- 80 mo anello! Feci per buttarlo dal finestrino, ma mi trattenni. [...] “No, no,“ pensai, “in luogo più sicuro... Ma dove?“ Il treno, in quella, si fermò a un’altra stazione. Guardai, e subito mi sorse un pensiero, per la cui attuazione provai dapprima un certo ritegno. Lo dico, perché mi ser- 85 va di scusa presso coloro che amano il bel gesto, gente poco riflessiva, alla quale piace di non ricordarsi che l’umanità è pure oppressa da certi bisogni,17 a cui purtroppo deve obbedire anche chi sia compreso da un profondo cordoglio.18 Cesare, Napoleone e, per quanto possa parere indegno, anche la donna più bella... Basta. Da una parte c’era scritto Uomini e dall’altra Donne; e lì intombai il mio anellino di fede.19 90 Quindi, non tanto per distrarmi, quanto per cercar di dare una certa consistenza a quella mia nuova vita campata nel vuoto, mi misi a pensare ad Adriano Meis, a immaginargli un passato, a domandarmi chi fu mio padre, dov’ero nato, ecc. – posatamente sforzandomi di vedere e di fissar bene tutto, nelle più minute particolarità. [...] Questo inseguimento, questa costruzione fantastica d’una vita non realmente vis- 95 suta, ma colta man mano negli altri e nei luoghi e fatta e sentita mia, mi procurò una gioja strana e nuova, non priva d’una certa mestizia, nei primi tempi del mio vagabondaggio. Me ne feci un’occupazione. Vivevo non nel presente soltanto, ma anche per il mio passato, cioè per gli anni che Adriano Meis non aveva vissuti. [...] Or che cos’ero io, se non un uomo inventato? Una invenzione ambulante20 che 100 voleva e, del resto, doveva forzatamente stare per sé,21 pur calata nella realtà.

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

di nuovo l’ebbrezza di una libertà assoluta

ritorna il dialogo, allo specchio, con l’altro io vivo nelle profondità dell’anima: un inizio di follia, che ride di sé e di tutto

il destino di tutti i personaggi folli e umoristi di Pirandello è questa radicale solitudine: rifiutate le «forme» dell’esistenza normale, essi non vivono più: sono solo spettatori dell’esistenza altrui

Assistendo alla vita degli altri e osservandola minuziosamente, ne vedevo gl’infiniti legami e, al tempo stesso, vedevo le tante mie fila spezzate. Potevo io rannodarle, ora, queste fila con la realtà?22 Chi sa dove mi avrebbero trascinato; sarebbero forse diventate subito redini di cavalli scappati, che avrebbero condotto a precipizio la po- 105 vera biga della mia necessaria invenzione.23 No. Io dovevo rannodar queste fila soltanto con la fantasia. E seguivo per le vie e nei giardini i ragazzetti dai cinque ai dieci anni, e studiavo le loro mosse, i loro giuochi, e raccoglievo le loro espressioni, per comporne a poco a poco l’infanzia di Adriano Meis. Vi riuscii così bene, che essa alla fine assunse nella 110 mia mente una consistenza quasi reale. [...] Ma io volevo vivere anche per me, nel presente. M’assaliva di tratto in tratto l’idea di quella mia libertà sconfinata, unica, e provavo una felicità improvvisa, così forte, che quasi mi ci smarrivo in un beato stupore; me la sentivo entrar nel petto con un respiro lunghissimo e largo, che mi sollevava tutto lo spirito. Solo! solo! solo! pa- 115 drone di me! senza dover dar conto di nulla a nessuno! Ecco, potevo andare dove mi piaceva: a Venezia? a Venezia! a Firenze? a Firenze!; e quella mia felicità mi seguiva dovunque. Ah, ricordo un tramonto, a Torino, nei primi mesi di quella mia nuova vita, sul Lungo Po, presso al ponte che ritiene per una pescaja24 l’impeto delle acque che vi fremono irose: l’aria era d’una trasparenza meravigliosa; tutte le cose in ombra 120 parevano smaltate in quella limpidezza; e io, guardando, mi sentii così ebro della mia libertà, che temetti quasi d’impazzire,25 di non potervi resistere a lungo. Avevo già effettuato da capo a piedi la mia trasformazione esteriore: tutto sbarbato, con un pajo di occhiali azzurri chiari e coi capelli lunghi, scomposti artisticamente: parevo proprio un altro! Mi fermavo qualche volta a conversar con me stes- 125 so innanzi a uno specchio e mi mettevo a ridere. “Adriano Meis! Uomo felice! Peccato che debba esser conciato così... Ma, via, che te n’importa? Va benone! Se non fosse per quest’occhio di lui26 di quell’imbecille, non saresti poi, alla fin fine, tanto brutto, nella stranezza un po’ spavalda della tua figura. Fai un po’ ridere le donne, ecco. Ma la colpa, in fondo, non è tua. Se quell’al- 130 tro non avesse portato i capelli così corti, tu non saresti ora obbligato a portarli così lunghi: e non certo per tuo gusto, lo so, vai ora sbarbato come un prete. Pazienza! Quando le donne ridono... ridi anche tu:27 è il meglio che possa fare.” Vivevo, per altro, con me e di me, quasi esclusivamente. Scambiavo appena qualche parola con gli albergatori, coi camerieri, coi vicini di tavola [...]. La mia vera, di- 135 ciamo così “estraneità”28 era ben altra e la conoscevo io solo: non ero più niente io; nessuno stato civile mi registrava, tranne quello di Miragno, ma come morto, con l’altro nome. L. Pirandello, Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia e M. Costanzo, A. Mondadori, Milano 1973

22. con la realtà: cioè con l’esistenza precedente di Mattia Pascal. 23. condotto a precipizio... invenzione: portato alla rovina la mia povera costruzione mentale, fatta un po’ di realtà e un po’ di fantasia (la biga è un calessino a due posti). 24. ritiene per una pescaja: trattiene come se fosse uno sbarramento, una chiusa.

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25. temetti quasi d’impazzire: è la logica conseguenza della dissociazione da se stesso, raffigurata già nella scena ambientata dal barbiere. 26. di lui: cioè di Mattia Pascal, l’«altro» se stesso, il fantasma che il neo Adriano Meis non riesce a scacciare dalla propria coscienza.

27. ridi anche tu: è l’atteggiamento dell’umorista, che sorride, sia pure amaramente, dei limiti dell’esistenza umana. 28. La mia... “estraneità”: la dichiarazione finale suona già come un’ammissione di sconfitta.

IL TESTO PUNTO PER PUNTO Possiamo scomporre il capitolo in alcune sequenze. ■ Mattia vuole diventare un altro: all’inizio prevale il desiderio di liberarsi del «vecchio» Mattia Pascal (Ora mi sarebbe piaciuto che, non solo esteriormente, ma anche nell’intimo, non rimanesse più in me alcuna traccia di lui, rr. 5-6), associato all’ebbrezza di poterlo davvero realizzare (Ah, un pajo d’ali! Come mi sentivo leggero!, r. 11). ■ Mattia cambia la propria fisionomia nella bottega del barbiere, mediante il taglio della barba: diviene Adriano. Purtroppo però rimane l’occhio strabico a testimoniare che una parte del vecchio Mattia resta sempre ben visibile anche all’esterno. ■ In treno Mattia getta la fede nuziale nel WC: un auto-

re tradizionale mai e poi mai avrebbe raffigurato un protagonista al WC, il luogo meno probabile dove seppellire un amore; ma qui è in azione la nuovissima letteratura «umoristica» di Pirandello. ■ In seguito il protagonista si dedica alla costruzione fantastica di una vita nuova: osserva le esistenze altrui per trarne motivi d’ispirazione e prova un grande senso di libertà (M’assaliva di tratto in tratto l’idea di quella mia libertà sconfinata, unica, e provavo una felicità improvvisa, rr. 112-113). ■ Infine Mattia parla con l’immagine di se stesso allo specchio: nascono in lui i primi dubbi, suscitati dal proprio aspetto e dal senso della propria solitudine, o meglio, estraneità.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Una volta presa la decisione di cambiar vita, Mattia si mette d’impegno per diventare un altr’uomo. Egli viaggia per il mondo in cerca del suo nuovo se stesso: è il «forestiere della vita», come dirà poche pagine più avanti. Ma la sua si rivelerà la condizione dell’estraneità, una sorta di marchio di fabbrica del personaggio novecentesco: Mattia Pascal, dunque, come l’inetto di Svevo, come l’uomo senza patria di Joyce, come l’«uomo senza qualità» di Musil, come lo «straniero» di Camus. Di tale estraneità abbiamo qualche segnale già sul finire di questo brano. ■ Mattia riflette intensamente su di sé: cerca di conoscersi, di

darsi identità e stabilità. Nel corso dei suoi vagabondaggi, egli raccoglie qua e là sparsi elementi della vita di altri individui, forse utili per comporre la sua biografia. Costruisce, da sé e per sé, il personaggio di Adriano; abbandona l’esistenza reale per quella della maschera da lui stesso creata. ■ Tale maschera prende, a tratti, una vita autonoma: così accade nel negozio del barbiere di Alenga, dove per un istante, Mattia ritrova l’altro nello specchio (No, grazie, – mi schermii. – Lo riponga. Non vorrei fargli paura). Quest’«ombra» riemergerà, a tratti, nel corso del romanzo, impedendo al protagonista d’essere realmente in pace con se stesso.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. Il significato del brano è riassumibile in una riflessione di Mattia: mi trasformerò con amoroso e paziente studio, sicché, alla fine, io possa dire non solo di aver vissuto due vite, ma d’essere stato due uomini (rr. 22-24). a. A quale «trasformazione» va incontro Mattia? Fisica, psicologica o di altro tipo ancora? Rispondi sulla base del brano e di quanto sai del romanzo. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... b. Due vite e due uomini: di quali uomini si tratta? ............................................................................................... c. Mattia si sforza di costruire un rapporto tra le due vite oppure no? Motiva la risposta. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

2. Lo sviluppo del romanzo dimostrerà tuttavia che il tentativo messo in atto da Mattia è destinato all’insuccesso. a. Questo esito fallimentare emerge anche, per alcuni accenni, nel corso di questo capitolo. Rintraccia i segnali e sottolineali nel testo. 3. I momenti narrativamente più vivaci del brano sono le due sequenze che vedono Mattia: a) nel negozio del barbiere; b) nel WC del treno, dove getta via la fede nuziale. a. Riassumi le due sequenze utilizzando non più di 5 righe per ciascuna. b. Ora rifletti sul perché si tratta di due episodi importanti, nel tentativo del personaggio di costruirsi un nuovo io. – La sequenza nel negozio del barbiere è importante perché .................................................................................. ............................................................................................... – La sequenza nel WC del treno è importante perché ... ............................................................................................... ............................................................................................... 627

Monografia Raccordo

ANALISI DEL TESTO

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

4. Lo specchio, nel mondo pirandelliano, è il «luogo» tipico in cui emergono le fantasie di dissociazione, di sdoppiamento (cioè di perdita) della personalità. Anche in questo brano ritroviamo, per due volte, un colloquio di Mattia con se stesso davanti allo specchio. a. Ritrova nell’episodio letto i due momenti: – il primo momento emerge nelle righe ........................... ..............................................................................................; – il secondo momento emerge nelle righe ....................... ..............................................................................................; b. Ora rifletti e scegli l’alternativa corretta a solo nella prima scena il colloquio dell’io con se stesso diviene anche conflitto b solo nella seconda scena il colloquio dell’io con se stesso diviene anche conflitto c in entrambe le scene il colloquio dell’io con se stesso diviene anche conflitto Motiva la tua scelta (max 5 righe). ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... c. Il colloquio tra sé e sé davanti allo specchio è un momento quasi psicoanalitico, perché entrano a colloquio, e a conflitto, i due me (così li chiama Pirandello nel titolo dei Dialoghi tra il Gran me e il piccolo me, del 189597). Come si chiamano, questi due «me», nel linguaggio della psicoanalisi? a io e inconscio b io e Super-io c coscienza e incoscienza

LAVORIAMO SU

a. Quali sono i contenuti di tale filosofia? Rispondi in un breve testo di max 10 righe, in cui citerai termini ed espressioni del brano. Aiutati anche rileggendo Le idee e la poetica (E p. 584).

{ Forme e stile 6. Nel brano si alternano due livelli: a) i momenti propriamente narrativi; b) i momenti di meditazione e di giudizio sui fatti. La mescolanza di questi due piani è una caratteristica del Fu Mattia Pascal: la frantumazione della coscienza sembra riflettersi nel frantumarsi della narrazione. a. Scegli una sequenza e metti in luce la compresenza dei due livelli testuali citati. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... b. Ora rifletti: qual è il risultato di tale intreccio? w un unico, indifferenziato dialogo tra autore e lettore w un continuo monologo del personaggio con se stesso w un dialogo tra personaggio e lettore Motiva la risposta (max 5 righe). ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

LINGUA E LESSICO

1. Mattia scrive quasi per caso la sua autobiografia e dunque il suo stile si presenta come un «antistile». Del resto, davanti ai frantumi dell’io e del mondo, non è più possibile «parlar bene» o «parlar bello». a. Rileva nel testo, e trascrivi, gli elementi caratteristici del linguaggio del Fu Mattia Pascal: – termini ed espressioni della lingua quotidiana ............................................................................................... – intercalari ............................................................................................... – pause e sottintesi ............................................................................................... 628

5. Mattia è il tipico saggio-folle di Pirandello, uno dei suoi più caratteristici umoristi. Egli stesso si definisce filosofo, ma non perché studia filosofia; lo è, più semplicemente, per i lineamenti, per la foggia del vestire, l’aspetto esteriore. La filosofia si è insomma quasi sciolta: è divenuta, nella bellissima definizione del testo, una discreta filosofia sorridente.

2. Nei momenti però in cui prevale l’ebbrezza, la gioia della possibile liberazione, lo stile si eleva di tono: ricorre a immagini attinte dal mondo della natura, a un’aggettivazione poetica, a una sintassi più elaborata e commossa. a. Ritrova questi momenti nel testo, fornendo esempi adeguati per ciascuno dei fenomeni citati: – immagini naturali ............................................................................................... – aggettivi di tono poetico ............................................................................................... – sintassi elaborata ...............................................................................................

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Contesto

Luigi Pirandello

«Io sono il fu Mattia Pascal» Anno: 1904 Temi: • la consapevolezza di non avere più nome, identità, storia • l’assoluta solitudine del protagonista • l’inutilità di ogni fuga Mattia è tornato a Miragno, il paese natio; qui lo vediamo uscire dalla casa di Romilda, la sua ex moglie, e di Pomino, che l’ha sposata presumendola vedova. Ora il protagonista si ritrova in strada, più solo che mai. Può così misurare fino in fondo la sua realtà di «individuo-senza»: è solo un «fu», senza più nome né identità.

una solitudine radicale, assoluta

l’indifferenza dei compaesani rivela la totale estraneità di Mattia: un segno tipico dei personaggi novecenteschi

ancora l’illusione che sia sufficiente possedere dei documenti per essere vivo

Sceso giù in istrada, mi trovai ancora una volta sperduto, pur qui, nel mio stesso paesello nativo: solo, senza casa, senza mèta. “E ora?“ domandai a me stesso. “Dove vado?“ Mi avviai, guardando la gente che passava. Ma che! Nessuno mi riconosceva? Eppure ero ormai tal quale: tutti, vedendomi, avrebbero potuto almeno pensare: “Ma guar- 5 da quel forestiero là, come somiglia al povero Mattia Pascal! Se avesse l’occhio un po’ storto,1 si direbbe proprio lui”. Ma che! Nessuno mi riconosceva, perché nessuno pensava più a me. Non destavo neppure curiosità, la minima sorpresa... E io che m’ero immaginato uno scoppio,2 uno scompiglio, appena mi fossi mostrato per le vie! Nel disinganno profondo, provai un avvilimento, un dispetto, un’amarezza che non sa- 10 prei ridire; e il dispetto e l’avvilimento mi trattenevano dallo stuzzicar l’attenzione di coloro che io, dal canto mio, riconoscevo bene: sfido! dopo due anni... Ah, che vuol dir morire! Nessuno, nessuno si ricordava più di me, come se non fossi mai esistito... Due volte percorsi da un capo all’altro il paese, senza che nessuno mi fermasse. Al colmo dell’irritazione, pensai di ritornar da Pomino,3 per dichiarargli che i patti4 15 non mi convenivano e vendicarmi sopra lui dell’affronto5 che mi pareva tutto il paese mi facesse non riconoscendomi più. Ma né Romilda con le buone mi avrebbe seguito, né io per il momento avrei saputo dove condurla.6 Dovevo almeno prima cercarmi una casa. Pensai d’andare al Municipio, all’ufficio dello stato civile, per farmi subito cancellare dal registro dei morti; ma, via facendo, mutai pensiero e mi ridussi 20 invece a questa biblioteca7 di Santa Maria Liberale, dove trovai al mio posto il reverendo amico don Eligio Pellegrinotto [...]. Le prime feste me le ebbi da lui, calorosissime; poi egli volle per forza ricondurmi seco8 in paese per cancellarmi dall’animo la cattiva impressione che la dimenticanza dei miei concittadini mi aveva fatto. Ma io ora, per ripicco,9 non voglio descrivere quel che seguì alla farmacia del Brìsi- 25 go prima, poi al Caffè dell’Unione, quando don Eligio, ancor tutto esultante, mi presentò redivivo.10 Si sparse in un baleno la notizia, e tutti accorsero a vedermi e a tempestarmi di domande. Volevano sapere da me chi fosse allora colui che s’era annegato alla Stìa, come se non mi avessero riconosciuto loro: tutti, a uno a uno. E

1. un po’ storto: Mattia, a Roma, si era fatto operare all’occhio strabico; aveva perciò mutato, parzialmente, aspetto. 2. uno scoppio: di curiosità. 3. Pomino: amico d’infanzia di Mattia; antico innamorato di Romilda, ma respinto

da lei, è ora riuscito a sposarla, dopo che Mattia è stato dichiarato morto. 4. patti: lasciare in pace Romilda e Pomino. 5. affronto: offesa. 6. condurla: portarla a vivere. 7. questa biblioteca: la biblioteca Bocca-

mazza, dove Mattia lavorava prima di «morire» e dove ora sta scrivendo la propria storia. 8. seco: con sé. 9. per ripicco: per vendetta. 10. redivivo: tornato in vita.

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Monografia Raccordo

Il fu Mattia Pascal, capitolo XVIII

Tra Ottocento e Novecento

l’ironia è una componente naturale dell’umorismo pirandelliano la pace conquistata da Mattia dipende dal suo vivere, ormai, fuori dal mondo, come un semplice spettatore dell’esistenza altrui strana per i contenuti e la forma: un vero «antiromanzo»

conclusione superficiale, che non può accontentare Mattia il vero messaggio del romanzo è questo dubbio radicale sulla propria identità

dunque ero io, proprio io: donde tornavo? dall’altro mondo! che avevo fatto? il 30 morto! Presi il partito11 di non rimuovermi da queste due risposte12 e lasciar tutti stizziti13 nell’orgasmo della curiosità, che durò parecchi e parecchi giorni. Né più fortunato degli altri fu l’amico Lodoletta14 che venne a “intervistarmi” per il Foglietto. Invano, per commuovermi, per tirarmi15 a parlare mi portò una copia del suo giornale di due anni avanti, con la mia necrologia.16 Gli dissi che la sapevo a memoria, 35 perché all’Inferno17 il Foglietto era molto diffuso. – Eh, altro! Grazie caro! Anche della lapide... Andrò a vederla, sai? Rinunzio a trascrivere il suo nuovo pezzo forte della domenica seguente che recava a grosse lettere il titolo: MATTIA PASCAL È VIVO! [...] Basta. Io ora vivo in pace, insieme con la mia vecchia zia Scolastica, che mi ha vo- 40 luto offrir ricetto18 in casa sua. La mia bislacca avventura m’ha rialzato d’un tratto nella stima di lei. Dormo nello stesso letto in cui morì la povera mamma mia, e passo gran parte del giorno qua, in biblioteca, in compagnia di don Eligio, che è ancora ben lontano dal dare assetto19 e ordine ai vecchi libri polverosi. Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di quan- 45 to è scritto qui egli serberà20 il segreto, come se l’avesse saputo sotto il sigillo21 della confessione. Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto22 se ne possa cavare. – Intanto, questo, – egli mi dice: – che fuori della legge e fuori di quelle particola- 50 rità,23 liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere. Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch’io mi sia. Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s’uccise alla Stìa, c’è 55 ancora la lapide dettata da Lodoletta: COLPITO DA AVVERSI FATI / MATTIA PASCAL / BIBLIOTECARIO / CUOR GENEROSO ANIMA APERTA24 / QUI VOLONTARIO25 / RIPOSA / LA PIETÀ DEI CONCITTADINI / QUESTA LAPIDE POSE

conclusione paradossale, ironica e tragica: «umoristica»

Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e 60 sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s’accompagna con me, sorride, e – considerando la mia condizione – mi domanda: – Ma voi, insomma, si può sapere chi siete? Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo: 65 – Eh, caro mio... Io sono il fu Mattia Pascal. L. Pirandello, Tutti i romanzi, cit.

11. il partito: la decisione. 12. due risposte: che «torna dall’altro mondo» e che finora ha «fatto il morto». 13. stizziti: contrariati, perché la loro curiosità non viene soddisfatta. 14. Lodoletta: giornalista e aspirante scrittore, dirige il «Foglietto», il giornale locale. 15. tirarmi: indurmi. 16. necrologia: annuncio della morte. 17. all’Inferno: Mattia, per mantenere il

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segreto sul proprio passato, si ostina a rispondere come se fosse morto davvero. 18. ricetto: ospitalità. 19. dare assetto: disporre secondo un qualche ordine. 20. serberà: manterrà. 21. il sigillo: il vincolo che obbliga i sacerdoti a non rivelare il contenuto della confessione. 22. frutto: ricavo, guadagno.

23. quelle particolarità: nascita, famiglia, stato sociale ecc. 24. ANIMA APERTA: espressione involontariamente ironica; Lodoletta non poteva sapere quanto fosse effettivamente «aperta» l’anima di Mattia, disponibile a cambiare nome, condizione ecc. 25. VOLONTARIO: nel senso che si è suicidato.

■ Rientrato a Miragno, il protagonista si rende conto di non poter più tornare a essere come prima: nessuno lo riconosce, la moglie si è risposata, la sua casa è la casa di Pomino, al cimitero c’è una lapide con il suo nome. Alla fine della sua avventura, dunque, si ritrova «fuori» dalla storia, ufficialmente defunto, senza nome né identità. ■ Il dialogo tra don Eligio e Mattia offre la chiave di lettura dell’intera vicenda: • don Eligio sostiene che è impossibile vivere senza la «maschera» – il ruolo sociale, le particolarità che ci segnano inevitabilmente; per lui un uomo è ciò che rappresenta, è ciò che gli altri dicono e vogliono che egli sia; • Mattia non si accontenta di questa conclusione e giunge più in là: io non saprei proprio dire ch’io mi sia, r. 54 (il pronome mi sottolinea: anzitutto per se stesso). ■ Una volta usciti dalle finzioni, dopo che si è «vista» la «vita nuda», non è più possibile indossare la «maschera» delle convenienze sociali. Non resta che vivere da defunti: Mattia Pascal ora è solo il fu Mattia Pascal. Non sono tanto le costrizioni esterne, le «trappole» e le forme in cui la vita è impigliata, a condizionare l’esistenza dell’uomo moderno; è piuttosto la sua perdita di identità, la frantumazione del suo io a contrassegnare l’esistenza. Questo dubbio radicale sull’io è il messaggio finale dell’antiromanzo pirandelliano. ■ Tutto ciò si riverbera anche sul piano stilistico. Esaurito l’amaro disinganno che coglie Mattia fuori della casa di Po-

mino, il testo è caratterizzato dal tono ironico e divertito di chi ormai guarda la propria vicenda a posteriori; è il punto di vista dell’umorista, che osserva la realtà «da fuori», e ne ride, facendosi beffe dello stupore degli altri. Mattia infatti risponde ai compaesani per le rime, affermando di essere tornato dall’altro mondo e di aver fatto il morto; e informa Lodoletta di aver letto il proprio necrologio perché all’Inferno il giornale di Miragno è molto diffuso! Ironica è soprattutto la battuta finale – Io sono il fu Mattia Pascal –, organizzata su un gioco di parole tra l’io sono, che designa la condizione presente del protagonista, e il fu, che connota la condizione di defunto di Mattia Pascal. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Come reagisce Mattia allorché si accorge che in paese nessuno si ricorda più di lui? 2. Chi è il primo a riconoscerlo? 3. Come si organizza la sua esistenza al termine della paradossale vicenda di cui è stato protagonista? 4. Sottolinea nel testo tutte le espressioni che rimandano all’area semantica della morte e della tomba. 5. A questo punto, Mattia Pascal non ha più un’identità: in che senso? Motiva la risposta in max 5 righe. 6. In quale punto del testo riscontri la consueta ironia, caratteristica del romanzo?

Mattia: l’ombra, l’altro Uno dei grandi temi del Fu Mattia Pascal – e di tutto Pirandello – è quello dell’«ombra», ovvero del doppio: l’ombra è l’«altro» che accompagna – come un temibile intruso – il nostro io. Il motivo dell’ombra era ben presente nella letteratura romantica ottocentesca: in particolare, Pirandello sviluppò le intuizioni narrative di Adalbert von Chamisso (1781-1838), autore del racconto La meravigliosa storia di Peter Schlemihl (1814). Similmente a Mattia, Peter Schlemihl vende la propria ombra al diavolo in cambio di denaro, ma soffrirà amaramente per un baratto che, pur offrendogli ricchezze e una nuova immagine sociale, gli sottrae la piena identità. Nel Fu Mattia Pascal il tema dell’ombra dà il titolo a un intero capitolo, il XV: Io e l’ombra mia. Siamo nel bel mezzo della residenza romana di Mattia. Il protagoni-

sta ha deciso di farsi operare l’occhio strabico, ma strane riflessioni gli si affacciano alla mente: «Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma». Mattia, l’uomo-ombra, che vede la verità oltre le maschere dell’illusione, è il tipico «umorista» di Pirandello. Una qualità dell’umorista è precisamente conoscere le ombre. Così si legge nella chiusa dell’Umorismo (1908): «L’artista ordinario bada al corpo solamente: l’umorista bada al corpo e all’ombra, e talvolta più all’ombra che al corpo; nota tutti gli scherzi di quest’ombra, com’essa ora s’allunghi ed ora s’intozzi, quasi a far le smorfie al corpo, che intanto non la calcola e non se ne cura. [...]. Quanto valga un’ombra l’umorista sa bene: il Peter Schlemihl di Chamisso informi». Chi vive senza l’ombra, cioè senza

l’anima, come Peter, finisce per perdere l’io, che diviene proprietà di un altro. Il motivo dell’ombra riflette infatti il tema, più inquietante, dell’identità: se, come avviene in Mattia, l’io s’indebolisce, al suo posto emerge l’ingombrante presenza dell’altro. A lungo, nel corso del suo romanzo, Mattia cova la paura – un vero terrore – che quello sconosciuto, morto annegato nella Stìa e di cui lui aveva indebitamente preso il posto, ritorni in vita per smascherarlo. In uno dei capitoli centrali del libro, durante una seduta spiritica in casa Paleari, gli era anzi sembrato che quell’incubo si fosse materializzato, che avesse battuto dei colpi nel buio, sul tavolino. Potremmo riassumere così l’intero romanzo: l’ombra si stacca dal corpo, l’io si sdoppia, l’altro ritorna. L’esito finale è la crisi, assoluta, irrimediabile, dell’io. 631

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LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Luigi Pirandello

L’OPERA

UNO, NESSUNO E CENTOMILA

Un libro-testamento ◗ L’ultimo romanzo di Pirandello fu da lui lungamente elaborato e meditato, all’incirca per un quindicennio. Venne avviato intorno al 1910, come sviluppo narrativo della novella Stefano Giogli, uno e due (1909), sul tema della scomposizione e moltiplicazione dell’io individuale. Approdò alle stampe soltanto tra il dicembre 1925 e il giugno 1926, sulle pagine del settimanale «La fiera letteraria» di Milano. Nel 1926 venne pubblicato in volume dall’editore Bemporad di Firenze. ◗ Uno, nessuno e centomila è un libro-testamento, che porta alle estreme conseguenze il motivo della dissoluzione dell’io e del suo «sciogliersi» nella natura. Il racconto si svolge in prima persona, assecondando l’interminabile filo della meditazione svolta dal protagonista e narratore, Vitangelo Moscarda. Il suo lungo monologo viene intervallato da battute di dialogo, appelli al lettore, considerazioni svariate. La storia è poverissima d’intreccio, perché l’interesse è catturato dalla riflessione «filosofica» del personaggio. Ma la sua è una filosofia molto particolare, di stampo irrazionalistico, perché afferma la contraddizione, l’assurdo, l’assenza. ◗ Tutto si avvia da una casuale osservazione della moglie Dida, che fa notare al protagonista una piccola imperfezione fisica. Ma se lei – così ragiona Vitangelo – mi vede diversamente da come io ho sempre creduto di essere, lo stesso avverrà per i risvolti della mia vita interiore. In altre parole, i familiari, gli amici, i conoscenti conoscono, apprezzano o odiano in me una persona differente da ciò che io stesso mi considero. Ci sono dunque tanti Moscarda quanti sono quelli che mi vedono. A seconda dei casi e delle circostanze, dei momenti psicologici e delle attitudini affettive di ciascuno, io offro di me un’immagine ogni volta nuova e distinta. Ora, «l’idea che gli altri vedevano in me uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo [...], quest’idea non mi diede più requie». Vitangelo diviene pazzo – pazzo, s’intende, agli occhi della falsa normalità borghese.

Il romanzo del relativismo ◗ Pirandello definì Uno, nessuno e centomila il romanzo della «scomposizione della personalità». In effetti, se l’io è essenzialmente un «essere per l’altro», l’unità della sua persona si scompone, si disgrega nelle «centomila» immagini che il soggetto offre agli altri di sé. L’io non è affatto «uno»: è un flusso di percezioni mutevoli, un insieme di frammenti che cambiano di minuto in minuto. È insomma un «nessuno» che nell’epilogo finisce per non esserci più, «sparso» nelle cose, «tutto fuori, vagabondo». Del resto solo così, liberandosi dai ruoli sociali, dalle cose, dai nomi, solo vivendo nel puro contatto con la natura sarà possibile per l’io spegnere il fuoco della «riflessione» e placare il dramma del pensiero, da cui tutto aveva avuto inizio. ◗ Tale purificazione diviene anche liberazione dal proprio corpo. Infatti Moscarda scopre di essere amato da sua moglie non per se stesso, ma per quell’«altro» che ha sempre visto in lui. Il falso io creato da Dida corrisponde al corpo di lui: e così al vero io di Moscarda non resta altra scelta che diventare pura «ombra», cioè anima senza corpo. Era una scelta già prefigurata nell’Umorismo: «L’artista ordinario bada al corpo solamente: l’umorista bada al corpo e all’ombra, e talvolta più all’ombra che al corpo». Man mano che il romanzo di Moscarda procede, il suo corpo si stacca definitivamente dalla sua ombra: un lento ma inesorabile processo di sparizione, adombrato nel destino che Pirandello scelse per sé, personalmente, allorché dettò nelle Mie ultime volontà da rispettare la disposizione che le sue spoglie fossero bruciate e dissolte al vento. ◗ Lo sciogliersi dell’io nelle cose corrisponde al motivo fortemente relativistico della «scomposizione». Ma nel romanzo è attivo anche un altro motivo relativistico: quello dell’inconclusione della vita. La «Vita», per Pirandello, «non conclude» perché «è un flusso continuo»: non può quindi placarsi, non può «fissarsi» in una «forma»; se si irrigidisse, morirebbe. Soltanto la «forma» può «concludere», nel 632

LA TRAMA ◗ Vitangelo Moscarda, soprannominato Gengè da parenti e amici, è un uomo agiato (è un usuraio benestante, proprietario di un banco di pegni) e istruito. Un giorno è allo specchio e la moglie Dida gli dice che ha il naso storto. Vitangelo non se n’era mai accorto prima! L’improvvisa rivelazione che gli altri ci vedono diversamente da come noi ci vediamo rivoluziona la sua visione della realtà. Lo scopo di Moscarda diviene adesso poter esprimere in modo libero e autentico la sua personalità. Perciò egli si ripropone (come già, a suo tempo, Mattia Pascal) di distruggere il proprio vecchio «io», condizionato dalla

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nascita, dall’educazione, dall’ambiente; cerca insomma di cancellare l’immagine che di lui hanno gli altri, a cominciare dalla moglie. ◗ Se Mattia aveva fatto ricorso alla fuga, all’evasione, Moscarda sceglie invece un modo più concreto e surreale: annulla la sua immagine di rispettabilità «borghese» parlando solo con la cagnetta e compiendo inesplicabili gesti di altruismo e generosità. Invece delle lodi, questi atti lo fanno giudicare folle da tutti. Moglie e amministratori cercano di far interdire Vitangelo come pazzo per rubargli il patrimonio.

◗ Solo un’amica della moglie, Anna Rosa, gli manifesta simpatia. Ma Vitangelo, con i suoi strambi ragionamenti, la confonde al punto che Anna Rosa, temendo d’impazzire, gli spara due colpi di pistola. Al processo il giudice cerca di dimostrare che Anna Rosa si è difesa dalle attenzioni erotiche di Moscarda, ma la donna confessa la verità; Moscarda però si addossa ogni colpa. In segno di ravvedimento, seguendo i consigli del furbo canonico Sclepis, fa costruire un ospizio per i poveri e vi si ritira, «alienato» tra gli altri ospiti della casa, privo di nome: un «nessuno», che vive nella natura, senza più contrasto fra l’essere e le apparenze.

Il naso di Moscarda Uno, nessuno e centomila, libro I, capitoli 1 e 2, passim Anno: 1925-26 Temi: • il gesto di guardarsi allo specchio e le sue conseguenze • la differenza tra come ci vediamo noi e come ci vedono gli altri • il dubbio sulla propria identità Il romanzo si offre come un racconto retrospettivo in prima persona, in 8 «libri» ciascuno dei quali suddiviso in brevi capitoli sottotitolati: altrettante tappe dell’impietosa autoanalisi a cui Vitangelo Moscarda sottopone se stesso. Il resoconto inizia quando il protagonista, a ventotto anni, scopre che gli altri lo vedono diverso da come lui stesso si percepisce.

una domanda, per cominciare a esprimere dubbi e demolire certezze similitudine felicemente immediata, tipica del linguaggio diretto e antiletterario di Pirandello

I. – MIA MOGLIE E IL MIO NASO «Che fai?» mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.1 «Niente,» le risposi «mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, av5 verto un certo dolorino.» Mia moglie sorrise e disse: «Credevo ti guardassi da che parte ti pende». Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda: «Mi pende? A me? Il naso?»

1. indugiare... specchio: l’umorista Vitangelo si sofferma allo specchio: vedersi vi-

vere è il primo passo per uscire dalle «forme» che imprigionano gli altri.

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Monografia Raccordo

senso che «si fissa» in modo stabile; perciò una forma equivale alla morte, così com’è equivalente a morire indossare una maschera, oppure identificarsi in un nome (cioè possedere un’identità socialmente riconosciuta). La Vita che «non conclude», l’esatto contrario della morte, coincide con il perenne divenire delle cose di natura. Solo annullandosi in esse Vitangelo può realmente esistere, per qualche attimo, come proclama nell’ultimo capitolo del romanzo (E Testo 9, p. 639).

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

E mia moglie, placidamente: «Ma sì, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra». 10

le vicende pirandelliane cominciano sempre così: da eventi casuali e di minima importanza che sconvolgono la (presunta) normalità

un’espressione parlata e colloquiale

la narrazione tende a instaurare un dialogo diretto con i lettori qui il dialogo con i lettori utilizza una battuta diretta, tra virgolette

l’inettitudine di Moscarda alla vita pratica

Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire2 un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire3 per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di 15 quel difetto perciò mi stizzì4 come un immeritato castigo. Vide forse mia moglie molto più addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto senza mende,5 me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, così... «Che altro?» 20 Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^^, le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell’altra; e altri difetti... «Ancora?» Eh sì, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino più arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino. 25 Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento la maraviglia che ne provai subito dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m’esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo. Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che come diritto ci 30 è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver motivo né d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant’anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver conto6 che li 35 avevo difettosi. «Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito.» Ecco, già – le mogli, non nego. Ma anch’io, se permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di 40 riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano7 giù per torto e sù per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne paresse nulla. «Si vede,» voi dite, «che avevate molto tempo da perdere.» No, ecco. Per l’animo in cui mi trovavo. Ma del resto sì, anche per l’ozio, non nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano ai miei 45 affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questo sì, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto;8 e, pover’uomo, neppur questo aveva potuto ottenere da me. [...] 50

2. sortire: avere in sorte. 3. invanire: insuperbire, esser vanitoso. 4. mi stizzì: mi irritò.

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5. mende: difetti. 6. aver conto: sapere. 7. bucheravano: facevano buchi.

8. punto: per nulla.

Vitangelo, a posteriori, si definisce guarito, non impazzito, come invece lo giudicano gli altri

proprio questo è accaduto a Moscarda: ha realizzato che il mondo e la realtà funzionano in modo diverso da come aveva sempre pensato

comincia ad aprirsi l’irreparabile divario che separa i personaggi pirandelliani «normali» da quelli umoristi

il culmine di una giornata che per il protagonista sarà indimenticabile

Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella riflessione che dunque – possibile? – non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie che più intimamente m’appartenevano: il naso, le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame. Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizio- 55 ni di spirito e di corpo così misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene. II. – E IL VOSTRO NASO? Già subito mi figurai9 che tutti, avendone fatta mia moglie la scoperta, dovessero 60 accorgersi di quei miei difetti corporali e altro non notare in me. «Mi guardi il naso?» domandai tutt’a un tratto quel giorno stesso a un amico che mi s’era accostato per parlarmi di non so che affare che forse gli stava a cuore. «No, perché?» mi disse quello. E io, sorridendo nervosamente: «Mi pende verso destra, non vedi?» E glielo imposi a una ferma e attenta osservazione, come se quel difetto del mio 65 naso fosse un irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell’universo. L’amico mi guardò in prima un po’ stordito; poi, certo sospettando che avessi così all’improvviso e fuor di luogo cacciato fuori il discorso del mio naso perché non stimavo degno né d’attenzione né di risposta l’affare di cui mi parlava, diede una spal70 lata e si mosse per lasciarmi in asso. Lo acchiappai per un braccio, e: «No, sai,» gli dissi «sono disposto a trattare con te codest’affare. Ma in questo momento tu devi scusarmi». «Pensi al tuo naso?» «Non m’ero mai accorto che mi pendesse verso destra. Me n’ha fatto accorgere, 75 questa mattina, mia moglie.» «Ah, davvero?» – mi domandò allora l’amico; e gli occhi gli risero d’una incredulità ch’era anche derisione. Restai a guardarlo come già mia moglie la mattina, cioè con un misto d’avvilimento, di stizza e di maraviglia. Anche lui dunque da un pezzo se n’era accorto? E chi sa quant’altri con lui! E io non lo sapevo e, non sapendolo, credevo d’essere per tutti un 80 Moscarda col naso dritto, mentr’ero invece per tutti un Moscarda col naso storto; e chi sa quante volte m’era avvenuto di parlare, senz’alcun sospetto, del naso difettoso di Tizio o di Cajo e quante volte perciò non avevo fatto ridere di me10 e pensare: “Ma guarda un po’ questo pover’uomo che parla dei difetti del naso altrui!” Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e co- 85 mune il mio caso, il quale provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri. Ma il primo germe del male aveva cominciato a metter radice nel mio spirito e non potei consolarmi con questa riflessione. Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di 90 me, m’ero figurato d’essere. L. Pirandello, Tutti i romanzi, cit.

9. figurai: immaginai. 10. fatto ridere di me: è un’osservazione assai realistica. Moscarda si preoccupa del-

l’impressione che ha lasciato, sia pure inconsapevolmente, negli altri; più avanti, per uscire dalla schiavitù delle forme sociali,

adotterà invece il rimedio opposto, ossia la scelta volontaria dell’esilio e la condizione del mentecatto.

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i personaggi di Pirandello non fanno che pensare, e ogni attività concreta si blocca in tale sforzo di autoanalisi

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO ■ Tutto comincia da una banale osservazione della moglie Dida: Vitangelo ha il naso storto, non se n’è mai accorto? Nasce da qui un’intensa riflessione da parte del protagonista. Egli chiede conferma a un amico: davvero ha il naso storto? Non ne ottiene una risposta certa, ma il dubbio ormai ha cominciato a scavare dentro di lui. Se mai in precedenza aveva notato quel piccolo difetto fisico, chissà quanti altri aspetti della sua personalità, noti agli altri, saranno invece sfuggiti a lui! [...] credevo d’essere per tutti un Moscarda col naso

dritto, mentr’ero invece per tutti un Moscarda col naso storto (rr. 80-81). ■ È l’avvio di una crisi d’identità, un male dai risultati potenzialmente devastanti: certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene (rr. 56-57). Questo rimedio sarà narrato dal protagonista-narratore nel seguito del romanzo: l’abbandono del suo ruolo sociale, il rifugio in una vita di natura, «primitiva».

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Basta poco, pochissimo (un’innocente osservazione della moglie) per mettere in moto una vicenda paradossale e distruttiva, almeno dal punto di vista della logica «normale». Ma perché la battuta della moglie abbia effetto, è necessaria la predisposizione di Vitangelo, quel suo iniziale guardarsi allo specchio: è come se Moscarda vi venisse risucchiato dentro, quasi preso in un vortice, in un «gorgo», dal quale non esiste via d’uscita.

■ Man mano che il romanzo di Moscarda procederà, il suo io si dissolverà, in un lento ma inesorabile processo di sparizione. Il risultato di quel vedersi allo specchio è dunque la follia, la dissociazione di chi si scopre contemporaneamente «uno, nessuno e centomila».

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. La situazione da cui prende avvio il romanzo era anticipata da una riflessione del saggio L’umorismo (1908) sul guardarsi allo specchio: «Oh perché proprio dobbiamo essere così, noi? ci domandiamo talvolta allo specchio, con questa faccia, con questo corpo? Alziamo una mano, nell’incoscienza; e il gesto ci resta sospeso. Ci pare strano che l’abbiamo fatto noi. Ci vediamo vivere». a. Quali analogie ritrovi fra i due passi? Rispondi con riferimenti al brano letto. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... b. Ora prova a spiegare perché il guardarsi allo specchio si collega a una scoperta fondamentale per Pirandello: l’io è, contemporaneamente, «uno, nessuno e centomila». ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 636

2. Chi si vede allo specchio, si vede fuori dal proprio corpo, lo osserva come cosa estranea e finisce per odiarlo. Scaturisce da qui, nel primo capitolo di Uno, nessuno e centomila, l’insistenza sulle brutture fisiche del corpo. a. Secondo te, Vitangelo è più stupito o più stizzito per l’improvvisa rivelazione della moglie? Motiva la risposta. ............................................................................................... ............................................................................................... b. Quali difetti fisici il protagonista scopre effettivamente su di sé? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... c. Vitangelo dà importanza o no a tali difetti? Perché? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... 3. L’umorista di Pirandello è colui che cerca l’autenticità (la vita nuda) e che dunque rifiuta ogni forma: e la prima forma è proprio il corpo. a. Quali elementi di questo brano ti permettono di dire che Vitangelo è uno dei tipici personaggi «umoristi» di Pirandello? Individuali nel testo, citali e poi commentali (max 10 righe).

4. I monologhi di Moscarda spesso s’intrecciano con dialoghi che riproducono le discussioni del protagonista con se stesso, oppure con la moglie, gli amici ecc. Talora il protagonista-narratore si appella al lettore: lo chiama in causa, ne trascrive i giudizi, le perplessità, i commenti, cerca di catturarne l’attenzione e la simpatia, lo diverte, lo invita a seguirlo come suo complice. a. Individua una sequenza a tua scelta e compila la tabella. monologhi di Moscarda

............................................. ............................................. .............................................

5. La pagina narrativa di Pirandello assume un andamento scenico e teatrale. La sintassi presenta un carattere «gesticolatorio», utile al personaggionarratore per riflettere, argomentare, spiegare al lettore i suoi sentimenti e le sue idee. a. Tra queste forme espressive, ne spiccano alcune: ritrova per ciascuna esempi significativi nel testo. – interiezioni ed esclamazioni ............................................................................................... ............................................................................................... – espressioni di cortesia ............................................................................................... ............................................................................................... – battute umoristiche ............................................................................................... ...............................................................................................

dialoghi con altri personaggi ............................................. ............................................. ............................................. appelli al lettore

LAVORIAMO SU

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LINGUA E LESSICO

1. La narrazione si avvia da una domanda, a cui ne seguiranno molte altre. Anche così Pirandello corrode il romanzo tradizionale mediante le armi del dubbio, della critica, della sospensione del giudizio. a. Si va da «Mi pende? A me? Il naso?» a «Che altro?»; prosegui tu, sottolineando nel testo tutte le interrogative dirette. b. Distingui le domande che il protagonista pone a se stesso da quelle che egli pone agli altri o che gli altri pongono a lui. Quali prevalgono? ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... c. Secondo te, di che cosa è sintomo l’alta frequenza di questi interrogativi?

del desiderio del personaggio di chiarire la verità della sua vocazione filosofica c della sua insicurezza e instabilità psicologica d del desiderio di svelare agli altri le loro debolezze Motiva in breve la risposta. a

b

2. Sul piano lessicale, Pirandello sceglie in Uno, nessuno e centomila una lingua «neutra», vicina a quella della conversazione quotidiana media. a. Prova a documentare questo aspetto, citando espressioni o termini di qualità lessicalmente «media». ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

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Monografia Raccordo

{ Forme e stile

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

Pirandello e la follia Una triste esperienza familiare Vitangelo Moscarda comincia con il «vedersi» allo specchio e finisce per dissociarsi, scoprendosi contemporaneamente «uno, nessuno e centomila». È uno dei modi in cui, nell’opera pirandelliana, emerge il grande e inquietante tema della follia. La stessa biografia dello scrittore fu segnata dalla tragedia familiare della pazzia – una forma di gelosia paranoica – della moglie Antonietta Portulano. Gelosissima, accusava il marito ora d’intendersela con le studentesse dell’Istituto Superiore di Magistero, ora addirittura d’incesto con la figlia Lietta. L’alienazione mentale della donna si aggravò via via, rendendo necessario il ricovero in una casa di cura nel febbraio 1919; Antonietta vi rimase fino alla morte, avvenuta nel 1959. Questo dramma familiare fu fonte d’inaudite sofferenze personali per Pirandello; ma gli fu anche di stimolo per aprirsi a una tematica nuovissima, foriera di decisivi sviluppi letterari.

Le fonti di Pirandello A differenza di Svevo, Pirandello non lesse direttamente le opere di Freud (o, se lo fece, ciò accadde non prima del 1930). Tuttavia poté leggere alcuni psichiatri pre-freudiani, come lo psicologo e medico francese Alfred Binet (18571911), la cui opera ispirò a Pirandello una sistemazione scientifica di idee e intuizioni a cui lavorava fin dagli anni giovanili. In particolare tre: • la soggettività della percezione: noi percepiamo la realtà in modo soggettivo, a seconda del nostro peculiare «sentimento» della vita, come Pirandello lo chiama nell’Umorismo (E p. 585); • la variabilità degli stati psicologici: uno stesso individuo muta, nel tempo, carattere e personalità; • la scomposizione della personali-

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tà: noi possiamo percepirci, oggi, diversi rispetto a ieri, «altri» da noi stessi. Non erano idee nuove alla cultura europea: già il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860), oltre a sostenere l’idea secondo cui la realtà è una costruzione soggettiva, aveva postulato l’esistenza in noi di una «forza oscura, segreta e inconoscibile». Inoltre, il termine «inconscio» apparve in un libro (Filosofia dell’inconscio) scritto nel 1869 da un discepolo di Schopenhauer, Eduard von Hartmann (1842-1906).

L’emergere dell’inconscio A partire da queste fonti, Pirandello portò il cuore della tematica freudiana al centro delle sue opere. C’è una parte di noi, egli afferma, che non ci appartiene, in cui non ci riconosciamo più; malgrado i nostri sforzi di soffocarla, essa a tratti prende vita dentro di noi e addirittura ci si accampa davanti, come un fantasma vivo e terrificante. Il nucleo della teoria compare già nel romanzo L’esclusa (1893): «Non si sentiva forse ciascuno guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili, come sorti da un’anima diversa da quella che normalmente ci riconosciamo?»; ritornerà anni dopo, quasi con le stesse parole, nell’Umorismo (E Testo 1, p. 594).

I numerosi volti della follia A partire da queste riflessioni prendono vita alcuni motivi tra i più caratteristici del mondo pirandelliano: • la memoria involontaria: nella novella L’avemaria di Bobbio (1912) il notaio Bobbio si trova a recitare, senza volere, le parole di una preghiera infantile, che escono da un luogo oscuro della sua memoria, rivelando così la sconvolgente alterità che si cela dentro di lui; • la paura d’impazzire o, in alternativa, la voglia di «fare il pazzo» che

coglie per esempio il Ciampa del Berretto a sonagli (1917), desideroso di «sputare in faccia alla gente la verità»; • la presenza in noi di un «gorgo» (l’inconscio, appunto), un «vuoto nero, orribile, raccapricciante» (lettera alla sorella Lina del 31 ottobre 1886): tale «gorgo», chiamato nella novella Non è una cosa seria (1910) «il fondo dell’essere» e «l’antro della bestia», produce in noi, appunto, «lampi di follia»; • la dissipazione dell’io (il nostro io non è «uno» ma «tanti»), definita dalla psicoanalisi freudiana la «dissociazione schizoide» e che Pirandello traduce nel motivo dell’«uno e due» (vedi la novella Stefano Giogli, uno e due, 1909) o in quello, parallelo, del «centomila» (Uno, nessuno e centomila); • l’individuo che vede riflessa nello specchio un’immagine che non gli appartiene: vedi la novella Soffio (1934): «Non mi vidi più; toccai lo specchio, era lì, davanti a me, lo vedevo e io non c’ero; [...]; un impeto mi prese, frenetico, di cacciarmi in quello specchio in cerca della mia immagine soffiata via, sparita». • il «doppio»: due individui perfettamente reciproci, come nelle novelle Pari (1907), O di uno o di nessuno (1915) ecc.; • l’«altro», un secondo io che è misteriosamente presente nell’individuo: Pirandello ha raffigurato il tema nei Dialoghi tra il Gran me e il piccolo me, del 189597; • l’«ombra» autonoma dal corpo: «L’artista ordinario bada al corpo solamente: l’umorista bada al corpo e all’ombra, e talvolta più all’ombra che al corpo; nota tutti gli scherzi di quest’ombra, com’essa ora s’allunghi ed ora s’intozzi, quasi a far le smorfie al corpo, che intanto non la calcola e non la cura» (nel finale dell’Umorismo).

«La vita non conclude» Uno, nessuno e centomila, libro VIII, capitolo 4 Anno: 1925-26 Temi: • la vita come flusso infinito • la fuga dalle convenzioni e dalle maschere sociali • il rifiuto dell’identità personale e della riflessione • il rifugio nella vita semplice e immediata della natura Leggiamo l’ultima pagina del romanzo; il titolo Non conclude è stato voluto dall’autore stesso. Il protagonista rifiuta nomi, identità, certezze; sceglie di vivere nel modo più incosciente e naturale, fuori dal consorzio della società umana.

lo specchio rimane un pericolo da evitare!

l’autoritratto del saggio-folle, l’umorista pirandelliano lo stile nominale rivela la rinuncia a ogni linguaggio letterario

l’inconclusione della vita è una delle facce del relativismo pirandelliano

la realtà non viene descritta da lontano: si rende presente nell’immediatezza di un dialogo diretto con il lettore

Anna Rosa doveva essere assolta;1 ma io credo che in parte la sua assoluzione fu anche dovuta all’ilarità che si diffuse in tutta la sala del tribunale, allorché, chiamato a fare la mia deposizione, mi videro comparire col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio. Non mi sono più guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di 5 voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quello che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato così diverso da quello di prima, che avrebbero potuto risparmiare a quel 10 povero svanito là,2 barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo a voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse. Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi;3 e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non defi- 15 nita; ebbene, questo4 che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo5 di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; 20 domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito così, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese plumbee6 ammassate sui 25 monti lividi, che fanno parere più larga e chiara, nella grana d’ombra7 ancora notturna, quella verde plaga8 di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode.9 E quell’asinello rimasto al sereno10 tutta la notte, che

1. assolta: Anna Rosa, confusa dalle strambe teorie di Moscarda e timorosa d’impazzire, gli aveva sparato due pistolettate; ma Vitangelo, al processo, si è preso tutta la responsabilità del gesto. 2. quel povero svanito là: sta parlando di se stesso, per come lo vedono gli altri, ancora più matto di sempre.

3. se un nome... di noi: dare il nome significa concettualizzare la realtà, cioè «fissarla» in una forma e, quindi, tradire la vita. Meglio non dare nomi e vivere senza concetti. 4. questo: questo nome. 5. trèmulo: fremente di vita e di fronde. 6. pese plumbee: pesanti come piombo.

7. nella grana d’ombra: nella filigrana ancora scura del cielo all’alba. 8. plaga: zona; uno spazio non circoscritto. 9. prode: strisce di terreno ai lati del ruscello. 10. al sereno: all’aperto.

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Monografia Raccordo

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Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

la fuga nella natura, in cerca di un’esistenza più autentica

altro tema relativistico: il soggetto «sparso» nelle cose

ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore, a schiarirglisi at- 30 torno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraje11 qua, tra siepi nere e muricce12 screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno13 e non vanno. E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva14 per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per 35 attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.15 La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro,16 il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro 40 pieno di sole caldo tra lo stridìo delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi:17 vivo e intero, non più in 45 me, ma in ogni cosa fuori. L. Pirandello, Tutti i romanzi, cit.

11. carraje: strade agricole per carri. 12. muricce: muriccioli di campagna. 13. stanno: le carraje sembrano cose vive, che stanno ferme, non si decidono, cioè, a spingersi lontano.

14. s’avviva: si ravviva. 15. vane costruzioni: le teorie della logica, della filosofia, del pensiero coerente; ma anche i programmi per il futuro, i giudizi morali ecc. Moscarda ha definitivamente

rinunciato a tutto ciò, per affidarsi a un’esistenza del tutto inconsapevole, da viversi alla giornata (attimo per attimo). 16. vespro: l’ora del tramonto. 17. senza ricordi: senza identità.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ L’epilogo del romanzo raccoglie, con uno stile tra il lirico e il filosofico, le meditazioni finali di Moscarda. I temi prevalenti sono: • la vita come «inconclusione», come flusso, come cosa non distinta e non definita; • la fuga dalla città, intesa come luogo delle norme e delle «maschere» sociali; • il rifiuto di un’identità definita (Moscarda non si guarda più nello specchio, si fa crescere la barba fino a rendersi irriconoscibile anche agli occhi degli altri ecc.); • il rifiuto, quindi, del nome: esso blocca l’identità, la ingabbia in una «forma», mentre la vita è movimento libero e spontaneo, al di fuori di nomi, identità, norme ecc.; • il rifiuto del pensare, della riflessione (Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare), per abbandonarsi al contatto liberante con la natura; • il desiderio, anzi, di «sciogliere» l’io nella natura stessa (la campagna, le nubi, i fili d’erba, l’asinello ecc.); • l’apprezzamento per le realtà più semplici e pure; • lo scopo ultimo è annullare l’identità e attingere a una vita «nuova» attimo per attimo (muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo [...] non più in me, ma in ogni cosa fuori, rr. 4445).

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LAVORIAMO SUL TESTO 1. Perché Anna Rosa è stata processata? Come e perché viene decisa la sua assoluzione? 2. Perché Moscarda definisce ogni nome personale un’epigrafe funeraria? 3. Così soltanto io posso vivere, ormai, afferma il protagonista: in che modo? 4. Nel testo compare un riferimento alla religione. • Che cosa pensa il protagonista della fede religiosa? • È possibile affermare che in questo epilogo del romanzo Moscarda finisce per crearsi una sua propria religione? • Se sì, di quali elementi essa si compone? 5. Rintraccia nel brano e illustra tutti gli elementi che esprimono il «relativismo» pirandelliano. 6. L’epilogo del romanzo assume l’andamento di una prosa poetica, ricca di immagini e con un ritmo contemplativo, lontano da quello dei romanzi d’intreccio. Documenta questa affermazione con opportuni riferimenti al testo. 7. Pirandello affermò (1922) che Uno, nessuno e centomila era «il romanzo della scomposizione della personalità», e aggiunse: «Spero che apparirà in esso più chiaro [...] il lato positivo del mio pensiero». In che cosa può consistere questo «lato positivo»? Rispondi con riferimenti al testo.

Luigi Pirandello

Contesto

SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE

L’origine del testo ◗ Pirandello scrisse al figlio Stefano nel luglio 1917: «Sei personaggi in cerca d’autore: romanzo da fare. Forse tu intendi. Sei personaggi, presi in un dramma terribile, che mi vengono appresso, per essere composti in un romanzo, un’ossessione, e io che non voglio saperne, e io che dico loro che è inutile e che non m’importa di loro e che non m’importa più di nulla, e loro che mi mostrano tutte le loro piaghe e io che li caccio via... e così alla fine il romanzo da fare verrà fuori fatto». Il romanzo si mutò in una «commedia da fare», secondo la forma nuovissima del «teatro nel teatro». Pirandello la compose in poche settimane nel corso del 1921, rispecchiandovi la propria drammatica condizione familiare e le accuse d’incesto (con la figlia Lietta) mossegli, nella sua follia, dalla moglie Antonietta (E scheda a p. 638). ◗ Messo in scena nel maggio del 1921 al Teatro Valle di Roma, il lavoro suscitò discussioni appassionate e critiche feroci. Le cose andarono un po’ meglio a Milano, qualche mese dopo. Fu invece un grande successo l’allestimento parigino del 1923 alla Comédie des Champs-Elysées. Il regista Georges Pitoëff valorizzò certe componenti oniriche e surreali del testo; Pirandello ne rimase tanto impressionato da variare e risistemare il testo per l’allestimento del 1925 da lui diretto al Valle di Roma. In tale veste definitiva, i Sei personaggi conobbero grande fama in tutto il mondo, divenendo l’immagine più emblematica, lasciapassare e chiave di lettura, del teatro pirandelliano.

Fantasmi, o maschere di dolore ◗ I sei personaggi sono misteriose creature che un bel giorno bussano alla porta di un teatro nel quale una compagnia di attori, diretta da un Capocomico (che noi oggi chiameremmo «regista»), sta provando una commedia. I sei chiedono loro attenzione e la disponibilità a rappresentare sul palcoscenico la propria vicenda familiare. Rispetto alle novelle (E La tragedia di un personaggio, Testo 4, p. 607), in cui già Pirandello aveva raffigurato il motivo dei personaggi che si presentano all’autore per chiedergli udienza, questi sei personaggi non sembrano solo evanescenti fantasmi della mente, ma assumono una consistenza corporea. O almeno pare: l’ambiguità è una componente ineliminabile del dramma. ◗ Una didascalia, ossia un’indicazione dell’autore, prevede che i sei si presentino «con speciali maschere»: le maschere dell’antico teatro greco, che «fissavano» il sentimento fondamentale dei vari personaggi. Tale sentimento – prosegue la didascalia – «è il rimorso per il Padre, la vendetta per la Figliastra, lo sdegno per il Figlio, il dolore per la Madre con fisse lagrime di cera nel livido delle occhiaje e lungo le gote». Dunque non sono individui, ma «tipi» (non il signor Tal dei tali, ma «il Padre») senza volto né nome, fissati per sempre nella loro sofferenza ancestrale. Rappresentare a teatro la loro vicenda non potrà recare loro la purificazione (catarsi) che costituiva l’esito dell’antica tragedia greca. Può però alleviare il dolore, sfogandolo e mostrandolo al pubblico. Questo appare ormai lo scopo dell’arte: se essa non può più fornire un messaggio per migliorare il mondo, può però dare una testimonianza in cui tutti possiamo contemplare il nostro dolore.

Il teatro nel teatro ◗ Il lavoro è costruito secondo la struttura sperimentale del «teatro nel teatro»: narra cioè la storia di un allestimento teatrale, esponendo in primo piano tutti i punti deboli di un palcoscenico per così dire «nudo». Il teatro nel teatro era già stata sperimentato da Molière nell’Improvvisazione di Versailles (1663) e poi da Goldoni nella commedia Il teatro comico (1750). Anche alcuni autori e registi d’inizio Novecento, come i russi Vsevolod Mejerchol’d (1874-1942) e Nicolaj Evreinov (1879-1953) o l’italiano Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), il fondatore del Futurismo, avevano riproposto nei loro lavori il teatro «che si fa facendolo». 641

Monografia Raccordo

L’OPERA

Tra Ottocento e Novecento

◗ Rispetto a questi precedenti, il teatro nel teatro in Pirandello acquista significati più profondi e complessi. Nella Prefazione al dramma, datata 1925 (forse scritta non da Pirandello ma dal figlio Stefano), si sostiene che i sei sono stati abbandonati dall’autore subito dopo che costui li aveva creati; ora reclamano, con insistenza, la «scrittura», ovvero – nel linguaggio pirandelliano – una «forma». Forse, se una compagnia di bravi attori li incarnerà davanti a un pubblico, rappresentandone la vicenda, la loro sofferenza potrà in parte placarsi. A un certo punto, i sei invitano il Capocomico a fissare sulla carta le battute, i movimenti; sia lui il nuovo autore, al posto di colui che si rifiutò di formalizzarli! ◗ Il Capocomico all’inizio rifiuta: il suo mestiere è quello di regista, non di autore. Poi, lusingato, cede alle pressioni di quegli sconosciuti. Fissa degli appunti sulla carta, ma il risultato sarà assai deludente. Le battute da lui scritte – e poi recitate dagli attori – non riescono a rappresentare con dignità e realismo la «vita» vera dei sei personaggi. È un tema caro a Pirandello: la Vita non tollera di essere irrigidita e falsificata da una qualche forma (in questo caso, la scrittura). A maggior ragione non lo sopporta la vita di quei sei personaggi. La vicenda di cui sono portatori nasce (come spesso avviene in Pirandello) dai guasti della vita di famiglia: un groviglio di gelosie e pulsioni (miserie morali, prostituzione, una situazione che sfiora l’incesto) tale da non poter essere né scritto né teatralizzato. ◗ Il Capocomico e gli attori non potranno che farsi spettatori muti e quasi atterriti della vita rappresentata (caoticamente, quasi spudoratamente) davanti a loro dai personaggi. Il lavoro si conclude con due morti in scena: la Bambina affoga nella vasca senza un grido né un lamento; subito dopo echeggia un sinistro colpo di pistola. Il suicidio del Giovinetto – finzione? realtà? – è accompagnato dal riso sardonico della Figliastra che si fa beffe di tutto. Rimane inascoltata la disperata invocazione del Capocomico: «Luce! Luce! Luce!». Quei sei personaggi volevano rifare in scena la propria vita, ma la vita accade una volta sola e non si può replicare a comando. Il messaggio di Pirandello è che il teatro ha dei limiti e che il dolore dell’esistenza è senza rimedio: siamo vicini ai temi della filosofia esistenzialista degli anni trenta.

Un’autentica rivoluzione teatrale ◗ I Sei personaggi comunicano una profonda sfiducia verso la letteratura e il teatro tradizionali: • la letteratura tradizionale, fatta di trame avvincenti e parole eleganti, è un inganno da rigettare, dice Pirandello: ai lettori essa non ha da dire più nulla di vero e di buono; • analogamente, va rifiutato il teatro tradizionale, fatto di battute, applausi, effetti spettacolari; oggi non abbiamo bisogno di applausi, ma di verità, di vita autentica: ma quest’ultima si rispetta, non si spettacolarizza. Ciò non significa che sia finito il tempo dell’arte: è però finito, dice Pirandello, il tempo di un’arte solitaria nel suo sogno di bellezza. Oggi l’arte deve misurarsi con la tragedia del vivere (ognuno è solo con il suo mistero e la sua sofferenza) e testimoniarla con verità. Per giungere a tale scopo, bisogna essere disposti a sacrificare certezze millenarie, che riguardano la natura stessa dell’arte (per esempio, l’idea che un testo deve avere un autore e/o deve presentarsi in forma scritta). ◗ Gli elementi più sperimentali dei Sei personaggi sono: • l’assenza dell’autore e, quindi, la mancanza di un testo scritto (anche se, in realtà, un autore e un copione esistono, cioè Pirandello e i Sei personaggi; è una delle maggiori ambiguità del lavoro); • l’esaurirsi della recitazione tradizionale: gli attori, anche se bravi, non riescono a impersonare la storia dei personaggi; può farlo solo chi l’ha vissuta, pur se digiuno di «mestiere» teatrale; • la sala «nuda»: la vicenda si ambienta in un teatro privo di scenografie, costumi ecc. e privo di pubblico (in realtà molti spettatori, nel corso degli anni, hanno assistito alle messinscene di Sei personaggi in cerca d’autore: è un’altra delle ambiguità pirandelliane); • il fatto che la messinscena esce dal palcoscenico per allargarsi alla platea (dove il Capocomico a un certo punto va a sedere, per spiare l’effetto complessivo), alle scalette laterali, al fondo della sala (verso cui, nell’epilogo, si dirige correndo e ridendo la Figliastra). In tal modo i Sei personaggi in cerca d’autore – così come poi gli altri due drammi, Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930), raccolti da Pirandello nella «trilogia del teatro nel teatro» (E scheda a p. 643) – si pongono come punto d’avvio della sperimentazione teatrale condotta nel Novecento dai gruppi d’avanguardia e da registi come Stanislavskij, Artaud, Grotowski. 642

◗ In un giorno qualunque una compagnia d’attori sta provando un dramma, Il giuoco delle parti di «Pirandello, che chi l’intende è bravo». La sala è al buio, la scena in disordine, il Macchinista (scenografo) al lavoro. Entrano nel teatro sei personaggi. Sono il Padre, la Madre, il Figlio, e altri tre figli di secondo letto della madre: la Figliastra, un Giovinetto e una Bambina. Essi chiedono agli attori presenti d’interrompere le prove e di passare a rappresentare il loro squallido dramma familiare. Il Capocomico, dopo qualche esitazione, acconsente. La vicenda emerge a strappi, in quanto provoca sofferenza e forti tensioni nei sei. ◗ Il Padre ha sposato una donna socialmente inferiore (la Madre) e ha avuto da lei il Figlio. Scopre che è nata una relazione tra la donna e un suo segretario, ma non ne è geloso: anzi, l’uomo è più adatto di lui a far felice la moglie. Le sottrae però il Figlio, pretendendo che sia educato altrove. La donna abbandona il primo marito; dalla nuova unione della

Madre nascono la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina. Quando il secondo marito muore, la Madre deve ritornare al paese d’origine. Trova lavoro nell’equivoca sartoria di Madama Pace, che in realtà è una casa d’appuntamenti in cui, per integrare la magra economia domestica, la Figliastra si prostituisce. Un giorno si presenta un nuovo cliente: è il Padre, ignaro di lei, come lei lo è di lui, e l’incesto non si consuma solo per un fortuito intervento della Madre. Sconvolto dal rimorso, l’uomo riporta la famiglia a casa, ma nessuna riparazione è possibile in quanto i personaggi sono «fissati» ciascuno nel proprio dolore e nell’incomunicabilità reciproca: la Figliastra odia il Padre come responsabile della sua vergogna; il Figlio disprezza quei parenti più umili, che non conosce; la Madre è addolorata dal rifiuto del primogenito. ◗ Gli attori prima rifiutano, poi accettano di recitare tale vicenda. Stentano però a rappresentarla, a viverla veramente: il teatro, che è «finzione» spetta-

colare, non può mettere in scena la «realtà» tragica della vita. I sei personaggi, mescolando racconto e rappresentazione, si avviano comunque a concludere la loro storia, malgrado il rifiuto del Figlio a partecipare all’azione. Tra loro manca però un personaggio, Madama Pace: allora il Padre sistema sul palco i cappellini e i mantelli delle attrici, per simulare l’ambiente della sartoria – e così, attratta «dagli oggetti del suo commercio», Madama Pace prodigiosamente si materializza sul palcoscenico. ◗ Il finale si ambienta nel giardino, dove la Bambina, incustodita, affoga nella vasca; il Giovinetto, cui era stata affidata, si spara un colpo di pistola. Viene portato a braccia dagli altri: è morto davvero? È realtà o soltanto finzione? Gli attori abbandonano il teatro, mentre echeggia nella sala il riso beffardo della Figliastra. Le ombre dei sei personaggi sembrano di nuovo pronte a riprendere corpo, nel tentativo di consistere in una qualche «forma».

