Pierfrancesco Stagi - Storia Della Filosofia Della Religione Contemporanea (2019)

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MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Filosofie n. 602 Isbn: 9788857555393 © 2019 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone +39 02 24861657 / 24416383

INTRODUZIONE Dalla data di pubblicazione del Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus (1904-1905) di Max Weber al Die Mosaische Unterscheidung oder Der Preis des Monotheismus (2003) di Jan Assmann intercorrono 100 anni. Anni in cui si è discusso in modo costante e intensissimo della questione religiosa, tanto che non si sbaglia se la sia definisce la questione che ha scosso e stimolato le scienze umane, tutte le scienze umane senza distinzione di sorta, per l’intero XX sec. Oggi questa attenzione non sembra destinata a scemare, anzi drammaticamente torna alla ribalta, non più sotto forma di una analisi delle condizioni di verità dell’evento religioso, quanto della sua interazione con la sfera pubblica e la società civile. L’idea di questo volume nasce dalla consapevolezza che dalla fine dell’Ottocento fino ai nostri giorni la religione abbia lentamente perso il carattere interiore e individuale, che aveva caratterizzato la sua declinazione postpositivista, per via della imperante secolarizzazione, per divenire una forza “ideologica”, un magazzino di idee e simboli, capaci di influenzare nel bene o nel male le moderne società postindustriali. L’aspetto pubblico della religione ha da questo punto di vista dominato la riflessione del Novecento. Essa è divenuta un partner ineliminabile all’interno della discussione sulla società contemporanea. E ciò costituisce un paradosso: il paradosso delle religioni che il XX sec. e ora il XXI sec. stanno vivendo, in quanto più le società si secolarizzano, si allontanano dalla fede “vissuta”, si rendono estranee e fredde verso la pratica religiosa, più le religioni si riprendono con violenza il centro della scena pubblica. Le ragioni sono molteplici e in questo volume si proverà a considerarle, ma rimane fuori discussione che mai forse come in questa fase storica di fine delle grandi

ideologie, di completo disincanto del mondo, le religioni tornano a far sentire prepotente la loro voce e a influenzare le scelte collettive, anche se sempre meno quelle individuali. La religione che ritorna in Europa e nel mondo all’alba del XXI sec. non è più una religione individuale, privata, come lo era stata la religione del XIX sec., timida e remissiva di fronte alle conquiste delle scienze positive, ma una religione conscia del suo potere etico e politico proprio in un contesto deprivato di ogni altra ideologia forte. Essa supplisce il ruolo che era stato dalla metà dell’800 appannaggio delle grandi ideologie sociali: il marxismo, il liberalismo, il nazionalismo, anzi è stato a ragione sostenuto da Löwith in Weltgeschichte und Heilsgeschehen. Die theologischen Voraussetzungen der Geschichtsphilosophie (1953), che queste ideologie fossero già in origine una secolarizzazione del messaggio religioso. Piuttosto, sulla scia di Löwith è possibile interpretare il messaggio sociale e politico di riscatto e di progresso delle ideologie novecentesche in continuità con l’abbandono dell’eredità religiosa “vissuta”. Nel momento in cui queste ideologie ipotizzavano un superamento delle condizioni sociali e politiche ottocentesche, innestando un processo di riconoscimento e approfondimento della secolarizzazione, lo facevano, pur senza riconoscerlo esplicitamente, sulla base di categorie religiose che a partire dal De civitate Dei erano state elaborate da Agostino di Ippona e dalla dogmatica ebraicocristiana. Sebbene l’uomo tardo moderno agisca in un contesto etico e normativo secolarizzato, egli non fa che portare con sé i residui della sua provenienza religiosa: in quanto tale l’uomo nonreligioso è rarissimo anche nel cuore della più evoluta modernità occidentale. L’uomo areligioso allo stato puro, ricorda Eliade in Il sacro e il profano (1957), è un fenomeno piuttosto raro, anche nella società moderna più desacralizzata. La maggioranza dei senza-religione si comporta ancora, a

loro insaputa, religiosamente. Non si tratta soltanto di quell’insieme di superstizioni o di tabù dell’uomo moderno che hanno tutti una struttura e un’origine magico-religiosa. L’uomo moderno che pretende di sentirsi e di essere areligioso, ha ancora a sua disposizione tutta una mitologia camuffata e parecchi ritualismi degradati.1

L’uomo che appare secolarizzato trascorre la sua vita quotidiana all’interno di un intreccio ermeneutico, che ha il suo orizzonte di senso, nascosto, occultato, in una simbologia religiosa che lo guida nelle scelte etiche e valoriali, così come in quelle più comuni. È il caso del marxismo, che prima abbiamo richiamato, che ha dominato la vita culturale del secondo Dopoguerra, che si presentava come la presa di congedo definitiva dalla mentalità religiosa e purtuttavia era guidato da una costante simbologia religiosa, che ne determinava fin nei minimi particolari l’orizzonte etico di riferimento, così che è difficile individuare un comportamento etico autenticamente marxista che non abbia uno speculare corrispettivo religioso. Sarà sufficiente, precisa ancora Eliade, ricordare la struttura mitologica del comunismo e il suo significato escatologico. Marx, come è noto, riprende e prolunga uno dei miti escatologici del mondo asiatico-mediterraneo: la parte salvatrice del Giusto (l’eletto, l’unto, l’innocente, il messaggero: e oggi il proletariato), le cui sofferenze hanno il compito di cambiare lo statuto ontologico del mondo. Infatti, la società unitaria di Marx e la conseguente scomparsa delle tensioni storiche hanno il loro perfetto antecedente nel mito dell’Età dell’Oro che, secondo le diverse tradizioni, caratterizza l’inizio e la fine della Storia. Marx ha arricchito questo venerabile mito di tutta un’ideologia messianica giudeo-cristiana: da un lato, la funzione profetica e soteriologica che egli affida al proletariato; dall’altro la lotta finale tra il Bene e il Male, agevolmente paragonabile al conflitto apocalittico tra Cristo e Anticristo, con la vittoria decisiva del primo. È inoltre significativo il fatto che Marx riprenda a suo vantaggio la speranza escatologica giudeo-cristiana di una fine assoluta della Storia.2

Nella società marxista dove la religione è confinata in un ruolo del tutto marginale subentra in via surrettizia lo spirito della religione, che provvederà a darle quello slancio ideale, quel Geist der Utopie, per dirla con Bloch, che rappresenterà il vero

motore propulsivo dell’ideologia sociale e politica di Marx e dei suoi epigoni. Venuta meno, soprattutto nei paesi dell’ex blocco comunista questa spinta ideale e religiosa, le società sono implose, perché furono progressivamente private di quella riserva etica, che si fonda nella simbologia religiosa e spirituale, che – come ha ricordato spesso Böckenförde – costituisce il vero collante delle società moderne. Al tramonto della società e delle corrispondenti ideologie marxiste alla fine del Novecento è iniziato un dominio tecnocratico e postindustriale che affonda le sue radici, non meno del marxismo, nella simbologia religiosa. Tracce pesanti del passato magico-religioso tornano in molti aspetti della società attuale, ad esempio l’esaltazione della figura dell’eroesalvatore nella pubblicità o nei films, il ritorno di antiche mitologie nordiche (il mago, la ricerca dell’anello d’oro) nella letteratura e nella pubblicistica, la lotta tra il Bene e il Male, l’eroe e il mostro, i festeggiamenti rituali per il nuovo Anno, per qualche evento significativo, perfino l’immagine del papa cattolico ha assunto elementi mitologici, che lo rendono più un personaggio con poteri magici come l’eroe della fiaba, che il capo di una gerarchia ecclesiastica. Nel cuore delle più evolute metropoli contemporanee sotto la rivendicazione della difesa dell’ambiente minacciato dall’uomo si nasconde una delle figure mitologiche più significative e persistenti: il desiderio di fuga dal tempo; in ogni aspetto della letteratura, dell’arte, della vita religiosa e perfino della vita politica si manifesta questo topos antichissimo nella storia dell’uomo: la volontà di sottrarsi d’un balzo al proprio tempo, di vivere in un mondo atecnologico, rurale e feroce, in una dimensione totalmente altra in cui l’uomo è posto da solo senza l’ausilio delle tecnologie davanti a sé stesso e al suo destino. È la domanda sul senso profondo della vita che si fa di nuovo sentire sotto il desiderio postmoderno di evasione dal tempo, di abbandono del proprio

tempo, che è ormai vissuto come espropriante rispetto alla propria più autentica dimensione. A partire da questa prospettiva deve essere compreso a mio giudizio anche il ritorno della religione nelle sue forme più violente della contemporaneità, che sembrano non essere state per nulla intaccate dalla secolarizzazione, o quanto meno non aver cercato con essa nessun dialogo, e mi riferisco non soltanto all’islamismo radicale, ma anche al modo in cui la religione cattolica ha partecipato nell’ultimo decennio al dibattito pubblico attraverso l’uso dei cosiddetti “principi non negoziabili”, che hanno ormai fortunatamente abbandonato la scena pubblica. Alla base c’era il desiderio di un salto fuori dal tempo, di un’uscita dal proprio tempo, fuori da questo tempo, verso un nessun tempo, un tempo non identificato cronologicamente, un tempo mitico in cui le fratture tipiche della modernità fossero sanate e l’esistenza e il suo significato potessero finalmente riconciliarsi. A difesa di questo tempo senza tempo si erge oggi la religione, in quanto depositaria dell’unità ormai perduta. Certo, non è solo questo nel nostro tempo la religione; essa incarna anche più in generale il desiderio di una ricerca dell’autenticità dell’esistenza, di una pienezza di significato esistenziale, come ha sottolineato Taylor, che non è più possibile ormai eludere e che ne testimonia tutta la sua attualità. La religione tra conservazione del passato e ricerca del senso nel corso del pensiero filosofico-religioso contemporaneo è il tema del volume che qui si presenta, analizzata nella diversità delle voci che hanno composto il dibattito a partire dai primi anni del Novecento ad oggi, testimoniando una vitalità della discussione che ancora non sembra destinata a finire. Bisogna riconoscere che la riflessione filosofica sulla religione con il passare degli anni si è allargata sempre più saturando quasi completamente l’ambito di quella che è chiamata la filosofia continentale e influenzando in parte anche la cosiddetta filosofia

analitica3. Se negli anni Novanta Vattimo aveva avanzato la proposta che l’ermeneutica fosse la koiné diàlektos4, il linguaggio universale nel quale si traducevano tutti gli altri linguaggi filosofici, e non c’era filosofo di quegli anni che non si sentisse in dovere di intervenire sulla questione ermeneutica, allo stesso modo oggi la questione religiosa tiene banco nella discussione filosofica, così che i maggiori filosofi attuali si sono sentiti in dovere di intervenire, basta citare Ricoeur, Habermas, Derrida, Vattimo, Sloterdjik, Marion, Taylor, Macintyre, praticamente tutti hanno discusso variamente la problematica religiosa, con accenti e sensibilità diversi, ma non hanno mancato di precisare quale avrebbe dovuto essere secondo loro il ruolo della religione nella società contemporanea. Il presente volume vuole essere una Storia della filosofia della religione contemporanea e al contempo una presa di posizione su questo dibattito alla ricerca delle linee guida che lo hanno animato e che lo rendono tuttora attuale e foriero di nuovi sviluppi. Non solo, quindi, una prospettiva storiografica, ma anche teor-etica: la completezza storiografica ha dovuto di necessità confrontarsi con la rilevanza filosofica delle posizioni discusse. La scelta dei filosofi discussi ha avuto lo scopo di indicare, di delineare alcune direzioni verso cui si sta muovendo la discussione sul ruolo pubblico della religione: religione e società, religione e straniero, religione ed etica, religione e credenza personale, religione e logos, religione e violenza. Ognuna di esse avrebbe bisogno di un approfondimento a sé, ci si è limitati qui a dare uno sguardo generale, individuando le tendenze verso cui si sta muovendo il dibattito filosofico. Il quadro sull’intera discussione è comunque completo e potrà servire da segnavia per chi vorrà in seguito approfondire i singoli aspetti e provare a rispondere alla domanda che ormai da un secolo riecheggia negli scritti dei filosofi: perché ancora religione?

Avvertenza Il presente volume è stato scritto come un’opera complessiva, che ricostruisse il panorama filosofico-religioso contemporaneo. È stato composto a più riprese tra il 2011 e il 2016 seguendo uno schema di scrittura unitario, anche se i singoli capitoli sono stati presentati in anteprima come saggi nella raccolta da me curata nel 2017 presso l’editore Castelvecchi L’Europa e le religioni, con il contributo dei principali filosofi della religione internazionali (G. Vattimo, Ch. Taylor, P. Nemo, G.E. Rusconi, G. Filoramo, P. Coda, M. Nicoletti, K. Lehmann). Ho apportato poche varianti al testo e alle note, anche se ho riscritto per intero la bibliografia generale con riferimento agli studi più recenti che sono usciti sul tema. Ringrazio la casa editrice Castelvecchi nella persona di Miriam Capaldo per aver reso possibile la ripubblicazione di quel materiale. 1 M. Eliade, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 129. 2 Ivi, p. 130-131 3 F. D’Agostini, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Cortina, Milano 1997. M. Micheletti, Filosofia analitica della religione. Un’introduzione storica, Morcelliana, Brescia 2002; M. Micheletti, La teologia razionale nella filosofia analitica, Carocci, Roma 2010; M. Micheletti – A. Savignano (a cura di), Filosofia della religione. Indagini storiche e riflessioni critiche, Marietti, Genova 1993. M. M. Olivetti, Filosofia della religione, in La filosofia. Le filosofie speciali, Utet, Torino 1995; K. E. Yandell, Philosophy of Religion. A contemporary Introduction, Routledge, London and New York 1999; D. Z. Phillips – T. Tessin (a cura di), Philosophy of Religion in the 21st Century, Palgrave, Basingstoke 2001; A. Fabris, Filosofia delle religioni. Come orientarsi nell’epoca dell’indifferenza e dei fondamentalismi, Carocci, Roma 2012; P. Stagi, La nascita del sacro. Teorie della religione, Studium, Roma 2015. 4 G. Vattimo, Ermeneutica come “koiné”, in “aut aut”, Nr. 217-218, 1987, pp. 3-11; Id., Introduzione a Filosofia ’87, a cura di G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. VII-VIII in particolare.

PARTE PRIMA LA RELIGIONE TRA INTERIORITÀ E SFERA PUBBLICA

CAPITOLO PRIMO CHE COS’È LA RELIGIONE? A PARTIRE DAL GIOVANE HEIDEGGER Pochi temi possono essere oggi attuali come il ruolo che la religione, o meglio le religioni, giocano all’interno del contesto pubblico. Non solo in Europa, dove la religione cristiana fin dalla sua costituzione ha avuto una posizione di preminenza, e neppure negli Stati Uniti dove ha partecipato alla sua fondazione, ma in tutto il mondo e nelle sue forme più diverse la religione torna a far sentire la sua voce, a volte in modo soffuso, altre in modo più prepotente e violento. È il caso, ad esempio, dei Paesi del Vicino e Medio Oriente, dove con la fine dell’epoca coloniale, sembrava che gli Stati fossero avviati a un futuro di certo a democrazia “limitata”, ma quanto meno libero dalla violenza e dal contrasto religioso. Oggi, invece, ovunque i governi devono confrontarsi in primis con le minacce che provengono dagli estremismi religiosi, più che godere del patrimonio etico che attraverso i secoli la religione nelle culture più diverse ha depositato nella storia, nella vita tradizionale e nell’etica dei popoli presso cui dimorava. L’aspetto, il volto minaccioso della religione sembrano sostituire il volto etico che per secoli le religioni hanno dispensato in direzione di una convivenza civile fondata sul reciproco riconoscimento. Per comprendere come la religione influenzi dal profondo l’agire etico degli uomini e di conseguenza la vita comunitaria, bisogna riferirsi alle modalità con cui la religione determina la vita etica. In assenza di una simile osservazione preliminare del fenomeno religioso ogni discussione sul ruolo della religione nella società rischia di apparire senza un sufficiente radicamento nell’esperienza. La religione è un contenuto esistenziale di

carattere estremamente singolare che tende a saturare da solo l’intero ambito dell’esperienza individuale. Non c’è esperienza religiosa che non desideri determinare e riorientare le tre principali direzioni dell’esistenza individuale: quella che si dirige verso l’interiorità dell’individuo, quelle che si sviluppano in direzione del mondo circostante e degli altri individui, prendendo a prestito il linguaggio del giovane Heidegger: il mondo del sé (Selbstwelt), il mondo circostante (Umwelt) e il mondo degli altri individui (Mitwelt)5. In particolare, l’esperienza religiosa instaura uno stretto, inscindibile legame con il mondo del sé, con l’interiorità, che in breve viene riempita completamente del contenuto di questa esperienza. Ciò accade per una molteplicità di ragioni, che non è possibile in questo contesto considerare per esteso, ma che possono essere espresse nel fatto che il contenuto dell’esperienza religiosa offre all’interiorità dell’individuo un senso, una promessa di pienezza di vita, esistenziale, che nessun altro contenuto fino ad allora aveva fornito con tale chiarezza, forza, persuasività. Spesso questa promessa di pienezza si amplia a un orizzonte integrale che comprende anche la vita oltre la morte fisica. La religione non giunge a interessare soltanto una parte del mondo del sé o a definire da vicino un solo aspetto dell’esperienza. L’arte, la politica, l’etica, la stessa metafisica si rivolgono sempre a una dimensione particolare dell’io: la dimensione creativa, comunitaria, normativa, spirituale; una singola dimensione che cerca di raggiungere sulle altre un primato. Tuttavia, è sempre un primato ricercato, combattuto e mai definitivo, perché non riesce ad avere l’ampiezza e la profondità di influenza dell’esperienza religiosa. Quest’ultima, invece, parla al sé nella sua totalità, perché si radica nel bisogno di pienezza esistenziale che ogni individuo sente come il fine della sua esistenza. In tal senso, la religione intrattiene con il sé un rapporto di profonda influenza che va oltre la dimensione razionale e controllabile dell’esistenza6. Essa si sposa con il più

intimo desiderio di un’esistenza riuscita, piena che supera i confini della stessa morte e coincide con il senso dell’identità personale. Per tale motivo l’esperienza religiosa sa risvegliare forze nascoste nella personalità che l’individuo stesso conosceva soltanto in modo parziale. Nell’esperienza religiosa è l’intera personalità a essere messa in discussione ex radice cordis e non soltanto una sua tendenza o una sua particolare predisposizione. Essa si fonde a tal punto con il sé, diventa parte integrante del mondo del sé, tanto che non è più possibile distinguerla. Ciò di cui si fa esperienza nell’esperienza religiosa e il sé di chi esperisce si fondono in un’unità irradiatrice di senso e significato. Chi volesse distinguere all’interno dell’esperienza religiosa tra il soggetto dell’esperienza e il suo oggetto otterrebbe come risultato soltanto di frantumare questa esperienza, senza raggiungere alcun risultato in vista di una sua migliore comprensione. L’approfondimento del nesso tra il sé e l’esperienza religiosa passa proprio dallo studio della correlazione tra l’interiorità come il luogo di donazione del senso e l’esperienza religiosa come ciò che ispira con intensità questa donazione di senso. Il senso che motiva e spinge il sé all’azione è il prodotto dell’interazione del sé con un contenuto religioso all’interno di una determinata esperienza. La forza che la religione mostra nel motivare l’azione risiede proprio nella sua capacità di unirsi alla dimensione più profonda e radicale del sé. Qualsiasi discussione sul ruolo della religione all’interno di un contesto sociale non può prescindere dal primato che essa possiede nel motivare il sé e le sue aspettative di senso. Un ulteriore aspetto che rende ragione della forza della religione come motivatore etico è il senso di realtà che da essa promana. All’interno dell’esperienza il contenuto religioso non è percepito come un contenuto tra gli altri, che può essere dotato o meno di consistenza reale, ma possiede una naturale inclinazione a essere reale. Ciò che è creduto in questa

esperienza è reale per il fatto stesso di essere creduto come tale. Questa è in fondo la magia della religione di far percepire i suoi oggetti come reali. Essi non sono solo creduti reali ma divengono reali, quando se ne fa esperienza all’interno di un determinato contesto di attuazione (Vollzugszusammenhang)7. Il senso di realtà che da essi promana costituisce per il credente quanto di più reale egli possa concepire. Il senso di irrealtà degli oggetti religiosi può essere percepito soltanto dagli occhi “disincantati” dell’uomo secolarizzato, che ha ormai abbandonato il contesto di attuazione dell’esperienza religiosa. Per essi non solo gli oggetti della religione (Dio, la salvezza individuale, le forze e i simulacri religiosi) cadono in questo senso nell’irrealtà, ma è la possibilità stessa che il sé esperisca un contenuto religioso che è messa in discussione. Simili considerazioni per quanto significative si pongono al di fuori del contesto attuativo dell’esperienza religiosa (e meriterebbero un discorso a parte sull’influenza della secolarizzazione sul compimento dell’esperienza religiosa), ma non confutano il fatto che all’interno di questo contesto attuativo qualcosa di reale venga percepito; e in quanto percepito in quel contesto esso possa divenire Reale, ciò di cui non può essere esperito nulla di più reale. Il profondo legame con il sé e il senso della sua realtà costituiscono i fondamenti su cui si erge l’esperienza religiosa. La comprensione dell’origine della religione, del suo significato e delle sue manifestazioni passa per il riconoscimento che l’esperienza religiosa si lega in modo strettissimo con il mondo del sé fino a coincidere con esso e veicola un’esperienza di realtà in un grado elevato: l’homo religiosus sente di conoscere qualcosa di estremamente reale, che in nessun modo può essere scambiato con un parto della sua fantasia individuale. Tenendo fermi questi due presupposti è possibile comprendere le principali espressioni della sensibilità religiosa, sia quando si rivolge ad infra nel culto e nella pratica liturgica, sia quando si

presenta verso l’esterno nel contesto pubblico e associato come testimonianza di un’esperienza. In entrambe queste modalità la religione si mostra come un’espressione del sé autenticamente vissuta, che testimonia di un contenuto conosciuto di persona che è percepito come reale, realissimo. Non deve stupire, quindi, che le religioni abbiano una marcata influenza sulle società in cui le persone religiose si trovano a vivere. Il mondo del sé permeato dall’esperienza religiosa tende naturalmente a generare comportamenti che da quell’esperienza sono determinati. È un assurdo a livello fenomenologico ipotizzare un’esperienza religiosa che rimanga chiusa in sé stessa. Ciò può certamente accadere a causa di condizionamenti o pressioni esterne, ma di per sé l’esperienza religiosa giunge a travalicare il semplice mondo del sé per dare il suo “colore” (una “ritmica”8 come la definisce il giovane Heidegger) al mondo circostante. Il carattere pubblico non è qualcosa che la religione assuma in virtù di un desiderio di diffusione o predominio, ma appartiene all’essenza dell’esperienza religiosa, che è un’esperienza interiore che tende naturalmente a colorare di sé la realtà circostante. In tutte le tradizioni religiose l’homo religiosus cerca di portare l’esperienza che fa in ambito personale all’interno della società in cui vive. Le forme di questa esportazione/traduzione sono differenti e dipendono dal contesto sociale più o meno favorevole in cui si trova a operare. Queste considerazioni fenomenologiche del giovane Heidegger sull’essenza della religione aiutano a introdurre e contestualizzare la discussione contemporanea e a chiarire il suo radicale paradosso, in quanto la religione attuale, per un verso, appare votata all’interiorità dell’individuo e alla sua realizzazione personale all’interno di un contesto culturale secolarizzato, per l’altro pretende di svolgere un ruolo centrale nel dibattito pubblico. Heidegger chiarisce come questa duplicità non sia una contraddizione del dibattito sulla religione ma abbia le sue radici nelle modalità stesse con cui la religione

si presenta come contenuto alla coscienza dell’uomo, che è sia una modalità privata e individuale sia una modalità pubblica e civile. L’intera discussione odierna sul contenuto religioso rimane all’interno di questa duplicità e cerca in vari modi di articolarla, privilegiando a volte l’aspetto personale del contenuto religioso, altre la sua dimensione sociale e pubblica. Fare i conti con questa duplicità, e non volerla risolverla in schemi o formule prestabilite, significa iniziare a comprendere il senso della filosofia della religione contemporanea e approfondirne la storia permette di creare i presupposti per la sua comprensione.