La «trilogia del teatro nel teatro» Fu Pirandello stesso, nel 1933, a inserire i Sei personaggi in un gruppo di tre drammi (con Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto), che battezzò «trilogia del teatro nel teatro». Tutti e tre si presentano in effetti come esperimenti teatrali da realizzarsi al momento: gli spettatori non assistono a un prodotto finito e confezionato, ma a un teatro «che si fa facendosi». Ciascuno di questi lavori, aggiunge Pirandello, ruota intorno al tema del «conflitto», il quale oppone gli attori (componente essenziale del teatro) a una delle altre tre componenti: essi si scontrano rispettivamente con i personaggi (Sei personaggi), con il pubblico (Ciascuno a suo modo), con il regista (Questa sera si recita a soggetto). Nei Sei personaggi il dissidio oppone i personaggi agli attori: questi, per

quanti sforzi facciano, non sono in grado di recitare il dramma, che infatti appartiene solo a chi l’ha realmente vissuto. Il motivo dell’inadeguatezza del teatro davanti all’esuberante ricchezza dell’esistere caratterizza anche le altre due opere. In Ciascuno a suo modo (1924) lo scontro tra finzione e realtà è acceso dalla presenza, in sala, dei veri protagonisti della storia realmente accaduta e narrata dai giornali. Alcuni spettatori, riconoscendosi in ciò che accade sulla scena, interrompono la rappresentazione, e gli attori, indignati, se ne vanno. Al Direttore di scena non resta che annunciare al pubblico che, «per gli spiacevoli incidenti accaduti alla fine del secondo atto, la rappresentazione del terzo non potrà più aver luogo». Questa sera si recita a soggetto

(1930) comincia come un esperimento (voluto dal regista, il dottor Hinkfuss) di recita «a soggetto», priva cioè di un copione e basata solo sul testo di una «novelletta» (Leonora, addio!) di un certo Luigi Pirandello. Ma non tutto va liscio: il pubblico (tra cui sono mescolati alcuni attori) interviene a commentare, e il dottor Hinkfuss si dimostra troppo attento alle esigenze dello spettacolo (colpi di scena, particolari truculenti ecc.), scontentando gli attori, che hanno imparato a «vivere» così intensamente il proprio personaggio da non tollerare più quegli effetti. A un certo punto gli attori concordi cacciano dal teatro il regista: «Via chi vuol comandare!», proclamano. Daranno vita così a uno straordinario esperimento di regia collettiva, dirigendosi a vicenda e badando al significato complessivo, non più ai particolari dello spettacolo. 643

Monografia Raccordo

LA TRAMA

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

10 L’ingresso dei sei personaggi Sei personaggi in cerca d’autore Anno: 1921-25 Temi: • il teatro che «si fa» in diretta davanti al pubblico • il personaggio come realtà «eterna» • l’assenza dell’autore, la mancanza di un testo scritto • la proposta di far mettere in scena un oscuro dramma di famiglia La commedia non è divisa in atti né in scene; il testo che segue è ripreso dalle pagine iniziali. Al Capocomico (o regista), che sta provando con i suoi attori, viene annunciato l’arrivo di «certi signori» – i sei personaggi, appunto – che sono appena giunti in teatro.

L’USCERE (col berretto in mano) Scusi, signor Commendatore. s’infrange così una delle regole del teatro tradizionale, nel quale l’azione avviene sempre sul palcoscenico, non in platea

IL CAPOCOMICO (di scatto, sgarbato) Che altro c’è? L’USCERE (timidamente) Ci sono qua certi signori, che chiedono di lei. Il Capocomico e gli Attori si volteranno stupiti a guardare dal palcoscenico giù nella sala IL CAPOCOMICO (di nuovo sulle furie1) Ma io qua provo! E sapete bene che durante la 5 prova non deve passar nessuno! (Rivolgendosi in fondo) Chi sono lor signori? Che cosa vogliono? IL PADRE (facendosi avanti, seguito dagli altri, fino a una delle due scalette2) Siamo qua in cerca d’un autore.

il Capocomico fraintende; egli impersona il teatro tradizionale, che esige un testo scritto e quindi un autore

IL CAPOCOMICO (fra stordito e irato) D’un autore? Che autore?

10

IL PADRE D’uno qualunque, signore. IL CAPOCOMICO Ma qui non c’è nessun autore, perché non abbiamo in prova nessuna commedia nuova. LA FIGLIASTRA (con gaja vivacità, salendo di furia la scaletta) Tanto meglio, tanto me15 glio, allora, signore! Potremmo esser noi la loro commedia nuova. QUALCUNO DEGLI ATTORI (fra i vivaci commenti e le risate degli altri) Oh, senti, senti! IL PADRE (seguendo sul palcoscenico la Figliastra) Già, ma se non c’è l’autore! (Al Capocomico:) Tranne che non voglia esser lei... La Madre, con la Bambina per mano, e il Giovinetto saliranno i primi scalini della scaletta 20 e resteranno lì in attesa. Il Figlio resterà sotto, scontroso IL CAPOCOMICO Lor signori vogliono scherzare? IL PADRE No, che dice mai, signore! Le portiamo al contrario un dramma doloroso. LA FIGLIASTRA E potremmo essere la sua fortuna!

l’arte tradizionale obbediva al criterio del «verosimile»; la nuova arte umoristica è retta dal paradosso e dall’assurdo

IL CAPOCOMICO Ma mi facciano il piacere d’andar via, che non abbiamo tempo da 25 perdere coi pazzi! IL PADRE (ferito e mellifluo3) Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d’infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché sono vere.

1. sulle furie: agitatissimo. 2. scalette: che portano sul palcoscenico.

644

3. mellifluo: compiacente, affabile.

Luigi Pirandello

polemica nei confronti dei drammaturghi attenti solo allo spettacolo

la poetica umoristica di Pirandello sposta il confine del «vero» molto più in là rispetto al Verismo di Verga

Gli Attori si agiteranno, sdegnati IL CAPOCOMICO (alzandosi e squadrandolo) Ah sì? Le sembra un mestiere da pazzi, il 35 nostro? IL PADRE Eh, far parer vero quello che non è; senza bisogno, signore: per giuoco... Non è loro ufficio dar vita sulla scena a personaggi fantasticati?5 IL CAPOCOMICO (subito facendosi voce dello sdegno crescente dei suoi Attori) Ma io la prego di credere che la professione del comico,6 caro signore, è una nobilissima professione! Se oggi come oggi i signori commediografi nuovi ci danno da rappresen- 40 tare stolide commedie7 e fantocci invece di uomini, sappia che è nostro vanto aver dato vita – qua, su queste tavole – a opere immortali! Gli Attori, soddisfatti, approveranno e applaudiranno il loro Capocomico IL PADRE (interrompendo e incalzando con foga) Ecco! benissimo! a esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni!8 Meno reali, forse; ma più veri! Siamo 45 dello stessissimo parere!9 Gli Attori si guardano tra loro, sbalorditi IL DIRETTORE Ma come! Se prima diceva... IL PADRE No, scusi, per lei dicevo, signore, che ci ha gridato di non aver tempo da perdere coi pazzi, mentre nessuno meglio di lei può sapere che la natura si serve 50 da strumento della fantasia umana per proseguire, più alta, la sua opera di creazione. IL CAPOCOMICO Sta bene, sta bene. Ma che cosa vuol concludere con questo? IL PADRE Niente, signore. Dimostrarle che si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla... o donna. E che si nasce anche personaggi! 55 IL CAPOCOMICO (con finto ironico stupore) E lei, con codesti signori attorno, è nato personaggio?

una vera tragedia familiare, come poi si chiarirà: Pirandello mette in scena i conflitti interni alla famiglia

IL PADRE Appunto, signore. E vivi, come ci vede. Il Capocomico e gli Attori scoppieranno a ridere, come per una burla IL PADRE (ferito10) Mi dispiace che ridano così, perché portiamo in noi, ripeto, un 60 dramma doloroso, come lor signori possono argomentare da questa donna velata di nero.11 Così dicendo porgerà la mano alla Madre per aiutarla a salire gli ultimi scalini e, seguitando a tenerla per mano, la condurrà con una certa tragica solennità dall’altra parte del palcosceni-

4. può stimarsi realmente una pazzia: nel giudicarlo sbagliato. Secondo il Padre (e secondo l’autore) è assurdo inventare l’arte, anziché «leggerla» o ritrovarla nella vita. È un’affermazione di poetica realistica. 5. fantasticati: del tutto fantastici, inventati. 6. comico: attore (non solo comico).

7. stolide commedie: sciocchi testi, tutti uguali. 8. panni: abiti; cioè, in carne e ossa. Ciò che è solo sognato o immaginato (così afferma Pirandello per bocca del Padre) non è meno «vero» della realtà che si tocca e si vede. 9. Siamo dello stessissimo parere!: infatti il Capocomico aveva protestato contro i

drammaturghi che fanno vivere nei copioni fantocci invece di uomini. Anche il Padre (e cioè Pirandello) auspica che nei drammi agiscano «esseri vivi». 10. ferito: offeso. 11. velata di nero: porta il lutto per la morte recente del suo secondo marito (il primo, come si arguirà, è il Padre).

645

Monografia Raccordo

il teatro tradizionale gioca con il falso, con la finzione; il teatro di Pirandello vuole rendere vera la finzione, trasportando la vita nello spettacolo

IL PADRE Dico che può stimarsi realmente una pazzia,4 sissignore, sforzarsi di fare il 30 contrario; cioè, di crearne di verosimili, perché pajano vere. Ma mi permetta di farle osservare che, se pazzia è, questa è pur l’unica ragione del loro mestiere.

Contesto

IL CAPOCOMICO Ma che diavolo dice?

Tra Ottocento e Novecento

co, che s’illuminerà subito di una fantastica luce.12 La Bambina e il Giovinetto seguiranno la 65 Madre; poi il Figlio, che si terrà discosto, in fondo; poi la Figliastra, che s’apparterà anche lei sul davanti, appoggiata all’arcoscenico.13 Gli Attori, prima stupefatti, poi ammirati di questa evoluzione, scoppieranno in applausi come per uno spettacolo che sia stato loro offerto IL CAPOCOMICO (prima sbalordito, poi sdegnato) Ma via! Facciano silenzio! (Poi, rivolgendosi ai Personaggi) E loro si levino! Sgombrino di qua! (Al Direttore di scena) 70 Perdio, faccia sgombrare! IL DIRETTORE DI SCENA (facendosi avanti, ma poi fermandosi, come trattenuto da uno strano sgomento) Via! Via! IL PADRE (al Capocomico) Ma no, veda, noi... IL CAPOCOMICO (gridando) Insomma, noi qua dobbiamo lavorare!

75

IL PRIMO ATTORE Non è lecito farsi beffe così... la rivoluzione teatrale dei Sei personaggi nasce dall’assenza di un autore e dalla mancanza di un copione scritto

l’opera d’arte assicura fama immortale; ma soprattutto, sono immortali i «personaggi», resi tali dall’autore

IL PADRE (risoluto, facendosi avanti) Io mi faccio maraviglia14 della loro incredulità! Non sono forse abituati lor signori a vedere balzar vivi quassù, uno di fronte all’altro, i personaggi creati da un autore? Forse perché non c’è là (indicherà la buca del Suggeritore) un copione che ci contenga? 80 LA FIGLIASTRA (facendosi avanti al Capocomico, sorridente, lusingatrice15) Creda che siamo veramente sei personaggi, signore, interessantissimi! Quantunque, sperduti. IL PADRE (scartandola16) Sì, sperduti, va bene! (Al Capocomico subito) Nel senso, veda, che l’autore che ci creò, vivi, non volle poi, o non poté materialmente, metterci al mondo dell’arte. E fu un vero delitto, signore, perché chi ha la ventura di nascere 85 personaggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna non ha neanche bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Chi era Sancho Panza? Chi era don Abbondio? Eppure vivono eterni, perché – vivi germi17 – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li 90 seppe allevare e nutrire, far vivere per l’eternità! IL CAPOCOMICO Tutto questo va benissimo! Ma che cosa vogliono loro qua? IL PADRE Vogliamo vivere, signore! IL CAPOCOMICO (ironico) Per l’eternità? IL PADRE No, signore: almeno per un momento, in loro.

95

UN ATTORE Oh, guarda, guarda! LA PRIMA ATTRICE Vogliono vivere in noi! L’ATTOR GIOVANE (indicando la Figliastra) Eh, per me volentieri, se mi toccasse quella lì! IL PADRE Guardino, guardino: la commedia è da fare; (al Capocomico) ma se lei vuole 100 e i suoi attori vogliono, la concerteremo18 subito tra noi!

12. fantastica luce: un effetto di luce improvviso e non giustificato. 13. arcoscenico: l’inquadratura superiore del palcoscenico. 14. mi faccio maraviglia: mi stupisco. In realtà lo stupore è più che legittimo; lo si può superare entrando in un’altra dimen-

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sione, accettando cioè che la realtà sia più ricca e vasta di quella materiale. 15. lusingatrice: la ragazza è «fissata» nella sua parte di adescatrice; vorrebbe essere rappresentata da un’altra attrice, per uscire da questo ruolo del tutto «finto» ed entrare in una nuova dimensione di «persona».

16. scartandola: spingendola via. I rapporti fra i due sono sempre conflittuali. 17. vivi germi: in origine non erano che germi; poi sono stati elaborati dall’autore fino a raggiungere la dignità di personaggi. 18. la concerteremo: ci accorderemo.

Luigi Pirandello

IL PADRE E va bene! Siamo venuti appunto per questo qua da lei! IL CAPOCOMICO E dov’è il copione? IL PADRE È in noi, signore. (Gli attori rideranno) Il dramma è in noi; siamo noi; e sia- 105 mo impazienti di rappresentarlo, così come dentro ci urge la passione!19 LA FIGLIASTRA (schernevole,20 con perfida grazia di caricata impudenza) La passione mia, se lei sapesse, signore! La passione mia... per lui! (Indicherà il Padre e farà quasi per abbracciarlo; ma scoppierà poi in una stridula risata) IL PADRE (con scatto iroso) Tu statti a posto, per ora! E ti prego di non ridere così!

110

L. Pirandello, Maschere nude, vol. I, a cura di M. Lo Vecchio Musti, A. Mondadori, Milano 1958

19. la passione: la voglia di vivere come personaggi teatrali. Ma la Figliastra equi-

vocherà su questa passione, dando a intendere che si tratta dei rapporti quasi ince-

LAVORIAMO SUL TESTO 1. In che senso il Capocomico, nella scena letta, rappresenta un simbolo del vecchio teatro? Rispondi citando le sue parole e le sue reazioni più significative. 2. Chi rappresenta invece il nuovo teatro e da quali elementi viene caratterizzato? Riassumili così come emerge dal testo (max 10 righe). 3. Il Padre parla della realtà e verità dei Personaggi: secondo lui, i due piani coincidono oppure no? 4. Sempre il Padre oppone i «personaggi» alle «persone», sostenendo che a le persone sono ex personaggi venuti a incarnarsi nel mondo reale b i personaggi sono ex persone che l’artista ha incarnato in un’opera d’arte c le persone sono vive e perciò posseggono una realtà superiore a quella dei personaggi d i personaggi dell’arte sono esseri ancora più vivi delle persone Scegli la risposta esatta e motivala in breve. 5. Considera attentamente i sei personaggi, in base a: • ciò che fanno;

stuosi che la legano al Padre. 20. schernevole: con aria di scherno.

• ciò che dicono; • il modo in cui si presentano in scena (abiti, atteggiamenti ecc.). Ora rifletti: come definiresti questi personaggi? Fantasmi, frutto di pura immaginazione o altro? Motiva la tua risposta (max 10 righe). 6. L’agire dei sei personaggi si presenta fin dall’inizio come «reale». Questo è ciò che suscita scandalo, negli attori e nel Capocomico: la realtà non è infatti ammessa a teatro, tempio della finzione. Ritrova questo tema nel brano e commentalo. 7. Più volte, nella scena letta, si allude a due elementi essenziali del teatro e dell’arte tradizionali, ovvero: • il testo, il copione scritto; • l’autore che lo scrive. Quali posizioni contrapposte sostengono, in proposito, il Padre e il Capocomico? 8. Il Padre (portavoce di Pirandello) ha in mente un modo nuovo di fare teatro: da quale battuta in particolare (o da quali battute) riesci a coglierlo? 9. A un certo punto del brano letto Pirandello polemizza con il teatro tradizionale: rintraccia il punto nel testo e commentalo. 647

Monografia Raccordo

il rappresentante dell’arte tradizionale non sa rinunciare al suo primo strumento

Contesto

IL CAPOCOMICO (seccato) Ma che vuol concertare! Qua non si fanno di questi concerti! Qua si recitano drammi e commedie!

Tra Ottocento e Novecento

ANALISI VISIVA

Il teatro e i suoi personaggi Il teatro nel teatro l’inizio del dramma mostra il teatro nudo, in un giorno di prove; rappresenta infatti:



in Sei personaggi in cerca d’autore Pirandello vuole svelare dall’interno il meccanismo del teatro

◗ l’Uscere col berretto in mano ◗ il Capocomico che non vuole interruzioni (io qua provo!)

vuole infatti far vedere al pubblico come nasce uno spettacolo

◗ gli Attori, senza costumi, come individui comuni: che, anzi, assistono da spettatori all’ingresso dei sei personaggi (Gli Attori... scoppieranno in applausi come per uno spettacolo che sia stato loro offerto) ◗ la sala vuota, la mancanza di un pubblico (ma in realtà ci sono spettatori che assistono a Sei personaggi in cerca d’autore: è un’ambiguità pirandelliana!)



è il metateatro, o «teatro nel teatro»



Il tema dei conflitti di famiglia ■ Un oscuro dramma familiare costituisce – come quasi sem-

pre in Pirandello – l’intreccio di base del lavoro. Ora i sei personaggi vorrebbero esternare sul palcoscenico ciò che hanno vissuto e che, si presume, il loro autore vorrebbe restasse na◗ il Figlio non interviene mai, prova rancore verso tutti gli altri ◗ il Padre per due volte allude al dramma doloroso ◗ la Madre compare in lutto, velata di nero

scosto. Perciò si presentano come creature dolenti; in particolare tra Padre e Figliastra corrono rapporti molto tesi, che nel seguito del dramma si chiariranno.

◗ il ragazzo (nato dal matrimonio tra la Madre e il Padre) se ne rimane discosto ai piedi della scaletta (r. 66)

◗ IL PADRE: ... portiamo in noi, ripeto, un dramma doloroso, come lor signori possono argomentare da questa donna velata di nero (rr. 60-62)

◗ la Figliastra allude spudoratamente (e ribaltando i termini del rapporto) alla radice di questo dramma (l’incesto scampato)

◗ LA FIGLIASTRA: La passione mia, se lei sapesse, signore! La passione mia... per lui! (rr. 107-108)

◗ il Padre reagisce stizzito all’uscita della Figliastra

◗ IL PADRE: (con scatto iroso) Tu statti a posto, per ora! E ti prego di non ridere così! (r. 110)

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Il tema della creazione artistica

1 i sei personaggi sono già nati nella mente dell’autore

nel brano che abbiamo letto, specialmente nelle battute del Padre.

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■ Il tema della creazione artistica è l’oggetto della Prefazione che precede il dramma, ma emerge ampiamente anche

◗ IL PADRE: si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla... o donna. E che si nasce anche personaggi! ◗ IL PADRE: vivi germi ebbero la ventura di trovare una matrice feconda

“ 2 qui hanno vissuto il loro dramma

◗ IL PADRE: portiamo in noi [...] un dramma doloroso

“ 3 l’autore però si è spaventato e, per vergogna, si rifiuta di dare forma d’arte a quella vicenda

◗ IL PADRE: l’autore che ci creò, vivi, non volle poi, o non poté materialmente, metterci al mondo dell’arte

“ 4 adesso i sei, sospesi tra esistenza e non esistenza, vogliono rappresentare il dramma che vivono interiormente

◗ LA FIGLIASTRA: siamo veramente sei personaggi, signore, interessantissimi! Quantunque, sperduti ◗ IL PADRE: Il dramma è in noi; siamo noi; e siamo impazienti di rappresentarlo, così come dentro ci urge la passione!

“ 5 il Padre vanta la natura «superiore» dei «personaggi» rispetto a quella delle «persone»

◗ IL PADRE: esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni!

“ 6 la mancanza di un copione scritto non significa la rinuncia alla rappresentazione teatrale

Contesto

Luigi Pirandello

◗ LA FIGLIASTRA: Potremmo esser noi la loro commedia nuova ◗ IL PADRE: la commedia è da fare; ma se lei vuole e i suoi attori vogliono, la concerteremo subito tra noi!

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Tra Ottocento e Novecento

11 Nel retrobottega di Madama Pace: la scena interrotta Sei personaggi in cerca d’autore Anno: 1921-25 Temi: • un dolore familiare che trova nel teatro la modalità per esprimersi • l’assoluta distanza fra il teatro tradizionale e il progetto di un’arte scandalosa com’è la vita Siamo a circa metà del testo, dopo il primo intervallo. Gli Attori e il Capocomico hanno accettato di esaminare la vicenda dei sei personaggi come una storia possibile per una prossima commedia. La Figliastra e il Padre rievocano allora, di fronte alla compagnia riunita, la scena madre del dramma, ovvero il loro incontro nel retrobottega di Madama Pace, il luogo in cui la ragazza si prostituiva. Tra i clienti, un giorno, si era presentato appunto il Padre, primo marito della madre della Figliastra; costei si era poi risposata con un altro uomo, da cui aveva avuto la Figliastra e altri due figli. l’ossessione del teatro tradizionale per il copione, il testo scritto

IL CAPOCOMICO (piano, in fretta, al Suggeritore nella buca1) E lei, attento, attento a scrivere,2 adesso! IL PADRE (avanzando con voce nuova) Buon giorno, signorina. LA FIGLIASTRA (a capo chino, con contenuto ribrezzo) Buon giorno. IL PADRE (la spierà un po’, di sotto al cappellino che quasi le nasconde il viso, e scorgendo 5 ch’ella è giovanissima, esclamerà quasi fra sé, un po’ per compiacenza, un po’ anche per timore di compromettersi in un’avventura rischiosa) Ah... – Ma... dico, non sarà la prima volta, è vero? che lei viene qua. LA FIGLIASTRA (c.s.3) No, signore.

quest’indole febbrile, convulsa, della Figliastra è il suo tratto più caratteristico di personaggio colei che impersona l’unità della famiglia si ritrae inorridita davanti a questo scempio

IL PADRE C’è venuta qualche altra volta? (E poiché la Figliastra fa cenno di sì col capo) 10 Più d’una? (Aspetterà un po’ la risposta; tornerà a spiarla di sotto al cappellino: sorriderà; poi dirà) E dunque, via... non dovrebbe più essere così... Permette che le levi io codesto cappellino? LA FIGLIASTRA (subito, per prevenirlo, ma contenendo il ribrezzo) No, signore: me lo levo 15 da me! (Eseguirà in fretta, convulsa.) (La Madre, assistendo alla scena, col Figlio e con gli altri due piccoli e più suoi,4 i quali se ne staranno sempre accanto a lei, appartati nel lato opposto a quello degli Attori, sarà come sulle spine, e seguirà con varia espressione, di dolore, di sdegno, d’ansia, d’orrore, le parole e gli atti di quei due; e ora si nasconderà il volto, ora metterà5 qualche gemito.) LA MADRE Oh Dio! Dio mio! IL PADRE (resterà, al gemito, come impietrito per un lungo momento; poi riprenderà col tono di prima) Ecco, mi dia: lo poso io. (Le toglierà dalle mani il cappellino) Ma su una bella, cara testolina come la sua, vorrei che figurasse un più degno cappellino.

1. nella buca: il vano apposito, ai piedi del palco, dove si nasconde il suggeritore. 2. attento a scrivere: il Capocomico ha dato incarico al suggeritore di trascrivere le battute del dialogo che saranno pronunciate tra il Padre e la Figliastra.

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20

3. c.s.: come sopra; cioè la Figliastra rimarrà a capo chino e mostrerà contenuto ribrezzo, come si legge nella precedente didascalia. 4. più suoi: la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina non sono nati dal primo matri-

monio della Madre con il Padre, ma da un secondo matrimonio. Il Figlio, frutto delle prime nozze, si ostina a mostrarsi ostile alla Madre: perciò ella non lo sente realmente figlio suo. 5. metterà: emetterà.

Luigi Pirandello

Vorrà ajutarmi a sceglierne qualcuno, poi, qua tra questi di Madama? – No? L’ATTRICE GIOVANE (interrompendolo) Oh, badiamo bene! Quelli là sono i nostri cappelli!

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IL CAPOCOMICO (subito, arrabbiatissimo) Silenzio, perdio! Non faccia la spiritosa! – Questa è la scena! (Rivolgendosi alla Figliastra) Riattacchi, prego, signorina!

Contesto

l’interruzione improvvisa immette una nota comica, secondo la poetica umoristica di Pirandello

IL PADRE Eh via, non mi dica di no! Vorrà accettarmelo. Me n’avrei a male... Ce n’è di 30 belli, guardi! E poi faremmo contenta Madama. Li mette apposta qua in mostra! LA FIGLIASTRA Ma no, signore, guardi: non potrei neanche portarlo. IL PADRE Dice forse per ciò che ne penserebbero a casa, vedendola rientrare con un cappellino nuovo? Eh via! Sa come si fa? Come si dice a casa? LA FIGLIASTRA (smaniosa, non potendone più) Ma non per questo, signore! Non potrei portarlo, perché sono... come mi vede: avrebbe già potuto accorgersene! (Mostrerà 35 l’abito nero6) IL PADRE A lutto, già! È vero: vedo. Le chiedo perdono. Creda che sono veramente mortificato.

la brusca interruzione fa calare la tensione, riportandoci dalla vita così com’è alla finzione del teatro

LA FIGLIASTRA (facendosi forza e pigliando ardire anche per vincere la nausea) Basta, basta, signore! Tocca a me ringraziarla, e non a lei di mortificarsi o d’affliggersi. Non 40 badi più, la prego, a quel che le ho detto. Anche per me, capirà... (Si sforzerà di sorridere e aggiungerà) Bisogna proprio ch’io non pensi, che sono vestita così. IL CAPOCOMICO (interrompendo, rivolto al Suggeritore nella buca e risalendo sul palcoscenico) Aspetti, aspetti! Non scriva, tralasci, tralasci quest’ultima battuta! (Rivolgendosi al Padre e alla Figliastra) Va benissimo! Va benissimo! (Poi al Padre soltanto) 45 Qua lei attaccherà com’abbiamo stabilito! (Agli Attori) Graziosissima questa scenetta del cappellino, non vi pare? LA FIGLIASTRA Eh, ma il meglio viene adesso! perché non si prosegue? IL CAPOCOMICO Abbia pazienza un momento! (Tornando a rivolgersi agli Attori) Va 50 trattata, naturalmente, con un po’ di leggerezza –

la professionista del teatro crede di poter replicare tutto con facilità

IL PRIMO ATTORE – di spigliatezza, già – LA PRIMA ATTRICE Ma sì, non ci vuol niente! (Al Primo attore) Possiamo subito provarla, no? [...] [Il Primo attore e la Prima attrice provano la scena, ripetendo le battute appena pronunciate dal Padre e dalla Figliastra] 55 LA PRIMA ATTRICE “No, signore...” IL PRIMO ATTORE “C’è venuta qualche altra volta? Più d’una?” IL CAPOCOMICO Ma, no, aspetti! Lasci far prima a lei (indicherà la Prima attrice) il cenno di sì. “C’è venuta qualche altra volta?” (La Prima attrice solleverà un po’ il capo socchiudendo penosamente, come per disgusto, gli 60 occhi, e poi a un “Giù” del Capocomico crollerà due volte il capo.)

6. l’abito nero: la Figliastra veste il lutto per la morte recente del suo vero padre.

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Monografia Raccordo

LA FIGLIASTRA (riattaccando) No, grazie, signore.

Tra Ottocento e Novecento

LA FIGLIASTRA (irresistibilmente7) Oh Dio mio! (E subito si porrà una mano sulla bocca per impedire la risata) IL CAPOCOMICO (voltandosi) Che cos’è? LA FIGLIASTRA (subito) Niente, niente!

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IL CAPOCOMICO (al Primo attore) A lei, a lei, seguiti!8 IL PRIMO ATTORE “Più d’una? E dunque, via... non dovrebbe più esser così... Permette che le levi io codesto cappellino?” un segnale dell’inconciliabile distanza tra mondo della vita e mondo del teatro

(Il Primo attore dirà quest’ultima battuta con un tal tono, e la accompagnerà con una tal mossa, che la Figliastra, rimasta con le mani sulla bocca, per quanto voglia frenarsi, non 70 riuscirà più a contenere la risata, che le scoppierà di tra le dita irresistibilmente, fragorosa.) LA PRIMA ATTRICE (indignata, tornandosene a posto) Ah, io non sto mica a far la buffona qua per quella lì! IL PRIMO ATTORE E neanch’io! Finiamola! IL CAPOCOMICO (alla Figliastra, urlando) La finisca! la finisca!

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LA FIGLIASTRA Sì, mi perdoni... mi perdoni... IL CAPOCOMICO Lei è una maleducata! ecco quello che è! Una presuntuosa! il «vedersi» nella vita suscita sempre, nei personaggi di Pirandello, un effetto di sbigottimento

IL PADRE (cercando d’interporsi) Sissignore, è vero, è vero; ma la perdoni. IL CAPOCOMICO (risalendo sul palcoscenico) Che vuole che perdoni! È un’indecenza! IL PADRE Sissignore, ma creda, creda, che fa un effetto così strano –

80

IL CAPOCOMICO ...strano? che strano? perché strano? IL PADRE Io ammiro, signore, ammiro i suoi attori: il Signore là, (indicherà il Primo attore) la Signorina, (indicherà la Prima attrice) ma, certamente... ecco, non sono noi... IL CAPOCOMICO Eh sfido! Come vuole che sieno, “loro”,9 se sono gli attori? IL PADRE Appunto, gli attori! E fanno bene, tutti e due, le nostre parti. Ma creda che 85 a noi pare un’altra cosa, che vorrebbe esser la stessa, e intanto non è! IL CAPOCOMICO Ma come non è? Che cos’è allora? IL PADRE Una cosa, che... diventa di loro; e non più nostra. IL CAPOCOMICO Ma questo, per forza! Gliel’ho già detto!

ancora s’illude di poter teatralizzare la vicenda dei sei personaggi come se niente fosse

IL PADRE Sì, capisco, capisco... –

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IL CAPOCOMICO – e dunque, basta! (Rivolgendosi agli Attori) Vuol dire che faremo poi le prove tra noi, come vanno fatte. È stata sempre per me una maledizione provare davanti agli autori! Non sono mai contenti! (Rivolgendosi al Padre e alla Figliastra) Su, riattacchiamo con loro; e vediamo se sarà possibile che lei non rida più. LA FIGLIASTRA Ah, non rido più, non rido più! Viene il bello adesso per me; stia sicuro! IL CAPOCOMICO Dunque: quando lei dice: “Non badi la prego, a quello che ho detto... Anche per me – capirà!” – (rivolgendosi al Padre) bisogna che lei attacchi subito: “Capisco, ah capisco...” e che immediatamente domandi –

7. irresistibilmente: senza potersi assolutamente frenare. 8. seguiti!: vada avanti!

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9. Come vuole che sieno, “loro”: cioè, come può pretendere che gli attori s’identifichino completamente in voi per-

sonaggi? L’immedesimazione può spingersi solo fino a un certo punto!

95

Luigi Pirandello

100

LA FIGLIASTRA Ma no, signore! Guardi: quand’io gli dissi che bisognava che non pensassi d’esser vestita così, sa come mi rispose lui? “Ah, va bene! E togliamolo, togliamolo via subito, allora, codesto vestitino!” il teatro, secondo il Capocomico, è il luogo di una verità messa a freno e «ricomposta» dall’arte in forme belle è finito, per Pirandello, il tempo di un’arte commerciale, che commuove per soddisfare il pubblico

IL CAPOCOMICO Bello! Benissimo! Per far saltare così tutto il teatro?10 LA FIGLIASTRA Ma è la verità!

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IL CAPOCOMICO Ma che verità, mi faccia il piacere! Qua siamo a teatro! La verità, fino a un certo punto! LA FIGLIASTRA E che vuol fare lei allora, scusi? IL CAPOCOMICO Lo vedrà, lo vedrà! Lasci fare a me adesso! LA FIGLIASTRA No, signore! Della mia nausea, di tutte le ragioni, una più crudele e 110 più vile dell’altra, per cui io sono “questa”, “così”, vorrebbe forse cavarne un pasticcetto romantico sentimentale, con lui che mi chiede le ragioni del lutto, e io che gli rispondo lacrimando che da due mesi m’è morto papà? No, no, caro signore! Bisogna che lui mi dica come m’ha detto: “Togliamo via subito allora, codesto vestitino!”. E io, con tutto il mio lutto nel cuore, di appena due mesi, me ne 115 sono andata là, vede? là, dietro quel paravento, e con queste dita che mi ballano dall’onta, dal ribrezzo, mi sono sganciato il busto, la veste... IL CAPOCOMICO (ponendosi le mani tra i capelli) Per carità! Che dice? LA FIGLIASTRA (gridando, frenetica11) La verità! la verità, signore! IL CAPOCOMICO Ma sì, non nego, sarà la verità... e comprendo, comprendo tutto il 120 suo orrore, signorina; ma comprenda anche lei che tutto questo sulla scena non è possibile! LA FIGLIASTRA Non è possibile? E allora, grazie tante, io non ci sto! IL CAPOCOMICO Ma no, veda...

due progetti opposti: l’arte armoniosa e ben rifinita del passato contro il progetto di un’arte scandalosa, individualistica, anarchica

LA FIGLIASTRA Non ci sto! non ci sto! Quello che è possibile sulla scena ve lo siete 125 combinato insieme tutti e due, di là, grazie! Lo capisco bene! Egli vuol subito arrivare alla rappresentazione (caricando) dei suoi travagli spirituali;12 ma io voglio rappresentare il mio dramma! il mio!13 IL CAPOCOMICO (seccato, scrollandosi fieramente) Oh, infine, il suo! Non c’è soltanto il suo, scusi! C’è anche quello degli altri! Quello di lui, (indicherà il Padre) quello di 130 sua madre! Non può stare che un personaggio venga, così, troppo avanti, e sopraffaccia gli altri, invadendo la scena. Bisogna contener tutti in un quadro armonico e rappresentare quel che è rappresentabile! L. Pirandello, Maschere nude, vol. I, cit.

10. saltare... il teatro: una scena del genere sarebbe stata impensabile per il teatro di primo Novecento. 11. frenetica: scalmanata, come pazza.

12. dei suoi travagli spirituali: allude alle teorie artistiche del Padre, esposte nella prima scena. 13. il mio!: il dramma di chi è cresciuta

nella povertà ed è stata poi adescata dal responsabile di quelle sofferenze (il Padre).

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Monografia Raccordo

IL CAPOCOMICO La ragione del suo lutto!

Contesto

LA FIGLIASTRA (interrompendo) – come! che cosa?

Tra Ottocento e Novecento

ANALISI DEL TESTO IL TESTO PUNTO PER PUNTO Si possono individuare nel testo tre momenti. ■ Il primo è quello del dialogo tra il Padre e la Figliastra: essi rievocano, davanti al Capocomico e agli attori, il loro incontro nel retrobottega di Madama Pace. Il luogo è equivoco, la ragazza è imbarazzata, mentre l’uomo cerca d’incoraggiarla e di «rompere il ghiaccio» con qualche complimento ([…] su una bella, cara testolina come la sua, rr. 22-23). La ragazza recalcitra, anche perché è in lutto: suo padre è morto di recente. ■ Nella seconda sequenza il Primo attore e la Prima attrice cercano di recitare ciò che hanno appena visto incarnare dai due personaggi. Sembra facile (Ma sì, non ci vuol niente!, afferma la Prima attrice), ma non è così, anche perché la Figliastra non riesce a trattenersi e commenta negativamente quanto vede. I due attori si spazientiscono e il

Capocomico, per rabbonirli, rinvia la prova a un momento successivo. ■ Il terzo momento è quello della riflessione su quanto è accaduto. Prima il Padre e poi la Figliastra illustrano al Capocomico le ragioni del proprio disagio: quegli attori «recitano» invece di «vivere» le battute; in sostanza tradiscono ciò che è accaduto nella vita reale: Una cosa, che... diventa di loro; e non più nostra, dice (r. 88) il Padre. Il Capocomico, portavoce del teatro borghese, cerca di riportare le cose a una dimensione accettabile per tutti: a teatro si può sì rappresentare la verità, ma fino a un certo punto!; il resto, l’orrore che ancora scava nell’intimo della ragazza, sulla scena non è possibile! Il punto di vista della Figliastra è però assai diverso: io voglio rappresentare il mio dramma! il mio!, non un qualsiasi pasticcetto romantico sentimentale per far presa sul pubblico.

IL SIGNIFICATO DEL TESTO ■ Alla base del dramma, e di molte opere di Pirandello, vi è un conflitto familiare. Cova nell’autore un groviglio di pulsioni, tensioni, gelosie, che egli vorrebbe lasciare inespresso, ma che diventa «un’ossessione» (così Pirandello scrisse al figlio Stefano nel 1917): infine esplode e prende forma autonoma dall’autore stesso, la forma della «commedia da fare» ovvero del teatro nel teatro. Questa dolorosa materia familiare, fonte d’inconfessabili pulsioni e rimorsi, emerge nella scena della seduzione tra il Padre e la Figliastra: una sorta di doppio di quanto Pirandello covava in se stesso a causa delle accuse della moglie Antonietta. Il rimosso (è un ter-

mine della psicoanalisi) duole e chiede un luogo dove essere proiettato: la scena teatrale, appunto. ■ Il testo, inoltre, dà voce all’impossibilità da parte del teatro di appropriarsi della vita e di spettacolarizzarla. I tentativi del Primo attore e della Prima attrice suonano irrimediabilmente stonati al Padre e alla Figliastra: non è possibile dare in pasto al pubblico la loro vicenda personale e familiare; essa è di fatto irrappresentabile. Ciò non solo perché i gesti (il denudarsi della ragazza, il suo amplesso con il Padre) desterebbero scandalo, ma soprattutto perché rimarrebbero nascosti i moventi interiori delle azioni, il lutto racchiuso nel fondo del cuore.

ANALISI OPERATIVA

{ I temi e i personaggi 1. Il dramma dei «sei personaggi» emerge per strappi, per improvvisi flashes, confusamente, proprio come è confusa e non preordinata la vita stessa. Sale così sul palcoscenico l’arte «scomposta» teorizzata da Pirandello nell’Umorismo. a. Chi è Madama Pace? ............................................................................................... b. Dove si svolge l’incontro fra Padre e Figliastra? E quali elementi lo rivelano? ............................................................................................... c. La ragazza si ritrae: ti sembra che faccia la scena di ritrarsi, o questo è il suo vero atteggiamento? ............................................................................................... d. Quali particolari scabrosi apprendiamo dal finale di questa scena? ............................................................................................... ............................................................................................... 654

2. La scena evidenzia il conflitto tra il mondo del teatro, o della finzione, e il mondo della vita reale. Il Capocomico si sforza di mediare tra i due piani, ma in realtà i suoi sforzi approdano a poco o nulla. a. Da quali elementi traspare l’enorme lontananza che separa la vita dal teatro? Sottolinea sul testo i momenti e le battute più significativi. b. Quali argomenti adducono in seguito il Padre e la Figliastra per giustificare tale separazione? ............................................................................................... ............................................................................................... c. In quale punto o in quali punti si coglie il lavoro di mediazione svolto dal Capocomico? ............................................................................................... d. L’antitesi finzione/realtà (o teatro/vita) è illustrata da Pirandello nella sua poetica quale contrasto fra la «vita» e la «forma». Illustra questo tema in un tuo breve scritto, citando qualche battuta o espressione del brano.

a. Nel brano letto il Padre tiene un linguaggio e un comportamento differenti a seconda dei suoi interlocutori. Quale atteggiamento assume quando parla con la Figliastra? Rispondi con opportune citazioni. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... b. Quale invece quando parla con il Capocomico? Rispondi con opportune citazioni. ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ............................................................................................... ...............................................................................................

LAVORIAMO SU

4. È la Figliastra il personaggio più inquietante e più moderno, in virtù della sua prorompente soggettività. Essa rivendica il diritto di portare in scena il suo dramma, ovvero il suo personale punto di vista sugli eventi di cui è stata protagonista. a. In quale punto, o in quali punti del testo la Figliastra rivendica il proprio diritto? ............................................................................................... b. Che cosa le ribatte il Capocomico? ............................................................................................... c. La modernità della Figliastra consiste soprattutto nella rivendicazione delle ragioni interiori, quelle da cui scaturiscono i fatti esterni, ma che un’opera d’arte non può rappresentare. Dove e come emerge tale problematica, nella scena letta? ............................................................................................... ............................................................................................... d. Pirandello caratterizza l’individualità della Figliastra anche con i suoi gesti e il suo linguaggio: in che senso? Rispondi sulla base del testo.

LINGUA E LESSICO

1. I copioni di Pirandello evidenziano un alto tasso di teatralità: le battute non sono letteratura «detta», ma nascono in funzione della scena. L’autore fa largo uso di deittici o indicatori di spazio-tempo: strumenti con cui il teatro costruisce una situazione particolare, il qui e ora. a. Identifica una sequenza a tua scelta del brano e rintraccia in essa i deittici presenti: – i pronomi personali (io, tu) ............................................................................................... – i pronomi dimostrativi (questo, quello) ............................................................................................... – gli avverbi di tempo e di luogo (qui, lì, ora, ieri, oggi). ...............................................................................................

2. Ogni deittico equivale a un gesto, a un ammiccamento: alla domanda «quale vuoi?», si può rispondere con un deittico (per esempio, il pronome «questo») oppure con un gesto (per esempio un cenno di sì col capo, come fa la Figliastra davanti al Padre). a. Rintraccia ed evidenzia i gesti presenti nell’arco del testo. b. In quali punti del testo i gesti sono più intensi, e in quali altri punti meno intensi? ............................................................................................... c. Tale diversa frequenza dipende, secondo te, dai consì no tenuti? Spiega perché. ............................................................................................... ............................................................................................... 655

Monografia Raccordo

3. Largo spazio prende in questa scena il Padre, questo piccolo peccatore di provincia, abilissimo parlatore e narratore di una storia tanto straziante quanto eccessiva.

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

La parola al critico Pirandello riscrive i Sei personaggi: dal dramma dell’ambiguità a un dramma della mente Claudio Vicentini si sofferma sui significati di Sei personaggi in rapporto alle due differenti versioni del testo: la prima, del 1921, imperniata sulla fondamentale ambiguità dei personaggi, che vengono a sconvolgere le attese di attori e pubblico; la seconda profondamente rivista, del 1925, nella quale Pirandello valorizza invece la natura «altra» dei sei personaggi, creature della mente affini alla nuova poetica del Surrealismo. I Sei personaggi in cerca d’autore,1 sulla scena, producono un risultato particolare. Mentre tutta la commedia non è che un lungo, ossessivo ululato sull’inconciliabilità della realtà fantastica dell’arte con quella materiale del teatro, mentre battuta dopo battuta, atto dopo atto, viene implacabilmente spiegato come sul palcoscenico non si possano mai rappresentare adeguatamente i luoghi della storia immaginata dall’autore, e gli attori non possano mai rendere efficacemente le parti che devono recitare, la struttura drammaturgica dell’opera lavora nella direzione opposta. E attraverso la formula del teatro nel teatro mostra appunto la perfetta sovrapposizione del palcoscenico immaginario su cui incomincia la vicenda dei Sei personaggi in cerca d’autore, con il luogo reale, il palcoscenico vero dove la commedia di Pirandello viene di fatto recitata. [...] Insomma, mentre il testo dei Sei personaggi in cerca d’autore proclama la frattura tra il mondo fantastico dell’arte e il mondo reale della scena, la sua impostazione drammaturgica è regolata in maniera da indicare possibili punti di contatto e di fusione, modi concreti in cui la coincidenza tra i due mondi, anche se solo parzialmente e per brevi istanti, di fatto si realizza. E proprio da questa tensione interna tra testo e impostazione drammaturgica [...] nasce l’ambiguità profonda dell’opera, in cui risiede buona parte della misteriosa seduzione che esercita sulla scena. [...] Così per quanto il Padre e la Figliastra si sforzino di denunciare la differenza incolmabile che divide la realtà dei personaggi da quella degli attori, e sottolineino la diversità imbarazzante che separa le approssimative scenografie teatrali dai luoghi autentici della loro storia, è proprio la confusione, l’impossibilità di distinguere nettamente il piano della realtà materiale da quello delle creazioni fantastiche che diventa, sul palcoscenico, la chiave dominante della prima stesura dei Sei personaggi in cerca d’autore. In questa prospettiva l’opera appare sapientemente costruita in modo da condurre il pubblico a un progressivo smarrimento che gli impedisce di comprendere con precisione lo svolgimento della vicenda, di riconoscere immediatamente ciò che sta capitando, fino alla conclusione, che prevede un finale volutamente monco,2 da cui gli spettatori non possono trarre alcun chiarimento, nessuna spiegazione. [Le cose cambiano nella seconda stesura dei Sei personaggi, datata 1925 e occasionata, come ricorda Vicentini, dall’allestimento parigino del 1923 diretto da Georges Pitoëff: Pirandello ne rimase inizialmente disorientato, poi intuì le grandi possibilità che il regista francese gli aveva dischiuso] Colta la possibilità di presentare l’azione scenica come una visione straordinaria, in cui si assiste – proprio come nella mente dell’autore – all’irruzione di creature fantastiche che si impongono irresistibilmente alla nostra attenzione, Pirandello riprende e trasforma l’intero tessuto della commedia. 1. I Sei personaggi in cerca d’autore: nella prima stesura del 1921. 2. un finale volutamente monco: il testo del 1921 si concludeva con il Giovinetto portato a braccia dopo lo sparo, nel

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dubbio generale se si tratti di «finzione» o di «realtà» (il Padre assicura che è «realtà»). Segue l’ultima battuta del Capocomico: «Finzione! realtà! Andate al diavolo tutti quanti! [...] Non mi è mai ca-

pitata una cosa simile! Mi hanno fatto perdere una giornata!», mentre il sipario si chiude.

C. Vicentini, Pirandello. Il disagio del teatro, Marsilio, Venezia 1993 3. sul montacarichi: allestendo infatti il dramma alla Comédie des Champs-Elysées, nel 1923, Georges Pitoëff aveva voluto che i sei personaggi, invece di entrare dalla porta del palcoscenico, calassero

lentamente dall’alto, immobili sul piano di un montacarichi, come un’apparizione spettrale. 4. l’arrivo di Madama Pace: la tenutaria della casa d’appuntamenti in cui si pro-

stituisce la Figliastra; assente in un primo momento dalla scena, viene evocata dagli altri personaggi in quanto necessaria alla ricostruzione di quanto era accaduto.

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Monografia Raccordo

A cominciare dall’arrivo dei personaggi, che questa volta non sono più figure ambigue, che si possono facilmente confondere con gli esseri umani, normali, che incontriamo tutti i giorni. Pitoëff li aveva fatti scendere dall’alto, sul montacarichi.3 Pirandello li fa entrare, più semplicemente, dalla porta di fondo della sala. Ma nella nuova didascalia che inserisce nel testo si affretta subito a spiegare che i sei personaggi sono «costruzioni della fantasia», esseri «immutabili», e quindi bisogna «adoperarsi con ogni mezzo» perché appaiano diversi dagli attori della compagnia, che sono invece persone in carne e ossa. Per questo, suggerisce, la cosa migliore sarebbe coprire i loro volti con maschere particolari, tagliate in modo da lasciare liberi solo gli occhi, le narici e la bocca. [...] Poi, nella nuova versione della commedia, non appena i sei personaggi salgono sul palco, la scena s’illumina improvvisamente «di una fantastica luce». E le sei figure s’impongono e agiscono nello spazio della scena proprio come le immagini profonde della vita psichica affiorano e si muovono nella nostra mente, indipendenti dalla nostra volontà, e ci ossessionano, e non possono essere soppresse, dissolte, eliminate. Al richiamo del Capocomico che ordina di scacciare i sei personaggi il Direttore di scena si fa avanti, ma subito si blocca, «come trattenuto da uno strano sgomento». E a tratti, nei gesti e negli atteggiamenti, i personaggi rivelano la loro dipendenza da un mondo ulteriore, segreto, percorso da una dinamica diversa da quella che anima la nostra vita di tutti i giorni. Più volte la Figliastra, di fronte alle reazioni degli attori, resta «astratta», «assorta», «lontana», «trasognata». E proprio come le immagini della mente, i personaggi sono capaci di attirarsi l’un l’altro, quasi «per virtù magica», ed esercitano sugli attori un richiamo misterioso, «un fascino strano». Il loro avvento non può più essere percepito come un incidente curioso, ma tutto sommato normale. È un fenomeno perturbante, che scuote e sconvolge. Gli attori e il Capocomico, nella prima stesura della commedia, accoglievano l’arrivo di Madama Pace4 con divertito stupore, scoppiando alla fine in una clamorosa risata. Ora «schizzano via dal palcoscenico con un urlo di spavento, precipitandosi dalla scaletta e accennando a fuggire per il corridoio». Ma è poi il finale che viene completamente ricostruito per creare progressivamente le condizioni di una visione impressionante, densa di significati indecifrabili, segreti. Nella nuova versione, alla metà del terzo atto, quando i personaggi sembrano ormai sul punto di rivelare la conclusione della loro storia e sciogliere l’enigma che li avvolge, un gioco di luci immerge il palcoscenico in una strana atmosfera lunare, e cala tutti i presenti in un clima inquietante, misterioso che induce gli attori «a parlare e a muoversi come di sera, in un giardino, sotto la luna». E quando esplode il colpo di rivoltella, e precipita la confusione generale, a chiudere il lavoro non è più la brusca battuta del Capocomico che manda tutti al diavolo perché gli hanno fatto perdere la giornata. È invece la presenza ossessiva dei personaggi, che ricompaiono come ombre «grandi e spiccate», proiettate sul fondale della scena dalla luce verde di un riflettore. Allora il Capocomico, terrorizzato, «schizzerà via dal palcoscenico», e i personaggi procederanno lentamente, ad uno ad uno, fino al centro della scena abbandonata dagli attori, restando immobili «come forme trasognate», mentre la Figliastra scenderà correndo dal palco nella sala, diffondendo intorno a sé con la sua risata la percezione di un disagio, di un’inquietudine segreta, che ci assale di fronte alla possibilità di vedere i luoghi e i momenti della nostra vita quotidiana attraversati e posseduti dalle figure inafferrabili della nostra mente. Così, dalla prima all’ultima scena, nell’edizione definitiva del ’25 la commedia appariva in buona parte riscritta: era un testo diverso, profondamente trasformato nei suoi significati.

Contesto

Luigi Pirandello

L’OPERA

I GIGANTI DELLA MONTAGNA

Il pensiero irrazionalistico e la trilogia dei «miti» ◗ Dopo la «trilogia del teatro nel teatro», avviata da Sei personaggi (1921) e conclusa con Questa sera si recita a soggetto (1930), Pirandello stesso raccolse tre suoi lavori nella «trilogia del teatro dei miti». Il termine «mito» ci riporta al mito greco: Pirandello ipotizza che da quell’antica cultura possa venire una risposta ai problemi attuali dell’esistere. Siamo nel clima irrazionalistico e simbolistico della cultura europea degli anni trenta; la seconda parte del libro del filosofo Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche (1925), s’intitolava appunto Il pensiero mitico. In quel clima nacquero due importanti movimenti culturali come l’Esistenzialismo e il Surrealismo; in Italia esso diede vita alla «pittura metafisica», al «realismo magico» di Bontempelli, al «fantastico» di Savinio, Buzzati, Landolfi (E Tomo B). ◗ Pirandello raccolse queste tendenze dando voce a una sensibilità per il «favoloso», per il «lontano», da sempre viva nelle sue opere, ma che ora alimentava con continuità alcuni temi caratteristici: • la fuga dalla società e la scelta dell’esclusione, come radicale solitudine ed estraneità; • l’odio per il corpo e il ritorno alla Terra-madre, come fusione con il grembo della Natura; • l’evasione nell’«oltre», in una sfera fantastica, ove tutto è un simbolo e la vita appare un sogno. ◗ Sono motivi che incontriamo nel romanzo Uno, nessuno e centomila (1925-26), in molte novelle degli ultimi anni e, appunto, nei tre drammi della «trilogia dei miti», ovvero: • La nuova colonia (1928), un dramma dove un gruppo di profughi rifonda altrove una città; • Lazzaro (1929), dove l’evasione non è più sociale, ma religiosa (in una fede che non è però quella cristiana in senso stretto); • I giganti della montagna (1934), dove l’evasione si compie grazie all’arte. Pirandello narra infatti il sogno dell’arte che osa sfidare il «brutale mondo moderno»; ma rimane vittima dell’organizzazione tecnologica e industriale e del materialismo. E così – è l’amara conclusione del lavoro, secondo un appunto lasciato dallo scrittore – «tutto l’infinito che è negli uomini è calpestato e vanificato».

L’origine e il significato del dramma ◗ Pirandello abbozzò il dramma nell’estate del 1928. Il primo spunto gli venne offerto dalla triste storia della contessa Olga De Dieterichs Ferrari, fondatrice di un teatro privato e di una «Compagnia della contessa» (dicembre 1923): si trattava di una compagnia «di giro», cioè itinerante, miseramente fallita. Pirandello, che abitava a Roma proprio di fronte al palazzo della contessa, vide in quella vicenda di dedizione al teatro un emblema del sacrificio dell’arte nel mondo moderno. ◗ Un altro episodio di rilievo fu la sfortunata recita dei Sei personaggi il 1° dicembre 1927 in Sicilia. La compagnia del Teatro d’Arte, diretta da Pirandello e ormai priva di una sede stabile, era impegnata in una faticosa tournée per l’isola; fu tra l’altro invitata a Canicattì, nei pressi di Agrigento. Le autorità locali avevano ordinato ai contadini di assistere allo spettacolo e costoro erano rimasti per due ore diligentemente muti e impassibili nella sala, senza capire nulla dello spettacolo, mentre gli attori recitavano in un’atmosfera surreale. Quella sera a Canicattì Pirandello misurò l’assoluta inefficacia del teatro davanti a una platea totalmente impreparata a riceverlo. ◗ Quel pubblico silenzioso, quasi ostile, si trasformerà, nell’abbozzo del dramma, nei «giganti»; e l’opera diventerà una parabola sul destino del teatro che si scontra con un pubblico incapace di comprenderlo. Poi l’idea si evolverà: il pubblico si trasformerà in una massa (i servi dei giganti) insensibile ai valori spirituali; ora Pirandello immagina un nuovo personaggio, Cotrone. Prima lo pensa come un «pezzo grosso» del paese, che si interessa ai commedianti; poi come un artista locale, che difende i teatranti e si scontra con gli abitanti della società delle «macchine». Infine (giugno 1930) fa di Cotrone il capo di un gruppo di artisti falliti, rifiuti della società: nella società di massa, 658

◗ Il mago Cotrone, protagonista dei Giganti, ci riporta al mondo «mitico», fatto di sogni e di simboli, in cui germinò l’opera. Per lui, come per l’ultimo Pirandello «irrazionalista», ciò che esiste nell’inconscio dell’individuo esce da lui e si fa vero, sia pure di una realtà soggettiva e diversa da quella comune. Afferma il mago in una sua battuta: «Respiriamo aria favolosa. Gli angeli possono come niente calare in mezzo a noi [...]. Udiamo voci, risa; vediamo sorgere incanti figurati da ogni gomito d’ombra...».

LA TRAMA E LA STRUTTURA ◗ Nel dicembre 1931 Pirandello pubblicò sulla «Nuova Antologia» una prima versione del dramma, l’atto unico, I fantasmi, all’incirca corrispondente all’attuale primo tempo. Protagonisti sono i teatranti di Ilse, una compagnia «di giro» che recita qua e là una Favola del figlio cambiato, scritta per amore di Ilse da un giovane poeta morto suicida. Essi incontrano gli strani abitanti della villa della Scalogna; il loro capo, il mago Cotrone, sottolinea le affinità tra i due gruppi, che praticano entrambi un’arte in grado di congiungere i corpi materiali ai fantasmi. Il territorio stregato della villa, dice Cotrone agli attori, è il il luogo ideale per rappresentare la Favola. La contessa però vorrebbe rappresentare l’«opera» fra gli uomini. Qui si chiude l’atto. ◗ L’autore riprese il dramma nel 1933,

aggiungendovi un nuovo atto; nel novembre del 1934 pubblicò il dramma (primo e secondo atto) sulla rivista «Quadrante» con il titolo definitivo di I giganti della montagna. Il secondo atto si svolge entro la villa, nell’«arsenale delle apparizioni» di Cotrone, uno stanzone occupato da strane masserizie. Qui si ritrovano, nel cuore della notte, il conte e la contessa, insonni: essi rievocano il loro felice passato e l’attuale, faticoso rapporto di coppia. Quando lasciano la scena, liberano i prodigi magicamente suscitati dai sogni degli abitanti della villa: fantocci che si animano e danzano, strumenti che suonano da sé; la Sgricia evoca l’Angelo Centuno. Il mago Cotrone prima invita Ilse a recitare la scena madre della sua commedia, poi fa comparire per incanto le figure di alcuni personaggi della Favola: immagini vive – così spiega – create tali

dalla fantasia del giovane poeta suicida. Poi convince Ilse a portare l’opera al pubblico dei giganti: ma è gente difficile, spiega il mago, pericolosa; né le sue magie potranno aiutare gli attori, perché fuori della villa egli non ha potere. ◗ Il terzo atto del dramma manca, perché Pirandello riprese il lavoro appena pochi giorni prima di morire (dicembre 1936). Sappiamo solo, dal figlio Stefano, che l’atto conclusivo si sarebbe incentrato su «un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena», utile «per tirarvi il tendone». Quest’ultimo doveva nascondere i preparativi dei comici di fronte ai giganti e avrebbe rappresentato la totale estraneità dei due mondi – quello brutale della tecnica (il mondo dei Giganti) e quello innocente e puro dell’arte (il mondo degli attori).

La «trilogia del teatro dei miti» Il motivo profondo dei tre «miti» pirandelliani è l’evasione: evasione nell’utopia politica (La nuova colonia), nella fede religiosa (Lazzaro), nell’arte (I giganti della montagna). In nessuno dei tre lavori l’evasione ha successo, ma ciò che conta, per il drammaturgo, è il tendersi a una dimensione alternativa, verso quell’oltre a cui guardano tante sue pagine. La nuova colonia (1928) si apre in una taverna di contrabbandieri, pescatori, emarginati ecc., che decidono di costruire una nuova comunità al di fuori della società normale. Molti di loro sono già stati condannati al domicilio coatto su

un’isola. Li infiamma la Spera, un’ex prostituta, capace di smascherare le ipocrisie sociali e di promettere un riscatto. Il tentativo fallirà, perché presto i «coloni» si dividono in fazioni. Un cataclisma alla fine sommergerà l’isola, devastando tutto. Lazzaro, del 1929, s’impernia su uno strano prodigio: il possidente Diego Spina è gravissimo in seguito a un incidente d’auto; la figlia Lia chiama il medico Gionni e questi, forse, lo risuscita con uno dei suoi esperimenti. Dov’è stata l’anima del morto in quella mezz’ora? E si trattava di vera morte? Diego è come Lazzaro, il personaggio evangelico risuscitato da Gesù? Si apre un dibattito su questi temi.

Vi partecipano anche Lucio, il figlio (spretato) di Diego, e l’ex moglie Sara, che aveva lasciato tutto per vivere in campagna. Non c’è soluzione alle domande, ma almeno Lucio ritrova la fede in Dio (è la vera risurrezione del dramma). Infine, nei Giganti della montagna (1934, incompiuto) i personaggi si protendono fuori dalla realtà normale: la prima didascalia ambienta il lavoro «al limite, fra la favola e la realtà». Un’atmosfera di sogno avvolge i due gruppi di protagonisti, gli «Scalognati» di Cotrone e gli attori della compagnia della contessa. Il terzo atto manca, forse perché non si può dare vera conclusione ai sogni.

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Monografia Raccordo

gli unici alleati del teatro sono appunto gli esclusi, i reietti. Su questo punto intesserà i due atti superstiti della commedia.

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

12 «Tutto l’infinito ch’è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa» I giganti della montagna, atto II Anno: 1934 Temi: • l’esilio dalla vita normale • la ricerca dell’autenticità • il rovesciamento della logica comune • la superiorità della fantasia Siamo all’inizio del secondo atto del dramma. Sono in scena i due gruppi che animano il lavoro: da una parte il mago Cotrone assieme agli altri «Scalognati», cioè gli strambi abitatori della villa, che vivono abbandonati da tutti, ai margini della società; dall’altra, i visitatori appena giunti alla villa detta «Scalogna», ovvero la contessa Ilse, suo marito e gli altri attori della compagnia.

COTRONE Per la Contessa c’è ancora intatta la camera degli antichi signori della villa: l’unica che abbia ancora la chiave, e l’ho io. [...] un primo segnale di sospensione della logica comune

IL CONTE Sù, Ilse, sù, cara, ti riposerai almeno un poco. COTRONE Manca forse il necessario, ma di tutto il superfluo abbiamo una tale abbondanza... Stiano a vedere. Anche di fuori. Il muro di questa facciata. Basta ch’io 5 dia un grido... (Si pone le mani attorno alla bocca e grida) Olà! (Subito al grido la facciata della villa s’illumina d’una fantastica luce d’aurora) E i muri mandano luce! ILSE (incantata, come una bambina) Oh bello! IL CONTE Come ha fatto?

le lucciole si aggirano nel buio: la loro tenue luce simboleggia quel poco che possiamo cogliere del mistero della vita

COTRONE Mi chiamano il mago Cotrone. Vivo modestamente di questi incantesimi. 10 Li creo. E ora, stiano a vedere. (Si rimette le mani attorno alla bocca e grida) Nero! (Si rifà il tenue barlume lunare di prima, spenta la luce della facciata) Questo nero la notte pare lo faccia per le lucciole, che volando – non s’indovina dove – ora qua ora là vi aprono un momento quel loro languido sprazzo verde. Ebbene, guardi15 no: ... là... là... là (Appena dice1 e indica col dito in tre punti diversi, dove indica, s’aprono per un momento, fin laggiù in fondo alle falde della montagna, tre apparizioni verdi, come di larve evanescenti)

non del tutto fuori ma neppure più dentro: è la tipica posizione dell’umorista pirandelliano

ILSE Oh, Dio, com’è? IL CONTE Che sono?

COTRONE Lucciole! Le mie. Di mago. Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano; entra l’invisibile: vaporano2 i fantasmi. È cosa naturale. Avviene, ciò che di solito3 nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore... tutto l’infinito ch’è ne25 gli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa.4 [...]

1. Appena dice: appena finito di parlare. 2. vaporano: si formano.

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3. che di solito: sottinteso «avviene». 4. dentro... villa: è un luogo magico, per-

ché abitato da gente che vive secondo una logica differente da quella comune.

gli abitanti della villa si cibano di sogni e di poesia: la loro è un’esistenza completamente alternativa

COTRONE Non bisogna più ragionare. Qua si vive5 di questo. Privi di tutto, ma con tutto il tempo per noi: ricchezza indecifrabile, ebullizione di chimere.6 Le cose che ci stanno attorno parlano e hanno senso soltanto nell’arbitrario in cui per dispe- 30 razione ci viene di cangiarle.7 Disperazione a modo nostro, badiamo! Siamo piuttosto placidi e pigri; seduti, concepiamo enormità, come potrei dire? mitologiche;8 naturalissime, dato il genere della nostra esistenza. Non si può campare di niente;9 e allora è una continua sborniatura celeste. Respiriamo aria favolosa. Gli angeli possono come niente calare in mezzo a noi; e tutte le cose che ci nascono 35 dentro10 sono per noi stessi uno stupore. Udiamo voci, risa; vediamo sorgere incanti figurati da ogni gomito11 d’ombra, creati dai colori che ci restano scomposti negli occhi abbacinati dal troppo sole della nostra isola.12 Sordità d’ombra non possiamo soffrirne. Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei 40 nostri stessi occhi. [...] ILSE E questa villa, di chi è? COTRONE Nostra e di nessuno. Degli Spiriti. IL CONTE Come, degli Spiriti? COTRONE Sì. La villa ha fama d’essere abitata dagli Spiriti. E fu perciò abbandonata dagli antichi padroni, che per terrore scapparono anche dall’isola, ora è gran 45 tempo.13 ILSE Voi non credete agli Spiriti... COTRONE Come no? Li creiamo! ILSE Ah, li create...

l’attenzione all’interiorità e all’inconscio come sorgenti di poesia

COTRONE Perdoni, Contessa, non m’aspettavo da lei che mi dovesse dire così. Non è 50 possibile che non ci creda anche lei, come noi. Voi attori date corpo ai fantasmi perché vivano – e vivono! Noi facciamo al contrario: dei nostri corpi, fantasmi: e li facciamo ugualmente vivere. I fantasmi... non c’è mica bisogno d’andarli a cercare lontano: basta farli uscire da noi stessi. Lei si disse larva di quella che fu?14 ILSE Eh, più di così...

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COTRONE Ecco. Quella che fu. Basta farla uscir fuori. Crede che non le viva ancora dentro? Non vive forse il fantasma del giovine che s’uccise per lei?15 Lei lo ha in sé. ILSE In me. COTRONE E io potrei farglielo apparire. Guardi, è là dentro. (Indica la villa) ILSE (alzandosi, con raccapriccio16) No! 5. Qua si vive: si riferisce a lui e agli altri abitanti della villa, gli «Scalognati». 6. ebullizione di chimere: produzione di fantasmi. 7. cangiarle: modificarle. 8. enormità... mitologiche: creature fantastiche, dotate di vita propria, come gli dèi e gli eroi dell’antica mitologia. 9. Non si può... niente: per sopravvivere

si cibano, come dirà subito, di aria favolosa. 10. tutte le cose... di dentro: sogni, fantasie, desideri. 11. gomito: angolo. 12. nostra isola: la Sicilia. 13. ora è gran tempo: molto tempo fa. 14. Lei si disse larva... fu: nel primo atto Ilse aveva parlato di sé come di una larva, cioè della misera sopravvivenza dell’attri-

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ce ricca e famosa che era stata un tempo. 15. giovine che s’uccise per lei: sempre nel primo atto era emerso che la compagnia della Contessa porta in scena un’unica opera, la Favola scritta dal giovane poeta della compagnia che per amore di Ilse si è ucciso. Ella l’aveva incoraggiato ad amarla, purché egli portasse a termine il testo. 16. raccapriccio: spavento e orrore.

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Monografia Raccordo

[Nella scena successiva la Sgricia, una delle abitatrici della villa, su invito di Cotrone narra a modo suo la storia fantastica dell’Angelo Centuno. Quindi riprende il mago Cotrone.]

Contesto

Luigi Pirandello

Tra Ottocento e Novecento

COTRONE Eccolo! (Appare sulla soglia della villa Spizzi17 che s’è camuffato da giovane poeta, a somiglianza di quello che s’uccise per la Contessa, servendosi del vestiario trovato nello strambo guardaroba della villa per le apparizioni... La Contessa, appena lo vede, dà un grido e si rovescia sulla 65 panca, nascondendo la faccia) SPIZZI (accorrendo a lei) Ma no, Ilse... Dio mio... Ho voluto fare uno scherzo... IL CONTE Ah, tu! Spizzi! È Spizzi, Ilse... COTRONE. Uscito di sé, per farsi vedere come un fantasma! IL CONTE (adirato) Ma che dice lei ancora? COTRONE La verità!

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SPIZZI Io ho scherzato! la logica paradossale, logica-illogica, dell’umorismo pirandelliano

COTRONE E io ho sempre inventate le verità, caro signore! E alla gente è parso sempre che dicessi bugie. Non si dà mai il caso di dirla, la verità, come quando la s’inventa. [...] ILSE Lei, inventa la verità?

il saggio-folle, l’umorista pirandelliano, vive altrove e osserva la vita degli altri da fuori

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COTRONE Non ho mai fatto altro in vita mia! Senza volerlo, Contessa. Tutte quelle verità che la coscienza rifiuta. Le faccio venir fuori dal segreto dei sensi, o a seconda, le più spaventose, dalle caverne dell’istinto. Ne inventai tante, al paese, che ne dovetti scappare, perseguitato dagli scandali. Mi provo a dissolverle in fantasmi, in evanescenze. Ombre che passano. [...] Mi sono dimesso. Dimesso da tutto: de- 80 coro, onore, dignità, virtù, cose tutte che le bestie, per grazia di Dio, ignorano nella loro beata innocenza. Liberata da tutti questi impacci, ecco che l’anima ci resta grande come l’aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci solleva e disperde in 85 favolose lontananze. L. Pirandello, Maschere nude, cit., vol. II

17. Spizzi: l’attor giovane della compagnia.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il mago Cotrone, portavoce del gruppo degli «Scalognati», enuncia la sua visione «mitica» della vita, fondata su due elementi principali. • Il primo elemento è il rovesciamento della logica comune (Manca forse il necessario, ma di tutto il superfluo abbiamo una tale abbondanza, rr. 4-5): il mago Cotrone afferma la superiorità della fantasia sulla logica (Non bisogna più ragionare, r. 28), ovvero la preminenza di ciò che è fantastico rispetto a quanto è oggettivo, tangibile, misurabile. • Il secondo elemento della visione «mitica» è la scelta dell’esilio dalla vita comune, dalla città. Siamo qua come agli orli della vita, dice Cotrone; e più avanti: Mi sono dimesso. Dimesso da tutto: decoro, onore, dignità, virtù (rr. 8081). La sua scelta ricorda da vicino quella di Moscarda in Uno, nessuno e centomila: egli pure cercava nel contatto li662

berante con la natura un modo di essere autentico. Anche Cotrone afferma la superiorità della vita delle bestie. ■ Il mago non si accontenta di enunciare la propria «filosofia» di vita; oltre a vantare la propria capacità di dar vita ai fantasmi (È cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto, rr. 22-24), concepiti come desiderio dei nostri stessi occhi. Ne dà anche un saggio pratico. Egli infatti anima di prodigi e apparizioni la scena (la facciata della villa s’illumina d’una fantastica luce d’aurora; poco dopo Cotrone la spegne magicamente). ■ Non è chiaro se questa «magia» esibita da Cotrone sia finzione o realtà (un antico motivo pirandelliano). Ilse ne resta impressionata e finisce così vittima dello scherzo ordito da Spizzi, che asseconda il protagonismo del mago. Ma la pre-

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Riassumi quanto avviene nella scena letta, precisando il ruolo dei personaggi che vi agiscono (max 10 righe). 2. Quali «magie» compie Cotrone? 3. Quale antefatto riguardante Ilse si coglie nel testo? Rispondi citando tutti gli accenni presenti nel brano. 4. Pirandello fa qui ampio ricorso a immagini; in alcuni momenti il dialogo assume un vero e proprio andamento «poetico». Rispondi in breve alle seguenti domande. • Quale personaggio si esprime con questo linguaggio metaforico e perché? • Quali immagini e metafore individui nel testo? • Commentane in particolare un paio a tua scelta: quali effetti producono?

5. Quali caratteri, secondo Cotrone, hanno in comune attori e abitanti della villa? 6. Cotrone parla degli attori: il suo punto di vista ti pare simile oppure no a quello del Padre nel primo testo dei Sei personaggi in cerca d’autore (왘 Testo 10, p. 644)? Metti a confronto i due passi e motiva la risposta (max 10 righe). 7. La scena risponde alla poetica del «mito», tipica dell’ultimo Pirandello. Illustrala con qualche riferimento al testo (max 10 righe). 8. Così scrisse Pirandello a Marta Abba, da Berlino, il 24 maggio 1930: «I Giganti della montagna sono il trionfo della fantasia! il trionfo della poesia; ma insieme anche la tragedia della poesia in mezzo a questo brutale mondo moderno». Commenta l’espressione alla luce del testo letto (max 15 righe). 9. Cotrone è il tipico «personaggio-senza» di Pirandello. In che senso? Mettilo a confronto con altri protagonisti pirandelliani da te incontrati scrivendo una breve relazione (max una facciata e mezzo di foglio protocollo, 2500-3000 battute).

Pirandello surrealista? Nell’ultimo decennio della sua vita, Pirandello sembra avvicinarsi ai temi e al linguaggio del Surrealismo. Il romanzo Uno, nessuno e centomila (1925), i tre drammi (La nuova colonia, 1928; Lazzaro, 1929; I giganti della montagna, 1934) raccolti nella «trilogia dei miti», infine le tarde novelle confluite nelle due raccolte Berecche e la guerra (1934) e Una giornata (postumo, 1937), sono attraversati da motivi irrazionalistici: motivi che avvicinano Pirandello all’atmosfera fiabesca, onirica, irreale o appunto «surreale», che caratterizzava la cultura e la letteratura europee di quegli anni. Nelle opere citate spiccano, in particolare, alcuni temi: • la radicale estraneità o lontananza dei personaggi da tutto; • il loro immergersi nel grembo della

natura universale; • la dissoluzione di ogni «forma» e anzitutto del corpo individuale. Queste dimensioni si rivelano ai personaggi pirandelliani in particolari istanti di grazia, casuali ma decisivi: già nell’Umorismo (1908) si leggeva di «certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita». È allora che la vita improvvisamente rompe gli schemi del vivere quotidiano e può sorprenderci con la libertà del suo «flusso», rivelandoci stranieri a noi stessi e al mondo. Il primo a rilevare una diretta vicinanza tra Pirandello e l’avanguardia surrealista di Breton fu il critico Arminio Janner (Luigi Pirandello, Firenze, La

Nuova Italia 1948): «Il pirandellismo non è che una varietà del surrealismo». La critica successiva ha però ridimensionato questa indicazione. Oggi appare chiaro che Pirandello non è mai realmente «surrealista»: egli resta legato a un’idea di arte razionalmente controllata e quindi estranea all’écriture automatique, la «scrittura automatica» postulata da Breton nel Manifesto del 1924, atto di fondazione dell’avanguardia surrealista europea (왘 p. 58). È però vero che, come scrive Giuseppe Petronio, «Pirandello nei suoi ultimi anni ha ritenuto insufficienti gli strumenti di analisi del reale (psicologico e sociale) adoperati fino allora, e ne ha cercati e saggiati altri: questo è il dato incontrovertibile che emerge dai suoi scritti, con la presenza, in essi, del mitico, del fiabesco, del surreale».

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Monografia Raccordo

sunta apparizione del giovane poeta (che per Ilse s’uccise) ha una conseguenza: ridesta il «fantasma» che si agita dentro la donna, ovvero, con termine freudiano, porta alla luce il «rimosso» che giace nel suo inconscio.

Contesto

Luigi Pirandello

Pirandello nel suo tempo ■ Siciliano di origine, dotato di una solida formazione letteraria e culturale, Pirandello esordisce presto come scrittore, ma stenta ad affermarsi, in quanto la novità delle sue tematiche lascia disorientato il pubblico. È infine il teatro a consegnargli la merita-

1

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. 2. 3. 4.

2

Pirandello si laureò in Francia, in giurisprudenza, con una tesi sulla storia del diritto siciliano. Esordì in campo letterario con un libro di poesie. Era amico di Verga e fu da questi incoraggiato a cimentarsi nell’arte letteraria. Malgrado i ripetuti inviti non volle mai né recitare da attore né dirigere i suoi testi come regista.

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Collega ciascuna data al corrispondente avvenimento. 1 2 3 4 5 6

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ta fama, consacrata nel 1934 dal premio Nobel per la letteratura. Le disavventure familiari e un carattere schivo lo amareggiano però lungamente, proprio come una delusione si rivela, per lui, l’adesione al fascismo.

1924 1934 1904 1889 1925 1909

a. conosce l’attrice Marta Abba b. pubblica il romanzo Il fu Mattia Pascal c. s’iscrive al Partito nazionale fascista d. esordisce in campo letterario con una raccolta di poesie e. vince il premio Nobel per la letteratura f. comincia a collaborare con racconti al «Corriere della Sera»

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. La località di campagna dove nacque Pirandello si chiama a Caos b Girgenti c Miragno d Monte Cavo 2. Pirandello ottenne in vita fama, sia pure discussa a fin dalle sue prime opere, per cui poté vivere per molti anni con i proventi dei diritti d’autore b solo alla fine della sua vita, per cui fu costretto a insegnare per molti anni c specie grazie alla sua produzione teatrale, quindi dopo la Prima guerra mondiale d grazie alle sue novelle, stampate su quotidiani come il «Corriere della Sera»

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Rispondi alle seguenti domande. 1. 2. 3. 4.

A quale professione si dedicò Pirandello dopo la laurea? Pirandello si definiva «figlio del Caos»: perché? Quali disposizioni diede Pirandello per il proprio funerale? Per quale ragione? Quali vicende familiari segnarono profondamente la vita e anche la visione del mondo dell’autore?

Le idee e la poetica ■ La crisi storica dell’Italia postrisorgimentale e la crisi culturale del Positivismo sono all’origine della visione relativistica di Pirandello: le sue opere illustrano il crollo dei miti della ragione, della scienza, 664

del progresso. Su tale base cresce la poetica «umoristica» dell’autore. Si parte dalla riflessione, la quale, però, non compone e armonizza, ma «scompone», cogliendo e smascherando il contrario di ogni

SINTESI OPERATIVA

L’età contemporanea

realtà. A cadere vittima di tale sconsacrazione è in primo luogo la letteratura: Pirandello arriva a im-

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maginare un’opera che nasce «senza» l’autore e addirittura contro di lui.

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. La visione della vita e la poetica di Pirandello presentano chiari legami con il Decadentismo. 2. Nell’elaborazione del relativismo pirandelliano fu importante la lettura e l’approfondimento delle opere di Freud. 3. Il saggio L’umorismo risale agli ultimi anni della carriera letteraria di Pirandello. 4. La poetica umoristica assegna all’autore un ruolo centrale nella creazione artistica.

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Collega le seguenti tematiche pirandelliane alle rispettive fonti culturali. 1 2 3 4 5

La personalità degli individui non è una, ma molteplice. Noi non percepiamo le cose per come sono, ma per come ci appaiono. La sensibilità per il «lontano», per il favoloso, per il mito. Non esistono valori morali certi e indiscutibili, ma solo semplici «credenze». Noi abbiamo il forte bisogno d’ingannarci, di costruirci una realtà ideale del tutto soggettiva.

a. Pirandello stesso b. Alfred Binet c. La cultura irrazionalistica degli anni trenta d. Gabriel Séailles e. Giovanni Marchesini

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Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. La poetica del «personaggio senza autore» prevede che a

b c

d

l’autore rinunci a firmare la propria opera, per adottare come pseudonimo il nome del suo protagonista l’autore si faccia personaggio egli stesso, calcando in prima persona la scena del teatro l’autore dia volentieri spazio alle creature della sua fantasia, chiamandole a vivere con la massima libertà l’autore sia costretto dalle creature della sua fantasia a lasciare loro spazio e libertà di movimento

2. Il tema dell’«oltre» esprime a b c d

l’aspirazione a un senso religioso del vivere la scelta dei personaggi teatrali di abbandonare la vita comune per farsi puri simboli il desiderio di un mondo di sincerità e autenticità, fuori dall’esistenza normale il desiderio di abbandonare questa vita nel silenzio della morte

3. Una di queste affermazioni non corrisponde alla poetica pirandelliana dell’umorismo: quale? a b c d

L’umorismo produce nel pubblico sentimenti contrastanti L’umorismo nasce dal sentimento del contrario L’umorismo è il frutto della riflessione L’umorismo rivela le contraddizioni presenti nei personaggi e nella società

4. Due di queste affermazioni corrispondono al relativismo pirandelliano, le altre due no: individua queste ultime. a b

c d

Malgrado l’ipocrisia, le vere intenzioni degli individui trapelano sempre dai loro comportamenti Tutte le opinioni si equivalgono sul piano conoscitivo: non esiste una verità che si possa definire oggettiva Le regole sociali riducono la vita a forma vuota ma sono necessarie per vivere Ogni individuo crede di conoscersi, ma in effetti conosce solo in parte ciò che gli altri sanno di lui 665

4

Definisci i seguenti termini o espressioni, in rapporto alla poetica di Pirandello. a. oltre ..................................................................................................................................................................... b. sentimento del contrario ................................................................................................................................... c. avvertimento del contrario ................................................................................................................................ d. mito ..................................................................................................................................................................... e. forestiere della vita ............................................................................................................................................ f. vita nuda ............................................................................................................................................................. g. flusso della vita ..................................................................................................................................................

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Rispondi alle seguenti domande. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Che cos’è l’opera di Pirandello Mal giocondo? Perché si tratta di un titolo già umoristico? Qual è il ruolo della riflessione nella poetica pirandelliana? (max 5 righe) Quali effetti produce la poetica umoristica sulla lingua e sullo stile? (max 5 righe) Secondo Pirandello, i fatti sono «sacchi vuoti che non si reggono». Illustra questa espressione, tenendo presente la poetica dello scrittore (max 10 righe). Illustra il ruolo che in Pirandello assume la «maschera» (max 10 righe). Illustra il tema della «forma» (o meglio, delle «forme») e la sua importanza nella poetica pirandelliana (max 10 righe). Chiarisci somiglianze e differenze tra la poetica di Pirandello e quella di Verga relativamente al ruolo dell’autore (max 10 righe). Nell’Umorismo la logica viene definita una «macchinetta infernale». Illustra questa espressione partendo da ciò che sai della poetica pirandelliana (max 10 righe). Pirandello non conobbe la psicoanalisi, come invece accadde a Svevo; eppure manifesta grande attenzione per le tematiche psicologiche. Quali? (max 15 righe)

Le novelle e i romanzi ■ Pirandello operò in tutti i generi letterari, lasciando una forte impronta anzitutto nella novellistica e nel romanzo. Erede di Verga e del Naturalismo, la sua narrativa supera però decisamente quel punto di partenza, in virtù della sua visione relativistica, che demolisce ogni pretesa di oggettività nella rappresentazione del mondo.

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■ Nelle pagine di Pirandello tutto si rivela paradossale, caotico, casuale; è assurda la pretesa di molti personaggi di cogliere la verità, perché la ragione conduce anzi allo sragionamento e alla follia. Ciò suggerisce una narrativa nuova e sperimentale anche sul piano formale, vicina a Svevo e agli altri grandi autori europei coevi.

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. Pirandello scrisse il romanzo L’esclusa quando era ancora studente universitario a Bonn. L’astronomo Maraventano è il protagonista della novella La tragedia di un personaggio. Vitangelo Moscarda impazzisce e spara un colpo di pistola contro la moglie Dida. Il romanzo Si gira... è ambientato nel mondo del cinema e fu, anzi, il primo romanzo europeo ad assumere a protagonista l’ambiente cinematografico. 5. Mattia Pascal viene creduto realmente morto dai compaesani e dai familiari. 6. Quando Mattia Pascal fa infine ritorno al suo paese, nessuno lo riconosce. 7. Pirandello scrisse 365 novelle, una per ciascun giorno dell’anno. 1. 2. 3. 4.

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SINTESI OPERATIVA

L’età contemporanea

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Metti in ordine cronologico di pubblicazione i seguenti romanzi di Pirandello. a b c d

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Suo marito Uno, nessuno e centomila Il turno Il fu Mattia Pascal

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. L’unico romanzo di Pirandello che si possa definire «storico» è a L’esclusa b Il fu Mattia Pascal c I vecchi e i giovani d Si gira... 2. In alcuni suoi romanzi Pirandello adottò una struttura molto moderna, ovvero a il racconto autobiografico, nella forma del diario, in Si gira... e in Uno, nessuno e centomila b la scomposizione della personalità, per cui non è il narratore a parlare, ma è direttamente il personaggio, in Il fu Mattia Pascal e in Uno, nessuno e centomila c l’emergere della follia, che fa assumere al personaggio una posizione e un linguaggio del tutto paradossali, in Il fu Mattia Pascal e in Uno, nessuno e centomila d il racconto per brevi spezzoni cinematografici, quasi fotogrammi istantanei, in Si gira... e in Uno, nessuno e centomila 3. Le novelle pirandelliane a s’ispirano ai soggetti delle novelle di Verga e Capuana, siciliani come Pirandello b costituirono spesso lo spunto per successive opere teatrali c essendo pubblicate spesso sui giornali, prima che in volume, presentano un basso livello formale e stilistico d fornirono in alcuni casi un abbozzo per le vicende sviluppate nei romanzi 4. L’aspetto più caratteristico della novellistica pirandelliana è a la misura lunga e articolata dei racconti, così da fotografare i tanti frammenti della vita b la tendenza all’oggettività delle situazioni e l’utilizzo di uno stile «tutto cose» c la costruzione lucida e coerente dell’antefatto, così da non lasciare scampo a personaggi e lettori d la brevità dell’impianto narrativo, il piglio incalzante

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Rispondi alle seguenti domande. 1. Illustra la presenza del relativismo nella novella Pallottoline! (max 10 righe). 2. In che senso si può dire che Pirandello, nelle sue novelle, narri «di sbieco»? (max 10 righe) 3. Prendendo spunto dai testi letti, delinea le caratteristiche strutturali, stilistiche e tematiche delle novelle pirandelliane (max 20 righe). 4. Quale dei romanzi pirandelliani si ambienta nel mondo del cinema? 5. Chi è Serafino Gubbio? In quale romanzo compare? 6. Per quali motivi le grandi opere narrative di Pirandello sono definite dalla critica degli «antiromanzi»? (max 10 righe) 7. Riassumi la trama del Fu Mattia Pascal (max 15 righe). 8. Che cosa raffigura simbolicamente la vicenda di Mattia Pascal? (max 15 righe) 9. Riassumi la trama di Uno, nessuno e centomila (max 15 righe). 10. Proponi un ragionato confronto (affinità e differenze) tra i personaggi di Mattia Pascal e di Vitangelo Moscarda (max 20 righe). 667

SINTESI OPERATIVA Il teatro pirandelliano ■ È il teatro a rendere celebre Pirandello e a diffondere la sua visione del mondo e la poetica umoristica. Egli dedica all’incirca un ventennio alla composizione di drammi ispirati dalla lotta dei personaggi contro le finzioni (le «maschere») che ci ingabbiano; ma solo pochi di loro riescono a conquistare la «vita nuda», a prezzo dell’esclusione sociale.

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■ Alcuni testi pirandelliani, come i celebri Sei personaggi in cerca d’autore, traducono questo tema del conflitto tra realtà e finzione attraverso la struttura del teatro nel teatro. Nell’ultima fase Pirandello si volge a una sfera ancor più irrealistica, simbolica e «mitica»: è la fase che culmina nei Giganti della montagna.

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false. 1. Pirandello scrisse e rappresentò testi teatrali ancor prima di pubblicare romanzi. 2. Sei personaggi in cerca d’autore nacque non come dramma teatrale, ma come «romanzo da fare». 3. Pirandello voleva raccogliere le sue opere teatrali in un corpus di cento drammi, dal titolo complessivo La fantocciata. 4. Il primo lavoro di Pirandello ad andare in scena fu un atto unico in dialetto siciliano.

2

V

F

V

F

V

F

V

F

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte. 1. Nel teatro di Pirandello, a cosa corrisponde il contrasto tra «forma» e «vita»? a al contrasto fra la maschera e il volto b al conflitto tra società e individuo c al dilemma tra ordine e caos d alla contrapposizione fra autore e personaggio 2. Quali delle seguenti opere non fa parte della «trilogia del teatro nel teatro»? a Ciascuno a suo modo b Sei personaggi in cerca d’autore c Questa sera si recita a soggetto d La tragedia di un personaggio 3. Quale delle seguenti opere teatrali di Pirandello non fa parte della «trilogia dei miti»? a I giganti della montagna b Lazzaro c Liolà d La nuova colonia

3

Rispondi alle seguenti domande. 1. In che anno avvenne l’esordio teatrale di Pirandello e con quali lavori? 2. Ricordi i titoli di alcune opere teatrali scritte da Pirandello in dialetto siciliano? 3. In che senso il teatro può essere considerato lo sbocco naturale dell’attività letteraria di Pirandello? (max 10 righe) 4. Riassumi la trama di Sei personaggi in cerca d’autore (max 15 righe). 5. Perché, quando e in che modo Pirandello mutò il testo di Sei personaggi in cerca d’autore? (max 20 righe) 6. Nei Sei personaggi in cerca d’autore esplode un conflitto fra i personaggi e gli attori: perché? 7. Che cosa significa l’espressione «teatro nel teatro»? 8. Quali elementi fanno di Sei personaggi in cerca d’autore uno dei testi chiave per l’avanguardia teatrale novecentesca? (max 10 righe) 9. Illustra le tematiche presenti nei Giganti della montagna (max 10 righe).

668

PROPOSTE DI LAVORO PER L’ESAME DI STATO

L’età contemporanea

1

Analizza, interpreta e commenta questa pagina del Fu Mattia Pascal, presentata dall’autore come Premessa all’intero romanzo.

Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: – Io mi chiamo Mattia Pascal. – Grazie, caro. Questo lo so. – E ti par poco? Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza: – Io mi chiamo Mattia Pascal. [...] Fin dal primo giorno1 io concepii così misera stima dei libri, [...] che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se [...] non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d’ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura2 [...] capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l’obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant’anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte. Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda... sentirete. 1. Fin dal primo giorno: Mattia ha narrato di essere stato per due anni bibliotecario (e «cacciatore di topi») nella strana biblioteca Boccamazza, a Miragno, il suo paese. 2. per avventura: per caso.

Comprensione A. Riassumi con le tue parole il contenuto del testo in max 10 righe. B. Il personaggio-narratore parla, a un certo punto, della sua terza, ultima e definitiva morte. Che cosa intende dire? Rispondi in rapporto alla trama del romanzo. C. Per quale motivo Mattia si accinge a scrivere le sue memorie?

Analisi A. Nel brano è evidente la distinzione tra diversi piani temporali:

• rintracciane anzitutto i segnali linguistici; • spiega poi questi diversi momenti alla luce di quanto conosci della trama del romanzo; • infine, dal punto di vista della narrazione quali effetti produce tale distinzione? B. Come definiresti lo stato d’animo del protagonista? Rispondi citando opportunamente il testo. C. Emerge dal testo il tipico stile parlato e dialogato di Pirandello. Illustralo brevemente, anche alla luce dei successivi sviluppi teatrali.

Interpretazione A. Nel testo è evidente una condizione di «debolezza dell’io»: • individua tutti i segnali che di essa emergono nel brano; • spiega poi tale debolezza alla luce di quanto sai della poetica pirandelliana (max 15 righe). B. Questa Premessa si collega circolarmente alla pagina di chiusura del romanzo (왘 Testo 7, p. 629): riscontri tra i due testi un’analogia nei significati oppure no? Motiva la risposta (max 15 righe). C. La pagina d’apertura del romanzo prende nettamente posizione rispetto alla funzione e alla dignità della letteratura: una posizione nettamente novecentesca. Perché? Rispondi in max 20 righe.

Saggio breve 1

La crisi del ruolo dell’intellettuale nell’opera di Luigi Pirandello.

Materiali di lavoro Profilo introduttivo • Le idee e la poetica: relativismo e umorismo, 왘 p. 584

Schede • L’originale teoria del personaggio «senza autore», 왘 p. 613

Testi • L’arte umoristica «scompone», «non riconosce eroi» e sa cogliere «la vita nuda» 왘 Testo 1, p. 594 • Pallottoline! 왘 Testo 3, p. 601 • La tragedia di un personaggio 왘 Testo 4, p. 607 • «Io sono il fu Mattia Pascal» 왘 Testo 7, p. 629 669

Monografia

Analisi del testo

• Il naso di Moscarda E Testo 8, p. 633 • «La vita non conclude» E Testo 9, p. 639 • L’ingresso dei sei personaggi E Testo 10, p. 644 • «Tutto l’infinito ch’è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa» E Testo 12, p. 660

La parola al critico Carlo Salinari, La poetica pirandelliana Vediamo ora di tirare le fila di queste nostre osservazioni e di fissare alcuni punti fermi della poetica pirandelliana. Mi pare che si possano ridurre a quattro. In primo luogo quello che ci è parso il tratto distintivo della posizione di Pirandello, sia nei confronti dell’esperienza storica della sua generazione sia nei riguardi dei movimenti culturali del suo tempo: il contrasto fra illusione e realtà, in cui l’illusione si rivela come un inganno o comunque un ideale irrealizzabile, e la realtà meschina e avvilente del tutto inadeguata a quelle speranze. Di qui il sentimento dello scacco e dell’impotenza. In secondo luogo, quello che è stato chiamato dall’autore stesso il sentimento del contrario, cioè l’intervento del momento critico, della riflessione, nel cuore stesso della creazione: non per raggiungere una misura più classica della poesia e dimensionare ed equilibrare la piena dei sentimenti, ma, al contrario, per vanificare ogni possibile illusione mettendo sempre in luce il suo contrario. In terzo luogo il sentimento della casualità, imprevedibilità, relatività delle vicende umane (naturale conseguenza degli altri due sentimenti). Infine il suo atteggiamento intransigentemente antiretorico, la ricerca di una letteratura di cose e non di parole, il disprezzo per una ricerca linguistica (che lo differenzia anche dalla letteratura di cose dello stesso Verga). Al fondo di questi punti fermi si può trovare un elemento che tutti li unisce: il sentimento della condizione anarchica in cui viene a vivere l’uomo moderno, della mancanza di un tessuto sociale organico che lo sostenga e lo colleghi agli altri uomini, del dominio sull’uomo delle cose che sono estranee alla sua volontà, della inevitabile sconfitta a cui è condannato l’uomo nella società in cui si trova a vivere. In Pirandello il motivo della sconfitta, che compariva solo ai 670

margini del superuomo dannunziano, si afferma con piena consapevolezza al centro della sua opera. C. Salinari, Miti e coscienza del Decadentismo italiano, Feltrinelli, Milano 1960

Svolgimento A. Un punto di partenza necessario è ricostruire il relativismo pirandelliano, segno di una crisi che è insieme storica, culturale e psicologica. Vedi in particolare: • il profilo introduttivo (La vita, paragrafi 1-3), E p. 583; • Pallottoline!, E p. 601; • «La vita non conclude», E p. 639; B. Illustra, come conseguenza del relativismo sul piano letterario, la poetica umoristica (in particolare la riduzione della funzione dell’autore). Mettila poi in rapporto a quella sua particolare applicazione che è la teoria del personaggio senza autore. Vedi in particolare: • il profilo introduttivo (Le idee e la poetica: relativismo e umorismo, paragrafi 4-6), E pp. 584-587; • L’arte umoristica «scompone», «non riconosce eroi» e sa cogliere «la vita nuda», E p. 594; • La tragedia di un personaggio, E p. 607; • la scheda L’originale teoria del personaggio «senza autore», E p. 613; • il brano critico di C. Salinari. C. Esamina adesso le applicazioni della poetica umoristica sul piano narrativo, specialmente in rapporto a due personaggi emblematici come Mattia Pascal e Vitangelo Moscarda: due incarnazioni dell’autore-debole. Vedi in particolare i brani: • «Io sono il fu Mattia Pascal», E p. 629; • Il naso di Moscarda, E p. 633. D. Passa quindi alle opere teatrali: • mostrerai come Sei personaggi traduca perfettamente la debolezza da una parte dell’io (relativismo) e dall’altra parte dell’autore (umorismo); • mentre I giganti della montagna riconosce all’arte una funzione di sogno, di allontanamento dalla realtà nel puro spazio del mito. Vedi in particolare: • L’ingresso dei sei personaggi, E p. 644; • «Tutto l’infinito ch’è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa», E p. 660.

Relazione 1

Il rapporto Svevo-Pirandello. Illustra gli elementi che avvicinano due autori geograficamente lontani, ma simili per quanto riguarda la poetica e i risultati artistici.

PROPOSTE DI LAVORO PER L’ESAME DI STATO

L’età contemporanea

Per esaminare il rapporto tra Pirandello e Svevo ti consigliamo di rileggere il brano critico di R. Barilli a p. 516 (da La linea Svevo-Pirandello, Mursia, Milano 1977). Nella tua relazione puoi seguire questo schema. A. Sia Pirandello che Svevo nascono alla periferia della penisola; però sono entrambi intellettuali d’apertura «europea»: studiano in Germania, sono molto aggiornati, sperimentano vie nuove (l’esplorazione dell’inconscio, soprattutto: Svevo legge Freud, Pirandello legge Binet). B. Per tale forte novità sono inizialmente rifiutati o incompresi dalla critica; entrambi saranno però protagonisti, in età matura, di riscoperte e clamorosi «casi» critici. C. Sia Pirandello sia Svevo hanno rivoluzionato la narrativa e il teatro del Novecento italiano, per quanto riguarda sia le forme, sia le tematiche: • sul piano dei contenuti, entrambi portano in primo piano l’esplorazione della psiche, narrando l’«originalità» (Svevo) e la contraddittorietà della vita (Pirandello); • sul piano formale, i loro sono antiromanzi, costruiti: a) sul monologo interiore (Svevo) e sul soliloquio (Pirandello); b) su strutture narrative decentrate, caotiche com’è la vita, lontanissime da ogni ipotesi di «bellezza» tradizionale; da qui l’adozione di una prosa disadorna, analitica, antiletteraria.

2

Il fu Mattia Pascal si presenta come un romanzo problematico e complesso quale la nuova realtà che vuole rappresentare. In esso viene portato a compimento il processo di dissoluzione della figura «a tutto tondo» del personaggio, tipica della letteratura ottocentesca e tradizionale. Dimostra la veridicità di tali affermazioni, individuando le principali novità tematiche e formali presenti in quest’opera pirandelliana. La traccia ti chiede di illustrare: A. Pirandello: una nuova condizione culturale e una nuova percezione del mondo e della realtà. • Illustra in breve la visione del mondo (relativismo) di Pirandello, in rapporto alla crisi del Positivismo e alla nuova cultura di primo Novecento. B. La dissoluzione del personaggio a tutto tondo, proprio della narrativa tradizionale. • In opere del passato (per esempio I promessi sposi di Manzoni) il personaggio si mostrava coerente con se stesso, pur maturando nel corso della narrazione; la sua identità e stabilità nel tempo non erano mai messe in dubbio; era evidente se si trattava di «eroe positivo o negativo», degno o meno di essere stimato e imitato. • Invece nel Fu Mattia Pascal il protagonista si presenta come personaggio «relativo», «doppio», e come «eroe» senza identità, che, nel corso della narrazione, smarrisce il senso e i confini del suo vero essere: da questo punto di vista è un «inetto» ancor più radicale di quanto non lo siano i personaggi sveviani.

C. Le più significative novità del romanzo. Soffermati in particolare su questi aspetti (da esemplificare con opportune citazioni testuali). • A livello tematico: lo sforzo di Mattia di costruirsi un nuovo «io» (E Adriano Meis, Testo 6, p. 623) fallisce miseramente (vedi l’epilogo del romanzo): Il fu Mattia Pascal dichiara in sostanza il dubbio radicale sull’essere e la visione «copernicana» del mondo. • A livello formale (esemplifica con qualche citazione): - dalla narrazione oggettiva e condotta (per lo più) in terza persona, Pirandello passa a una narrazione autobiografica e tutta soggettiva; - da una narrazione che metteva in ordine il «prima» e il «poi», si giunge a una narrazione in cui i piani temporali s’intersecano, proprio come i «fatti» s’intrecciano regolarmente ai «giudizi» del narratore-personaggio.

3

Pirandello e la follia. Illustra questa importante tematica in rapporto ai testi da te letti. Ti consigliamo di seguire questi passaggi. A. Rileggi con attenzione la scheda di p. 638. B. Ora rifletti sulle diverse manifestazioni della pazzia che hai incontrato nelle pagine di Pirandello. • Quali personaggi possono essere definiti «folli»? • Potremmo dire che in realtà molti di loro sono dei saggifolli: in che senso? • Quali effetti produce tale follia in questi stessi personaggi e negli altri? C. Esponi infine la centralità del tema della follia: • nella poetica pirandelliana (dove il tema del «contrario» emerge anche come luogo dell’«ombra» e dell’«altro»); • nella personale biografia dello scrittore (a causa delle condizioni della moglie Antonietta).

Articolo 1

Stendi una cronaca della rappresentazione dei Sei personaggi in cerca d’autore a cui hai assistito nel teatro principale della tua città. Nell’elaborato dovranno essere presenti sia la cronaca della serata, sia una tua personale recensione dell’opera. Hai a disposizione 2-3 facciate di foglio protocollo (35006000 battute).

2

È appena uscita un’edizione complessiva dei romanzi pirandelliani. ll tuo direttore ti ha chiesto di giustificare l’acquisto dei volumi segnalando l’importanza e l’interesse che i romanzi di Pirandello suscitano ancora oggi. Devi fare una recensione dei volumi per un quotidiano nazionale (quindi rivolta al grande pubblico) che non superi una facciata e mezzo di foglio protocollo (2500-3000). 671

Raccordo Il nuovo romanzo europeo B romanzo psicologico di fine Ottocento

la realtà è ordinata e conoscibile

l’attenzione va a ciò che sta oltre la realtà

è possibile riprodurre tale ordine nell’arte

scoperta dell’io profondo e delle sue contraddizioni

C nuovo romanzo europeo d’inizio Novecento



A romanzo realistico dell’Ottocento



1

L’evoluzione del romanzo tra Ottocento e Novecento

cultura antipositivistica _ sfiducia nella ragione

◗ personaggi «disgregati» ◗ crisi dell’autore ◗ crisi generale



oggettivismo narrativo ◗ Manzoni, Verga ◗ Balzac, Dickens, Zola

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romanzi psicologici ◗ Tarchetti, Fogazzaro ◗ Dostoevskij, Tolstoj, James, Stevenson



romanzo sperimentale ◗ Svevo, Pirandello, Tozzi ◗ Proust, Joyce, Mann, ◗ Kafka, Musil

■ Il romanzo moderno era nato nel Settecento in Inghilterra e Francia e si era poi grandemente sviluppato nell’Ottocento, prima nella forma del romanzo storico (Scott, Manzoni, Hugo) e poi come romanzo realistico (Stendhal, Balzac, Dickens). Nelle forme solide e bene ordinate del romanzo realistico si rispecchiava il primato del ceto borghese, a partire da una certezza di fondo: esiste un ordine, una norma che regola i rapporti tra l’uomo, le cose e la società. ■ Manzoni aveva chiamato questo disegno «Provvidenza», Zola credeva nelle leggi positivistiche di causa ed effetto, Verga aveva raffigurato la rigida e spietata consequenzialità della «lotta per la vita», ma comune a tutti loro era la convinzione di poter spiegare, attraverso la letteratura, il funzionamento della società umana e dell’intera realtà.

La svolta alla fine dell’Ottocento ■ Una prima svolta si registrò parallelamente alla maggiore diffusione della narrativa naturalistica e veristica. Alcuni scrittori, attivi entro la vasta corrente del Decadentismo, sperimentarono una letteratura diversa, in cui la fiducia positivistica nelle cose e nell’autore cedeva il campo a ciò che sta oltre la realtà: ovvero a ricordi, simboli, associazioni d’idee ecc. Tali autori intuivano che, oltre i confini del mondo percepibile con i sensi, si estende una regione inesplorata, caotica: il nostro io profondo, fonte delle eccitazioni più forti, più conturbanti. ■ Nacquero in questo clima opere già definibili come moderni romanzi psicologici. Ne sono esempi in Italia Fosca (1869) di Iginio Ugo Tarchetti e Malombra (1881) di Antonio Fogazzaro (E p. 242 e p. 281); a un livello artisticamente più elevato si pongono Delitto e castigo (1866) dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij, Anna Karenina (1875-77) dell’altro autore russo Lev Tolstoj, Ritratto di Signora (1879) dello statunitense Henry James (1843-1916), o ancora il romanzo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886) di Robert L. Stevenson. ■ L’ultima opera citata s’incentra sul motivo del «doppio» (il buon dottor Jekyll convive, in se stesso, con un malvagio signor Hyde), portando così in primo piano una problematica decisiva: talvolta noi non siamo più capaci di essere «noi». Questa la rivelazione traumatica che attende molti personaggi novecenteschi, figli della nuova scienza psicoanalitica di Freud (il cui primo libro, L’interpretazione dei sogni, è del 1899).

Il nuovo romanzo novecentesco ■ Tali novità maturano definitivamente nel romanzo del Novecento. A inizio secolo la cultura antipositivistica dà vita a un nuovo modo d’intendere la realtà: il mondo appare ora privo di scopo, il pensiero privo di certezze, l’io di stabilità e di coerenza. Questa mutata percezione delle cose conferma lo spostamento radicale del punto di vista narrativo già manifestatosi negli autori citati di fine Ottocento. Poiché non si crede più possibile conoscere oggettivamente il mondo, il romanzo si specializza nell’analisi della sfera soggettiva. Il suo obiettivo si sposta dall’esterno all’interno del personaggio: dall’esame della società (la passione di Dickens e Balzac) all’analisi della psiche individuale. ■ Soltanto con i tentativi di ricostruzione del Realismo, operati a partire dal 1940 circa, la narrativa novecentesca correggerà parzialmente questa impostazione.

I caratteri della nuova forma-romanzo ■ Sintetizziamo gli aspetti fondamentali che contrassegnano natura e stile del nuovo romanzo. • Anzitutto il panorama messo a fuoco diviene, come detto, la coscienza del personaggio. Tale coscienza non appare però salda e unitaria: la disgregazione della personalità si presenta come uno dei temi principali. Personaggi nevrotici o «inetti» sono il risultato di simili personalità «disgregate». • Il fallimento non riguarda solo i singoli individui: esso si allarga nella crisi di un’intera società. Questo è un tema particolarmente caro ai narratori «mitteleuropei» (come Franz Kafka, Robert Musil, Thomas Mann, ovvero i maggiori interpreti del disfacimento dell’Austria multietnica verificatosi con la fine della Prima guerra mondiale, nel 1918); ma un po’ tutta la narrativa novecentesca mette a tema l’alienazione, la solitudine, il macerarsi dei personaggi nella loro irrisolta individualità, in una parola il «male di vivere», un motivo esplorato anche dai poeti (Eugenio Montale e Thomas S. Eliot su tutti) di quest’epoca. ■ Passiamo ora al livello del linguaggio narrativo. • In primo luogo, viene nettamente ridimensionato il ruolo dell’autore: accanto alla crisi del personaggio (e della società circostante) si pone dunque quest’altro io-in-crisi che è l’autore stesso; • In secondo luogo, il nuovo romanzo europeo si presenta come «antiromanzo»: adottando tecniche narrative sperimentali, sposa un’idea di letteratura nuova, antitradizionale e sperimentale. 673

Monografia Raccordo

Il punto di partenza: la tradizione sette-ottocentesca

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

I temi del nuovo romanzo

MA è un io in crisi

“ tutto è narrato dal punto di vista del personaggio

“ cade l’idea di un personaggio forte e stabile

“ azioni esterne e intreccio si riducono quasi a nulla

scoperta dell’io profondo e delle sue contraddizioni

■ Gli autori del romanzo contemporaneo amano raccontare non più dall’«alto», ma «da dentro»: raccontano cioè il mondo dal punto di vista soggettivo del personaggio. La realtà, più che rappresentata nei dati materiali, «oggettivi», viene rivissuta, giudicata, misurata nei suoi echi interiori; il mondo esterno è trascritto non più direttamente, ma solo per i suoi riflessi sull’individuo. Perciò la narrativa contemporanea racconta spesso vicende dove «non accade nulla», dove cioè l’azione narrativa è minima e dove, all’opposto, prevale il raziocinare, spesso inconcludente, dei personaggi e del narratore. Quest’ultimo si rende esplicitamente presente nel racconto, ama parlare in prima persona, secondo un’indicazione che fu già di Gustave Flaubert («Madame Bovary sono io», 1857). ■ In un racconto incentrato sulla vita intima dei personaggi, ciò che prevale non sono più i fatti, bensì i moti e i flussi della coscienza; una volta infranta la «barriera del naturalismo» (è un’espressione dello studioso Renato Barilli), l’oggettivismo ottocentesco diviene improponibile. «Coscienza» è una parola-tema di grande pregnanza, scelta non casualmente da Italo Svevo a titolo del proprio capolavoro: La coscienza di Zeno (1923). L’interprete maggiore di questa narrativa incentrata sulla coscienza soggettiva è lo scrittore francese Marcel Proust: il suo vastissimo ciclo di sette romanzi, Alla ricerca del tempo perduto (1913-27), s’incentra sui ricordi di un unico personaggio, l’io narrante. Non meno ambizioso il progetto che guida Ulisse (1922) di James Joyce: raccontare nei minimi dettagli un’unica giornata (di per sé insignificante) del protagonista. ■ Gli autori del nuovo romanzo vogliono dirci come, dietro agli eventi più comuni, si nasconda un mondo

◗ Ulisse antieroe di Joyce ◗ personaggio «escluso» di Pirandello ◗ «inetto» di Svevo



Il mondo dalla parte dell’io

674

soprattutto per influsso della psicoanalisi



l’io al centro



2

◗ «uomo senza qualità» di Musil

variegato, dinamico, fatto di pensieri, sensazioni, intenzioni, istinti, sentimenti, ricordi. La coscienza, questo vasto e mobile mondo «di dentro», si rivela spesso a partire da fatti minimi: le «epifanie» (improvvise manifestazioni) di Joyce, o le «intermittenze» (trasalimenti, rivelazioni) del cuore di Proust. Tutta la realtà viene raccontata «dalla parte dell’io», senza alcuna pretesa di esaurirla o di spiegarla compiutamente. ■ Naturalmente la «coscienza» su cui s’incentra la nuova narrativa non appare più una sostanza definita, bensì, come scrive il filosofo americano William James (1842-1910), una «perenne corrente di pensieri», mobile e indistinta. L’io manca di unità, è sempre mutevole, imprevedibile; è «malato», come sostiene Svevo nella Coscienza di Zeno. All’affermarsi di questi temi offrì uno stimolo potente la psicoanalisi di Sigmund Freud (1856-1939): affermando l’esistenza dell’inconscio, egli di fatto aprì la via alla persuasione, tutta novecentesca, secondo cui la realtà «vera» è sempre diversa da quella che appare; anche se tale realtà riguarda noi.

La crisi del personaggio ■ Si produce così nel personaggio novecentesco una sorta di scivolamento, di perdita di fiducia. Il protagonista «a tutto tondo» caro ai romanzieri ottocenteschi, dotato di una fisionomia propria, di un «carattere» inconfondibile, diviene ora un personaggio relativizzato, che delle cose ha una visione frantumata, scissa, priva di stabili certezze. «Nel mio romanzo non dovete cercare quel vecchio Ego stabile», dichiarò nel 1914 lo scrittore inglese David H. Lawrence (1885-1930). Il personaggio-eroe dei romantici, l’individuo-titano, capace di opporsi a tutto e a tutti pur di affermare un punto di vista o un ideale, si scopre adesso debole, corroso da oscure forze negative.

Le forme dell’«antiromanzo» “

debolezza dell’autore

mancanza di un progetto guidato dall’alto

◗ monologo interiore ◗ flusso di coscienza

romanzo come «opera aperta», che «si fa facendosi»

Un nuovo ruolo per l’autore ■ Alla debolezza del personaggio si accompagna la debolezza dell’autore. L’autore novecentesco tende infatti a raccontare non più dall’alto, ma dall’interno: dal punto di vista del personaggio, che, come si è detto, è un personaggio debole e incerto. Cade in tal modo l’antica pretesa per cui l’autore sa dove va a finire la storia, e dirige quindi dall’alto l’organizzazione dei fatti. ■ Dalla crisi dell’autore onnisciente nasce la poetica del «personaggio senza autore» (Pirandello). Nasce anche un’idea di narrativa non come reinvenzione del mondo, ma più semplicemente come «misura d’igiene» e terapia individuale (Svevo), da tenere nel cassetto e da non divulgare.

Il romanzo sperimentale ■ «Psicologico» quanto ai contenuti, il nuovo romanzo è «sperimentale» per quanto concerne la forma (l’espressione «romanzo sperimentale» fu coniata nel 1880 da Émile Zola, caposcuola del Naturalismo, ma la assumiamo qui in senso più largo). ■ Impossibile, ovviamente, stabilire una misura di spe-

la narrazione procede solo per impulso del personaggio

grande rilievo assegnato ai ricordi, alla rievocazione del passato

disordine compositivo

nuove tecniche:



3

e antisociali. Lo vediamo bene nel Leopold Bloom protagonista dell’Ulisse di Joyce: egli è, in realtà, un antieroe, un anti-Ulisse. Lo vediamo altrettanto bene nel personaggio «inetto» di Svevo, nell’«escluso» di Pirandello (L’esclusa è il suo primo romanzo, del 1901), nello Josef K. del Processo (1924) di Kafka, imputato di una colpa che non conosce neppure, o ancora nell’«uomo senza qualità» (1930-33) di Robert Musil.

il tempo individualizzato riemerge solo per frammenti

rimentalità che valga per tutti gli autori. Ognuno è sperimentale secondo la propria poetica, la propria visione del mondo. Generalizzando, la sperimentazione degli autori si esercita su due dimensioni prevalenti: • le strutture narrative (cioè i modi della costruzione del racconto); • la lingua e lo stile. ■ Maestro di sperimentalismo fu l’irlandese James Joyce con il suo romanzo Ulisse (1922). Tra gli autori italiani è stato Italo Svevo ad adottare strutture narrative molto nuove: La coscienza di Zeno (1923) è un romanzo che non segue un filo unico nel racconto, ma divaga, ritorna sul già detto, moltiplicando i punti di vista.

Nuove strutture narrative ■ La struttura romanzesca sembra priva di ordine, di pianificazione, sembra «farsi» (e, talora, s-farsi) man mano. Il romanzo novecentesco si propone come «opera aperta» (è una definizione di Umberto Eco), «aperta» anzitutto al fluire disordinato dei pensieri e dei ricordi dei personaggi. Passato e presente si sovrappongono: dal tempo oggettivo scandito dall’orologio si passa al tempo «perduto» di Proust o al «tem675

Monografia Raccordo

Alla figura positiva dell’«eroe» si sostituisce, così, la più sfaccettata figura dell’«antieroe»: un personaggio incerto, ambiguo, malato. Malattia e nevrosi sono il segno visibile della sua «estraneità» al mondo, dovuta a un eccesso di sensibilità e di intelligenza. ■ Il romanzo novecentesco diviene così il racconto della crisi dell’uomo contemporaneo. Le sue sono storie di fallimenti e i suoi sono personaggi nevrotici

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

po misto» di Svevo, o ancora al tempo che si rivela per «epifanie» di Joyce. Il ritmo narrativo si accavalla, si rompe, non è mai lineare o omogeneo. Anche in letteratura si avverte l’eco della scomposizione cubista, che stava rivoluzionando la pittura, insegnando che un oggetto non può mai essere rappresentato simultaneamente da tutti i lati. ■ Il risultato sono racconti «disordinati», almeno se giudicati secondo l’ottica narrativa tradizionale. In essi costantemente s’intrecciano e si accavallano molteplici dimensioni: per esempio il passato e il presente (cioè i fatti del passato, il giudizio del presente); oppure l’io del narratore e l’io del personaggio; oppure ancora le prospettive divergenti di più personaggi. Tutto ciò che era stato tenuto ben distinto dai narratori ottocenteschi tende adesso a intrecciarsi e a confondersi: lo scopo è di restituire, attraverso la letteratura, un’immagine credibile del mondo complesso e contraddittorio in cui vivono e agiscono i personaggi.

stoj, nel cui finale i tormentosi pensieri della protagonista si accampano sulla scena del romanzo quasi da soli, senza la mediazione del narratore. ■ James Joyce e Virginia Woolf adottano poi quella forma radicale di monologo interiore che è lo stream of consciousness, il «flusso di coscienza». Qui il lettore si trova di fronte al libero formarsi dei pensieri del personaggio, così come affiorano alla mente, nella maniera più incontrollata e irrazionale. Alla base di tale procedimento è la psicoanalisi freudiana, con i suoi studi sui sogni e sull’inconscio.

Il tempo soggettivo

Nuove tecniche espressive

■ Nel mondo raccontato «dal di dentro» assume grande importanza la nuova percezione del tempo narrativo. Nel nuovo romanzo non esiste più una sequenza «oggettiva», uguale per tutti, di ore e minuti; lo scorrere del tempo procede invece attraverso la psicologia del personaggio, diviene una realtà individuale. Il personaggio può dilatare o contrarre il tempo, a seconda della sua memoria. Il tempo «ritorna», come dice Svevo.

■ Una delle grandi novità del romanzo novecentesco è l’adozione del monologo interiore (i primi, in Italia, a farne uso sistematico furono Italo Svevo e Federigo Tozzi); esso equivale a esprimere i pensieri a voce alta del personaggio. Uno dei primi esempi di monologo interiore si trova già nelle pagine conclusive di Anna Karenina (1877) di Tol-

■ Tutto ciò si traduce anche in un modo nuovo di raccontare: gli eventi sono narrati non nella loro reale entità e successione, ma rivissuti secondo la valutazione del personaggio, che può anche dimenticare o ricordare male. D’altra parte, nel romanzo novecentesco è il mondo tutto intero a presentarsi in una dimensione solo soggettiva, alterata e irrazionale.

La vocazione conoscitiva del romanzo novecentesco Malgrado la crisi del personaggio e la diminuzione del ruolo dell’autore, il romanzo contemporaneo non rinuncia affatto a quella che fin dall’inizio della tradizione occidentale appare una finalità essenziale della letteratura: la finalità, cioè, di spiegare le cose, di fornire un’interpretazione generale della realtà. Anzi, la funzione conoscitiva (o «gnoseologica») è connaturata al romanzo novecentesco, tanto da distanziarlo nettamente dall’arte del primo Decadentismo: se infatti i primi decadenti (Baudelaire, Rimbaud, in Italia D’Annunzio e Pascoli) ritenevano che l’arte fosse la forma suprema della verità, ora, invece, il grande romanzo del Novecento assume scienza (la psicoanalisi di Freud) e filosofia come sue preziose alleate nel676

lo scavo verso i perché delle cose e della vita. In particolare: • Svevo fonda La coscienza di Zeno, sul nuovo sapere psicoanalitico; • Proust valorizza la teoria del tempo del filosofo Henri Bergson; • Musil studia l’«empiriocriticismo» di Ernst Mach, una filosofia nata nell’ambito del Positivismo ma che riconosce i limiti di validità della scienza; • le opere di Kafka anticipano i temi (come la precarietà del vivere e l’assurdo quotidiano) poi sviluppati dalla filosofia dell’esistenzialismo. L’autore e i personaggi del romanzo contemporaneo faticano a conoscere realmente la realtà; stentano a fare ordine nel groviglio di segni che li circonda. Il loro sforzo «veritativo» rimane quasi

sempre sterile. Ciò dipende dalle mutate condizioni culturali di primo Novecento. In questi autori, e nei loro personaggi, continua però a resistere una nostalgia di conoscenza, il bisogno di sapere, di capire. Nasce da qui la tipica dimensione saggistica del romanzo contemporaneo, il suo ruolo di ambito in cui discutere le nuove idee e dare luogo a una lettura critica della realtà (realtà sociale, culturale, umana in senso lato). In un certo senso, mentre i filosofi novecenteschi tendono a specializzare il loro sapere e a interrogarsi quasi solo sul metodo e sul linguaggio, è proprio il grande romanzo contemporaneo ad assumersi quell’antico compito di ricerca di verità, che era lo scopo primo della filosofia.

Il grande romanzo europeo: autori e opere La carta mostra le opere e gli autori principali attivi a inizio Novecento. Abbiamo inserito anche alcuni scrittori ottocenteschi, come il francese Flaubert o i russi Tolstoj e Dostoevskij, che si possono considerare i padri del romanzo contemporaneo, incentrato sui moti interiori della coscienza.

• Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886) • Joseph Conrad, Cuore di tenebra (1902) • Virginia Woolf, La signora Dalloway (1925) • James Joyce, Ulisse (1922)

• IRLANDA •

GRAN BRETAGNA

• Gustave Flaubert, Madame Bovary (1857) • Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto (1913-27)

• FRANCIA

• Thomas Mann, I Buddenbrook (1901), La montagna incantata (1924) • Franz Kafka, La metamorfosi (1915), Il processo (1924) • Robert Musil, L’uomo senza qualità (1930-33)



RUSSIA



• Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo (1866) • Lev Tolstoj, Anna Karenina (1875-77)

MITTELEUROPA

ITALIA



• Iginio Ugo Tarchetti, Fosca (1869) • Antonio Fogazzaro, Malombra (1881) • Italo Svevo, Una vita (1892), Senilità (1898), La coscienza di Zeno (1923) • Luigi Pirandello, L’esclusa (1901), Il fu Mattia Pascal (1904) • Federigo Tozzi, Con gli occhi chiusi (1919)

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Monografia Raccordo

LA GEOGRAFIA LETTERARIA

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

L’AUTORE

FËDOR DOSTOEVSKIJ ◗ Nato a Mosca nel 1821, Dostoevskij rimase presto orfano di madre; il padre, un medico militare, morì in seguito, alcolizzato. Studiò ingegneria all’Istituto militare di San Pietroburgo. Dopo un periodo a Mosca (1843) come impiegato statale, si dimise per dedicarsi alla letteratura. Nel 1846 uscirono i fortunati racconti di Povera gente e il romanzo Il sosia. ◗ Permeato, come molti altri intellettuali, da idee socialiste e utopiste, Dostoevskij aderì a un gruppo di giovani liberali. Nel 1849 fu arrestato dalla polizia e, dopo otto mesi di carcere, condannato a morte (22 dicembre 1849); fu quindi condotto, insieme ad altri diciannove compagni, sul luogo dell’esecuzione, ma all’ultimo momento la pena fu commutata in quattro anni di lavori forzati in Siberia. Durante la prigionia si ammalò di epilessia. Scontata la pena, si arruolò come soldato. Nel 1857 sposò una vedova, ma se ne separò presto. ◗ Nel 1859 poté rientrare a San Pietroburgo, dove si tuffò nell’attività letteraria: con il fratello Michail e altri fondò la rivista «Vremja» (“Il tempo”); quindi pubblicò alcuni scritti umoristici e nel 1861 le Memorie da una casa dei morti, sulla sua vita di deportato in Sibe-

L’OPERA

DELITTO E CASTIGO ◗ Raskol’nikov, un giovane studente squattrinato, decide di uccidere una vecchia usuraia: la vecchia, in fondo, ruba ai disgraziati come lui; mentre lui, con quei soldi, potrebbe fare del bene ad altri. La sua vita familiare è triste: la sorella, Dun’ja, sta per sposare il ricco e odioso Luzˇin solo per aiutare Raskol’nikov, che ha dovuto abbandonare l’università, e per assicurare alla madre una vecchiaia serena. ◗ Uccisa la vecchia, Raskol’nikov resta deluso: con il bottino troppo scarso non potrà realizzare i suoi astratti ideali di giustizia; inoltre, il rimorso che subito si fa strada in lui lo esclude dagli «eletti», gli uomini superiori dotati di una

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ria. Il libro colpì lo zar Alessandro II e gli procurò nuova fama, rinsaldata da altri romanzi: Umiliati e offesi (1861), Ricordi dal sottosuolo (1864), Delitto e castigo (1866). ◗ Nel 1866 si risposò con la giovane stenografa Anna Snitkina; poco dopo i due coniugi dovettero fuggire dalla Russia per debiti. Rimasero all’estero per alcuni anni (1867-71), passando dalla Germania alla Svizzera, a Firenze. La morte di una figlioletta, vissuta pochi giorni appena, suscitò nello scrittore un dolore immenso. ◗ Dei due successivi romanzi, L’idiota (186869) fu accolto freddamente, ma I demoni (1873) ottenne grande successo. Dostoevskij e la moglie poterono così rientrare a San Pietroburgo. Pressato dai creditori e dagli impegni con gli editori, scrisse e pubblicò altri due grandi romanzi, L’adolescente (1875) e I fratelli Karamazov (1879-80). Dal 1873 e con vari intervalli Dostoevskij compilò il Diario di uno scrittore, originale dialogo giornalistico con i lettori sui temi più scottanti del momento. ◗ La sua fama era al culmine: nel giugno 1880 tenne la commemorazione pubblica, a Mosca, del centenario di Pusˇkin. Morì il 28 gennaio 1881, onorato con funerali solenni.

loro morale. La polizia intanto cerca l’assassino. Raskol’nikov sente un forte bisogno di giustificare le ragioni del suo gesto; discute lungamente con il giudice istruttore Porfirij Petrovicˇ, il quale si convince che proprio Raskol’nikov è il colpevole. Deciso a togliersi la vita, il protagonista è però dissuaso grazie all’incontro con Son’ja Marmeladova, una giovane che si prostituisce per sfamare la sua povera famiglia. Raskol’nikov, consegnatosi alla polizia, è condannato ai lavori forzati in Siberia. In carcere, il puro amore per Son’ja prepara l’espiazione: dopo due sogni purificatori, Raskol’nikov trova, o meglio, ritrova la fede religiosa della sua infanzia.

sto per il suo gesto: il rimorso lo tormenta, e questo è il suo vero castigo. ◗ L’opera si ambienta sul grigio sfondo invernale di una San Pietroburgo priva di luce, abitata da una società sordida e abietta. L’autore arricchisce il quadro narrativo con le vicende di Marmeladov, inebetito dall’alcol, di sua moglie Caterina Ivanovna e della figlia Son’ja, colei che redimerà infine Raskol’nikov. Parallelamente viene tracciato il triste destino di Dun’ja: divenuta istitutrice nella casa di Svidrigajlov, un ricco possidente terriero, viene circuita e infine uccisa da lui.

Fëdor Dostoevskij

1

Delitto e fuga Delitto e castigo, parte I, capitolo VII Anno: 1866 Temi: • l’incapacità di governare gli eventi • terrore, smarrimento e angoscia dopo il delitto È un momento cruciale del romanzo: ci troviamo nella casa di Aljona Ivanovna, pochi momenti dopo che Raskol’nikov l’ha uccisa con tre colpi di scure al capo. Davanti a lui sta per presentarsi Lizavjeta, l’anziana sorella dell’uccisa.

il protagonista non domina la realtà

l’uccisione come un gesto crudelmente automatico

Ad un tratto sentì che nella stanza dove stava la vecchia1 qualcuno camminava. Egli si arrestò e stette in silenzio, come morto. Tutto, però, era silenzioso, quindi, era stata solo un’impressione. Improvvisamente si udì, chiaro, un lieve grido, o come se qualcuno, sommessamente e con voce rotta, si fosse messo a piangere e poi di nuovo avesse taciuto. Quindi ancora un silenzio di morte, per un minuto o due. Egli era 5 accovacciato presso il baule, appena respirando, ma all’improvviso saltò in piedi, afferrò la scure e corse fuori dalla camera da letto. In mezzo all’altra stanza c’era Lizavjeta, con un grande fagotto tra le mani, e guardava impietrita la sorella morta, tutta bianca come un panno lavato, come se non avesse la forza di gridare. Vide lui che sbucava fuori, e si mise a tremare come una fo- 10 glia, di un tremito minuto,2 mentre il viso le si contraeva per le convulsioni; alzò la mano, aprì la bocca, ma non gridò e lentamente, indietreggiando, cercò di allontanarsi da lui, rifugiandosi in un angolo, fissandolo attentamente, e sempre senza gridare, come se non le bastasse il fiato per farlo. Ed egli si avventò contro di lei con la scure; le labbra della donna si mossero, in una piega lamentosa come quella dei pic- 15 coli bambini, quando si spaventano per qualche motivo e guardano come affascinati l’oggetto che li terrorizza e si apprestano a gridare. E l’infelice Lizavjeta era così sem-

1. la vecchia: l’anziana Aljona Ivanovna, assassinata da Raskol’nikov.

2. minuto: quasi impercettibile.