5 M. Heidegger, Grundprobleme der Phänomenologie (Ws 1919/20), GA [Martin-Heidegger-Gesamtausgabe] vol. 58, a cura di H. H. Gander, Frankfurt am Main 1992, p. 67 (tr. it. di A. Spinelli, J. Pfefferkorn, F. G. Menga, a cura di, Problemi fondamentali della fenomenologia, 1919/20, Quodlibet, Macerata 2017): “L’esperienza (Er-fahren) indica il fatto che ognuno nella propria esperienza incontra questo o quello, che qualcosa che ha incontrato lo colpisce, che prende coscienza di questo o quello, che qualcosa lo impressiona e lo cambia radicalmente, che è sottoposto ad un altro uomo. Tutto questo è esperienza, riportare, incontrare nel cammino della vita, e ciò nelle diverse modificazioni della vita, sul cui corso fattizio si fonda un mondo, il mondo ambiente e ogni mondo di vita. L’esperire o l’esperienza – l’indicazione sostantivizzata allude a qualcosa altro non soltanto all’incontrare fattizio come tale ma anche a ciò che è incontrato. Esperienza religiosa, esperienza pratica, esperienza politica – tutte queste definizioni non significano soltanto: ho incontrato in qualche situazione o in qualche modo la politica, la vita politica ma: ciò e precisamente ciò che io in quell’occasione ho incontrato, ciò che è stato esperito in questo o quel modo è entrato nel mio mondo del sé (Selbstwelt) – questa è l’esperienza (ciò che riguarda il mio mondo del sé, di cui so, che mi è disponibile, cui posso accedere, che posso utilizzare)”. 6 Ivi, p. 58-59: “Nelle grandi confessioni di sé la forma e l’attitudine dell’esperienza interiore della vita del sé è l’espressione stessa di questa vita. Tuttavia non è l’espressione di un contenitore esteriore che è estraneo a questa vita ed aspetta di essere riempito (cosa che è possibile sempre allo stesso modo). In tali confessioni si esprime insieme alla storia del sé in modo vivente anche una qualche posizione verso il mondo della vita che ha ereditato. Così il carattere di questo mondo della vita è definito in base ad una particolare configurazione e direzione della corrente della vita del sé. Mondo del sé e mondo della vita – nel mondo della vita c’è l’eco della ritmica del mondo del sé. Nella rappresentazione del mondo del sé si annunciano allo stesso tempo il mondo della vita e la sua specifica ritmica che deriva ed è caratterizzata dal sé e viceversa”. 7 Per la definizione del concetto di Vollzugszusammenhang, contesto di attuazione, nell’ambito della filosofia fenomenologica del giovane Heidegger si vedano: P. Stagi, Il giovane Heidegger. Verità e rivelazione, introduzione di G. Vattimo, Zikkurat & Lab., Roma 2010; P. Stagi, Der faktische Gott. Selbstwelt und religiöse Erfahrung beim jungen Heidegger, Königshausen & Neumann, Würzburg 2007. 8 M. Heidegger, Grundprobleme der Phänomenologie (Ws 1919/20), GA vol. 58, cit., pp. 58-59.

CAPITOLO SECONDO WEBER. ETICA, RELIGIONE E SOCIETÀ L’opera che ha inaugurato lo studio dell’influenza dell’esperienza religiosa nel contesto pubblico è stata Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus (19041905) di Max Weber che può a ragione essere considerata l’atto fondativo della moderna riflessione sulla religione. Weber mostra come l’esperienza religiosa personale, lungi dal rimanere confinata nella coscienza individuale, esca da sé stessa per segnare la realtà circostante. Per la prima volta il filosofo tedesco mette in relazione il vissuto religioso personale e la sua influenza sulla società, evidenziando come dal vissuto personale provengano una molteplicità di significati che guidano l’azione del singolo nella società. Weber esemplifica questa teoria prendendo come riferimento storico il concetto di lavoro come Beruf, che costituisce il cardine dell’organizzazione sociale moderna. Un concetto come il lavoro da sempre conosciuto nella tradizione occidentale è rivissuto da una prospettiva completamente nuova, nel momento in cui è inserito nel contesto attuativo di una nuova e diversa esperienza religiosa. Una struttura sociale fondamentale assume, se vissuta in un nuovo contesto attuativo dell’esperienza, un significato differente, tanto che precisa Weber questo nuovo significato del lavoro non ha un corrispettivo (neppure nel nome: Beruf/vocazione) presso popoli in cui questa esperienza religiosa è sconosciuta: E se seguiamo storicamente la parola anche attraverso gli idiomi dei popoli civili, ci appare dapprima che i popoli cattolici non conoscono un’espressione di colorito simile, per ciò che noi chiamiamo Beruf (nel senso di posizione nella vita, di limitato campo di lavoro), come non la

conosce l’antichità classica, mentre essa esiste presso i popoli prevalentemente protestanti.9

Anche considerando la lingua tedesca precedente all’avvento di Lutero e al suo modo di vivere l’esperienza religiosa, non è riscontrabile un termine simile a Beruf, che conferma come la sua provenienza sia in stretta relazione con questa nuova modalità dell’esperienza che è stata inaugurata dalla Riforma protestante. Nella parola e nel concetto di Beruf un’esperienza esclusivamente religiosa entra a determinare un’attività sociale. La vita sociale assume così una colorazione religiosa che finora le era del tutto ignota. L’adempimento dei propri doveri mondani, e in particolare in quella forma radicale di dovere che è il lavoro per sopravvivere, ottiene una colorazione religiosa che gli era sconosciuta nel contesto dell’ascetismo della morale cattolica. Il lavoro non è, quindi, solo un mezzo necessario per la sopravvivenza (Tommaso d’Aquino), che è tollerato dal punto di vista religioso solo in quanto crea le condizioni minime affinché l’uomo possa dedicarsi alla vita spirituale nei ritagli del proprio tempo quotidiano, ma nell’adempimento dei propri doveri quotidiani la religiosità protestante vede una modalità di attuazione di un contenuto religioso. Non al di fuori della vita lavorativa e associata ma proprio nel cuore di essa si adempie a un dovere esplicitamente religioso: L’adempimento dei doveri nel mondo, in tutte le circostanze, è l’unica maniera di essere accetti al Signore, che esso ed esso soltanto corrisponde al volere di Dio, e che perciò ogni professione lecita ha il medesimo valore dinanzi a Lui. Che questo apprezzamento della vita professionale laica sia stata una delle opere più ricche di conseguenze della Riforma, e in particolare, di Lutero è in realtà cosa indubbia, e può esser considerata addirittura un luogo comune.10

L’etica cattolica si è formata secondo Weber in un contesto sostanzialmente individualistico (“L’etica cattolica era un’etica del carattere”11). Lì l’esperienza religiosa si limitava a incidere

sulle decisioni individuali e sulle scelte personali. La singola azione per quanto positiva o negativa cambia il destino individuale e soltanto in un secondo momento è rilevante per la comunità in cui si vive. Manca come ricorda Weber al cattolicesimo un principio unitario che sappia tenere insieme le tendenze etiche principali: l’esperienza religiosa travalica nella vita etica, ma non riesce a dirigerla fino in fondo. Vi resta spesso ai margini. Per questa ragione c’è bisogno di un sacramento che richiami all’ordine la vita etica, riorientandola in base alle esigenze dell’esperienza religiosa che si è compiuta. Il sacramento della penitenza ha la funzione di correggere una vita etica non coerente con la vita interiore e richiamarla a una maggiore coerenza con essa: Certamente anch’essa [ndr. la vita morale] richiedeva un indirizzo della vita secondo un principio. Ma per l’uomo medio attenuava questa esigenza proprio con uno dei suoi più potenti strumenti di potenza e di educazione, col sacramento della penitenza, la cui funzione era strettamente connessa colle qualità più profonde della religiosità cattolica.12

Ciò spiega anche la nascita del monachesimo occidentale che prende l’aspetto di una forma comunitaria di esperienza religiosa. Il monachesimo occidentale è anacoretico, anche quando ha l’aspetto cenobitico del benedettinismo e di altre sue varianti cenobitiche (cluniacensi, cisterciensi). In esso l’uomo cerca un principio per vivere in coerenza la sua vita religiosa interiore e lo trova in una deliberata fuga dal mondo e dalle sue tendenze “centrifughe” che lo conducono lontano dall’esperienza religiosa. L’accento che Weber pone sull’aspetto razionale di questa scelta è decisivo, perché in essa la ragione gioca un ruolo fondamentale nel sottomettere e riorientare le tendenze che distraggono l’uomo dall’esperienza religiosa. Non riuscendo a trovare un principio interno all’esperienza che possa guidarla lo cerca all’esterno nel potere coercitivo e tacitante della razionalità. Il monachesimo

occidentale (e in questo è radicalmente differente dal monachesimo orientale) si sviluppa come un metodo, sviluppato sistematicamente, di condotta razionale della vita collo scopo di superare lo status naturae, di strappare l’uomo alla forza degli impulsi irrazionali ed alla schiavitù del mondo e della natura, di sottoporlo alla supremazia della volontà indirizzata secondo un fine, di sottoporre le proprie azioni al controllo costante di sé stesso ed alla considerazione della loro importanza etica.13

Il controllo razionale sulle tendenze etiche si dimostra fragile sia all’interno dell’orizzonte cattolico sia in quello dell’ascesi puritana. Infatti il controllo delle tendenze vitali che non nasca all’interno di queste tendenze stesse è estremamente precario e sempre in pericolo di essere messo in discussione. L’ascesi puritana compie un passo che la porterà a superare le remore cattoliche nei confronti della realtà associata. La società non è più un luogo da cui fuggire per salvare la propria anima, ma proprio il contesto che rende possibile la salvezza individuale. Questa considerazione costituisce una “rivoluzione copernicana” nei rapporti tra la religione e la società. L’intera nostra cultura contemporanea è permeata (fin nelle sue fibre più nascoste e “secolarizzate”) dall’intreccio di religione e società, che affonda le sue radici nella rivalutazione della presenza della religione come fonte di salvezza personale inaugurata dall’ascesi puritana. Questa nuova forma di ascesi, non più ascesi dalla società ma nella società, significava del pari […] una trasformazione di tutto l’essere, orientata secondo il volere di Dio. E questa ascesi non era più un opus supererogationis, ma un’opera che veniva richiesta da ognuno, che volesse essere sicuro della sua beatitudine eterna. Questa vita speciale dei santi, promossa dalla religione, diversa dalla vita naturale, si svolgeva – questo è il punto decisivo – non più fuori del mondo in comunità di monaci, ma in mezzo al mondo nei suoi ordinamenti.14

Nella realtà medievale l’ascesi con la sua fuga dal mondo ha permesso di creare un sistema di valori, un sistema etico che ha dominato la società dell’epoca. In questo senso l’ascesi medievale non è rimasta estranea alla società in cui viveva ma

vi ha influito per mezzo della sua elaborazione etica e culturale. Nonostante tutto, essa non è riuscita a incidere in profondità nella quotidianità del vivere associato, ma è rimasta un’etica d’élite, riservata alle classi dominanti, che sono quelle che definiscono il mainstream culturale. La vita quotidiana delle popolazioni non ne era in alcun modo influenzata, tanto da creare una doppia articolazione: da una parte, una morale d’élite frutto di una comunità coesa nei valori etici e negli interessi particolari, che ha avuto la possibilità nei secoli attraverso le fonti documentarie di trasmettere la propria voce e dall’altra, la vita quotidiana delle popolazioni che nelle attività lavorative di ogni giorno seguiva una sorta di morale provvisoria, che si era affinata con le generazioni e le vicende personali. In ogni caso la vita quotidiana associata era rimasta estranea alla penetrazione dell’esperienza religiosa. Con il protestantesimo ascetico la religione esce dai chiostri, dai monasteri, dalle esperienze limitate e di élite per invadere la vita professionale quotidiana e con essa l’intero tessuto sociale. Raramente nell’Occidente cristiano si è vissuto un tale cambiamento di prospettiva di vita ed esistenziale come nei decenni seguenti alla Riforma Protestante: Ora essa [ndr. l’ascesi cristiana], dice Weber, veniva sul mercato della vita, chiudeva dietro di sé le porte dei chiostri, ed incominciava ad impregnare della sua metodicità la vita quotidiana profana, ed a trasformarla in una vita razionale nel mondo, e tuttavia non di questo o per questo mondo.15

Con la svolta protestante cessa la visione strumentale della società e del lavoro che è stata propria del cattolicesimo. Per Tommaso d’Aquino, infatti, l’impegno lavorativo all’interno della società è strumentale, serve soltanto affinché l’uomo possa sopravvivere e preservare la sua esistenza16. La preghiera è l’unica attività degna di essere un fine per sé stessa, mentre il lavoro materiale è una triste necessità cui l’uomo (che non abbia uno status clericale) è condannato. Soltanto timidamente e in

ambito monastico Agostino e Benedetto da Norcia nelle loro Regulae, che comunque come abbiamo visto erano destinate a piccole comunità, avevano equiparato l’attività lavorativa all’attività di preghiera, ma sempre in direzione del primato della preghiera cui il lavoro doveva conformarsi durante le ore libere della giornata del monaco. Con il puritanesimo, considerato come forma massima dell’ascesi protestante, il lavoro diventa una forma di santificazione all’interno della società e non al di fuori di essa. Il lavoro non è visto soltanto come una deviazione, una necessità materiale che si frappone tra la vita dell’uomo nel mondo e la salvezza, ma è il luogo storico in cui l’uomo incontra Dio e può ottenere la salvezza. Attraverso l’attività lavorativa l’uomo ha la possibilità di fare un’esperienza religiosa come e più che nella preghiera stessa. L’esperienza di vita quotidiana è innervata e trasformata dall’esperienza religiosa. La società è invasa da una congerie di comportamenti etici le cui tendenze vitali promanano da una nuova esperienza religiosa. Si origina una nuova morale laica, che agisce all’interno di un contesto sociale “secolarizzato” o che comunque non si riferisce espressamente al contesto religioso come il monastero, ma è guidato da una sottostante esperienza religiosa. Weber si spinge a individuare in questo nuovo comportamento etico l’origine del sistema di produzione moderno di tipo capitalistico, segnando una salda linea di continuità tra l’esperienza religiosa individuale e le forme più evolute di società capitalistiche: Poiché, in quanto l’ascesi fu portata dalle celle dei monaci nella vita professionale e cominciò a dominare la moralità laica, essa cooperò per la sua parte alla costruzione di quel potente ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica, che oggi determina con strapotente costrizione, e forse continuerà a determinare.17

Il desiderio ascetico, vissuto all’interno dell’esperienza religiosa puritana, giunge a determinare la società moderna e crea le condizioni per uno sviluppo del capitalismo moderno. Da questo punto di vista la società secolarizzata affonda le sue radici nella volontà di trasmettere al mondo il rigorismo della propria esperienza religiosa interiore. La nascita religiosa del capitalismo è ormai oggi un ricordo del passato, perché l’interesse esclusivo per la produzione di beni esteriori ha reso il capitalismo preda della macchina infernale che aveva creato. I beni esteriori, che erano la conseguenza di un sistema di produzione che aveva come scopo l’affermazione della propria consapevolezza escatologica, sostituiscono progressivamente il senso della pienezza vissuta all’interno dell’esperienza di fede. L’esito consumistico è l’esito naturale di un sistema in cui l’aspetto strumentale, la produzione di beni, si è sostituita al suo fine, la consapevolezza del proprio individuale essere salvati che proviene dal successo nell’attività lavorativa e sociale. L’utilitarismo dei beni e dei consumi, osserva Weber, diventa una “gabbia di acciaio”18, in cui i beni materiali che popolavano i margini dell’universo mentale del capitalista puritano, tutto dominato dalla sua tensione religiosa, diventano il fine ultimo, il totem materiale e culturale, del moderno uomo d’impresa. Questa nuova umanità schiava dell’ipercapitalismo sostituisce la tensione religiosa con i beni materiali, alternando lo slancio verso nuove conquiste economiche con la stanchezza e lo stress di un tempo vuoto, senza scopo e senza senso, secondo la pregnante definizione del filosofo tedesco: In ogni caso per gli ultimi uomini di questa evoluzione della civiltà potrà essere vera la parola: specialisti senza intelligenza, gaudenti senza cuore: questo nulla si immagina di esser salito ad un grado di umanità, non mai prima raggiunto.19 9 M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, traduzione di P. Burresi, Sansoni, Firenze 1987, p. 76. Si vedano le più recenti monografie

sull’interpretazione di Weber del fenomeno religioso: B. Giesing, Religion und Gemeinschaftsbildung. Max Webers kulturvergleichende Theorie, Leske und Budrich, Opladen 2002; F. Ringer, Max Weber. An intellectual biography, University of Chicago Press, Chicago 2004; W. Schluchter, Die Entzauberung der Welt: sechs Studien zu Max Weber, Mohr, Tübingen 2009; P. Bourdieu, Un’interpretazione della teoria della religione secondo Max Weber, in Il campo religioso, a cura di R. Alciati, E. R. Urcioli, aAcademia University Press, Torino 2012, pp. 51-72; H.-P. Müller, S. Steffen (a cura di), Max Weber-Handbuch. Leben – Werk – Wirkung, Metzler, Stuttgart/Weimar 2014; H. Tyrell, Religion in der Soziologie Max Webers, Harrassowitz, Wiesbaden 2014; M. Löwy (a cura di), Max Weber, la religion et la construction du social, Editions de l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris 2004; C. Adair-Toteff, Max Weber’s sociology of religion, Mohr Siebeck, Tübingen 2016. 10 M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit., p. 86. 11 Ivi, p. 138. 12 Ivi, p. 139. 13 Ivi, p. 142. 14 Ivi, p. 196, corsivo mio. 15 Ibidem. 16 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 57, a. 3 ad 2, a cura della Redazione delle ESD, ESD-Edizioni Studio Domenicano, Bologna 19952013; Id., Summa contra gentiles, III, 134, a cura della Redazione delle ESD, ESD-Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2000. Sul concetto di lavoro nella società religiosa medievale si veda Jacques Le Goff, Il tempo della Chiesa e il tempo del mercante, Einaudi, Torino 1977. 17 M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit., p. 243. 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 244.

CAPITOLO TERZO DURKHEIM. VITA RELIGIOSA E STRUTTURE SOCIALI Le riflessioni di Weber sulla nascita della società moderna dallo spirito dell’esperienza religiosa puritana sono riprese dal sociologo francese Émile Durkheim, che le porta a un notevole grado di definizione che diverrà normativo per il successivo sviluppo della riflessione filosofica sulla religione e la società. Le considerazioni contemporanee sulla religione non possono prescindere dal contributo che il filosofo francese ha portato nell’analisi del ruolo che l’esperienza religiosa gioca all’interno di un contesto sociale. Nelle Formes élémentaires de la vie religieuse (1912) Durkheim mostra come la religione abbia una funzione essenzialmente sociale e il suo legame con la società, dalle società più primitive a quelle più evolute, non sia casuale ed episodico ma radicato nella sua essenza. Ciò che la religione porta in dote alla società non è un patrimonio di convinzioni e di verità, perché se così fosse non si distinguerebbe da altre istanze portatrici di verità. Il volto che la religione assume come un insieme ordinato e coerente di verità che possono partire senza timore all’attacco delle verità scientifiche non toccano che un aspetto marginale della religione. La (presunta) importanza dell’ideologia religiosa nelle società moderne occidentali non corrisponde al significato che il singolo credente dà della sua esperienza religiosa. Ciò che Durkheim sottolinea è la modalità con cui la religione influisce all’interno del contesto sociale in cui si inserisce. È fuorviante pensare che la religione determini il tessuto sociale per il tramite del suo bagaglio di idee e convinzioni, come se gli uomini si lasciassero persuadere facilmente dalle buone ragioni

altrui. C’è un tessuto esperienziale che è decisivo nella nascita, nell’affermazione e nel consolidamento della religione in una società, come già aveva mostrato Weber. Le convinzioni e le teorie religiose giungono solo in un secondo momento a dare continuità al vissuto religioso. La loro funzione è piuttosto di ricordare, richiamare alla coscienza ciò che si è vissuto. Da questo punto di vista non hanno nulla di originario e la loro forza etica è molto limitata. Lo stesso discorso vale per la dimensione del rito, che pure in molte realtà religiose detiene un ruolo centrale. Nei riti l’uomo religioso vive e rivive ciò che già ha vissuto internamente, altrimenti se non avesse mai incontrato prima del rito o indipendentemente dal rito già a livello esperienziale un contenuto religioso difficilmente riuscirebbe a comprenderlo. Per decifrare i simboli che sono incarnati nel rito egli deve già poter leggere una serie di esperienze all’interno di quei simboli. È lo stesso motivo per cui pur conoscendo alla perfezione attraverso le immagini parietarie alcuni riti dell’Antico Egitto o della Grecia minoica non riusciamo a comprenderne il significato, se non in via del tutto ipotetica e lacunosa. Ciò che ci sfugge è il significato che il credente dava a quei comportamenti rituali, che in quanto tali non si differenziano da quelli presenti in altre culture (offerte rituali, processioni, liturgie, lavacri, espiazioni, sepolture). In ognuno di essi cambia in modo radicale il significato che il credente in base al suo universo simbolico-esperienziale dà a un determinato rituale codificato. Né le convinzioni e le opinioni religiose né i riti spiegano la vita religiosa di una comunità, perché essa permane anche indipendentemente o in assenza di una loro articolata composizione. L’uomo religioso senza nessun particolare sostegno “teo-logico” sente che la sua vita religiosa non dipende da un’idea che egli abbia con il tempo maturato e neppure da un rito individuale o sociale di cui si sente parte ma da un

cambiamento radicale di tutte le sue tendenze vitali. La sua vita cambia in conseguenza di un’esperienza e non delle sue progressive convinzioni. Esse potranno confermare e consolidare ciò che ha vissuto ma in nessun caso sostituirlo. Gli uomini religiosi, dice Durkheim, sentono, che la vera funzione della religione non è quella di farci pensare, di arricchire la nostra conoscenza, di aggiungere alle rappresentazioni che dobbiamo alla scienza altre rappresentazioni di diversa origine e di diverso carattere, ma è quella di farci agire, di aiutarci a vivere. Il fedele che ha comunicato con il suo dio non è soltanto un uomo che vede verità nuove, ignorate dal non credente; egli è un uomo che può di più.20

Durkheim mostra come una semplice idea non possieda la forza etica di trasformare interiormente e di motivare all’agire gli uomini, spesso secondo modalità che contravvengono alle disposizioni naturali. La forza maggiore che proviene loro dalla religione non è da collocarsi sul piano di una semplice idea o convinzione ideologica. Da sola l’idea può spingere e ottenere il consenso razionale, ma difficilmente riesce a colmare il divario che separa la coscienza etica dall’azione sociale. La credenza, ad esempio, nella salvezza attraverso la fede religiosa, che è “il primo articolo di ogni fede”21, se rimane una credenza, una convinzione personale, non riuscirà ad avere la forza sufficiente per dare vita a una azione o se l’avrà rimarrà sempre una motivazione debole, insufficiente, sempre pronta a mutarsi nel suo contrario, nel momento in cui nell’agone sociale delle interpretazioni una nuova opinione giungerà a essere più convincente della precedente. La convinzione può al massimo, sottolinea Durkheim, fare da tramite per giungere a compiere delle vere esperienze, abbattere i muri che impedivano l’incontro con l’esperienza, ma non sostituiscono l’esperienza stessa che in ogni caso ogni singolo deve singolarmente intraprendere. Solo da quell’esperienza giunge un sovrappiù etico che ci permette di incidere in profondità nella società attraverso una azione costante, duratura, vissuta.

Un’idea, dice Durkheim, non è che un elemento di noi stessi; come potrebbe conferirci poteri superiori a quelli che abbiamo per nostra natura? Per quanto sia ricca di virtù affettive essa non potrebbe aggiungere nulla alla nostra vitalità naturale; essa può soltanto liberare le forze emotive che sono in noi, ma né crearle né accrescerle. Dal fatto che ci rappresentiamo un oggetto come degno di essere amato e ricercato, non deriva che ci sentiamo più forti; ma occorre che da questo oggetto scaturiscano energie superiori a quelle di cui disponiamo e, inoltre, che noi possediamo qualche mezzo per farle penetrare in noi e mescolarle alla nostra vita interiore.22

Per permettere alle energie superiori di motivare la nostra vita etica bisogna farle entrare in noi e l’opinione, sebbene fermamente creduta e vissuta, non riesce da sola a farsi tramite di queste energie se non è supportata dall’esperienza personale. Probabilmente da questo punto di vista Durkheim ha sovrastimato il ruolo che gioca il culto all’interno della vita religiosa. Di certo la ripetizione delle azioni sacre permette di raggiungere proprio con la sua cadenza regolare una forte consapevolezza interiore di serenità e in questo modo apre la strada al consolidamento dell’esperienza religiosa. Il culto mantiene un valore solo strumentale rispetto all’esperienza, come Durkheim stesso riconosce quando osserva che l’azione cultuale “è la collezione dei mezzi con cui essa [ndr. la fede] si crea e ricrea periodicamente”23. Attraverso il culto l’esperienza religiosa ha l’opportunità di sfuggire alla sua costitutiva labilità e di radicarsi nell’interiorità in modo del tutto spontaneo, senza che l’attività della ragione ne stravolga il contenuto, volendola fissare in modo definitivo come un patrimonio stabile della coscienza. In tal senso l’idea è il mezzo con cui la memoria ripete il contenuto dell’esperienza e lo ingloba in modo organico nella personalità individuale. Un ulteriore aspetto decisivo dell’esperienza religiosa nella sua valenza per la comunità è la consapevolezza che ciò che si mostra nella vita religiosa non possa essere “qualcosa di illusorio”24. C’è qualcosa nell’esperienza religiosa che ha il carattere della durevolezza, dell’essere, che non può essere

derubricato a parvenza, illusione, fantasticheria. Con questo nocciolo duro dell’esperienza religiosa hanno avuto a che fare i principali filosofi della religione nella modernità. Mentre si secolarizza sempre di più il patrimonio religioso e di credenze, ritorna di nuovo la realtà del contenuto religioso, non sotto le spoglie di una illusoria o velleitaria tensione all’Assoluto ma come l’esperienza che si inserisce concretamente nell’esistenza del singolo di un quid realissimo, l’incontro con il quale stravolge la vita stessa. Questo è il fondamento da cui parte la riflessione di Durkheim sulla religione: la consapevolezza, la certezza che “il sentimento unanime dei credenti di tutti i tempi non possa essere puramente illusorio”25. Non è dissimile questa certezza, ricorda Durkheim, richiamando il capolavoro di William James, The Varieties of Religious Experience. A Study in Human Nature (1902), dalla certezza che possiedono del loro oggetto le scienze naturali e sperimentali. In questa affermazione è contenuta una certa iperbole, perché è evidente la distanza del metodo, dell’oggetto, dell’approccio all’interno di scienze tanto differenti e ormai differenziatesi in modo tanto radicale, tuttavia il senso dell’affermazione di Durkheim (e di James) è che se potesse stabilirsi un parallelismo tra la certezza scientifica e la certezza religiosa la seconda sarebbe non meno stabile, sicura, incrollabile della prima. Anzi, come ha più volte mostrato Mircea Eliade26, ciò che viene percepito nell’esperienza religiosa non è solo reale, ma realissimo, in quanto il credente ha d’un tratto la sensazione che sia la cosa più reale che egli abbia mai conosciuto. La realtà dell’oggetto religioso non solo non è messa in discussione dall’esperienza religiosa ma è confermata come qualcosa che ha uno statuto di realtà superiore a ogni altra cosa. Possiamo dire che esso possiede una forza di realtà straordinaria che tutte le altre cose presenti nel mondo, e che a ragione vengono annoverate come realtà, non hanno. Durkheim giunge a spiegare questa forza di realtà come opera della società. Essa costituisce

per il filosofo francese un fitto reticolo di sensazioni, percezioni, esperienze che si saldano intorno alla religione e ai suoi contenuti, dando loro il senso di realtà che le accompagna. La società attraverso la religione forma l’uomo, lo costituisce ontologicamente, perché spinge l’uomo ad agire, a essere e lo fa motivandolo religiosamente: “È dunque l’azione che domina la vita religiosa per il solo fatto che la società ne è l’origine”27. Ogni aspetto della società è motivato da istanze religiose, neppure l’aspetto strettamente economico le sfugge, tanto che è possibile affermare che la comunità religiosa sia il modello della comunità sociale. Ciò è possibile perché è la società che struttura la religione dall’interno e non soltanto perché la religione influenza un certo determinato modello sociale (“Se la religione ha generato tutto ciò che c’è di essenziale nella società è perché l’idea della società è l’anima della religione”28). Le immagini religiose, che si concretizzano nelle divinità, sono il risultato di forze etiche che agiscono in modo prepotente all’interno della società, tanto da assumere sul modello degli oggetti naturali “una specie di natura fisica”29. Negli oggetti religiosi si oggettivano, prendono forma concreta, reale una complessa congerie di sensazioni ed esperienze sociali che gli individui sperimentano nel contatto con il mondo circostante e con i propri simili. Soltanto così è possibile toccare l’essenza della religione e il suo significato per la società. Ogni religione nella sua tensione all’assoluto, alla bellezza, alla perfezione si fa interprete delle più profonde aspirazioni di ogni uomo. Allo stesso modo, la società ideale è la società in cui queste qualità possano essere vissute in un contesto armonico e soprattutto realizzate. La società costituisce la continuazione della religione, perché permette all’uomo religioso di dare un volto, una concretezza a ciò che nella sua religione ha soltanto idealizzato, sperato. Ideale religioso e realtà sociale si fondono nelle società umane,

che in virtù del patrimonio ideale fornito dalle religioni trasformano il modo di agire: la società, osserva Durkheim, è una semplice idea che traduce nella coscienza le nostre aspirazioni più o meno oscure verso il bene, il bello, l’ideale. Ora, queste aspirazioni hanno le loro radici in noi; provengono dalle profondità stesse del nostro essere; non c’è nulla quindi fuori di noi che possa renderne conto. D’altronde, esse sono già religiose di per sé; la società ideale presuppone dunque la religione, anziché poterla spiegare.30

La società non è solo un costrutto ideale, una semplice aspirazione cui tendere in un futuro lontano, ma ha una realtà e concretezza che la religione ha il compito di rafforzare e ordinare. Tutto ciò che si muove nella realtà sociale si specchia e trova il suo corrispettivo nella religione, per mezzo della quale le tendenze negative e distruttive sono trasformate, incanalate e ordinate verso il bene: “attraverso le mitologie e le teologie, si vede chiaramente trasparire la realtà, è però vero che essa vi si trova ingrandita, trasformata, idealizzata”31. La religione possiede la caratteristica di sovrapporsi al reale, di dare vita a una seconda realtà, tanto forte e tanto stabile quanto la prima. È questo il motivo per cui essa genera un senso di realtà così forte e muove le energie più profonde e nascoste dell’animo umano, perché essa è realtà, sebbene una realtà di secondo livello che ha a che fare con le aspirazioni, con i desideri dell’uomo, che sono tanto veri come sensazioni, come esperienze quanto le esperienze scientifiche o semplicemente materiali. La religione crea una nuova vita, una nuova realtà. E di questa nuova vita e realtà la società ha un estremo bisogno per rinnovarsi e rigenerarsi dalle sue fondamenta. Non è qualcosa che si aggiunga alla società per perfezionarla, un di più di coscienza ideale, ma una realtà da cui deve partire se la società si vuole periodicamente ricreare (“Questa creazione non è per essa una specie di atto supplementare, con cui si completerebbe, una volta formatasi; è l’atto con cui si fa e rifà periodicamente”32). L’idea che una società si fa di sé stessa, e che procede dall’esperienza religiosa (e non l’anticipa!) e si

pone con essa su di una linea di continuità, non è una sovrastruttura che può esserci o mancare senza comportare cambiamenti essenziali, ma è il fondamento su cui ogni società da quelle primitive a quelle più avanzate si costruisce. La capacità di fondare il proprio agire sociale su un ideale dà vita a una realtà sulla quale un’intera comunità edifica le sue strutture sociale e istituzionali. L’ideale diventa il reale, anzi un reale ancora più reale della vita sociale quotidiana: “Non è una specie di lusso di cui l’uomo potrebbe fare a meno, ma una condizione della sua esistenza”33. Non comprende fino in fondo le condizioni strutturali della religione chi pensa che la religione appartenga esclusivamente al foro interiore, alle scelte personali e individuali. Certo, la vita religiosa si alimenta principalmente, ed è stato qui ampiamente sottolineato, per mezzo della vita interiore, ma volerla ridurre al foro interiore significa non comprendere il legame fortissimo che lega la vita personale alla realtà sociale in cui si inserisce. La fede religiosa ha un radicamento nella società, nel popolo, che l’essere soltanto interiore, personale le precluderebbe. Ricorda Durkheim, che l’universo interiore, personale può al massimo contribuire a elaborare una filosofia, una gnosi religiosa ma mai una religione per quanto ristretta sia la platea dei suoi membri: Nel silenzio della meditazione si può elaborare una filosofia, non già una fede. Infatti, una fede è, innanzitutto calore, vita, entusiasmo, esaltazione di tutta l’attività mentale, trasporto dell’individuo al di sopra di sé stesso.34

Questo calore, questo entusiasmo richiede il ricorso ai suoi simili, si trasmette in un flusso che procede nella doppia direzione: dal credente al suo simile e dal suo simile ritorna potenziato al credente. La fede se rimanesse un fatto interiore e isolato sarebbe debolissima. La forza proviene alla religione dalla società che conferma, irrobustisce e amplifica le aspirazioni personali di

ogni singolo individuo. La condivisione attiva le credenze personali, le rende significative, dando loro un surplus di realtà che la sola vita interiore tende a limitare. Il desiderio di diffusione, di “evangelizzazione” che ogni credente sente non nasce dalla sua volontà individuale di convincere razionalmente gli altri della bontà delle sue credenze, ma risiede nell’essenza stessa della religione, che è tale solo fintanto che esce dalla vita individuale per farsi forza, motore della società. Se rimanesse isolata nell’individualità la religione si estinguerebbe progressivamente come accade per le teorie filosofiche che raramente riescono a sopravvivere al contesto storico e sociale in cui sono nate e la cui forza di cambiamento ha sempre riguardato soltanto delle piccole élites che con difficoltà e di rado hanno influenzato il corso della storia. La concezione durkheimiana del carattere sociale della religione ci offre una visione dinamica di questa influenza, che risulta particolarmente significativa nella attuale condizione dei rapporti tra fede e società nelle più avanzate società occidentali (Europa, America del Nord). La società avanzata del mondo occidentale è un fascio di forze fisiche, etiche, culturali spesso contrastanti in cui le religioni contribuiscono in modo decisivo a tenere desto di dibattito, e anche il contrasto, tra le diverse componenti. Da questo scontro tra visioni religiose e secolarizzate del mondo ne nasce una società più ricca e multiforme, in cui le tradizioni religiose si criticano, si confrontano, evolvono, influenzano la vita etica dei propri membri, contribuendo al progresso ideale e spirituale dell’intero tessuto sociale, “non è quindi sorprendente che ne scaturisca una vita più alta, la quale, reagendo sugli elementi da cui risulta, li eleva a una forma superiore d’esistenza e li trasforma”35. Le religioni non costituiscono, perciò, un pericoloso residuo di visioni del mondo tradizionali e potenzialmente generatrici di conflitti distruttivi, ma modalità per realizzare nel concreto della società le aspirazioni al bene, alla felicità e alla giustizia che

ogni individuo possiede e che sono necessarie per il progresso sociale. 20 E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, a cura di M. Rosati, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 482. Su Durkheim e la religione si vedano: R. Horton, Lévy-Bruhl, Durkheim, and the Scientific Revolution, in R. Horton, R. Finnegan (a cura di), Modes of Thought, Faber & Faber, London, 1973, pp. 249-305; M. Fabris, Morale e religione in Emile Durkheim, Edizioni del Levante, Bari 1981; D. J. Farace, The Sacred-profane dichotomy. A comparative analysis of its use in the work of Emile Durkheim and Mircea Eliade, Rijksuniversiteit, Utrecht 1982; F. Héran, L’institution démotivée de Fustel de Coulanges à Durkheim et au-delà, in “Revue Française de Sociologie”, 1987, vol. 27, pp. 67-97; A. Giddens, Durkheim, Il Mulino, Bologna 1998; C. Tarot, De Durkheim à Mauss, l’invention du symbolique. Sociologie et sciences des religions, La Découverte, Paris 1999; T. A. Idinopulos, B. C. Wilson (a cura di), Reappraising Durkheim for the study and teaching of religion today, Brill, Leiden 2002; G. Poggi, Emile Durkheim, Il Mulino, Bologna 2003; A. Warfield Rawls, Epistemology and practice. Durkheim’s The elementary forms of religious life, Cambridge University Press, Cambridge 2004; J. S. Fish, Defending the Durkheimian tradition. Religion, emotion and morality, Ashgate, Aldershot 2005; G. V. Loewen, Social scientific interpretations of religion. Comparing the hermeneutic methodologies of James, Weber, Heidegger and Durkheim, E. Mellen, Lewiston (N.Y.) 2009; G. Lynch, The sacred in the modern world. A cultural sociological approach, Oxford University Press, Oxford 2012; M. Borlandi (a cura di), Émile Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Un siècle après, Presses Universitaires de France, Paris 2012; S. L. Hausner (a cura di), Durkheim in dialogue. A centenary celebration of The elementary forms of religious life, Berghahn Books, New York 2013. 21 E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, cit., p. 482. 22 Ivi, p. 483. 23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 Ibidem. 26 M. Eliade, Mito e realtà, traduzione e prefazione di G. Cantoni, Borla, Torino 1966, pp. 40-41; M. Eliade, La nostalgia delle origini. Storia e significato nella religione, Morcelliana, Brescia 1980, pp. 59-81, p. 88; P. Stagi, La nascita del sacro. Teorie della religione, Studium, Roma 2015, pp. 52-74. Sulla definizione del sacro come reale nell’opera di Eliade si vadano i seguenti studi: T. J. J. Altizer, Eliade and the Dialectic of the

Sacred, The Westminster Press, Philadelphia 1968; A. Marino, L’herméneutique de Mircea Eliade, Gallimard, Parigi 1981; C. Olson, The Theology and Philosophy of Eliade, Edizioni MacMillan, Londra 1992; R. Scagno, L. Arcella, P. Peggio (a cura di), Confronto con Mircea Eliade. Archetipi mitici e identità storica, Jaca Book, Milano 1998; N. Spineto, Mircea Eliade storico delle religioni, con la corrispondenza inedita Mircea Eliade – Károly Kerényi, Morcelliana, Brescia 2006; M. Idel, Mircea Eliade. From magic to myth, P. Lang, New York 2014. 27 E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, cit., p. 484. 28 Ivi, p. 485. 29 Ibidem. 30 Ivi, p. 486 31 Ivi, p. 487. 32 Ivi, p. 488. 33 Ivi, p. 489. 34 Ivi, p. 491. 35 Ivi, p. 512.

CAPITOLO QUARTO LÉVY-BRUHL. L’HOMO RELIGIOSUS E LA MENTALITÀ ARCAICA Non bisogna credere che i rapporti tra la religione e la società procedano in modo idilliaco, spesso sono i contrasti che prevalgono sulle conciliazioni e che sembrano condurre la società verso una disintegrazione anticipata. Nell’epoca attuale si vede nel mondo occidentale come i contrasti religiosi possano condurre anche nelle società avanzate a lacerazioni che appare impossibile sanare. Ciò accade perché la religione non è facilmente secolarizzabile, non si traduce in altre lingue religiose o secolari se non dopo tremendi conflitti e lacerazioni. C’è un nucleo non-secolarizzabile dell’esperienza religiosa che crea sempre nuovi problemi alla tenuta del tessuto sociale. Davanti a esso falliscono tutti i tentativi di “indebolire” le pretese di dominio delle singole religioni. L’unica strategia che può essere messa in atto è comprenderle nelle loro caratteristiche peculiari e nella loro nascosta richiesta di senso e tradurle in un linguaggio meno violento e impositivo. Un approccio alla comprensione dell’essenza non secolarizzabile della religione è contenuto nell’opera di Lucien Lévy-Bruhl, un filosofo che nella modernità ha contribuito a ridefinire i confini dell’esperienza religiosa36. Difficilmente si riuscirà a comprendere i limiti esterni e interni dell’esperienza religiosa senza passare attraverso la triade di opere: Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures (1910), La mentalité primitive (1922), L’âme primitive (1927). Notevoli sono state le critiche avanzate agli scritti filosofico-religiosi di Lévy-Bruhl e alla sua nozione di prelogismo; un catalogo di esse è stato fatto da Ernesto de Martino37. La critica principale è

che Lévy-Bruhl pone una frattura invalicabile tra le modalità di fare esperienza dell’uomo primitivo e dell’uomo moderno. Questa frattura è stata rimproverata agli scritti del filosofo francese sotto una molteplicità di punti di vista storici, culturali, etnografici, antropologici, con il sospetto che volesse nascondere una differenziazione tra un’umanità superiore e logica e una inferiore e prelogica. Questa condanna è stata ingiusta, ma non si può non riconoscere che la differenziazione tra l’universo logico e l’universo prelogico risenta di un atteggiamento eccessivamente scientista e positivista, che non coglie le diversità storiche, culturali, antropologiche tra le molteplici manifestazioni dell’esperienza religiosa. Se ci poniamo da questa prospettiva l’opera di Lévy-Bruhl sembra non offrire più nulla di interessante all’attenzione dello studioso di filosofia della religione. E, invece, ci sono aspetti della riflessione di Lévy-Bruhl sulle modalità dell’esperienza religiosa e mistica che offrono spunti attuali che non possono assolutamente essere lasciati cadere. Se Lévy-Bruhl ci dice oggi poco sul confronto della mentalità primitiva con la nostra società e la mentalità secolarizzata, ci dice ancora molto sulle modalità concrete in cui si organizza l’esperienza religiosa. Con esperienza religiosa non si intende qui l’esperienza di vita dell’uomo primitivo, come vorrebbe Lévy-Bruhl, ma l’esperienza dell’homo religiosus in generale, senza tenere in considerazione se vive in società primitive e periferiche o in società fortemente avanzate e secolarizzate. La distinzione tra le diverse forme di esperienza religiosa non deve seguire lo sviluppo diacronico delle civiltà, ma separa all’interno di ogni civiltà, ogni società, ogni cultura l’atteggiamento sacro dal profano. Non è separando tra primitivi e “moderni” che si comprende l’essenza del fenomeno religioso, ma piuttosto tra l’esperienza orientata dal sacro e dal profano, tra ciò che è motivato in modo religioso e ciò che lo è in modo pagano o secolarizzato. Nonostante notevoli difficoltà e incongruenze, gli

scritti di Lévy-Bruhl conservano ancora il loro originario interesse quando cercano di descrivere dall’interno l’universo “vissuto” dell’uomo religioso. Il modo in cui l’uomo religioso vede sé stesso, i propri simili e il mondo circostante, che il filosofo francese descrive con accuratezza, non manca ancora oggi di offrire materiale interessante nell’ottica di un’ermeneutica dell’esperienza religiosa. Nel suo Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures (1910), e nella sua opera più nota La mentalité primitive (1922), Lévy-Bruhl definisce la vita interiore dell’uomo religioso come indifferenziata, in quanto non sono presenti in lui le differenziazioni e le rappresentazioni che il mondo secolarizzato introduce all’interno della coscienza. Ciò che manca all’uomo religioso è la capacità di distinguere l’oggetto sacro dalle sue rappresentazioni. Nell’oggetto sacro egli teme sia presente come realtà anche il suo carattere rassicurante, minaccioso, salutifero, perché non ha la facoltà di distinguere l’oggetto reale dalle sue proprietà. Ciò che cambia radicalmente nell’uomo religioso è la visione della realtà: egli percepisce la stessa realtà dell’uomo secolarizzato, ma vi legge una quantità di cose che al mondo profano sfuggono. Lévy-Bruhl introduce per definire questa particolare visione del mondo l’espressione mistica, anche se questa aggettivazione rischia facilmente di essere fraintesa, ed è a mio giudizio fuorviante rispetto a quella più semplice di religiosa38. Ciò che Lévy-Bruhl mette in luce è come lo sguardo dell’uomo religioso, pur posandosi sugli stessi oggetti di quello dell’uomo secolarizzato, vi vede oggetti e cose differenti oppure profondamente trasformati. Non cambia lo sguardo che vede le cose, ma il significato al cui interno queste cose sono comprese: Non un essere, non un oggetto, non un fenomeno naturale è nello loro rappresentazioni collettive simile a quel che appare a noi. Sfugge loro oppure gli è indifferente quasi tutto ciò che noi vi scorgiamo. In cambio essi vi notano molte più cose che noi non sospettiamo neanche.39

Il filosofo francese discute con dovizia di riferimenti etnografici questa tipica mentalità religiosa, che non vede negli stessi oggetti e nelle stesse azioni un significato simile rispetto alla mentalità secolarizzata. A titolo esemplificativo, egli cita alcuni documenti dei missionari africani40 che raccontano come ogni gesto nei confronti di un indigeno che lo salvasse da una situazione disperata (malattia, fame, pericolo di morte) non ricevesse un ringraziamento da parte dello stesso, ma l’impellente richiesta di un risarcimento. La mentalità secolarizzata vede in un gesto simile di aiuto, di sostegno un atteggiamento di benevolenza verso l’altro che naturalmente dovrebbe generare altrettanta benevolenza. Come è possibile, si chiede Lévy-Bruhl, che questa benevolenza non abbia un corrispettivo simile nell’altro ma ingeneri comportamenti aggressivi, di natura completamente opposti? Ciò dipende dal fatto che la mentalità religiosa e la mentalità secolarizzata, pur considerando la stessa azione, vi leggono un significato differente: la prima la interpreta come un’azione benefica, l’altra come un’azione malefica. Infatti, i popoli africani considerano un intervento esterno come un sovvertimento del destino che gli dèi hanno preparato per l’uomo, un destino di morte, di sofferenza, di malattia, che viene sovvertito dall’azione salvifica e che quindi condanna il malcapitato a un male peggiore, perché gli aliena la stessa benevolenza degli dèi. Qualcosa di simile accade nella considerazione della natura nella filosofia medievale prima del XII sec., un fenomeno che è stato studiato da Tullio Gregory in L’Idea di natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele. Il secolo XII (1964). A partire da Agostino e fino alla filosofia del XII sec., prima dell’avvento per il tramite della filosofia araba della “normalizzazione” aristotelica, la natura non è considerata dai filosofi come una realtà autonoma, a sé stante, ma un complesso insieme di simboli religiosi. Le piante, le montagne, i fiumi, gli animali sono simboli della creazione

divina e dietro a ognuno di loro si nasconde un simbolo con cui Dio ha voluto parlare all’uomo. Ciò che nella natura legge l’uomo medievale è completamente differente da ciò che vi può leggere oggi l’uomo secolarizzato, quantunque gli elementi naturali nella loro conformazione fisica rimangano sempre gli stessi. Basta considerare il De rerum natura41 di Isidoro di Siviglia in cui il vescovo spagnolo interpreta i principali eventi naturali con l’intenzione di mostrare come le modalità con cui appaiono agli uomini naturali sono fuorvianti e accidentali, perché solo l’uomo spirituale (religioso) riesce a leggerli nella loro realtà. Egli sviluppa una rigorosa lettura del mondo fisico e naturale, sulla scia dei Padri latini, in cui nel ritmo di giorno e notte, nello scorrere dei giorni, nell’alternarsi del sole e della luna vede esprimersi l’economia spirituale della salvezza. Nulla per l’uomo religioso è come appare naturalmente, ma tutto è trasfigurato dal suo sguardo. Non c’è tanto un’ascendenza platonica in questo atteggiamento, come ha sottolineato Gregory42, per cui il sovrasensibile è da anteporsi al sensibile, nessuna svalutazione della realtà concreta, ma al contrario la filosofia del XII sec. desidera inserire anche la natura nella storia della salvezza che ha inizio con la creazione. Piuttosto ci troviamo qui davanti a un platonismo rovesciato, per cui il modello non ha la precedenza sulla realtà effettuale, ma è la realtà che dà vita e conferma la bontà del modello, in quanto realizza in concreto la storia della salvezza. Tornando alla prospettiva espressa in La mentalité primitive (1922) di Lévy-Bruhl, il pensatore francese tiene a sottolineare che lo sguardo che dà l’uomo religioso agli oggetti non è uno sguardo dimidiato, limitato rispetto all’uomo moderno e civilizzato, per cui l’uomo primitivo nella sua variante extraeuropea (i popoli dell’emisfero australe) o medievale (gli uomini che vissero i “secoli bui” dopo la caduta dell’impero romano e prima dello splendore rinascimentale) possiedono una ridotta capacità di comprensione della realtà, oppressi da un

pregiudizio religioso che impedisce loro di vedere le cose nella loro autonomia e oggettività. Quello che manca all’uomo religioso non sono le capacità intellettive o di comprensione (“Non è incapacità o impotenza, poiché coloro stessi che ci fanno conoscere questa disposizione della mentalità primitiva soggiungono espressamente che si trovano qui menti altrettanto capaci di scienza quanto lo sono quelle degli Europei, poiché vediamo i bambini australiani, melanesiani ecc. imparare altrettanto facilmente quanto i bambini francesi o inglesi ciò che il missionario insegna”43). La diversità con cui l’uomo religioso legge la realtà non dipende dalle sue facoltà cognitive, che se ben educate non hanno nulla da invidiare all’uomo secolarizzato, ma dal significato che egli attribuisce alle sue diverse esperienze, dalle modalità con cui le raccoglie sotto una stessa unità. È il processo di reductio ad unum che cambia, perché cambia l’unum cui si riferiscono. Riassumendo l’atteggiamento dei primitivi, Lévy-Bruhl osserva: “Non credono che a ciò che vedono; le loro idee non vanno più in là dei loro sensi; tutto ciò che non è immediatamente percepito, non è pensato, ecc.”44. La prima caratteristica dell’uomo primitivo è di limitarsi in modo piuttosto rigoroso a ciò che gli è davanti, alla realtà. Non è in nessun modo un uomo che ricerchi delle ragioni pregresse, superiori o spirituali. Egli è un uomo della realtà. In che modo, tuttavia, questo suo essere un uomo della realtà si concilia con il suo essere un uomo contemporaneamente dominato dalla religione? Lévy-Bruhl chiarisce come questi due aspetti non siano in contraddizione, ma al contrario l’essere un uomo “reale” è una conseguenza dell’essere un uomo religioso, perché la religione al suo stadio primordiale non è la fiducia in una idea ma in una presenza reale: Non è forse temerario spiegare questa avversione con l’attaccamento esclusivo agli oggetti dei sensi, quando gli stessi missionari ci mostrano d’altra parte che i primitivi sono i più intrepidi credenti che possano

trovarsi? Non si arriva a togliere loro dalla mente la certezza che una infinità di esseri e di azioni invisibili sono tuttavia reali.45