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Monografia Raccordo

◗ Il grande tema del romanzo è il delitto: Raskol’nikov lo teorizza come prova di superiorità, come gesto di suprema libertà, e anche come atto di giustizia, che libererà l’umanità dallo sfruttamento; poi lo progetta nei dettagli, in quanto bisogna prevedere tutto, razionalmente. Il delitto vive e rivive in lui, riempie la sua anima e il romanzo come un’ossessione invincibile. A furia di ragionare tra sé, Raskol’nikov finisce per smarrire il controllo di ragione e volontà: è ciò che rende così moderno il suo personaggio. Inoltre, quasi subito egli prova un invincibile disgu-

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

tutte le sue teorie di superiorità si rivelano fasulle

l’epilogo del romanzo è già contenuto in queste riflessioni

un perfetto ritratto del personaggio-inetto novecentesco

la follia si affaccia come conseguenza del non conoscersi, del non riuscire a padroneggiarsi

plice, così svanita e terrorizzata, che non alzò neppure le braccia per difendersi il volto, benché questo fosse il gesto più naturale in quel momento, dato che la scure era proprio alzata sopra la sua faccia. Appena appena riuscì a sollevare un poco la mano 20 destra, libera, senza neppure metterla davanti al volto, ma solo tendendola lentamente, come per allontanarlo. Il colpo la prese proprio sul cranio, di filo, e spezzò tutta la parte superiore della fronte, quasi fino alla tempia. La donna crollò al suolo. Raskol’nikov aveva completamente perduto la coscienza, afferrò il fagotto, subito lo 25 gettò lontano, e corse in anticamera. Il terrore lo afferrava sempre di più, particolarmente dopo quel secondo assassinio, del tutto imprevisto. Avrebbe voluto il più presto possibile fuggirsene. E se in quel momento fosse stato in grado di vedere in modo più giusto e di giudicare più rettamente, se solo avesse potuto immaginare tutte le difficoltà della sua situazione, tutta la mostruosità, la disperazione e la stoltezza di essa, capire, con ciò, quante altre fati- 30 che e, forse, quanti altri delitti avrebbe dovuto superare e commettere per uscire di lì e trascinarsi fino a casa, allora, molto probabilmente, avrebbe buttato via tutto e si sarebbe denunciato da sé, e non per paura, ma solo per l’orrore e lo schifo per ciò che aveva fatto. La repulsione aumentava fortemente in lui minuto per minuto. Per nulla 35 al mondo sarebbe ritornato di là, dove c’era il forziere,3 e neppure nella stanza. Ma ad un tratto si sentì come distratto e svagato, come se una specie di delirio fantastico lo afferrasse a poco a poco: a volte era come se si dimenticasse di se stesso o, per meglio dire, si dimenticasse della cosa principale e si occupasse delle sciocchezze. D’altra parte, guardando in cucina e vedendo dietro il vetro un secchio, a metà pieno d’acqua, pensò di lavarsi le mani e di lavare la scure. Le sue mani erano insanguinate 40 e appiccicaticce. Immerse direttamente nell’acqua la scure, dalla parte del filo, afferrò un pezzetto di sapone, che stava dentro un piattino rotto sulla finestrina, e cominciò, direttamente nel secchio, a lavarsi le mani. Dopo che se le fu lavate, estrasse dal secchio anche la scure, insaponò il ferro e a lungo, per circa tre minuti, pulì il legno, dove c’erano macchie di sangue, cercando di far scomparire le macchie rosse anche 45 col sapone. Poi asciugò tutto con la biancheria che stava appesa ad asciugare su una cordicella, tirata attraverso la cucina; quindi, a lungo, con attenzione, si mise presso la finestra, ad osservare la scure. Non c’era più alcuna traccia; solo che il legno era ancora umido. Appese con cautela la scure al cappio, sotto il pastrano. Quindi, per quanto lo permetteva la luce nell’oscura cucina, osservò il soprabito stesso, i panta- 50 loni, le scarpe. Dall’aspetto esteriore, a prima vista, sembrava che non fosse accaduto nulla. C’erano delle macchie solo sulle scarpe. Immerse uno straccio nell’acqua e se le ripulì. Egli sapeva, del resto, di aver esaminato male tutto e che, forse, ci poteva essere qualcosa che sarebbe subito saltato agli occhi e che egli non era riuscito a scorgere. Si fermò pensieroso in mezzo alla stanza. Un pensiero tormentoso, oscuro, sor- 55 se in lui, il pensiero che stava impazzendo e che in quel momento non era più in grado né di giudicare, né di difendersi, e che, infine, non doveva proprio fare quello che faceva in quel momento... – Dio mio! Devo fuggire, fuggire! –, borbottò e corse in anticamera. Ma qui provò 60 un terrore, quale non aveva mai provato neppure una volta.

3. sarebbe ritornato... il forziere: per rubare. La vecchia Aljona era un’usuraia

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(aveva prestato denaro anche a Raskol’nikov) e custodiva le sue ricchezze in casa.

i fantasmi della mente sembrano materializzarsi

nel sogno le parti si rovesciano e l’uccisore diviene la povera vittima

un’improvvisa e sconosciuta efficienza: Raskol’nikov è un personaggio contraddittorio

Egli stava lì a guardare, e non credeva ai suoi occhi: la porta, la porta d’ingresso, che dava dall’anticamera sulla scala, quella stessa porta alla quale, poco prima, aveva suonato e attraverso la quale era passato, era aperta: ci poteva passare, non era stata chiusa la serratura, né messa la catena. E per tutto il tempo, per tutto quel tempo! La vecchia non l’aveva chiusa, dietro a sé, forse per precauzione. Ma Dio! Ecco 65 perché, dopo, egli aveva visto Lizavjeta! E come poteva, come poteva non pensare che quella doveva pure essere entrata da qualche parte! Non poteva essere passata attraverso il muro! Si voltò verso la porta e chiuse il catenaccio. 70 – Ma no, ancora no! Devo andarmene, andarmene... Tolse il catenaccio, aprì la porta e stette ad ascoltare, sulla scala. Stette a lungo in ascolto. In qualche posto, lontano, certo sotto il portone, due voci sconosciute gridavano, forti e strillanti, litigavano e si insultavano. «Chi saranno?...». Attese pazientemente. 75 Finalmente, di colpo, tutto tacque: come se la discussione fosse stata troncata. Si erano separati. Lui già voleva scendere, ma improvvisamente, al piano di sotto, con gran fracasso si spalancò la porta che dava sulla scala, e qualcuno cominciò a scendere, canticchiando un motivo. «Ma perché tutto questo baccano?», gli balenò per la testa. Di nuovo, chiuse la porta dietro a sé e aspettò. Finalmente il silenzio: neppure un’anima si sentiva. Era già disceso per qualche passo sulla scala, quando, 80 all’improvviso, si sentirono dei nuovi passi: qualcuno saliva. Il rumore di questi passi era lontano, proveniva dall’inizio della scala, ma egli ricordò molto bene e distintamente, fin dal primo momento in cui li udì, di aver avuto subito, chissà perché, il preciso sospetto che quei passi fossero diretti proprio lì, al quarto piano, dalla vecchia. Perché? Perché? Forse che i passi erano speciali, avevano 85 qualche segno particolare? Erano passi pesanti, uguali, non frettolosi. Ecco: quello era già arrivato al primo piano, saliva ancora: lo si sentiva in modo sempre più distinto! Si udiva il pesante respiro di uno che si avvicinava. Ecco, aveva già incominciato il terzo piano... Veniva proprio lì! E improvvisamente gli sembrò di essersi irrigidito, fatto di pietra, come se tutto ciò avvenisse nel sonno, fosse un sogno, pensò 90 che lo avrebbero raggiunto subito, lo avrebbero voluto uccidere; gli parve di essere come radicato in quel posto e di non poter neppure muovere le mani. Ed ecco, infine, quando il visitatore già stava salendo al quarto piano, che Raskol’nikov parve ad un tratto scuotersi, e riuscì così, rapidamente e agilmente, a scivolare indietro nell’appartamento e a rinchiudere la porta dietro a sé. Poi afferrò la catena e 95 piano, senza farsi minimamente sentire, la infilò nella bandella.4 Lo aiutò l’istinto. Quando ebbe compiuto quell’operazione, si appiattò,5 senza respirare, proprio contro la porta. Il non invitato visitatore era già arrivato alla porta. Essi ormai stavano lì, l’uno di fronte all’altro, come un momento prima lui stava con la vecchia, divisi solo 100 dalla porta. E Raskol’nikov ascoltava. Il visitatore ansimò alcune volte, pesantemente. «Grande e grosso, è probabile», pensò Raskol’nikov, stringendo tra le mani la scure. In realtà, gli pareva proprio di sognare. L’uomo afferrò il campanello e suonò forte.

4. bandella: piastra metallica, terminante con un anello, in cui appunto si infila la catenella per chiudere la porta.

5. si appiattò: si rannicchiò, per nascondersi.

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Monografia Raccordo

anche le cose, gli oggetti della realtà gli sono estranei

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

[L’uomo è venuto per parlare con la vecchia usuraia uccisa da Raskol’nikov. Giunge anche un secondo visitatore; Raskol’nikov resta sempre nascosto al di qua della porta. È strano che l’usuraia e la sorella non aprano: perciò uno dei due scende a chiamare il portinaio. Non vedendolo tornare, dopo un po’ anche l’altro visitatore scende al pianterreno. Raskol’nikov può uscire dal suo nascondiglio: scende a sua volta per le scale e mentre gli altri le risalgono, s’infila, non visto, in un appartamento vuoto. Subito dopo ne esce per scendere l’ultimo tratto delle scale.]

un’altra chiara immagine di «inettitudine», di insufficienza di fronte alle esigenze della vita concreta

ha smarrito la capacità di controllo razionale

Sulla scala non c’era nessuno! Sotto il portone pure. Rapidamente oltrepassò 105 l’androne e svoltò a sinistra, nella strada. Egli sapeva molto bene, con certezza, che quelli, in quel momento, erano già entrati nell’appartamento, che si erano stupiti vedendo la porta aperta, mentre un momento prima era chiusa, e stavano guardando i cadaveri; sapeva che non sarebbe passato più di un minuto, e poi avrebbero capito e chiarito completamente che era avvenuto un delitto, che c’era un assassino, che era riuscito a nascondersi in qualche 110 parte, che era fuggito, scivolando accanto a loro; avrebbero anche indovinato che l’assassino si era nascosto nell’appartamento vuoto, mentre essi salivano. Eppure in nessuna maniera egli ebbe il coraggio di affrettare molto il cammino, benché rimanessero in tutto solo cento passi, per arrivare alla prima svolta. «Non sarebbe più utile che mi cacciassi in qualche portone, ad aspettare, in una scala ignota? No, che 115 guaio! E se gettassi la scure?6 E se prendessi una carrozza? Che guaio! Che guaio!» Finalmente eccolo nel vicolo; ci si trascinò che era mezzo morto; qui già era quasi in salvo, e lo capiva: c’erano meno sospetti, molta gente andava e veniva, ed egli si perdeva fra di essa, come un granellino di sabbia. Ma tutte queste angosce lo spossarono al punto che appena poteva muoversi. Il sudore gli scendeva gocciolando. Il 120 collo era tutto bagnato. – Ma guarda quanto ha bevuto, quello! – gli gridò uno, quando egli uscì sul canale. [...] Era fuori coscienza anche quando oltrepassò la porta della sua casa. Aveva già cominciato a salire la scala, quando si ricordò della scure. E ora gli si presentava un grosso problema da risolvere: rimetterla al suo posto, senza farsi vedere. E certo non 125 era capace di pensare che, forse, sarebbe stato meglio per lui non riporre la scure al suo posto, ma gettarla in un qualsiasi altro cortile, in seguito. Tutto però andò bene. L’uscio della portineria era chiuso, ma non a chiave: probabilmente il portinaio doveva essere in casa. Ma Raskol’nikov aveva a tal punto perduto la capacità di riflettere che si diresse senz’altro verso la portineria e l’aprì. Se il por- 130 tinaio gli avesse chiesto: – Che volete? –; egli, forse, gli avrebbe consegnato la scure. Ma il portinaio, ancora una volta, non c’era, ed egli riuscì a porre la scure ancora al posto di prima, sotto la panca. Non incontrò nessuno, neppure un’anima, poi, fino alla sua stanza; la porta della padrona era chiusa. Entrato nella camera, si buttò sul divano, così come si trovava. Non dormiva, ma era in deliquio.7 Se qualcuno fosse 135 entrato allora nella stanza, egli sarebbe subito saltato in piedi, a gridare. Frammenti di certi pensieri gli si agitavano nella testa, ma egli non riusciva a fissare nessuno di essi, non ostante tutti i suoi sforzi. F. Dostoevskij, Delitto e castigo, in Dostoevskij. Tutti i romanzi, vol. I, trad. di R. Kufferle, Mursia, Milano 1959

6. scure: l’ha sottratta al portinaio della sua casa, come si vedrà. 7. in deliquio: in delirio.

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■ Possiamo distinguere nel testo tre sequenze e un breve epilogo: 1. In casa della Ivanovna: • (dopo l’uccisione di Aljona) comparsa e uccisione della sorella Lizavjeta; • Raskol’nikov cancella le tracce dei due delitti; • la porta rimane però, imprevedibilmente, aperta. 2. Dietro l’uscio: • salita per le scale e arrivo del misterioso visitatore nella casa delle due vecchie. 3. Fuga di Raskol’nikov: • sulle scale del condominio; • in strada, mescolato alla folla. 4. Epilogo (in casa di Raskol’nikov): pensieri sconnessi e rimorso. ■ Nessun sentimento (odio, amore, pietà) ha guidato o frenato la mano dell’assassino: il suo è un delitto «puro». Nessuno ha visto, il bottino è a portata di mano, ma un’inquietudine febbrile si è impossessata di lui. Ecco profilarsi sulla soglia una figura inaspettata: la sorella dell’uccisa. Meccanicamente Raskol’nikov uccide anche lei, con trasognata precisione, nel tempo rallentato degli incubi. ■ Poi però l’omicida non trova il momento propizio per scappare. E allora, in un crescendo di tensione, tutto si stringe dietro la strettissima prospettiva di un uscio socchiuso: quella porta diviene la fonte di ogni angoscia. Il ritmo bloccato della fuga desiderata e impossibile, i passi e le voci minacciose degli sconosciuti, infine l’imprevisto scioglimento finale. ■ Verrà quindi la notte, con i frammenti di certi pensieri...: un delirio abitato dalle creature degli spaventi notturni, uscite come per un maligno sortilegio dalla nostra anima. L’ossessione, lo indoviniamo, ricomincerà all’indomani. ■ Dostoevskij narra i fatti non «da fuori», ma «da dentro» i personaggi, per come appaiono alla loro coscienza, sempre più turbata. Quest’ottica narrativa risalta, per esempio, alle rr. 82-92: qui il narratore riferisce l’arrivo del misterioso visitatore e l’ansia febbrile con cui Raskol’nikov segue il suo avvicinarsi, infarcita di domande (Perché? Perché?), esclamazioni (Veniva proprio lì!), segnali di discorso indiretto libero (Ecco: quello era già arrivato al primo piano, saliva ancora: lo si sentiva in modo sempre più distinto!). Il narratore, se volesse, potrebbe sciogliere l’enigma, svelare al lettore cosa sta accadendo; ma Dostoevskij ha scelto l’ottica interna. Il risultato è un effetto di suspense: il lettore sa solo quel poco che Raskol’nikov può indovinare. In tal modo chi legge è più coinvolto nella situazione del personaggio, s’immedesima con lui.

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Riassumi l’episodio, dedicando max 5 righe a ciascuna delle sequenze individuate nelle Chiavi del testo. 2. Che cosa si viene a sapere di Raskol’nikov? Raccogli tutti gli indizi disseminati nel testo e relativi a: • aspetto fisico del protagonista ....................................................................................................... ....................................................................................................... • sua condizione sociale ....................................................................................................... ....................................................................................................... • carattere ....................................................................................................... ....................................................................................................... Con gli elementi raccolti, proponi quindi in max 15 righe un ritratto del personaggio. 3. Quali intenzioni hanno portato Raskol’nikov a uccidere? Da quale punto o da quali punti del testo esse trapelano? ....................................................................................................... ....................................................................................................... 4. Quali elementi del brano rivelano che il preteso senso di superiorità del protagonista va invece in frantumi nel confronto/scontro con la realtà? ....................................................................................................... ....................................................................................................... 5. Rileggi il capoverso finale: a tuo avviso giunge imprevisto oppure è stato preparato dallo svolgersi dell’intero episodio? Motiva in breve la risposta, anche con qualche opportuna citazione. 6. Dostoevskij narra secondo un’ottica «interna», tipica del moderno romanzo psicologico. • Spiega con le tue parole cosa significa narrare secondo un’«ottica interna». ....................................................................................................... ....................................................................................................... • Individua quindi una sequenza del testo a tua scelta e prova a riscriverla con lo stile «oggettivo» proprio della narrativa naturalistica. 7. Oggetto di particolare attenzione da parte di Dostoevskij sono gli aspetti patologici dei suoi personaggi in preda a crisi di coscienza, pronti all’omicidio o travolti da allucinazioni ossessive, che smarriscono infine il dono di un pensiero logico, di un discorso coerente. Informati sulle trame di altri romanzi dell’autore e ritrova in esse questi medesimi aspetti.

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Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

CONFRONTI

Romanzo realistico, romanzo psicologico: due modi di narrare a confronto Due scuole divise da una barriera Il nuovo romanzo psicologico infrange «la barriera del naturalismo» (come si esprime il critico Renato Barilli): crea cioè una narrativa di tipo nuovo, che scruta, al di là dei fatti, dentro la coscienza del personaggio. Per cogliere bene questa novità,

mettiamo a confronto due prototipi significativi: una pagina di Gustave Flaubert e una di Fëdor Dostoevskij, scelti come rappresentanti, rispettivamente, del romanzo naturalistico di tipo oggettivo (Flaubert) e del romanzo psicologico di tipo soggettivo (Dostoevskij).

Flaubert: lo stile della realtà «oggettiva» Leggiamo una pagina del romanzo L’educazione sentimentale (1869) di Gustave Flaubert: un esempio di oggettività e distacco «realistico» da parte dello scrittore, che usa uno stile tutto «cose» e «fatti».

Flaubert ■ NARRAZIONE in terza persona

■ verbi per lo più al passato remoto ■ frasi brevi, essenzialità ■ l’AUTORE si distacca dai personaggi ■ il LETTORE può osservare tutto a distanza

_ OGGETTIVISMO narrativo

Viaggiò. Conobbe la malinconia dei piroscafi, i freddi risvegli sotto la tenda, lo stordimento che danno i paesaggi e le rovine, l’amarezza delle simpatie troncate. Tornò. Frequentò la società, ed ebbe nuovi amori. Ma il costante ricordo del primo glieli rendeva insipidi; e poi, la veemenza del desiderio, il fiore stesso della sensazione, erano perduti. Anche le sue ambizioni intellettuali si erano affievolite. Passò qualche anno; e sopportava l’ozio della mente e l’inerzia del cuore. Verso la fine di marzo del 1867, al cader della notte, mentre si trovava solo nel suo studio, una donna entrò. – La signora Arnoux! – Frédéric! Gli prese le mani, lo attirò dolcemente alla finestra, e lo contemplava, ripetendo: – È lui! È proprio lui! Nella penombra del crepuscolo, egli non distingueva che i suoi occhi, sotto il velo di pizzo nero che le copriva il volto. Poi ella posò sul bordo del caminetto un piccolo borsellino di velluto granata, e si mise a sedere. Si sorridevano, incapaci di parlare.

PRIMA PARTE: conciso riassunto di fatti che occupano vent’anni di tempo!

SECONDA PARTE: la scena si sposta su un primo piano

■ ambientazione circonstanziata

■ molte cose e oggetti ritratti in dettaglio

ESITO: una tranche de vie (un “pezzo di vita”)

L’educazione sentimentale, trad. di M. Vidusso Feriani

Questa è una pagina tutta cose e fatti. All’inizio, i vent’anni di tempo narrato si dispongono in un «lontano» impersonale; il tempo viene fortemente compresso, per dare un conciso riassunto dei fatti mediante i numerosi passati remoti. Nella se684

conda parte la scena si sposta in «primo piano», per ambientare l’incontro tra i due protagonisti, che si ritrovano dopo tanti anni. La scena è posta in un ambiente ben preciso e identificato; pochi oggetti ma accuratamente descritti creano la

cornice in cui si svolge un dialogo, fatto più di gesti che di parole. Emergono ora anche degli imperfetti (lo contemplava, non distingueva, Si sorridevano) che disegnano lo «sfumato» dei sentimenti inespressi, dei pensieri che aleggiano sulla scena.

Leggiamo ora una pagina dei Ricordi dal sottosuolo (1864), di Fëdor Dostoevskij, pubblicato prima del

romanzo flaubertiano: oggettivismo e soggettivismo narrativo non sono due poetiche successive l’una all’altra, ma due modalità che convivono anche in una stessa epoca (e talora

persino in uno stesso autore). Nella pagina che riportiamo, l’io narrante descrive in prima persona la propria nevrosi.

Dostoevskij ■ NARRAZIONE in prima persona ■ il racconto è imperniato sul tempo presente, che incorpora però anche il passato e il futuro ■ l’occhio dell’AUTORE coincide con quello del personaggio ■ il LETTORE non può che immedesimarsi nella prospettiva dell’io narrante

_ SOGGETTIVISMO narrativo

Sono un malato... Sono un malvagio. Sono un uomo odioso. Credo d’aver male al fegato. Del resto non so un corno della mia malattia e non so con precisione dove ho male. Non mi curo e non mi son mai curato, sebbene tenga in gran conto la medicina e i medici. [...] Già da un pezzo vivo così, da vent’anni. Ora ne ho quaranta. Prima ero impiegato, ma adesso non lo sono più. Ero un impiegato cattivo. Ero sgarbato e ci provavo piacere. [...] Più su mi sono calunniato, quando ho detto che ero un impiegato cattivo. L’ho fatto per malvagità. [...] In realtà non m’è mai riuscito di diventare malvagio. Sentivo continuamente in me una quantità di elementi i più contrari a questo. Li sentivo ribollire in me, questi sentimenti contrari. Sapevo che per tutta la vita avevano ribollito e reclamato di venire alla luce, ma io non li ho lasciati venir fuori, non li ho lasciati, di proposito non li ho lasciati. [...] Io, non dico malvagio, ma niente son riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né ribaldo, né onesto, né eroe, né insetto. E ora trascino la vita nel mio angolo, tenendomi su colla maligna e magrissima consolazione che un uomo intelligente non può in verità diventar nulla e che solo gli sciocchi diventano qualcosa. [...] Tale è la convinzione che mi sono formata in quarant’anni. Io ora infatti ho quarant’anni, e quarant’anni sono tutta la vita; sono la vecchiaia più profonda. Ricordi dal sottosuolo, trad. di T. Landolfi

Loquace e introspettivo, l’io narrante di Dostoevskij si analizza senza pietà. Il suo pensiero fluttua liberamente in direzioni diverse, spesso contraddittorie, dal vittimismo all’amarezza, tra rassegnazione e rivolta, tra masochismo (verso se stesso) e sadismo (verso gli altri). Viene così alla luce una massa di sentimenti

mutevoli e contrari, spesso inconfessabili (il «sottosuolo» è per Dostoevskij la sede del male, «vecchio mostro inconoscibile» che corrisponde all’inconscio freudiano). L’«uomo del sottosuolo» è un «eroe» in negativo, un «antieroe», ben consapevole della propria abulia e mediocrità, che lo rendono sgradevole allo sguardo al-

monologo-confessione dell’io narrante, tra: • sensazioni • stati d’animo • riflessioni

TEMI ■ le intime contraddizioni del personaggio ■ la sua debolezza di carattere e inettitudine ■ fatti e azioni non esistono: sono riassorbiti in questo monologo

ESITO: viene alla luce il «sottosuolo» dell’io, l’inconscio, ma solo per frammenti e suggestioni

trui. Immerso in una società che lo respinge o lo esclude, incapace di emergere, costretto a procedere a tentoni, non gli resta che contemplarsi vivere, analizzarsi con intelligenza fin troppo lucida e spietata. È il prototipo dei tanti «antieroi» della narrativa novecentesca.

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Monografia Raccordo

Dostoevskij e il «sottosuolo» della vita interiore

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

L’AUTORE

LEV TOLSTOJ ◗ Nato nel 1828 a Jasnaja Poljana (Tula, una città a circa 150 km a sud di Mosca) da famiglia nobile, Tolstoj rimase presto orfano. Studiò lingue orientali, poi giurisprudenza, senza arrivare a laurearsi. Frequentò i salotti aristocratici di Mosca e San Pietroburgo; poi nel 1851 si volse alla carriera militare, che abbandonò dopo la guerra di Crimea (1855). Nacquero allora i Racconti di Sebastopoli (1855-56), realistica raffigurazione delle reazioni dei soldati di fronte alla guerra. Nel 1856-57, dopo aver offerto invano l’emancipazione ai suoi contadini, servi della gleba, viaggiò in Europa, dove venne in contatto con la letteratura occidentale e con esuli russi votati a idee di riforma sociale. Rientrò in patria nel 1858. ◗ Nel 1862 sposò Sof’ja Bers, dalla quale avrà tredici figli; si stabilì a Jasnaja Poljana, lontano dai centri mondani, dedicandosi con passione all’insegnamento a favore dei figli dei contadini. Nel 1865-69 pubblicò il vasto romanzo storico Guerra e pace e poi, nel 1875-77, Anna Karenina. Intanto la sua inquietudine esisten-

L’OPERA

ANNA KARENINA ◗ Il romanzo, dalla trama vasta e complessa, uscì sul «Messaggero russo» dal 1875 al 1877. Il tema dell’emancipazione femminile, ormai attuale in tutta Europa, viene incarnato dall’opera in un «carattere» pieno di vita, Anna: una donna volitiva, positiva, che il destino, o le abitudini di una società maligna, hanno voluto sposata a un freddo burocrate. Anna però si ribella a questa condizione: al convenzionalismo e alla morale preferisce l’amore; ed è disposta ad andare fino in fondo, fino a pagare con la vita. La sottigliezza di analisi psicologica si fonde, nel romanzo, con il quadro vitalissimo di un’intera struttura sociale, messa a nudo da Tolstoj con occhio chiaro, disincantato, per fare emergere la polemica contro un mondo che si è allontanato dal suo vero scopo: ovvero, secondo

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ziale e la sua sensibiità alle grandi questioni sociali sfociavano in un’intensa crisi spirituale: Tolstoj si staccò dalle istituzioni politiche e dalla chiesa ortodossa ed elaborò una concezione religiosa e morale fondata sui valori di solidarietà, non violenza, povertà, tipici del cristianesimo primitivo. ◗ Cresceva intanto il suo prestigio morale e letterario, anche fuori della Russia; nella sua casa di Jasnaja Poljana riceveva visite da intellettuali, religiosi, politici di ogni paese. Nel 1886, con il romanzo breve La morte di Ivan Ilicˇ diede voce altissima al tema dell’avvicinamento alla morte. L’ultimo romanzo fu Resurrezione (1899), i cui diritti d’autore vennero ceduti ai contadini; l’opera esprimeva una passionale protesta contro la Russia zarista e le sue decadenti istituzioni, inclusa la chiesa ortodossa; perciò nel 1901 Tolstoj fu scomunicato. Entrato in contrasto con la moglie e con una parte dei figli, il 28 ottobre 1910 abbandonò, vecchio e malato, la sua casa, ma dopo pochi giorni dovette fermarsi alla piccola stazione di Astapovo, dove morì il 7 novembre.

l’autore, l’amore, il cristianesimo. ◗ Anna è una signora dell’alta società, sposata senza amore a un alto funzionario della burocrazia imperiale. A Mosca conosce un giovane e brillante ufficiale, il conte Aleksej Vronskij, che fa nascere in lei il desiderio di un amore autentico. Ma Vronskij si rivelerà un individuo ambizioso e povero di genuina sostanza interiore. Anna cerca di vincere la propria passione senza riuscirci. Entra in contrasto con il marito, che infine abbandona, con l’amato figlio Serëza, per seguire l’amante all’estero. Presto subentrano in Anna il tormento della gelosia e il timore di essere abbandonata da Vronskij; quell’amore adultero, infatti, penalizza l’uomo nei rapporti sociali e nelle possibilità di carriera. Tra i due amanti le incomprensioni crescono. Anna sente che non

quest’ultimo, autobiografico): il loro rapporto mostra come, pur in un mondo corrotto e irresponsabile, si può comunque vivere con princìpi sani e solidi. Infelice è invece Dolly, madre amorevole di molti figli, ma sofferente per i numerosi tradimenti di cui è fatta segno dal marito Stepan (fratello di Anna), uomo gaudente e leggero.

Lev Tolstoj

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La fine di Anna Anna Karenina, parte VII, capitoli 30 e 31 Anno: 1875-77 Temi: • la solitudine della protagonista • il suo sentimento di estraneità rispetto al mondo • l’affollarsi, nella mente, di ricordi, idee, sensazioni Siamo all’epilogo del romanzo. Anna pensa di non essere più amata da Vronskij. Ha avuto con lui un diverbio; poi, pentita, gli ha scritto un biglietto, in cui lo prega di ritornare per una spiegazione. Vronskij però non ha ricevuto il messaggio, quindi Anna si è recata a visitare la cognata Dolly. Da qui, ora, fa ritorno a Mosca con la ferrovia: vuole incontrare di persona l’amante. Ma all’arrivo troverà un servitore di Vronskij, con l’annuncio che il suo padrone non potrà giungere da lei prima delle dieci. La delusione, l’inquietudine, la frustrazione sconvolgeranno la mente della protagonista, fino a indurla al gesto fatale e senza rimedio.

Anna è un personaggio inquieto, «eccessivo»

un primo, forte segnale di estraneità rispetto a coloro che la circondano

Dirigendosi fra la folla verso la sala d’aspetto di prima classe, ella riandava con la mente a tutti i particolari della sua situazione, a tutte le decisioni fra cui ondeggiava. E di nuovo ora la speranza, ora la disperazione cominciarono, nei soliti punti dolenti, ad avvelenare le ferite del suo cuore tormentato, che batteva paurosamente. Seduta su di un divano a forma di stella, in attesa del treno, guardando con ripugnanza quelli 5 che entravano e uscivano (tutti erano disgustosi per lei), pensava ora come sarebbe arrivata alla stazione, o come gli1 avrebbe scritto un biglietto e cosa gli avrebbe scritto, ora come adesso egli si lamentasse con la madre della propria situazione (senza rendersi conto delle sofferenze di lei) e come lei sarebbe entrata nella stanza2 e cosa gli avrebbe detto. Ora pensava come avrebbe potuto essere ancora felice la vita e come lo 10 amasse e lo odiasse tormentosamente, e come paurosamente le battesse il cuore. Squillò un campanello,3 e passarono alcuni giovani, orribili, insolenti e frettolosi, nello stesso tempo intenti a cogliere l’impressione che producevano. Passò anche Pëtr4 attraverso la sala, con le ghette e la livrea,5 il viso ottuso e animalesco, e si avvicinò a lei per accompagnarla al treno. Gli uomini rumorosi fecero silenzio, mentre 15 ella passava accanto a loro sulla banchina, e uno di loro mormorò qualcosa dietro di

1. gli: a Vronskij. 2. nella stanza: di Vronskji. Dunque Anna, a questo punto del racconto, non sta ancora pensando di uccidersi.

3. un campanello: il primo segnale della partenza del treno. 4. Pëtr: un servo che aiuta Anna a trasportare i bagagli.

5. le ghette e la livrea: l’uniforme da domestico; le ghette sono gambali di tessuto fissate alle scarpe.

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Monografia Raccordo

sarà mai felice, che nessuno le perdonerà di aver osato difendere i suoi sentimenti, spezzando vincoli umilianti e ingiusti. Un giorno segue il suo istinto e si getta sotto le ruote di un treno. Vronskij, sconvolto, partirà per la guerra di Crimea. ◗ Tra gli altri panorami di vita familiare, spicca l’amore di Kitty e Levin (personaggio,

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

nella percezione distorta di Anna, gli oggetti della realtà sembrano caricarsi di vita propria

Anna è terrorizzata perché il contadino le ricorda un incubo ricorrente; un attimo prima di morire l’ultima figura umana che vedrà sarà un contadino un’oscura paura, quasi un seguito dell’incubo che l’ha spaventata nella notte precedente

questo continuo insistere sui rumori esterni imprime alla pagina un ritmo martellante, nevrotico

partito il treno, Anna è rimasta sola con i suoi pensieri, a fronteggiare le voci della sua coscienza

lei a un altro, qualcosa, si intende, di volgare. Ella salì sull’alto predellino e sedette sola in uno scompartimento su di un sudicio divano a molle che una volta era stato bianco. Il sacchetto rimbalzò sulle molle, e poi si fermò. Pëtr, in segno di addio, si tolse, presso il finestrino e con un sorriso ebete, il suo cappello gallonato;6 un capo- 20 treno insolente sbatté la porta e abbassò la maniglia. Una signora sgraziata, con un vestito ridicolmente ampio7 dietro (Anna col pensiero denudò quella donna e inorridì della sua deformità), con una bambina che rideva forzatamente, passarono di corsa lì sotto. 25 – Da Katerina Andreevna, sempre da lei, ma tante8 – gridò la bambina. «La bambina, anche quella è sfigurata e smorfiosa» pensò Anna. Per non vedere nessuno si alzò svelta e sedette accanto al finestrino opposto nello scompartimento vuoto. Un informe contadino sudicio, con un berretto di sotto al quale spuntavano dei capelli arruffati, passò vicino a quel finestrino, chino verso le ruote della vettura. «C’è qualcosa di noto in questo informe contadino» pensò Anna. E, ricordatasi del 30 sogno,9 si allontanò, tremando di paura, verso la parte opposta. Un capotreno apriva la porta, per fare entrare una coppia. – Desiderate uscire? Anna non rispose. Il capotreno e quelli che erano entrati non notarono, sotto il velo, il terrore sul viso di lei. Ella tornò nel suo angolo e sedette. La coppia sedette dal- 35 la parte opposta, esaminando con attenzione, sott’occhio, il vestito di lei. Sia il marito che la moglie sembravano ripugnanti ad Anna. Il marito domandò il permesso di fumare, evidentemente, non per fumare, ma per intavolare discorso con lei. Ottenutone il consenso, si mise a dire in francese alla moglie che ancor più che di fumare, aveva bisogno di parlare. Parlavano, fingendo, di sciocchezze, sol perché lei sentisse. 40 Anna vedeva chiaramente che erano annoiati l’uno dell’altra e che si odiavano a vicenda. E non potevano non odiarsi simili pietosi esseri deformi. Si sentì un secondo campanello seguito da un trasportar di bagagli, da grida e da risate. Per Anna era così chiaro che nessuno aveva di che rallegrarsi, che quelle risate la irritarono fino a farla soffrire e le venne la voglia di tapparsi le orecchie per non 45 sentirle. Finalmente squillò un terzo campanello, echeggiò un fischio, si sentì uno stridio di catene, una forte scossa e il marito si fece il segno della croce.10 «Sarebbe interessante chiedergli cosa intende con questo» pensò Anna con cattiveria. Guardando di fianco alla moglie, ella osservava attraverso il finestrino le persone che avevano accompagnato i congiunti al treno e che stavano in piedi sulla banchina, e pa- 50 reva proprio che andassero all’indietro. Scotendosi regolarmente sui binari, la vettura in cui era seduta Anna scivolò lungo la banchina, accanto a un muro di pietra, a un disco e ad altre vetture; con un suono sottile le ruote risonarono più scorrevoli e più oleate sulle rotaie; il finestrino s’illuminò del sole vivido della sera e un vento leggero si mise a giocare con la tendina. Anna dimenticò i suoi vicini di vagone e, al 55 leggero dondolio della corsa, aspirando l’aria fresca, si mise di nuovo a pensare. «Sì, a che punto mi son fermata? Al fatto che non riesco a inventare una situazione

6. gallonato: con il distintivo (della casa nobiliare in cui è a servizio). 7. ridicolmente ampio: secondo la moda femminile di allora, il vestito era allargato posteriormente con lo «sgonfio» o «sbuffo»

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(un rigonfiamento sorretto da un cerchio interno). 8. ma tante: mia zia (lo dice in francese, la lingua dell’aristocrazia russa). 9. del sogno: in precedenza Anna aveva

sognato un contadino mentre batteva del ferro e mormorava parole in francese. 10. il segno della croce: perché il treno sta partendo; si raccomanda a Dio per il viaggio.

il monologo interiore della donna dà vita a pensieri di solitudine e di estraneità assolute

l’oppressione della folla rivela tutto il disagio interiore del personaggio

questo chi è Vronskij, evidentemente, ma nella mente di Anna si produce una dissociazione, che distorce la realtà

11. luce: attenzione. 12. E perché... candela: già in una notte insonne, Anna aveva osservato con paura il lento estinguersi di una candela; il simbolo tornerà nella scena finale del romanzo.

13. traversa: stanga di legno trasversale rispetto ai binari. 14. per: per conto del. 15. com’è: com’è di aspetto (per riconoscerle).

16. Michajla: il servo messaggero da parte di Vronskij. 17. pastrano turchino e la catena: cappotto rosso guarnito di catena, come si usava.

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Monografia Raccordo

la frase pronunciata dalla sconosciuta diviene un leitmotiv interiore per Anna

in cui la vita non sia un tormento, che noi tutti siamo creati per tormentarci, e che noi tutti lo sappiamo e tutti inventiamo dei mezzi per ingannarci. E quando si vede la verità, che mai si può fare?». 60 – La ragione è data all’uomo per liberarsi di quello che lo inquieta – disse in francese la signora, evidentemente soddisfatta della propria frase e facendo smorfie con la lingua. Queste parole parvero rispondere al pensiero di Anna. «Liberarsi di quello che lo inquieta» ripeté Anna. E, guardando il marito dalle 65 guance rosse e la moglie magra, ella capì che la moglie malaticcia si considerava una donna incompresa e che il marito la ingannava, mantenendo in lei questa opinione su se stessa. Ad Anna pareva di vedere la loro storia e tutti gli angoli remoti dell’anima loro, mentre spostava su di essi la sua luce.11 Ma lì non c’era nulla di interessante, e continuò il suo pensiero. 70 «Sì, mi agita molto, e la ragione è data per liberarsene; perciò bisogna liberarsene. E perché non spegnere la candela,12 quando non c’è più nulla da guardare, quando fa ribrezzo guardare tutto? Ma come? Perché questo capotreno è passato di corsa sulla traversa?13 perché gridano quei giovani, in quello scompartimento? Perché parlano, perché ridono? Tutto è menzogna, tutto inganno, tutto malvagità...». 75 Quando il treno entrò in stazione, Anna uscì tra la folla degli altri passeggeri e, allontanandosi da loro come da lebbrosi, si fermò sulla banchina, cercando di ricordare perché era arrivata là e cosa avesse intenzione di fare. Tutto quello che prima le sembrava possibile, adesso era così difficile a considerarsi, specialmente tra la folla rumoreggiante di tutte quelle persone deformi, che non la lasciavano in pace. Ora i 80 facchini accorrevano da lei, offrendole i loro servigi, ora dei giovani, battendo coi tacchi le assi della banchina e discorrendo forte, la esaminavano, ora quelli che venivano incontro si facevano di lato non dalla parte giusta. Ricordatasi che voleva proseguire, se non ci fosse stata risposta, fermò un facchino e domandò se era venuto un cocchiere con un biglietto per14 il conte Vronskij. 85 – Il conte Vronskij? Per incarico suo sono stati qui proprio ora. Venivano incontro alla principessa Sorokina con la figlia. E il cocchiere com’è?15 Mentre ella parlava col facchino, Michajla,16 rosso e allegro, con un elegante pastrano turchino e la catena,17 evidentemente orgoglioso d’avere eseguito così bene la commissione, le si avvicinò e le porse un biglietto. Ella aprì e il cuore le si strinse an- 90 cor prima di leggere. «Mi dispiace molto che il biglietto non m’abbia trovato. Verrò alle dieci» scriveva Vronskij con una scrittura trascurata. «Ecco! Me l’aspettavo!» si disse con un sorriso cattivo. – Va bene, allora va’ a casa – disse piano, rivolta a Michajla. Ella parlava piano per- 95 ché la rapidità dei battiti del cuore le impediva di respirare. «No, non ti permetterò di tormentarmi» ella pensò, rivolta con minaccia, non a lui, né a se stessa, ma a chi le imponeva di tormentarsi, e si incamminò per la banchina lungo la stazione.

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

Anna si sente frugare dentro, messa a nudo nel suo disagio psicologico, e non resiste

un oscuro ricordo riemerge dall’inconscio e determina il destino della protagonista

un gesto insolito per una suicida, ma che ha il sapore di un’estrema purificazione

in un attimo le passa davanti tutta la sua esistenza: la candela è il simbolo della durata della vita e del suo spegnersi; il libro rappresenta tutti gli eventi della vita di Anna e anche la capacità di «leggere» in essa

Due cameriere che camminavano sulla banchina si voltarono a guardarla, facendo ad alta voce qualche apprezzamento sul suo vestito: «sono veri» dissero dei pezzi 100 ch’ella aveva addosso. I giovani non la lasciavano in pace. Di nuovo le passarono accanto, guardandola in viso e gridando fra le risa qualcosa con voce contraffatta. Il capostazione, passando, le domandò se partiva. Un ragazzo, venditore di kvas,18 non le toglieva gli occhi di dosso. «Dio mio, dove andare?» ella pensava, allontanandosi sempre più sulla banchina. Alla fine si fermò. Le signore e i bambini, che erano ve- 105 nuti a incontrare un signore con gli occhiali e che ridevano e parlavano forte, tacquero, esaminandola, quand’ella giunse alla loro altezza. Ella affrettò il passo e si allontanò da loro verso l’orlo della banchina. Si avvicinava un treno merci. La banchina si mise a tremare e a lei parve d’essere di nuovo in viaggio. E a un tratto si ricordò dell’uomo schiacciato19 al suo primo incontro con Vronskij 110 e capì quello che doveva fare. Dopo essere scesa con passo veloce, leggero, per i gradini che andavano verso le rotaie, si fermò accanto al treno che le passava vicinissimo. Guardava la parte sottostante dei carri, le viti e le catene e le ruote alte di ghisa del primo carro che scivolava lento, e cercava di stabilire con l’occhio il punto mediano fra le ruote anteriori e le posteriori e il momento in cui questo punto mediano 115 sarebbe stato di fronte a lei. «Là – si diceva, guardando nell’ombra del carro la sabbia mista a carbone di cui erano sparse le traverse – là, proprio nel mezzo, e lo punirò, e mi libererò da tutti e da me stessa». Voleva cadere sotto il primo vagone che giungesse alla sua altezza nel punto me- 120 diano; ma il sacchetto rosso che aveva preso a togliere dal braccio la trattenne, ed era già tardi; il punto mediano le era passato accanto. Bisognava aspettare il vagone seguente. Un sentimento simile a quello che provava quando, facendo il bagno, si preparava a entrar nell’acqua, la prese, ed ella si fece il segno della croce. Il gesto abituale della croce suscitò nell’anima sua tutta una serie di ricordi verginali e infantili, e a 125 un tratto l’oscurità che per lei copriva tutto si lacerò, e la vita le apparve per un attimo con tutte le sue luminose gioie passate. Ma ella non staccava gli occhi dalle ruote del secondo vagone che si avvicinava. E proprio nel momento in cui il punto mediano fra le ruote giunse alla sua altezza, ella gettò indietro il sacchetto rosso, ritirò la testa fra le spalle, cadde sulle mani sotto il vagone e con movimento leggero, quasi 130 preparandosi a rialzarsi subito, si lasciò andare in ginocchio. E in quell’attimo stesso inorridì di quello che faceva. «Dove sono? che faccio? perché?». Voleva sollevarsi, ripiegarsi all’indietro, ma qualcosa di enorme, di inesorabile le dette un urto nel capo e la trascinò per la schiena. «Signore, perdonami tutto!» ella disse, sentendo l’impossibilità della lotta. Un contadino, dicendo qualcosa, lavorava su del ferro. E 135 la candela, alla cui luce aveva letto il libro pieno di ansie e di inganni, di dolore e di male, avvampò di una luce più viva che mai, le schiarì tutto quello che prima era nelle tenebre, crepitò, prese ad oscurarsi e si spense per sempre. L. Tolstoj, Tutti i romanzi, a cura e con introduzione di M.B. Luporini, Sansoni, Firenze 1967

18. kvas: una birra russa. 19. uomo schiacciato: da un treno. Anna

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aveva assistito alla tragedia proprio il giorno del suo primo incontro con Vronskij.

■ Siamo quasi alla fine del romanzo. È domenica e la protagonista sta recandosi in treno a un appuntamento con il suo amante, il conte Vronskij. Si siede in uno scompartimento, ascolta la conversazione di una coppia che parla francese e che le sembra alludere alla sua situazione personale. Tutto, intorno a lei, le pare ostile, sporco, senza senso. ■ Giunta alla stazione, Anna si sente schiacciare da una gran folla. Un servo di Vronskij le porge un biglietto: l’uomo potrà giungere solo più tardi. Per lei è l’ultima delusione. Dalla banchina assiste all’arrivo di un altro treno: osserva i mostruosi ingranaggi della carrozza che avanza e si getta sotto il treno, in un ultimo avvicendarsi d’immagini distorte (un contadino, una candela che si spegne). ■ Tolstoj segue l’evolversi dei pensieri e delle sensazioni del personaggio attraverso la nuovissima tecnica del monologo interiore, poi sviluppata dai successivi narratori del Novecento. Il monologo interiore descrive lo svolgersi casuale dei pensieri di Anna, spesso sollecitati da persone o oggetti che via via cadono sotto il suo sguardo. Sono, per lei, momenti di grande emozione; impressioni, idee e propositi si agitano convulsamente nel suo cuore tormentato, che batteva paurosamente (r. 4). ■ La pagina conclusiva del romanzo sottolinea la grande solitudine in cui è sprofondata Anna. Pur essendo una donna estroversa e brillante, ella è stata respinta dal mondo ai margini di tutto. Perciò, ora, sente ogni cosa come estranea a sé, mostruosa, ostile. Emerge man mano un motivo centrale, molto doloroso per la protagonista, cioè l’impossibilità del suo amore. Ella lo proietta su tutti gli uomini, che le paiono al mondo solo per odiarsi a vicenda. E così, in un luogo affollato come una stazione, il lettore percepisce quasi esclusivamente la solitudine del personaggio e la sua ripugnanza fisica rispetto a tutto quanto la circonda. È in questo contesto che matura in Anna l’idea del suicidio. ■ Tolstoj non condanna in modo netto il suo personaggio. Egli considera Anna degna di pietà: ha già abbondantemente espiato l’errore commesso con il suo tormento e la sua solitudine. Una conferma viene dalla sentenza della Bibbia (più precisamente dal Libro di Giobbe) posta in epigrafe al romanzo: «A me la vendetta, io darò la retribuzione». Essa indica l’incapacità degli uomini a giudicare e l’imperscrutabilità del volere di Dio. D’altra parte la stessa Anna, proprio nel momento in cui sta per sprofondare nella morte, si pente e chiede perdono («Signore, perdonami tutto!»).

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Il passo letto è ricco di particolari simbolici, che assumono senso in rapporto a elementi precedenti. Tra questi particolari ne spiccano due: l’informe contadino sudicio; la candela che si spegne. Individuali nel testo. 2. L’ultimo pensiero coerente di Anna (non riesco a inventare una situazione in cui la vita non sia un tormento […]. E quando si vede la verità, che mai si può fare?) formula un quesito al quale sembra casualmente dare risposta la sconosciuta passeggera che siede di fronte a lei. • In che senso quello citato è anche «l’ultimo pensiero coerente di Anna»? ....................................................................................................... ....................................................................................................... • Quale risposta alla sua situazione sembra ad Anna provenire dalla frase della passeggera? ....................................................................................................... ....................................................................................................... 3. Negli ultimi capoversi l’attenzione della protagonista si fissa totalmente sul treno; il narratore lascia spazio solo ai sensi, quasi la coscienza del personaggio avesse un’interruzione. Rileggi il testo per ritrovare questa prevalenza degli elementi «materiali» e percettivi: sottolinea i termini e le espressioni che ti sembrano più eloquenti in tal senso. 4. Tutto, nel brano, viene visto e raccontato attraverso la prospettiva soggettiva di Anna, attraverso i suoi occhi e il suo stato d’animo. Quali elementi in particolare confermano questa impressione? 5. Tolstoj è ricordato come un grande scrittore del «realismo psicologico». • Quali elementi nel brano sono riferibili al realismo di fondo che caratterizza l’opera di Tolstoj? • Quali altri aspetti possono invece giustificare la definizione di «realismo psicologico»? 6. Gli studiosi hanno più volte accostato la figura di Anna Karenina a quella di un’altra grande protagonista della narrativa di quell’epoca, ovvero la Emma Bovary di Flaubert: entrambe incarnano il profilo della fallen lady, la «donna perduta», frequente nella narrativa di fine Ottocento (la ritroviamo, per esempio, anche nei romanzi dell’americano Henry James). Prova a confrontare i due personaggi rispondendo a queste due domande (max 20 righe). • Quali elementi le accomunano soprattutto? • E quali invece le rendono a tuo giudizio differenti?

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Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Leggere l’arte I ritratti interiori dell’Espressionismo L’individuo e le sue contraddizioni al centro dell’opera d’arte La ricca dimensione psicologica dei personaggi descritti nei romanzi di inizio Novecento ha un corrispettivo nella pittura dell’epoca. In particolare gli espressionisti ci hanno dato dei ritratti di grande intensità figurativa. Osserviamo, per esempio, l’autoritratto dipinto dal pittore austriaco Egon Schiele (1890-1918) nel 1911. L’artista vi appare vestito di nero, quasi con un saio da monaco; lo sfondo resta imprecisato (potrebbe essere il suo studio o uno scorcio di paesaggio), perché l’occasione interessa solo come uno spunto per liberare la creatività, l’invenzione. In primo piano il personaggio sembra premere contro la tela, quasi si sforzasse di uscire da essa: la tensione produce soffocamento, come in uno spazio claustrofobico. Schiele ci comunica un senso di oppressione, come un flusso vitale interrotto o spezzato, che ritroviamo in tanti altri personaggi narrativi di primo Novecento. Notiamo anche le membra contratte, le dita divaricate, gli occhi troppo grandi e spiritati, le stesse labbra, tumide ed esagerate: a Schiele interessa deformare le linee, in una cura del dettaglio nella quale si perde l’armonia, caratteristica della pittura tradizionale. E non avviene forse così anche per le narrazioni esageratamente individualizzanti, asimmetriche, un po’ maniacali della letteratura decadente e postdecadente?

■ Oskar Kokoschka, Autoritratto con il pennello alzato, 1913-14, pittura, 108,5x70 cm, Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen.

■ Egon Schiele, Autoritratto, 1911, olio su legno, 27,5x34 cm, Vienna Historisches Museum der Stadt.

La rappresentazione dell’interiorità Nell’autoritratto di un altro pittore austriaco, Oskar Kokoschka (1886-1980), l’artista appare quasi un santo, con la figura allungata (secondo un modulo che risale al XVI secolo e a pittori come El Greco e Tintoretto), vestito di abiti scuri, dimessi, sullo sfondo (forse) del suo atelier. Una luce spettrale mette a fuoco i suoi lineamenti assorti, pensosi: il perso692

naggio ci sembra in attesa di una rivelazione che può giungere da un momento all’altro: e l’artista la aspetta, vibrante, con il pennello alzato, pronto a tradurla in forme e colori. Anche qui, siamo da-

vanti a un ritratto tutto interiore, in cui ciò che interessa non è la descrizione dell’aspetto fisico, ma la rivelazione di ciò che si agita dentro l’anima e la vita del personaggio.

THOMAS MANN ◗ Thomas Mann nacque nel 1875 a Lubecca, nella Germania settentrionale, da un ricco commerciante di grano, senatore della città, e da Julia Da Silva Bruhns, di origini brasiliane e di temperamento artistico. A sedici anni perse il padre; la famiglia liquidò la ditta e si divise: la madre andò a Monaco con due sorelle, Julia e Carla (che moriranno suicide); Heinrich, il fratello maggiore, egli pure scrittore, si trasferì a Roma. ◗ Thomas restò a Monaco fino al 1896, poi raggiunse il fratello in Italia, dove cominciò a lavorare al romanzo I Buddenbrook, pubblicato nel 1901 con successo. Nel frattempo era ritornato in Germania, dove nel 1905 sposò Katja Pringsheim, da cui ebbe subito una figlia. Pubblicò nel 1912 il romanzo breve Morte a Venezia. Per curare la moglie, soggiornò con lei nel sanatorio di Davos, in Svizzera, dove concepì la prima idea del futuro romanzo La montagna incantata, pubblicato nel 1924. A causa delle proprie posizioni conservatrici, nel 1916 Mann aveva rotto ogni rapporto con il fratello Heinrich,

L’OPERA

ma nel 1922 si schierò invece a favore della repubblica di Weimar e della democrazia. ◗ Nel 1929 ricevette il premio Nobel per la letteratura. Tra il 1926 e il 1930 compì viaggi a Parigi, in Egitto e in Palestina; nel 1933 pubblicò il primo volume della tetralogia (ciclo di quattro romanzi) Giuseppe e i suoi fratelli, ispirata dalla Bibbia. ◗ Nel febbraio 1933 partì per alcune conferenze all’estero su Wagner; dopo l’incendio del Reichstag a opera dei nazisti, decise di non ritornare in patria. L’esilio lo condusse in Belgio, Olanda, Francia, Svizzera e nel 1938 negli Stati Uniti. Insegnò a Princeton, poi in California, da dove lanciò ai compatrioti radiomessaggi anti-hitleriani. Uscito nel 1943 l’ultimo volume di Giuseppe, prese nel 1944 la cittadinanza americana. Cominciò intanto a lavorare al romanzo Doktor Faustus, pubblicato nel 1947; l’opera adombra la vicenda storica della Germania sotto il giogo del nazismo. Nel 1952 lo scrittore si stabilì a Kilchberg, presso Zurigo, in Svizzera, dove morì nel 1955.

I BUDDENBROOK ◗ Pubblicato nel 1901, secondo il progetto iniziale il romanzo voleva raccontare, come rivelò il fratello Heinrich, «la vita dei genitori e degli antenati, indietro nel tempo fino a generazioni la cui storia ci era stata tramandata da altri o da loro stesse». Per descrivere la vita quotidiana tra il 1835 e il 1875 circa, l’autore si documentò con precisione, attingendo ai ricordi della madre e di altri parenti. Come i Mann, anche i Buddenbrook sono un’agiata famiglia di commercianti di grano a Lubecca, dove posseggono, come i nonni paterni dell’autore, una casa antica nel cuore della città; sono circondati da parenti e amici, in una cornice di rispettabilità e potenza conquistate grazie all’ascesa economica. ◗ Il console Johann Buddenbrook, nel 1835 già

settantenne, incarna lo spirito borghese, pratico ed efficiente, che attraverso gli affari ha costruito una sicura azienda di commerci. È un uomo solido fisicamente e psicologicamente, di cultura e raffinato, scettico in materia di religione. Suo erede dell’attività mercantile e continuatore della stirpe è il figlio Johann II (o Jean). Egli è ancora all’altezza del compito assunto di essere «un anello della catena» che trasmette la «tradizione provata e veneranda». Nei suoi quattro figli si percepiscono però i sintomi inequivocabili della decadenza: i mali fisici di Christian, due matrimoni falliti per Antonie (detta Tony), una morte ancor giovane per Klara. Il primogenito Thomas nasconde, dietro l’elegante autocontrollo, una tensione drammatica, generata dai primi dub693

Monografia Raccordo

L’AUTORE

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

bi sui valori dell’etica borghese. Con lui giunge al culmine il successo negli affari dei Buddenbrook. L’elezione di Thomas a senatore innalza il loro prestigio politico e sociale. ◗ Thomas sposa però Gerda, una bella olandese, appassionata musicista, estranea al sano realismo della famiglia. Nel loro figlio,

Hanno, si compie la parabola discendente (la «decadenza») della famiglia: l’erede atteso, oggetto di tante speranze, è debole e malato nel corpo, svogliato e sconfitto nella vita pratica, misteriosamente attratto dalla musica, votato a un’esistenza breve e sofferta; morirà infatti di tifo a soli vent’anni.

Thomas Mann

3

Hanno Buddenbrook I Buddenbrook, parte X, capitolo 2 Anno: 1901 Temi: • la decadenza di una famiglia e dei suoi valori tradizionali • l’eccesso di sensibilità • l’impossibilità, di conseguenza, di vivere una solida esistenza borghese Leggiamo il ritratto del giovane Hanno (diminutivo di Johann), figlio del senatore Thomas e ultimo rampollo dei Buddenbrook: un ragazzo timido e solitario, inadatto a continuare la tradizione della grande famiglia borghese da cui proviene.

un destino già scritto, che non tiene conto delle inclinazioni del ragazzo

i primi segni di debolezza e inettitudine

le caratteristiche somatiche (capelli castani, occhi bruni dorati) simboleggiano la lontananza di Hanno dalla normalità, rappresentata da capelli biondi e occhi azzurri

Hanno, undicenne, a Pasqua era stato promosso in quarta, come il suo amico, il piccolo conte Mölln, a fatica e con due esami di riparazione in matematica e geografia. Era deciso che avrebbe frequentato la scuola tecnica, sembrando naturale che dovesse diventare commerciante per dirigere in futuro la ditta; alle domande di suo padre, se gli piacesse la futura professione, rispondeva con un sì... con un semplice sì, 5 schivo, senza aggiunte, che il senatore con ulteriori insistenti domande cercava di far diventare un po’ più vivace ed eloquente – ma quasi sempre invano. Se il senatore Buddenbrook1 avesse avuto due figli, allora avrebbe certamente mandato il più giovane al ginnasio2 e poi all’università. Ma la ditta aveva bisogno di un continuatore e, a parte ciò, lui era convinto di fare un piacere al piccolo, evitan- 10 dogli gli inutili sforzi del greco. Era dell’opinione che il programma della scuola tecnica fosse più facile per Hanno, data la sua frequente lentezza nell’apprendere, la sognante distrazione e la delicata corporatura, che lo costringeva troppo spesso a perdere giorni di scuola; avrebbe superato la scuola tecnica con minor sforzo, più rapidamente e con maggior successo. Se un giorno il piccolo Johann Buddenbrook do- 15 veva svolgere quel lavoro a cui era destinato e che i suoi si aspettavano da lui, si doveva pensare a irrobustirlo e a fortificare la sua debole costituzione, circondandolo di riguardi da un lato, e rinvigorendolo con cure razionali dall’altro... Con quei capelli castani che ora portava con la riga da una parte e spazzolati all’indietro sulla fronte bianca, che però tendevano lo stesso a cadergli in morbidi boccoli 20 sulle tempie, con le lunghe sopracciglia marroni e gli occhi bruni dorati, Johann Buddenbrook si notava nel cortile della scuola e per strada, perché malgrado il vestito alla marinara aveva sempre un’aria straniera tra i suoi compagni, tipi scandinavi

1. il senatore Buddenbrook: il padre di Hanno.

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2. al ginnasio: cioè non nella scuola tecnica, che invece il ragazzo frequentava.

gli antagonisti di Hanno posseggono qualità opposte alle sue

questo carattere orgoglioso non lo aiuta nella vita pratica

i cardini della solida educazione positivisticoborghese di fine Ottocento

3. il piccolo Kai: il conte Mölln; è amico di Hanno e non partecipa ai giochi ginnici,

perché insofferente della disciplina. È perciò malvisto dal padre di Hanno.

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Monografia Raccordo

con capelli biondo chiaro e occhi azzurri. Negli ultimi tempi era abbastanza cresciuto, ma le gambe nelle calze nere e le braccia nelle maniche a sbuffo blu scuro e tra- 25 puntate erano sottili e delicate come quelle di una bambina; e ancora c’erano le ombre azzurrine negli angoli degli occhi – quegli occhi che, specialmente quando guardavano di lato, avevano un’espressione esitante ed elusiva, mentre teneva chiusa la bocca nello stesso modo malinconico o mentre strofinava pensierosamente la punta della lingua su un dente sospetto, con le labbra leggermente deformate e 30 l’espressione di chi ha freddo... [...] Olio di fegato di merluzzo e olio di ricino erano buone cose, ma, e su questo il dottor Langhals e il senatore concordavano, non bastavano per fare del piccolo Johann un uomo robusto e resistente, se non vi contribuiva lui stesso. C’erano per esempio «i giochi ginnici» organizzati dal maestro di ginnastica, il signor Fritsche, durante il pe- 35 riodo estivo ogni settimana, fuori sul Burgfeld, che offrivano l’occasione alla gioventù maschile della città di mostrare e di coltivare il coraggio, la forza, l’abilità e la presenza di spirito. Ma, provocando la collera di suo padre, Hanno mostrava solo antipatia per quella sana attività, una muta, riservata e quasi superba antipatia... [...] Qualche volta però Hanno andava ai «giochi ginnici», quando era un ordine preci- 40 so e severo di suo padre, e allora il piccolo Kai3 lo accompagnava. Lo stesso accadeva con il pattinaggio d’inverno e con i bagni giù al fiume d’estate, nello stabilimento del signor Asmussen... «Fare il bagno! Nuotare!» aveva raccomandato il dottor Langhals. «Il giovanotto deve fare i bagni e nuotare!» E il senatore concordava pienamente. Ma il motivo per cui Hanno rimaneva per quanto possibile 45 lontano dai bagni, come dal pattinaggio e dai «giochi ginnici», era che i due figli del console Hagenström, che partecipavano con onore a tutti quegli esercizi, l’avevano preso di mira e, sebbene abitassero nella casa di sua nonna, non perdevano occasione di umiliarlo e di tormentarlo con la loro forza. Lo pizzicavano e lo prendevano in giro ai «giochi ginnici», lo spingevano sui mucchi di neve sulla pista del pattinaggio, 50 nella piscina nuotavano verso di lui con grida minacciose... Hanno non tentava di sfuggire, e d’altronde sarebbe servito a ben poco. Restava in piedi, con quelle sue braccia da femminuccia, immerso fino alla pancia in quell’acqua piuttosto torbida, sulla cui superficie vagavano di tanto in tanto delle piantine verdi, e con le sopracciglia aggrottate, lo sguardo abbassato e le labbra leggermente storte, guardava cupa- 55 mente, verso i due che, sicuri della loro preda, si avvicinavano con lunghi salti fra spuma e spruzzi. Che braccia muscolose avevano i due Hagenström! Con quelle lo afferravano e lo immergevano a lungo, in modo da fargli bere molta di quell’acqua sporca, cosicché per lungo tempo dopo si contorceva e ansimava affannato... [...] Cibi sostanziosi ed esercizi fisici di ogni genere – questo era alla base delle premu- 60 re che il senatore Buddenbrook aveva per suo figlio. Ma non meno attentamente mirava ad influenzarlo spiritualmente e a farlo partecipe anche di vive impressioni della vita pratica alla quale era destinato. Cominciò a introdurlo un po’ nel ramo della sua futura attività, lo portava con sé nei giri d’affari, giù al porto, e lo teneva al suo fianco quando chiacchierava sulla 65 banchina con gli scaricatori, in danese o in dialetto, o quando conferiva con gli amministratori negli scuri uffici dei magazzini, o fuori, quando impartiva ordini agli

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

l’ambiente sociale che circonda la famiglia emerge solo per le impressioni che il ragazzo ne riceve

la capacità di «visione» di Hanno compensa la sua inettitudine alla vita pratica Thomas vuole mostrare ai concittadini che i Buddenbrook non sono dei «vinti»; ma egli presagisce la fine una stanchezza non solo fisica, ma anche spirituale: quasi un presentimento di morte

uomini che issavano grossi sacchi nei granai con grida cupe e trascinanti... Per Thomas Buddenbrook, già fin da piccolo quella parte del mondo, giù al porto, tra navi, depositi e magazzini, fra l’odore di burro, pesce, acqua, catrame e ferro lubrificato, 70 era stato sempre il luogo più interessante e prediletto; e dato che suo figlio non esprimeva da solo né piacere, né partecipazione, toccava a lui suscitarglieli... Come si chiamavano i battelli a vapore che facevano servizio per Copenhagen? Najaden... Halmstadt... Friederike Oeverdieck... «Bene, almeno conosci questi, ragazzo mio, è già qualcosa. Imparerai anche gli altri... Sai, tra la gente che tira su i sacchi ci sono molti 75 che si chiamano come te, mio caro, perché sono stati battezzati con il nome di tuo nonno. E tra i loro figli si sente spesso il mio nome... e anche quello della mamma... Perciò ogni anno facciamo loro un regalino... Passiamo oltre questo magazzino, non parliamo con gli uomini, non è il caso: è la nostra concorrenza...» «Vuoi venire con me, Hanno?», chiese un’altra volta... «Una nave nuova che farà 80 parte della nostra compagnia viene varata oggi pomeriggio. Sarò io a battezzarla... Ti piacerebbe accompagnarmi?» E Hanno mostrò di provar piacere. L’accompagnò e sentì il discorso di suo padre. Guardò come la bottiglia di champagne si fracassava contro la prua e con occhi assenti seguì la nave scivolare giù sul piano inclinato, spalmato di sapone verde, e sol- 85 levare nell’acqua alte onde spumeggianti... In giorni particolari dell’anno, la domenica delle Palme, quando hanno luogo le cresime, oppure a Capodanno, il senatore Buddenbrook faceva in carrozza un giro di visite alle famiglie con le quali era socialmente legato, e dato che sua moglie preferiva non venire adducendo a scusa i nervi e la cefalea, chiedeva ad Hanno di ac- 90 compagnarlo. E, anche in queste occasioni, Hanno dichiarava che gli faceva piacere. Saliva in carrozza con suo padre, nei salotti gli si sedeva accanto muto, osservando con occhi tranquilli il suo comportamento così disinvolto, pieno di tatto, così vario e accuratamente calibrato rispetto agli interlocutori. [...] Però il piccolo Johann vedeva più di quanto avrebbe dovuto vedere, e i suoi occhi, 95 quei timidi occhi bruno dorati, con le ombre azzurrine, penetravano anche troppo acutamente. Lui non vedeva soltanto la sicura amabilità che suo padre elargiva a tutti, vedeva anche – lo vedeva con sguardo perspicace e tormentato – quanto gli costava, come suo padre dopo ogni visita diventasse più taciturno, più pallido, come si rincantucciasse nella carrozza con gli occhi chiusi, e le palpebre arrossate: con lo sgo- 100 mento nel cuore vedeva che sulla soglia della casa successiva calava una maschera proprio su quello stesso viso e una nuova elasticità rianimava i movimenti di quel corpo stanco... Quel presentarsi, parlare, comportarsi, essere attivo e agire tra la gente, non si presentava al piccolo Johann come un modo naturale e quasi inconsapevole di rappresentare interessi pratici che si hanno in comune con gli altri e che si vuole fare 105 valere, ma come qualcosa di fine a se stesso, uno sforzo cosciente e artificioso che, invece di una sincera e semplice partecipazione interiore, richiede un difficilissimo e estenuante virtuosismo di comportamento e di spina dorsale. E al pensiero che un giorno anche lui avrebbe dovuto presentarsi in pubbliche riunioni e agire con parole e gesti sotto il peso degli sguardi di tutti, Hanno chiuse gli occhi con un brivido di 110 paura e ripugnanza... T. Mann, I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia, trad. di M.C. Minicelli, introd. di I.A. Chiusano, Newton Compton, Roma 1992

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■ Hanno è dapprima osservato attraverso gli occhi del padre (Se il senatore Buddenbrook avesse avuto due figli, allora...), poi ne viene data la descrizione fisica (Con quei capelli castani che ora portava...), infine, mediante una serie di dettagli (le gambe e le braccia smagrite, la debolezza di sangue ecc.) e di aneddoti (tra cui la persecuzione operata dai fratelli Hagenström), ne viene rivelata l’interiorità. Emerge così con pienezza il carattere del personaggio: la sua particolare sensibilità, la sua malinconia e fragilità. ■ Attraverso il personaggio di Hanno, l’autore mette a fuoco il tema del dissidio tra la vita e lo spirito. Da una parte vi è il mondo vigoroso e solare di chi aderisce, anche fisicamente, alla realtà vitale; è il mondo simboleggiato dai compagni di Hanno, con i loro tratti scandinavi, e dai comuni borghesi. Dall’altra parte, invece, vi è il mondo delicato, morbido, «notturno», di chi, nel ripiegamento interiore, nella fantasia, o nell’arte, si stacca sempre più dalla realtà e dalla vita. È quanto accade al piccolo Hanno, simbolo, nel romanzo, della tormentata e affinata spiritualità dell’artista (alcune pagine più avanti lo vedremo infatti alle prese con la musica, la grande passione che condivide con la madre Gerda). ■ Il tema della solitudine e dell’estraneità dell’artista era un motivo già tipico della cultura decadente. L’individuo di genio è segnato da una «diversità» spirituale, inconciliabile con la solida sanità e normalità borghesi. Ma mentre i decadenti guardavano a quella realtà sociale con aristocratico disprezzo, le cose si complicano in Mann: pur non riconoscendosi più nei valori borghesi, egli conserva una vaga nostalgia per quel mondo solido, concreto, di fiducie e certezze rasserenanti. E così i suoi personaggi oscillano, privi di sicurezze, in un mondo che essi avvertono come estraneo: e l’ambiguità diviene il loro tratto distintivo. ■ Nella conclusione del brano, traspare la maschera faticosamente indossata dal padre di Hanno dopo le sue visite in società (suo padre dopo ogni visita diventa[va] più taciturno, più pallido... si rincantuccia[va] nella carrozza con gli occhi chiusi...): essa è il sintomo di un’indifferenza verso quel mondo borghese in cui, peraltro, Thomas vorrebbe introdurre il ragazzo. Ma lo sforzo paterno, su cui si regge la sua commedia sociale, non sfugge al piccolo Hanno: Però il piccolo Johann vedeva più di quanto avrebbe dovuto vedere... In questo sguardo acuto risiede la superiorità di Hanno e anche, ambiguamente, la ragione della sua debolezza. ■ Mann costruisce i suoi personaggi utilizzando spesso due diversi punti di vista: quello esterno del narratore, che li rappresenta inquadrandoli in un ambiente precisamente de-

scritto, e quello interno al personaggio, che giudica e riflette sul comportamento degli altri. E così, rappresentando le figure di Thomas e di Hanno, la narrazione segue sia lo svolgersi dei loro pensieri nascosti, sia il loro agire, come appare dall’esterno. Per esempio, la considerazione Se un giorno il piccolo Johann Buddenbrook doveva svolgere quel lavoro a cui era destinato (rr. 15-16) appartiene al senatore Buddenbrook: il discorso indiretto libero permette a Mann di rivelare con naturalezza l’interiorità del personaggio. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Ricostruisci l’andamento del testo attraverso le seguenti operazioni. • Individua le principali sequenze narrative e attribuisci a ciascuna un titolo. • Rintraccia i luoghi e i contesti in cui si svolge la narrazione ed elencali. • Individua infine e cita tutti i personaggi che agiscono nel brano. 2. Quali insuccessi nella vita pratica deve registrare Hanno? Elencali e commentali. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 3. Nella narrazione si alternano punti di vista diversi: quali? Ritrova degli esempi nel testo. 4. La precoce morte di Hanno per tifo a soli vent’anni avrà un valore emblematico: una sconfitta di fronte alla vita, prima ancora di affrontarla. Puoi ritrovare, nel brano che hai letto, sintomi e anticipazioni di questa sconfitta? 5. In che modo l’episodio rivela quella crisi dei valori borghesi che è il tema di fondo dell’opera di Mann? ....................................................................................................... ....................................................................................................... 6. Saranno gli Hagenström a comprare la casa dei Buddenbrook, quando il declino della famiglia e della ditta sarà ormai irrimediabile, sancendone così la fine. Quale valore simbolico assume dunque la persecuzione di cui, qui, Hanno è vittima? ....................................................................................................... 7. Hanno è l’esemplare di una nuova tipologia di personaggio: è l’«inetto» a vivere un’esistenza borghese, per eccesso di sensibilità. Illustra questa sua caratteristica con riferimenti anche ad altri testi e altri autori (max 20 righe).