Il paragone che fa Lévy-Bruhl con la fede dei cristiani moderni è particolarmente illuminante, perché l’uomo moderno, quando possiede una fede religiosa, la possiede a intermittenza, senza continuità, le riserva degli spazi all’interno della giornata o più in generale del suo tempo, ma non vive in modo immediato immerso in un contesto di significati religiosi. Quando anche lo facesse, dovrebbe di continuo mediare tra i due piani, la vita personale religiosa e la vita quotidiana associata, senza poterli vivere in una continuità armonica. L’uomo religioso che è immerso in un contesto di significati religiosi, come l’uomo primitivo, non distingue tra questo e l’altro mondo, tra la realtà profana e la realtà sacra. In lui manca la linea di demarcazione su cui l’uomo moderno ha costruito la sua identità, perché l’uomo primitivo vive veramente con gli spiriti invisibili e con le forze impalpabili. Queste realtà sono, per lui, le più reali. La sua fede si esprime nei più insignificanti come nei più importanti dei suoi atti. Tutta la sua vita, tutta la sua condotta ne sono impregnate.46

Il filosofo francese spiega questa profonda frattura nell’anima moderna come il risultato di una interiorizzazione dei dati scientifici, che si fonda sulla certezza dell’esistenza delle cause seconde che giustificano ogni fenomeno. L’uomo moderno anche se in prima istanza non comprende il significato di un fenomeno è certo che alla sua base ci sia una causa scientificamente provata, o provabile, che ne motiva l’apparizione. Egli dà per scontato che delle cause ci siano e che siano scientificamente invariabili. La scienza della natura e la sua fede nell’invariabilità dei fenomeni sono come gli occhiali di kantiana memoria che l’uomo indossa sempre, pur quando si dimentica di averli addosso, e attraverso i quali conosce la realtà che lo circonda. L’uomo religioso vive immerso anche egli in una salda rete di significati, che precedono la sua comprensione

della realtà, sebbene essi non dipendano da una visione scientifica del reale, ma da “una rete di partecipazioni e di esclusioni mistiche: esse anzi ne costituiscono il contesto e l’ordine”47. Nel momento di vedere la realtà l’uomo religioso non vede gli stessi aspetti di un oggetto dell’uomo secolarizzato, perché la sua attenzione sarà attratta da aspetti di questa esperienza che l’altro non riuscirà neppure a vedere. Dietro (o davanti, per meglio dire) ogni fenomeno egli vede il suo significato che precede sempre la sua attività conoscitiva e il suo significato è l’ordine in cui egli organizza il sapere. Ogni fenomeno naturale non è, quindi, la conseguenza, vista o soltanto supposta, di una precedente azione fisica che lo ha condotto ad apparire, ma l’azione di una causa, tanto reale quanto quella fisica, di origine non-naturale (o soprannaturale). Questo soprannaturale, dice R.H. Nassau in Fetichism in West Africa citato da Lévy-Bruhl, è un fattore così costante nella sua vita, da fornirgli di ogni avvenimento una spiegazione rapida e ragionevole quanto i nostri riferimenti alle forze riconosciute della natura.48

In tal modo, egli vive costantemente nell’attesa che sopraggiunga qualcosa di insolito a sconvolgere e ribaltare le sue attese esistenziali. Manca completamente la fiducia nella regolarità del mondo e degli accadimenti, che è tipica dell’uomo moderno e che fa dell’uomo primitivo un uomo profondamente emotivo e sensibile all’insolito e allo straordinario49. Le modalità con cui l’uomo religioso fa esperienza del mondo, dello stesso mondo dell’uomo secolarizzato, sono differenti e perfino i pilastri attraverso cui l’uomo esperisce il mondo: lo spazio, il tempo, la causalità sono vissuti in modo differente rispetto all’uomo moderno. Se il mondo secolarizzato si appiattisce sullo spazio, sul tempo e sulla causalità, divenendo nelle società secolarizzante un mondo estremamente povero di esperienze, sebbene ricchissimo di “vissuti” (Erfahrung vs Erlebnis), fondato sull’asse spazio/tempo e causalità, il mondo

religioso primitivo è ricchissimo di simboli e significati. È un mondo poliedrico e vastissimo a livello ermeneutico, di contro alla povertà della realtà secolarizzata. L’intera realtà è pervasa per l’uomo religioso da forze mistiche, invisibili e impercettibili all’occhio profano, ma che per lui sono come fili sottili e robusti che attraversano ogni manifestazione naturale. Assume in questa realtà una funzione essenziale il presagio o presentimento50. Non potendo prevedere lo scorrere del tempo secondo l’asse cronologico del prima e del poi, l’uomo primitivo ha attivato una intensa ermeneutica volta a vedere nella natura un insieme di presagi che si tratta di decifrare. Il presagio nasce dalla sensazione che qualcosa stia per avvenire, una sensazione che non ha a che fare con il pensiero, con un calcolo razionale, ma con la certezza, con una forte sicurezza interiore che qualcosa stia avvenendo, anche se non si riesce ancora con precisione a dire che cosa. Le sensazioni di presagio provengono direttamente dall’esperienza e possiedono la connotazione di qualcosa di reale, di certo, di indiscutibile. In tutte le società antiche – si pensi al ruolo che aveva il presagio nella cultura romana e greca – il presagio svolge una funzione fondamentale, perché mette in relazione le forze oscure presenti nella realtà con l’uomo e la sua capacità di leggere all’interno di queste forze il possibile andamento del suo futuro, su cui lo scorrere della natura non offre alcuna rassicurazione. L’homo religiosus usa il presagio non solo per prevedere e comprendere come sarà il suo futuro, ma sa anche che il suo presentimento contribuisce in maniera determinante alla realizzazione del suo presagio. Esso è quindi allo stesso tempo indizio sul futuro e inizio del futuro stesso: Manifestazioni delle forze mistiche e occulte, le quali soltanto sono cause, i presagi hanno una parte essenziale nell’effettuarsi di ciò che annunciano. Non hanno per unica funzione di rivelare ciò che succederà: ciò che rivelano non si verificherebbe senza di loro. Poiché l’avvenire che i presagi

profetizzano è sentito come immediato, come già reale, essi sono sentiti come il determinante nello stesso tempo che lo manifestano.51

Nel presentimento è all’opera una forza reale che ha il potere non solo di sentire ciò che ancora non è accaduto ma di anticiparne l’avvento. Questo a conferma che l’uomo religioso vive la realtà circostante come animata da forze misteriose, che hanno il potere di far accadere particolari avvenimenti. Insieme al presentimento l’uomo religioso nella sua vita lascia un spazio notevole a una particolare forma di esperienza mentale: il ricordo. La sua mentalità è di carattere sintetico e tende a vedere l’unità in ogni cosa, a differenza del pensiero moderno che separa e rende frammentaria ogni forma di analisi. I rapporti tra le cose nella realtà moderna non sono visti in un unico sguardo sintetico, ma attraverso una lunga elaborazione in cui le cose sono divise, ridotte ai minimi termini e sottomesse a un lungo processo di frammentazione. È il linguaggio secondo Lévy-Bruhl che fin dalla tenera età nelle società avanzate si riserva il compito di educare alla frammentazione e alla dispersione. Le esigenze del pensiero logico si fondano sull’opera quotidiana del linguaggio, che educa a dividere e a frammentare le proposizioni, a rendere le rappresentazioni sempre più chiare e distinte per poter essere comunicate. Ogni spirito moderno è costretto a questa faticosa opera di frammentazione pena il cadere nella incomunicabilità, una delle forme più terribili di isolamento in questa società. Nel pensiero “religioso” le connessioni tra le cose vengono scoperte non frammentando le cose, riducendole ai loro principi minimi, ma unificandole sotto un principio unico che le chiarisca e permetta di comprenderle. La mentalità religiosa è una mentalità rigorosamente meta-fisica, anche se non nel senso in cui la intende la metafisica classica come la sottomissione del reale all’ideale, quanto piuttosto della presenza dell’ideale nel reale. In essa la memoria svolge la funzione di riunificare i frammenti dispersi e incomprensibili della realtà. L’uomo religioso

inserisce ogni frammento della realtà in una storia, lo chiarisce a partire dalla memoria di una storia che rende ragione di ogni aspetto disperso della realtà. La memoria si fa garante della veridicità di una storia, di quella storia originaria che fonda la propria civiltà. La diffusa opinione che i popoli primitivi non abbiano una storia e che vivano in un continuo presente è un antico pregiudizio che tarda a morire. Essi non hanno una storia perché sono una storia, in quanto tutta la loro esistenza è ricordo, memoria di una storia di salvezza in cui sono inseriti. È il caso soltanto di fare riferimento alla vita del cristiano che è sempre collocata all’interno della storia della salvezza di cui egli è attore e strumento nello stesso tempo, in quanto coopera all’avvento della salvezza ed è mezzo attraverso cui la salvezza entra nel mondo. Nelle società primitive i legami tra le cose oltre a essere sentiti come reali sono percepiti, con un solo sguardo, in quanto sono considerati indecomposti e indecomponibili proprio in virtù della loro solidissima realtà. L’unico atteggiamento adeguato è il ricordo attuoso, che mentre ricorda gli avvenimenti del passato li rivive, ripetendoli nell’esistenza quotidiana per mezzo di un’opera personale di ricordo (la preghiera, la venerazione personale) o la liturgia che è una forma collettiva e comunitaria di ricordo. L’aspetto comunitario è da questa prospettiva particolarmente significativo, perché contribuisce a rafforzare e consolidare il ricordo, facendolo diventare patrimonio comune e parte integrante della tradizione religiosa. Le rappresentazioni collettive sotto forma di ricordo “vissuto” insieme saturano l’esistenza e il bagaglio ideologico dell’uomo primitivo. La sua “cultura” non si forma con lo studio o l’approfondimento personale, ma attraverso il prendere parte a cerimonie, liturgie in cui la comunità ricorda un evento significativo che ha assunto nella memoria collettiva un carattere sacrale. Questa è la scuola che frequenta l’uomo

primitivo. In ciò non è molto differente dalle scuole monastiche del XI e XII sec. in cui il monaco era introdotto a un pensiero rammemorante che ricapitolava in un’unica storia sacra tutte le conoscenze scientifiche, letterarie, filosofiche che l’avevano preceduto; ed egli era educato a “rivivere” dall’interno questa storia come se fosse stato egli stesso vivente quando accadevano quegli avvenimenti antichi, come è il caso ad esempio del De Jesu puero duodenni di Aelredo di Rievaulx52. Nelle liturgie di iniziazione gli uomini primitivi, così come i monaci medievali, vivevano il passaggio dallo sguardo ingenuo allo sguardo “iniziato”, religioso. È la comunità che si prende l’incarico di trasmettere all’iniziato il senso della realtà; con questo atto originario non è trasmesso solo un patrimonio di idee ma l’iniziato cambia pelle, diventa un altro uomo, un uomo nuovo: Sarebbe difficile esagerare l’intensità della forza emozionale di queste rappresentazioni. L’oggetto non viene colto dallo spirito semplicemente sotto forma di idea o di immagine; secondo i casi il timore, la speranza, l’orrore religioso, il bisogno e il desiderio ardente di confondersi in una comune essenza, l’appassionato appello ad una potenza protettrice costituiscono l’anima di queste rappresentazioni e le rendono talvolta care, talvolta terribili, ma sempre sacre per coloro che vi sono iniziati.53

Le rappresentazioni religiose dei primitivi non possono in alcun modo essere paragonate alle nostre idee religiose, perché non possiedono lo statuto di un’idea, ma di un’esperienza vissuta all’interno di e con una comunità. L’uomo primitivo non crede a delle idee, immaginando o sperando che siano vere o reali, come fa l’uomo moderno (anche l’uomo religioso moderno, che è solo una variante “ideologizzata” dell’uomo moderno), ma l’immagine che egli possiede è per lui la realtà, tanto che sa di non poterla dominare e teme che da essa possa giungergli un qualche pericolo. La rappresentazione collettiva e la realtà non sono due aspetti separati, come nella modernità dove si può possedere la prima senza crederla reale, poiché la

rappresentazione ha la forza di essere una realtà da sola, senza bisogno che alla rappresentazione con fatica si aggiunga l’esistenza reale. Tutto nel mondo primitivo e nel mondo religioso è diverso da quello che sembra (alla mente secolarizzata), ma tutto è così incredibilmente reale (per la mente primitiva). Per l’uomo primitivo ogni animale, ogni pianta, ogni roccia nella sua singolarità è significativa perché si fa portatrice di un significato trascendente, mentre la mente secolarizzata non fa altro che vedervi uno dei tanti alberi, una delle tante piante o rocce. Il pensiero primitivo è estremamente singolarizzante, mentre quello secolarizzato tende a ragionare per classi, ordini, inserendo ogni cosa in un ordine razionale prestabilito e unilaterale. La stessa nozione di oggettività, di realtà oggettiva cambia se si considera il pensiero logico o il pensiero religioso, perché per il pensiero logico, moderno sono oggettivi più i legami tra le cose che le cose stesse. Il pensiero logico ordina le cose secondo una rigida gerarchia e lega i vari livelli attraverso stretti collegamenti razionali. Ogni cosa prende il suo significato in quanto è stata inserita in una gradazione logico-razionale: gli uomini, gli animali, le piante, le montagne, i fiumi, il pensiero, le immagini. Nessuno di essi può uscire dall’ambito che gli è stato riservato e in cui è stato classificato. Reale è l’ambito logico delle cose: l’insieme di relazioni logiche che permettono di dire che una cosa appartiene a un certo ambito. Le cose in sé sono passeggere, accidentali, casuali e in tal senso sono reali solo dal punto di vista della sensazione, perché sono percepite dai sensi come reali. Il significato, tuttavia, non appartiene alle singole cose, ma ai legami logici che le ordinano e le rendono “significative”. La sfera logica, dice Lévy-Bruhl, esprime un ordine di interdipendenza, di gerarchia tra i concetti, di connessione reciproca tra gli oggetti e gli esseri, che si sforza di corrispondere il più esattamente possibile all’ordine oggettivo, di modo che le operazioni compiute sui concetti così disposti valgano per gli oggetti e gli esseri reali. È l’idea madre che ha diretto la speculazione greca e che

inevitabilmente appare fin da quando il pensiero logico riflette su sé stesso e si mette a perseguire coscientemente lo scopo verso cui prima tendeva spontaneamente.54

Il pensiero religioso non ha questa necessità impellente di mostrare a ogni passo l’oggettività dei suoi procedimenti, perché è pervaso dalla certezza che gli deriva dalla sua esperienza della realtà. Reale è ciò gli si mostra, il phainomenon, che opera in modo potente, che lo sovrasta e lo minaccia, tutto il resto cade nell’irrealtà, nella trascuratezza. Non deve dimostrare l’oggettività di nulla, perché è l’oggettivo che gli si presenta come il reale, che gli si impone. Dalle riflessioni di Lévy-Bruhl si deduce un aspetto fondamentale per la ricerca sull’essenza dell’esperienza religiosa. L’uomo religioso è immerso completamente nell’acqua della religione: vive di essa, respira di essa, esiste per essa: Dall’analisi che precede, e che potrebbe facilmente essere confermata da molti altri fatti, risulta, ancora una volta, che la mentalità primitiva è essenzialmente mistica. Questo carattere fondamentale impregna tutto il suo modo di pensare, di sentire e di agire.55

L’uomo religioso è un uomo integrale, in quanto integrale è il mondo in cui vive; il mondo inteso come un insieme infinito di significati e simboli da decifrare per vivere. Un solo mondo, una infinità di simboli. Al contrario dell’uomo contemporaneo che vive in una infinità di mondi sempre gli stessi simboli. Il decifrare, l’interpretare non è un’operazione accessoria rispetto al vivere dell’uomo integrale ma è il suo stesso vivere. Egli torna continuamente in forme sempre diverse, in simboli sempre diversi tante sono le cose che incontra, a fare esperienza dell’unità di significato da cui provengono. Questa mentalità è incomprensibile all’uomo odierno che lavora incessantemente a ridurre l’universo simbolico, ad appiattirlo, a renderlo sempre più povero, pur nella molteplicità di mondi e “vissuti” culturali che incontra nella sua esistenza. La sua è una esistenza ricca di

mondi, ma povera di mondo. Al contrario, l’uomo integrale vive nel suo piccolo, piccolissimo mondo una pluralità infinita di esperienze di vita. 36 Gli studi principali sull’influenza del pensiero di Lévy-Bruhl sullo studio dell’esperienza religiosa sono: C. Prandi, Lucien Lévy-Bruhl. Una introduzione, Armando, Roma 1989; S. Mancini, Da Lévy-Bruhl all’antropologia cognitiva. Lineamenti di una teoria della mentalità primitiva, introduzione di V. Lanternari, Dedalo, Bari 1989; M. Fimiani, L’arcaico e l’attuale. Lévy-Bruhl, Mauss, Foucault, Bollati Boringhieri, Torino 2000; Ribot, Lévy-Bruhl, Durkheim, in “Revue philosophique de la France et de l’étranger”, 195, 3, 2005; C. Prandi, Lucien Lévy-Bruhl. Pensiero primitivo e mentalità moderna, UNICOPLI, Milano 2006; F. Keck, Lucien Lévy-Bruhl. Entre philosophie et anthropologie, contradiction et participation, CNRS éd., Paris 2008; S. Deprez, LévyBruhl et la rationalisation du monde, PUR, Rennes 2010. 37 E. de Martino, Prefazione, in L. Lévy-Bruhl, L’anima primitiva, traduzione di A. Manocchio, Bollati Boringhieri, Torino 1948, pp. 14-17; S. Lener, Introduzione, in L. Lévy-Bruhl, Psiche e società primitive, Newton Compton, Roma 1970, pp. 26-32. 38 L. Lévy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., p. 62: “Per cercare di definire con una sola parola questa proprietà generale delle rappresentazioni collettive nell’attività mentale delle società inferiori, dirò che tale attività mentale è mistica. Userò questo termine non con allusione al misticismo religioso delle nostre società, che è qualcosa di abbastanza differente, ma nel suo significato letterale per cui con mistico si intende la credenza a forze, ad influenze, ad azioni impercettibili ai sensi e tuttavia reali”. 39 Ibidem. 40 Missions catholiques, XV, 1883, 39 e sgg. 41 Isidoro di Siviglia, La natura delle cose, traduzione, introduzione, commento a cura di F. Trifoglio, Città Nuova, Roma 2001. 42 T. Gregory, L’idea di natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso della fisica di Aristotele – Il secolo XII, in La filosofia della natura nel Medioevo, Atti del Terzo Congresso Internazionale di Filosofia Medioevale, Editrice Vita e Pensiero, Milano 1966, p. 32: “Che ci sia del platonismo in questa prospettiva nella quale il mondo sensibile è depotenziato e l’occhio è teso alla sua significazione o realtà intelligibile, è stato più volte sottolineato ed emerge dalla contrapposizione stessa dei visibilia, corporalia, temporalia, agli invisibilia, spiritualia, aeterna; ma

questi significati spirituali, queste realtà intelligibili ed eterne non sono solo metastoriche verità, bensì anche e soprattutto realtà storiche, eventi divino-umani che non costituiscono un immoto mondo intelligibile ma una storia sacra e corrispondono ai momenti diversi della divina pedagogia onde gli uomini sono condotti alla salvezza”. Si vedano anche M.-M. Davy, Il simbolismo medievale, a cura di G. de Turris, traduzione di B. Pavarotti, Edizioni Mediterranee, Roma 1999; M.-M. Davy, Iniziazione al medioevo. La filosofia nel secolo XII, a cura di C. Marabelli, Jaca Book, Milano 1990; M.-M. Davy, La montagna e il suo simbolismo, traduzione di A. Rizzi, Servitium, Roma 2003; M.-D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, a cura di P. Vian, introduzione di I. Biffi, Jaca Book, Milano 1983. 43 L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, traduzione di C. Cignetti, con un saggio di G. Cocchiara, Einaudi, Torino 1966, p. 16. 44 Ivi, p. 17. 45 Ivi, p. 18. 46 Ibidem. 47 Ivi, p. 20. 48 R. H. Nassau, Fetichism in West Africa. Forty Years’ Observation of Native Customs and Superstitions, Charles Schribner’s Sons, New York 1904, p. 277. 49 Si veda L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, cit., p. 43. 50 A. Reinach, Per la fenomenologia dei presentimenti, in P. Stagi, La filosofia della religione di Adolf Reinach, in Appendice: A. Reinach, L’Assoluto. Appunti filosofico-religiosi (1916-1917), Edizione critica. Traduzione con testo a fronte, Stamen, Roma 2015, pp. 42-46. Su Reinach e la sua fenomenologia della religione si vedano B. Beckmann, Das Erlebnis des religiösen Ereignisses. Religionsphilosophie in „realphänomenologischer” Ausprägung im Anschluß an Adolf Reinach, in Realismus als philosophisches Problem, a cura di H. Seidl, Olms, Hildesheim/Zürich/New York 2000, pp. 155-171; B. Beckmann-Zöller, Phänomenologie des religiösen Erlebnisses. Religionsphilosophische Überlegungen im Anschluss an Adolf Reinach und Edith Stein, Königshausen & Neumann, Würzburg, 2003; P. Stagi, Ist eine Phänomenologie des Absoluten möglich? Eine Auseinandersetzung mit Reinach, in Der faktische Gott. Selbstwelt und religiöse Erfahrung beim jungen Heidegger, Königshausen & Neumann, Würzburg 2007, pp. 64-69; P. Stagi, L’Assoluto (1916-1917). Fenomenologia e religione nel pensiero di Adolf Reinach, in “Rivista di Filosofia Neo-Scolastica”, Testi e Documenti, Anno 2011, Nr. 1, pp. 111-147. 51 L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, cit., p. 113.

52 Aelredo di Rievaulx, De Jesu puero duodenni, Testo italiano a fronte, traduzione di T. Manga e A. Gramegna, Myricae, Milano 2011. 53 L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, cit., p. 61. 54 Ivi, p. 160. 55 Ivi, p. 425.

CAPITOLO QUINTO CLIFFORD GEERTZ. ERMENEUTICA E RELIGIONE Quanto è stato conquistato dalla riflessione sulla religione nella prima parte del Novecento (Weber, Durkheim, LévyBruhl) si approfondisce nell’incontro con le correnti filosofiche che provengono dalla fenomenologia husserliana e dall’ermeneutica di matrice heideggeriana e gadameriana. La traduzione del messaggio della antropologia classica nel linguaggio delle nuove correnti di filosofia della religione è opera dello studioso americano Clifford Geertz. La novità della sua impostazione problematica è che egli non limita l’ambito della religione alla sola esperienza che si può fare delle sue manifestazioni esteriori ma lo estende alla capacità di comprendere l’intricato sistema di simboli che l’uomo religioso produce. L’antropologo americano riconosce che non si può fare a meno dell’analisi “classica” del fenomeno religioso, quale si è articolata nella discussione che è stata qui condotta, anzi per comprendere oggi che cosa sia la religione bisogna partire proprio da lì: Il modo per fare tutto ciò non consiste nell’abbandonare le tradizioni stabilite dall’antropologia sociale in questo campo, ma nell’ampliarle. Almeno quattro dei contributi degli studiosi che, a mio dire, dominano il nostro pensiero fino al punto di renderlo provinciale mi sembrano punti di partenza inevitabili per qualunque teoria antropologica della religione. Questi sono: la discussione di Durkheim sulla natura del sacro, la metodologia weberiana del Verstehen, il parallelo di Freud tra i rituali personali e quelli collettivi, e le indagini di Malinowski circa la distinzione tra religione e senso comune.56

Egli esplicita questa posizione nel suo saggio Religion as a Cultural System del 1963, contenuto in The interpretation of cultures (1973). Non è possibile per Geertz, tuttavia, fermarsi all’impostazione data da Durkheim o da Weber, ma bisogna “porli in un contesto del pensiero contemporaneo molto più ampio di quello che essi da soli abbracciano”57, a confronto con le novità che l’ermeneutica fenomenologica offre allo studioso dell’esperienza religiosa, senza cadere però nel rischio di un approccio eccessivamente teoretizzante e che non tenga nel giusto conto i dati concreti di questa esperienza. Geertz mette al centro della vita religiosa l’universo culturale dei simboli, perché ogni religione non usa soltanto i simboli, ma vive in essi e di essi. La religione, così come ogni universo culturale, è un complesso insieme di simboli legati tra loro da connessioni, a volte sottili altre più evidenti, e interpretando le quali l’uomo vive e indirizza la sua esistenza quotidiana. È, quindi, sbagliato pensare che la condotta dell’uomo religioso sia una condotta non-razionale, guidata dall’istinto: l’uomo religioso si muove razionalmente interpretando i simboli che la tradizione religiosa gli presenta come particolarmente significativi e degni di rispetto. Non c’è nulla di irrazionale nel suo modo di agire, se non la consapevolezza di stare interpretando un insieme di simboli che egli si trova già a disposizione nel suo sistema culturale di riferimento. Le esperienze religiose vengono fissate nei simboli, rese tangibili attraverso la loro rappresentazione e messe così a disposizione per le generazioni successive. L’universo simbolico non ha nulla di soggettivo, personale o psicologico, in quanto il simbolo non è la proiezione di uno stato soggettivo, una configurazione illusoria dovuta a una particolare situazione mentale, ma un eidos, una forma con lo stesso statuto di realtà di una montagna innevata, dell’azzurro della superficie del mare o di quelle forme mostruose di pietra che adornano le cattedrali medievali.

Intraprendere, dice Geertz, lo studio dell’attività culturale – attività in cui il simbolismo forma il contenuto positivo – non è dunque abbandonare l’analisi sociale per una platonica caverna di ombre, entrare in un mondo mentalistico di psicologia introspettiva o, peggio, di filosofia speculativa e vagarvi per sempre in una nebbia di cognizioni, affetti, tentativi ed altre sfuggenti entità. Gli atti culturali, la costruzione, l’apprendimento e l’utilizzazione di forme simboliche sono avvenimenti sociali come qualsiasi altro: sono pubblici come il matrimonio, ed osservabili come l’agricoltura.58

I sistemi culturali di tipo religioso intrattengono una relazione tutta particolare con la realtà in cui si inseriscono. L’uomo forma sé stesso, la sua personalità così come le sue modalità di agire, proprio partendo da un sistema culturale di riferimento che presso alcune culture si configura esclusivamente come un sistema cultural-religioso. Proprio perché, ricorda Geertz, la dotazione genetica dell’uomo non offre una determinata predisposizione o condizionamento comportamentale, per cui non esistono comportamenti necessitati per dotazione genetica come accade per gli animali, l’uomo si trova nelle condizioni di apprendere la maggior parte della sua dimensione etica attraverso il proprio sistema culturale. La religione in quanto sistema culturale di simboli costituisce un modello di realtà, perché permette all’uomo di organizzare attraverso l’interpretazione dei simboli la realtà circostante. Essa crea la sua realtà perché ne definisce l’orizzonte di comprensibilità. Fuori di essa non c’è realtà propriamente detta. Per altro verso, è un modello per la realtà in quanto diventa il riferimento verso cui l’individuo torna sempre a guardare quando si trova in difficoltà, non sapendo come interpretare un fenomeno nuovo. La religione, quindi, in quanto sistema simbolico crea la realtà stessa e la dirige. Il riuscire a orientarsi dell’uomo in un universo simbolico o il non comprenderlo non è un evento secondario, che appaghi o meno il suo innato e romantico desiderio di conoscere, ma un fatto esistenziale, che riesce a precipitarlo nella più cupa disperazione:

l’uomo dipende dai simboli e dai sistemi simbolici con una dipendenza tanto grande da essere decisiva per la vita stessa di questa creatura e di conseguenza la sua sensibilità anche all’indicazione più remota che egli possa risultare incapace di affrontare questo o quell’aspetto dell’esistenza suscita in lui il tipo più grave di ansia.59

La sfida della ininterpretabilità del mondo è la sfida davanti a cui ogni religione a partire dalla più primitiva si trova: i limiti delle capacità umane di comprensione, di sopportazione e di sostenibilità morale sono i limiti contro cui la sensibilità religiosa si infrange e a cui è costretta a dare risposta. L’incomprensibilità, l’insostenibilità, l’irrealizzabilità etica sono sfide radicali difronte a cui la vita stessa è messa in pericolo e cui corrisponde attivando il suo sensus religionis. Per questa ragione, la sofferenza è uno dei temi ricorrenti in ogni religione, in quanto costituisce un’esperienza-limite, che mette in crisi non solo la capacità dell’uomo di sopportare le difficoltà crudeli con cui la realtà ostacola le sue azioni, ma la stessa capacità di comprensione, perché la sofferenza in quanto tale è incomprensibile. Dall’incomprensibilità nasce la sofferenza, si soffre perché non si comprende. La religione cerca di oltrepassare la sofferenza inserendola, come nel libro di Giobbe, in un orizzonte più ampio di comprensibilità. La sofferenza, uscendo dalla sua incomprensibilità, diventa sostenibile, tollerabile. L’esperienza religiosa è in tal senso un’esperienza eminentemente ermeneutica, in quanto nel suo raggio di attuazione, l’intera realtà si riempie di senso, diventa essa stessa significato: i simboli religiosi forniscono una garanzia cosmica della loro capacità non solo di comprendere il mondo, ma anche, comprendendolo, di dare esattezza ai loro sentimenti, una definizione delle loro emozioni che permetta loro di sopportarle in tristezza o allegria, in modo tetro o spavaldo.60

Attraverso il simbolo l’uomo religioso comprende il mondo e con quest’opera di comprensione crea i presupposti per poterlo sopportare, per subirlo in modo meno violento. È la sfida dell’insensatezza che cerca di superare, creando e interpretando i simboli religiosi. Essi costituiscono un universo parallelo, un universo con un grado di realtà superiore rispetto allo stesso universo creduto reale, un universo ordinato in cui l’insensatezza del modo riceve il suo significato e la sua ragione d’essere. Questo è il principale sforzo dell’uomo religioso che consiste nel trarre un significato dal caos in cui la sua vita si trova immersa e da cui è impossibile sfuggire senza fare riferimento a un bagaglio di simboli che le tradizioni nei secoli con fatica hanno creato. Il problema principale che si viene a creare riguarda il modo in cui questo universo simbolico parallelo viene vissuto e creduto come reale. Che cosa significa credere a un simbolo in modo ancora maggiore che a qualcosa che si incontra nella realtà? Di tutti i problemi, dice Clifford Geertz, che minano i nostri tentativi di un’analisi antropologica della religione, questo è stato forse il più imbarazzante e quindi il più spesso evitato, solitamente relegandolo nella psicologia, la spregevole dottrina a cui gli antropologi sociali affidano sempre i fenomeni che sono incapaci di trattare entro il contesto teorico di un durkheimismo snaturato.61

Non è questa, ricorda Geertz, una questione di psicologia ma di fenomenologia, sebbene egli preferisca usare l’espressione “prospettiva religiosa”62 invece di esperienza religiosa come si fa nel presente lavoro. Rimane in ogni caso il problema di come si possa considerare reale ciò di cui parla il simbolo, ma più in generale il simbolo stesso. Sostiene Geertz che “l’assioma che sta alla base di ogni credenza religiosa, indipendentemente dal contesto in cui si mostra, è che colui che vuole sapere deve prima credere”63. La credenza precede sempre il sapere, così come l’esperienza precede la conoscenza. Su questo architrave si fondano le religioni, perché l’esperienza è la modalità con cui

l’uomo incontra un contenuto religioso, che prima è vissuto e poi è conosciuto. Egli si imbatte in un contenuto che gli si oppone, estraneo, fuori dall’ordinario e in virtù del carattere spaesante di questo incontro cerca di comprenderlo, di abbracciarlo con le sue capacità interpretative. Così nasce il sapere religioso dell’esperienza. L’oggetto che viene saputo non è un semplice desiderio, che è trasformato in realtà da una mente primitiva e impaziente, ma l’oggetto di un incontro che è avvenuto all’interno dell’esistenza. Di questo incontro si può dire soltanto che sia avvenuto o non avvenuto, non si può dire che è vero o falso, perché appartiene alla dimensione fattuale, eventuale e non a quella metafisica. La fatticità decide dell’esistenza di un evento religioso, che rimane estraneo a considerazioni etiche o metafisiche. Allo stesso modo in cui un quadro, una poesia, una sinfonia, un affresco, sono oggetti al pari degli oggetti naturali, e nessuno direbbe mai che non hanno un’esistenza reale, così l’esperienza religiosa ha una realtà che non può essere messa in discussione; al massimo come per l’opera d’arte ci si può domandare se ciò che è raffigurato abbia una esistenza reale o no. C’è un’atmosfera di realtà, di realtà al massimo grado, che si respira quando entriamo all’interno del raggio di attuazione dell’esperienza religiosa, che Geertz riconosce dicendo che la prospettiva religiosa si basa su questo senso del realmente reale e le attività simboliche della religione come sistema culturale si dedicano a produrlo, intensificarlo e, fin dove è possibile, renderlo inviolabile dalle rivelazioni discordanti dell’esistenza laica. Un certo complesso specifico di simboli – la metafisica che formulano e lo stile di vita che raccomandano – viene impregnato di un’autorità persuasiva da un punto di vista analitico, questa è l’essenza dell’azione religiosa.64

Nel rituale secondo Geertz l’azione religiosa ottiene la sua più piena realizzazione perché in esso la spinta interiore al sacro e la sua manifestazione giungono a unirsi per dare vita a un evento sacro. Attraverso il rito si attua la fusione tra il mondo interiore del credente e la sua presenza nella realtà esterna.

Proprio per questo motivo il rituale religioso non potrà mai essere un automatico ripetersi di gesti e azioni, anche se si fonda sulla loro apparente ripetitività, perché il rito per poter essere tale deve essere “vissuto” dal credente, che ripetendo alcuni atti rivive un contenuto simbolico, una storia, un’esperienza passata (“se è veramente automatico o puramente convenzionale non è religioso”65). In tal senso va intesa anche la citazione di Santayana, che Geertz pone come esergo a Religion as a Cultural System, in cui sostiene che ogni religione viva e sana ha una spiccata caratteristica. Il suo potere consiste nel suo speciale e sorprendente messaggio e nella direzione che questa rivelazione imprime alla vita. Le prospettive che apre e i misteri che propone sono un altro mondo in cui vivere: e un altro mondo in cui vivere – sia che ci aspettiamo di entrarci interamente oppure no – è ciò che intendiamo con avere una religione (Santayana, La ragione nella religione).66

La religione nella sua articolazione rituale, ma più in generale in ogni autentica espressione dell’esperienza religiosa, non si limita a osservare un mondo, una realtà sociale o culturale, ma tende a crearlo, a immagine e somiglianza di ciò che l’uomo religioso ha vissuto interiormente. L’effettuazione del rito crea la realtà stessa del rito: l’evento rituale è un evento sacro e da tale sacertà deriva la sua realtà certissima. I fedeli che partecipano a un rito sono immersi nella sua realtà, partecipano in prima persona alle azioni che vengono narrate o ripetute, non lo guardano soltanto dall’esterno come se assistessero a una azione teatrale. Il linguaggio del rito è radicalmente performativo, creando con le parole i simboli e le realtà di cui narra. Il credente che vive nel rito sacro non condivide una ideologia religiosa o un insieme di concezioni teologicofilosofiche ma è spinto dall’esperienza che sta facendo ad accettare, ad aprirsi a quanto sta vivendo. Da questa esperienza, che può avere un grado minore o maggiore di coinvolgimento, il credente è portato ad adottare uno stile di vita che sia coerente con quanto ha vissuto in quella esperienza e ad adottare delle

credenze a essa corrispondenti. In ogni caso, l’aspetto etico e ideologico è soltanto una conseguenza e non una causa dell’esperienza religiosa. Tra le conseguenze dell’aver vissuto un’esperienza religiosa c’è indubbiamente il desiderio di trasformare il mondo circostante, la società, di dargli un significato, un volto religioso. In questo carattere consiste secondo l’interpretazione di Geertz l’aspetto socialmente, pubblicamente, interessante del fenomeno religioso: La religione è sociologicamente interessante non perché, come direbbe il volgare positivismo, descrive l’ordine sociale (il che avviene, nella misura in cui avviene, non solo molto indirettamente, ma anche in modo molto incompleto), ma perché, allo stesso modo dell’ambiente, il potere politico, la ricchezza, l’obbligazione giuridica, l’affetto personale e il sentimento della bellezza, dà ad esso una forma.67

Certamente, c’è una differenza sostanziale tra l’esperienza religiosa vissuta e il tentativo di portare quell’esperienza all’interno del tessuto sociale e quotidiano in cui l’uomo vive. Da contesti completamente religiosi, come nelle società primitive, a quelli odierni del tutto secolarizzati, l’homo religiosus vive questo contrasto, che è l’oscillazione di un pendolo, che di continuo va dal ricordo dell’esperienza religiosa che si è vissuta alle necessità della vita civile. Il non aver compreso questa oscillazione di sacro e profano all’interno della vita religiosa è alla base di molte delle contraddizioni, che a giudizio di Geertz ancora permangono nell’opera di Lévy-Bruhl o di Malinowski. Nell’uno come nell’altro l’uomo religioso vive o soltanto di incontri mistici (Lévy-Bruhl) o soltanto di azioni pratiche (Malinowski), rinchiudendosi in un mondo o iperreligioso o ipersecolarizzato. In entrambe le situazioni non si rende ragione della complessità della vita, se non si considera la labilità dell’esperienza religiosa, che non può essere che trattenuta a momenti e con difficoltà consolidata. La vita religiosa ha un carattere labile,

disomogeneo, frammentato e chi volesse ridurla a un continuum stabile non farebbe che immobilizzarla in un istante eterno che appartiene più alle esigenze della ragione che all’andamento dell’esistenza. Lo ha mostrato Kierkegaard, profondo conoscitore dell’esistenza religiosa, quando ha definito il ritmo dell’esperienza religiosa come un succedersi abissale di salti, di fratture, di crepacci, composto di molteplici e irriducibili istanti68. Se si vuole comprendere la vita religiosa, bisogna da subito abbandonare l’idea che sia possibile darle una configurazione definitiva e uguale in ogni contesto, in quanto l’unico modo di comprenderla è osservarla nella sua costante labilità, nella sua intermittenza, nelle sue contraddizioni e nella sua dialettica insanabile: una dialettica negativa, per dirla con Adorno e con Theunissen69, in cui i vari momenti non sono mai dialettizzabili, riducibili a una unità definitiva. Difficile è oggi la posizione di chi si accosta in modo comprendente al fenomeno religioso. Vale la pena a questo proposito ricordare le parole di Geertz: Uno dei principali problemi metodologici quando si scrive scientificamente della religione è di mettere subito da parte il tono dell’ateo del villaggio e quello del predicatore del villaggio, come pure i loro equivalenti più sofisticati, così che possano emergere in una luce chiara e neutrale le implicazioni sociali e psicologiche delle particolari credenze religiose.70

Nel nostro paese al tono frequente del predicatore del villaggio si è affiancato negli ultimi anni quello dell’ateo del villaggio, creando un ambiente solo raramente favorevole a un serio approfondimento del fenomeno religioso dal punto di vista fenomenologico ed ermeneutico. In questo contesto si è cercato di definire tramite una analisi fenomenologico-comprendente della religione che cosa sia la religione a partire dal modo in cui si mostra: l’esperienza, le azioni motivate religiosamente, il rito, la liturgia, la visione religiosa della natura. Lo si è fatto con l’ausilio dei principali

studiosi moderni del fenomeno religioso: Weber, Durkheim, Lévy-Bruhl e in tempi più recenti Clifford Geertz. Cerchiamo ora di fissare alcuni punti fermi che sono stati raggiunti nella nostra analisi. Per farlo ci serviamo ancora una volta dell’aiuto di Clifford Geertz; ecco come l’antropologo americano definisce la religione: Senza altri preamboli, una religione allora è: 1) un sistema di simboli che agisce 2) stabilendo profondi, diffusi e durevoli stati d’animo e motivazioni negli uomini per mezzo della 3) formulazione di concetti di un ordine generale dell’esistenza e del 4) rivestimento di questi concetti con un’aura di concretezza tale che 5) gli stati d’animo e le motivazioni sembrano assolutamente realistici.71

Questa definizione di Geertz può essere accolta per definire che cosa sia la religione, anche se risente forse eccessivamente dell’influenza dell’ermeneutica filosofica di matrice gadameriana, che privilegia la dimensione linguistica del fatto religioso rispetto a quella faktisch, fattizia. Potrebbe, infatti, essere così riformulata e resa più coerente con l’aspetto concreto dell’esperienza religiosa: La religione è 1. l’attuazione (Vollzug) di un’esperienza di vita (Lebenserfahrung) in cui 2. l’oggetto (Sache) di cui si fa esperienza è vissuto come realissimo, dotato di una vita propria e autonoma, proveniente da una dimensione esterna alla vita quotidiana, e si esprime 3. attraverso simboli, riti, liturgie e genera 4. una concettualità (Begrifflichkeit) e in seguito una cultura e una tradizione religiosa.

Una simile definizione vuole mettere in luce alcuni degli aspetti più significativi del fenomeno religioso. Anzitutto, la religione ha a che fare principalmente con l’esperienza. Essa è un incontro con un contenuto di cui si fa esperienza all’interno di un contesto esistenziale. La religione nasce e muove i suoi primi passi nel Selbstwelt, nel mondo del sé. Non esiste una religione vissuta e compresa che non venga prima sentita in interiore homine. Per questa ragione la religione mantiene sempre un legame particolare con il sé, perché è lì che

l’esperienza abbandona i panni della quotidianità per essere vissuta in modo accentuato. L’accentuazione della vita “fattizia” nel mondo del sé (die Zugespitztheit des faktischen Leben in der Selbstwelt)72 è il nome stesso della religione. Essa, tuttavia, non rimane nascosta, confinata nel mondo del sé, perché possiede una innata tendenza a uscire da sé per influenzare con la sua peculiare ritmica il mondo circostante. L’esperienza religiosa deriva, quindi, dall’interiorità ma non rimane confinata in essa, perché trasmette la sua presenza agli altri con cui l’individuo vive e in virtù di questa trasmissione cerca anche di modellare, la realtà fisica e umana, in coerenza con quell’esperienza stessa. Nel momento in cui l’esperienza religiosa esce dall’interiorità e si propone al mondo circostante dà ragione di sé stessa, mostrando come l’esperienza interiore non abbia un carattere personale e intimistico, radicalmente soggettivo, ma sia un’esperienza universale, perché ciò che è stato esperito non è qualcosa di pensato o sperato ma di reale. L’esperienza religiosa mostra di essere un’esperienza reale perché reale, e non soltanto immaginato e supposto, è l’oggetto che ha incontrato; non solo l’oggetto, la cosa incontrata mostra di essere reale ma realissima. Da questo eccesso di realtà deriva il carattere sconvolgente e allo stesso tempo attraente di questa esperienza. Essa è l’esperienza non di un contenuto reale tra gli altri, ma di un contenuto realissimo, tanto che tutto quello che di reale si è vissuto fino ad allora piomba in un attimo nell’irrealtà ed emerge quell’unicum come l’Unicum Reale. La certezza di questa realtà al massimo grado è ciò che dà alla religione la sua infinita forza propulsiva presso le culture e le tradizioni religiose più varie e disparate. La religione si propaga con rapidità, perché testimonia di qualcosa di realissimo che esiste all’interno dell’esistenza di alcuni individui e chiede di essere testimoniato, comunicato. A questo livello nasce l’ideologia e la cultura religiosa. Essa non è un primum (esperienza), e neppure un secundum (il rito),

ma un tertium nella fede religiosa, perché è il tentativo di creare un sostrato ideologico che possa consolidare la labilità dell’esperienza religiosa del reale. Infatti, sebbene l’esperienza religiosa possegga una forza terribile di diffusione, è costitutivamente labile, come ogni esperienza, e quindi sempre in pericolo di essere dimenticata e perciò va rafforzata nel ricordo. L’ideologia religiosa con i suoi dogmi, racconti, miti, memorie sacre ha la funzione di rafforzare l’esperienza religiosa, ricordandola e facendo tornare il credente al momento in cui l’ha incontrata, l’ha vissuta per la prima volta. L’orizzonte simbolico di cui ogni religione è particolarmente ricca assolve la funzione di mettere in opera, ins Werk setzen73, un’esperienza e in tal modo di consolidarla, di renderla durevole. Ogni simbolo religioso è il simbolo di un’esperienza religiosa, cerca di consolidarla, al fine di renderla fruibile per chi verrà dopo. La cultura religiosa è il frutto di questo disperato desiderio di consolidare un’esperienza che per sua natura è quanto di più labile ci sia. La lotta contro l’oblio è la sfida davanti a cui è posta ogni religione, tesa tra la necessità di ripetere e consolidare l’attimo kierkegaardiano di una irripetibile esperienza religiosa e il rischio di creare un sistema, una imponente e rassicurante struttura religiosa, dentro la quale ormai non è più riservato nessuno spazio alla dimensione originaria e “vissuta” della religione. 56 C. Geertz, La religione come sistema culturale, in Interpretazione di culture, traduzione di E. Bona, il Mulino, Bologna 1987, p. 140. Sulla complessa eredità della sociologia della religione di Clifford Geertz si vedano: R. Malighetti, Il filosofo e il confessore. Antropologia e ermeneutica in Clifford Geertz, Unicopli, Milano 1991; D. L. Pals, Seven theories of religion, Oxford University Press, New York 1996; S. B. Ortner (a cura di), The fate of culture. Geertz and beyond, University of California Press, Berkeley 1999; F. Inglis, Clifford Geertz. Culture, custom and ethics, Polity, Cambridge 2000; L. Cimmino, A. Santambrogio (a cura di), Antropologia e interpretazione. Il contributo di Clifford Geertz alle scienze sociali, Morlacchi, Perugia 2004; R. Malighetti, Clifford Geertz. Il lavoro

dell’antropologo, UTET università, Torino 2008; J. C. Alexander, P. Smith, M. Norton (a cura di), Interpreting Clifford Geertz. Cultural investigation in the social sciences, Palgrave MacMillan, New York 2011; D. Xygalatas, W. W. McCorkle Jr. (a cura di), Mental culture. Classical social theory and the cognitive science of religion, Acumen Publishing, Durham 2013; B. Baratto, Slipping into the “really real”. Per un’antropologia del rito in Clifford Geertz, prefazione di A. N. Terrin, Edizioni Messaggero, Padova 2015. 57 C. Geertz, La religione come sistema culturale, cit., p. 140. 58 Ivi, p. 144. 59 Ivi, p. 154. 60 Ivi, p. 159. 61 Ivi, p. 165. 62 Si veda ivi, nota 35, p. 166: “Il termine atteggiamento usato come atteggiamento estetico o atteggiamento naturale è un altro termine forse più comune, che avrei qui usato al posto di prospettiva. […] Ma l’ho evitato a causa delle sue forti connotazioni soggettivistiche, della sua tendenza a porre l’accento su un presunto stato interiore di un attore invece che su un certo tipo di rapporto – mediato simbolicamente – tra un attore ed una situazione. Questo non vuol dire, naturalmente, che un’analisi fenomenologica dell’esperienza religiosa, se espressa in termini intersoggettivi, non trascendentali, veramente scientifici […] non sia essenziale per una piena comprensione della credenza religiosa, ma semplicemente che non è qui il centro del mio interesse. Concezione, struttura di riferimento, forma mentale, orientamento, presa di posizione, assetto mentale e via dicendo sono altri termini talvolta impiegati, a seconda se l’analisi voglia mettere in rilievo gli aspetti sociali, psicologici o culturali del problema”. 63 Ivi, p. 166. 64 Ivi, p. 169. 65 Ibidem. 66 G. Santayana, La ragione nella religione (1906), citato in C. Geertz, La religione come sistema culturale, cit., p. 111. 67 Ivi, p. 177. 68 S. Kierkegaard, Le grandi opere filosofiche e teologiche, a cura di C. Fabro, Bompiani, Milano 2013. 69 T. W. Adorno, Dialettica negativa, a cura di S. Petrucciani, traduzione di P. Lauro, Einaudi, Torino 2004; M. Theunissen, Negative Theologie der Zeit, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1991; M. Theunissen, Das Selbst auf dem Grund der Verzweiflung, Hain, Frankfurt am Main 1991; M.

Theunissen, Der Begriff Verzweiflung: Korrekturen an Kierkegaard, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1993. 70 C. Geertz, La religione come sistema culturale, cit., pp. 181-182. 71 Ivi, p. 143. 72 M. Heidegger, Grundprobleme der Phänomenologie (Ws 1919/20), vol. 59, cit., p. 59: “[Ndr. La vita fattizia è tale che] può essere vissuta, esperita, ed in modo corrispondente anche storicamente compresa nel mondo del sé con una particolare accentuazione”. 73 M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 61, 68-69.