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Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

L’AUTORE

MARCEL PROUST ◗ Proust nacque ad Ateuil, presso Parigi, nel 1871, da agiata famiglia borghese. A nove anni fu colto dalla prima crisi d’asma: una malattia di origine psicosomatica, che lo tormenterà per tutta la vita. Trascorreva le vacanze a Illiers, che diverrà poi nelle sue opere Combray, il «paradiso perduto» dell’infanzia. Era uno studente modello e sensibilissimo. Dopo il servizio militare (1890), s’iscrisse a Giurisprudenza; ma, invece di fare l’avvocato, scelse la professione di bibliotecario. Frequentò i salotti letterari, comportandosi come uno dei giovani dandy dei romanzi decadenti. ◗ Pubblicò traduzioni e collaborò a riviste; nel 1896 uscirono le raffinate prose di I piaceri e i giorni, con prefazione di Anatole France; lavorò a un romanzo autobiografico, Jean Santeuil, lasciato incompiuto (e pubblicato solo nel 1952). Nel 1900 Proust si recò a Venezia, sulle orme di John Ruskin, autore ed esteta inglese, da lui ammirato e tradotto. In quegli anni iniziò a manifestare apertamente tendenze omosessuali. Nel 1905 morì la madre, lasciando il figlio sconvolto. Nel 1907 Proust si legò sentimentalmente ad Alfred Agostinel-

L’OPERA

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO ◗ Alla ricerca del tempo perduto (À la recherce du temps perdu) era stata progettata come un’opera in tre volumi, ma la necessità di rendere visibile un itinerario esistenziale molto complesso portò infine a un ciclo di sette parti (equivalenti ciascuna a un romanzo), pubblicate tra 1913 e 1927: Dalla parte di Swann, All’ombra delle fanciulle in fiore, Dalla parte dei Guermantes, Sodoma e Gomorra, La prigioniera, Albertine scomparsa, Il tempo ritrovato. ◗ Il racconto proviene da un unico io narrante (che adombra in certi tratti lo stesso autore); egli racconta la storia della propria vita, a partire dall’infanzia e fino al momento dello scoppio della guerra nel 1914. È lui il filo conduttore delle molteplici vicende narrate,

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li, suo autista e segretario. La salute e la nevrosi si aggravarono e Proust iniziò a isolarsi dal mondo, in una stanza rivestita di sughero: dormiva di giorno e vegliava la notte, convinto che in quelle ore le crisi d’asma fossero meno violente. ◗ Tra 1906 e 1912 scrisse la maggior parte dei romanzi della Ricerca. Il primo volume (Dalla parte di Swann) era pronto nel 1911, ma uscì solo nel 1913, a spese sue, dopo il rifiuto della «Nouvelle Revue française». Il successo del primo romanzo gli aprì le porte del prestigioso editore Gallimard, che pubblicò il secondo volume. Bisognò però attendere il 1919 perché la critica si accorgesse del vero valore dell’opera: All’ombra delle fanciulle in fiore (il secondo romanzo del ciclo) ottenne il premio Goncourt. La Prima guerra mondiale interruppe la pubblicazione. Proust continuava a condurre una vita ritirata e notturna, frequentando solo saltuariamente gli amici di un tempo. La stesura della Recherche lo sfinì; la salute peggiorò. Morì nel 1922 di polmonite, prima che il vasto ciclo romanzesco fosse pubblicato integralmente.

di cui cerca di ricostruire l’essenza e il significato, ripensando a se stesso nel passato, giudicandosi e talora mutando opinione. Sono oltre duecentocinquanta gli altri personaggi della Ricerca: nell’assieme compongono l’affresco di una società aristocratica ma povera di valori morali e che riduce tutto a menzogna; solo l’infanzia, a parere dell’autore, conserva la sua innocenza e verità. Il simbolo dell’infimo male sono Sodoma e Gomorra, le due città bibliche distrutte da Dio. ◗ Nell’insieme, la Ricerca configura un itinerario verso la consapevolezza e la conoscenza, una risalita dalla dimensione puramente materialistica della realtà. Bisogna però passare attraverso il fondamentale recupero del tempo, come Proust afferma in una frase fa-

bia più senso [...]; situato fuori dal tempo, cosa mai potrebbe temere dal futuro?». Il tempo ritrovato, settima e ultima parte della Ricerca, costituisce così il traguardo di un percorso, esistenziale e di scrittura insieme.

Monografia Raccordo

mosa: «Un istante liberato dall’ordine del tempo ha ricreato in noi, per sentirlo, l’uomo affrancato dall’ordine del tempo». Si produrrà così nel finale un individuo per il quale «è comprensibile che la parola morte non ab-

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

LA STRUTTURA DELLA RECHERCHE PROUSTIANA

Il ciclo romanzesco Alla ricerca del tempo perduto è suddiviso in 7 volumi: in essi Marcel, figura chiaramente autobiografica, rievoca in prima persona la propria vita.

1° Dalla parte di Swann Racconta l’infanzia e la fanciullezza trascorsa negli anni 1883-92 a Combray, dove la zia Léonie aveva una villa. Ricorda l’incontro con due mondi confinanti e sconosciuti, quello dei Guermantes (una famiglia aristocratica che tiene molto alle convenzioni sociali e si circonda dell’isolamento tipico della grande nobiltà) e quello di Swann (un intellettuale ebreo che ha fatto scandalo sposando una donna discussa e frivola, Odette de Crécy). Viene rievocata questa tormentata vicenda amorosa, avvenuta negli anni 1877-78. 2° All’ombra delle fanciulle in fiore Racconta l’educazione sentimentale di Marcel, avvenuta a Parigi a partire dal 1893-95: egli passa dall’amore fanciullesco e capriccioso per Gilberte, la figlia di Swann, all’esperienza più sofferta del rapporto con Albertine (una delle tre «fanciulle in fiore»), conosciuta nell’estate 1897 a Balbec, sulle spiagge della Normandia, durante un soggiorno con la nonna. Grazie alla conoscenza del barone di Charlus e all’amicizia con suo nipote Saint-Loup, imparentati con i Guermantes, Marcel può affacciarsi a quel mondo aristocratico, per lui fino ad allora inaccessibile. 3° Dalla parte dei Guermantes Siamo a Parigi, nel 1897-99. La conoscenza dell’aristocratica famiglia si fa più approfondita e Marcel può gustare la vita nobiliare, fatta di essenzialità (da parte della duchessa Oriana, di cui il protagonista s’innamora) ma anche di disgregazione morale (quella del barone di Charlus). 4° Sodoma e Gomorra Si apre con la passione di Charlus per il giovane violinista Morel, che si rivelerà però deludente. Marcel ritorna sulle spiagge di Balbec, dove soffre per la morte della nonna, avvenuta precedentemente, ma qui rievocata a partire dai luoghi, secondo le associazioni della memoria. Si riaccende intanto (siamo nel 1900) l’amore per Albertine, sospettata di amori saffici e amata da Marcel proprio per la sua fragilità.

5° La prigioniera La scena narrativa ritorna a Parigi; siamo tra il 1900 e l’inizio del 1902. Marcel porta Albertine a Parigi e la ospita come fidanzata in casa propria, tenendola in realtà prigioniera per la gelosia. Questo è però l’unico sentimento capace di conservare vivo il suo amore. Albertine, esasperata, fugge.

6° Albertine scomparsa Racconta la disperazione di Marcel, che viene sconvolto dalla notizia della morte di Albertine, avvenuta per un incidente. La gelosia retrospettiva lo tormenta e per un certo periodo tiene ancora viva la sua passione. A Venezia (siamo nella primavera del 1902) Marcel s’innamora di una donna che scoprirà essere Gilberte, figlia di Swann. Gilberte però sposa Saint-Loup, il nipote dei Guermantes: i due mondi, un tempo inavvicinabili, in tal modo si congiungono. Marcel soggiorna a Tansonville, nella casa di Gilberte, intorno al 1903, e qui rievoca episodi dell’infanzia.

7° Il tempo ritrovato Salto temporale di molti anni. Marcel trascorre gli anni della Prima guerra mondiale in una casa di cura. Intorno al 1914-16 egli ritorna a Parigi e incontra di nuovo tutti i suoi conoscenti, che trova irrimediabilmente mutati dal tempo. Decide così di dedicarsi alla stesura di un grande romanzo per ritrovare finalmente tutti loro e anche se stesso, conservando ricordi che altrimenti sarebbero per sempre perduti. L’epilogo si ambienta nel 1925, a un ricevimento della principessa di Guermantes.

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Tra Ottocento e Novecento

Marcel Proust

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Un caso di «memoria involontaria» Dalla parte di Swann Anno: 1913 Temi: • l’effimera sensazione di un istante • il magico riaffiorare di un ricordo dell’infanzia • il passato che rivive nel presente Il passo, tratto dalle pagine iniziali di Dalla parte di Swann, il primo volume della Ricerca, è uno dei più famosi dell’opera di Proust. L’io narrante descrive la qualità complessa e ambivalente dei ricordi: racconta infatti come da una casuale sensazione, provata nell’assaggiare un piccolo dolce inzuppato nel tè, egli abbia potuto recuperare un momento della sua vita, sepolto fino ad allora nell’inconsapevolezza.

noi, del nostro passato, non possiamo trattenere che pochi istanti e occasioni

la memoria messa in moto dall’intelligenza e dalla volontà ci restituisce poco o nulla del nostro passato

E così, ogni volta che svegliandomi di notte mi ricordavo di Combray1 per molto tempo non ne rividi che quella sorta di lembo luminoso ritagliato nel mezzo di tenebre indistinte, simile a quelli che l’accensione di un bengala2 o un fascio di luce elettrica rischiarano e isolano in un edificio che resta per le altre parti sprofondato nel buio: abbastanza largo alla base, il salottino, la sala da pranzo, l’imbocco del via- 5 le non illuminato dal quale sarebbe comparso il signor Swann,3 l’ignaro responsabile delle mie tristezze, il vestibolo nel quale mi sarei avviato verso il primo gradino della scala, che era così crudele salire [...]; come se Combray non fosse consistita che di due piani collegati fra loro da un’esile scala e come se non fossero mai state, là, altro che le sette di sera. Per dire la verità, a chi m’avesse interrogato avrei potuto ri- 10 spondere che Combray comprendeva altre cose ancora ed esisteva anche in altre ore. Ma poiché quello che avrei ricordato sarebbe affiorato soltanto dalla memoria volontaria, dalla memoria dell’intelligenza, e poiché le informazioni che questa fornisce sul passato non ne trattengono nulla di reale, io non avrei mai avuto voglia di pensare a quel resto di Combray. Per me, in effetti, era morto. Morto per sempre? 15 Poteva darsi. [...] Erano già parecchi anni che tutto quanto di Combray non costituiva il teatro e il dramma del mio andare a letto aveva smesso di esistere per me, quando, un giorno d’inverno, al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai. Poi, non 20 so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano petites madeleines4 e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una “cappasanta”.5 E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa6 e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel

1. Combray: è un paese immaginario che presenta tuttavia molti tratti in comune con Illiers, dove lo scrittore trascorreva da ragazzo le vacanze. 2. bengala: un razzo lanciato per illuminare il buio con la sua scia luminosa. 3. il signor Swann: un vicino di casa, proprietario di una villa con un ampio giardino. È uno dei personaggi più importanti del primo volume della Recherche, che por-

700

ta il suo nome nel titolo (Dalla parte di Swann o, in altre traduzioni, La strada di Swann) e ne racconta la storia, riferendo del suo amore per Odette. 4. petites madeleines: “piccole maddalene”, cioè i piccoli dolci descritti nel testo. 5. valva... “cappasanta”: la valva è la metà della conchiglia di un mollusco; la cappasanta è un mollusco con conchiglia arrotondata, a forma di ventaglio. Il testo

francese di Proust non parla di «cappasanta», ma dice coquille Saint-Jacques; perciò Natalia Ginzburg, in un’altra versione, traduce alla lettera con «conchiglia di San Giacomo». Sappiamo che i pellegrini medievali (specificamente, diretti a Santiago di Compostela, in Galizia), portavano con sé una conchiglia, divenuta simbolo del pellegrinaggio. 6. uggiosa: grigia, che infonde tristezza.

l’io coincide con i propri ricordi

il tema del romanzo psicologico non è il mondo esterno, ma la realtà interiore

l’autore descrive con fine precisione i tentativi (all’inizio vani) di ricerca interiore

ricordare, ritornare al proprio passato è come viaggiare nel tempo e nello spazio

una riflessione sull’esperienza in corso: il romanzo psicologico intreccia sempre i fatti al giudizio su di essi

quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso 25 istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di 30 un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente,7 mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo nulla di 35 più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda. È tempo che mi fermi, la virtù del filtro sembra diminuire. È chiaro che la verità che cerco non è lì dentro, ma in me. La bevanda l’ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, ma con sempre minor forza, la stessa testimonianza che io non riesco a interpretare e che vorrei almeno poterle chiedere di nuovo ritrovandola subi- 40 to intatta, a mia disposizione, per un chiarimento decisivo. Poso la tazza e mi volgo verso il mio spirito. Trovare la verità è compito suo. Ma in che modo? [...] Ricomincio a domandarmi che cosa poteva essere questa condizione ignota, che non adduceva alcuna prova logica, bensì l’evidenza della sua felicità, della sua realtà davanti alla quale le altre svanivano. Cercherò di farla riapparire. Retrocedo col pen- 45 siero al momento in cui ho sorbito il primo cucchiaino di tè. Ritrovo lo stesso stato senza una chiarezza nuova. Chiedo al mio spirito di fare un ulteriore sforzo, di richiamare ancora una volta la sensazione che sfugge. E perché niente possa spezzare lo slancio con il quale cercherà di riafferrarla, tolgo di mezzo ogni ostacolo, ogni idea estranea, metto al riparo le mie orecchie e la mia attenzione dai rumori della 50 stanza accanto. Ma quando m’accorgo che il mio spirito s’affatica senza successo, lo induco invece a prendersi quella distrazione che gli negavo, a pensare a qualcos’altro, a ritemprarsi prima di un tentativo supremo. Per la seconda volta gli faccio il vuoto davanti, lo rimetto di fronte al sapore ancora recente di quella prima sorsata e dentro di me sento tremare qualcosa che si sposta, che vorrebbe venir su, come se 55 fosse stato disancorato8 a una grande profondità; non so cosa sia, ma sale lentamente; avverto la resistenza, percepisco il rumore delle distanze attraversate. A palpitare così in fondo al mio essere sarà, certo, l’immagine, il ricordo visivo che, legato a quel sapore, si sforza di seguirlo fino a me. Ma troppo lontano, troppo confusamente si dibatte; colgo a stento il riflesso neutro in cui si confonde l’inafferrabile vortice dei 60 colori rimescolati; ma non arrivo a distinguere la forma, unico interprete al quale potrei chiedere di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, di spiegarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratta. Giungerà mai alla superficie della mia coscienza lucida quel ricordo, quell’istante 65 remoto che l’attrazione di un identico istante è venuta così da lontano a sollecitare, a scuotere, a sollevare nel mio io più profondo? Non lo so. Adesso non sento più

7. contingente: legato alle circostanze, quindi mutevole e precario.

8. disancorato: liberato da ciò che lo tratteneva al fondo (dell’inconscio).

701

Monografia Raccordo

il formarsi del ricordo è evento misterioso, autonomo da noi; è qualcosa di straordinario, quasi religioso

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

il ricordo è come un’«apparizione», improvvisa e sacrale

è il grande tema della Recherche proustiana

una metafora della letteratura del Novecento; non più un messaggio di verità, ma un gioco, un’operazione individuale, preziosa per chi la sa comprendere

niente, si è fermato, forse è ridisceso; chi può dire se risalirà mai dalla sua notte? Dieci volte devo ricominciare, sporgermi verso di lui. E ogni volta la viltà che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, mi ha indotto a lasciar 70 perdere, a bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani che si lasciano rimasticare senza troppa fatica. E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. Il sapore, era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina a Combray (perché nei giorni di festa non uscivo di casa prima dell’ora della messa), quando andavo a dirle buongiorno nella sua 75 camera da letto, zia9 Léonie mi offriva dopo averlo intinto nel suo infuso di tè o di tiglio. La vista della piccola madeleine non m’aveva ricordato nulla prima che ne sentissi il sapore; forse perché spesso dopo di allora ne avevo viste altre, senza mai mangiarle, sui ripiani dei pasticceri, e la loro immagine s’era staccata da quei giorni di Combray per legarsi ad altri più recenti; forse perché, di ricordi abbandonati per così lungo tem- 80 po al di fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s’era disgregato; le forme – compresa quella della piccola conchiglia di pasticceria, così grassamente sensuale sotto la sua pieghettatura severa e devota – erano scomparse, oppure, addormentate, avevano perduto la forza d’espansione che avrebbe permesso loro di raggiungere la coscienza. Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle 85 creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina10 di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo. E quando ebbi riconosciuto il gusto del pezzetto di madeleine che la zia inzuppava 90 per me nel tiglio, subito (benché non sapessi ancora – e dovessi rimandare a ben più tardi il momento della scoperta – perché quel ricordo mi rendesse tanto felice) la vecchia casa grigia verso strada, di cui faceva parte la sua camera, venne come uno scenario di teatro a saldarsi al piccolo padiglione prospiciente il giardino e costruito sul retro per i miei genitori (cioè all’unico isolato lembo da me rivisto fino a quel 95 momento); e, insieme alla casa, la città, da mattina a sera e con ogni sorta di tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove facevo qualche commissione, le strade percorse quando il tempo era bello. E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono con- 100 torni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne11 e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma 105 e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè. M. Proust, Dalla parte di Swann, trad. di G. Raboni, A. Mondadori, Milano 1983

9. zia: in realtà, la prozia Léonie, cugina del nonno di Marcel.

702

10. rovina: quella prodotta dall’inesorabile trascorrere del tempo.

11. Vivonne: fiume immaginario, che scorre nel paesaggio fantastico di Combray.

■ Il brano presenta una caratteristica struttura a tre fasi, che più volte si ripeterà, nel corso del romanzo, in altri episodi dedicati alla «memoria involontaria»: • l’io narrante prova, in una circostanza qualsiasi, una sensazione fortuita, che produce uno choc intenso ma fuggevole, uno strano e inspiegabile benessere; • per darsi spiegazione di quanto accade, il protagonista si isola, si sottrae allo scorrere del tempo presente, ascoltando unicamente le voci del suo mondo interiore; • infine, s’impossessa del ricordo riemerso dalla memoria. ■ Tutto comincia con un ricordo volontario: la casa di Combray, dove l’io narrante trascorse la propria infanzia. È un mondo ormai quasi cancellato, sprofondato nel buio; ma all’improvviso qualcosa cambia. La madre del giovane protagonista, infatti, gli porge una tazza di tè accompagnata da una madeleine. Il profumo e il sapore di quel dolce, intinto nel tè, risvegliano una sensazione dolcissima, ineffabile. L’io narrante però non riesce a collegarla ad alcun ricordo preciso. Da dove proviene? Non basta bere altro tè per capirlo… ■ Cercare l’origine di quella sensazione è il tema della parte centrale del brano. Il ricordo sembra provenire da una cavità sconosciuta, da un’enorme distanza; si fa largo con fatica, ma infine sgorga. L’io narrante ricorda di quando, bambino, nella casa di Combray, la zia Léonie gli offriva un pezzetto di quello stesso dolce intinto nel tè. Quel ricordo ha il potere di rischiarare nella memoria la vecchia casa grigia: essa si fa incontro al protagonista, insieme alla città e alla vita di quegli anni infantili. Tutto ciò, dice Proust, è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè. ■ Il significato del testo è dunque chiaro. • È vano, dice Proust, cercare di ricostruire il passato attraverso la memoria volontaria, quella che risponde alle leggi della razionalità e della logica. • Si può invece raggiungere la verità del passato attraverso la memoria involontaria: i ricordi più veri e lontani, cioè, possono riaffiorare non grazie a reminescenze e collegamenti razionali di idee, ma abbandonandosi alla sensazione di un istante. Da qui, con una serie di associazioni che sembrano casuali, si può ritornare a un tempo che si era ormai dimenticato e quindi perduto. Le memorie così riemerse portano con sé sensazioni positive o negative e quindi influenzano il nostro stato d’animo attuale. ■ Le problematiche toccate qui da Proust appartengono al clima culturale d’inizio Novecento e a due fonti precise. La prima di esse era la psicoanalisi di Freud: nelle opere

uscite proprio in quegli anni, Freud dimostrò che una gran parte dei ricordi restano immagazzinati nella nostra memoria senza uscirne più, a meno che qualcosa (sogni, associazioni d’idee, battute spiritose, immagini, sensazioni) non li ridesti, ma sempre in modo casuale e imprevisto. L’altra fonte proustiana fu il filosofo francese Henri Bergson, che sottolineava la natura del tutto soggettiva della conoscenza: essa si svolge nel tempo ed è affidata appunto alla memoria. LAVORIAMO SUL TESTO 1. Riconosci nel testo antologizzato le tre sequenze messe in luce nelle Chiavi del testo; chiarisci dove ciascuna di esse comincia e dove finisce. 2. Illustra con le tue parole il modo in cui avviene, nel brano letto, il «ritrovamento» del tempo perduto (max 10 righe). 3. Per Proust è molto importante ricordare: perché? a per obbedire a un’improvvisa, impellente curiosità b per provare nuovamente sensazioni di benessere c per garantire all’io continuità nel tempo d per salvare dalla distruzione il passato e impedire così la rovina di tutto Scegli la risposta, motivandola in breve. ....................................................................................................... ....................................................................................................... 4. Illustra con le tue parole la distinzione tra la memoria involontaria e la memoria volontaria: in che cosa consistono, rispettivamente? Cita nella risposta le parole di Proust. ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 5. In base al testo letto, prova a definire lo stile della Recherche proustiana. Ti sembra a descrittivo e analitico b lento e avvolgente c essenziale e metodico d realistico e stringato a. Scegli la coppia di aggettivi che ti sembra più appropriata; motiva in breve la risposta. ....................................................................................................... ....................................................................................................... b. Quali altri aggettivi non scarteresti? Spiega perché. ....................................................................................................... .......................................................................................................

703

Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

Proust, Bergson e il tempo Un tema antico Proust, in gioventù, aveva ascoltato le lezioni del filosofo francese Henri Bergson (1859-1941), la cui concezione del tempo come dimensione interiore lasciò una grande traccia nella cultura e nella letteratura di primo Novecento. Tale riflessione riprendeva in realtà spunti antichi, presenti già nel libro X delle Confessioni di sant’Agostino: secondo quest’ultimo il tempo è una realtà non oggettiva, ma solo soggettiva, una «distensione dell’anima». Esso va misurato nell’interiorità dell’individuo, in base a ciò che si è impresso nella sua memoria: il tempo, scrive Agostino, è memoria del passato, attenzione al presente e attesa del futuro.

Tempo e «durata» per Bergson Bergson sostiene che sussiste una differenza sostanziale fra il tempo esteriore – fondato sulla successione degli istanti, come sono registrati dall’orologio e dal calendario – e il tempo interiore. Quest’ultimo, non descrivibile con il criterio della successione, è il «tempo vissuto», la cui prima qualità è la «durata». Bergson polemizza dunque con il con-

cetto fisico-matematico di tempo, assunto dalle scienze esatte. Per Bergson questo tempo non è quello reale, «vero», cioè non è il tempo di cui noi facciamo esperienza, ma è un tempo astratto, una successione di istanti statici e uguali. Il tempo come fatto psichico ha invece caratteri qualitativi, non quantitativi. La nostra coscienza vive il tempo come «durata», perché gli atti che compongono la coscienza sono compenetrati uno nell’altro: in altre parole, l’atto presente porta in sé il processo da cui proviene e insieme è qualcosa di nuovo, che contribuirà a far scaturire nuovi atti, in una «durata», appunto, senza interruzioni o salti. Perciò, per Bergson, un ruolo importante nel conoscere viene esercitato dalla memoria. Essa conserva le nostre esperienze passate, ma in modo non statico, perché le fa continuamente interagire con gli stati di coscienza presenti.

Proust: la memoria, il tempo e l’arte Queste idee esercitarono un notevole influsso sul romanzo novecentesco e su Proust in particolare. Proust con-

stata come il tempo disgreghi e muti ogni cosa: ci fa allontanare dal «noi» che siamo stati, al punto che neppure più ci riconosciamo. L’unico elemento che possiamo opporre a una simile dissoluzione è la memoria. Non la memoria volontaria, però, attraverso cui noi ci sforziamo di ricostruire il passato, bensì quella involontaria. Essa opera «per analogia», nel senso che una sensazione può richiamarne alla mente un’altra analoga, prodottasi nel passato; e non ci fa semplicemente ricordare il passato, ma ci permette di riviverlo, di recuperarlo nella sua pienezza e autenticità. È un fenomeno di per sé non insolito (in qualche modo tutti lo abbiamo provato), ma che Proust rende, nella Recherche, uno strumento d’indagine privilegiato e sistematico. In conclusione: il nostro tempo è «vivo» in noi; il mondo esteriore, in un certo senso, per Proust non esiste, perché rappresenta solo ciò che, in un certo momento, noi creiamo e che, subito dopo, muta con il nostro stato d’animo, sottoposto al fluire del tempo (avviato dall’accendersi della memoria).

■ Salvador Dalí, La persistenza della memoria (1931). 704

Testi • Il risveglio di Gregor Samsa (La metamorfosi)

L’OPERA

FRANZ KAFKA ◗ Kafka nacque a Praga nel 1883 da famiglia di origine ebraica. Suo padre, Hermann, era un agiato commerciante di chincaglierie e mercerie; anche la madre, Julie Lowy, proveniva da una ricca famiglia mercantile. Nel 1906 Franz si laureò in Giurisprudenza, assecondando il desiderio del padre. Con quest’ultimo, ossessionato dal successo e dall’affermazione economica e sociale, egli ebbe sempre un rapporto difficile e tormentato, come emerge nella celebre Lettera al padre (1919). ◗ Nel 1907 trovò lavoro presso le Assicurazioni Generali di Praga, dimostrandosi un impiegato scrupoloso e affidabile. Le ore libere del pomeriggio le trascorreva leggendo e scrivendo. Nel 1915 pubblicò il suo racconto più celebre: La metamorfosi. L’amico Max Brod lo introdusse negli ambienti intellettuali praghesi e allo studio dell’ebraismo. ◗ Intrattenne varie relazioni sentimentali, tutte però insoddisfacenti: dal fidanzamen-

to con Felice Bauer (1914) all’amore per Milena Jesenská (1920-22) alla relazione con Dora Dymant (1923-24). Nel 1917 si ammalò gravemente di tubercolosi; lasciò il lavoro e si fece curare nel sanatorio Hoffman a Kierling, nei pressi di Vienna, dove morì il 3 giugno 1924. ◗ Dopo La metamorfosi, tutta la sua restante opera letteraria venne pubblicata postuma dall’amico Max Brod, contro il volere dell’autore, che aveva lasciato scritto di distruggerla. Accanto ai racconti vi sono tre romanzi: America (iniziato nel 1912 con titolo Il fuochista), Il processo (1914-16) e Il castello (scritto nel 1922). Lo stile di Kafka è terso, «classico» per la sua compostezza e apparente oggettività; ma i suoi sono temi inquietanti, provenienti dal sogno e dall’incubo. Tra angosce e simboli le sue pagine testimoniano però una non sopita speranza di miglioramento e di verità.

IL PROCESSO ◗ Il romanzo, scritto negli anni 1914-16 ma pubblicato solo nel 1924, racconta l’accusa e la condanna inflitta a un mite impiegato di banca, Josef K. (figura chiaramente autobiografica), per una colpa che egli non conosce e che non riesce in alcun modo ad appurare. Per un po’ K. riprende la sua vita normale, poi si presenta spontaneamente al tribunale, ubicato nelle soffitte di uno strano palazzo di periferia. Nessuno sa rivelargli con precisione l’accusa, ma a poco a poco un oscuro senso di colpa s’impossessa di lui. Intanto la sua causa, sia pure tra le esasperanti lentezze della burocrazia, avanza implacabilmente. Ogni tanto K. è convocato in tribunale, ma non ottiene mai notizie precise. Incontra solo magistrati corrotti, funzionari volgari, strani individui. Prima si affida all’avvocato Huld, poi a un amico dei giudici, il pittore Titorelli, il quale gli confida che non ha speranze, perché mai nessuno è del tutto innocente. Nel Duomo di Pra-

ga uno strano cappellano gli racconta l’oscura parabola della Legge, il cui senso generale, però, è sufficientemente chiaro: K. finora ha cercato la verità con i mezzi sbagliati; di fronte alla Legge, l’uomo è colpevole; riconoscerlo è forse il primo passo verso la salvezza, ammesso che esista. Il giorno prima del suo trentunesimo compleanno, un anno esatto dopo l’arresto, K. viene prelevato in albergo da due sicari, che danno esecuzione alla sentenza conficcandogli un coltello nel cuore. ◗ Siamo davanti a un racconto simbolico, di non facile decifrazione. La lettura più semplice è quella nichilista (dal latino nihil, “nulla”): la vicenda di K. è un riflesso dell’assurdità, del «nulla» dell’esistenza. L’uomo s’illude che la propria esistenza abbia un fine; ma in realtà la vita è assurda, casuale, priva di significato, proprio come lo è la drammatica vicenda di Josef K. Una seconda chiave è biografica e psicoanalitica: il racconto riflette705

Monografia Raccordo

L’AUTORE

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

rebbe il difficile, tormentoso rapporto con il padre. Franz gli si è ribellato; per tale infrazione alla legge non riesce più a liberarsi dai tormentosi sensi di colpa. La morte del protagonista equivale in sostanza a un suicidiopunizione. Secondo altri, la colpa segreta di Josef/Franz è quella di essersi allontanato dalla religione ebraica dei padri: è questo tradimento a condannarlo a morte, sinistra prefigurazione della Shoa di poco successiva. In un’ottica «politica», il dramma di K. diviene infine il simbolo del conflitto fra l’individuo e il potere, raffigurato come una realtà dal volto totalitario e opprimente. La burocrazia (incarnata dal potere dell’Impero asburgico, a cui nel 1914 la città di Praga apparteneva) riduce l’uomo a una particella anonima e la vita sociale a un ingranaggio: e l’individuo rischia di soccombere senza nemmeno sapere perché. Una vera «ossessione burocratica»

pervade molte pagine di Kafka, affollate di impiegati e funzionari. ◗ Opera ricchissima di significati simbolici, Il processo è soprattutto il racconto di una crisi culturale: immagine della decadenza e dello smarrimento di un’umanità sempre più povera di certezze e carica di dubbi. Si riflettono dunque nel testo i temi portanti della cultura del primo Novecento. Sul piano stilistico, Kafka utilizza uno stile «medio», che comunica un senso di grigiore e monotonia. La sua lingua è priva di scarti, di accensioni, di suspense: in tal modo il lettore non viene affatto preparato o avvertito dell’inesplicabilità e assurdità di quanto sta accadendo. Il racconto viene ad assomigliare a un rapporto poliziesco o a un verbale giudiziario, più che a un testo letterario: siamo davanti a una delle tante forme dell’«antiromanzo» novecentesco.

Franz Kafka

5

L’arresto di K. Il processo, capitolo I Anno: 1914-24 Temi: • l’impossibilità di comprendere il mondo • l’assurdità del vivere quotidiano • la legge come entità impersonale e disumana Leggiamo l’inizio del romanzo: una mattina come tante, svegliandosi, il protagonista trova nella sua camera due individui giunti per arrestarlo. Non si sa perché, né il motivo si chiarirà in seguito: è proprio questo a generare l’«assurdo» della situazione.

fin dall’inizio viene lasciato indefinito il responsabile di quanto accade

Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato. La cuoca della sua affittacamere, cioè della signora Grubach,1 che ogni mattino verso le otto gli portava la prima colazione, quel giorno non venne. Era la prima volta che una cosa simile capitava. K. aspettò un poco; col capo appoggiato al guanciale, notò che la vecchietta sua dirimpettaia2 lo osservava 5 con una curiosità per lei del tutto inconsueta, ma poi, deluso ed affamato ad un tempo, si decise a suonare il campanello. Subito bussarono alla porta, ed entrò un uomo che in quella casa K. non aveva mai visto prima. Era di corporatura snella ma robusta, e portava un vestito nero ed attillato che, come certi abiti da viaggio, era munito di varie pieghe, tasche, fibbie, bottoni, e di una cintura, e che quindi aveva un aspet- 10 to particolarmente pratico, benché non si capisse bene a che cosa dovesse servire. –

1. Grubach: Josef K. vive in una camera ammobiliata dell’appartamento della signo-

706

ra Grubach, insieme ad alcuni altri inquilini. 2. dirimpettaia: un’anziana donna che

abita nella casa di fronte e scruta nella stanza di K. attraverso la finestra.

la paura comincia a impadronirsi di lui

prima ammissione di sconfitta: K. comincia ad accettare la situazione

3. Anna: la cuoca. 4. accosto: vicino. 5. la nuova conoscenza: questo secondo individuo.

6. vecchia vicina: è la dirimpettaia di cui si è già parlato sopra. 7. senile: tipica dei vecchi. 8. strapparsi: sottrarsi.

9. procedimento: il procedimento giudiziario, cioè l’inchiesta e il processo. 10. prescrizione: regola.

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Monografia Raccordo

armi che paiono ragionevoli, ma che si riveleranno del tutto inutili, dato il contesto assurdo

Chi è lei? – chiese K., levandosi a sedere nel letto; ma l’uomo eluse la domanda, come se la sua venuta fosse una faccenda scontata, e disse soltanto: – Lei ha suonato? – Anna3 mi deve portare la colazione, – disse K., che frattanto tentava di stabilire, dapprima in silenzio, e usando solo l’osservazione ed il ragionamento, chi mai fosse 15 quell’uomo. Costui tuttavia non si attardò ad esporsi ai suoi sguardi: si volse alla porta, e la socchiuse per dire a qualcuno che palesemente stava lì accosto:4 – Vuole che Anna gli porti la colazione –. Ci fu nella camera accanto una risatina, senza che si potesse capire dal suono se essa veniva da una sola persona o da parecchie. L’intruso non poteva certo averne ricavato alcuna notizia che già non conoscesse 20 prima; tuttavia si rivolse a K. e gli disse in tono ufficiale: – Non si può. – Che novità sono queste? – disse K.: saltò dal letto e si infilò rapidamente i pantaloni. – Voglio proprio vedere chi c’è di là, e che scuse troverà la signora Grubach per questa seccatura –. Si era bensì accorto subito che non avrebbe dovuto dire quelle cose ad alta voce, perché in certo modo esse comportavano il riconoscimento di un diritto al 25 controllo da parte del nuovo venuto, ma lì per lì la cosa non gli parve importante. Comunque, l’uomo la prese in questo senso, infatti disse: – Non preferisce restare qui? – Non voglio né restare qui né parlare con lei, finché lei non si sarà presentato. – Era per il suo bene, – disse il nuovo venuto, ed aprì deliberatamente la porta. La camera accanto, in cui K. entrò più lentamente di quanto avrebbe voluto, non gli ap- 30 parve a prima vista molto diversa da come era stata la sera prima. Era il soggiorno della signora Grubach: un locale strapieno di mobili, tendaggi, porcellane e fotografie. A ben guardare, tutt’al più era adesso un po’ più sgombro di prima, ma non era facile vederlo perché una variazione c’era sì, e non trascurabile: nella camera c’era un uomo, seduto con un libro in mano davanti alla finestra aperta. Alzò il capo e disse: 35 – Lei avrebbe dovuto rimanere in camera sua! Non glielo ha detto Franz? – Sì, me lo ha detto. Ebbene, lei che vuole? – disse K., guardando alternativamente la nuova conoscenza5 e l’uomo chiamato Franz, che si era fermato sulla porta. Dalla finestra aperta si vedeva di nuovo la vecchia vicina,6 che con curiosità senile7 si era affacciata al davanzale di fronte per non perdere nulla di quanto accadeva. – In- 40 somma, io voglio la signora Grubach, – disse K., facendo l’atto di strapparsi8 ai due, che tuttavia erano ben lontani da lui, e di andarsene. – Niente affatto, – disse quello che stava alla finestra, gettando il libro su un tavolino e levandosi in piedi: – Lei non se ne può andare: lei è in arresto. – Si direbbe proprio che sia così, – disse K., e chiese: 45 – E perché, poi? – Non siamo autorizzati a dirglielo. Torni in camera sua e aspetti. Il procedimento9 è solo agli inizi, lei saprà tutto a tempo debito. Parlandole così amichevolmente io sorpasso i limiti del mio incarico, ma spero bene che nessuno ci ascolti oltre a Franz, e del resto anche lui le dimostra una cordialità che è fuori di ogni prescrizione.10 Se avrà sempre tanta fortuna quanta ne ha avuta nella nomina dei suoi 50 guardiani, può aver fiducia nel suo avvenire –. K. avrebbe voluto sedersi, ma si accorse allora che in tutta la camera non c’era alcun sedile fuori della poltrona di fronte alla finestra. – Vedrà che ci darà ragione, – disse Franz, avvicinandosi a K. insieme

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

il cameratismo delle guardie non migliora affatto la situazione

una fisionomia inquietante, vagamente mostruosa, come può emergere da un incubo

il giudizio di K. è ancora lucido; nel corso del romanzo, però, smarrirà questa consapevolezza e s’immergerà, appunto, nell’«assurdo»

agli occhi delle guardie, è già colpevole accertare la propria identità è il problema dei problemi!

anche questo cameratismo non rivela amicizia, ma superiorità

col suo collega: quest’ultimo era assai più alto di K., e gli batté più volte la mano sulla spalla. Entrambi esaminarono la camicia da notte di K. e gli dissero che adesso 55 gliene sarebbe toccata una molto più brutta; ma loro due avrebbero preso cura della sua camicia e di tutta la biancheria, e se il suo caso si fosse concluso favorevolmente gliela avrebbero restituita. – È meglio che la roba la dia a noi e non al deposito: al deposito ci sono spesso dei furterelli, e poi laggiù, dopo un certo tempo, vendono tutta la roba e addio, non stanno mica a guardare se un processo è finito o no. E 60 questi processi sono interminabili, specie in questi ultimi tempi. [...] K. non dava molto ascolto a questi discorsi. Non dava gran peso alla questione del suo diritto di disporre delle sue cose, posto che pure ancora ne disponesse; gli sarebbe importato assai di più venire in chiaro sulla11 sua situazione, ma in presenza di quei tipi non gli riusciva neppure di raccogliere i suoi pensieri: la guardia numero 65 due (che altro potevano essere se non guardie?) premeva la sua pancia contro di lui con cordialità ostentata, ma se lui alzava lo sguardo, vedeva un viso asciutto ed ossuto, dal naso grosso e storto, che si accordava male col corpo massiccio, e che al di sopra del suo capo cercava intesa col suo compagno. Che gente era? Di che cosa parlavano? Quale autorità rappresentavano? Alla fine dei conti K. viveva in uno Stato di 70 diritto,12 dappertutto regnava la pace e tutte le leggi erano in vigore: chi si permetteva di entrare a casa sua per sopraffarlo? Lui aveva sempre avuto tendenza a prendere le cose per il loro verso, ad accettare il peggio solo quando il peggio era arrivato, a non prendere provvedimenti per l’avvenire neppure quando l’avvenire si prospettava carico di minaccia. Ma adesso la cosa gli pareva assurda; quello che stava capitando 75 poteva essere preso come uno scherzo, una burla grossolana che gli avevano giocata i colleghi della banca per qualche ignoto motivo: ecco, forse perché oggi lui compiva trent’anni. Certo, poteva essere così. Forse bastava che lui facesse una risata in faccia alle guardie, ed avrebbero riso anche loro [...]. Per il momento era ancora libero. – Con permesso, – disse, e si avviò svelto verso 80 la sua camera, passando fra le due guardie. – Sembra uno ragionevole, – udì dire alle sue spalle. Giunto nella sua camera, si affrettò ad aprire i cassetti della scrivania; tutto era in ordine perfetto, ma, agitato com’era, stentò a trovare proprio quei documenti d’identità che stava cercando. Infine gli venne sotto mano la tessera da ciclista; si accinse a presentarla alle guardie, ma poi la giudicò troppo poco importante, e 85 continuò a cercare finché trovò il certificato di nascita. Mentre tornava nella camera accanto, si aprì la porta di fronte, e la signora Grubach accennò ad entrare: ma la si vide solo per un attimo, perché non appena riconobbe K. si turbò visibilmente, si scusò, scomparve e richiuse la porta con molta cura. K. aveva fatto appena in tempo a dire: – Entri, venga pure –; così se ne rimase in mezzo alla camera con i suoi docu- 90 menti, con gli occhi rivolti alla porta che non accennava a riaprirsi. Si riscosse solo quando lo chiamarono le due guardie, che si erano sedute al tavolino davanti alla finestra e (K. se ne accorse bene!) stavano consumando la sua colazione. – Perché non è entrata? – chiese. – Non può, – disse l’uomo più alto. – Lo sa bene, lei è in arresto. – Come può essere che io sia arrestato, e per di più in questo modo? 95 – Eccolo che ricomincia – disse la guardia intingendo una fetta di pane e burro nel

11. venire in chiaro sulla: chiarire la. 12. Stato di diritto: uno stato regolato dal-

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le leggi e da una serie di garanzie per i cittadini.

autorità senza volto, inaccessibili, forse inesistenti gli uomini sono già colpevoli; cercare le loro colpe è superfluo, meglio seguirle, facendosi condurre da esse

la vera «colpa» di K. è non conoscere una legge... che non si può conoscere!

barattolo del miele: – A domande simili noi non rispondiamo. – Dovrete pure rispondere, – disse K. – Qui ci sono i miei documenti, ora mostratemi i vostri, e prima di tutto il mandato di arresto –.13 La guardia disse: – Santo cielo, possibile che lei non sappia rassegnarsi alla sua situazione, e che anzi faccia del suo meglio per irri- 100 tarci inutilmente? Irritare noi, che fra tutti i viventi siamo proprio quelli che in questo momento le siamo più vicini? Creda pure, è proprio così, – aggiunse Franz: teneva in mano la tazzina del caffè, ma non la portò alla bocca, e invece rivolse a K. un lungo sguardo, probabilmente gravido di significato ma incomprensibile. Senza volerlo, K. si lasciò andare a una sorta di dialogo a occhiate con Franz, ma poi, batten- 105 do la mano sui documenti, ripeté: – Ecco i miei documenti. – Che cosa vuole che ce ne facciamo? – esclamò la guardia più alta. – Lei si comporta peggio di un bambino. Ma cosa vuole, insomma? Vuole mettersi a discutere di documenti e di mandati con noialtri per farla finita con il suo maledetto processo? Guardi che noi non siamo che funzionari di basso rango, e di carte d’identità ce ne intendiamo poco o niente: tutto 110 quello che abbiamo da fare con lei è di farle la guardia dieci ore al giorno, ci pagano per questo. Niente di più; ma se le autorità da cui dipendiamo hanno disposto il suo arresto, vuol dire che prima avranno preso tutte le informazioni sui motivi dell’arresto e sulla personalità dell’arrestato: non c’è errore possibile. I nostri superiori, a quanto io so di loro, e conosco solo i gradi più bassi, non è che cerchino le colpe 115 nella popolazione, ma vengono attratti dalle colpe: è così che dice la legge. E mandano in giro noi guardie. Questa è la legge; come ci potrebbe essere un errore? – Questa legge io non la conosco, – disse K. – Tanto peggio per lei, – disse la guardia. K. disse: – È una legge che sta scritta solo nelle vostre teste – ; si stava sforzando di penetrare in qualche modo nella mentalità delle guardie, di piegarla a suo favore 120 e di trasferirvisi. Ma la guardia non gli diede corda, e disse soltanto: – Se ne accorgerà a sue spese –. Intervenne Franz: – Hai visto, Wilhelm? Ammette14 di non conoscere la legge, e insieme dice che è innocente. F. Kafka, Il processo, trad. di P. Levi, Einaudi, Torino 1983

13. mandato di arresto: il documento emesso da un’autorità giudiziaria, che dà

l’autorizzazione alle forze dell’ordine di arrestare qualcuno.

14. Ammette: il verbo usato dalla guardia presuppone la colpevolezza di K.

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K. cerca di rifugiarsi nelle regole burocratiche, ma a nulla valgono, per il suo problema!

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Due guardie sono inviate dal tribunale per notificare al protagonista, Josef K., l’arresto. Più avanti egli verrà portato al suo posto di lavoro, in banca, e attenderà sviluppi successivi. L’evento è destinato a stravolgere la sua vita. Per un po’ egli spera (o vuole credere) che si tratti solo di uno scherzo dei colleghi della banca; ma nel suo animo intuisce, o teme, che si tratta di una cosa ben più seria di un semplice scherzo. ■ Il primo segnale d’allarme è il fatto che la colazione non gli è stata servita: Josef K. scoprirà poi che è stata requisita dalle guardie. Un altro cambiamento introdotto è il fatto che la signora Grubach, l’affittacamere, non entra nella stanza quando lo vede, non lo avvicina, probabilmente impedita in ciò da precisi ordini delle guardie. I primi tentativi di conoscere il motivo del suo arresto da parte di Josef K. provocano solo fastidio e rinvii da parte delle guardie. In K. comincia a nascere il dubbio di aver effettivamente commesso qualche sbaglio di cui non si rende conto. ■ Un senso di mistero circonda il capitolo. Perché K. viene arrestato? In base a quale legge? Quale autorità ha preso tale decisione? Via via nel romanzo si chiarirà come non esistano risposte a tali interrogativi. Il vero tema di Kafka è precisamente l’inconoscibilità del mondo, con l’angoscia che ne deriva. K. vorrebbe sapere (Come può essere che io sia arrestato, e per di più in questo modo?, r. 95), ma fra lui e le guardie nessun dialogo è possibile (A domande simili noi non rispondiamo, r. 97). I superiori cui le guardie si appellano sono figure lontane, che non perdono tempo a cercare le colpe nella popolazione: o meglio, vengono attratti dalle colpe, affinché più nessuno possa dirsi innocente. K. si sforza di ragionare con lucidità, produce i suoi documenti d’identità, ma essi non gli gioveranno a nulla (Che cosa vuole che ce ne facciamo?, rr. 106-107): in fondo, suggerisce il narratore, l’arresto rimette in gioco tutto, di lui, cominciando proprio dalla sua identità personale. ■ Il narratore, in sostanza, ha scoperto che ciò che è insolito, o mostruoso, si nasconde precisamente dietro le cose e i fatti della quotidianità: è uno dei grandi temi di Kafka. Perciò qui sottolinea la piatta e monotona quotidianità del suo scenario; il fatto che la stranezza di ciò che narra non dipende affatto da presenze o cause soprannaturali, come accadeva invece nei racconti «fantastici» del Romanticismo, aggiunge nuovi motivi d’inquietudine.

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LAVORIAMO SUL TESTO 1. Riassumi l’episodio letto rispondendo alle seguenti domande. • Chi sono i due personaggi che s’introducono nella camera di Josef K.? Come sono caratterizzati? ....................................................................................................... • Chi ha accusato Josef K., e di che cosa? ....................................................................................................... • Quali stranezze egli nota via via? Individuale sul testo. ....................................................................................................... • Quali reazioni manifesta il protagonista? Che cosa fa, che cosa dice, che cosa pensa? ....................................................................................................... • Infine: come si comportano le guardie nei suoi confronti? ....................................................................................................... 2. L’attenzione del protagonista viene calamitata da particolari sui quali egli, in questa situazione, non dovrebbe soffermarsi; per esempio, K. è preoccupato della colazione che non gli è stata portata. • Rintraccia altri esempi nel brano. • Ora rifletti: come ti spieghi una simile reazione? (max 5 righe) 3. Lo scambio di battute nel finale anticipa non poco circa il significato del romanzo e la sua interpretazione complessiva: «– Questa è la legge; come ci potrebbe essere un errore? – Questa legge io non la conosco, – disse K. – Tanto peggio per lei, – disse la guardia». • Come si pone K., nell’arco di questo brano, di fronte alla «legge»? • A quale legge sembra qui alludere la guardia? • Infine commenta la battuta conclusiva della guardia. 4. La spoglia prosa kafkiana si attiene ai fatti, quasi senza commenti; registra con minuziosa, ossessiva precisione le parole, i gesti, i comportamenti del protagonista. Analizza una sequenza a tua scelta del testo. • Illustra il prevalere di fatti, oggetti, comportamenti quotidiani, trascritti dall’autore con voluto realismo. • Si può definire «eccessivo» tale realismo? Se sì, in che senso? • Infine: quale rapporto si genera fra questo stile «oggettivo» e l’assurdità più generale della situazione? Rispondi in max 10 righe.

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Il nuovo romanzo europeo

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La «Praga magica» di Kafka

■ La strada principale di Praga in una fotografia del 1905.

Non c’è modo migliore, forse, per comprendere Kafka uomo e scrittore che visitare Praga, la sua città. La capitale boema, benché non venga mai esplicitamente citata da Kafka, costituisce sempre lo sfondo dei suoi testi. Nel Processo, i quartieri periferici che Josef K. percorre per recarsi al tribunale ricordano da vicino le zone tipiche della Praga ebraica; il famoso episodio della visita del Duomo va collocato con la cattedrale praghese di San Venceslao; il luogo è la cava di Strahov, nei dintorni della città. Praga ha condizionato un po’ tutta la cultura, la personalità e l’immaginario dello scrittore. La capitale boema era all’epoca (analogamente alla Trieste di Svevo: E p. 505) una città dalla triplice natura: • aveva un’anima slava, per via della lingua e della cultura ceca, allora come oggi dominante; • aveva un’anima tedesca, in quanto Praga era all’epoca una delle città più importanti dell’Impero asburgico: in essa vi si respirava la cultura della Mitteleuropa, quella che vive anche in altri

grandi romanzieri come Thomas Mann, Robert Musil, Joseph Roth (E scheda a p. 724); conformemente agli usi della ricca borghesia ebraica, a cui la famiglia di Kafka apparteneva, l’educazione del futuro scrittore si svolse in scuole tedesche e in lingua tedesca; • infine, a Praga era viva un’anima ebraica, alla quale era legata la famiglia dello scrittore, soprattutto per parte di madre. Quest’ultima componente portò a Kafka tutta la tradizione antichissima dei commenti della Legge e dell’interpretazione delle Scritture (Talmud, Chassid), ma anche la propensione per il senso del mistero e del magico propria della Qabbalah, cioè di quella tradizione millenaria che interpretava la Bibbia in chiave simbolica ed esoterica. Tale sensibilità per il mistero e l’assurdo era vivissima (allora come oggi) a Praga, città di alchimisti e di golem (secondo una leggenda, il Golem era una creatura d’argilla, alla quale si poteva infondere vita mediante un rito magico e qabbalistico), città abitata da leggende e

superstizioni: Praga era ed è la «capitale magica dell’Europa», come la definì lo scrittore francese André Breton. Appunto in questa città dai mille volti, che si richiamano come in un gioco di specchi, tutti riflessi nelle acque della Moldava, il grande fiume che l’attraversa e che è solcato a sua volta da molti ponti, si formò l’immaginario di Franz Kafka: suggerendogli quella ricca galleria di volti, scorci, mostri e angeli che popolano i suoi libri. Oppure, come ha scritto un altro scrittore praghese, Franz Werfel: «Praga è un posto che suscita uno strano stato d’animo, un posto dove col passare dei secoli l’incompatibile diventa compatibile, dove il misterioso si mescola al grottesco, il mistico all’assurdo, il fisico al metafisico, un posto dai molti paradossi, che riusciva a tenere fianco a fianco Cechi, Tedeschi ed Ebrei, dando così vita ad una cultura e ad una letteratura uniche». Praga magica s’intitola un famoso libro – a metà fra saggio e romanzo – di Angelo Maria Ripellino (Einaudi 2002) a cui rinviamo per ogni approfondimento. 711

L’AUTORE

JAMES JOYCE ◗ Nato a Dublino, nel 1882, da famiglia cattolica, Joyce si formò presso scuole cattoliche; allo University College di Dublino studiò con passione numerose lingue straniere. Nel 1900 iniziò la stesura del romanzo Stefano eroe, pubblicato postumo solo nel 1944. Si laureò nel 1902, quando ormai aveva perso la fede religiosa dell’infanzia. ◗ In seguito, insofferente verso il cattolicesimo e il nazionalismo irlandesi, partì per Parigi, capitale dell’avanguardia culturale di allora. La morte della madre lo richiamò però a Dublino. Nel 1904 lasciò per sempre l’Irlanda (a eccezione di un breve ritorno a Dublino nel 1912). Si stabilì a Trieste, dove insegnò inglese alla Berlitz School; fra i suoi allievi vi fu Italo Svevo, con cui Joyce strinse amicizia. Nel 1907 pubblicò a Londra le poesie di Musica da camera; nel 1914 uscì la raccolta di racconti Gente di Dublino: quindici brevi storie dedicate a personaggi dublinesi. Nello stesso 1914 apparve a stampa il romanzo

L’OPERA

ULISSE ◗ Progettato a Roma come semplice novella da inserire in Gente di Dublino, l’originario spunto dell’Ulisse si ampliò ben presto in un disegno più ambizioso, che condusse Joyce a scrivere (dopo una stesura durata dal 1914 al 1919 circa e una successiva revisione) uno dei romanzi più importanti dell’intero Novecento. L’opera fu pubblicata a Parigi nel 1922. ◗ Romanzo sperimentale per definizione, Ulisse vuole descrivere i personaggi senza veli e la vita umana in ogni suo aspetto. A tale scopo adotta la particolare tecnica narrativa del monologo interiore, esasperato fino al «flusso di coscienza» (stream of consciousness: E p. 553). In tal modo il racconto proviene interamente dalla psiche stessa dei personaggi: mancano indicazioni chiare di spazio e tempo, manca uno sviluppo narrativo coerente; tutto si riduce a una serie ininterrotta di impressioni, ricordi,

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Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, che descrive, con numerosi richiami autobiografici, le esperienze spirituali e sessuali dell’inquieto Stephen Dedalus. ◗ Allo scoppio della Prima guerra mondiale Joyce si trasferì a Zurigo (dove fu rappresentato il suo dramma Esuli), poi a Locarno e infine (dal 1920) a Parigi. Pur afflitto da una malattia agli occhi, portò a termine il romanzo Ulisse, pubblicato a Parigi nel 1922. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti l’opera fu sequestrata con l’accusa di pornografia. Joyce morì a Zurigo nel 1941, lontano da quell’Irlanda a cui lo legava un intenso rapporto di odio-amore. Due anni prima, nel 1939, era uscito l’ultimo suo romanzo, Finnegans Wake (“La veglia di Finnegan”), composto in un linguaggio quasi incomprensibile, forgiato da Joyce a partire da una sessantina di lingue diverse: in esso il protagonista, gestore di un locale irlandese, ripercorre come nel delirio la storia del genere umano.

immagini e libere associazioni mentali. ◗ Non meno complessa è la struttura, che richiama l’antico poema greco dell’Odissea. I 18 episodi che formano il romanzo si dispongono in 3 grandi sezioni: a una parte chiamata Telemachia (comprendente le avventure di Stephen-Telemaco; Telemaco era il nome del figlio di Ulisse) seguono i due nuclei dell’Odissea (le avventure di Ulisse-Bloom) e del Nóstos (il ritorno di Ulisse-Bloom a Itaca). Tale costruzione del testo invita a leggere il romanzo nella controluce del poema di Omero, ma Joyce è un Omero stravolto: il suo eroe (Bloom) è un antieroe; il suo viaggio nella vita non approda ad alcuna meta; anzi, quel percorso è accompagnato da continui insuccessi (come rivelano la mancata sintonia con Stephen e il tradimento della moglie Molly) e da una costante anche se dissimulata disperazione. Fra i temi ricorrenti del racconto emergono

si per salvare la reputazione di Stephen, ormai ubriaco. Poi lo guida verso casa sua. A casa di Bloom i due parlano della loro vita passata e presente, ma senza intendersi mai realmente: dopo aver esposto i propri progetti letterari, Stephen rifiuta l’offerta di una stanza per la notte e abbandona Bloom. Questi, ripensando alla giornata vissuta, raggiunge a letto la moglie. Il romanzo si conclude con un lungo soliloquio di Molly, che nel dormiveglia ripercorre alcuni episodi della sua esistenza. ◗ Per raccontare il dramma del moderno Ulisse, Joyce adotta una prospettiva realistica, come si nota soprattutto nella minuta descrizione del caotico paesaggio dublinese e dei mille personaggi (molti ispirati da figure realmente esistenti) che agiscono su questo magmatico sfondo. Ma tale studio della realtà è compiuto attraverso il filtro della memoria e della coscienza, tramite la personale sensibilità di ogni personaggio. Dunque quello di Ulisse è un realismo del tutto soggettivo. Inoltre le prospettive narrative sono molteplici: non c’è un solo io narrante, perché il racconto riporta sulla pagina il «flusso di coscienza» dei diversi protagonisti. Il romanzo diviene così un’indagine sul problematico animo dei personaggi, incapaci di capire se stessi e il mondo. ◗ Sul piano stilistico, tutto ciò si traduce nel rivoluzionario sovrapporsi di diversi registri espressivi: si va dal tono drammatico a quello sentimentale, dall’ironico all’erudito, dalla lingua della comunicazione quotidiana ai simboli dell’epica antica. Il miscuglio non riguarda solo lo stile ma, a tratti, anche le lingue e il linguaggio. Alla fine il libro di Joyce si fa grandiosa summa e sintesi dell’uomo contemporaneo, delle sue incertezze e sconfitte, del suo rifiuto di quelle istituzioni (patria, famiglia, chiesa) in cui non riesce più a credere e, in ultima analisi, della sua profonda solitudine.

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l’esilio, la fallita ricerca della paternità, l’instabilità di tutte le cose, la crisi della storia moderna. ◗ La vicenda si svolge a Dublino, Irlanda; il romanzo narra tutto ciò che accade fra le otto del mattino e le due di notte del 16 giugno 1904 ai tre protagonisti del racconto: l’ebreo Leopold Bloom (Ulisse), la moglie Molly (Penelope) e il giovane Stephen Dedalus (Telemaco: una sorta di figlio spirituale di Bloom). Si comincia con l’inizio della giornata di Stephen, giovane letterato in crisi. Alle sue vicende s’intrecciano presto quelle, spesso banali, che capitano all’agente di pubblicità Leopold Bloom: risveglio, partecipazione al funerale di un conoscente, arrivo in ufficio, visita alla redazione di un giornale. Man mano Bloom incontra vari personaggi e subisce una serie di sottili ingiurie in quanto ebreo. Spesso sfiora il cammino di Stephen, senza però mai entrare in contatto con lui. All’ora di pranzo Bloom ritorna a vagabondare per le strade di Dublino: persone, negozi, monumenti, musei, sfilano svogliatamente dinanzi ai suoi occhi, mentre Stephen si trova alla Biblioteca Nazionale dove intavola una discussione su Shakespeare. Anche Bloom sosta brevemente alla biblioteca, dove vengono sussurrate nuove malignità sulla sua origine ebraica. Poi si rituffa nel labirinto di strade della città, in una folla di altri personaggi. Perseguitato dal pensiero di essere tradito dalla moglie, che in effetti in quel momento è in compagnia dell’amante, Bloom entra in un locale, dove viene coinvolto in un’accesa discussione politica; sfiora la rissa, ma riesce a rivendicare i meriti della sua stirpe ebraica. Giunta la sera, ripensa ai tanti insuccessi della giornata. Si reca all’ospedale per fare visita a un’amica, e quindi si ritrova a far baldoria con un gruppo di giovani. Stephen, lì presente, propone di avviarsi verso un pub. Il gruppo si muove in piena notte per le strade più malfamate della città, entra in un bordello e innesca una rissa; Bloom deve adoperar-

Contesto

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Tra Ottocento e Novecento

James Joyce

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Mr. Bloom a un funerale Ulisse, parte seconda, Odissea – III episodio: Ade – Il funerale Anno: 1922 Temi: • la meditazione sulla morte • precarietà dell’esistenza umana e dolore per la scomparsa delle persone care • il caos della vita riflesso nel vortice dei pensieri liberi del protagonista Siamo alle pagine finali del sesto episodio del romanzo (intitolato Ade – Il funerale). Leopold Bloom assiste ai funerali di Patrick Dignam, vittima dell’alcolismo, e medita sulla sua scomparsa; lo accompagnano altri amici, tra cui Simon Dedalus, padre di Stephen. Terminato il rito di sepoltura e dopo un breve colloquio sulla tomba di un patriota irlandese, Bloom si ritrova solo con se stesso.

Bloom critica l’usanza dei monumenti funebri, ma la frase resta sospesa nella sua mente; ecco un esempio di «sintassi mentale» alla tomba del figlioletto Rudy; un ricordo che tormenta spesso il protagonista

un breve intervento del narratore: poi riprende il pensiero di Bloom; l’Ulisse sgorga quasi tutto dalla coscienza dei personaggi

Mr. Bloom camminava inosservato per un vialetto lungo file di angeli rattristati, croci, colonne spezzate, tombe di famiglia, speranze di pietra1 che pregavano con gli occhi al cielo, cuori e mani della vecchia Irlanda. Più sensato spendere i soldi in qualche opera di carità per i vivi. Pregate per la pace dell’anima di. C’è qualcuno che veramente? Piantala e falla finita con lui.2 Scaricato. Come il carbone giù per una 5 botola di cantina. Poi li ammucchiano insieme per guadagnar tempo. Il giorno dei morti. Il ventisette sarò alla sua tomba. Dieci scellini per il giardiniere. Le tiene sgombre3 dalle erbacce. Vecchio anche lui. Piegato in due con le cesoie,4 a tagliare. Vicino alla porta della morte.5 Che si è spento.6 Che si è dipartito dalla vita. Come se l’avessero fatto di loro volontà. Buttati fuori,7 tutti quanti. Che ha tirato le cuoia. Più 10 interessante se vi dicessero chi erano. Il tal dei tali, carrozziere.8 Io ero rappresentante di linoleum. Io ho concordato con i creditori cinque scellini la sterlina. Oppure una donna con la casseruola. Io facevo un ottimo stufato irlandese. Elegia in un cimitero di campagna9 dovrebbe chiamarsi quella poesia di chi è Wordsworth o Thomas Campbell. Entrato nel riposo dicono i protestanti. La tomba del vecchio Mur- 15 ren.10 Il grande medico11 lo ha chiamato nella sua casa di cura. Be’ questa per loro12 è la terra consacrata. Bella residenza di campagna.13 Intonacata e ridipinta a nuovo. Luogo ideale per fare una fumatina e leggere il Church Times.14 [...] Un uccello stava chetamente appollaiato sul ramo di un pioppo. Come impagliato. Come il regalo di nozze che ci ha fatto l’assessore Hooper. Uuu! Non si smuove d’un 20 palmo. Sa che non ci sono fionde per prenderlo di mira. Animali morti anche più tristi.15 Millina16 sciocchina che seppelliva l’uccellino morto nella scatola dei fiammiferi in cucina, una coroncina di margherite e pezzetti di collanine sulla tomba.