PARTE SECONDA ETICA, RELIGIONE E SOCIETÀ

CAPITOLO SESTO CASANOVA. IL RITORNO DEL RELIGIOSO E LA DESECOLARIZZAZIONE Per interrogarsi oggi sul ruolo della religione nella sfera pubblica bisogna riferirsi a una molteplicità di competenze, dalla filosofia della religione alla sociologia, dalla storia delle credenze religiose alla psicologia collettiva. Da alcuni decenni gli studiosi e gli specialisti di filosofia e sociologia della religione si interrogano sulle modalità con cui la religione, che sembrava un bagaglio culturale che l’umanità doveva abbandonare sul cammino della storia, ritorna da protagonista sulla scena pubblica, facendo sentire la propria influenza sulle persone e sulla politica non solo in vaste aree del terzo mondo, ma perfino nelle zone più avanzate del mondo, in America del Nord e in Europa. Ciò ha richiesto da parte dei filosofi un rapido riassetto dei propri presupposti culturali, di cui il caso emblematico è stato in Germania il filosofo laico Habermas (ma anche Derrida in Francia e Vattimo, Cacciari, Agamben in Italia), e come non ricordare il rilievo che hanno assunto negli ultimi anni autori come Taylor, Böckenförde, Girard e Assmann. È opportuno domandarsi qual è l’aspetto della religione che ritorna dopo la fine delle ideologie? Se ci si aspettava per molto tempo una religione “debole” che si confondesse con le altre religioni orientali (tipo il new age) o una religione che si riducesse all’impegno sociale e civile, così non è stato, la religione che ritorna è una religione “minoritaria”, non più forse appannaggio delle grandi masse, ma conscia del suo passato, rivolta al trascendente e radicata nei propri presupposti teologici

e dottrinali. Essa ritorna con lo stesso aspetto che aveva quando ci aveva “lasciati” ma soltanto più sicura di sé, tanto più pubblica, quanto più mistica, vissuta, esperienziale. Dopo la fine delle ideologie è con questa complessa forma di religione “pubblica”, attraversata dai molteplici movimenti, nelle sue diverse articolazioni ecclesiastiche e confessionali che oggi dobbiamo fare i conti in Occidente. Naturalmente, il maggiore rischio che una simile religione porta con sé è la pretesa che avanza di determinare da sola il contesto culturale in cui si inserisce, il desiderio di divenire l’unico soggetto legittimato ad avanzare proposte valoriali e collettive. Questa pretesa è nota come fondamentalismo e si sviluppa in molteplici forme a seconda del contesto confessionale, geografico, storico in cui si sviluppa e che pretende di determinare. Tuttavia, il rischio del fondamentalismo è ormai in ambito cristiano, sia cattolico (dopo il Concilio Vaticano II) sia protestante, un ricordo del passato, destinato a ristrette minoranze, che si collocano per loro stessa volontà ai margini dello sviluppo culturale e sociale dei principali paesi occidentali. È opportuno in ogni caso, come sostiene Habermas, che la ragione “collettiva”, che appartiene alla pubblica opinione, operi con continuità e in modo vigile, affinché siano evitati i pericoli insisti nel ritorno di pretese fondamentaliste e monopoliste. Questo controllo critico è necessario che sia svolto anche dalla ragione “religiosa” all’interno dei propri ambiti di pertinenza confessionali. Il ritorno del fondamentalismo danneggia, infatti, primariamente proprio quelle comunità religiose che vogliono prendere parte al confronto politico per cercare di influenzare in modo democratico il progresso politico e culturale. Le minoranze “fondamentaliste” attirano spesso a ragione l’ostilità di ampi settori della collettività pubblica, che inevitabilmente si riversa anche su chi all’interno dell’universo religioso cerca di partecipare in modo costruttivo al dibattito collettivo.

Oggi si mostra che la capacità che la religione ha di influire sulle scelte collettive le deriva dalla possibilità di prospettare una dimensione “altra” dal punto di vista veritativo, che non può che determinare l’insieme delle scelte etiche e personali. L’alterità dell’etica “religiosa”, che proviene dalla alterità della sua concezione antropologica, costituisce la novità con cui il mondo contemporaneo si trova a fare i conti all’interno di contesti pubblici per altri versi ampiamente secolarizzati. È proprio l’idea della religione come riserva “etica” che oggi si impone all’attenzione della società e dei suoi interpreti. Le visioni del mondo, e in questo caso la religione cristiana, possono svolgere un ruolo positivo e propositivo nella sfera pubblica, come “possibilità” di elaborazione di nuovi valori politici nell’orizzonte della libertà delle democrazie occidentali, al di là di quei tentativi, ancora troppo moderni e illuministi, di relegare le visioni del mondo nella sfera privata secondo l’uso dei paesi anglosassoni. Una simile prospettiva nasce dalla constatazione che uno Stato in cui le visioni del mondo non abbiano pieno di diritto di cittadinanza nell’agone pubblico, ma siano relegate all’ambito privatistico, non è uno stato più ricco e democratico ma uno stato più povero: più povero di idee, più povero di ragioni di convivenza, più povero di democrazia. È possibile qui accennare solo un tema che proviene dall’eredità cristiana, ma decisivo: la libertà. La religione ha vissuto di questa libertà ma allo stesso tempo ha contribuito in modo decisivo alla autodeterminazione dello stato moderno come stato “di libertà”. C’è una duplicità di rapporti con la religione che è alla base della costituzione dello stato democratico. La nascita dello stato laico moderno permette il riconoscimento e la tutela della libertà religiosa, ma allo stesso tempo la libertà religiosa consente allo stato moderno di costituirsi come uno stato liberale che tutela non solo la libertà religiosa ma tutte le libertà. Dalla separazione “secolarizzante” della fede cristiana dal potere dello stato nasce la possibilità di

considerare la libertà come un bene “comune” della società civile che in quanto tale va conservato e difeso indipendentemente dal conflitto delle rispettive visioni del mondo. Come a ragione ha osservato Böckenförde, è possibile sostenere che “la misura della realizzazione della libertà religiosa designa pertanto la misura della laicità dello stato”74. Tanto più lo stato è “secolarizzato”, afferma il costituzionalista tedesco, tanto più c’è l’opportunità per la religione, così come per le altre visioni del mondo, di confrontarsi sulle questioni della convivenza civile e del bene collettivo. La misura della laicità dello stato non è fornita dalla misura del “nascondimento”, dell’”occultamento privato” delle visioni del mondo, ma al contrario dalla capacità di uno stato di lasciarsi liberamente “ispirare” dalle rispettive visioni del mondo, dall’utilizzare le visioni del mondo come una “risorsa” nel quadro di uno stato che garantisca a tutte le visioni del mondo le stesse condizioni di libertà. C’è la consapevolezza che discutere oggi del ruolo della religione nella società significa confrontarsi con uno dei aspetti più rischiosi per la civile convivenza delle società democratiche, ma anche con la chance irripetibile di dare un volto più umano, più spirituale, più evoluto a una società ormai sempre più dominata dal violento arbitrarismo di una libertà “senza anima”. Per comprendere il ruolo della religione nella società contemporanea bisogna operare inizialmente alcune significative distinzioni. Non è possibile trattare questa questione in generale perché tante, troppe sono le differenze tra paese e paese. È necessario notare che quando parliamo del ruolo della religione nella società ci riferiamo alla società occidentale europea e nordamericana, quale si è venuta articolando a cavallo del Nuovo Millennio. Verso la fine del Novecento si è attuata una frattura epistemologica che ha influenzato in modo deciso la discussione della religione nella

contemporaneità. Due tipi di questioni che avevano caratterizzato il secolo scorso (in particolare negli anni Sessanta-Settanta-Ottanta) erano venute meno, una questione politica e una questione religiosa. La questione politica si basava sull’interpretazione idealista ed hegeliana della religione come residuo di un precedente grado di sviluppo della civiltà occidentale che il trionfo della razionalità tecnica era destinato a spazzare via. I movimenti marxisti e postmarxisti, così come neostoricisti e strutturalisti, erano convinti che la religione fosse destinata a essere prima o poi “smascherata” dall’attività demitizzante della ragione; la sua sopravvivenza era solo una questione di tempo. Anche in ambito religioso sulla scia della teologia bultmanniana e dell’esegesi critica si iniziò a pensare che la pretesa di verità della fede fosse limitata al suo ambito storico di pertinenza. Non si trattava più di rivendicare la propria pretesa di verità religiosa, di universalità ma di sciogliere le pretese veritative cristiane nel tessuto della società con il compito di “fecondarla” e vivificarla. Nascono perciò una grande quantità di tentativi sia da parte della Chiesa Cattolica sia dei cattolici laici di confrontarsi con il mondo secolarizzato, cercando di comprenderne le ragioni e anticiparne gli sviluppi. Una nuova fase nella comprensione della modernità si era aperta da parte di una realtà ecclesiale disposta al confronto anche rischioso con il mondo secolarizzato del proprio tempo. In questa direzione sono state spese le migliori risorse intellettuali del mondo cattolico, in Italia e in Europa, alla ricerca di un confronto possibile con il fenomeno della secolarizzazione, nella consapevolezza che più la fede religiosa si fosse “secolarizzata”, purificata da elementi “mitici” meglio avrebbe potuto parlare agli uomini del proprio tempo. Entrambe queste visioni del mondo, la visione del mondo politica e quella religiosa, sono crollate sotto i colpi di una improvvisa evoluzione della globalizzazione, che ha nello stesso

tempo accelerato i processi sociali e culturali che erano latenti, ampliando l’orizzonte del mondo attraverso una più rapida circolazione di merci e persone e portando alla ribalta una miriade di rivendicazioni particolari e nazionali non ancora del tutto “secolarizzate” e modernizzate. L’idea che il mondo si andava “indebolendo” e risolvendo in alcuni grandi valori universali come la libertà, la democrazia, la non-violenza è stata smentita da una realtà sempre meno democratica, sempre più particolare e violenta. Perfino nel cuore della progredita Europa le terribili vicende etniche e religiose nella Ex-Jugoslavia, e in seguito il minaccioso diffondersi del radicalismo islamico, ha una volta per tutte messo fine alla reverie di chi pensava un giorno un mondo del tutto affrancato da ogni appartenenza etnica, religiosa, “naturale”. Con questa nuova realtà ha dovuto confrontarsi il pensiero contemporaneo, che è stato costretto a mutare rapidamente e in modo radicale i propri presupposti e schemi interpretativi pena il rimanere legati a un mondo “idealizzato” che ormai non esisteva più (e che forse era esistito solo nella sua idealizzazione posthegeliana). Dal tentativo di mettere in discussione questi due paradigmi, politico e religioso, nasce la possibilità di comprendere una realtà inaspettata, che non rientra più negli schemi e nei paradigmi già disponibili a livello filosofico e storico-culturale. Per comprendere questa nuova realtà è necessario impegnarsi a fondo nell’appropriazione ermeneutica dei propri presupposti di comprensione, in cui non è più la realtà a doversi adeguare ai nostri desideri di emancipazione, di liberazione, ma la nostra capacità di comprensione a dover superare faticosamente la resistenza, l’irriducibilità della realtà. Certamente oggi è possibile tornare a interrogarsi sull’attualità della religione dopo molti decenni in cui anche nel dibattito filosofico la religione era stata considerata come irrilevante75. Ciò a cui si è assistito negli ultimi anni è, come afferma José Casanova,

il ritorno a nuova vita e l’assunzione di ruoli pubblici da parte di quelle tradizioni religiose che tanto le teorie della secolarizzazione quanto quelle del risveglio religioso ritenevano destinate ad assumere un ruolo sempre più marginale e irrilevante nel mondo moderno.76

Questo complesso fenomeno è stato definito dallo stesso Casanova come “deprivatizzazione della fede”77, in quanto indica la nascita di una serie di processi storici, culturali e religiosi che provocano una inversione di marcia rispetto alla tendenza che si era sviluppata a partire dalla seconda metà del secolo scorso di una privatizzazione, “protestantizzazione”, della fede cristiana. La riconquista della sfera pubblica è la nuova frontiera di espressione della religione, tanto che ormai sembra illusorio volere ricondurre la religione nei limiti della sfera dell’interiorità. Le religioni oggi lottano per ridefinire l’ambito stesso di distinzione del privato dal pubblico, rivendicando a sé stesse la partecipazione alla ridefinizione di quei criteri del dialogo pubblico che finora la ragione aveva voluto determinare in modo esclusivo. I punti di partenza dell’analisi sul ritorno della religione sono perciò due (J. Casanova) e vanno tenuti presenti come la presa d’atto di una situazione storica di fondo in cui si svolge oggi la rinascita della religione di là da ogni considerazione di tipo valutativo (assiomi del ritorno della religione). Anzitutto, (1.) la religione come credenza (e non solo come deposito di “valori” storici) a dispetto di tanti sogni forti e “deboli” accarezzati dall’illuminismo, dal socialismo, dal nichilismo “politico” e valoriale di destra e di sinistra, di metterla da parte come un residuo del passato o di confinarla nell’ambito della libera attività “creativa” personale, essa è oggi ben salda e viva nella sfera pubblica sotto la forma dell’attivismo dei movimenti ecclesiali, del desiderio della Chiesa di far conoscere il proprio progetto culturale, della presenza delle “nuove” religioni dei migranti di provenienza cristiana o delle altre religioni (Islam, religioni orientali, ecc.). L’altro aspetto (2.) ci dice che il ruolo

nella sfera pubblica che le religioni si sono ritagliate e stanno svolgendo ormai da diversi anni non è destinato a essere passeggero e di poco conto ma a divenire strutturale e a intensificarsi, soprattutto in conseguenza delle migrazioni dai paesi del Terzo Mondo di cultura islamica e orientale. In questo senso è l’intero processo di secolarizzazione, e in generale il rapporto tra la modernità e la religione, che deve essere profondamente ripensato. Ciò che la filosofia e la sociologia della religione si trovano in condizione di elaborare è un nuovo modello di secolarizzazione, o meglio di desecolarizzazione, in cui la religione arricchisce il dibattito della sfera pubblica di nuovi stimoli e istanze valoriali e allo stesso tempo la sfera pubblica non si afferma riducendo la pretesa altrui di esprimere il proprio punto di vista (laicità negativa), ma accogliendo e regolando il dibattito tra le molteplici visioni del mondo culturali e religiose (laicità positiva). 74 E.-W. Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2006, p. 61. 75 Si vedano M. Douglas, The Effects of Modernization on Religious Change, in Religion and America. Spirituality in a Secular Age, a cura di M. Douglas e S. M. Tipton, Beacon Press, Boston 1982, pp. 25-42; P. E. Hammond (a cura di), The Sacred in a Post-Secular Age, University of California Press, Berkeley 1985; G. M. Thomas, Revivalism and Cultural Change, University of Chicago Press, Chicago, 1989; K. Dobbelaere, Oltre la secolarizzazione, in La religione degli europei, vol. 2: Un dibattito su religione e modernità nell’Europa di fine secolo, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1993, pp. 109-130; P. Berger (a cura di), The Desecularization of the World. Resurgent Religion and World Politics, W. B. Eerdmans, Grand Rapids, 1999; P. L. Berger, Secularism in Retreat, in “The National Interest”, n. 46 (1996), pp. 3-12; F. Lambert, Inventing the “Great Awakening”, Princeton University Press, Princeton, 1999; G. E. Rusconi, Possiamo fare a meno di una religione civile?, Laterza, Roma-Bari 1999; S. Abbruzzese, Il posto del sacro, in La via italiana alla post-modernità. Verso una nuova architettura dei valori, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 397-455; G. Davie, Religion in Modern

Europe. A Memory Mutates, Oxford University Press, Oxford 2000; F. Garelli, G. Guizzardi, E. Pace (a cura di), Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso in Italia, Il Mulino, Bologna 2003; R. Stark – M. Introvigne, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente, Piemme, Casale Monferrato 2003. 76 J. Casanova, Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista della sfera pubblica, traduzione di M. Pisati, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 1011. 77 Ivi, p. 11: “La tesi centrale di questo studio è che stiamo assistendo a un processo di deprivatizzazione della religione nel mondo moderno. Con il termine deprivatizzazione mi riferisco al fatto che le tradizioni religiose di tutto il mondo rifiutano di accettare il ruolo marginale e privatizzato che le teorie della secolarizzazione e della modernità avevano riservato loro. […] Uno dei risultati di questa contestazione è un duplice processo di ripoliticizzazione della sfera morale e religiosa privata e di rinormativizzazione della sfera politica ed economica pubblica”. Si veda anche ivi, pp. 379-415 (Parte III, Cap. 8: “La deprivatizzazione della religione moderna”).

CAPITOLO SETTIMO BÖCKENFÖRDE. LO STATO MODERNO E I SUOI PRESUPPOSTI RELIGIOSI. LA RELIGIONE COME MOTIVATORE ETICO Per poter comprendere l’attuale condizione di sviluppo della secolarizzazione bisogna portare la diagnosi in fondo nelle articolazioni del rapporto della fede con la società europea negli ultimi secoli. Dal modo in cui si interpreta la secolarizzazione si potrà comprendere l’attuale situazione dei rapporti tra la religione e la società contemporanea. Tra i diversi modelli di comprensione della secolarizzazione quello che aiuta maggiormente a interpretare l’attuale condizione di desecolarizzazione e di rinascita della religione è il modello di E. W. Böckenförde, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation und Utopie, 1967. Secondo il costituzionalista tedesco lo Stato moderno non è una formazione dello spirito assoluto, una necessità naturale che si è realizzata nel tempo, ma la conseguenza di una serie di processi storici e culturali che hanno riguardato essenzialmente il modo in cui la religione cristiana si è rapportata al potere politico a partire dal Basso Medioevo. La novità dell’interpretazione di Böckenförde78 sta nell’aver considerato la secolarizzazione non più solo come un fenomeno moderno79 che si è sviluppato a partire dalla consapevolezza dell’autonomia della dimensione spirituale e teologica da quella politica, ma a partire dalla lotta per le investiture (1057-1122), in cui l’Impero e la Chiesa si interrogarono in modo radicale sull’ordinamento da dare alla cristianità occidentale. Prima di essa l’Impero e la Chiesa si distinguevano come due funzioni della medesima ecclesia: la

res publica christiana viveva un’inscindibile unità di potere religioso e politico, in cui l’imperatore e il papa erano le espressioni massime di un potere sacrale e religioso insieme. La fede alto-medioevale non era l’atto spontaneo di un singolo individuo, frutto dell’intima e personale persuasione, ma “un vincolo di fiducia politico-religioso e al tempo stesso giuridico nei confronti di Cristo, il potente Re-Dio”80. In questa fede non c’era alcuna separazione di interno ed esterno, temporale e religioso, personale e pubblico. La scienza teologica di matrice monastica intorno all’anno Mille iniziò, tuttavia, a rivendicare per sé l’intera dimensione dello spirituale, a non voler più dividere l’unità dell’ecclesia. L’imperatore perse il suo aspetto spirituale e venne confinato nel suo potere temporale. Egli non era più un uomo inviato da Dio e benedetto nel suo potere ma un laico che rivestiva legittimamente un potere che gli era stato dato da Dio e che in quanto tale, come tutti gli altri credenti, sottostava al potere spirituale della Chiesa. Nessun potere temporale poteva in nessun modo limitare o arginare l’azione della Chiesa, sia in campo pubblico sia in campo privato, poiché essa non intendeva più sottostare ad alcun potere temporale81. Quando l’imperatore e il suo impero temporale furono espulsi dalla sfera sacrale e religiosa, inizia il lungo processo della secolarizzazione, per cui la sfera religiosa si emancipa dal potere politico e temporale e a sua volta il potere politico non deve più ricorrere al potere spirituale per ottenere la sua legittimazione, che si fonda ormai solo dal punto di vista naturale (nasce così il giusnaturalismo). La prima fase della secolarizzazione si conclude per Böckenförde con la divisione del potere imperiale dal potere religioso e con la sottomissione del potere temporale all’autorità spirituale del potere religioso. Tuttavia, un evento “nuovo” stravolge la pacifica convivenza di stato e fede religiosa nell’Europa occidentale premoderna. La rottura dell’unità religiosa occidentale e le guerre

“confessionali” del Cinquecento e del Seicento cambiano in modo irreversibile, soprattutto nel Nord Europa, il volto delle relazioni tra religione e Stato. Nel corso delle guerre religiose che lacerarono l’Europa del Nord lo Stato si vide costretto a ergersi al di sopra del potere spirituale per poter “mediare” tra le richieste delle diverse confessioni contrapposte. Il re diventa un’istanza neutrale rispetto alle parti in lotta che ha il compito di riportare la pace tra le fazioni. La verità della religione in quanto tale non è più oggetto del potere statale che si disinteressa dei contenuti religiosi e li lascia all’adesione individuale e “privata” dei cittadini. La religione non è più garantita in virtù del proprio contenuto veritativo (de iure) ma in quanto una tra le tante istanze “veritative” che de facto sono presenti sul territorio di uno stato. Il pericolo delle guerre di religione è così disinnescato, rimosso in maniera definitiva. Lo Stato perde però la possibilità di riferirsi a una riserva etica, a un contenuto di verità che trascenda lo scontro tra le diverse visioni del mondo. L’indifferentismo “etico”, il neutralismo valoriale, si impadronisce dello Stato moderno, in cui la pace si pone al di sopra di ogni ricerca veritativa e diventa l’unico valore perseguibile in modo legittimo. La pace universale come assenza di ogni rivendicazione veritativa di parte diventa l’unico valore/non-valore che lo Stato liberale moderno possa permettersi senza scatenare una pericolosa guerra di visioni religiose del mondo. Il merito della teologia politica di Böckenförde consiste nell’aver compreso la principale aporia della secolarizzazione che, nel momento in cui crea un’opportunità di dialogo e tolleranza tra le diverse comunità che compongono lo Stato, contemporaneamente crea un vuoto “valoriale” da cui diventa difficilissimo uscire e in cui la comunità politica rimane come intrappolata, bloccata. Böckenförde dà a questa aporia una formulazione che è poi divenuta famosa con il nome di dilemma di Böckenförde: “Lo Stato liberale secolarizzato vive di

presupposti che non può garantire”82. La situazione in cui si trova lo Stato liberale moderno è piuttosto complessa, aporetica perché è tesa continuamente tra la necessità di dare sostanza al proprio indifferentismo etico, senza il quale il senso di appartenenza e di adesione allo Stato si impoverisce e si sfalda, e il pericolo del ritorno a uno Stato “etico” (di cui il nazismo e il socialismo “reale” sono gli ultimi esempi in ordine di tempo) e perciò non liberale. Per un verso, lo Stato ha necessità di sostenere la libertà che propugna in modo non semplicemente formale, di cercare una adesione convinta e vissuta al suo principio di libertà che da solo l’ideale della neutralità, o di una neutralità laica, non riesce a garantire. Per l’altro però corre il rischio, cercando di dare sostanza “materiale”, vissuta a questo principio semplicemente formale di laicità, di creare una ideologia di Stato che in quanto tale distrugge alla base il principio dello stato liberale. Nel primo caso, per difendere la neutralità dello Stato, privilegiando il senso “laico” dello Stato (ad esempio, come nelle leggi francesi sulla laicità del 1905), il pericolo è di relegare la religione in un ambito del tutto “privato”, in una visione del mondo tra le altre che è tollerata dallo Stato centrale e che ha diritto di esistenza solo fintanto che rimane nella sfera privata e non cerca di proporre le sue scelte alla collettività pubblica. Nel secondo caso, la fede rischia di essere assunta come presupposto dell’ideologia di Stato nella forma di una religione di Stato o di una religione civile che contribuisce a creare le basi di un’ideologia statale (come è, ad esempio, nello spirito dei Padri fondatori degli Stati Uniti d’America e in alcune delle sue Costituzioni statali e federali, 1778-1787). Tra la via della religione “privata” (Francia) e quella della religione “civile” (Stati Uniti d’America) Böckenförde cerca una terza via, europea (in sostanza, tedesca e italiana) che si fonda sul carattere “pubblico”, ma non statale o civile, della fede. Allo Stato liberale, se vuole uscire dalla aporia di una

forza di convincimento solo “formale” ed esteriore che in quanto tale non riesce ad appassionare realmente i cittadini, corre l’obbligo di rinunciare a essere il garante della neutralità istituzionale per dare sostanza alla vita stessa dello Stato, che deve incaricarsi non solo che non avvengano conflitti tra le differenti visioni del mondo ma che venga promosso un confronto “produttivo” e propulsivo tra le differenti visioni del mondo. Il confronto pubblico tra le fedi religiose non solo non è distruttivo, se regolamentato e controllato dallo Stato, ma fornisce una riserva etica di valori che lo Stato liberale può utilizzare a suo vantaggio per motivare i cittadini al rispetto della pacifica convivenza e all’incremento del benessere collettivo. Non c’è nella proposta di Böckenförde la volontà di adesione a uno Stato confessionale, che in quanto tale contraddirebbe i presupposti stessi delle democrazie liberali, quanto la volontà di individuare nella fede una inaspettata risorsa di arricchimento, di crescita generale, etica ed economica, che lo Stato liberale, a secco nella sua fase postideologica di idee e valori, non può lasciarsi sfuggire. 78 Sempre maggiore interesse hanno riscosso in ambito cattolico negli ultimi anni gli scritti del costituzionalista e filosofo del diritto tedesco ErnstWolfgang Böckenförde, tra di essi si veda quello che riassume meglio la sua prospettiva: La formazione dello Stato moderno come processo di secolarizzazione, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2006. In italiano sono disponibili i suoi principali scritti: Id., La storiografia costituzionale tedesca nel secolo decimonono. Problematica e modelli dell’epoca, a cura di P. Schiera, Giuffrè, Milano 1970; Id., Stato, Costituzione, Democrazia, a cura di M. Nicoletti e O. Brino, Giuffré, Milano 2006; Id., Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa Unita, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2007; Id., Cristianesimo, libertà e democrazia, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2007; Id., Chiesa e capitalismo, con G. Bazoli, introduzione di M. Nicoletti, traduzione di S. Bignotti e I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 2010; Id., Dignità umana e bioetica, a cura di S. Bignotti, Morcelliana, Brescia 2010.