1. speranze di pietra: statuette in pietra che rappresentano angeli o altre immagini di speranza. 2. con lui: il defunto. 3. Le tiene sgombre: si riferisce alle tombe. 4. cesoie: le forbici del giardiniere. 5. Vicino... morte: il giardiniere è vicino alla morte sia perché è anziano, sia perché svolge il suo lavoro nel camposanto. L’immagine della porta allude alle porte degli inferi della letteratura classica. 6. Che si è spento: il pensiero è probabilmente riferito, come il successivo, a un

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qualche defunto di cui ha letto l’iscrizione tombale. 7. Buttati fuori: avrebbero voluto continuare a vivere, ma la morte li ha ghermiti. Il pensiero drammatico è alleggerito dall’immagine più popolare del «tirare le cuoia». 8. carrozziere: Bloom immagina che i defunti stessi si presentino a lui. 9. Elegia... campagna: è il titolo di un famoso componimento (1751) di Thomas Gray, autore che Bloom non conosce direttamente; perciò lo attribuisce a Wordsworth o Campbell.

10. Murren: un conoscente del protagonista. 11. grande medico: Dio. 12. loro: i protestanti. 13. Bella residenza di campagna: riferito, con ironia, al cimitero. 14. Church Times: quotidiano cattolico. 15. più tristi: degli uomini. 16. Millina: Milly, la figlia di Bloom, ora quindicenne. Per un’associazione di idee, il padre la ripensa mentre, da bambina, celebrava il funerale di un uccellino morto.

subito dopo la breve didascalia dell’autore, riprende ancora il monologo interiore di Bloom

continua il dialogo ininterrotto fra sé e sé e con la religione: Bloom prende le distanze da essa, ma – come Joyce – ne rimane irresistibilmente attratto

17. Quello: Bloom osserva un’immagine del Sacro Cuore di Gesù; va ricordato che Bloom è di origine ebraica. 18. Il cuore in mano: il Sacro Cuore viene normalmente rappresentato con Gesù che regge nel palmo della mano il proprio cuore, simbolo del suo amore per l’umanità. 19. Forse... gli uccellini: Bloom ripensa a un quadro del pittore greco Zeusi, così verosimile da ingannare gli uccelli, che si avvicinarono per beccare i frutti dipinti. 20. Apollo: in realtà si trattava di Zeusi. 21. questi qua: i morti del cimitero. 22. il grammofono: il giradischi potrebbe

essere uno strumento utile per tramandare il ricordo della voce dei morti. 23. trisnonno: al trisnonno, la cui voce risuona nel giradischi, viene ora associata l’immagine del vecchio topo. 24. Wisdom Hely: una cartoleria dove Bloom lavorava. 25. plinto: base del pilastro. 26. Robert Emmet: un rivoluzionario irlandese, che nel 1803 cercò d’impadronirsi di Dublino; fu catturato e ucciso e la sua salma non fu più ritrovata. Qui viene ricordato solo per la sua quasi omonimia con il defunto Robert Emery: è un’associazione di idee.

27. Uno di quelli... uomo: un topo così si spolpa, si mangia in fretta un cadavere. 28. Viaggi in Cina: un libro letto da Bloom. 29. Cucina... ditta: cremare un cadavere, secondo una visione religiosa tradizionale, significa condannare l’anima all’inferno, farlo cucinare come un pollo dall’altra ditta (opposta al cielo), cioè dai diavoli-cuochi. 30. Parsi: popolo orientale seguace dello zoroastrismo, emigrato in India nell’VIII secolo. Esponevano agli uccelli predatori i corpi dei defunti su torri chiamate del silenzio. 31. Dignam: il conoscente di Leopold, del quale si sta celebrando il funerale.

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Monografia Raccordo

le tombe suggeriscono a Bloom questa sconsolata meditazione sul destino umano

Quello17 è il Sacro Cuore: lo mette in mostra. Il cuore in mano.18 Dovrebbe essere di lato e rosso dovrebbe esser dipinto come un cuore vero. L’Irlanda fu consacrata ad esso 25 o qualcosa del genere. Sembra tutt’altro che soddisfatto. Perché infliggergli questo? Forse verranno gli uccellini19 e lo beccheranno come il ragazzo col cestino di frutta ma no disse lui avrebbero avuto paura del ragazzo. Apollo20 si chiamava quel pittore. Quanti! Tutti questi qua21 hanno camminato un tempo per le vie di Dublino. Fe30 deli dipartiti. Come tu sei adesso, eravamo noi un tempo. E poi come si fa a ricordarsi di tutti? Gli occhi, l’incedere, la voce. Bene, la voce, sì: il grammofono.22 Mettere un grammofono in ogni tomba o tenerne uno a casa. La domenica dopo pranzo. Metti un po’ su il povero trisnonno.23 Craaaac! Prontoprontopronto sono felicissimo crac sonstrafelice... strafelicerivedervi prontoprontopronto sono feli poprszs. Ti ricorda la voce come una fotografia ti ricorda un viso. Sennò 35 non ti ricorderesti un viso dopo, mettiamo, quindici anni. Chi per esempio? Per esempio qualcuno morto quando ero da Wisdom Hely.24 Rtststr! Stridio di ghiaia. Aspetta. Fermo. Guardò intento in una cripta di pietra. Qualche animale. Aspetta. Eccolo là. Un obeso sorcio grigio trotterellava lungo un lato della cripta smuovendo la 40 ghiaia. Vecchio volpone: trisnonno: la sa lunga. Il vivo grigio si appiattò sotto il plinto,25 dimenandosi ci s’infilò dentro. Buon nascondiglio per un tesoro. Chi vive là? Giacciono i resti di Robert Emery. Robert Emmet26 fu sepolto qui a lume di candela, vero? Fa le sue poste. 45 Anche la coda è scomparsa ora. Uno di quelli si sbriga presto un uomo.27 Ripuliscono le ossa senza guardare in faccia a nessuno. Ne mangiano tutti i giorni di questa carne. Un cadavere è carne andata a male. E allora cos’è il formaggio? Il cadavere del latte. Ho letto in quei Viaggi in Cina28 che i cinesi dicono che un bianco puzza di cadavere. Meglio la cremazione. I preti ce l’hanno a morte. Cucina alla diavola per l’altra ditta.29 Grossisti 50 di bruciatori e graticole. Al tempo della peste. Fosse di calce viva per consumarli. Camera a gas. Ceneri in ceneri. O seppellire in mare. Dov’è quella torre del silenzio dei Parsi?30 Divorati dagli uccelli. Terra, fuoco, acqua. Annegare dicono che è il più piacevole. Vedere tutta la propria vita in un lampo. Ma essere riportati in vita no. Non si può seppellire nell’aria però. Giù da un’aeronave. Chissà se si sparge la no- 55 tizia quando ne mettono sotto un altro. Comunicazioni sotterranee. L’abbiamo imparato da loro. Non mi meraviglierei. Pasto in piena regola per loro. Le mosche arrivano prima che sia ben morto. Avuto sentore di Dignam.31 Non gliene impor-

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

un sospiro di sollievo per l’uscita dal cimitero, ma non cessa il dolore per le persone care scomparse

ta32 dell’odore. Pappa di cadavere biancosale che si sfalda: odore, sapore come di 60 rapa bianca cruda. I cancelli lucevano33 di fronte: ancora aperto. Di nuovo nel mondo. Basta con questo posto. Ti ci porta un po’ più vicino34 ogni volta. L’ultima volta che venni fu per il funerale di Mrs. Sinico. Il povero babbo anche. L’amore che uccide. J. Joyce, Ulisse, trad. di G. de Angelis, A. Mondadori, Milano 1971

32. Non gliene importa: alle mosche, che si affollano già sul cadavere.

33. lucevano: luccicavano. Bloom intravede l’uscita.

34. più vicino: alla morte.

LE CHIAVI DEL TESTO ■ Il vagare di Bloom fra le tombe del cimitero innesca la sua lunga e discontinua meditazione sui morti e sulla morte. Il risultato è l’umiliazione e la frustrazione del personaggio (in quanto tutti lo evitano); soprattutto, egli avverte il gran peso del dolore della vita, causato dalla perdita delle persone care: il figlioletto Rudy, scomparso dopo soli undici mesi di vita, e il padre, morto suicida. ■ Nella mente del protagonista emergono via via molti motivi, legati al suo materialismo di fondo. Infatti, pensa Bloom, sarebbe meglio spendere denaro in opere per i vivi piuttosto che per le tombe; il culto dei defunti è un’ipocrisia, visto che i morti sono morti e si corrompono rapidamente. Talvolta gli si affacciano pensieri macabri, come quando pensa all’azione corroditrice dei topi o delle mosche sui cadaveri. Contemporaneamente, però, la pagina rivela un’attenzione intensa per i problemi del morire e un continuo confronto con la religione, con le sue credenze, i suoi simboli (il Sacro Cuore di Gesù, gli angeli e i preti). Siamo del resto in Irlanda, terra d’intensa religiosità popolare. ■ L’episodio assume il suo vero significato se lo leggiamo come un rovesciamento del celebre colloquio di Ulisse con le anime degli inferi, narrato da Omero nell’XI libro dell’Odissea. È con questo testo che Joyce si confronta, «riscrivendolo». «Riscrittura» significa anche parodia, cioè capovolgimendo di significato: infatti Ulisse andava a colloquio con le anime dei grandi defunti (Achille, Agamennone); Bloom invece è amaramente scettico sulla sopravvivenza dell’anima oltre la morte. Più in generale, il mondo classico era intriso di certezze e di valori incorruttibili; la parodia-rovesciamento realizzata da Joyce intende rivelare la futilità e banalità del reale: la ridda di pensieri, considerazioni, sensazioni che si scatena nella mente di Bloom vuole ritrarre il grande caos della vita contemporanea. ■ Soprattutto la parte iniziale del testo costituisce un ottimo esempio di monologo interiore (il personaggio pensa a voce alta), spinto fino al flusso di coscienza. Infatti nel corso dei pensieri di Bloom emergono irresistibilmente molte deviazioni dal pensiero principale e libere associazioni d’idee: per esempio il ricordo della figlia Millina, la digressione sulla vo716

ce dei morti, la citazione del rivoluzionario Emmet e così via. L’autore traduce in questo modo il libero fluire dei pensieri del personaggio, che obbediscono a leggi soltanto soggettive, prive di logica. Anche la sintassi deve contorcersi per mimare i frammentari percorsi della mente, mentre il lessico ricorre in certi momenti all’onomatopea (Craaaac! Prontoprontopronto). LAVORIAMO SUL TESTO 1. Riassumi le caratteristiche del personaggio di Bloom, per come risaltano da questa pagina. • Quali aspetti della sua vita privata emergono? • Quali convinzioni egli manifesta? • Ci sono, nel brano, riferimenti concreti alla storia e alla vita dell’Irlanda dell’epoca? 2. Individua le immagini che dimostrano l’insistente attenzione di Bloom agli aspetti materiali e fisici dell’esistenza. 3. Bloom utilizza anche l’ironia per colpire la fede sulla sopravvivenza dell’anima: per esempio ritiene che Dio sia un gran medico... che però non guarisce nessuno. Rintraccia il punto nel testo e altri momenti parodistici. 4. Risultano frequenti i riferimenti a personaggi e opere letterarie e artistiche: Bloom è un intellettuale, che si misura, sia pure confusamente, con la tradizione culturale europea. Ritrova i riferimenti culturali e intellettuali presenti. 5. Che cosa s’intende per «monologo interiore»? Sai distinguerlo dal «flusso di coscienza»? Fai un esempio di entrambe le tecniche a partire da questo brano di Joyce. 6. Rifletti sul «linguaggio mentale» di Bloom, con qualche concreto riferimento al testo. • Com’è il tono? • Come definiresti il suo vocabolario: colto, quotidiano, popolare, ricercato ecc.? • Usa espressioni concrete o figurate? • Infine: quali elementi si discostano maggiormente da una forma tradizionale di narrazione? 7. Ritrova nel testo i pochi punti che si possono considerare interventi diretti del narratore. 8. Individua infine il punto in cui i morti... possono replicare al protagonista!

Il nuovo romanzo europeo

Contesto

La parola al critico Joyce e Proust, capostipiti del romanzo moderno

Monografia Raccordo

Il grande critico Giacomo Debenedetti (1901-67) mette a confronto i maggiori autori italiani (soprattutto Svevo, Pirandello e Tozzi) con i grandi narratori europei (Joyce, Proust, Kafka) d’inizio Novecento. Egli scorge in Joyce e Proust i due capostipiti alle origini del romanzo contemporaneo. Joyce e Proust sono infatti accomunati dal metodo di conoscenza, imperniato sull’intuizione: da un lato le «epifanie» di Joyce, dall’altro le «intermittenze del cuore» di Proust portano alla luce ciò che giace nel fondo della coscienza. Proprio questo diviene il vero obiettivo della nuova narrativa. «Questa triviale scenetta1 lo fece pensare alla possibilità di raccogliere molti di quei momenti in un libro di epifanie.» La parola epifania, messa lì d’improvviso, pare abbastanza inspiegabile e sorprendente [...] ma notiamo fin d’ora che le epifanie, questo sentimento di epifania, costituiscono il metodo narrativo di Joyce. William York Tindall,2 nella sua Reader’s Guide to James Joyce (Guida per il lettore di Joyce) nota, nelle pagine introduttive ai Dubliners,3 che ciascuno di questi racconti «può essere considerato come una grande epifania e come il contenente di piccole epifanie, un’epifania di epifanie». [...] Tindall ricorda come l’Epifania cada il sei di gennaio e commemori l’arrivo dei tre Re Magi ad una mangiatoia dove, «mentre videro nient’altro che un bambino, videro qualcosa d’altro». Ci importa questo fenomeno di seconda vista4 per cui la cosa, percepita nell’oggettività materiale, naturale del suo apparire, invita a scorgere ed effettivamente fa scorgere qualche cosa d’altro. Sentiamo ora quel che ne pensa Stefano [...]: «Per epifania Stefano intendeva5 un’improvvisa manifestazione spirituale, o in un discorso, o in un gesto, o in un giro di pensieri, degni di essere ricordati. Stimava cosa degna per un uomo di lettere registrare queste epifanie con estrema cura...». [...] Dall’apparizione del bambino Gesù ai Re Magi, che diviene quello di un corpo manifestante, Stefano trae il modello per guardare gli insignificanti, ma rivelatori aspetti di Dublino: per esempio l’orologio della Dogana. A noi importa di mettere in luce un altro aspetto di questa poetica delle epifanie: e proprio ai fini della grande svolta compiuta dal romanzo nel Novecento [...]. Fino agli albori del nostro secolo si erano visti tanti tipi di romanzo, che prendono vari nomi: naturalista, psicologico, simbolista, per esempio. Ma tutti condividono un carattere comune: [...] l’oggetto, per il romanziere tradizionale, prenovecentesco, non può, non deve mai essere insignificante; se lo assume e lo rappresenta è proprio perché è in qualche modo significativo: porta il suo contributo. [...] Invece lo Stefano di Joyce, il futuro romanziere nuovo, si sente colpito da fatti per sé insignificanti, che, in quanto non servono, e perciò si epifanizzano, arrivano a un potere manifestante. Detto in un modo molto approssimativo: è come se il mondo si fosse dualizzato6 in ciò che appare e in ciò che viene manifestato da quanto appare. [...] *** Anche il romanzo di Proust, Alla ricerca del tempo perduto, [...] comincia con la rievocazione di un ragazzo, che aspira a diventare artista e si sente drammaticamente privo di vocazione, 1. Questa triviale scenetta: la citazione proviene da Stefano eroe (Stephen hero), il romanzo scritto da Joyce come abbozzo in preparazione al più famoso Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane. È la conclusione di un episodio nel quale il giovane Stephen, passando per Eccles’ Street,

ascolta casualmente un dialogo tra un giovane e una ragazza (trivial = “insignificante, banale”). 2. William York Tindall: critico americano. 3. Dubliners: Gente di Dublino, la raccolta di racconti pubblicata da Joyce nel 1914.

4. seconda vista: una vista intellettuale, più approfondita che non una semplice percezione visiva. 5. Per epifania Stefano intendeva: Debenedetti continua la citazione da Stefano eroe di Joyce. 6. dualizzato: spezzato, scisso in due componenti.

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Tra Ottocento e Novecento

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perché non riesce a scrivere, non tanto ciò che vuole o si propone di scrivere (in realtà non è mai arrivato finora a porsi un tema), ma ciò che deve essere scritto, l’unica realtà degna di essere fissata con le parole e la forma letteraria; l’unica realtà, anzi, capace di crearsi una forma: quella forma che – una volta raggiunta – riscatta il doloroso senso che il tempo trascorso in questo mondo e speso soltanto a vivere, a guardare senza realmente vedere, [...] sia tempo perduto; e fa sì che quel tempo perduto diventi tempo ritrovato. E che cos’è che si deve scrivere? Questo compito, questo dover essere della poesia e dell’arte è subito enunciato, tematicamente, e più volte esemplificato e replicato, nella prima parte del romanzo intitolato Du côté de chez Swann (La strada di Swann). Il compito è di vedere «che cosa si nasconde dietro le cose». Una seconda realtà, per dirla in breve, più profonda e stabile e vera di quella vistosamente e sensibilmente presentata dalla loro apparenza. Per esempio: «d’improvviso; un tetto, un riflesso di sole su una pietra, l’odore di un sentiero m’inducevano a fermarmi, perché mi davano un piacere particolare, e anche perché parevano nascondere, di là da quello che vedevo, qualcosa che m’invitavano a venire a prendere e che, nonostante i miei sforzi, non giungevo a scoprire. Sentendo ch’era contenuto in essi, rimanevo là, immobile, a guardare, a respirare, a tentare di superare col mio pensiero l’immagine e l’odore». Ma non è lo sforzo volontario a poter rivelare quella seconda verità, nascosta e più vera, capace di garantire il possesso della cosa veduta, della sensazione provata [...]. La prima volta che il protagonista del romanzo, ancora ragazzo, arriva ad afferrare quel qualcosa che le apparenze immediate sembrano invitarlo ad andare a prendere, questo avvenimento si produce come per un miracolo, per una illuminazione ottenuta al di fuori di ogni sforzo della volontà o dell’attenzione. [...] Ecco dunque che cos’è un’intermittenza del cuore:7 un risorgere del tempo perduto, di un tratto del tempo perduto grazie all’opera – meglio la si chiamerebbe l’intercessione – della memoria involontaria stimolata da una sensazione, da un oggetto, che talvolta con quelle immagini, con la viva e folta anima di quelle immagini, ha poca somiglianza, poche analogie, spesso puramente casuali. Le intermittenze del cuore sono il metodo narrativo di Proust in una maniera anche più evidente di quanto le epifanie lo siano per Joyce. [...] Il Tempo ritrovato, l’ultima parte, raccoglie e definisce tutto il romanzo [di Proust] come un’unica, immensa intermittenza del cuore, lunga quanto una vita [...]. Basterà dire, a conferma di tutto questo, che il romanzo è la storia dell’uomo che non può scrivere e che il Tempo ritrovato risale tutta quella storia capovolgendola, per così dire, dalla prospettiva del momento in cui quell’uomo trova la risoluzione, il coraggio, il diritto di scrivere. E in che modo si produce quel momento? L’annuncio arriva quasi come un appello, un rintocco miracoloso della Grazia, per un ripetersi fitto, nel giro di un’ora, di una serie di intermittenze del cuore che danno come simbolicamente al protagonista la garanzia che il suo metodo di recupero è efficace e ormai lo assisterà. [...] Se Tindall ha potuto dire che ciascuno dei racconti dublinesi di Joyce «può essere considerato come una grande epifania e come il contenente di piccole epifanie, un’epifania di epifanie», a molto maggior ragione si può ripetere che il romanzo di Proust può essere considerato come una grande intermittenza del cuore e come il contenente di piccole intermittenze, una intermittenza di intermittenze. Ne concludiamo che i due grandi romanzieri, che inaugurano il romanzo del Novecento e gli danno l’impronta (fino a loro si erano vedute repliche del romanzo precedente), perseguono, per vie diverse, analoghi metodi di conoscenza della realtà con cui tessono e costruiscono le loro narrazioni. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano 1998 7. un’intermittenza del cuore: l’espressione è stata coniata dallo stesso Proust. La memoria involonta-

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ria «fa scattare» il ricordo (appunto come un’«intermittenza del cuore») e avvia la catena che porterà al recupe-

ro del passato. Solo tale operazione, secondo Proust, può portare alla più vera conoscenza di sé e del mondo.

ROBERT MUSIL ◗ Musil nacque a Klagenfurt, in Austria, nel 1880, in una famiglia borghese (il padre era ingegnere) dedita alla causa dell’Impero asburgico. Venne iscritto al liceo militare di Eisenstadt ma, dopo un anno trascorso all’Accademia militare di tecnologia di Vienna, ottenne dal padre di lasciare l’esercito (che ricorderà poi sempre come un incubo), per studiare ingegneria meccanica a Brno. Laureatosi nel 1901, insegnò per un anno a Stoccarda. ◗ Nel 1906 pubblicò con discreto successo il suo primo romanzo, I turbamenti del giovane Törless, in parte autobiografico. Studiò quindi filosofia e psicologia all’Università di Berlino, dove prese una seconda laurea nel 1908 con una tesi sul fisico e filosofo Ernst Mach. La sua nuova idea di scienza superava i vecchi paradigmi del Positivismo. Risiedette per qualche anno a Berlino, lavorando come re-

L’OPERA

dattore di riviste; qui sposò la pittrice ebrea Martha Hiemann. ◗ Partecipò alla Prima guerra mondiale; nel 1918, dopo la sconfitta austriaca, si stabilì a Vienna, impiegandosi nell’ufficio stampa del ministero degli Esteri (e poi in quello della Guerra). Nel 1923 stipulò un accordo con l’editore berlinese Rowohlt per scrivere quello che sarà il suo capolavoro, L’uomo senza qualità: il primo volume uscì nel 1930, il secondo nel 1933, con successo di critica, ma non di vendite. Alcuni amici (per lo più ebrei e oppositori del regime nazista) unirono i loro sforzi per soccorrerlo economicamente. ◗ Nel 1937 Musil tenne una conferenza (Discorso sulla stupidità) ostile al nazismo. Dopo l’occupazione di Vienna (1938), fuggì in Svizzera. Qui lavorò al seguito del suo romanzo, senza però concluderlo. Morì improvvisamente in solitudine a Ginevra nel 1942.

L’UOMO SENZA QUALITÀ ◗ Fin dagli anni della Prima guerra mondiale Musil pensava a un vasto romanzo autobiografico, ma scritto in terza persona; erano nati abbozzi, appunti e pagine di diario. La prima parte dell’opera uscì a Berlino nel 1930 con il titolo Viaggio al margine del possibile; la seconda, intitolata Il regno millenario, nel 1933. Altri 14 capitoli uscirono postumi nel 1943; un’edizione complessiva, con tutti i materiali scritti da Musil, apparve nel 1952 ad Amburgo, con il titolo L’uomo senza qualità (Der Mann ohne Eigenschaften). ◗ Più che un romanzo, L’uomo senza qualità è un antiromanzo: la vicenda cresce pagina dopo pagina senza un vero inizio né un epilogo; l’intreccio si dirama in ogni direzione, raccontando le vicende di molti personaggi e toccando tematiche diverse, senza che nessuna di esse giunga a una vera conclusione. La trama si ambienta a Vienna. Per festeggiare il settantesimo anniversario di regno dell’imperatore Francesco Giuseppe, si costi-

tuisce un comitato politico, l’«Azione parallela», di cui è segretario Ulrich, un ex ufficiale, uomo raffinato, solitario, istintivo. Gli altri membri del comitato sono individui meschini. Nel 1914 scoppia la guerra e il comitato si scioglie, senza aver concluso nulla. Ulrich parte per il fronte. ◗ Il protagonista Ulrich non è definito dalle azioni che compie, né possiede una psicologia coerente; si modifica in ogni momento, a seconda dei rapporti che intrattiene con gli altri. «Senza qualità» non significa inetto o incapace; in realtà non sono le «qualità» a fargli difetto, quanto la fermezza interiore necessaria per utilizzarle al meglio: «Egli vedeva in sé tutte le capacità e qualità che il suo tempo apprezzava di più, ma aveva perduto la possibilità di applicarle». Tra gli altri personaggi, spiccano quelli femminili: Clarissa, amica del protagonista e infatuata di Moosbrugger, un omicida internato in manicomio, che Clarissa vuole liberare; Diotima 719

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L’AUTORE

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

(il nome riprende quello della sacerdotessa citata da Socrate nel Simposio di Platone), eclettica animatrice di salotti mondani e anima dell’«Azione parallela»; Gerda, ebrea, che abbandona l’agiatezza borghese per seguire un movimento giovanile cristiano; la sorella Agathe, che Ulrich ritrova a vent’anni e di cui s’innamora, costruendo un rapporto complesso e che via via prende la forma di un’esperienza mistica. ◗ Il romanzo di Musil si può collocare nella stagione immediatamente successiva al Decadentismo. A quell’epoca molti scrittori, in aree culturali diverse, esprimevano il tema della crisi d’identità dell’uomo contemporaneo; una crisi acuita da fattori storico-sociali, come i nazionalismi esasperati e contrapposti, l’emergere delle masse sulla scena della storia, il frantumarsi del vecchio ordine politico. Solo nell’Impero austroungarico era parso che il tempo si fosse fermato: l’antico Stato asburgico, organismo multinazionale e cosmopolita, sembrava voler resistere di fronte alle novità della storia, quasi fosse un «pezzo»

del vecchio mondo ottocentesco salvaguardato dalle dolorose novità del Novecento. Proprio questo motivo rende la letteratura mitteleuropea tanto significativa della crisi decadente: infatti Musil e gli altri scrittori mitteleuropei (Mann, Kafka, Joseph Roth) testimoniano l’impossibilità d’illudersi; smascherano la caduta di quell’ordine politico-sociale ormai illusorio e soprattutto denunciano il vuoto spirituale che, fatalmente, segue alla perdita di modelli prestigiosi ma ormai superati. ◗ Non a caso, perciò, la filigrana che percorre L’uomo senza qualità è il tema della fine dell’Impero austroungarico; ma questo sfondo si fa, appunto, emblema del crollo di un’intera civiltà, di una cultura secolare – e di una conseguente, e parallela, crisi culturale. Musil appare critico verso i meccanismi burocratici delle istituzioni imperiali, ma questo motivo viene a significare ben altro, per lui: diviene il segno della caduta di ogni illusione (individuale e collettiva) di intrattenere rapporti positivi con l’intera realtà.

Robert Musil

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Ulrich, un uomo «senza qualità» L’uomo senza qualità, parte I: Viaggio al margine del possibile Anno: 1930 Temi: • inconcludenza, instabilità, mutevolezza psicologica • il prevalere del «senso della possibilità» sul «senso della realtà» • l’individuo privo di vera identità, debole e problematico Il «carattere» così particolare del protagonista Ulrich viene perfettamente delineato nelle pagine che seguono, sotto forma di dialogo tra due suoi amici: Walter e Clarisse, marito e moglie. Mentre pranzano, parlano di lui, tra mille allusioni, sottintesi, digressioni.

un primo segnale di contraddittorietà in Ulrich

«Profondi sono i nostri dolori! – egli pensò...1 – Non accade spesso, credo, che due si amino così profondamente come noi siam sforzati ad amarci». E incominciò a parlare senza trapasso:2 «Non voglio sapere che cosa ti ha raccontato Uli,3 ma posso dirti che la forza che tu ammiri in lui è vuoto; vuoto e null’altro!» Clarisse guardò il piano4 e sorrise; senz’accorgersene egli si era seduto di nuovo vicino all’istrumento 5 aperto. Egli seguitò: «Dev’essere facile avere sentimenti eroici quando si è insensibili

1. egli pensò...: il soggetto è Walter, amico di gioventù di Ulrich, e marito di Clarisse. La loro crisi matrimoniale, che condurrà la donna alla follia, è uno dei motivi

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prevalenti nella prima parte dell’opera. 2. trapasso: collegamento logico. 3. Uli: diminutivo di Ulrich. In una prima stesura del romanzo il nome del protagoni-

sta era Anders, cioè “diverso, altrimenti”. 4. piano: pianoforte; i due sono appassionati di musica.

due immagini ironiche, che compromettono la serietà dei concetti

l’espressione che dà il titolo al romanzo

spesso i personaggi di Musil si distanziano con ironia da se stessi

5. matematico: è la professione di Ulrich. 6. dei preti cattolici: riconoscibili dall’abito e dal colletto bianco.

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Monografia Raccordo

il rimpianto per una civiltà che Musil percepisce in disfacimento

per costituzione, e pensare in chilometri quando si ignora quante cose possa contenere un millimetro!» Qualche volta lo chiamavano Uli, come quando erano bambini, ed egli voleva loro bene per questo, così come si conserva alla propria balia un sorridente rispetto. «Si è impantanato!» soggiunse Walter. «Tu non te ne accorgi; ma 10 non credere che io non lo conosca!» Clarisse ne dubitava. Walter disse con impeto: «Oggi tutto è rovina! Un abisso senza fondo d’intelligenza! Egli è intelligente, te lo concedo; ma non sa che cosa sia la potenza di un’anima intatta. Quello che Goethe chiama ‘personalità’, quello che Goethe chiama ‘ordine mobi- 15 le’, gli è del tutto ignoto. ‘Un bel concetto di limite e potere, di arbitrio e legge, di libertà e misura, di ordine mobile...’» La citazione gli sgorgava a fiotti dalle labbra. Clarisse gli guardava la bocca benevolmente, come se ne stesse uscendo un grazioso giocattolo. Poi si ricordò e inter20 ruppe in tono da donnina di casa: «Vuoi birra, stasera?» «Eh? Perché no? La bevo sempre.» «Ma in casa non ce n’è.» «Potevi fare a meno di chiedermi,» sospirò Walter. «Forse non ci avrei pensato.» Con questo la questione per Clarisse era esaurita. Ma Walter era uscito di carreggia- 25 ta e non sapeva bene come seguitare. «Ricordi la nostra conversazione sull’artista?» domandò incerto. «Quale?» «Quella di due o tre giorni fa. Io ti ho spiegato che cosa significhi un vivente principio creativo in un individuo. Non rammenti come son giunto alla conclusione che 30 una volta al posto della morte e della meccanizzazione logica regnavano il sangue e la saggezza?» «No.» Walter s’era incagliato, cercava, esitava. A un tratto esplose: «È un uomo senza 35 qualità!» «E che cos’è?» chiese Clarisse sorridendo. «Niente. Niente, per l’appunto!» Ma l’espressione aveva incuriosito Clarisse. «Ve ne sono milioni oggigiorno,» affermò Walter. «È il tipico prodotto del nostro tempo.» Quella espressione salitagli spontaneamente alle labbra era piaciuta anche a 40 lui; come il primo verso di una poesia, la frase lo spingeva avanti prima che egli ne avesse colto il senso. «Guardalo! Per che cosa lo prenderesti? Ha forse l’aspetto di un medico, di un commerciante, di un pittore o di un diplomatico?» «Ma infatti non lo è,» opinò Clarisse tranquillamente. «Ebbene, ha l’aspetto di un 45 matematico,5 allora?» «Non lo so; non so mica che aspetto debba avere un matematico!» «Ecco che hai detto una cosa molto giusta! Un matematico non ha nessunissimo aspetto! Cioè, avrà un’aria intelligente, così in generale, senza nessun contenuto preciso. Ad eccezione dei preti cattolici,6 nessuno oggigiorno ha l’aspetto che dovrebbe

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

una profezia letteraria sulla nostra epoca e le sue abitudini

Ulrich è la contraddizione fatta persona

forse la migliore definizione di chi è «senza qualità» il mondo di Musil è dominato dal relativo e dall’opinabile l’ironia relativizza la portata della precedente analisi

di nuovo l’immagine di un’intera civiltà in disfacimento

avere, perché noi adoperiamo la nostra testa ancor più impersonalmente che le no- 50 stre mani; la matematica però è il colmo, quella è ignara di se stessa come in futuro gli uomini, che si nutriranno di pillole invece che di pane e di carne, saranno ignari di prati, galline e vitelli!» Intanto Clarisse aveva portato in tavola la modesta cena, e Walter si era servito ripetutamente; forse il cibo gli aveva ispirato quel paragone. Clarisse guardava le sue lab- 55 bra; somigliavano a quelle di sua madre, forti e donnesche, e compievano la funzione di mangiare come se fosse un lavoro di casa; erano però sormontate da piccoli baffi a spazzola. Gli occhi gli brillavano come castagne d’India appena sbucciate, anche se cercava soltanto un pezzo di cacio nel piatto. Quantunque fosse di corporatura piccola e più femminea che delicata, si faceva notare ed era di quelle persone che appaiono 60 sempre ben illuminate. Riprese il discorso: «Dall’aspetto non puoi indovinare la sua professione, eppure non ha l’aria di un uomo senza professione. E adesso rifletti com’è: sa sempre ciò che deve fare; sa guardare una donna negli occhi; è capace di meditare su qualunque argomento in qualunque momento; è un buon pugilatore.7 Ha ingegno, volontà, spregiudicatezza, coraggio, perseveranza, slancio e prudenza... 65 non voglio addentrarmi in un’analisi, diciamo che possiede tutte queste qualità. Eppure non le possiede! Esse hanno fatto di lui quello che è, e hanno segnato il suo cammino, ma non gli appartengono. Quando egli è in collera, c’è in lui qualcosa che ride. Quando è triste, si prepara a far qualcosa. Quando qualcosa lo commuove, egli lo respinge da sé. Ogni cattiva azione sotto qualche aspetto gli apparirà buona. Solo 70 una possibile correlazione determinerà il suo giudizio su un fatto. Per lui nulla è saldo, tutto è trasformabile, parte di un intero, di innumerevoli interi che presumibilmente appartengono a un superintero, il quale però gli è del tutto ignoto. Così ogni sua risposta è una risposta parziale, ognuno dei suoi sentimenti è soltanto un punto di vista, di ogni cosa non gli preme di sapere che cos’è, ma solo di scoprire un secon- 75 dario ‘com’è’, un accessorio qualunque. Non so se riesco a farmi capire.» «Ma sì,» disse Clarisse. «Però mi pare che tutto questo sia molto carino.» Walter senza volerlo aveva parlato dando segno di crescente animosità; gli antichi sentimenti fanciulleschi di «più debole dei due» accrescevano la sua gelosia. Infatti pur essendo convinto che Ulrich, tranne un paio di aride prove d’intelligenza, non 80 aveva mai combinato nulla, sotto sotto non riusciva a liberarsi dall’impressione di essergli sempre stato inferiore. Il ritratto da lui tracciato gli dava sollievo come la riuscita di un’opera d’arte;8 egli non l’aveva messo fuori da se stesso ma, legate alla misteriosa efficacia di un inizio, le parole all’esterno s’erano apposte alle parole, e intanto nel suo animo si disfece qualcosa di cui non aveva coscienza. Quando ebbe fi- 85 nito, s’era accorto che Ulrich esprimeva unicamente quella dispersione che oggi in tutto si manifesta. R. Musil, L’uomo senza qualità, trad. di A. Rho, nota introduttiva di C. Cases, Einaudi, Torino 1982

7. pugilatore: pugile; è un tipo atletico, insomma. 8. gli dava sollievo... opera d’arte: dun-

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que anche Walter, come il suo amico Ulrich, si «accontenta» di una buona teoria.

■ La descrizione di Ulrich che Walter tratteggia è, in parte, dettata dalla gelosia; tuttavia, ha il pregio d’identificare caratteristiche reali del personaggio. Ulrich è descritto come un uomo vuoto, insensibile, impantanato, uno che non ha mai combinato nulla, insomma un niente. In realtà è un individuo colto, capace di meditare su qualunque argomento in qualunque momento, che sa sempre ciò che deve fare (rr. 63-64), come gli riconosce lo stesso Walter. Dunque, l’uomo senza qualità è paradossalmente ricco di qualità: possiede tutte queste qualità. Eppure non le possiede!, come afferma Walter. Proprio in questo consiste il suo limite. ■ Per comprendere tale apparente contraddizione, dobbiamo considerare il concetto di possibilità, che Musil spiega fin dalle prime pagine del romanzo: «Il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dar maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è». Ulrich è appunto dotato del «senso della possibilità», più che di concretezza, di senso della realtà. Egli sa che nulla è stabile, che tutto muta e si trasforma: la realtà è in perenne movimento, caotica, imprevedibile. Anche Walter ribadirà, più avanti, tale concetto, dicendo che per Ulrich «ogni cosa ha cento lati, ogni lato ha cento correlazioni, e a ciascuna sono annessi sentimenti diversi». ■ Il problema è che chi vive «aperto» a ogni possibilità fatica a riconoscersi una reale identità; soffre non di inerzia, ma di perenne inconcludenza; e rischia così di farsi sfuggire la vita. Ulrich, in sostanza, è un personaggio-senza, un uomo-fuori (sono termini che valgono anche per i personaggi di Pirandello: E p. 586). Egli simboleggia una dispersione che non caratterizza solo la sua coscienza individuale, ma riflette il caos di un’intera epoca. Appunto il mito della fine di un’epoca trova nel romanzo di Musil la sua più compiuta rappresentazione nella dolorosa agonia e nella dissoluzione dell’impero asburgico. Ulrich esprimeva unicamente quella dispersione che oggi in tutto si manifesta, è la conclusione di Walter; e Clarisse dirà, poco più avanti: «Oggi tutto è disperso. Dice che tutto s’è incagliato, non lui soltanto», riferendo il pensiero di Ulrich. ■ «Come in ogni grande romanzo moderno sulla linea dell’“avanguardia”, a un soggetto disgregato, “senza qualità”, [...] corrisponde un mondo che si presenta ugualmente disgregato e fantomatico» (C. Cases). Ciò si riflette sulla forma stessa del romanzo: la struttura dell’opera di Musil si presenta infatti «disgregata». Ciò vale sia sul piano narrativo, sia su quello della struttura generale del romanzo, molto ondivaga e divagatoria. Già in questo brano incontriamo una prosa che divaga, ondeggia, segue le fila un po’ casuali del-

le chiacchiere quotidiane. L’autore adotta un registro stilistico oscillante tra il saggio critico (i temi di cui si occupano i due coniugi sono un po’ improbabili, nel contesto quotidiano di un pranzo!), l’autobiografia, l’ironia.

LAVORIAMO SUL TESTO 1. Riassumi gli eventi che accadono nel brano. 2. Proponi adesso un tuo commento: prevalgono, sulla pagina di Musil, gli eventi? Oppure i giudizi su di essi? O che altro ancora? ....................................................................................................... ....................................................................................................... ....................................................................................................... 3. Si può cogliere, dal testo, un’analogia fra artista e scienziato? Oppure Walter separa nettamente le due categorie? E, secondo lui, Ulrich è un artista, uno scienziato o entrambi? ....................................................................................................... ....................................................................................................... 4. Individua nel testo una sequenza a tua scelta, che mostri il caratteristico stile «divagatorio» dell’autore. Commentala opportunamente. 5. Le incertezze del protagonista riflettono la crisi di un’epoca: in che senso? Rispondi indicando alcune spie che si possono rintracciare nel testo letto (max 20 righe). 6. In un altro punto del romanzo, l’autore afferma che Ulrich è un individuo che «non poteva ricordare un periodo della sua vita che non fosse stato animato dalla volontà di diventare qualcuno, disgraziatamente egli non sapeva che cos’è un uomo notevole, né come lo si diventa». Spiega queste righe, mettendole in relazione a quanto hai letto, nel brano, sul personaggio. 7. Leggi con attenzione questo giudizio del critico Claudio Magris: «Ulrich, l’uomo senza qualità, è fatto di qualità senza uomo, perché le sue molte e notevolissime doti mancano di un punto di riferimento che dia loro un’autentica funzione». • Sei d’accordo con questo punto di vista? Motiva la risposta. ....................................................................................................... ....................................................................................................... • A partire da quali aspetti si può affermare che Ulrich manchi di «un punto di riferimento»? Rispondi con opportuni riferimenti al testo. ....................................................................................................... .......................................................................................................

723

Monografia Raccordo

LE CHIAVI DEL TESTO

Contesto

Il nuovo romanzo europeo

Tra Ottocento e Novecento

La Mitteleuropa e la sua cultura

Una leggenda nel cuore dell’Europa «Mitteleuropa» (alla lettera: “l’Europa di mezzo”) era il mondo di lingua germanica che caratterizzò il centro del continente, dal XVI secolo fino al crollo dell’Impero asburgico, avvenuto nel 1918, al termine della Prima guerra mondiale. Dal Settecento in avanti, la Mitteleuropa coincideva in sostanza con i territori dell’Impero asburgico. Si trattava di un mondo vivacissimo, nutrito d’intensi scambi culturali e commerciali; in esso convivevano, talora pacificamente, etnie e religioni diverse. Alcune condizioni favorevoli contribuirono a mantenere viva per tanto tempo questa realtà multiculturale e multietnica: • l’apertura agli influssi delle più diverse tradizioni religiose – dall’ebraismo al cattolicesimo riformato; • un approccio sostanzialmente laico alla realtà, cresciuto sulla radicata consuetudine all’esercizio del commercio; • condizioni economiche e sociali particolarmente vantaggiose, grazie all’efficiente gestione politica e amministrativa della corona asburgica. Oggi, quando pensiamo alla Mitteleuropa, ci si presenta davanti una particolare atmosfera culturale, fatta di caffè eleganti, concerti di musica sinfonica, edifici maestosi; una leggenda incarnata da una città, Vienna, capitale di un grande millenario impero multietnico, e da un treno, l’Orient-Express, che partiva da Venezia e arrivava a Istanbul, attraversando proprio le città della Mitteleuropa: Zagabria, Praga, Budapest, seguendo il percorso del fiume Danubio. Un mondo rievocato dallo scrittore viennese Stefan Zweig (1881-1942) nel libro autobiografico Il mondo di ieri (1942) e più di recente

724

■ Una veduta di Vienna alla fine dell’Ottocento.

dal nostro Claudio Magris in Danubio (Garzanti, Milano 2005), un saggio che si legge come un romanzo.

Gli interpreti della Mitteleuropa Nella pagine dei romanzieri, nei ritratti degli artisti, sulle note dei musicisti la Mitteleuropa diviene soprattutto un clima, propizio alla nascita, tra Otto e Novecento, di decisive e originali espressioni culturali, non solo letterarie, ma anche musicali, artistiche, scientifiche e architettoniche. Si pensi alla pittura espressionista (di Oskar Kokoschka e Gustav Klimt) o alla sperimentazione musicale dodecafonica di Arnold Schönberg (citata nel romanzo I Buddenbrook di Thomas Mann); alla ricerca filosofica (di Ludwig Wittgenstein e degli altri intellettuali del Circolo di Vienna) o alla psicoanalisi di Sigmund Freud. In ambito letterario i frutti maggiori del clima mitteleuropeo furono i romanzi e i racconti dei tedeschi Thomas Mann e Alfred Döblin (1878-1957; quest’ultimo autore del celebre romanzo Berlin-Alexanderplatz, 1929), dei praghesi Franz Kafka e Franz Werfel (1890-1945), degli austriaci Arthur Schnitzler (1862-1931), Robert Musil, Hermann Broch (1886-1951). Accanto

a questi, vi furono anche importanti poeti, come il tedesco Stefan George (1868-1933), il praghese Rainer Maria Rilke (1875-1926), l’austriaco Georg Trakl (1887-1914), e drammaturghi, come il tedesco Frank Wedekind (1864-1918, l’autore di Lulù) e il viennese Hugo von Hofmannsthal (18741929).

Vienna e la fine di un mondo Tutti questi autori avevano un centro ideale in Vienna, la capitale dell’architettura liberty (o meglio, Sezessionstil), dei salotti e dei caffè. Vienna era anche la capitale di un impero vivo e vitalissimo al suo centro, ma travagliato ai margini (la Boemia di Kafka, la Moravia, l’Ungheria) e destinato a sparire subito dopo la fine della Grande guerra, nel 1918: una fine in qualche modo anticipata nell’arte e nella letteratura mitteleuropee. Il crollo dell’Impero austroungarico, preannunciato da innumerevoli segnali nei decenni precedenti, nelle loro opere si carica di un valore simbolico. Viene a significare una più ampia e inquietante rivoluzione esistenziale, di fronte a cui l’individuo perde ogni sua certezza, finendo nell’angoscia di una realtà senza senso (l’incubo nel quale si aggirano i personaggi di Kafka).

VERIFICA L’età contemporanea

1

Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.

1. 2.

L’«assurdo» è uno dei temi prevalenti in Proust. V Kafka nasce a Praga da famiglia ebraica e V scrive in lingua tedesca. Prima di Anna Karenina, Tolstoj scrisse un altro grande romanzo intitolato I fratelli V Karamazov. Il nuovo romanzo è sperimentale per quanto riguarda le strutture narrative, ma non per V quanto riguarda i contenuti. Leopold Bloom, protagonista dell’Ulisse, V è colpevole di una colpa che non conosce. L’uomo senza qualità di Musil si avvia narrando l’organizzazione di una festa per l’imperatore V d’Austria Francesco Giuseppe. A coniare l’espressione «romanzo sperimentale» V fu Émile Zola.

3.

4.

5. 6.

7.

2

2 3 4 5 6 7

a. b. c. d. e. f. g.

3

F

F

2

F

3 4

Scegli l’affermazione corretta fra quelle proposte.

1.

Per rendere «soggettiva» la narrazione, il romanzo psicologico ricorre a a un narratore esterno, impersonale, che descrive solo le azioni dei personaggi, lasciando così il massimo spazio al lettore

Come si conclude l’Ulisse di Joyce? a Con il monologo in cui Molly Bloom rivive la propria vita passata b Con il monologo di Leopold Bloom davanti alla tomba del figlioletto scomparso c Con l’episodio dell’adulterio di Molly Bloom d Stephen che confessa a Leopold i propri progetti letterari futuri

5

Rispondi alle seguenti domande.

1.

Quale atteggiamento manifesta Robert Musil verso l’Impero austroungarico? (max 5 righe) Quali legami intercorrono fra l’Ulisse e l’Odissea? Riassumi la trama dei Buddenbrook (max 15 righe). Riassumi in breve la trama dell’Ulisse, mettendo in luce le principali tematiche presenti nell’opera. Perché «coscienza» diviene una parola chiave nella narrativa novecentesca? (max 10 righe) Riassumi in max 15 righe la struttura del ciclo romanzesco di Proust (titoli, vicende tematiche prevalenti).

F

a. la colpevolezza senza colpa b. l’esclusione c. il recupero del tempo d. l’inettitudine

4

3.

F

Delitto e castigo La montagna incantata Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde La metamorfosi Ritratto di signora Anna Karenina L’uomo senza qualità Stevenson Musil Mann Dostoevskij Kafka Tolstoj James

Svevo Kafka Pirandello Proust

Dalle pagine di Kafka la legge emerge come a immagine di una realtà oggettiva b simbolo di qualcosa d’incomprensibile all’uomo e opprimente c segno di una realtà misteriosa e trascendente d realtà completamente soggetta agli arbìtri umani

F

Collega ciascun autore alla tematica che caratterizza un suo famoso romanzo. 1

2. F

Collega ciascuna delle seguenti opere al suo autore. 1

b alla presenza di più personaggi che diventano, di volta in volta, narratori c a un calco linguistico del livello culturale e sociale del protagonista d a un narratore in prima persona, interno alla vicenda

2. 3. 4. 5. 6.

PER L’ESAME DI STATO 1. 2.

3.

4.

5.

Spiega il rapporto fra psicoanalisi e romanzo contemporaneo (max 15 righe). Illustra con le tue parole la differenza tra il «vinto» di Verga e l’«inetto» del nuovo romanzo novecentesco (max 15 righe). Nel nuovo romanzo europeo fatti e azioni cedono il posto a parole e pensieri. Come e perché ciò avviene? (max 20 righe) Quali elementi differenziano maggiormente la narrativa ottocentesca da quella novecentesca? Rispondi con qualche concreto riferimento ad autori e testi (max 15 righe). In che senso quelle della narrativa novecentesca sono spesso vicende in cui «non accade nulla»? Rispondi con riferimenti ai testi antologizzati (max 20 righe). 725

Scuola di scrittura

Scrivere per l’Esame di Stato (1) D

edichiamo questa Scuola di scrittura all’impegno cruciale dell’ultimo anno di scuola superiore: l’Esame di Stato. Esamineremo tre argomenti in particolare. • Com’è congegnata la prova scritta dell’esame: come si presentano le sue quattro tipologie e con quali criteri sceglierne una. • Le caratteristiche della tipologia A, ovvero l’analisi del testo (in prosa o in poesia). • Le caratteristiche delle tipologie C e D, dedicate al tema (storico o di attualità). ratteremo invece nella Scuola di scrittura del volume 3B la tipologia B, cioè il saggio breve (e l’articolo di giornale): si tratta infatti della tipologia più innovativa e complessa.

T

1 2 3 4

Quattro diverse tipologie per la prima prova Tipologia A: l’analisi del testo Tipologia C: il tema storico Tipologia D: il tema di ordine generale

1

Quattro diverse tipologie per la prima prova

Che cos’è la prima prova ■ La prima prova scritta dell’Esame di Stato «è intesa ad accertare la padronanza della lingua italiana o della lingua nella quale si svolge l’insegnamento, nonché le capacità espressive, logico-linguistiche e critiche del candidato» (legge 11 gennaio 2007, http://www.camera.it/parlam/leggi/07001l.htm). ■ La prima prova propone quattro tipologie fondamentali, tra le quali dovrai sceglierne una. In realtà le tipologie sono tre, perché la C e la D differiscono solo per quanto riguarda l’argomento.

Tipologia A – Analisi del testo

Tipologia B – Redazione di un saggio breve o di un articolo di giornale Bisogna scegliere un argomento fra i quattro proposti (uno per ciascun ambito): ■ ambito artistico-letterario ■ ambito socio-economico ■ ambito storico-politico ■ ambito tecnico-scientifico Ogni argomento è accompagnato da un dossier di documenti, che devi utilizzare per costruire il tuo saggio o articolo. Per la sua particolare complessità, rimandiamo la trattazione della tipologia B alla Scuola di scrittura del volume 3B.

Tipologia C – Tema di argomento storico Viene proposto un argomento della storia dell’Ottocento e del Novecento, da trattare in forma di tema tradizionale.

Tipologia D – Tema di ordine generale Viene proposto un argomento di attualità (spesso inerente a problemi o aspetti che caratterizzano la società contemporanea), da trattare in forma di tema tradizionale. 727

SCUOLA DI SCRITTURA

Bisogna analizzare un testo letterario, in prosa o in poesia, seguendo le indicazioni ministeriali: in pratica, occorre rispondere a una serie di domande, che guidano nell’analisi dello stile e dei contenuti del testo; spesso sono richiesti collegamenti ad altre opere dello stesso autore, ad altri autori ed eventualmente a poetiche.

Scrivere per l’Esame di Stato (1)

L’accertamento delle competenze Qualunque sia la tipologia scelta, la commissione valuterà la prova tenendo conto della normativa vigente, la quale prevede che: nella produzione dell’elaborato il candidato deve dimostrare: a) correttezza e proprietà nell’uso della lingua; b) possesso di adeguate conoscenze relative sia all’argomento scelto sia al quadro di riferimento generale in cui esso si inserisce; c) attitudini allo sviluppo critico delle questioni proposte e alla costruzione di un discorso organico e coerente, che sia anche espressione di personali convincimenti.

Come scegliere Le quattro tipologie prevedono gradi diversi di difficoltà.

Tipologia A L’analisi del testo appare la tipologia più difficile, e probabilmente lo è davvero. Richiede infatti una buona familiarità con la storia della letteratura, con il linguaggio letterario, con l’autore di cui si deve analizzare il testo. Tuttavia sarebbe sbagliato rinunciare a priori a cimentarsi nella tipologia A: il questionario che l’accompagna è una buona guida per svolgere la prova. Si consiglia però di scartarla se si possiede una conoscenza solo superficiale dell’autore proposto e se, alla lettura, il testo risulta di difficile comprensione.

Tipologia B

SCUOLA DI SCRITTURA

È la principale novità del nuovo Esame di Stato, introdotto a partire dall’a.s. 1998-99. Scrivere un saggio breve o un articolo non è la stessa cosa che scrivere un tema: • bisogna leggere il dossier dei documenti, citarli in maniera opportuna, costruire un discorso bene argomentato; • si deve scegliere il titolo da attribuire al proprio lavoro, dal momento che la traccia ministeriale si limita a proporre un «argomento»; • occorre stabilire a quale pubblico rivolgersi (sia nel caso in cui si opti per il saggio breve sia nel caso in cui si scelga l’articolo di giornale, va indicato il tipo di pubblicazione – giornale, rivista specialistica, periodico di divulgazione culturale – a cui destinare il proprio scritto; la tipologia B prevede, infatti, una destinazione editoriale); • se si sceglie di scrivere un articolo di giornale, sarebbe opportuno esprimersi con un po’ di verve giornalistica. Esistono però elementi di facilitazione per questa tipologia: • il ministero propone quattro argomenti: un numero alto, dunque; fra tutti si può pensare di riuscire a trattarne, in modo decoroso, almeno uno; • il dossier dei documenti non deve essere visto come una difficoltà in più e una complicazione; i brani del dossier sono soprattutto dei suggerimenti da cui possono nascere altre idee e spunti; l’importante è utilizzarli in modo adeguato, per confezionare un testo bene argomentato; • quanto alla destinazione editoriale del saggio breve o articolo, è solo una simulazione: nessun direttore di giornale o di rivista ti rifiuterà il «pezzo»! Per di più, come vedremo (E volume 3B), tra le varie possibilità di destinazione ce n’è una più facile e accessibile, collegata alla scelta dell’articolo.

Tipologia C Il tema storico appare meno impegnativo del saggio breve: il termine «tema» evoca una prova più semplice e familiare. In parte è così: diversamente dalla tipologia B, non si propongono documenti da analizzare nel dossier, non bisogna attribuire un titolo al proprio elaborato, non c’è destinazione giornalistica. Ma questa tipologia non è da sottovalutare: la trattazione storica richiede una buona dimestichezza con i dati della storia e la capacità di collegare fatti e personaggi; è inoltre necessario un certo senso critico nel discutere le possibili interpretazioni degli eventi. 728

Quattro diverse tipologie per la prima prova Tipologia D Anche in questo caso si tratta di un tema e non di un saggio breve o di un articolo, e quindi la prova appare più semplice. Inoltre l’argomento di «ordine generale» (cioè di attualità) non richiede una specifica preparazione. Perciò molti esaminandi scelgono questa tipologia. Si possono però incontrare delle difficoltà nell’elaborazione, dovute a diversi motivi: • le tracce ministeriali sono spesso generiche e poco si prestano a trattazioni creative o originali; • anche il tema di attualità va costruito come una scrittura argomentata: chiacchiere senza capo né coda non sono ammesse.

Domande frequenti sulla prima prova 1. Quanto tempo ho a disposizione per svolgere la prima prova? Il tempo massimo assegnato al candidato è di 6 ore. 2. È possibile chiedere aiuto o chiarimenti ai commissari? Una domanda di chiarimento è sempre lecita. Meglio chiedere che rischiare di fraintendere il titolo o la richiesta del ministero. Però non bisogna importunare la commissione con troppe richieste, né pretendere che i docenti diano suggerimenti, facilitazioni ecc. 3. Quanto dovrà risultare lungo il mio elaborato? Per la tipologia B di prima prova (articolo di giornale e saggio breve) il ministero indica esplicitamente una lunghezza massima: «non superare le 4 o 5 colonne di metà di foglio protocollo» (corrispondenti a 8-10 000 caratteri di Word). Per tutte le tipologie, è opportuno scrivere non meno di un foglio protocollo (4 colonne: devi argomentare in modo adeguatamente articolato le tue affermazioni), ma è bene non superare i due fogli (8 colonne). Ricorda sempre che conta la qualità, non la quantità di ciò che si scrive. 4. C’è una tipologia di prima prova più facile delle altre? No, perché ogni tipologia ha le sue difficoltà; tutte richiedono impegno e attenzione. Lo stesso tema di attualità (tipologia D), da molti considerato un’«ancora di salvezza», è più insidioso di quanto a prima vista non appaia.

6. Prima di svolgere questa prova, bisogna studiare o ripassare molto? In linea generale, lo scritto d’italiano non deve valutare competenze nozionistiche specifiche (tranne che, in parte, per la tipologia A), quanto piuttosto la capacità di argomentare in modo logico, il senso critico, le capacità espressive: sono tutte abilità che richiedono una preparazione seria. Quindi non serve la «secchiata» la notte prima degli esami; in compenso, chi ha sempre studiato sa di avere un ottimo bagaglio di partenza su cui contare. 7. Dove trovo tutti i titoli assegnati all’Esame di Stato negli ultimi anni? Un ottimo sito, che presenta tutti i titoli e altra documentazione utile sull’Esame di Stato, si trova all’indirizzo web: http://archivio.pubblica.istruzione.it/argomenti/esamedistato/secondo_ciclo/archivio_prove.htm

729

SCUOLA DI SCRITTURA

5. Posso/devo dire il mio parere, esprimere idee personali? Sì, a patto che quanto affermi sia plausibile e giustificato. Bisogna evitare in ogni caso luoghi comuni (per esempio: «A mio avviso, Dante è il più grande poeta della letteratura italiana»), banalità (per esempio: «Come afferma la definizione del vocabolario…»), o frasi categoriche (per esempio: «La questione meridionale non si potrà mai risolvere»).

2

Tipologia A: l’analisi del testo

Commento a un testo letterario La tipologia A prevede l’analisi e il commento di un testo letterario. In teoria potrebbe essere richiesta l’analisi di un testo non letterario (saggi storici, interventi giornalistici ecc.), ma questa eventualità non si è mai verificata negli Esami di Stato dal 1999 in poi.

SCUOLA DI SCRITTURA

Gli autori della prima prova I testi poetici, narrativi, teatrali proposti finora sono stati ricavati dai seguenti autori: • Giuseppe Ungaretti (1999: lirica I fiumi, da L’allegria; 2006: lirica L’isola, da Sentimento del tempo); • Umberto Saba (2000: lirica La ritirata in Piazza Aldrovandi a Bologna, da Il Canzoniere); • Cesare Pavese (2001: un passo tratto dal romanzo La luna e i falò); • Salvatore Quasimodo (2002: lirica Uomo del mio tempo, dalla raccolta Giorno dopo giorno); • Luigi Pirandello (2003: scena 8 dall’Atto I della commedia Il piacere dell’onestà); • Eugenio Montale (2004: lirica Casa sul mare, dalla raccolta Ossi di seppia; 2008: lirica Ripenso il tuo sorriso dalla medesima raccolta); • Dante (due passi del Paradiso: dal canto XVII nel 2005 e dal canto XI nel 2007); • Italo Svevo (2009: Prefazione del romanzo La coscienza di Zeno); • Primo Levi (2010: Prefazione di La ricerca delle radici. Antologia personale).

Un questionario La prova consiste nel rispondere a una serie di quesiti raggruppati secondo questa scansione: 1. comprensione complessiva; 2. analisi del testo; 3. interpretazione (o commento complessivo), approfondimenti e riflessioni. Rispondendo ai vari quesiti, lo studente deve dimostrare: • di aver compreso il significato globale del testo; • di saperlo scomporre nelle sue componenti di contenuto e forma; 730

Tipologia A: l’analisi del testo • di aver colto le intenzioni dell’autore e di interpretarne i messaggi. Può essere richiesto anche di esprimere opinioni ed elaborare fondati giudizi critici.

Tecniche per l’analisi letteraria La tipologia A prevede la conoscenza e l’applicazione di metodi e di tecniche specifici. Come dice il Regolamento ministeriale (art. 2, comma 4): «Nello svolgimento della prova […] il candidato deve dimostrare di essere in possesso di conoscenze e competenze idonee alla individuazione della natura del testo e delle sue strutture formali». Bisognerà dunque utilizzare: • nozioni di carattere tecnico-testuale (elementi metrico-retorici per il testo poetico, narratologici per il testo narrativo; • più in generale, nozioni di carattere letterario (conoscenza dell’autore o degli autori, poetiche, contesto storico-culturale). La prova della tipologia A è dunque ritenuta la più difficile. Molte difficoltà però possono sciogliersi attuando gli accorgimenti e le strategie che indichiamo nelle pagine che seguono.

A Analisi del testo – Primo gruppo: quesiti sulla comprensione globale I quesiti sulla comprensione globale mirano a far emergere il significato generale del testo e, in particolare, a individuarne l’idea centrale. A seconda del testo analizzato (letterario o non, prosa o poesia) e delle indicazioni della traccia, bisognerà: • farne la parafrasi e/o comporne una breve sintesi; • estrarre dal testo il nucleo tematico principale; • cogliere, eventualmente, le relazioni che legano alcune parti del testo al suo insieme.

La prima e fondamentale operazione da compiere per affrontare l’analisi di un testo è una sua lettura attenta e concentrata, allo scopo di coglierne il significato letterale e generale e di individuarne la struttura complessiva. Le tracce proposte dal ministero, infatti, richiedono anzitutto di presentare, in forma sintetica e lineare, proprio il contenuto informativo del testo. In concreto, ciò significa esplicitarne, in prosa e in uno spazio limitato, i contenuti narrativi o descrittivi per verificarne la corretta e completa comprensione, senza soffermarsi in alcun modo sulla forma o sugli aspetti retorici. Procedi come segue. 1.Effettua una lettura integrale del testo, senza soffermarti troppo su eventuali dettagli o espressioni il cui significato non ti fosse immediatamente chiaro. La lettura integrale, infatti, è indispensabile per farsi un’idea complessiva. 2.Dopo la prima lettura, effettuane una seconda di tipo analitico, più lenta e graduale, nel corso della quale ti soffermerai a comprendere ogni elemento del testo (talora i testi sono accompagnati da qualche nota esplicativa). Evidenzia a matita le parole-chiave o i passaggi fondamentali per la comprensione, ai quali farai riferimento nel momento della sintesi. 3.Le consegne ministeriali, solitamente, richiedono che tale sintesi non superi un determinato spazio (in genere, non più di dieci righe): questo ti costringerà a un’attentissima selezione delle cose da dire, per concentrarti sui dettagli essenziali. Nel caso che quello da analizzare sia un testo narrativo, è cosa utile: • suddividere il brano in sequenze; • sintetizzarle brevemente; • definirne la funzione (descrittiva, narrativa, riflessiva, lirica, espositiva, argomentativa). 731

SCUOLA DI SCRITTURA

■ La comprensione del testo: come procedere

Scrivere per l’Esame di Stato (1) Nel caso di un testo in versi, soprattutto se esso si presenta particolarmente complesso, lungo e articolato, può essere utile effettuarne preliminarmente una parafrasi, magari con l’aiuto di un buon dizionario della lingua italiana. La parafrasi è la riscrittura di un testo in un linguaggio più semplice e piano, così da appianarne le principali difficoltà linguistiche. Si tratta certamente di un’operazione arbitraria, che distrugge il valore poetico del testo. Essa però possiede un’indubbia efficacia nella ricerca del senso, che agevolerà le successive fasi del lavoro di analisi. Eseguita la parafrasi, sarà più facile individuare l’idea centrale del testo. Per definirla, bisogna cominciare con il chiedersi quali fossero l’intenzione generale e il messaggio dell’autore. Risulta di grande aiuto, in tale ricerca, individuare le parole-chiave, cioè i termini portatori dei significati più importanti: tali parole spesso risultano ripetute (magari con variazioni lessicali), o appartengono allo stesso ambito di significato.

B Analisi del testo – Secondo gruppo: quesiti per l’analisi delle forme e dei contenuti La fase di analisi (di solito la più articolata nel questionario ministeriale) consiste nella scomposizione del testo nelle sue componenti formali e di contenuto. Occorre: • da una parte riconoscere le intenzioni dell’autore; • dall’altra, individuare le tecniche di cui si è servito per comunicarle al lettore. L’analisi puntuale dei contenuti spesso richiede di isolare particolari frammenti di testo: • versi e strofe nel caso dei testi poetici; • sequenze narrative ed episodi nel caso di un testo narrativo; • singole battute o gruppi di battute nel caso di un testo teatrale. Non bisogna però mai perdere di vista il nesso che lega questi «frammenti» testuali all’insieme da cui provengono: un testo letterario è tale in quanto costituisce un «tutto» compatto e coeso. Le tecniche formali sono costituite dalle scelte linguistiche e stilistiche effettuate dall’autore: frutto della sua precisa volontà e intenzione, tali scelte non sono mai casuali. Metterle in luce è necessario ai fini dell’analisi formale.

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A seconda del tipo di testo analizzato, i quesiti chiederanno di osservare: • le scelte lessicali: parole-chiave, ripetizioni, sfere prevalenti di significato, scelte di tono e registro lessicale (il registro può risultare aulico e solenne, molto elaborato, oppure formale, ma più sobrio, oppure medio, scorrevole e piano; o ancora il registro può essere colloquiale o realistico, secondo forme tipiche del parlato); • le scelte sintattiche: lunghezza delle frasi, uso della paratassi o dell’ipotassi, ordine delle parole, frequenza o scarsità di aggettivi, verbi di stato o di moto; • l’uso di figure retoriche: oltre a individuare le varie figure retoriche a cui ricorre l’autore, è utile rilevare lo scopo per cui sono usate (vivacizzare il racconto, abbellire il linguaggio, rendere più efficace un’immagine ecc.).