79 H. Lübbe, Säkularisierung. Geschichte eines ideenpolitischen Begriffs, Alber, Freiburg i. Br. 1965. Si veda anche R. Rémond, La secolarizzazione. Religione e società nell’europa contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 175-212 e pp. 215-302. Per una teoria “generale” della secolarizzazione si vedano R. Bellah, Al di là delle fedi. Le religioni in un mondo post-tradizionale, Morcelliana, Brescia 1975; D. Martin, A General Theory of Secularization, Harper & Row, New York 1979; P. Berger, La sacra volta. Elementi di una teoria sociologica della religione, Sugarco, Milano 1984 e Id., Una gloria remota. Avere fede nell’epoca del pluralismo, Il Mulino, Bologna 1994; R. Stark – W. S. Bainbridge, The Future of Religion. Secularization, Revival, and Cult formation, University of California Press, Berkeley 1985; M. Gauchet, Le désenchantement du monde. Une histoire politique de la religion, Gallimard, Paris 1985; O. Tschannen, Les théories de la sécularisation, Droz, Ginevra 1992; H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, traduzione di C. Marelli, Marietti, Genova 1992; H. Joas, Braucht der Mensch Religion?, Herder, Freiburg i. Br. 2004; B. S. Turner, Religion and Modern Society. Citizenship, Secularisation and the State, Cambridge University Press, Cambridge 2011. Per una analisi filosofica della problematica della secolarizzazione si vedano H. Blumenberg, Säkularisierung und Selbstbehauptung, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1974; H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, traduzione di C. Marelli, Marietti, Genova 1992; G. Vattimo, La secolarizzazione della filosofia, in “Il Mulino”, n. 4 (1985), pp. 597-606. 80 E.-W. Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2006, p. 38. 81 Il principio della superiorità del Papa su ogni altro potere temporale era stato espresso nel Dictatus papae emanato da Gregorio VII nel 1075. Si veda Dictus Papae Gregorii VII, Thesis XII: “Quod illi liceat imperatores deponere (che gli è permesso di deporre gli imperatori)”; Thesis XIX: “Quod a nemine ipse iudicare debeat (che Egli non possa essere giudicato da alcuno)”, in The Middle Ages, a cura di B. Tierney, vol. I: Sources of Medieval History, Alfred A. Knopf, New York 1983, pp. 142-143. Si veda anche E.-W. Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, cit., p. 39. 82 Ivi, p. 68.

CAPITOLO OTTAVO TAYLOR. L’ETÀ SECOLARE E LA CREDENZA RELIGIOSA L’interpretazione “religiosa” della secolarizzazione di Böckenförde non è un’interpretazione isolata ma incontra quella di altri filosofi che leggono la tarda modernità non come l’abbandono delle istanze “religiose” ma piuttosto come il loro ritorno sulla sfera pubblica. È il caso di Charles Taylor per cui la tarda modernità si dà come la ripresa “religiosa” di quella pienezza di vita che l’uomo moderno non ha mai smesso di desiderare83. La nostra tarda modernità si apre per Taylor con la novità che la religione non è scomparsa né dalla vita pubblica né dalla vita privata degli individui. La sua presenza “pubblica”, tuttavia, assume un carattere particolare, esclusivo che non può essere paragonato alla presenza “pubblica” che la fede ha avuto nei secoli passati e che può essere definita come la presenza “tradizionale” della fede (la fede religiosa come tradizione individuale e collettiva) sulla scena pubblica. La tesi da cui si origina l’analisi di Taylor è che, se pure oggi la religione è presente nell’agone pubblico e nella vita degli individui, lo è in modo molto diverso da come lo era, ad esempio, all’inizio della modernità. In questo scarto tra le condizioni della credenza oggi e all’inizio della modernità si gioca per Taylor il destino della secolarizzazione all’epoca del ritorno della religione sulla sfera pubblica. Per comprendere il senso della nostra età come età secolare (secular age), e non più semplicemente “secolarizzata”, Taylor definisce tre livelli di secolarizzazione che si intrecciano all’interno della condizione spirituale del nostro tempo. La secolarizzazione 1 è la secolarizzazione degli spazi pubblici, che consiste nell’”idea

generale che essi siano stati svuotati di Dio o di qualsiasi riferimento alla realtà ultima”84. La secolarizzazione degli spazi pubblici non implica il venir meno delle credenze religiose, anzi nelle moderne società occidentali si assiste al fenomeno contrario; è il caso degli Stati Uniti, “una delle prime società ad adottare la separazione tra stato e Chiesa è anche la società occidentale con le percentuali più alte di credenza e pratica religiosa”85. Proprio il diffondersi della credenza religiosa in una società pubblica ampiamente secolarizzata come quella americana è ciò che introduce alla comprensione del modello della secolarizzazione 2 che riguarda principalmente l’Europa occidentale (Francia, Germania, Olanda e Paesi Scandinavi, meno l’Italia) e orientale (l’ex blocco socialista, esclusa la Polonia) e “consiste nella diminuzione della credenza e della pratica religiosa, nell’allontanamento delle persone da Dio e dalla Chiesa”86. All’interno di questo secondo livello si sviluppano principalmente le moderne società europee occidentali, in cui pur restando a livello pubblico un riconoscimento della fede, perfino nelle Carte Costituzionali, si assiste a un progressivo indebolimento della fede e della pratica vissuta della fede. Tuttavia, a questi due modelli, che corrispondono sostanzialmente il primo all’America del Nord e il secondo all’Europa, si aggiunge la secolarizzazione 3 che si connette direttamente alla secolarizzazione 1, pur non mancando di far riferimento alla secolarizzazione 2, e che determina in profondità l’evoluzione delle società occidentali moderne, ancor più di quanto si possa pensare se ci si attiene esclusivamente al modello 1 o 2. Essa si fonda sull’evoluzione della credenza nella tarda modernità occidentale. Se si tiene in considerazione la credenza intesa come fede “vissuta”, si osserva all’interno delle società contemporanee più evolute una

transizione da una società in cui la fede in Dio era incontestata, e, anzi, non problematica, a una in cui viene considerata come un’opzione tra le altre e spesso non come la più facile da abbracciare.87

Ciò che interessa principalmente al filosofo canadese è il modo in cui questo terzo tipo di secolarizzazione si è sviluppato e ha influito sullo sviluppo delle attuali società88. Nella società occidentale contemporanea, infatti, la credenza non è più dogmatica, assoluta, simile a come era nelle società moderne e premoderne, ma si trova a confronto con altre possibilità esistenziali che spesso appaiono perfino più desiderabili. Il maggiore e minore grado di secolarizzazione di una società dipende secondo Taylor proprio dalle “condizioni di esperienza e ricerca dello spirituale”89. Tanto più l’uomo occidentale ricerca la propria pienezza spirituale e personale, non solo a livello religioso ma anche artistico e letterario, quanto più la società risulta secolarizzata in base al modello 3, che è aperto al sacro e alla trascendenza, e meno lo è secondo il modello 2 che, invece, si chiude a ogni esperienza trascendente. L’esperienza e la ricerca dello spirituale nelle società occidentali negli ultimi decenni sono aumentate, invece che diminuite, e ciò può essere interpretato come una forma della ricerca di pienezza che è tipica dell’uomo moderno90. C’è una ricerca di pienezza, di autenticità che è insita nella vita di ogni uomo moderno che nessuna secolarizzazione è riuscita mai a intaccare ed estinguere, anzi ha sempre camminato parallelamente alla secolarizzazione: Tutti noi concepiamo le vite e/o lo spazio in cui viviamo le nostre vite come dotati di una certa forma morale/spirituale. Da qualche parte – in una qualche attività o condizione – c’è una sorta di pienezza, di ricchezza; in quel posto (attività o condizione) la vita è cioè più piena, più ricca, più profonda, più degna, più ammirevole, più come dovrebbe essere.91

Ogni uomo moderno fa esperienza, anche se spesso a momenti o in modo frammentato, che esiste un luogo di pienezza “autentica” verso cui spiritualmente o moralmente ci

orientiamo. Questa pienezza è la pienezza di senso in cui la molteplicità delle esperienze di vita viene ricondotta verso l’unità, ottiene il suo significato, il suo senso. L’uomo odierno si trova di nuovo a confrontarsi con quella aspirazione unificante alla autenticità dell’io che torna a farsi valere all’intero di società caratterizzate dalla dispersione valoriale ed esistenziale. L’idea di pienezza dell’esistenza di cui tratta Taylor ha uno sfondo religioso e si riferisce prevalentemente alla trascendenza, anche se può appartenere, in forme diverse, anche al noncredente. Anche il non-credente desidera vivere questa vita che crede essere l’unica con pienezza, in modo da poter essere appagato e trovare in questa vita un oggetto adeguato al suo desiderio. In ogni caso, seppure in modo differente, il credente e il non-credente condividono lo stesso desiderio di una vita piena, buona e compiuta. La pienezza esistenziale è un “luogo”92 a cui tutti gli uomini tendono e verso cui nel corso della loro vita si dirigono. I credenti spiegano il luogo di questa pienezza in riferimento a Dio, alla trascendenza che oltrepassa la vita e il mondo naturale; i non credenti non se ne curano e lasciano in sospeso la questione della trascendenza e concepiscono la pienezza in termini di potenzialità umane, di sviluppo della personalità. Ciò che unifica queste due modalità di esperire la pienezza “esistenziale” non è il loro essere mere credenze, opinioni personali ma la loro dimensione di esperienza vissuta. In entrambi i casi, secolarizzata e religiosa, la pienezza è vissuta nell’interiorità degli individui e non può essere paragonata a una semplice presa di posizione intellettuale. Alla semplice opinione manca la forza di motivare le scelte morali e pubbliche dei cittadini, a differenza del desiderio di pienezza esistenziale che spinge il cittadino a rinunce e sacrifici pur di poterlo vedere realizzato sul piano personale e pubblico.

Nonostante viva in un contesto istituzionalmente (secolarizzazione 1) e intersoggettivamente (secolarizzazione 2) secolarizzato il credente che vive nelle moderne società occidentali fa esperienza di una pienezza esistenziale che deriva dal suo personale senso della trascendenza. Questa pienezza esistenziale che nasce in ambito privato ha la tendenza innata a non rimanere nascosta ma a manifestarsi nell’agire dell’individuo nella società. Ecco perché pur essendo un’esperienza personale la credenza religiosa non può non diventare a livello pubblico la regola dell’agire nella società. Naturalmente essa deve essere sottoposta a una rigorosa serie di vincoli che la limitino a livello di scelte collettive e le impongano il dialogo con le altre istanze veritative, ma accettare la credenza religiosa a condizione che rimanga confinata nell’intimo della coscienza non è possibile, perché significherebbe negare che l’agire dell’uomo possa essere motivato in senso religioso, così come lo è in senso sociale, politico, economico. Certo non si può misconoscere che il richiamo alla fede religiosa nell’agone politico è estremamente rischioso, e Taylor ne sottolinea spesso i rischi. Tuttavia, sebbene sia rischioso, non si può fare a meno di riconoscere il ruolo che la pienezza trascendente che è sperimentata nella credenza religiosa gioca nella determinazione delle scelte individuali e collettive. Sarebbe sbagliato rispondere a questi rischi con una chiusura preventiva, anche perché gli stessi rischi che comporta una chiusura fondamentalista in ambito religioso li comporta anche il ricorso agli ideali repubblicani o collettivisti (la laicità “negativa” alla francese o l’ateismo di Stato dei paesi exsocialisti), come fanno coloro che non credono. Ciò contro cui bisogna agire non è la legittima richiesta della religione di ritagliarsi un ruolo nelle scelte pubbliche, quanto piuttosto quella “chiusura prematura”93 della fede fondamentalista nei confronti dell’altro, del non-credente, accentuando la linea di

demarcazione tra il puro e l’impuro. Il “futuro del passato religioso”, come lo chiama Taylor in un suo saggio94, consiste nella capacità di saper mantenere un “punto di equilibrio”95 tra la ricerca personale e collettiva della pienezza esistenziale nel senso della trascendenza e la volontà di un confronto aperto e franco tra le diverse visioni del mondo. L’idolatria è dietro l’angolo, sia per i credenti sia per i non-credenti. Essa è il maggior pericolo che le civiltà occidentali devono combattere, indipendentemente dalla sua origine religiosa o laica. La lotta per l’idolatria non può, e non deve costringerci, a lasciare alle spalle il nostro passato, ad abbandonarlo per il pericolo che possa condurci alle guerre di religione tra gli opposti fondamentalismi. Dalla parte opposta rispetto all’idolatria c’è, infatti, l’”escarnazione”96 della fede religiosa, che è ugualmente per Taylor da evitarsi come l’idolatria. Con questo termine egli intende quel lento processo di spiritualizzazione della fede cristiana che è iniziato con la Riforma protestante97. La fede protestante insistendo sul carattere individuale della fede ha finito per proporre un modello di fede “disincarnata”, eterea, completamente separata dalla sua dimensione pubblica. Dopo la Riforma la fede ha perso in questo modo la sua incidenza, la sua rilevanza pubblica per diventare l’espressione di un sentimento del tutto personale e che in quanto tale è giusto che rimanga confinato nell’interiorità umana. Il carattere “privato” della fede nasce dallo spirito della Riforma e oggi sembra continuare a persistere principalmente nei paesi più segnati dalla Riforma protestante, nei paesi del Nord Europa principalmente. La proposta di Taylor tenta di uscire da questo modello di fede “escarnata”, privata e personale che ha portato soprattutto nel Nord Europa a un brusco calo della pratica e della credenza religiosa, per tornare a considerare la religione come un fatto pubblico, una realtà incarnata nel pubblico dibattito delle democrazie “secolarizzate” occidentali e come una forza

“propulsiva” per l’intero sviluppo non solo religioso ma anche sociale delle moderne democrazie occidentali. 83 C. Taylor, L’età secolare, a cura di P. Costa, traduzione di P. Costa e M. C. Sircana con revisione di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2009. Tra gli altri scritti di Taylor che hanno per tema il rapporto della religione con la sfera pubblica si vedano in particolare Id., Hegel e la società moderna, traduzione di A. La Porta, Il Mulino, Bologna 1984; Id., Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, traduzione di R. Rini, Feltrinelli, Milano 1993; J. Habermas – Id., Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, traduzione di L. Ceppa e G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 1999; Id., Il disagio della modernità, traduzione di G. Ferrara Degli Uberti, Laterza, Roma-Bari 1999; Id., La modernità della religione, traduzione e cura di P. Costa, Meltemi, Roma 2004; Id., Gli immaginari sociali moderni, traduzione e cura di P. Costa, Meltemi, Roma 2005; Id., Dilemmas and Connections. Selected Essays, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.) – London, 2011. Sulla filosofia politica della religione di Charles Taylor si vedano P. Costa, Verso un’ontologia dell’umano. Antropologia filosofica e filosofia politica in Charles Taylor, Unicopli, Milano 2001; A. Pirni, Charles Taylor. Ermeneutica del sé, etica e modernità, Milella, Lecce 2002; N. Genghini, Identità, comunità, trascendenza. La prospettiva filosofica di Charles Taylor, Studium, Roma 2005; M. Kühnlein, Religion als Quelle des Selbst. Zur Vernunft- und Freiheitskritik von Charles Taylor, Mohr Siebeck, Tübingen 2008. 84 C. Taylor, L’età secolare, cit., p. 12. Si veda anche ivi, pp. 12-13: “Oppure, assumendo un’altra prospettiva, le norme e i principi che seguiamo, le deliberazioni in cui ci impegniamo allorché operiamo all’interno delle diverse sfere di attività – economica, politica, culturale, educativa, professionale, ricreativa – in genere non fanno riferimento a Dio o alle credenze religiose; le considerazioni su cui basiamo le nostre azioni restano all’interno della razionalità di ciascuna sfera – il massimo profitto all’interno dell’economia, il maggior beneficio del maggior numero nell’ambito politico ecc. Tutto ciò è in stridente contrasto con quanto avveniva in epoche precedenti, quando la fede cristiana stabiliva in tutti questi ambiti spesso per bocca del clero, delle norme imperative che non potevano essere ignorate, come ad esempio la proibizione dell’usura o l’obbligo di far osservare l’ortodossia”. 85 Ivi, p. 13. 86 Ibidem. 87 Ibidem.

88 Si veda ivi, p. 14: “Il mio intento, pertanto, è di esaminare la nostra società alla luce di questa terza accezione di secolarizzazione che potrei forse riassumere così: il mutamento che vorrei definire ed esplorare è quello che ci ha condotti da una società in cui era virtualmente impossibile non credere in Dio, a una in cui la fede, anche per il credente più devoto, è solo una possibilità umana tra le altre. Posso magari ritenere inconcepibile l’idea di abbandonare la mia fede, ma esistono altre persone, ivi comprese alcune che mi sono particolarmente care, e il cui stile di vita non posso in tutta onestà respingere semplicemente come depravato, cieco o indegno, che non ne hanno (o quantomeno non hanno fede in Dio o nel trascendente)”. 89 Ibidem. 90 Si vedano C. Taylor, Il disagio della modernità, cit., pp. 32-33; C. Taylor, Le radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, cit., pp. 260ss. 91 C. Taylor, L’età secolare, cit., p. 16. 92 Ivi, p. 18. 93 Ivi, p. 962: “La fede religiosa può essere perciò pericolosa. L’apertura alla trascendenza è disseminata di pericoli. Ma ciò è ancor più vero se rispondiamo a questi pericoli con una chiusura prematura, tracciando un confine netto tra il puro e l’impuro, mediante la polarizzazione del conflitto e perfino la guerra. Che i credenti ne siano capaci, è ampiamente attestato dalla storia. Ma anche gli atei non sono da meno, quando si aprono a grandi ideali, come una repubblica degli eguali, un ordine mondiale della pace perpetua oppure il comunismo. Troviamo qui la stessa fiducia cieca nella propria purezza, nell’attacco aggressivo, contro gli assi del male, sia tra i credenti sia tra gli atei. L’idolatria alimenta la violenza”. 94 Si veda C. Taylor, The future of the Religious Past, in Religion. Beyond a Concept, a cura di H. de Vries, Fordham University Press, New York 2008, pp. 178-244. 95 C. Taylor, L’età secolare, cit., p. 963. 96 Ivi, p. 697: “Il cristianesimo ufficiale è passato attraverso quella che potremmo definire una escarnazione: una transizione, cioè, da forme incarnate, incorporate, di vita religiosa a forme che risiedono piuttosto nella mente – un processo che ha condiviso con l’illuminismo e più in generale con la moderna cultura irreligiosa. Il problema, qui, non è quanti richiami positivi alla sfera della corporeità sentiamo fare, essi abbondano in molte forme di materialismo ateo e anche in gran parte del cristianesimo più progressista, ma se il nostro rapporto con il supremo – Dio per i credenti, la moralità in generale per l’illuminista non credente – sia o no mediato da forme incarnate, com’era certamente il caso dei parrocchiani che, nell’Inghilterra preriformata, strisciavano verso la Croce il giorno del

Venerdì Santo. Oppure, riflettendo su ciò che ci spinge verso il sommo, il problema è se e in quale misura i nostri destini più elevati, quelli che ci permettono di discernere il sommo, sono desideri incarnati, come chiaramente è la pietà espressa nel Nuovo Testamento col verbo splangnizesthai”. 97 Alla Riforma protestante Taylor dedica la parte prima di Id., L’età secolare, op. cit., “L’opera riformatrice”, pp. 41-284, e in particolare il cap. 3: “Il grande sradicamento”, pp. 192-208.

CAPITOLO NONO HABERMAS-RATZINGER. LE BUONE “RAGIONI” DELLA RELIGIONE Il dibattito sul carattere pubblico della fede è stato condotto non soltanto da intellettuali di provenienza cattolica, come Böckenförde e Taylor, ma ha coinvolto anche intellettuali laici come Habermas98. Anzi, proprio grazie al filosofo tedesco questo dibattito ha assunto una dimensione più ampia e ha investito la sfera del rapporto della fede religiosa con la conoscenza scientifica. Lo scritto di Habermas che ha dato inizio al confronto con la realtà religiosa è il discorso Fede e sapere, tenuto il 14 ottobre 2001 in occasione del conferimento del Friedenspreis des Deutschen Buchhandels. Non deve stupire che un filosofo laico come Habermas ponga al centro della sua riflessione la questione “religiosa”. Egli ha da sempre, secondo una tradizione tipicamente tedesca che risale al romanticismo di matrice hegeliana, riconosciuto il ruolo fondamentale della religione nella formazione della personalità nel quadro dello sviluppo organico della società. La fondazione del senso della vita difficilmente è pensabile per Habermas se non in riferimento a una pienezza di senso che si esprime principalmente nella fede religiosa. Da questo punto di vista Habermas mostra una notevole differenza con la tradizione anglosassone della fede “personale”, che ad esempio sostiene Rorty in La mia religione privata e pragmatica99 e la cui interpretazione della religione Habermas ha criticato in L’utopia di un liberale di sinistra100. Habermas mette in discussione la considerazione semplicemente privata e personale della fede, perché di fatto la

religione esprime delle ragioni e delle posizioni sul senso della vita che il discorso Glauben und Wissen non può ignorare. Pensare che la religione debba rimanere nascosta nella sfera privata significa voler impedire forzatamente che il dialogo tra la religione e la società pubblica si sviluppi e che le “buone” ragioni della fede possano entrare in dialogo con le altre “buone” ragioni presenti nella società, con il fine di costituire un accordo generale sempre più ampio e più pieno di contenuti e di ragioni. Questa consapevolezza del ruolo della religione è nata per Habermas da un fallimento, ovvero proprio dal fallimento conclamato della pretesa di costituire a livello puramente razionale uno standard “democratico”, che partendo dal mondo civilizzato e secolarizzato europeo potesse essere esteso attraverso l’opera “rischiaratrice” della ragione anche alle altre aree del pianeta che vivono una condizione della società pubblica non ancora pienamente moderna. Questa volontà di democratizzazione non-violenta del mondo attraverso una progressiva razionalizzazione è andata incontro al fallimento che si è espresso prima nelle guerre interetniche e religiose della Ex Jugoslavia e poi con il ritorno del fondamentalismo religioso dei paesi islamici101. Questa battuta di arresto richiede secondo Habermas la necessità di un ripensamento dell’intera questione del rapporto tra religione e sfera pubblica, che eviti il fondamentalismo di qualsiasi religione ma allo stesso tempo superi la considerazione della fede come fatto privato, personale. Affinché sia possibile far “valere” le ragioni della religione nella sfera “pubblica”, è necessario secondo Habermas che la religione si sottometta a una triplice riflessione102 che consiste nell’elaborazione dell’”incontro cognitivamente dissonante con altre confessioni e altre religioni”103 (1), nel “fare i conti con l’autorità delle scienze che detengono il monopolio sociale del sapere”104 (2), nel “affidarsi a quelle premesse dello stato di diritto che si fondano su una morale profana”105 (3). Da parte

della religione, così come dalle altre istanze di verità, è richiesta una “spinta alla riflessione”106 che sappia essere anche critica nei confronti del proprio patrimonio di verità e condurre un dialogo franco e leale con le altre religioni e le altre istanze veritative. La spinta alla riflessione è un invito a rifiutare il relativismo “assoluto” in cui tutte le pretese di verità sono accettate a patto che rinuncino alle proprie pretese di verità. Allo stesso tempo, Habermas chiede a ogni singola religione di non chiudersi in sé stessa, sognando una autosufficienza impossibile nel mondo secolarizzato, ma di aprirsi non tanto a un confronto di prospettive, che in quanto tale rimane sempre molto complesso e piuttosto improduttivo, se non genera perfino ulteriori motivi di contrasto, ma a una discussione sul modo migliore di convivere e di contribuire allo sviluppo complessivo del sistema sociale. È possibile così superare la concezione sbagliata per cui lo stato neutrale e secolarizzato sia nemico delle visioni del mondo religiose, anzi lo stato secolarizzato “non pregiudica in alcun modo le decisioni politiche a vantaggio di una delle due parti”107, si mantiene equidistante proprio perché il suo compito è favorire, incentivare questa spinta alla riflessione delle diverse religioni e confessioni religiose e non metterla a tacere attraverso la “laicizzazione” forzata del dibattito pubblico. La ragione “pubblica”, che è rappresentata dallo stato ideologicamente neutrale, deve mantenere aperto l’ambito di discussione e farsi garante che nessuna religione abbandoni la spinta alla riflessione: La ragione pluralizzata dei cittadini persegue una dinamica di secolarizzazione solo nella misura in cui, come suo risultato, ci spinge a prendere egualmente le distanze sia dalle tradizioni consolidate sia dai contenuti delle visioni del mondo. Tuttavia essa rimane sempre disponibile a imparare e a tenersi osmoticamente aperta – senza per questo sacrificare la propria autonomia – su tutti e due questi fronti.108