Un modello di analisi: la prova del 1999 I quesiti di questo secondo gruppo sono di solito i più numerosi. Ecco il questionario proposto per la tipologia A nel 1999 e relativo alla lirica I fiumi (consegnata in fotocopia agli studenti) di Giuseppe Ungaretti. 1. Parafrasi e comprensione complessiva Dopo aver fatto la parafrasi di questa poesia, riassumi brevemente il contenuto dei tre tempi in cui essa si articola (vv. 1-26; 27-41; 42-69). 2. Analisi e commento del testo 2.1 Che cosa rappresenta ciascun fiume nella vita del poeta? 2.2 Spiega il significato dei vv. 9-12: Stamani mi sono disteso / in un’urna d’acqua / e come una reli732

Riscritture Tipologia A: l’analisi del testo

quia / ho riposato, individuando anche in altre espressioni del testo gli elementi di sacralità presenti nella lirica. 2.3 Quale significato simbolico assume l’acqua che accompagna il viaggio del poeta alla scoperta di sé e al recupero del passato attraverso la memoria? 2.4 Per quali ragioni il poeta definisce questa lirica la propria «carta d’identità» contenente i «segni» che gli permettono di riconoscersi? 2.5 Ungaretti, come altri poeti del tempo, avverte la necessità di trovare nuovi mezzi espressivi, diversi da quelli tradizionali e più adatti a rappresentare la fragilità e la precarietà della condizione umana. Spiega in che cosa consiste la cosiddetta rivoluzione metrica attuata dal poeta in questa prima fase della sua sperimentazione formale, indicandone anche qualche esempio in questa lirica. 3. Approfondimenti Il tema del viaggio, spesso metaforico, è un motivo ricorrente nella letteratura simbolista e decadente. Conosci altre poesie di altri autori che trattano questo tema?

Griglia per l’analisi di un testo narrativo Nell’analisi di un testo narrativo, bisogna prestare attenzione soprattutto a tre elementi: A. il punto di vista del narratore; B. l’ambientazione del racconto; C. i personaggi che vi agiscono.

Per quanto riguarda il ruolo del narratore (da non confondersi con l’autore materiale del racconto, per esempio: Alessandro Manzoni o Italo Calvino), cerca di individuare il modo particolare in cui si pone, chiedendoti: • il narratore (o voce narrante) narra in prima persona? • esprime giudizi e commenti sulla vicenda che narra? • guida il lettore nell’interpretazione dei fatti? • dimostra di conoscere i più intimi pensieri dei personaggi? • li rivela e, se sì, come? E se li tace, perché lo fa? • il punto di vista prevalente nel racconto è quello del narratore o quello dei personaggi? Sempre per quanto riguarda il narratore, ricorda che: • quando il narratore conduce il racconto in prima persona, egli viene a coincidere con un personaggio della vicenda raccontata: in tal caso il narratore è interno al racconto; • talora la narrazione si svolge in terza persona: qui la voce narrante non coincide con quella di un personaggio e il narratore è esterno al racconto; • alcune volte il narratore esterno si presenta come un autore onnisciente, tale cioè da conoscere cose e antefatti che gli altri personaggi e/o il lettore ignorano; • altre volte il narratore esterno racconta solo i fatti che si possono cogliere da un’osservazione esterna, che non mostra cioè i pensieri dei personaggi. In tal caso egli rivela che, sulla vicenda narrata, ne sa meno dei suoi personaggi. È quanto avviene nei racconti di suspense.

B. L’ambientazione La descrizione (esplicita o implicita) dei luoghi, sia interni sia esterni, può risultare dettagliata o sommaria, soggettiva o oggettiva. Individuarne le caratteristiche può fornire spunti per l’analisi critica dello stile dell’autore e informazioni sull’appartenenza a una determinata corrente letteraria: per esempio, il Realismo di Verga o il Neorealismo di Pavese e Vittorini ricorrono a un’ambientazione assai diversa dalla contestualizzazione simbolica in cui si svolge la vicenda del Deserto dei tartari di Buzzati; mentre il paesaggio «soggettivo» di Svevo o Joyce fornisce spunti importanti in merito alla natura del loro romanzo psicologico. 733

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A. Il narratore

Scrivere per l’Esame di Stato (1) C. I personaggi Dei personaggi vanno individuati: • ruoli e funzioni; • caratteristiche fisiche, comportamentali, sociologiche e psicologiche; • ideali, valori, punto di vista all’interno della vicenda. I personaggi costituiscono uno degli elementi portanti della narrazione: è soprattutto attraverso le loro figure che l’autore può incarnare (e comunicare) comportamenti, ideali, valori, fornendo in tal modo il messaggio del testo. Tieni anche presente che: • nella narrativa ottocentesca, l’autore di solito conferisce spessore umano e credibilità psicologica ai suoi personaggi, specie alla figura del protagonista, che è spesso portatore del significato generale del racconto; • nella narrativa novecentesca invece il personaggio perde spesso la sua coerenza, adotta un comportamento contraddittorio e i suoi moventi reali finiscono per sfuggire (al lettore e anche all’autore).

Griglia per l’analisi di un testo poetico Nel caso di un testo in versi, bisogna soffermarsi sui vari livelli che lo caratterizzano.

A. La forma metrica e l’organizzazione strutturale Uno degli aspetti più significativi dell’analisi di un testo poetico è l’identificazione della sua forma metrica, cioè l’organizzazione delle parole e delle frasi che compongono i versi e il loro eventuale accorpamento in strofe (cioè in gruppi più o meno ampi, divisi dagli altri mediante spazi bianchi). La poesia moderna – da fine Ottocento in avanti – ha privilegiato i versi liberi (ossia la successione di versi di differente lunghezza, senza un’apparente regolarità), accorpati in strofe libere, cioè di misura estremamente variabile, finalizzate ad assecondare il contenuto della poesia e le intenzioni espressive del poeta.

B. Le rime e il ritmo

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Per secoli le rime hanno costituito uno dei principali elementi di coesione di un testo poetico. La presenza delle rime, infatti, conferisce alla composizione una sua inconfondibile fisionomia, una musicalità che la distingue nettamente dalla prosa. Individuando il sistema delle rime e indicandone la presenza e le modalità di combinazione reciproca, si può perciò rilevare, a grandi linee, l’andamento della composizione. Accanto alle rime, i poeti (soprattutto quelli del Novecento) ricorrono ad altri meccanismi sonori, ovvero: assonanze, ripetizioni, figure foniche (come le onomatopee o le allitterazioni), pause (indicate dagli a capo e dagli spazi bianchi tra una strofa e l’altra), che possono avere un peso decisivo nella comprensione del testo.

C. Le figure retoriche Analizzare le figure retoriche presenti nel testo significa prima di tutto riconoscerle e poi verificarne la frequenza con cui si ripetono, la collocazione in posizioni di maggiore o minore rilievo, il modo in cui si legano alla struttura ritmica del testo. Le figure retoriche vanno inoltre messe in relazione con gli altri elementi presenti. Ricorda che le funzioni prevalenti delle figure retoriche sono: • garantire maggiore visibilità a un termine dotato di particolare importanza rispetto agli altri, oppure insistere su un particolare concetto; • suscitare in chi legge particolari sensazioni ed emozioni; • evocare nella mente dei lettori (attraverso la particolare disposizione dei termini, l’accostamento originale di certe parole ecc.) «altri» significati, aggiuntivi al senso letterale del testo: è il valore «connotativo», tipico del linguaggio poetico, che si aggiunge a quello semplicemente «denotativo» o referenziale della lingua comune.

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Riscritture Tipologia A: l’analisi del testo

D. Il lessico La poesia, rispetto alla prosa, ricorre a un minor numero di parole ma più concentrate e più ricche sul piano del significato. Perciò, in un testo poetico, le scelte lessicali sono molto importanti. Le indicazioni operative fornite dalle consegne ministeriali le valorizzano in modo significativo. Puoi condurre l’analisi del lessico di una poesia a più livelli: • chiediti anzitutto se l’autore privilegia un lessico generico, oppure se sceglie termini specifici (lessico tecnico, naturalistico ecc.); • controlla poi se le scelte lessicali del testo riguardano di preferenza qualche campo semantico particolare (cioè qualche specifica area di significato); • rifletti se il poeta privilegia una qualche categoria grammaticale: per esempio, se utilizza molti avverbi di negazione o di affermazione, oppure se prevalgono verbi o nomi, se i verbi sono per lo più di stasi o di moto, se l’aggettivazione è abbondante ecc.

E. La sintassi Analizzare le scelte lessicali non basta: all’interno del testo poetico, infatti, ha rilievo anche l’ordine delle parole. La poesia tende normalmente ad alterarlo.

C Analisi del testo – Terzo gruppo: interpretazione, contestualizzazione, approfondimento Il questionario ministeriale si conclude con un’ultima serie di quesiti: A. domande di interpretazione o commento complessivo; B. quesiti di contestualizzazione e di inquadramento storico-letterario; C. domande dedicate all’approfondimento. Le risposte richieste ai quesiti del terzo gruppo sono di solito le più articolate, perché chiamano in causa conoscenze generali di natura culturale e letteraria.

L’interpretazione è il momento saliente dell’analisi testuale: con l’aiuto dei quesiti della traccia ministeriale bisogna adesso illuminare le intenzioni dell’autore. Questo è lo scopo di tutto il precedente lavoro di analisi: bisogna infatti sempre chiedersi perché lo scrittore abbia compiuto quelle determinate scelte, in vista di quali significati e di quale messaggio. Le scelte formali sono sempre al servizio di una particolare visione del mondo e della vita. Un momento decisivo, nell’interpretazione, è l’individuazione del tema o motivo centrale del testo. S’intende con ciò l’unità semantica di base di un testo, l’idea centrale sottesa a esso, collegata al messaggio che l’autore intende fornire. Il tema può essere costituito da un sentimento (amore, odio, amicizia ecc.), da una situazione o condizione esistenziale (la vita, la morte, la pace, la violenza ecc.), da un qualche motivo d’interesse o di riflessione (il rapporto tra l’uomo e la natura, il significato di un’amicizia ecc.). Al tema o motivo principale si collegano spesso temi secondari o sottotemi. Raramente il tema o motivo viene dichiarato in modo esplicito dall’autore. Per riconoscerlo si ricorre: • all’individuazione delle parole-chiave e delle espressioni-chiave, ricorrenti nel testo: sottolinearle costituisce una tecnica molto utile per individuare il tema o motivo centrale; • alle notizie sul contesto storico-culturale dell’opera; • all’intuizione di chi legge: va sottolineato, però, che lettori diversi possono individuare in un testo temi differenti, tutti egualmente validi.

B. L’inquadramento storico-letterario L’inquadramento storico-letterario può riguardare: • l’inserimento dell’autore e della sua opera in una particolare corrente letteraria; • la sua contestualizzazione storica; • l’uso di particolari tecniche narrative da parte dell’autore o del suo movimento letterario; • il confronto con la produzione di altri autori noti; • l’analisi di poetiche e correnti ideologiche diverse da quelle a cui appartiene l’autore analizzato. 735

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A. L’interpretazione

Scrivere per l’Esame di Stato (1) C. Approfondimenti Il quesito o i quesiti dedicati all’approfondimento pongono il testo analizzato a confronto: • con altri testi dello stesso autore; • con testi che trattano lo stesso argomento o utilizzano le stesse strutture formali; • con opere sorte nello stesso ambiente storico-letterario. Inoltre, la traccia ministeriale può chiedere di riconoscere: • caratteristiche formali tipiche di un certo genere letterario; • somiglianze e differenze con scrittori della stessa epoca o ambiente, utili a evidenziare l’originalità del testo esaminato, il suo particolare valore letterario, i messaggi di cui è portatore.

Domande frequenti sulla tipologia A 1. La tipologia A è la più difficile: posso davvero affrontarla? Sì, a tre condizioni: • bisogna possedere almeno le nozioni di base relative a quel periodo storico-letterario, alla poetica o alle poetiche che lo caratterizzano; • bisogna avere una minima familiarità con le nozioni tecniche di base: nozioni di retorica, metrica, stilistica, narratologia; • bisogna rispondere con puntualità alle varie richieste del questionario. 2. Devo escludere la tipologia A, se l’autore da analizzare è stato poco trattato nel corso dell’anno? In questo caso, effettivamente, viene la tentazione di rinunciare a priori. Prima però di gettare la spugna, è bene leggere con attenzione l’intera traccia con tutti i suoi quesiti. Infatti una conoscenza di quel periodo storico-culturale e/o della poetica di quell’epoca, unita a conoscenze generali sulle correnti e sugli autori più significativi, può comunque consentire risposte adeguate al questionario ministeriale, anche perché: • dell’autore in questione vengono solitamente fornite alcune notizie per facilitarne l’inquadramento nel contesto d’appartenenza; • è possibile che una nota introduttiva, a cura del ministero, sintetizzi le informazioni essenziali sulla poetica e sul panorama storico-letterario di riferimento; • nel loro assieme, infine, i quesiti ministeriali possono costituire una valida traccia di lettura del testo da analizzare e offrire spunti più che sufficienti per superare validamente la prova.

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3. Posso utilizzare dizionari, enciclopedie ecc.? No. È consentito solo l’uso del vocabolario di italiano. 4. Quanto devono essere lunghe le risposte? Per le risposte non è prevista una lunghezza standard; puoi scegliere una forma ampia, oppure privilegiare una trattazione più scarna. 5. Quale linguaggio devo utilizzare? Per rispondere ai quesiti della traccia, è consigliabile l’utilizzo di un registro formale e di un lessico preciso, in un certo senso «scientifico». 6. Posso esprimere pareri personali? Vanno evitati giudizi scaturiti semplicemente dall’emotività e dal gusto personale. È auspicabile e apprezzabile che tu avanzi ipotesi o interpretazioni originali e personali, a patto che siano validamente sostenute da elementi concreti e precisi, di natura tecnica, letteraria, culturale. 7. In base a quali criteri saranno corrette e valutate le risposte? Le risposte devono obbedire ad alcuni requisiti fondamentali, utilizzati dalla commissione al momento della valutazione: • pertinenza alla richiesta; • completezza di informazioni; • precisione dei dati; • argomentazioni valide, se le opinioni sono personali. 736

Riscritture Tipologia A: l’analisi del testo

lavoriamo su

L’analisi del testo

In questi esercizi ti proponiamo quattro delle prove di tipologia A dell’Esame di Stato (analisi e commento di un testo letterario) affrontate dai candidati alla maturità negli ultimi anni; due presentano testi in versi e due testi in prosa. Per prendere confidenza con questo tipo di prova: ■ studia con attenzione, dopo aver letto il testo letterario proposto, gli apparati e le consegne, osservando come sono articolati, che tipo di linguaggio usano, quali strumenti e quali livelli di conoscenza richiedono; le richieste sono abbastanza complesse, ma, come vedrai, offrono anche degli aiuti per lo svolgimento della prova; ■ puoi quindi, secondo le indicazioni dell’insegnante, svolgere in tutto o in parte una delle prove d’esame. Nelle prime due prove ti diamo dei suggerimenti per comprendere correttamente le consegne e avviare lo svolgimento.

1. Esame di Stato – Sessione ordinaria 2006 Giuseppe Ungaretti, L’isola (Sentimento del tempo, 1919-35, in Vita d’un uomo, Mondadori, 1992)

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In sé da simulacro a fiamma vera errando,2 giunse a un prato ove l’ombra negli occhi s’addensava delle vergini3 come sera appiè degli ulivi; distillavano i rami una pioggia pigra di dardi, qua pecore s’erano appisolate sotto il liscio tepore, altre brucavano la coltre luminosa; le mani del pastore erano un vetro levigato da fioca febbre.

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1. erasi sciolto: si era staccato, sollevato. 2. In sé… errando: vagando col pen-

siero da una visione larvata a una sensazione più forte. 3. l’ombra… delle vergini: negli oc-

chi delle ninfe si addensava l’ombra (del sonno, ma anche della zona boscosa).

Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 1888 – Milano, 1970), di famiglia lucchese, dall’Egitto si trasferì in Europa, desideroso di fare nuove esperienze di vita e di cultura. Ebbe contatti a Parigi con la poesia simbolista e postsimbolista e con la filosofia di Bergson. Nella

Prima guerra mondiale combatté in Italia, sul Carso. Visse a lungo a Roma. Sue principali raccolte poetiche: L’Allegria, 1919; Sentimento del tempo, 1933; Il Dolore, 1947; Terra promessa, 1950 (tutte con successive edizioni ampliate). La lirica L’isola (del 1925, poi rielaborata)

rievoca, come un sogno, una visita che Ungaretti, da Roma, aveva compiuto nella campagna intorno a Tivoli: non si tratta di una vera isola, ma di un paesaggio campestre, arcadico, in cui il poeta si era isolato e immerso, trasfigurando presenze reali in immagini mitiche.

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A una proda ove sera era perenne di anziane selve assorte, scese, e s’inoltrò e lo richiamò rumore di penne ch’erasi sciolto1 dallo stridulo batticuore dell’acqua torrida, e una larva (languiva e rifioriva) vide; ritornato a salire vide ch’era una ninfa e dormiva ritta abbracciata ad un olmo.

Scrivere per l’Esame di Stato (1)

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Comprensione del testo Partendo dalla presentazione che trovi nelle righe precedenti, dopo aver riletto alcune volte l’intera lirica, riassumine il contenuto informativo (movimenti del poeta nei luoghi; altre presenze reali; figure immaginarie). Suggerimenti Il primo punto ti chiede di partire dalla presentazione che trovi alla pagina precedente e che già ti avvia alla risposta: Ungaretti non parla «di una vera isola, ma di un paesaggio campestre». Quindi il testo narra non un evento reale, ma una visione ambientata in campagna: il protagonista è un pastore (in cui s’identifica il poeta), che si muove fra altre presenze: una larva o fantasma, che poi si precisa come una divinità (ninfa), alcune fanciulle (vergini), delle pecore al pascolo.

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Analisi del testo 2.1. A quale personaggio si riferiscono i verbi scese, s’inoltrò, vide (due volte), giunse (nei vv. 2, 3, 8, 9 e 13)? Che tempi del verbo sono? Suggerimenti Le due domande sono molto precise, e altrettanto devono esserlo le risposte: il personaggio è il protagonista della lirica, il pastore; i verbi che a lui si riferiscono sono tutti al passato remoto.

.................................................................................................................. ......................................................................... 2.2. Cerca le forme dei verbi all’imperfetto. A quali elementi e aspetti della scena si riferiscono? Quale contrasto creano questi verbi all’imperfetto con quelli indicati nella domanda precedente? Suggerimenti I verbi all’imperfetto presenti sono tutti riferiti a elementi esterni (anche le mani sembrano staccarsi dal pastore-poeta). Puoi evidenziare che i verbi all’imperfetto riguardano la «durata» dei fenomeni esterni, rispetto alle azioni «finite» (al passato remoto) del personaggio.

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2.3. Molte parole indicano l’ombra, la sera, il sonno: è davvero sera o si tratta di un contrasto fra zone del paesaggio? Nota e commenta le espressioni ove sera era perenne (v. 1), acqua torrida (v. 6), la coltre luminosa (v. 22). Suggerimenti Nelle liriche dell’Ermetismo il paesaggio è indefinito e anche qui appare sfumato e chiaroscurale. La sera è un simbolo di indefinitezza: è difficile vedere con chiarezza il mondo intorno a noi. L’acqua torrida del torrente, invece, indica luminosità, come la coltre luminosa (il prato assolato dove pascolano le pecore).

.................................................................................................................. ......................................................................... 2.4. Spiega, anche con l’aiuto del dizionario, le parole proda (v. 1), larva (v. 7) e simulacro (v. 12). Suggerimenti Sono tre termini classicheggianti della tradizione poetica italiana: cercali comunque sul vocabolario (anche se ne conosci il significato, infatti, qualcosa potrebbe sfuggirti); naturalmente, la risposta non potrà essere una semplice parafrasi delle definizioni del vocabolario.

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Riscritture Tipologia A: l’analisi del testo

2.5. Quale scena descrivono i vv. 4-6? Metti insieme le sensazioni che ricavi dalle espressioni rumore di penne, stridulo batticuore, acqua torrida e dal verbo erasi sciolto. Suggerimenti Questi versi e queste espressioni riguardano la sfera uditiva; alla fine i suoni si sciolgono l’uno nell’altro, indefinitamente, nell’animo del poeta.

.................................................................................................................. ......................................................................... 2.6. Al v. 18 i dardi sono i raggi del sole che scendono attraverso i rami. Commenta l’espressione pioggia pigra di dardi, in cui un carattere umano, la pigrizia, è attribuito a un elemento naturale. Suggerimenti Il paesaggio si antropomorfizza (potresti usare proprio questo verbo, colto e preciso) perché è un paesaggio simbolico, interiore, e non descritto realisticamente. Il poeta dunque descrive un paesaggio dell’anima, un’emozione.

.................................................................................................................. ......................................................................... 2.7. Commenta i due versi finali, rendendo con parole tue l’aspetto delle mani del pastore. (Ricorda che non lontano da Tivoli, nella campagna romana, a quel tempo era ancora diffusa la febbre malarica.) Suggerimenti Il pastore è febbricitante; nella lirica ogni cosa appare prostrata, malata. Le mani, dure come il vetro, in realtà si rigano, segnate dalla febbre malarica: anche questa è un’immagine non realistica, ma onirica; forse allude alla malattia della condizione umana.

.................................................................................................................. ......................................................................... Interpretazione complessiva e approfondimenti Riflettendo su questa lirica, e utilizzando le tue conoscenze di altre poesie di Ungaretti, commenta nell’insieme questo testo, per metterne in evidenza la libertà metrica e l’intreccio di richiami simbolici, che sfuggono a una ricostruzione logica ordinaria. Riferisciti anche al quadro generale delle tendenze poetiche, artistiche e culturali del primo Novecento in Italia e in Europa. Suggerimenti Questo è il punto più complesso della prova, che richiede un’interpretazione complessiva del testo e chiama in causa la conoscenza di altre poesie di Ungaretti e del quadro culturale del suo tempo. • Puoi richiamare il posto di Sentimento del tempo nella poesia ungarettiana, posteriore all’Ermetismo dell’Allegria, come si vede anche dalla metrica: i versi sono liberi, come nell’Allegria, ma ci sono anche settenari, novenari ed endecasillabi; dunque Ungaretti in parte recupera la metrica tradizionale. • Sottolinea che nella lirica non c’è una chiara narrazione, ma una visione libera, abitata da ambigue e misteriose presenze. • Analizza i punti in cui si vede meglio che il linguaggio di questa poesia è sfumato, evocativo, simbolico; puoi collegarlo al Surrealismo, al «realismo magico» di Bontempelli, alle visioni pittoriche di De Chirico. • Devi giungere a un commento d’insieme: puoi dire che l’«isola» è un paesaggio fuori dal tempo, un insieme di realtà e sogno; un paesaggio poetico, che allude alla scoperta di una realtà misteriosa.

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Scrivere per l’Esame di Stato (1)

2. Esame di Stato – Sessione ordinaria 2010 Primo Levi (Prefazione di La ricerca delle radici. Antologia personale, Torino 1981)

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Poiché dispongo di input ibridi, ho accettato volentieri e con curiosità la proposta di comporre anch’io un’«antologia personale», non nel senso borgesiano di autoantologia, ma in quello di una raccolta, retrospettiva e in buona fede, che metta in luce le eventuali tracce di quanto è stato letto su quanto è stato scritto. L’ho accettata come un esperimento incruento, come ci si sottopone a una batteria di test; perché placet experiri e per vedere l’effetto che fa. Volentieri, dunque, ma con qualche riserva e con qualche tristezza. La riserva principale nasce appunto dal mio ibridismo: ho letto parecchio, ma non credo di stare inscritto nelle cose che ho letto; è probabile che il mio scrivere risenta più dell’aver io condotto per trent’anni un mestiere tecnico, che non dei libri ingeriti; perciò l’esperimento è un po’ pasticciato, e i suoi esiti dovranno essere interpretati con precauzione. Comunque, ho letto molto, soprattutto negli anni di apprendistato, che nel ricordo mi appaiono stranamente lunghi; come se il tempo, allora, fosse stirato come un elastico, fino a raddoppiarsi, a triplicarsi. Forse lo stesso avviene agli animali dalla vita breve e dal ricambio rapido, come i passeri e gli scoiattoli, e in genere a chi riesce, nell’unità di tempo, a fare e percepire più cose dell’uomo maturo medio: il tempo soggettivo diventa più lungo. Ho letto molto perché appartenevo a una famiglia in cui leggere era un vizio innocente e tradizionale, un’abitudine gratificante, una ginnastica mentale, un modo obbligatorio e compulsivo di riempire i vuoti di tempo, e una sorta di fata morgana nella direzione della sapienza. Mio padre aveva sempre in lettura tre libri contemporaneamente; leggeva «stando in casa, andando per via, coricandosi e alzandosi» (Deut. 6.7); si faceva cucire dal sarto giacche con tasche larghe e profonde, che potessero contenere un libro ciascuna. Aveva due fratelli altrettanto avidi di letture indiscriminate; i tre (un ingegnere, un medico, un agente di borsa) si volevano molto bene, ma si rubavano a vicenda i libri dalle rispettive librerie in tutte le occasioni possibili. I furti venivano recriminati pro forma, ma di fatto accettati sportivamente, come se ci fosse una regola non scritta secondo cui chi desidera veramente un libro è ipso facto degno di portarselo via e di possederlo. Perciò ho trascorso la giovinezza in un ambiente saturo di carta stampata, ed in cui i testi scolastici erano in minoranza: ho letto anch’io confusamente, senza metodo, secondo il costume di casa, e devo averne ricavato una certa (eccessiva) fiducia nella nobiltà e necessità della carta stampata, e, come sottoprodotto, un certo orecchio e un certo fiuto. Forse, leggendo, mi sono inconsapevolmente preparato a scrivere, così come il feto di otto mesi sta nell’acqua ma si prepara a respirare; forse le cose lette riaffiorano qua e là nelle pagine che poi ho scritto, ma il nocciolo del mio scrivere non è costituito da quanto ho letto. Mi sembra onesto dirlo chiaramente, in queste «istruzioni per l’uso» della presente antologia. Primo Levi (Torino 1919-87) è l’autore di Se questo è un uomo (1947) e La tregua (1963), opere legate all’esperienza della deportazione, in quanto ebreo, nel campo di Buna-Monowitz presso Auschwitz, e del lungo e avventuroso viaggio di rimpatrio. Tornato in Italia, fu prima chimico di laboratorio e poi direttore di fabbrica. A partire dal 1975, dopo il pensionamento, si dedicò a tempo pieno all’attività letteraria. Scrisse romanzi, rac-

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conti, saggi, articoli e poesie. A proposito di La ricerca delle radici, Italo Calvino così scrisse in un articolo apparso su «la Repubblica» dell’11 giugno 1981: «L’anno scorso Giulio Bollati ebbe l’idea di chiedere ad alcuni scrittori italiani di comporre una loro “antologia personale”: nel senso d’una scelta non dei propri scritti ma delle proprie letture considerate fondamentali, cioè di tracciare attraverso una successione di pagine d’autori pre-

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diletti un paesaggio letterario, culturale e ideale. […] Tra gli autori che hanno accettato l’invito, l’unico che finora ha tenuto fede all’impegno è Primo Levi, il cui contributo era atteso come un test cruciale per questo tipo d’impresa, dato che in lui s’incontrano la formazione scientifica, la sensibilità letteraria sia nel rievocare il vissuto sia nell’immaginazione, e il forte senso della sostanza morale e civile d’ogni esperienza».

Riscritture Tipologia A: l’analisi del testo

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Comprensione del testo Dopo una prima lettura, riassumi il contenuto informativo del testo. Suggerimenti Segui la falsariga del testo: come è nata la Prefazione, il rapporto tra le letture e gli scritti di Levi, l’amore per la lettura fin dalla giovinezza, l’excursus sul tempo, le esperienze di lettura in famiglia, un giudizio finale (le letture giovanili come preparazione al lavoro di scrittore).

.................................................................................................................. ......................................................................... Analisi del testo 2.1. Quali sono per Levi le conseguenze degli input ibridi (r. 1) e dell’ibridismo (r. 7)? Suggerimenti Spiega in che senso l’autore usi questi termini (come sinonimi di occasionalità, nonsistematicità); poi enuncia le conseguenze che egli ne trae: non c’è ordine nelle sue letture, non se ne possono trarre conclusioni certe.

.................................................................................................................. ......................................................................... 2.2. Spiega le considerazioni di Levi sul tempo soggettivo (r. 14). Suggerimenti Il tempo della giovinezza, dice Levi, si dilata nei suoi ricordi; il tempo non ha dunque una sua consistenza «oggettiva». Sarebbe consigliabile che tu aggiungessi delle considerazioni sull’importanza del tema del tempo in altri autori novecenteschi, come Svevo, Vittorini, Proust.

.................................................................................................................. ......................................................................... 2.3. Perché si leggeva molto nella famiglia di Levi? Spiega, in particolare, perché leggere era una sorta di fata morgana nella direzione della sapienza (r. 18). Suggerimenti Per comprendere e spiegare la bellissima immagine di Levi citata, devi essere certo di sapere bene cos’è il fenomeno ottico-atmosferico chiamato «fata morgana»; lo puoi verificare sul dizionario.

.................................................................................................................. ......................................................................... 2.4. Soffermati su ciò che Levi dichiara di avere ricavato dalle sue letture (rr. 26-32). In particolare, spiega l’atteggiamento di Levi nei confronti della carta stampata (r. 27). Suggerimenti Metti in luce due concetti: quello di preparazione (spiega a che cosa) e quello di fiducia nella parola scritta, nella carta stampata).

.................................................................................................................. ......................................................................... 2.5. Esponi le tue osservazioni in un commento personale di sufficiente ampiezza. Suggerimenti Attenzione: qui non ti si richiede un’interpretazione del testo di Levi, come invece nel punto 3 (ricorda di leggere sempre l’intero testo della prova!), ma un tuo giudizio sui temi toccati nel testo: qual è la tua fiducia nei libri e nella lettura? Leggere, secondo te, serve ad aumentare la sapienza, o sono più utili altre esperienze? 741

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Scrivere per l’Esame di Stato (1)

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Interpretazione complessiva e approfondimenti Proponi una tua interpretazione complessiva del brano e approfondiscila con opportuni collegamenti al libro da cui il brano è tratto o ad altri testi di Primo Levi. In alternativa, prendendo spunto dal testo proposto, proponi una tua «antologia personale» indicando le letture fatte che consideri fondamentali per la tua formazione. Suggerimenti Potresti evidenziare le ragioni per le quali la Prefazione è interessante per gettare luce sull’autore: • essa costituisce l’autoritratto di un uomo colto; • nel testo c’è ironia (specifica dove: per esempio, nei ricordi di famiglia); • c’è lo scavo sul proprio io, l’io di ieri (specifica dove) e l’io di oggi: Levi, cioè, giudica le proprie letture giovanili alla luce dell’uomo e dello scrittore che è diventato poi. Nel testo emerge anche una rivendicazione di libertà (indica dove): è uno spunto interessante, perché ogni autore ritiene di non «ripetere» semplicemente gli altri. Infine ti si chiede di proporre una tua «antologia personale»: non scrivere un arido catalogo, ma scegli pochi o pochissimi libri, quelli che ti hanno segnato di più, e di ciascuno spiega brevemente perché.

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3. Esame di Stato – Sessione ordinaria 2008 Eugenio Montale, Ripenso il tuo sorriso (Ossi di seppia, 1925)

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Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida scorta per avventura1 tra le petraie d’un greto, esiguo specchio in cui guardi un’ellera2 i suoi corimbi;3 e su tutto l’abbraccio d’un bianco cielo quieto. Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano, se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua,4 o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua e recano il loro soffrire con sé come un talismano.5 Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie sommerge i crucci estrosi6 in un’ondata di calma, e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigia schietto come la cima d’una giovinetta palma.

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1. avventura: caso. 2. ellera: edera. 3. corimbi: infiorescenze a grappolo.

4. ingenua: non toccata dal male del mondo.

5. talismano: amuleto, portafortuna. 6. estrosi: inquieti.

Eugenio Montale (Genova, 1896 – Milano, 1981) da autodidatta (interruppe studi tecnici per motivi di salute) approfondì i suoi interessi letterari, entrando inizialmente in contatto con ambienti intellettuali genovesi e torinesi. Nel 1925 aderì al Manifesto degli intellettuali antifascisti

promosso da Benedetto Croce. Nel 1927 si trasferì a Firenze, dove lavorò prima presso una casa editrice e poi presso il Gabinetto Scientifico Letterario Vieusseux. Nel dopoguerra si stabilì a Milano, dove collaborò al «Corriere della Sera» come critico letterario e al «Corriere dell’Informazio-

ne» come critico musicale. Le sue varie raccolte sono apparse tra il 1925 (Ossi di seppia) e il 1977 (Quaderno di quattro anni). Nel 1975 ricevette il premio Nobel per la letteratura. La sua produzione in versi, dopo l’iniziale influenza dell’Ermetismo, si è svolta secondo linee autonome.

Riscritture Tipologia A: l’analisi del testo

1

Comprensione del testo Dopo una prima lettura riassumi brevemente il contenuto informativo della lirica in esame. .................................................................................................................. .........................................................................

2

Analisi del testo 2.1. Nella prima strofa il poeta esprime, in una serie di immagini simboliche, da una parte la sua visione della realtà e dall’altra il ruolo salvifico e consolatorio svolto dalla figura femminile. Individua tali immagini e commentale. .................................................................................................................. ......................................................................... 2.2. Nel v. 2 ricorre l’allitterazione della r. Quale aspetto della realtà sottolinea simbolicamente la ripetizione di tale suono? .................................................................................................................. ......................................................................... 2.3. Il ricordo della donna è condensato nel suo viso e nel sorriso, nel quale si manifesta, libera, la sua anima (v. 6). Prova a spiegare in che senso il portare con sé la sofferenza per il male del mondo può essere, come dice il poeta, un talismano (v. 8) per un’anima e come questa condizione possa essere altrettanto serena di quella di un’anima ingenua non toccata dal male (v. 6). .................................................................................................................. .........................................................................

2.5. Analizza la struttura metrica (tipi di versi, accenti e ritmo, eventuali rime o assonanze o consonanze), le scelte lessicali (i vocaboli sono tipici del linguaggio comune o di quello letterario o di entrambi i tipi?) e la struttura sintattica del testo e spiega quale rapporto si può cogliere tra le scelte stilistiche e il tema rappresentato. .................................................................................................................. .........................................................................

3

Interpretazione complessiva e approfondimenti Sviluppa con osservazioni originali, anche con riferimento ad altri testi dello stesso poeta e/o a opere letterarie e artistiche di varie epoche, il tema del ruolo salvifico e consolatorio della figura femminile. In alternativa inquadra la lirica e l’opera di Montale nel contesto storico-letterario del tempo. .................................................................................................................. .........................................................................

743

SCUOLA DI SCRITTURA

2.4. Nell’ultima strofa ricorrono espressioni relative sia alla condizione interiore del poeta, sia alla pensata effigie (v. 9) della donna. Le prime sono riconducibili al motivo dell’inquietudine, le seconde a quello della calma. Commenta qualche espressione, a tuo parere, più significativa relativa a entrambi i motivi e in particolare il paragone presente nell’ultimo verso. .................................................................................................................. .........................................................................

Scrivere per l’Esame di Stato (1)

4. Esame di Stato – Sessione ordinaria 2009 Italo Svevo (Prefazione di La coscienza di Zeno, 1923) Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica. Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo pas- 5 sato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie. Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con 10 lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!... Dottor S.

SCUOLA DI SCRITTURA

Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz (Trieste, 1861 – Motta di Livenza, Treviso, 1928), fece studi commerciali e si impiegò presto in una banca. Nel 1892 pubblicò il suo primo romanzo, Una vita. Risale al

1898 la pubblicazione del secondo romanzo, Senilità. Nel 1899 Svevo entrò nell’azienda del suocero. Nel 1923 pubblicò il romanzo La coscienza di Zeno. Uscirono postumi altri scritti (racconti, commedie, scritti au-

1

Comprensione del testo Dopo una prima lettura, riassumi il contenuto informativo del testo in non più di dieci righe. .................................................................................................................. .........................................................................

2

Analisi del testo 2.1. Quali personaggi entrano in gioco in questo testo? E con quali ruoli? .................................................................................................................. ......................................................................... 2.2. Quali informazioni circa il paziente si desumono dal testo? .................................................................................................................. ......................................................................... 2.3. Quale immagine si ricava del Dottor S.? .................................................................................................................. .........................................................................

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tobiografici ecc.). Svevo si formò sui classici delle letterature europee. Aperto al pensiero filosofico e scientifico, utilizzò la conoscenza delle teorie freudiane nell’elaborazione del suo terzo romanzo.

Riscritture Tipologia A: l’analisi del testo

2.4. Il Dottor S. ha indotto il paziente a scrivere la sua autobiografia. Perché? .................................................................................................................. ......................................................................... 2.5. Rifletti sulle diverse denominazioni del romanzo: novella (r. 1), autobiografia (r. 4), memorie (r. 9). .................................................................................................................. ......................................................................... 2.6. Esponi le tue osservazioni in un commento personale di sufficiente ampiezza. .................................................................................................................. ......................................................................... Interpretazione complessiva e approfondimenti Proponi una tua interpretazione complessiva del brano e approfondiscila con opportuni collegamenti al romanzo nella sua interezza o ad altri testi di Svevo. In alternativa, prendendo spunto dal testo proposto, delinea alcuni aspetti dei rapporti tra letteratura e psicoanalisi, facendo riferimento a opere che hai letto e studiato. .................................................................................................................. .........................................................................

SCUOLA DI SCRITTURA

3

745

3

Tipologia C: il tema storico

Una trattazione in forma di «tema» La tipologia C della prima prova, afferma il ministero dell’Istruzione, corrisponde «sostanzialmente al tradizionale tema di storia». L’aggettivo tradizionale rimanda all’esercizio di scrittura più diffuso nella scuola italiana, il tema. Questo termine deriva dal greco théma, sostantivo che a sua volta deriva dal verbo tithémi, “proporre”. Dunque il «tema» è una proposta, ovvero un argomento assegnato. Potremmo dire così: svolgere un tema significa discutere per iscritto intorno a un argomento assegnato. Se l’argomento in oggetto è di carattere storico, saremo appunto davanti a un tema di storia. Nella Scuola di scrittura del volume 2 (Il progetto testuale) abbiamo analiticamente trattato come si deve impostare e svolgere un qualsiasi elaborato scritto e dunque anche il tema. Quindi il lavoro su un tema di storia deve rispettare la metodologia là descritta: analisi del titolo, brainstorming delle idee, pianificazione del tema attraverso la scaletta, stesura (con grande attenzione alla coerenza e coesione testuale e all’architettura dei paragrafi), revisione e confezionamento finale.

Il tema di storia

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In questa Scuola di scrittura ci occupiamo invece più in dettaglio di cosa significhi svolgere un tema di storia. È evidente che questo compito richiede competenze specifiche nella materia. Perciò se vuoi svolgere, all’Esame di Stato, un tema storico dovrai anzitutto domandarti: di quale grado, ampiezza e solidità sono le mie conoscenze storiche intorno all’argomento proposto nel titolo? Solo se si tratta di un argomento studiato e conosciuto, di cui ti sono noti gli aspetti essenziali e intorno a cui ti senti in grado di sviluppare una riflessione critica, solo allora possiedi i requisiti necessari per svolgere il tema. ■ Attenzione, però: le conoscenze storiche costituiscono il requisito indispensabile per potersi cimentare con la tipologia C, ma il tema storico non è un’interrogazione scritta. Non ha cioè il fine di accertare soltanto se possiedi oppure no determinate conoscenze storiche. Oltre a questo, occorre qualcos’altro: dovrai dimostrare di saper utilizzare il linguaggio specifico e l’apparato logico-concettuale della storiografia. Ciò implica una certa preparazione, un minimo di tirocinio e di allenamento sul «tema storico».

Gli argomenti indicati per il tema di storia negli ultimi Esami di Stato 2010 – Ai sensi della legge 30 marzo 2004, n. 92, «la Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Il candidato delinei la «complessa vicenda del confine orientale», dal Patto (o Trattato) di Londra (1915) al Trattato di Osimo (1975), soffermandosi, in particolare, sugli eventi degli anni compresi fra il 1943 e il 1954. 746

Tipologia C: il tema storico

2009 – Nel 2011 si celebreranno i 150 anni dell’unità d’Italia. La storia dello Stato nazionale italiano si caratterizza per la successione di tre tipi di regime: liberale monarchico, fascista e democratico repubblicano. Il candidato si soffermi sulle fasi di passaggio dal regime liberale monarchico a quello fascista e dal regime fascista a quello democratico repubblicano. Evidenzi, inoltre, le caratteristiche fondamentali dei tre tipi di regime. 2008 – Cittadinanza femminile e condizione della donna nel divenire dell’Italia del Novecento. Illustra i più significativi mutamenti intervenuti nella condizione femminile sotto i diversi profili (giuridico, economico, sociale, culturale) e spiegane le cause e le conseguenze. Puoi anche riferirti, se lo ritieni, a figure femminili di particolare rilievo nella vita culturale e sociale del nostro Paese.

Scrivere di storia La storia è costituita da fatti, eventi, personaggi. Dunque scrivere un tema di storia significa anzitutto narrare. Con due precisazioni: • narrare non delle favole, ma dei fatti accertati; non si può fare appello alla fantasia per colmare le lacune; • inoltre, il racconto storico è di tipo particolare: il suo scopo non è divertire e neppure, soltanto, far conoscere certi fatti a chi legge. Il racconto storico ha una pretesa più ambiziosa: vuole anche spiegare.

L’importanza del contesto

Nel 1848 avvennero i fatti della «rivoluzione europea», con le insurrezioni di Parigi, Berlino, Vienna, le cinque giornate di Milano ecc. In quello stesso anno, a febbraio, fu stampato il Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels. Si tratta di fatti diversi, che possono essere giudicati solo contemporanei oppure intrecciati in un medesimo contesto: a. li si giudicherà solo contemporanei se l’analisi storica verterà sui fatti politici, sulle aspirazioni di libertà dei popoli, sulla reazione al dispotismo ecc.; b. li si giudicherà, invece, appartenenti a un medesimo contesto se l’analisi storica risponde a un’interpretazione particolare: il marxismo, cioè, nacque nel contesto delle contraddizioni – esplose, in forma clamorosa, proprio nel 1848 – apertesi all’interno della società borghese-liberale ottocentesca.

Per definire il contesto è quindi indispensabile che sia ben chiaro il punto di vista da cui si osserva la scena: è da lì, infatti, che vanno individuati tutti i possibili collegamenti.

Narrare e, insieme, spiegare In ogni narrazione (storica o letteraria) gli eventi sono esposti secondo legami di successione o di contemporaneità: questi legami danno luogo a un intreccio nel quale l’ordine temporale è strettamente collegato a un ordine causale. Ciò significa che quanto viene dopo serve a spiegare ciò che viene prima. In altre parole, gli stessi fatti narrati in una differente sequenza possono suggerire un differente 747

SCUOLA DI SCRITTURA

Un intervento essenziale da compiere prima di scrivere il tema storico è selezionare il materiale di cui si dispone. In sostanza, bisogna richiamare tutto (e soltanto) ciò che si può ricondurre al contesto. Con questo termine indichiamo il quadro di riferimento in cui va collocato un certo argomento o problema (politico, economico, sociale, ma anche letterario, filosofico, artistico ecc.) quando viene analizzato dal punto di vista storico. «Contesto» deriva dal latino contexere, “tessere insieme”. Dunque, ricostruire il contesto storico in cui va collocata una certa questione significa, letteralmente, ricostruire il «tessuto» degli eventi con i quali essa si trova intrecciata. Bisogna però fare attenzione, ed essere selettivi: esistono fatti coevi a quelli da trattare nel proprio tema, ma ininfluenti, perché non appartenenti al contesto vero e proprio. Facciamo un esempio.

Scrivere per l’Esame di Stato (1) rapporto di causa ed effetto. Nel contesto di un tema storico questo è un punto cruciale, perché dalla successione con cui vengono ordinati gli eventi deriva la spiegazione che se ne vuole dare. Facciamo un esempio. Consideriamo che si debba parlare di come iniziò la Prima guerra mondiale. Una cosa è scrivere: a. Nel 1914 l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia e il governo italiano dichiarò la propria neutralità. un’altra: b. Poiché, nel 1914, fu l’Austria-Ungheria a dichiarare guerra alla Serbia, il governo italiano dichiarò la propria neutralità. Ragioniamo sull’esempio proposto. Nel caso a) la sequenza temporale tende a separare i due fatti: la congiunzione e li allinea semplicemente uno dopo l’altro. Poiché in una narrazione ciò che viene prima serve a preparare ciò che viene dopo, si può intendere che vi sia un nesso causale tra i due eventi: ma esso non è dichiarato. Nel caso b) si afferma invece con chiarezza che la decisione del governo italiano fu legittimata dal fatto che fu l’Impero asburgico a prendere l’iniziativa della dichiarazione di guerra. Non si tratta di una differenza di poco conto. Tuttavia, per coglierne pienamente la portata, è opportuno che, in precedenza, si sia chiarito che la Triplice alleanza era un patto di reciproca difesa; solo così si può cogliere il significato della successiva precisazione (poiché l’Austria dichiarò una guerra offensiva, l’Italia poté starne fuori). La costruzione di un buon tema dipende sempre da questa concatenazione di cause e conseguenze: siamo nell’ambito della scrittura argomentativa.

L’interpretazione

SCUOLA DI SCRITTURA

Poiché in un tema storico la forma della narrazione è connessa alla spiegazione, è bene rendere esplicita l’«interpretazione» (o «modello esplicativo») di cui ci si intende servire. Raccontando la storia in un certo modo, si dimostra cioè di essere consapevoli di quale interpretazione ne risulterà. È chiaro che uno studente non può trasformarsi in uno storico solo perché sta scrivendo su un argomento di storia. È pure chiaro che stiamo parlando non di un saggio storiografico, ma di un semplice tema di storia. Dunque lo studente non deve proporre una propria originale interpretazione basata su fonti (documenti d’archivio, fonti d’epoca, interviste ecc.) di prima mano. Scrivere un tema di storia implica una conoscenza dei fatti acquisita attraverso fonti soltanto scolastiche (le lezioni dell’insegnante in classe, il manuale di studio, eventuali approfondimenti compiuti su testi di critica storica). In ogni caso, anche il semplice studio di questi strumenti è sufficiente a chiarire che esistono differenti interpretazioni dei fatti storici. Perciò è bene mostrarsi consapevoli di tali differenze, nel momento in cui si scrive il tema storico. Farlo presente, nei due o tre punti-chiave della trattazione, esplicitare cioè la propria interpretazione, è un ottimo mezzo per rivelare di avere colto uno dei punti nodali del lavoro storico: non c’è mai un «fatto» che si possa considerare disgiunto dall’interpretazione in virtù della quale lo si racconta così e in quel preciso contesto.

Il linguaggio della storia Scrivere di storia, così come scrivere di qualsiasi altra materia, comporta l’uso di specifiche terminologie e forme espressive. Prima di svolgere un tema di storia bisogna essere consapevoli dei termini di cui si farà uso. Anche quelli che potrebbero sembrare quasi sinonimi, infatti, possono spesso prestarsi a gravi equivoci se usati a sproposito. È quanto accade a nomi come masse, popolo o popolazione, oppure sommossa, rivolta, insurrezione, rivoluzione. Tutte parole che assumono un ben diverso significato in frasi come: a. Il 14 luglio 1789 ebbe luogo l’insurrezione del popolo di Parigi. oppure: b. Il 14 luglio 1789 si verificò una sommossa nella popolazione di Parigi. Il caso a) lascia intendere che in quel giorno la popolazione parigina (quella appartenente ai ceti più umili, e comunque con l’esclusione degli aristocratici e dei ricchi: è il significato di «popolo») compì una sollevazione organizzata contro le autorità costituite. Nel caso b) si dice invece che quel giorno si verificò un’agitazione sediziosa che vide come protagonista una parte non meglio precisata degli abitanti di Parigi. 748

Tipologia C: il temaRiscritture storico

Svolgere il tema storico: come procedere Riassumendo, ecco le operazioni da compiere di fronte a un titolo di tema storico. 1.Leggere, analizzare e comprendere il titolo Si tratta anzitutto di individuare l’argomento su cui è centrato, se sia cioè «un tema sul Quarantotto» o «un tema sulla Prima guerra mondiale». Ma si tratta anche di capire bene che cosa viene richiesto a proposito di quell’argomento: per esempio, se si chiede di trattare le conseguenze della Prima guerra mondiale, si dovrà fornire un’esposizione diversa da quella imposta da un titolo sulle cause di quel medesimo evento. 2.Censire le proprie conoscenze sull’argomento Una volta che si è capita la traccia, occorre rendersi conto di quali e quante conoscenze abbiamo in nostro possesso su quell’argomento. Sarebbe meglio che, alle indispensabili informazioni del manuale o agli appunti delle lezioni in classe, si aggiungano eventuali letture di documenti e saggi interpretativi. Tali informazioni possono derivare anche dallo studio di discipline diverse dalla storia come la letteratura italiana o quelle straniere, la filosofia, la storia dell’arte, l’economia, il diritto ecc. L’unico archivio di cui possiamo disporre durante la prova è la nostra memoria, perché, diversamente dalla tipologia B, nel caso della tipologia C il ministero non fornisce alcun dossier di documenti. Perciò dobbiamo estrarre dai nostri ricordi tutto quello che ci può servire. 3.Selezionare i materiali Ma non tutto va necessariamente usato. Anzi, è opportuno eliminare quello che non è riconducibile al contesto, ciò che è superfluo, ridondante o che può generare confusione e ambiguità nell’esposizione. Dobbiamo anche distinguere la differente natura dei materiali di cui si dispone, separando i fatti accertati dalle congetture e dalle interpretazioni. Tra queste ultime, bisognerà mettere in evidenza quelle che riteniamo più utili o accreditate, fornendo giustificazioni e distinguendole dalle interpretazioni differenti o contrastanti.

5.Procedere alla stesura Nel corso della stesura, sarà importante mantenersi il più possibile fedeli alla scaletta, per evitare di dilungarsi su aspetti secondari rischiando di rendere squilibrato lo svolgimento. 6.Rilettura: attenzione alla terminologia In sede di rilettura, particolare attenzione andrà posta alla linearità della struttura e alla correttezza della lingua usata. In questo ambito non bisognerà perdere di vista l’efficacia narrativa e la precisione della terminologia adottata.

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SCUOLA DI SCRITTURA

4.Costruire una scaletta I materiali che abbiamo selezionato vanno disposti secondo un ordine che sia funzionale al tipo di spiegazione che vogliamo suggerire intorno all’argomento storico in oggetto. Su come costruire la scaletta, E volume 1.

Scrivere per l’Esame di Stato (1)

lavoriamo su

Il tema storico

1. Tema guidato: argomento storico



Il candidato illustri gli eventi storico-politici, economici e sociali che hanno maggiormente caratterizzato la storia italiana ed europea nel difficile periodo tra le due guerre mondiali.

Dopo aver letto attentamente la traccia, segui i suggerimenti proposti per svolgere il tema.

Analizza la traccia ■ Considerare il contesto storico tra le due guerre mondiali (1918-39). ■ Riflettere sulle ragioni per cui fu un «periodo difficile» a) per l’Italia; b) per l’Europa. ■ Considerare i tre ambiti: a) storico-politico; b) economico; c) sociale.

Definisci la scaletta Introduzione Constatazione: il periodo in esame fu segnato per l’Italia e per l’Europa da una difficile fase sul piano politico, economico e sociale; i contrasti e le crisi che caratterizzarono gli anni tra il 1918 e il 1939 portarono allo scoppio di una nuova guerra mondiale, che ebbe come epicentro di nuovo l’Europa.

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Sviluppo a. Sottolineare le grandi novità che si registrano, in questa fase, a livello storico-politico. • In Italia − 1922: marcia su Roma e presa del potere da parte di Mussolini − cause politiche e sociali del fascismo − evoluzione del fascismo da «movimento» a regime • In Europa − fine dei grandi imperi multinazionali (Impero austroungarico, Impero turco) − rivoluzione e nascita del regime sovietico in Russia − affermazione di regimi totalitari in Germania (nazismo), in Unione Sovietica (stalinismo); diffusione del fascismo in altri paesi europei (Portogallo, Spagna) − invasione della Polonia da parte della Germania di Hitler nel 1939 (inizio della Seconda guerra mondiale) b. Considerare l’aspetto economico. • Difficoltà dei paesi europei dopo la fine del primo conflitto e ascesa dell’economia statunitense. • Crisi del 1929 (crollo della Borsa di Wall Street); New Deal del presidente Roosevelt. • Conseguenze della crisi in Europa. c. Esaminare la situazione sociale. • Diffusione dei partiti di massa e dei primi mass media (industria culturale). • Ricerca del consenso da parte dei regimi totalitari; culto del capo e uso politico della propaganda. Conclusione Concludere in chiave positiva evidenziando come dopo il 1945 l’Europa saprà superare la sua secolare conflittualità: comincerà a maturare l’idea (di cui l’Italia sarà tra i principali promotori) di una Europa unita. 750

Tipologia C: il temaRiscritture storico

2. Tema guidato: argomento storico «In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie: son tutti sfociati qui in questi articoli» P. Calamandrei, da un discorso tenuto a Milano nel 1955. Illustri il candidato le vicende storiche che condussero l’Italia dalla monarchia alla repubblica, soffermandosi sulla nascita della Costituzione, sugli ideali politici che la ispirarono e sui valori etico-civili che ne sono il fondamento. (Traccia ministeriale – Maturità 1996)

Dopo aver letto attentamente la traccia, segui i suggerimenti proposti per svolgere il tema.

Analizza la traccia ■ Secondo la frase citata di Calamandrei, la Costituzione riassume la storia d’Italia: il passato, i dolori, le sciagure, le glorie. ■ La consegna chiede di precisare: • le vicende storiche che portarono l’Italia dalla monarchia alla repubblica; • gli ideali politici che ispirarono la Costituzione repubblicana del 1948; • i valori etico-civili che ne costituiscono il fondamento.

Definisci la scaletta Introduzione Partire dall’idea che la Costituzione repubblicana non è affatto superata, ma va conosciuta meglio se vogliamo valorizzarla e sfruttare le sue potenzialità ancora oggi. Sviluppo a. Richiamare brevemente gli eventi storici precedenti. • Il passato e le glorie di cui parla Calamandrei: lo Statuto Albertino del 1848, prima conquista del nostro Risorgimento ottocentesco; il completamento dell’unità nazionale nel corso dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale. • Breve analisi della situazione italiana dopo la fine della Prima guerra mondiale. • I dolori e le sciagure di cui parla Calamandrei: l’Italia del fascismo, i danni della Seconda guerra mondiale, la Resistenza e la guerra civile. b. Quando, come e da chi venne scritta la Costituzione: il processo costituente. c. I valori politici della nostra Costituzione: la scelta per la Repubblica, l’unità dello Stato, il sistema bicamerale, il suffragio universale. d. I valori etico-civili: l’importanza data ai diritti e alle libertà, la centralità del lavoro, dell’individuo e della famiglia, il diritto-dovere civico della partecipazione. Conclusione Constatare che oggi si discute se e come aggiornare la Costituzione (riforme istituzionali). Riflessione finale: è giusto aggiornarla, perché nulla dev’essere considerato immutabile. Ma la Costituzione fornisce alla nazione italiana un’identità ed è giusto salvaguardarla anche per il futuro.

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Scrivere per l’Esame di Stato (1)

3. Tema guidato: argomento storico



Il candidato illustri gli aspetti più rilevanti della «questione meridionale», cercando di precisarne le cause e le conseguenze per il nostro paese e avanzando le sue considerazioni e riflessioni anche in rapporto alla situazione attuale.

Dopo aver letto attentamente la traccia, segui i suggerimenti proposti per svolgere il tema.

Analizza la traccia ■ Esporre le cause della «questione meridionale»: come e quando si originò. ■ Esaminare i suoi aspetti (= le manifestazioni) più rilevanti: come essa incide su società, economia, cultura del Mezzogiorno d’Italia. ■ Considerare se sia ancora possibile parlare nel XXI secolo di «questione meridionale».

Definisci la scaletta Introduzione Sottolineare che la «questione meridionale», cioè il problema dell’arretratezza (economica e sociale) delle regioni del Sud, costituisce ancora oggi un problema per l’Italia: per affrontarlo con serietà esso va conosciuto in tutti i suoi aspetti.

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Sviluppo a. Ricostruire la storia dell’arretratezza del Sud d’Italia. • Situazione risalente già al Medioevo e all’età moderna (fino al Sette-Ottocento). • Peggioramento dopo l’Unità (1861) – accentramento amministrativo e «piemontesismo» della Destra storica, in sintonia con gli industriali del Nord; – sviluppo delle regioni settentrionali e sottosviluppo del Sud: a) pressione fiscale; b) leva militare; c) delusione dei contadini; – conseguenze: disaffezione della popolazione dal nuovo Stato unitario; emigrazione e brigantaggio. • In età giolittiana: politica clientelare ai danni del Sud. • Durante il fascismo: protezione dei grandi proprietari e assenza di vere soluzioni. b. Arrivare all’età contemporanea, dal 1945 a oggi. • Fallimento della Cassa del Mezzogiorno e delle politiche assistenzialistiche a favore del Mezzogiorno. • Massiccio ricorso all’emigrazione verso le regioni settentrionali. • Sviluppo quasi incontrollabile di organizzazioni malavitose (mafia in Sicilia, ’ndrangheta in Calabria, camorra a Napoli). • Sue conseguenze: controllo del territorio, crescita di un’enorme economia «sommersa». Conclusione Sottolineare che la «questione meridionale» oggi ha preso altre forme ma non è risolta, come testimoniano la diffusione della criminalità mafiosa e l’arretratezza, secondo tutte le statistiche, delle regioni meridionali. Proposta: occorre passare da una politica assistenzialistica a una di sviluppo, facendo leva sulle risorse del Mezzogiorno: agricoltura, turismo e cultura, crescita dell’industria nel rispetto dell’ambiente. 752

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Tipologia D: il tema di ordine generale

«Ordine generale», cioè attualità La tipologia D viene così definita dal Regolamento ministeriale: trattazione di un tema su un argomento di ordine generale, attinto al corrente dibattito culturale, per il quale possono essere fornite indicazioni di svolgimento. In sostanza, questo è un tipo di tema che più comunemente viene definito «di attualità». Come sappiamo, i normali programmi scolastici spesso non offrono una specifica preparazione sugli «argomenti di ordine generale, attinti al corrente dibattito culturale». E così molte tracce di tipologia D richiedono agli studenti di esprimere pareri su argomenti a proposito dei quali essi non dispongono della documentazione necessaria.

Ora, è vero che alcune tracce ministeriali della tipologia D (puoi trovare l’elenco delle più recenti a p. 755) richiamano, almeno in parte, questioni affrontate durante gli studi scolastici. In molti casi, però, ciò non accade. E poi è vero che l’attualità, pur non facendo parte delle materie presenti nei programmi scolastici, entra in tanti modi nella scuola e nell’esperienza degli studenti: se ne parla in classe con i professori e con i compagni, se ne discute nelle riunioni e nelle assemblee scolastiche; e poi sui problemi di attualità ci informa la televisione e raccogliamo opinioni in famiglia e fra gli amici. Ma proprio qui si nasconde un’insidia: appunto perché «se ne sente parlare», spesso solo genericamente, sugli argomenti di attualità (per esempio: i problemi dei giovani, la violenza negli stadi, il razzismo, la pena di morte ecc.) ci sentiamo tutti degli esperti, anche se non li abbiamo mai studiati.

Un rischio da non sottovalutare Questa è una situazione rischiosa. Infatti chi sceglie il tema di ordine generale rischia di assumere, davanti all’argomento proposto, un atteggiamento di sufficienza: avendone sentito parlare (magari genericamente) molte volte, s’illude di essere un esperto in proposito, o quasi, mentre di fatto ne sa poco o pochissimo. Il risultato è (o può essere) che, dovendosi esprimere su argomenti di «attualità», ci si riduce magari a ripetere frasi fatte, luoghi comuni, opinioni di altri che abbiamo sentito qua e là, ma sui quali non abbiamo mai personalmente riflettuto. I suggerimenti che seguono intendono precisamente ovviare, per quanto possibile, a questi pericoli. 753

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Noi e l’attualità

Scrivere per l’Esame di Stato (1)

Esaminarsi, prima di scegliere Immaginiamoci che la commissione ti abbia da poco consegnato le fatidiche fotocopie contenenti le tracce possibili (sulle quattro tipologie: A, B, C e D); e immaginiamoci che la tua scelta si stia indirizzando sulla tipologia D, cioè sul tema di ordine generale. Prima di cominciare a scriverlo, cioè a pianificare il testo, a fare il brainstorming delle idee ecc., è opportuno che tu ti ponga alcune domande: a. Ho una conoscenza sufficiente di questo argomento? b. Ho letto qualche testo specifico in proposito? c. Ho elaborato una personale riflessione su di esso? d. Ne ho discusso con persone esperte? Non dovrai rispondere per forza «sì» a tutte e quattro queste domande; uno o due «no» sono ammessi. Tuttavia, se le risposte dovessero essere tutte negative, evita di autoingannarti: farai molto meglio a optare per un’altra tipologia, e cioè per uno dei quattro ambiti della tipologia B (saggio breve o articolo), che offrono per lo meno il vantaggio del dossier dei documenti. Della tipologia B parleremo nella Scuola di scrittura del volume 3B.

Scrivere di attualità Cominciamo con un caso concreto, considerando questo titolo.

Oggi l’istruzione superiore è obbligatoria: la scuola perciò, e non più il lavoro, rappresenta per le giovani generazioni l’indispensabile fase di avviamento alla vita adulta. Esponi le tue considerazioni in proposito, chiamando in causa le tue esperienze scolastiche e cercando di indicare le condizioni che potrebbero rendere più efficace, per i giovani, questa fase della vita legata al mondo scolastico.

SCUOLA DI SCRITTURA

Un titolo del genere, come si vede, richiede quattro operazioni: 1. raccontare qualche esperienza scolastica significativa (momento narrativo); 2. descrivere ciò che si è incontrato nella scuola (momento descrittivo-espositivo); 3. argomentare una tesi: la scuola come fase di passaggio dall’una all’altra età, come luogo significativo, cioè, per diventare adulti (momento argomentativo); 4. riflettere, cioè fornire qualche considerazione personale su come la scuola potrebbe svolgere meglio il proprio delicato compito (momento riflessivo). Tra queste diverse operazioni, è l’argomentazione a costituire quella più impegnativa: si tratta di presentare argomenti, ovvero prove al proprio discorso.

Amplificare la traccia Come si vede dall’esempio addotto, la traccia di un tema di ordine generale consiste spesso in un’affermazione (su cui sono più o meno tutti d’accordo), seguita da uno o più verbi che chiedono di ampliare e confermare tale affermazione. Il tema impone dunque allo studente di replicare l’idea-chiave contenuta nella traccia, confermandola con riflessioni, illustrandola con esempi e riferimenti. Un elemento importante è quindi la capacità da parte di chi scrive di amplificare la traccia del titolo, cioè di ripetere e allargare la tesi principale in essa contenuta. Ciò significa che il tema di attualità è un genere di tipo retorico. Esso esalta prima di tutto le doti formali di chi scrive: capacità espositiva, fluidità e scorrevolezza di stile, proprietà lessicale ecc. Sono elementi a cui bisognerà prestare particolare attenzione.

Tracce aperte Altre volte, invece, la traccia del tema di attualità è definibile come una traccia aperta, tale cioè da suggerire semplicemente l’argomento, senza proporne un’analisi o un giudizio. 754

Riscritture Tipologia D: il tema di ordine generale

Prendiamo in considerazione alcuni esempi: • L’arte, uno dei beni più preziosi dell’umanità • Doveri dell’uomo e diritti della natura • Rispetto dell’ambiente e sviluppo sostenibile • Stato e Chiesa: il confronto tra le regole di una società laica e la morale religiosa

Tracce simili a queste richiedono uno svolgimento del tutto libero: sta a noi proporre un’analisi dei problemi ed esprimere un’opinione in proposito. Tuttavia si tratta, spesso, di una libertà solo apparente: trattandosi di problemi su cui molto si è dibattuto, e su cui esiste quindi una vasta «letteratura», vi sono opinioni ritenute generalmente più fondate di altre; bisogna quindi evitare di scrivere tesi troppo personali o che possano essere ritenute discutibili.

La varietà degli argomenti Quanto agli argomenti, è veramente difficile prevedere che cosa sarà richiesto di trattare dalla traccia ministeriale. Se per esempio consideriamo i titoli proposti nel nuovo Esame di Stato dal 1999 in avanti, troveremo, nell’ordine, i seguenti argomenti:

Di fronte a tanta varietà è difficile potersi preparare con un minimo grado di attendibilità su un qualche argomento particolare. Vale un suggerimento di ordine generale: prestare sempre attenzione alle fonti e ai luoghi d’informazione che caratterizzano, in modo anche informale, la nostra vita quotidiana: giornali, Internet, televisione, conversazioni familiari, discorsi tra amici ecc. Inoltre, per un ulteriore approfondimento, sarebbe opportuno partecipare con una certa frequenza a dibattiti, convegni, mostre, letture specializzate ecc.

Come trattare i contenuti Più importante ancora dei contenuti è tuttavia l’abitudine mentale con cui ci si accosta a essi. È dunque consigliabile: • evitare i pregiudizi; • imparare a districare i fatti dalle opinioni; • sforzarsi di individuare i fatti certi rispetto a quelli solo supposti o fasulli; • accostarsi con rispetto ai punti di vista altrui; • soppesarli con ragionevolezza; • scegliere un punto di vista senza pregiudizi, in modo non dogmatico. 755

SCUOLA DI SCRITTURA

1999 – Il valore civile dell’impegno nel volontariato. 2000 – Il lavoro minorile e altre forme di sfruttamento a danno dei più giovani. 2001 – I diritti dell’uomo e il Tribunale internazionale dei crimini contro l’umanità. 2002 – Il patrimonio culturale dell’Italia. 2003 – La cultura delle immagini e il loro impatto emotivo. 2004 – Rispetto della legge e cultura della legalità. 2005 – Il ruolo della scienza, oggi. 2006 – L’artigianato e i mestieri tradizionali, nell’attuale tessuto sociale. 2007 – Industrializzazione e comunità sociale. 2008 – Comunicare le emozioni: in passato con una lettera, oggi con un sms o una e-mail. 2009 – La caduta del muro di Berlino (1989) e il suo significato per quanto riguarda libertà e democrazia. 2010 – La musica (funzione, scopi, usi) nella società contemporanea.

Scrivere per l’Esame di Stato (1)

Sette operazioni necessarie per un tema di attualità Anche il tema di attualità è, o dovrebbe essere, una scrittura argomentata. Quindi è sbagliato mettersi a scrivere subito. Bisogna invece: 1. Leggere e analizzare il titolo con attenzione. 2. Comprendere in tal modo con certezza ciò che viene richiesto dalla traccia ministeriale. 3. Fare una sorta di inventario delle proprie idee e delle informazioni possedute sull’argomento, attingendo a quella che viene chiamata l’«enciclopedia mentale». 4. Ampliare le proprie conoscenze con associazioni di idee, riflessioni sulla propria esperienza, collegamenti ad altre materie di studio ecc. 5. Pervenire così a un elenco, non ancora organizzato, di tutto ciò che ci viene in mente sull’argomento proposto. È importante che questo elenco sia scritto per poterlo successivamente utilizzare per il nostro lavoro (fase del brainstorming: E volume 1). 6. Definire, sull’argomento proposto, una propria opinione, cioè la tesi che vogliamo sviluppare, che sia sostenibile con prove e argomenti validi. 7. Infine, elaborare un progetto testuale, cioè stabilire una scaletta dello svolgimento (E volume 1).

La tesi: una propria opinione Soffermiamoci brevemente sugli ultimi due punti, a cominciare dal 6: definire una propria tesi. Anche se non ci viene espressamente richiesto dalla traccia, siamo tenuti ad avere un’opinione. La possiamo indicare esplicitamente oppure suggerire attraverso la scelta delle prove che presentiamo; possiamo essere in accordo o in disaccordo con quanto la traccia suggerisce; possiamo avere nel merito un giudizio già ben definito o solo abbozzato. A ogni modo è bene che la nostra opinione emerga dallo svolgimento dell’elaborato. È impossibile, infatti, svolgere un tema «in modo oggettivo», mantenendo cioè una posizione neutrale, di pura presentazione degli argomenti. Quando si affrontano problemi di attualità, l’oggettività, in sostanza, non esiste. La scelta stessa dei fatti che presentiamo, degli esempi che proponiamo, delle opinioni che riferiamo, contiene un giudizio. È bene allora che questo giudizio sia chiaro, prima di tutto a noi stessi. Da esso deriva la tesi che ci accingiamo a sostenere.

Il progetto testuale

SCUOLA DI SCRITTURA

Il punto 7 concerne l’elaborazione di un progetto testuale. Quest’ultimo non potrà che nascere in relazione alla tesi o opinione di cui abbiamo parlato: le due cose sono strettamente intrecciate. Il progetto testuale va consolidato in forma di schema di svolgimento o scaletta, di cui abbiamo parlato nella Scuola di scrittura del volume 2. D’altra parte, ordinare le argomentazioni, in modo che tutto risulti chiaro a chi leggerà il tema, è un obiettivo comune a tutti i tipi di scrittura d’esame: vale sia per il tema (storico o di attualità), sia per il saggio breve e l’articolo di giornale.

Annotare tutto prima Come dimostrano i sette punti dell’elenco, prima di iniziare l’effettiva stesura del tema, bisogna lavorare non poco. Alla versione definitiva dell’elaborato si giunge gradualmente: il lavoro preliminare è lungo e impegnativo. Perciò anche in questa fase è consigliabile annotarsi tutto per iscritto, in modo che nessuna idea, nessuno spunto, nessun collegamento vada perduto. Ma se il lavoro preliminare sarà stato ben fatto, la fase di stesura sarà già ben avviata e quindi risulterà più facile.

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Riscritture Tipologia D: il tema di ordine generale

lavoriamo su

Il tema d’attualità

1. Tema guidato: ordine generale L’età contemporanea vede l’affermarsi di un’etica individualistica e competitiva, che mette al primo posto il soddisfacimento dei bisogni personali e privilegia l’apparenza alla sostanza. Secondo te è ancora possibile, in questo contesto, qualche forma di impegno sociale e civile attraverso cui l’individuo possa vivere valori più autentici e affermare il primato della solidarietà sull’egoismo privato?

Dopo aver letto attentamente la traccia, segui i suggerimenti proposti per svolgere il tema.

Analizza la traccia ■ Il titolo mette in opposizione due tipi di comportamento: • un’etica (cioè un modo di comportarsi) di tipo individualistico e competitivo; • forme di impegno sociale e civile e di solidarietà (per esempio nel volontariato). ■ L’etica individualistica è da valutarsi come immorale, perché incentrata solo sull’egoismo. ■ Bisogna ritornare a valori (personali e sociali) più autentici; l’impegno sociale e civile è una conseguenza della riscoperta di questi valori. ■ Quali sono questi valori opposti all’egoismo? a) A livello personale: dare un senso alla propria vita, al di là del soddisfacimento degli istinti o dell’egoismo momentaneo. b) A livello sociale: il prendersi cura degli altri (solidarietà), il prendersi cura della collettività (impegno civile e politico).

Definisci la scaletta Introduzione Partire dalla situazione attuale: un mondo chiuso nel «privato», poco disposto a impegnarsi. Ma se si analizza con più attenzione il contesto intorno a noi, emergono anche esperienze diverse e più positive. Sviluppo a. Mettere a fuoco le manifestazioni dell’egoismo odierno (è meglio restare nell’ambito della propria esperienza, per non scadere nel generico: precisare quindi che si analizzerà la realtà giovanile): • consumismo e indifferenza ai bisogni dell’altro; • la moda (l’apparire) come regola di vita; • bullismo come forma di sopraffazione dei più deboli; • provare «brividi» artificiali: gare di velocità, sassi dal cavalcavia, vite bruciate in discoteca; • dimenticare tutto e tutti nello stordimento dell’alcol e della droga. b. Passare poi alle tante testimonianze di generosità, altruismo, impegno: • forme di impegno e di solidarietà (il volontariato in società, nelle sue varie manifestazioni); • voglia di partecipazione (a livello sociale e politico): manifestazioni politiche di massa, nascita di nuovi partiti politici; • la stessa contestazione degli uomini politici attuali («la casta») testimonia, paradossalmente, la necessità di una politica diversa e più partecipata. Conclusione L’analisi della situazione evidenzia luci e ombre. Ciascuno è libero di scegliere l’atteggiamento da tenere, ma gli esempi positivi ci dicono che ci si può impegnare in prima persona per affermare valori buoni e duraturi. 757

SCUOLA DI SCRITTURA



Scrivere per l’Esame di Stato (1)

2. Tema guidato: ordine generale



I ripetuti episodi di cronaca legati al doping sembrano mettere in dubbio il valore positivo che la nostra società ha sempre attribuito allo sport, anche per la formazione globale dei giovani. Analizza le caratteristiche del «fenomeno doping» dal punto di vista tecnico-scientifico, sportivo e sociale; esponi quindi la tua opinione in ordine ai provvedimenti e agli strumenti più utili per contrastarlo.

Dopo aver letto attentamente la traccia, segui i suggerimenti proposti per svolgere il tema.

Analizza la traccia ■ La traccia mette in rilievo: • il valore formativo ed educativo tradizionalmente assegnato allo sport; • il fatto che il doping rovescia tale valore, diffondendo disvalori. ■ La traccia chiede: • di analizzare il fenomeno del doping: – sul piano tecnico-scientifico: come, in concreto, si possono assumere sostanze che alterano la prestazione sportiva; – sul piano sportivo: citare qualche caso tra i più noti di doping nel mondo dello sport; – sul piano sociale: perché il doping è sempre più diffuso, anche a livello dilettantistico? • di ipotizzare norme e strumenti per contrastare il doping (leggi più severe, maggiori controlli ecc.).

Definisci la scaletta Poiché il titolo è bene articolato, la scaletta può seguire in successione i punti rilevati nell’analisi della traccia.

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Introduzione Sottolineare il valore formativo dello sport, che educa a: senso della lealtà, impegno, rispetto dell’avversario, volontà di superare i propri limiti. Ma oggi tutto ciò è compromesso dalla diffusione crescente del doping. Sviluppo a. Analizzare il «fenomeno doping» secondo la sequenza rilevata nell’analisi della traccia: • dal punto di vista tecnico-scientifico; • dal punto di vista sportivo (citare casi esemplificativi: Pantani, Marion Jones ecc.); • dal punto di vista sociale: oggi siamo in un contesto che privilegia la prestazione (vincere) a qualsiasi costo; perciò assumere sostanze, o comportarsi in modo sleale, non è più percepito come un comportamento grave e irrispettoso di sé, degli avversari, del pubblico. b. Ipotizzare strumenti per contrastare il doping: • leggi più severe a livello sportivo e anche civile-penale; • maggiori controlli, per non consentire alibi e «scorciatoie» di nessun tipo; • controlli da estendere anche al mondo dello sport dilettantistico. Conclusione Rilevare che i controlli e la repressione non sono sufficienti. Per combattere efficacemente il doping, occorre riscoprire i valori della sportività, del rispetto dell’avversario (fair play), della lealtà: valori che vengono prima della stessa vittoria. Per diffondere questa mentalità occorre ripartire dai giovani e dalla scuola. 758

Riscritture Tipologia D: il tema di ordine generale

3. Tema guidato: ordine generale Oggigiorno le problematiche ecologiche (sviluppo sostenibile, rispetto dell’ecosistema ecc.) sembrano entrate a far parte della coscienza collettiva. Ciascuno di noi è chiamato ad acquisire e a sviluppare il senso di una maggiore responsabilità nell’utilizzo delle risorse naturali e nei propri comportamenti ambientali.

Dopo aver letto attentamente la traccia, segui i suggerimenti proposti per svolgere il tema.

Analizza la traccia ■ La traccia propone una tesi: la coscienza ecologica è oggi diffusa. ■ Auspica inoltre che ci si comporti con maggiore responsabilità: • nell’utilizzare le risorse naturali (quali? petrolio, luce, acqua); • nel rapporto con l’ambiente. ■ Tale auspicio significa dunque che la coscienza ecologica è diffusa più in teoria che nella pratica. ■ Lo sforzo da compiere è quindi duplice: • prendere maggiore coscienza (in teoria) dell’importanza del rispetto della natura; • per comportarsi tutti (in pratica) con maggiore senso di responsabilità.

Definisci la scaletta Introduzione Aprire sottolineando che tutti oggi sappiamo che: a) la natura è una risorsa non illimitata; b) bisogna preservare il pianeta da un eccessivo sfruttamento. Aggiungere che, tuttavia, a questa conoscenza teorica spesso non fanno riscontro i comportamenti. Sviluppo a. Fornire una panoramica sulle maggiori questioni ecologiche oggi sul tappeto: • concentrazione urbanistica, traffico e smog in città; • espansione non razionale dei sistemi industriali (oggi anche nei paesi emergenti come Cina e India); • uso indiscriminato delle risorse naturali (per esempio il petrolio e il carbone); • difficoltà nello smaltimento ecologico dei rifiuti e delle scorie radioattive. b. Passare alle conseguenze, oggi sotto gli occhi di tutti: surriscaldamento dell’atmosfera e buco nell’ozono. c. Rilevare che l’opinione pubblica, per fortuna, è oggi sensibile a queste problematiche: • associazioni e gruppi ecologisti; • dibattiti e conferenze internazionali; • premio Nobel per la pace assegnato nel 2007 a un convinto ecologista come lo statunitense Al Gore. Conclusione Occorre però dare maggiore concretezza a queste discussioni e riflessioni. a. A livello generale è necessario pervenire a una ratifica generale del Protocollo di Kyoto e ad accordi per diminuire l’effetto serra, l’inquinamento delle città, lo sfruttamento indiscriminato delle foreste e per garantire ovunque il rispetto dell’ambiente. b. A livello quotidiano, dobbiamo educarci a un rapporto più responsabile con la natura: • smaltimento ecologico dei rifiuti; • stili di vita meno consumistici e razionalizzazione dei consumi; • tutela del verde pubblico. 759

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■ Accento ritmico Nei versi italiani indica la posizione occupata dall’accento principale, quello cioè che dà il ritmo al verso; nell’endecasillabo, per esempio, l’accento ritmico cade di norma sulla quarta, sesta e decima sillaba: di quei so-spì-ri ond’ìo nudriva ’l cò-re (Petrarca); oppure sulla quarta, ottava e decima sillaba: tanto gen-tì-le e tanto o-nè-sta pàre (Dante).

piace di sentir la storia per minuto (Manzoni). Può essere usato da un autore per particolari scopi espressivi.

■ Anàfora Ripetizione di una parola o di un nesso di parole all’inizio di successive unità sintattiche (frasi, periodi) o metriche (versi, strofe). Per esempio: Per me si va nella città dolente, / per me si va nell’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente (Dante).

■ Accumulazione Accumulo in serie, ordinato o volutamente disordinato, di più elementi lessicali: Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno, / e la stagione, e ’l tempo, e l’ora, e ’l punto (Petrarca).

■ Adýnaton Parola greca che significa “impossibile” (plurale adýnata), è una figura retorica con cui si avvalora l’irrealizzabilità di un evento subordinandolo a una condizione assolutamente impossibile: i cervi leggeri pascoleranno nel cielo [...] prima che il volto di Augusto sia cancellato dal mio cuore (Virgilio).

■ Afèresi Soppressione di una vocale o di una sillaba all’inizio di una parola, segnalata dall’apostrofo: ’sta, ’sto per questa, questo.

■ Analogìa Relazione di somiglianza creata dalla fantasia tra due oggetti o situazioni che in sé non hanno rapporto: Le mani del pastore erano un vetro levigato (Ungaretti), senza utilizzo della parola «come», la cui presenza determina invece una similitudine (vedi).

■ Annominazione vedi Paronomasìa. ■ Anticlìmax vedi Clìmax.

■ Catàrsi Dal greco kathairéin (“purifi-

■ Antìfrasi o ironia Utilizzo di un ter-

care”), indica, nella Poetica di Aristotele, la purificazione delle passioni che l’arte induce nel fruitore.

mine o di una locuzione a cui si dà senso opposto rispetto a quello comune: per esempio: Che bellezza! per alludere a qualcosa di spiacevole.

■ Antìtesi Accostamento di immagini

esprime in forma estremamente sintetica un’idea, un concetto, una riflessione.

■ Allegorìa Figura retorica il cui nome

■ Antonomàsia Ricorso a un nome

deriva dal greco allegoréin, “parlare d’altro”. Consiste nell’associare al significato letterale di un testo uno o più livelli ulteriori di senso (morale, politico ecc.). Per esempio la Divina Commedia può essere vista nel suo assieme come un’allegoria: il viaggio nell’aldilà è allegoria del passaggio dal peccato alla purificazione.

comune in luogo di un nome proprio (per esempio il Notaro per indicare Giacomo da Lentini), o viceversa a un nome proprio in luogo di un nome comune (essere un mecenate per indicare un protettore di artisti).

■ Allitterazione Figura retorica che consiste nella ripetizione di lettere, sillabe o suoni uguali o affini all’inizio di parole vicine o anche al loro interno, al fine di ottenere particolari effetti espressivi: di me medesmo meco mi vergogno (Petrarca).

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■ Cesura Dal latino caesura, “taglio”, indica la pausa metrica all’interno di un verso, pausa che suddivide il verso in due emistichi (mezzi versi) differenti. Può collocarsi in punti diversi, per esempio dopo la quinta sillaba (come nell’endecasillabo dantesco In forma dunque | di candida rosa) o dopo la sesta (come nel dantesco Nel mezzo del cammin | di nostra vita).

sione di vocale o sillaba finale di parola seguita da altra parola che inizia per consonante: po’ per poco, buon per buono.

■ Chiasmo Disposizione incrociata di elementi della frase, con schema ABBA, sul piano semantico o su quello grammaticale. Per esempio in Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori (Ariosto) il rapporto fra i primi due termini (Le donne: A; i cavallier: B) è ripreso e rovesciato negli altri due (l’arme: B; gli amori: A); in odi greggi belar, muggire armenti (Leopardi) abbiamo l’incrocio sostantivo-verbo | verbo-sostantivo.

■ Apòstrofe Figura retorica che consi-

■ Clìmax Dal greco klímax (“scala”), è

ste nel rivolgersi direttamente e con enfasi a un interlocutore reale o fittizio, producendo un brusco cambiamento di tono: Godi Fiorenza, poi che sei sì grande (Dante).

la disposizione dei termini di un elenco secondo una progressione emotiva o logica, in senso crescente (per esempio bello, molto bello, bellissimo = climax ascendente) oppure in senso decrescente (bellissimo, molto bello, bello = climax discendente o anticlimax).

■ Apòcope o Troncamento Soppres-

■ Anacolùto Costrutto sintattico irregolare, nel quale, all’interno del medesimo periodo, si susseguono due proposizioni con soggetto diverso, la prima delle quali rimane sospesa: noi altre monache, ci

■ Cacofonìa Dal greco kakós (“sgradevole”) e phónos (“suono”), indica un fastidioso effetto sonoro prodotto dall’accostamento o dalla ripetizione di determinati suoni. ■ Captatio benevolentiae Dal latino captare (“conseguire”, “ottenere”) e benevolentia (“favore”), è il procedimento con cui un autore, spesso nell’esordio di un’opera, rivolge un appello a chi legge al fine di richiamarne l’attenzione e sollecitarne il favore.

contrapposte: non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tosco (Dante).

■ Aforìsma Massima, sentenza che

■ Assonanza Accostamento di parole con sillabe finali uguali solo nelle vocali (le consonanti sono invece diverse). Per esempio in La volpe maliziosa era a vedere, / e ’l can pareva fedele e leale (Pulci) si crea assonanza tra era : pareva e vedere : fedele.

■ Asìndeto Assenza di congiunzioni coordinative (in particolare e) tra due o più parole o frasi di un periodo: di qua, di là, di giù, di su li mena (Dante).

■ Connotazione Il procedimento (usato nel linguaggio poetico) grazie a cui un

GLOSSARIO RETORICO E STILISTICO termine o un’espressione, che ha un significato primario, più comune e letterale (detto «denotazione»), acquista un ulteriore significato secondario o supplementare. Per esempio l’aggettivo oscuro «denota» di per sé semplicemente l’assenza di luce, ma può anche «connotare», nella tradizione cristiana, l’idea del male e del peccato (la selva oscura di Dante), oppure, nell’Illuminismo, l’idea dell’ignoranza e della barbarie (i secoli bui del Medioevo).

■ Consonanza Figura retorica affine alla rima e all’assonanza, ma senza che fra le terminazioni delle parole vi sia completa omofonìa: si ripetono infatti i medesimi suoni consonantici, mutando però le vocali. Per esempio quando partisti come son rimasta (Pascoli).

■ Dialèfe Fenomeno prosodico per cui, nell’ambito di un verso, vocale finale di parola e vocale iniziale di parola successiva si scandiscono come due sillabe separate, anziché fondersi per sinalèfe (vedi): nel verso dell’Inferno dantesco O animal grazïoso e benigno si ha dialèfe tra la O e la a iniziale di animal, e sinalèfe tra la o finale di grazïoso e la e.

■ Dialettismo Termine o espressione di origine dialettale impiegati in un contesto letterario a fini espressivi (come per esempio nel caso delle espressioni dialettali fiorentine con cui si esprime Messer Nicia nella Mandragola di Machiavelli).

■ Didascalìa Nel linguaggio teatrale le didascalie sono le indicazioni di regia che l’autore inserisce nel testo drammatico per caratterizzare personaggi, luoghi e tempi dell’azione, o per dare indicazioni circa l’atteggiamento dei protagonisti sulla scena o il tono con cui devono essere pronunciate le battute. ■ Diègesi In linguistica, indica il racconto inteso nella sua pura dimensione narrativa, separata da descrizioni, dialoghi ecc. ■ Dièresi Fenomeno prosodico per cui due vocali che all’interno di una parola formano normalmente dittongo vengono scandite invece come due sillabe distinte; il fenomeno è segnalato da due puntini posti sopra alla prima delle due vocali: Trivïa ride tra le ninfe etterne (Dante).

■ Digressione Sequenza più o meno

■ Epanalessi Ripetizione di una o più

ampia, all’interno di un testo, in cui il narratore si allontana dall’oggetto principale della narrazione, per sviluppare o approfondire aspetti secondari (come nei due capitoli dei Promessi sposi dedicati alla monaca di Monza).

parole per rafforzare l’idea che si vuole esprimere: Ma passavam la selva tuttavia / la selva, dico, di spiriti spessi (Dante).

■ Dìstico Coppia di versi, di struttura analoga o differente. Un distico di versi uguali, legati dalla rima, si trova per esempio nella ballata di Cavalcanti Perch’i’ no spero di tornar giammai, chiusa da un distico di settenari: Anim’, e tu l’adora / sempre, nel su’ valore.

■ Dittologia sinonimica Coppia di elementi dal significato affine, in genere collegati dalla congiunzione e. La dittologia è molto utilizzata da Petrarca: Solo et pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti. ■ Dittongo Coppia di vocali che formano una sola sillaba, come in buo-no, schia-vo, tie-pi-do.

■ Ellissi Soppressione di elementi della frase, ricavabili comunque dal contesto logico o sintattico; è di uso frequente, come quando diciamo «Come stai?» «Bene!» (evitando la ripetizione del verbo sto). ■ Emistìchio Ciascuna delle due parti in cui può essere suddiviso un verso dalla pausa metrica o cesura.

■ Endiadi È una figura retorica (“una parola in due”, dal greco) che consiste nell’utilizzo di due o più parole non sinonimiche e coordinate (anziché di un sostantivo + aggettivo o sostantivo + complemento) per esprimere un unico concetto. Per esempio in Eletti di Dio, li cui soffriri / giustizia e speranza fan men duri (Dante), giustizia e speranza sta al posto di «speranza di giustizia».

■ Epìgrafe Iscrizione sepolcrale o commemorativa incisa sulla pietra o altro, per conservare memoria di un individuo o di un evento; indica anche la citazione di una sentenza, di una massima, di un motto, collocata dall’autore in apertura della sua opera.

■ Epigramma Componimento poetico breve, di origine greca, caratterizzato da concentrazione sintetica, arguzia e riflessione. ■ Eufemismo Sostituzione di un’espressione sentita come troppo dura o cruda con un’altra più attenuata (male incurabile per cancro).

■ Figura etimologica Accostamento di due o più parole che rimandano alla medesima etimologia (per esempio vivere una vita tranquilla).

■ Flashback o retrospezione Introduzione nel corso dello svolgimento della vicenda di una sequenza cronologicamente precedente. ■ Fonèma Unità di suono, talora coincidente e talora non coincidente con una singola lettera: per esempio nella parola bagno i fonemi sono b - a - gn - o. ■ Francesismo Parola o espressione propria della lingua francese di uso divenuto corrente in italiano, tanto nella forma originaria, come feuilleton, enjambement, foulard ecc., quanto in forma italianizzata, come rodaggio.

■ Inciso Frase per lo più di breve ■ Enjambement Dal francese enjamber, “scavalcare”, in italiano viene detto anche «spezzatura» o «inarcatura». Indica la non coincidenza tra unità metrica (il verso) e unità sintattica (la frase): in tal modo la seconda non rispetta le dimensioni della prima e «sconfina» nel verso successivo (per esempio l’esordio di Petrarca: Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono / di quei sospiri ond’io nudriva ’l core).

estensione e sintatticamente indipendente, inserita all’interno di un contesto con funzione parentetica.

■ Interrogativa retorica Domanda fittizia la cui risposta è già implicita nella domanda stessa: si pone per coinvolgere o sollecitare emotivamente l’interlocutore (per esempio: Non è forse vero che bere troppo fa male?; Sono forse tuo nemico?). 761

■ Io narrante La voce del narratore che sviluppa in prima persona il racconto. Può essere fittizia, ossia non coincidere con l’autore del testo, oppure no: nella Divina Commedia, per esempio, il personaggio che dice «io» coincide con l’autore dell’opera.

■ Metonìmia Figura retorica che consi-

dovrebbero stare vicini: e ’l vago lume oltra misura ardea di quei begli occhi (Petrarca).

ste in un «trasferimento» di significato fra due termini che, a differenza della metafora (vedi), appartengono comunque al medesimo campo semantico. Si possono distinguere diverse forme di metonimia, a seconda che il trasferimento di significato riguardi: a) la causa per l’effetto (leggere Dante per «leggere l’opera di Dante»); b) la materia per l’oggetto (le tele di Picasso per «i quadri su tela di Picasso»); c) il contenente per il contenuto (bere un bicchiere per «bere l’acqua contenuta in un bicchiere»); d) l’astratto per il concreto (questa gioventù mette allegria per «tutti questi giovani mettono allegria»); e) il luogo per gli abitanti (Milano è una città industriosa per «gli abitanti della città di Milano sono industriosi»).

■ Ipèrbole Esagerazione a fini espres-

■ Monologo interiore Particolare tec-

sivi: occhi soavi e più chiari che ’l sole (Bembo). È molto usata nel linguaggio quotidiano: Ho una fame da lupo.

nica narrativa che usa liberamente la sintassi per riprodurre il flusso naturale dei pensieri di un personaggio. Se si dà voce alle libere associazioni del pensare, spesso in forma caotica e irrazionale, allora si chiama «flusso di coscienza» (stream of consciousness).

■ Ipàllage Figura retorica che consiste nel riferire sintatticamente a un nome un aggettivo che, logicamente, andrebbe riferito a un altro termine del contesto: per esempio le mani avide del vecchio invece che le mani dell’avido vecchio.

■ Ipèrbato Separazione di termini che

■ Ipotassi Rapporto di subordinazione complesso e articolato (è l’opposto della paratassi, vedi) all’interno del periodo sintattico.

■ Latinismo Parola o locuzione propria della lingua latina di uso divenuto corrente in italiano: per esempio Miserere del mio non degno affanno (Petrarca), in cui Miserere è parola latina che significa “abbi misericordia”. ■ Leitmotiv Parola tedesca che significa “motivo conduttore”; in letteratura indica la ripetizione di un tema all’interno della stessa opera.

■ Palinodìa Ritrattazione di un argomento espresso in precedenza, con cui l’autore rivela di aver mutato parere; può essere reale o fittizia, a scopo ironico. ■ Panegìrico Solenne esaltazione, reale o ironica, di un personaggio illustre o comunque ben noto. ■ Paràfrasi Riscrittura o rielaborazione di un testo, semplificandone lessico e sintassi per favorire una più immediata comprensione del significato.

narrazione in cui il narratore governa la vicenda restando al di sopra di tutto, perché sa leggere nell’animo dei personaggi, sa prevedere lo svolgimento e la conclusione degli avvenimenti ecc. È la forma narrativa preferita dal romanzo ottocentesco (per esempio da Manzoni nei Promessi sposi). Non è un narratore onnisciente, al contrario, il Dante della Divina Commedia.

ca di parti del discorso (parole o strutture sintattiche). Il mare è tutto azzurro, / il mare è tutto calmo (Penna): qui c’è perfetta corrispondenza sintattica e anche uguaglianza quasi completa dei termini. Diverso quest’altro caso: Splende un lume là nella sala, / nasce l’erba sopra le fosse (Pascoli): qui le parole tra un verso e l’altro sono diverse, ma è identica la disposizione grammaticale (verbo + soggetto + complemento di luogo).

■ Neologismo Parola o espressione

■ Paratassi Costruzione del periodo

introdotta in tempi recenti nel lessico di una lingua.

per coordinazione, attraverso l’accostamento di proposizioni indipendenti; è l’opposto dell’ipotassi (vedi).

■ Litòte Figura retorica che consiste in un’affermazione attenuata, ottenuta negando il contrario di ciò che si vuole affermare: Don Abbondio non era nato con un cuor di leone (Manzoni).

■ Omofonìa Dal greco homós, “ugua-

■ Metàfora Figura retorica che consi-

■ Omoteleuto o omeoteleuto È

ste, etimologicamente, in un «trasferimento» di significato fra due termini legati comunque da un rapporto di affinità o somiglianza; può essere definita anche, nella pratica, come una similitudine implicita: l’espressione sei forte e coraggioso come un leone è propriamente una similitudine, mentre sei un leone è una metafora.

l’identità di suono nella terminazione di due o più parole: Ma sedendo e mirando (Leopardi). Se la terminazione è identica a partire dall’ultimo accento tonico, si ha la rima (vedi).

762

■ Ossìmoro Accostamento paradossale, a fini espressivi, di termini di senso opposto, come dolce amarezza, vita mortale. La coesistenza dei contrari giunge inaspettata e produce perciò stupore in chi legge: dolce affanno (Petrarca), dolce tumulto (Pascoli).

■ Parallelismo Disposizione simmetri■ Narratore onnisciente Forma di

■ Ironia vedi Antìfrasi.

l’oggetto in questione. Due tipiche parole onomatopeiche della lingua italiana sono chicchiricchì e cucùlo, che riproducono ambedue un suono, il verso del gallo e, appunto, del cucùlo.

le”, e phónos, “suono”, è la relazione che c’è tra due parole che hanno lo stesso suono e diversi significati.

■ Onomatopèa Figura retorica che consiste nell’impiego di parole il cui suono imita, riproduce o suggerisce

■ Parodìa Testo o sezione di testo in cui un autore deforma in senso caricaturale un’opera altrui, con intento polemico o anche per puro divertimento. ■ Parola-rima Parola che costituisce rima nella sua interezza, e non solamente nella parte finale. ■ Paronomasìa o annominazione Accostamento di due termini affini nel suono ma non nel significato (per esempio amore amaro, donna danno ecc.), con conseguente gioco di parole.

GLOSSARIO RETORICO E STILISTICO ■ Pastiche Libera mescolanza di differenti registri stilistico-linguistici e/o differenti linguaggi, oppure anche l’opera realizzata mediante simile mescolanza.

tratta diffusamente: Cesare taccio, che per ogni piaggia / fece l’erbe sanguigne (Petrarca).

vocale iniziale della parola successiva vengono scandite come un’unica sillaba: Passata è la tempesta: / odo augelli far festa, e la gallina (Leopardi).

■ Prolèssi Anticipazione di un elemen■ Pathos In greco “passione”: è un ef-

to del discorso, successivamente ripreso: codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo (Montale).

fetto di forte impatto e coinvolgimento emotivo suscitato nel destinatario del testo attraverso il ricorso a situazioni ed emozioni forti, come l’orrore, la pietà, lo sdegno, l’entusiasmo ecc.

■ Prosopopèa vedi Personificazione.

■ Perìfrasi Figura retorica che consi-

■ Retrospezione vedi Flashback.

ste nell’indicare cosa o persona ricorrendo a un giro di parole. Per esempio: colei che sola a me par donna per indicare Laura (Petrarca).

■ Personificazione o prosopopèa Figura retorica che consiste nella personificazione di concetti o entità astratte, come l’Italia nella canzone di Petrarca Italia mia, benché ’l parlar sia indarno.

■ Pleonasmo Elemento linguistico sintatticamente superfluo, il cui valore è pertanto puramente espressivo (e a me che me ne importa).

■ Polifonìa Particolare effetto prodotto dalla compresenza, all’interno di un testo narrativo, delle voci di diversi personaggi del tutto indipendenti tra loro e rispetto all’autore, e che si esprimono in forme anche stilisticamente e linguisticamente differenti.

■ Poliptòto Figura retorica che consiste nella ripetizione ravvicinata della stessa parola con diverse desinenze: piangete, donne, e con voi pianga Amore (Petrarca).

■ Polisemìa Compresenza, in un testo semanticamente complesso, di differenti livelli o piani di significato, letterali e allegorico-simbolici (esistenziale, morale, politico, sociale, religioso ecc.).

■ Rima Identità di suono tra le parole conclusive di due o più versi, a partire dall’ultima sillaba accentata. A seconda del suo impiego nella strofa, la rima può essere: a) alterna o alternata (schema ABAB); b) baciata (schema AABB); c) invertita (schema ABC CBA); d) incrociata (schema ABBA); e) incatenata (schema ABA BCB CDC ecc.). Forme particolari di rima sono la rima al mezzo (rimalmezzo), quando coinvolge una parola collocata non in fine di verso, ma in fine di emistichio (Passata è la tempesta: / odo augelli far festa, e la gallina, Leopardi); rima equivoca, quando rimano tra loro parole identiche nel suono ma diverse nel significato, come porta (sostantivo) e porta (verbo); rima spezzata, quando è formata da due diversi elementi grammaticali, come a noi (complemento) e annoi (verbo); rima imperfetta, quando è sostituita da un’assonanza (alto / pianto) o da una consonanza (amore / amaro); rima ipermetra, quando rimano tra loro parola (e quindi verso) piana e parola (e quindi verso) sdrucciola, ma si ritrova la rima regolare sopprimendo l’ultima sillaba in sovrappiù (agli altri ed a se stesso amico / e l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro, Montale); rima siciliana, quando la vocale e accentata e chiusa rima con la i, oppure la o chiusa e accentata con la u (per esempio uso : amoroso).

■ Polisìndeto Figura retorica (opposta all’asindeto, vedi) che consiste nel coordinare elementi di una frase o di un periodo ripetendo ogni volta la medesima congiunzione: E ripensò le mobili / tende, e i percossi valli, / e il lampo de’ manipoli, / e l’onda dei cavalli, / e il concitato imperio / e il celere ubbidir (Manzoni).

■ Similitudine Figura retorica che

■ Preterizione Consiste nel fingere di

■ Sinalèfe Fenomeno prosodico per cui la vocale finale di una parola e la

tacere un argomento di cui invece si

consiste nell’istituire un paragone esplicito fra due realtà legate fra loro da rapporti di affinità, somiglianza ecc.; nelle sue forme più semplici è largamente usata anche nel linguaggio comune: lungo come la fame, brutto come la morte, chiaro come il sole.

■ Sinèddoche Figura retorica affine alla metonimia, ma implicante principalmente rapporti quantitativi di affinità, ovvero: a) la parte per il tutto (Non ho un tetto sulla testa per «non ho casa»); b) il singolare per il plurale (Non passa lo straniero per «non passano gli stranieri»); c) il genere per la specie, o viceversa (Il pachiderma lo travolse per «l’elefante lo travolse»).

■ Sinèresi Fenomeno prosodico opposto alla dieresi (vedi), per cui due vocali, che di norma costituiscono iato, vengono scandite come appartenenti alla medesima sillaba: Disse: Beatrice, loda di Dio vera (Dante).

■ Sinestesìa Figura retorica che consiste nell’associare in un unico nesso parole o immagini riferite a differenti sfere sensoriali: i dorati silenzi (Campana).

■ Sintagma In linguistica, indica un’unità sintattica formata da due o più parole e dotata di autonomia di significato. Per esempio è un sintagma unico il predicato nominale, benché sia costituito da due o più parole (è un bel cane).

■ Stilèma Particolare tratto formale che caratterizza lo stile di un autore o di autori appartenenti alla medesima scuola o movimento.

■ Tòpos Parola greca (“luogo”; al plurale tòpoi) con cui si indica un luogo comune.

■ Troncamento vedi Apòcope. ■ Verso Struttura metrico-ritmica caratterizzata da una successione regolata di sillabe e di accenti ritmici; è l’unità base dell’espressione poetica.

■ Zeugma Figura retorica (dal greco zeughéin, “aggiogare”) che consiste nel far dipendere da un unico verbo sostantivi, complementi o espressioni che, invece, vorrebbero ciascuno un verbo specifico (o lo stesso, ma diversamente coniugato). Parlare e lagrimar vedrai insieme (Dante), per «vedrai lacrimare e udirai lacrimare». 763

A Abate, Antonino 109, 111 Abba, Marta 583 Achille 716 Achmatova, Anna (Anna Andreevna Gorenko) 59 Adler, Dankmar 450 Agamennone 716 Agostinelli, Alfred 698 Agostino sant’ 704 Albertini, Luigi 299 Aleardi, Aleardo 109 Aleramo, Sibilla 496 Alessandro Magno 360, 422 Alessandro II Romanov 678 Amendola, Giovanni 485 Amiel, Henri-Frédéric 320 Anguissola, Maria Gravina 298 Antoine, André 46 Apollinaire, Guillaume 49, 53, 445, 454, 487 Apollonio Rodio 553 Apuleio 288 Aragon, Louis 57, 59 Ariosto, Ludovico 221, 473, 585, 593 Aristotele 256 Arp, Hans 57, 59 Arrighi, Cletto 236, 237 Artaud, Antonin 57, 59, 60, 642 Auerbach, Erich 261 B Bakunin, Michail 90 Baldi, Guido 115, 166 Ball, Hugo 57, 59 Balla, Giacomo 55, 59, 70, 445 Bally, Charles 578 Balzac, Honoré de 43, 73, 74, 280, 506, 600, 672, 673 Barbèra G. 215 Bàrberi Squarotti, Giorgio 391, 461, 478 Barile, Massimo 454 Barilli, Renato 349, 516, 674, 684 Battisti, Cesare 505 Baudelaire, Charles 48, 49, 51, 52, 53, 54, 60, 229, 237, 238, 240, 254, 255, 256, 257-261, 262, 265, 267, 268, 275, 288, 325, 402, 676 Bauer, Felice 705 Bava Beccaris, Fiorenzo 21 Bazlen, Bobi 543 Beardsley, Aubrey 304, 542 Beccaria, Cesare 485 Beer Wilse, Anders 47 Bellanova, Piero 445 Belloli, Carlo 445 Bemporad, Roberto 620, 632 Benelli, Sem 446 Benjamin, Walter 329 Berg, Alban 55 Bergson, Henry 41, 442, 484, 703, 704 Bernard, Claude 73 Bernhardt, Sara 298 764

Berni, Francesco 252 Bers, Sof’ja 686 Bersezio, Vittorio 46 Bertolazzi, Carlo 46 Binet, Alfred 584, 585, 638 Blok, Aleksandr 55, 59, 256 Blondel, Maurice 484 Boccaccio, Giovanni 252, 433, 600 Boccioni, Umberto 55, 59, 70, 84, 445, 453 Boine, Giovanni 55, 486 Boito, Arrigo 48, 53, 109, 236, 237, 238 Bonghi, Ruggero 102 Bontempelli, Massimo 57 Borbone 18, 19 Borges, Jorge Luis 445 Borgese, Giuseppe Antonio 460, 461, 462, 464, 483, 484 Borsani, Carlotta 249 Braque, Georges 59, 69, 454 Bresci, Gaetano 21 Breton, André 57, 58, 59, 60, 663, 711 Briganti, Giovanni 412 Brigola, Gaetano 125, 131 Broch, Hermann 724 Brod, Max 705 Brunetière, Ferdinand 36 Buccafusca, Emilio 445 Buñuel, Luis 57, 59 Burnett Hodgson, Frances 280 Buzzati, Dino 57, 440, 658 Buzzi, Paolo 55, 56, 59, 444, 445 Byron, George 237, 241, 469

Cassirer, Ernst 658 Cattaneo, Carlo 485 Cavacchioli, Enrico 56, 444, 445 Cavour, Camillo Benso conte di 18, 19 Cecchi, Emilio 346 Cecco Angiolieri 593 Céline, Louis-Ferdinand 55, 252 Cerisola, P.L. 385 Cervantes Saavedra, Miguel de 585, 593 Cézanne, Paul 65, 67 Chamisso, Adalbert von 631 Chiarini, Giuseppe 223 Chiaves, 461, 462, 475 Chiesa, Damiano 505 Cicerone 593 Clair, René 57, 59 Claudel, Paul 487 Collodi, Carlo 280 Comte, Auguste 34, 41 Conrad, Joseph 677 Contini, Gianfranco 339 Cooper, James F. 280 Copernico, Niccolò 584 Corazzini, Sergio 454, 461, 462, 463, 479 Corbière, Tristan 270 Corra, Bruno 444, 445 Corradini, Enrico 484 Costa, Andrea 357 Crispi, Francesco 20, 216, 249 Cristofori Piva, Carolina 216, 218 Crémieux, Benjamin 504, 543 Croce, Benedetto 41, 110, 234, 485, 487, 593

C Cˇechov, Anton 46 Calvino, Italo 445 Cameroni, Felice 109, 113 Campana, Dino 49, 53, 486, 487, 496500 Camus, Albert 627 Cangiullo, Francesco 444, 445 Cappa, Benedetta 446 Cappelli, Licinio 543 Capuana, Luigi 45, 60, 86, 87, 88, 9195, 96, 102, 109, 110, 113, 131, 150, 256, 583 Carabba, Rocco 593 Cardarelli, Vincenzo 487 Carducci, Dante 216, 217, 221 Carducci, Giosue 215-234, 235, 236, 272, 307, 312, 357, 358, 359, 360, 363, 368, 374, 375, 395, 426, 427, 478, 487, 488, 505 Carducci, Michele 215 Carli, Mario 444, 445 Carlo V d’Asburgo (Carlo II di Spagna) 96, 100 Carlo VI d’Asburgo 505 Carrà, Carlo 55, 59, 453 Casanova, Francesco 176 Cases, Cesare 723

D Daguerre, Louis-Jacques 47 Daimler, Carl 449 Dalí, Salvador 57, 59, 704 Dall’Ongaro, Francesco 120 D’Annunzio, Antonio 298 D’Annunzio, Gabriele 27, 48, 49, 51, 52, 53, 60, 102, 235, 236, 237, 278, 279, 297-355, 358, 366, 372, 375, 378, 409, 410, 418, 425, 431, 440, 442, 443, 461, 462, 463, 475, 478, 481, 484, 486, 487, 488, 509, 510, 676 D’Annunzio, Renata 298, 299, 346 Dante Alighieri 175, 221, 308, 359, 360, 409, 473, 593 Darwin, Charles 35, 36, 41, 72, 506, 507, 508, 511, 569 Da Silva Bruhns, Julia 693 Daubrun, Marie 257 D’Azeglio, Massimo 621 De Amicis, Edmondo 236, 280 De Benedetti, Giacomo 378, 573, 717 De Bosis, Adolfo 418 Debussy, Claude 273, 308 De Castris, Arcangelo Leone 341 De Chirico, Giorgio 622 De Dieterichs Ferrari, Olga 658

INDICE DEI NOMI Degas, Edgar 65, 378 De Gubernatis, Angelo 102 De Marchi, Emilio 86, 89 Demeny, Paul 50, 262 De Musset, Alfred 593 Depero, Fortunato 445 Depretis, Agostino 19, 20 Derain, André 59 De Robertis, Giuseppe 485, 486 De Roberto, Federico 45, 86, 87, 88, 96-101, 110, 111, 120 De Sade, Donatien-Alphonse-François 237 De Sanctis, Francesco 505 Desbordes-Valmore, Marceline 270 Dewey, John 484 Dickens, Charles 43, 74, 280, 593, 672, 673 Dickinson, Emily 256 Diderot, Denis 120 Dilthey, Wilhem 41 Di Mauro Verga, Caterina 120 Di Mauro, Carmelo 111 Döblin, Alfred 55, 724 Dossi, Carlo 237, 249-252 Dostoevskij, Fëdor 280, 305, 506, 521, 672, 673, 677, 678-683, 684, 685 Dostoevskij, Michail 678 Douglas, Melvyn 583 Dreyfus, Alfred 79 Du Camp, Maxime 75 Duchamp, Marcel 57 Dujardin, Édouard 553 Dunlop, John Boyd 449 Duse, Eleonora 298, 304, 308 Duval, Jeanne 257 Dymant, Dora 705 E Eco, Umberto 675 Edison, Thomas Alva 24 Eiffel, Gustave 450 Einaudi, Luigi 485 Einstein, Albert 567 El Greco (Dominikos Theotokopoulos) 692 Eliot, Thomas Stearns 49, 53, 673 Elli, Enrico 395 Éluard, Paul 57, 59 Engels, Friedrich 34, 267 Ernst, Max 57, 59 Euripide 494 Evreinov, Nicolaj 641 F Faldella, Giovanni 237 Farfa (Vittorio Tommasini) 445 Farina, Salvatore 45, 109 Fattori, Giovanni 66, 89 Federico I Barbarossa di Hohenstaufen 228 Ferrari, Severino 215, 234, 397 Ferroni, Giulio 491 Ferry, Jules 23 Filzi, Fabio 505 Finzi, Aurelio 561 Fitzgerald, Francis Scott 213, 214

Flaubert, Gustave 45, 60, 74, 75-78, 213, 257, 280, 288, 325, 494, 506, 600, 674, 677, 684 Fogazzaro, Antonio 277, 278, 279, 280, 281-286, 672, 673, 677 Fojanesi, Giselda 109 Folengo, Teofilo 252 Folgore, Luciano 55, 59, 444, 445, 475 Folicaldi, Alceo 445 Ford, Henry 25 Fort, Paul 487, 488 Foscolo, Ugo 121, 242, 368, 409, 410, 469 France, Anatole 698 Francesco d’Assisi san 308 Francesco Ferdinando d’Asburgo 29 Franchetti, Leopoldo 90, 131, 150, 170 Freud, Sigmund 37, 38, 39, 41, 42, 50, 53, 95, 325, 503, 504, 507, 508, 520, 544, 551, 561, 565, 569, 584, 638, 673, 674, 676, 703, 724 Fucini, Renato 86, 89 G Gadda, Carlo Emilio 55, 249, 252, 325 Garbo, Greta 583 García, Lorca Federico 49, 53 Gardair, Jean-Michel 588 Garibaldi, Giuseppe 19, 109, 308 Gallimard, Gaston 698 Gatto, Alfonso 57 Gauguin, Paul 67, 275, 493, 542 Gautier, Théophile 257 Gentiloni, Vincenzo Ottorino 27 George, Stefan 255, 724 Gerhard, Maria Cristina 273 Giacosa, Giuseppe 46,109 Giacosa, Luigi 241 Giasone 553 Gide, André 255, 325 Gilliam, Terry 592 Giolitti, Giovanni 25, 26, 27, 33, 485 Gionaola, Elio 414 Goethe, Johann Wolfgang 469 Gogol’, Nikolaj Vasil’evicˇ 491 Goldoni, Carlo 641 Goncourt, Edmond de 44 Govoni, Corrado 55, 444, 454, 461, 462, 475, 479, 487 Gozzano, Guido 443, 461, 462, 463, 464-473, 479 Gramsci, Antonio 41 Griffith, David Wark 119 Grosz, George 567 Grotowski, Jerzy 642 Guglielminetti, Amalia 464 H Hardouin di Gallese, Maria 298 Hartmann, Eduard von 638 Hauptmann, Gerhardt 46 Hegel, Georg Wilhelm F. 280, 593 Heine, Heinrich 593 Hiemann, Martha 719

Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus 237, 242 Hofmannsthal, Hugo von 53, 724 Hugo, Victor 272, 308, 673 Hunt, William Holman 493 Husserl, Edmund 41 Huysmans, Joris-Karl 49, 52, 53, 255, 275, 278, 288-291, 301, 315, 325, 494 I Ibsen, Henrik 46 Imbriani, Vittorio 109 Ingres, Jean-Auguste-Dominique 257 Invernizio, Carolina 280 Ionesco, Eugène 57 J Jacomuzzi, Stefano 463 Jahier, Piero 55, 486 Jahier, Valerio 561 James, Henry 278, 484, 672, 673, 677 James, William 41, 484, 674 Janco, Marcel 57 Jannes, Arminio 663 Jarry, Alfred 443 Jerome, K. Jerome 506 Jesenká, Milena 705 Joyce, James 48, 52, 53, 54, 55, 57, 60, 252, 278, 325, 503, 504, 506, 508, 513, 520, 546, 553, 555, 627, 672, 674, 675, 676, 677, 712-716, 717 K Kafka, Franz 52, 53, 54, 60, 278, 325, 508, 546, 588, 672, 673, 675, 676, 677, 705-710, 717, 720, 724 Kafka, Hermann 705 Kahn, Louis 443 Kandinskij, Vasilij 59 Kierkegaard, Sören 37 Kipling, Rudyard 280, 488 Klimt, Gustav 542, 724 Kokoschka, Oskar 68, 542, 692, 724 L Laforgue, Jules 443 Landolfi, Tommaso 57, 658 Lang, Fritz 592 Larbaud, Valéry 504, 543 Lawrence, David Herber 102, 674 Leconte de Lisle, Charles-Marie 229 Lega, Silvestro 66 Lenin, Vladimir Il’ic 31 Leonardo da Vinci 326, 484 Leone XIII papa (Vincenzo Gioacchino Pecci) 27, 36 Leoni, Barbara 298 Leopardi, Giacomo 217, 236, 237, 314, 360, 372, 375, 409, 410, 567 Leopardi, Girolamo 236 Leroy, Louis 65 Létinois, Lucien 268 L’Herbier, Michel 622 London, Jack 280 765

Lowy, Julie 705 Lucini, Gian Pietro 342, 442 Lukács, György 41 Lumière, Auguste 119 Lumière, Louis 119 Luperini, Romano 184, 186, 193, 200 M Macchia, Giovanni 257 Machiavelli, Niccolò 505 Mach, Ernst 719 Machado, Antonio 49, 53 Madel’stam, Osip 59 Maeterlinck, Maurice 255, 461, 462 Maffei, Clara 109, 469 Magris, Claudio 568, 724 Magritte, René 57 Majakovskij, Vladimir 55, 59, 60, 441 Malassis, Auguste-Poulet 257 Malevicˇ, Kazimir 441 Mallarmé, Marie 273 Mallarmé, Stéphane 49, 53, 254, 255, 256, 268, 270, 273-275, 325, 342, 364, 442 Malot, Hector Henri 280 Manet, Éduard 378 Mann, Carla 693 Mann, Heinrich 693 Mann, Julia 693 Mann, Thomas 48, 52, 53, 60, 278, 291, 306, 325, 340, 546, 588, 672, 673, 677, 693-697, 711, 720, 724 Manzoni, Alessandro 87, 164, 240, 375, 437, 538, 585, 588, 593, 599, 672, 673 Marc, Franz 68 Marchesa Colombi (Maria Antonietta Torriani) 280 Marchesini, Giovanni 585 Marcuse, Herbert 493 Marey, Etienne-Jules 70 Margherita di Savoia 216 Marinetti, Filippo Tommaso 55, 56, 59, 60, 441, 442, 443, 444, 445, 446449, 451-453, 454, 462, 463, 641 Marradi, Giovanni 307 Martini, Fausto Maria 461, 462, 475 Martoglio, Nino 583 Marx, Karl 34, 39, 267, 507, 508, 567, 569 Mascagni, Pietro 308 Mastriani, Francesco 280 Matisse, Henri 59, 454 Matteotti, Giacomo 583 Maupassant, Guy de 74, 526 Mauté, Mathilde 268 Mazzini, Giuseppe 469 Medea 553 Mejerchol’d, Vsevolod 641 Méliès, Georges 119 Melville, Herman 214 Menelik II 21 Menicucci, Elvira 215 766

Michelangelo Buonarroti 409 Michelstaedter, Carlo 486 Michetti, Francesco Paolo 298 Mill, John Stuart 35 Millais, John Everett 493 Miraglia, Giuseppe 346 Miró, Joan 57, 59 Molière (Jean-Baptiste Poquelin) 641 Momigliano, Attilio 232, 314 Monellini, Plinio 384 Monet, Claude 65, 67, 378 Montale, Eugenio 49, 256, 340, 409, 463, 495, 504, 510, 538, 543, 673 Monti, Vincenzo 409 Morasso, Mario 442 Moravia, Alberto 48 More, Thomas 493 Moréas, Jean 255, 443 Moreau, Gustave 275, 287, 542 Moretti, Marino 454, 461, 462, 475, 479-481 Morisot, Berthe 65 Mosco o Mimnermo 223 Mosjoukine, Ivan 622 Munch, Edvard 55, 68, 542 Murger, Henri 236, 241 Musil, Robert 48, 52, 53, 60, 278, 325, 340, 508, 546, 588, 619, 672, 673, 674, 675, 676, 677, 711, 719-723, 724 Mussolini, Benito 299, 329, 446, 479, 484 N Napoleone III (Carlo Luigi Napoleone Bonaparte) 19, 262 Neera (Anna Radius Zuccari) 280 Nicola II Romanov 29 Nietzsche, Friedrich 37, 38, 39, 41, 53, 54, 298, 306, 326, 340, 442, 461, 473, 567 Nitti, Francesco Saverio 329 Nordau, Max 37, 53 Novalis (Friedrich von Hardenberg) 484 O Ojetti, Ugo 475 Olympiàs 422 Omero 175, 221, 314, 360, 368, 716 Onofri, Arturo 486, 487 Oriani, Alfredo 488 Orlando, Vittorio Emanuele 31 Orvieto, Angiolo 376 Orwell, George 592 Ovidio 339 Oxilia, Nino 462 P Pabst, Georg Wilhelm 55 Palazzeschi, Aldo 55, 444, 454-458, 462, 475, 479 Palermi, Amleto 622 Pankhurst, Emmeline 37

Panzini, Alfredo 488 Paola, Verdura Salvatore 114 Papini, Giovanni 55, 454, 445, 483, 484, 485, 486, 496 Parini, Giuseppe 220, 409 Pascoli, Giacomo 357 Pascoli, Giovanni 27, 48, 49, 51, 52, 53, 60, 217, 235, 236, 299, 309, 326, 356-440, 443, 461, 478, 490, 676 Pascoli, Luigi 357 Pascoli, Margherita 357 Pascoli, Maria (Mariù) 358, 359, 401 Pascoli, Ruggero 357, 389, 422 Pasolini, Pier Paolo 423 Pastrone, Giovanni 301, 311 Pater, Walter 49, 53 Patini, Teofilo 384 Pattarozzi, Gaetano 445 Péguy, Charles 487 Pellizza da Volpedo, Giuseppe 158 Perret, Auguste 450 Perugi, Maurizio 368 Petrarca, Francesco 220, 252, 473, 488 Petronio Àrbitro 288 Petronio, Giuseppe 663 Picabia, Francis 58, 59 Picasso, Pablo 59, 69, 454, 542 Pinard, Ernest 257 Pio IX papa (Giovanni Mastai Ferretti) 19, 27 Pio X papa (Giuseppe Sarto) 281 Pirandello, Fausto 583 Pirandello, Lietta 583, 638, 641 Pirandello, Luigi 48, 51, 52, 53, 55, 60, 88, 110, 278, 301, 325, 340, 510, 514, 516, 520, 538, 567, 582-671, 672, 674, 675, 677, 717 Pirandello, Stefano 583, 641, 642, 654, 659 Pissarro, Camille 65 Pitoëff, Georges 641 Pitrè, Giuseppe 150 Platone 372, 493 Plauto 593 Poe, Edgar Allan 237, 242 Poliziano (Agnolo Ambrogini) 220 Ponti, Vitaliano 446 Porter, Edwin Stanton 119 Portulano, Antonietta 583, 638, 641, 654 Praga, Emilio 48, 53, 109, 236, 237, 238-241 Pratesi, Mario 86, 89 Prati, Giovanni 109, 469 Previati, Gaetano 287 Prezzolini, Giuseppe 483, 484, 485 Pringsheim, Katja 693 Proust, Marcel 41, 48, 52, 53, 60, 278, 291, 508, 546, 552, 672, 674, 675, 676, 677, 698-703, 704, 717 Puccini, Giacomo 236 Pusˇkin, Aleksandr Sergeevicˇ 678 Puvis de Chavannes, Pierre 287

INDICE DEI NOMI Q Quasimodo, Salvatore 409 Queensberry, Alfred Douglas 292 Queneau, Raymond 57 R Rabelais, François 593 Raffaello Sanzio 51, 493 Rasi, Luigi 479 Ravagli M. 496 Ray, Man 57 Rebora, Clemente 49, 53, 55, 340, 486, 487, 491-492 Redon, Odilon 275, 287 Renoir, Pierre-Auguste 65, 67, 378 Ricœur, Paul 39 Rilke, Reiner Maria 49, 53, 256, 724 Rimbaud, Arthur 48, 49, 50, 52, 53, 60, 237, 254, 255, 262-266, 268, 270, 287, 325, 364, 371, 486, 487, 496, 676 Ripellino, Angelo Maria 711 Rodenbach, Georges 462 Rolland, Romain 488 Romagnosi, Gian Domenico 491 Rossetti, Dante Gabriel 51, 53, 493 Rosso di San Secondo, Pier Maria 55, 59, 60 Roth, Joseph 325, 711, 720 Rousseau, Jean-Jacques 121, 493 Rovani, Giuseppe 237 Rowohlt, R. 719 Rudinì, Antonio Starabba di 21 Ruskin, John 51, 53, 698 Russo, Giovanni 125, 130 Russolo, Luigi 453 Ruzante (Angelo Beolco) 252 S Saba, Umberto 487, 505, 508, 538 Saint-Simon, Claude-Henry de 34 Salandra, Antonio 29 Salinari, Carlo 670 Salvemini, Gaetano 26, 485 Sansone, Mario 51 Sauro, Nazario 505 Savarese, Gennaro 521 Savinio, Alberto 57, 59, 658 Sbarbaro, Camillo 486, 487, 494-495 Schiele, Egon 68, 542, 692 Schnitzler, Arthur 53, 724 Schönberg, Arnold 54, 59, 724 Schopenhauer, Arthur 37, 507, 508, 511, 521, 526, 567, 569, 638 Scott, Ridley 592 Scott, Walter 673 Segantini, Giovanni 287 Segre, Cesare 434 Serao, Matilde 89, 102 Sernesi, Raffaello 66 Serra, Renato 486, 488-490 Severini, Gino 445 Shaw, George Bernard 506 Siemens, Werner 24

Signorini, Telemaco 66, 89 Slataper Scipio 55, 486, 505, 538 Snitkina, Anna 678 Soffici, Ardengo 55, 444, 445, 454, 483, 484, 496 Sommaruga, Angelo 312 Sonnino, Sidney 90, 131, 150, 170 Sorel, Georges 442 Spencer, Herbert 35 Spengler, Oswald 37, 53 Spinazzola, Vittorio 101 Spitzer, Leo 152 Stanislavskij, Konstantin Sergeevicˇ 589, 642 Stekel, Wilhelm 503 Stendhal (Henri-Marie Beyle) 673 Sterne, Laurence 553, 593 Stevenson, Robert Louis 280, 672, 673, 677 Strindberg, August 46, 55 Stroheim, Erich von 583 Stuparich, Giani 486, 505 Suie, Eugène 280 Sullivan, Louis 450 Sully, James 368 Svevo, Italo 48, 51, 52, 53, 60, 212, 278, 279, 291, 325, 340, 478, 502575, 584, 587, 588, 627, 638, 666, 672, 674, 675, 676, 677, 712, 717 Svevo, Letizia 503 Swift, Jonathan 506 Swinburne, Algernon 325 T Taine, Hippolyte-Adolphe 72, 73 Tarchetti, Iginio Ugo 48, 53, 236, 237, 242-248, 277, 278, 279, 672, 673, 677 Tarchiani, Alberto 462, 475 Tasso, Torquato 409 Tedesco, Natale 479 Terenzio Afro Publio 473 Thackeray, William M., 506 Tintoretto (Jacopo Robusti) 692 Tolstoj, Lev 280, 553, 672, 673, 676, 677 Tosi, Guy 320 Toulouse-Lautrec, Henri 542 Tozzi, Federigo 52, 53, 55, 278, 672, 676, 677, 717 Trakl, Georg 49, 53, 55, 59, 60, 724 Treves, Emilio 109, 110, 120, 503, 526, 620 Treves, Giuseppe 109, 110, 120, 503, 620 Tribolati, Felice 220 Trombatore, Gaetano 193 Tura, Maurizio 574 Turati, Filippo 21 Turgenev, Ivan Sergeevicˇ, 506 Tusti, Alfredo 475 Twain, Mark 280, 593 Tzara, Tristan 57, 58, 59, 60

U Ulisse 360, 422 Umberto I di Savoia 21 Ungaretti, Giuseppe 49, 256, 395, 487, 496 V Valéry, Paul 49, 53, 255 Van Gogh, Vincent 67 Veidt, Conrad 622 Veneziani, Bruno 503, 561 Veneziani, Livia 503, 511, 514, 517, Veneziani, Gioacchino 503 Verdi, Giuseppe 237, 308 Verga, Giovanni 43, 45, 46, 60, 71, 72, 74, 86, 87, 88, 89, 95, 96, 102, 106, 108-206, 279, 280, 375, 510, 521, 526, 553, 587, 588, 600, 666, 672, 673 Verhaeren, Emile 443 Verlaine, Paul 48, 49, 52, 53, 241, 254, 255, 262, 265, 268-272, 342 Verne, Jules 280 Verri, Pietro 485 Veruda, Umberto 503, 510 Vicinelli, Augusto 401 Vicentini, Claudio 656 Vico, Giambattista 372 Villari, Pasquale 90, 170 Villiers de l’Isle-Adam, Auguste 270 Virgilio 221, 314, 376 Vittorio Emanuele III di Savoia 21 Vivanti, Annie 216, 218 Vram, Ettore 526, 531 W Wagner, Richard 36, 53, 301, 306, 340, 693 Webern, Anton 54, 59 Wedekind, Frank 55, 59, 724 Weiss, Edoardo 561 Werfel, Franz 711, 724 Whitman, Walt 487 Wiene, Robert 622 Wilde, Oscar 49, 51, 52, 53, 237, 292295, 301, 304, 325 Wilson, Thomas Woodrow 30 Wittgenstein, Ludwig 724 Woolf, Virginia 676, 677 Y Yeats, William Butler 53 Z Zanardelli, Giuseppe 20, 21, 25 Zanella, Giacomo 281 Zena, Remigio 89 Zola, Émile 43, 44, 45, 49, 60, 71, 72, 73, 79-83, 86, 87, 88, 110, 114, 115, 131, 150, 170, 280, 288, 291, 503, 506, 672, 673, 675 Zucconi, Elda 312 Zweig, Stefan 37, 724 767

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INDICE DEGLI AUTORI E DEI TESTI Baudelaire, Charles Corrispondenze 258 Spleen 260 Boito, Arrigo Dualismo; L’alfier nero; Lezioni d’anatomia Campana, Dino L’invetriata 497 Sogno di prigione 499 Viaggio a Montevideo Capuana, Luigi Giacinta 92 Le paesane Carducci, Giosue Dinanzi alle Terme di Caracalla 229 Il comune rustico 226 Lettera a Felice Tribolati 218 Nevicata 232 Pianto antico 222 Traversando la Maremma toscana 224 Alla stazione in una mattina d’autunno; Davanti San Guido Corazzini, Sergio Desolazione del povero poeta sentimentale 476 D’Annunzio, Gabriele I pastori 344 Il piacere 316, 321 La pioggia nel pineto 335 La sera fiesolana 331 Le vergini delle rocce 327 Notturno 347 O falce di luna calante 313 Il fuoco; L’innocente; Meriggio; Novilunio Deledda, Grazia Canne al vento 103 De Roberto, Federico I Vicerè 97 Dossi, Carlo L’altrieri. Nero su bianco 250 Dostoevskij, Fëdor Delitto e castigo 679 Flaubert, Gustave Madame Bovary 76 Fogazzaro, Antonio Malombra 282 Malombra Gozzano, Guido L’amica di nonna speranza 465

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Totò Merùmeni 470 Huysmans, Joris-Karl A ritroso 289 Kafka, Franz Il processo 706 La metamorfosi Joyce, James Ulisse 714 Mallarmé, Stéphane Brezza marina 274 Mann, Thomas I Buddenbrook 694 Marinetti, Filippo Tommaso La città carnale 447 Zang Tumb Tumb 451 Maupassant, Guy de La casa Tellier Moretti, Marino Io non ho nulla da dire 479 Musil, Robert L’uomo senza qualità 720 Palazzeschi, Aldo E lasciatemi divertire! 455 Pascoli, Giovanni Alèxandros 419 Arano 377 Digitale purpurea 398 Il fanciullino 369, 373 Il gelsomino notturno 411 Il lampo 385 Il tuono 387 L’assiuolo 392 La cavalla storna 415 La mia sera 404 Lavandare 381 Novembre 379 X agosto 388 Alèxandros; Il desinare; Il fringuello cieco; Il libro; L’aquilone; L’ora di Barga; La tovaglia; Nei campi Pirandello, Luigi I giganti della montagna 660 Il fu Mattia Pascal 623, 629 Il treno ha fischiato 614 L’umorismo 594, 597 La tragedia di un personaggio 607 Pallottoline! 601 Sei personaggi in cerca d’autore 644, 650 Uno, nessuno e centomila 633, 639

Il fu Mattia Pascal; La carriola; Quaderni di Serafino Gubbio operatore Praga, Emilio Preludio 239 Proust Marcel Alla ricerca del tempo perduto 700 Rebora, Clemente Dall’intensa nuvolaglia 491 Viatico Rimbaud, Arthur Alba 265 Vocali 263 Sbarbaro, Camillo Taci, anima stanca di godere 494 Padre, se anche tu non fossi… Serra, Renato Fratelli? Sì, certo 488 Svevo, Italo L’assassinio di via Belpoggio 522 La coscienza di Zeno 548, 556, 562 Profilo autobiografico 517 Senilità 533, 539 Una vita 527 La coscienza di Zeno; La madre Tarchetti, Iginio Ugo La lettera U 242 Tolstoj, Lev Anna Karenina 687 Verga, Giovanni Cavalleria rusticana 141 Fantasticheria 148 I Malavoglia 154, 159, 167, 171 L’amante di Gramigna 132 La Lupa 135 Libertà 177 Mastro-don Gesualdo 187, 194 Nedda 126 Storia di una capinera 121 I Malavoglia; La roba; Nedda; Per le vie; Rosso Malpelo Verlaine, Paul Arte poetica 271 Languore 269 Wilde, Oscar Il ritratto di Dorian Gray 293 Zola, Émile Germinale 80 Teresa Raquin

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