Nella dialettica “pubblica” gioca un ruolo decisivo il common sense che è tipico per Habermas di una autocomprensione prescientifica di soggetti che possono esprimere le loro opinioni e agire liberamente. La tecnica e il sapere scientifico non potranno mai sostituire l’autocomprensione prescientifica del common sense e tanto meno esonerarlo da scelte decisive per la vita umana. L’orizzonte delle scelte vitali ed esistenziali appartiene a una sfera prescientifica che può confrontarsi con il sapere scientifico e avvalersi delle sue scoperte ma che in ultima analisi ha l’onere di decidere autonomamente e in piena libertà sulle proprie azioni. È il caso, ad esempio, della vita umana prepersonale che la scienza molecolare rende possibile modificare e correggere. Non può essere però la scienza stessa a decidere se un tale intervento, che è tecnicamente possibile, sia anche lecito o no. Il common sense ha il compito di decidere quale tra i molti trattamenti scientifici che sono possibili è quello da adottare, da consigliare o da impedire per legge. Con le condizioni prescientifiche del common sense deve avere a che fare anche la religione quando vuole intervenire nel dibattito pubblico. Il common sense è “vincolato alla coscienza di persone che sono in grado di prendere iniziative, commettere errori e correggere errori”109. Esso è indipendente e autonomo rispetto alle scienze e ai suoi progressi. Allo stesso modo, tuttavia, è autonomo rispetto ai contenuti normativi e dogmatici della tradizione, anche di tipo religioso e confessionale, sebbene continui indubbiamente a nutrirsi di essi. Tra il common sense e la religione si istaura perciò una intensa dialettica in cui la religione cerca di tradurre nel linguaggio del common sense le sue pretese veritative e il common sense si lascia liberamente ispirare dalla propria origine religiosa. L’obbiettivo del common sense democratico è di creare una “sfera pubblica polifonica”110 in cui la religione possa proporre e conciliare le proprie pretese veritative con le pretese delle altre visioni del mondo. La scelta pubblica e democratica deve tenere conto di queste istanze

“pubbliche” della fede e non può decidere senza prima averle ascoltate, in quanto esse rappresentano il profondo sentire di molti individui e hanno storicamente contribuito al formarsi delle società occidentali. Il modello di secolarizzazione, quindi, che Habermas propone ha il carattere della traduzione (“Una secolarizzazione non distruttiva potrebbe realizzarsi nella modalità della traduzione”111). Una società secolarizzata “matura” traduce le pretese veritative della religione sul piano del dibattito sociale intersoggettivo. Ci sono, infatti, alcune istanze veritative della religione che possono contribuire, se tradotte in linguaggio antropologico, ad arricchire anche il piano del dibattito tra i laici non credenti. Habermas si riferisce principalmente al caso proposto dalla Genesi (1, 27: “E Dio creò l’uomo a sua immagine, lo creò a immagine di Dio”), in cui si ricorda che l’uomo non si è prodotto da sé ma è una creatura di Dio. L’idea della creaturalità dell’uomo, tradotta in linguaggio secolarizzato, può guidare l’elaborazione della problematica antropologica odierna: “Questa creaturalità di chi è fatto ad immagine di Dio esprime un’intuizione che nel nostro contesto può dire qualcosa anche a chi, in sede religiosa, non sia musicalmente dotato di orecchio”112. L’idea che un Dio personale e superiore, buono e provvidente, influisca nella determinazione della persona nelle sue componenti biologiche è preferibile all’idea che l’uomo possa farsi da sé e scegliere il bagaglio di cromosomi che preferisce. Dio si fa per Habermas garante della libertà dell’uomo, tanto che nessun uomo può determinare biologicamente un altro uomo, se non Dio stesso. Dal punto di vista antropologico la fede religiosa offre al dibattito pubblico un surplus di libertà di cui la società contemporanea secolarizzata e schiava del sapere scientifico sembra sprovvista113. Questi temi sono stati ripresi nel dibattito, tenuto il 19 gennaio 2004 alla Katholische Akademie della Baviera114 tra Habermas e

Ratzinger in cui essi si confrontano sul contributo che la religione può dare allo sviluppo della razionalità pubblica. Ratzinger condivide con Habermas la necessità che la razionalità tecnico-scientifica e la religione trovino un punto di incontro all’interno del dibattito pubblico. Ratzinger riconosce insieme alle patologie della religione anche le patologie della razionalità. Egli sottolinea in riferimento ad Habermas che “se prima ci incalzava inquietante il problema se la religione sia propriamente una forza morale positiva, ora deve necessariamente emergere il dubbio sull’affidabilità della ragione”115. Infatti, le scoperte tecnologiche e scientifiche non solo hanno portato benessere e salute all’umanità, ma hanno permesso la costruzione di armamenti micidiali e consentito che fosse messa in pericolo con l’ingegneria genetica perfino l’essenza stessa dell’uomo. La ragione stessa al pari della religione andrebbe “messa sotto controllo”116, al fine di limitarne il potenziale distruttivo e antiumano. Il problema è per Ratzinger di carattere metodologico: chi può mettere sotto controllo la razionalità, se non la razionalità stessa? C’è un oltre la ragione che può ergersi a giudice della razionalità? Ratzinger scioglie questo dilemma ricorrendo all’interazione di razionalità e religione tipica della filosofia medioevale e tardo scolastica. La razionalità e la religione hanno il compito di limitarsi reciprocamente, dirigendosi nella stessa direzione, sulla strada “buona” della umanizzazione e del progressivo miglioramento delle condizioni di vita ed esistenziali dell’umanità. In questo senso la razionalità e la fede hanno l’obbligo di abbandonare la pretesa di volere determinare da sole il volto delle società occidentali, tanto più che l’interculturalità che è nata in conseguenza della globalizzazione ha portato nuove culture all’interno del dibattito pubblico occidentale ed è diventato oggi impossibile per una sola religione o progetto politico-culturale influenzare l’insieme della società117. Queste nuove culture portano valori, modi di

vita e aspettative che non possono essere ridotti in modo unilaterale alla religione cristiana o alla razionalità occidentale. Ciò che è venuta meno nel mondo globalizzato è l’unitarietà del sapere per cui la fede nel Medioevo e la ragione nell’età dei Lumi hanno dominato nel loro tempo per intero la sfera della conoscenza e della sua applicazione nella società. Oggi una grande quantità di tensioni attraversano la scena pubblica delle società occidentali. E proprio nel momento in cui sembrava che la ragione avesse raggiunto un grado di “chiarezza” tale da poter fare a meno di ogni mitologia118, ecco che riappaiono le mitologie religiose nell’incontro con le altre culture (Islam, religioni dell’Estremo Oriente). Per uscire da questa impasse che può avere effetti disastrosi e disgreganti per la società civile è richiesto alla religione e alla razionalità di educarsi a uno sguardo “permeabile” che sappia confrontarsi con l’altro e comprendere le sue ragioni119. La fede deve riconoscere le ragioni della razionalità secolare, aprirsi a un dibattito franco e democratico su quali scelte siano le migliori per la collettività intera e non soltanto per una parte di essa. Essa deve assumere uno sguardo universale sull’uomo in quanto tale e proporre questa visione antropologica alla riflessione della collettività. La ragione, invece, ha l’obbligo di riconoscere che essa non può monopolizzare il dibattito pubblico, perché non da tutte le culture è riconosciuta come universale e vincolante. Deve riconoscere i limiti contro cui urta, rinunciando alla pretesa di imporsi in forma coattiva a culture che partono da differenti presupposti etici, storici e culturali120. In questo modo sarà possibile giungere a un nuovo protagonismo dell’Europa nel panorama mondiale globalizzato che non abbia il carattere dell’egemonia culturale e religiosa ma la forza di una proposta, di un modello “antropologico” che riesca a coniugare la pienezza della religione con la criticità della ragione. La fede e la ragione hanno insieme una forza che

nessuna altra componente della società oggi possiede, e forse ha mai avuto in passato, per dirigere l’evoluzione “progressiva” dell’umanità. L’Europa non può permettersi di trascurare le culture “minori” o soffocarle sotto il proprio predominio, anzi deve coinvolgerle in una “correlazione polifonica”121 in cui tutte le componenti possano essere amalgamate e guidate da una ragione aperta alla pienezza della fede e da una fede religiosa non fondamentalista e disposta all’ascolto critico dell’altro. Negli ultimi anni Ratzinger ha dedicato diversi scritti e discorsi pubblici a delineare questa nuova immagine di un’Europa che si fa forza propulsiva per l’evoluzione dell’umanità attraverso la conciliazione delle istanze della religione e della fede. Nel discorso tenuto al Senato della Repubblica Italiano, il 13 maggio 2004, dal titolo Europa. I suoi fondamenti egli parte dall’analisi della profonda crisi, etica economica etnica, che si trovano a vivere le moderne società occidentali europee. L’Europa sembra svuotata dall’interno di quei valori civili, religiosi ed etici che ne avevano rappresentato la forza “propulsiva”. Essa sembra sopravvivere a sé stessa, estenuata, esangue, senza una direzione spirituale e culturale da proporre, in preda a una debolezza che nasce dalla mancanza di ideali “positivi” da offrire al dibattito pubblico. Ciò che manca all’Europa è una riserva etica, come hanno dimostrato i sistemi socialisti che sono morti non per un’errata valutazione della situazione economica ma per il disprezzo dei diritti umani e per un violento arbitrarismo etico. La più grande catastrofe a cui l’Europa sta andando incontro consiste perciò “nell’inaridimento delle anime, nella distruzione della coscienza morale”122, piuttosto che nella crisi economica e sociale che sono la conseguenza della mancanza etica sia in ambito economico sia in ambito intersoggettivo. La questione morale torna al centro dell’interesse in un’Europa che è stata privata a forza dei suoi riferimenti etici e devastata da un’idea “minimale” della libertà, secondo cui in una società

evoluta tutto deve essere possibile e tollerato senza alcun limite “etico” (c’è solo un limite “tecnico”: il necessario rispetto della libertà degli altri individui, anche se senza una regola etica è complesso, se non impossibile, stabilire quali siano i limiti entro cui le mie azioni non danneggino la libertà altrui). Il declino, osserva Ratzinger, di una coscienza morale basata su valori inviolabili è ancora il nostro problema e può condurre all’autodistruzione della coscienza europea, che dobbiamo cominciare a considerare – al di là del tramonto previsto da Spengler – come un reale pericolo.123

Per tornare a dare risalto alla questione etica Ratzinger propone un duplice approccio: antropologico e religioso. Il primo elemento è legato alla necessità di preservare la dignità umana che l’indifferentismo etico e i progressi indiscriminati della scienza stanno mettendo seriamente in pericolo. Ci sono diritti fondamentali come la dignità dell’uomo e l’intangibilità della sua vita che non possono essere oggetto di negoziazioni politiche, ma devono essere difesi indipendentemente dalle maggioranze o dai governi che si succedono sulla scena politica. Il valore della vita umana prescinde dall’attività politica e dall’accordo dei cittadini di una determinata epoca storica, perché trascende in modo radicale sia gli uni sia gli altri, è un patrimonio “intangibile” dell’umanità che nessuna epoca può appropriarsi ed esaurire a suo proprio ed esclusivo vantaggio124. Il passato prossimo dell’Europa insegna che ci sono valori fondamentali che nessuna decisione politica può modificare o negoziare. I principi non-negoziabili della persona umana devono aggiungersi secondo Ratzinger ai principi fondamentali della democrazia (la libertà economica, civile e politica) per consolidare le basi delle moderne democrazie occidentali. Quanto alla questione antropologica Ratzinger è convinto che non è possibile dare un sostegno alla democrazia liberale, senza fare riferimento a valori che oltrepassano la sfera politica, che

non sono negoziabili perché non sono disponibili alla manipolazione tecnica e politica dell’uomo. Questo è il senso anche della richiesta nel 2003 da parte dello Stato del Vaticano (e di alcuni stati europei, tra cui l’Italia e la Polonia) di inserire nella Carta Costituzionale Europea il riferimento alle radici cristiane125. Diversamente da come è stato da molti interpretato non era il tentativo di blindare l’Europa in chiave confessionale in modo da mettere un argine al dilagare delle nuove religioni e popolazioni nei paesi europei. Il riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa significava che al di sopra della comunità politica non c’è un antiquariato dei valori ma un télos, un’aspirazione etica alla dignità dell’uomo in quanto tale di cui la tradizione cristiana si è dimostrata nei secoli il garante. L’Europa che da sempre è aperta al riconoscimento delle altre culture (ebraica, islamica) deve fare lo sforzo di ripensare in senso positivo la propria tradizione religiosa cristiana e i suoi valori. La multiculturalità è un valore positivo e irrinunciabile nell’odierno mondo globalizzato, ma non può realizzarsi misconoscendo la propria identità. Proprio partendo ognuno dai propri presupposti “culturali” e religiosi è possibile un incontro “reale”, in cui le differenti posizioni religiose si confrontino e si arricchiscano a vicenda. Per poter andare incontro alle altre tradizioni e culture, che spesso hanno un senso religioso anche più forte del nostro, è opportuno per Ratzinger che si abbia chiara l’essenza della propria fede e della propria tradizione culturale (e soprattutto la sua profondità teologica che oggi è sempre meno conosciuta e compresa anche dalla maggioranza dei cittadini cristiani). Nella consapevolezza che l’apertura e il rispetto per le altre tradizioni derivano per il cristiano dalla sua attenzione religiosa per l’altro, per lo straniero: Certo, noi possiamo e dobbiamo imparare da ciò che è sacro per gli altri, ma proprio davanti agli altri e per gli altri è nostro dovere nutrire in noi stessi il rispetto di ciò che è sacro e mostrare il volto del Dio rivelato, del

Dio che ha compassione dei poveri e dei deboli, delle vedove e degli orfani, dello straniero; del Dio che è talmente umano che egli stesso è diventato uomo, un uomo sofferente, che soffrendo insieme a noi dà al dolore dignità e speranza.126

Il cristianesimo che propone Ratzinger all’Europa non ha il volto trionfante della cristianità e neppure il richiamo agli alti e nobili valori storici ma la realtà concreta, effettuale, del cristianesimo come la fede nel servo sofferente che in virtù della sua sofferenza è solidale con tutti i sofferenti e i poveri del mondo. Per rispetto a questo principio “non negoziabile” il cristiano deve rinunciare perfino senza troppe remore al desiderio di essere maggioranza, di diventare determinante dal punto di vista numerico nel dibattito culturale e parlamentare, per essere una “minoranza creativa”127, il cui compito è di mostrare una possibilità alternativa di vita e di accoglienza che si ispira alle più antiche radici cristiane e teologiche dell’Occidente europeo. Nei suoi discorsi successivi, tra cui in particolare L’Europa nella crisi delle culture, 2005128, e Le origini della teologia occidentale e le radici della cultura europea, 2008129, Ratzinger ha delineato più da vicino il ruolo che deve assumere la religione cristiana nel dibattito pubblico all’interno della società europea. Il cristiano credente non ha il compito di farsi portavoce di un’ideale religioso o sociale, portatore di una cultura “particolare” ma deve essere “testimone” della sua fede, al modo in cui lo furono, ad esempio, nel medioevo cristiano i monaci benedettini di fronte alla decadenza morale e civile della cultura romana, che tanto assomiglia alla confusione della nostra attuale condizione130. Il loro scopo non era influire e determinare un cambiamento nella società in cui vivevano, anche se poi determinarono il più grande cambiamento che l’Europa nella sua storia abbia mai conosciuto nel passaggio dall’Antichità al Medioevo, ma cercavano soltanto di essere testimoni coerenti della fede nel Cristo crocifisso e risorto131.

Essi seppero essere portatori credibili di un modello alternativo di esperienza della realtà, il modello del servo sofferente, che sconvolse e affascinò la gente confusa e eticamente derelitta del loro tempo. Allo stesso modo, secondo Ratzinger la società contemporanea ha bisogno di testimoni credibili della fede in Cristo, come lo furono per il loro tempo i monaci medioevali e la loro teologia monastica: Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta all’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini. Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce, a ritornare e a fondare a Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo.132

I cristiani del nostro tempo è giusto che abbandonino definitivamente la pretesa di farsi orgogliosi portatori di una cultura, di una bandiera cristiana per divenire cristiani (Christ sein), per condividere senza confusione e senza sconti, senza rinunciare alla trascendenza, in modo radicalmente battesimale, nello stesso tempo biblico ed evangelico, il destino di coloro che nelle moderne società occidentali vivono le condizioni di una spaventosa povertà etica e spirituale, prima ancora che economica e sociale. 98 J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, a cura di L. Ceppa, Einaudi, Torino 2002; Id., L’Occidente diviso, traduzione di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2005; Id., Religion in the

Public Sphere, in “European Journal of Philosophy”, 14 (2006), pp. 1-25; Id., Tra scienza e fede, a cura di M. Carpitella, Laterza, Roma–Bari 2006; Id., Dall’impressione sensibile all’espressione simbolica. Saggi filosofici, traduzione di C. Mainoldi, Laterza, Roma–Bari 2009; Id., Ein neues Interesse der Philosophie an der Religion? Zur philosophischen Bewandtnis von postsäkularem Bewusstsein und multikultureller Weltgesellschaft, Intervista con E. Mendieta, in “Deutsche Zeitschrift für Philosophie”, vol. 58, n. 1 (2010), pp. 3-16; Id., The Political. The Rational Sense of a Questionable Inheritance of Political Theology, in The Power of Religion in the Public Sphere, a cura di J. Van Antwerpen e E. Mendieta, Columbia University Press, New York 2011. Sul rapporto dell’ultimo Habermas con la religione cfr. L. Ceppa, Disincanto e trascendenza in J. Habermas, in “Paradigmi”, n. 48 (1998), pp. 515-534; R. Langthaler e H. Nagl-Docetal (a cura di), Glauben und Wissen. Ein Symposium mit Jürgen Habermas, Oldenbourg Verlag/Akademie-Verlag, Wien/Berlin 2007; G. Cunico, Lettura di Habermas. Filosofia e religione nella società postsecolare, Queriniana, Brescia 2009; M. T. Schimdt, Discorso religioso e religione discorsiva nella società postsecolare, a cura di L. Ceppa, Trauben, Torino 2009. 99 Si veda R. Rorty, La mia religione privata e pragmatica, in “Reset”, Dossier: “Così un laico parla di Dio”, n. 69 (2002), pp. 54-58, in particolare p. 55: “Mentre i filosofi sostengono che l’ateismo è sostenuto da prove, mentre il teismo non lo è, direbbero che la fede religiosa è irrazionale, noi laici contemporanei ci accontentiamo di dire che esso è pericoloso dal punto di vista politico. Secondo noi, la religione non deve essere assolutamente oggetto di polemica fintantoché essa resta una faccenda privata, finché il credo religioso è considerato come totalmente irrilevante per la politica”. Secondo Rorty – e ha essenzialmente ragione – anche Vattimo pur avendo avuto a differenza sua una formazione religiosa arriva a pensare la religione come un fatto privato e personale che in quanto tale non deve incidere in nessun modo nelle scelte collettive. Si veda, anche, R. Rorty, Religion as Conversation-Stopper, in “Common Knowledge”, 3 (1), 1994, pp. 1-6; Id., Religion in the public square. A reconsideration, in “The Journal of Religious Ethics”, XXX, n. 1, 2002, pp. 140-149; Id., Cultural politics and the question of the existenxe of God, in N. K. Frankenberry (a cura di), Radical Interpretation in Religion, Cambridge University Press, Cambridge 2002, pp. 51-77; Id., Pragmatism as romantic polytheism, in M. Dickstein (a cura di), The Revival of Pragmatism, Duke University Press, Durham 1998, pp. 21-36. La filosofia “politica” di Vattimo nella sua declinazione cristiana è contenuta principalmente in: G. Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano 1996,

pp. 70-82; Id., Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano 2002, pp. 99-108 (7. “Cristianesimo e conflitti culturali in Europa”); Id., Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Garzanti, Milano 2003; R. Rorty – Id., Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, a cura di S. Zabala, Garzanti, Milano 2005, in particolare pp. 61-89; Id., Ecce comu. Come si ri-diventa ciò che si era, Fazi, Roma 2007, in particolare pp. 3-6 e pp. 70-72; Id. – C. Dotolo, Dio: la possibilità buona. Un colloquio sulla soglia tra filosofia e teologia, a cura di G. Giorgio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 41-74. 100 J. Habermas, L’utopia di un liberale di sinistra, in “Reset”, n. 69 (2002), pp. 59-62. 101 Si veda J. Habermas, Fede e sapere, in Il futuro della natura umana, cit., p. 100: “Di fronte a una globalizzazione che si impone attraverso il dilagare dei mercati, molti di noi avevano sperato in un ritorno del Politico sotto nuove vesti: non nella forma originaria hobbesiana di uno stato-disicurezza globale (ossia non nelle dimensioni di polizia, servizi segreti ed esercito), bensì nella forma di un potere mondiale di incivilimento e di pianificazione. Per ora ci resta soltanto tra le mani una tenue speranza nell’astuzia della ragione – e una iniziale presa di coscienza”. 102 Si veda ivi, p. 102. 103 Ibidem. 104 Ibidem. 105 Ibidem. 106 Ibidem. 107 Ibidem. 108 Ivi, pp. 102-103. 109 Ivi, p. 106. 110 Ivi, p. 107. 111 Ivi, p. 111. 112 Ibidem. 113 Si veda J. Habermas, Introduzione, in Tra scienza e fede, cit., p. XI: “Il pensiero post-metafisico non può intendere sé stesso se non include nella propria genealogia, accanto alla metafisica, anche le tradizioni religiose. In base a queste premesse sarebbe irragionevole emarginare quelle tradizioni forti, quasi fossero un residuo arcaico, invece di illuminare la connessione interna che le collega alle forme moderne di pensiero. Le tradizioni religiose provvedono ancora oggi all’articolazione della coscienza di ciò che manca. Mantengono desta una sensibilità per ciò che è venuto meno. Difendono dall’oblio le dimensioni della nostra convivenza sociale e personale, nelle quali anche i progressi della razionalizzazione culturale e sociale hanno prodotto distruzioni immani. Perché non dovrebbero pur

sempre contenere racchiusi in sé potenziali semantici che, una volta trasformati nel linguaggio della motivazione, e dopo aver dato alla luce il loro contenuto profano di verità, possono esercitare una loro forza di ispirazione?”. Si vedano anche J. Habermas, Fondamenti pre-politici dello Stato di diritto democratico?, in Tra scienza e fede, cit., pp. 5-18 e Id., La religione nella sfera pubblica. Presupposti cognitivi dell’”uso pubblico della ragione” da parte dei cittadini credenti e laicizzati, in Tra scienza e fede, cit., pp. 19-50. 114 Il confronto tra Joseph Ratzinger e Jürgen Habermas è stato raccolto nel volume: M. Nicoletti (a cura di), Etica, religione e Stato liberale, Premessa di F. Schuller, traduzione di G. Colombi e O. Brino, Morcelliana, Brescia 2005. Sul dialogo di Habermas e Ratzinger si vedano K.-J. Kuschel, “Wie die sich begegnenden Kulturen ethische Grundlagen finden konnen”. Zum Diskurs zwischen Joseph Ratzinger, Jürgen Habermas und Hans Kung, in “Politische Studien. Monatshefte der Hochschule für Politische Wissenschaften München”, n. 1 (2006), pp. 27-41; V. Possenti, Stato, diritto, religione. Il dialogo tra J. Habermas e J. Ratzinger, in “Studia Theologica”, VI, 2, 2008, pp. 114-136; M. Welker, Habermas und Ratzinger zur Zukunft der Religion, in “Evangelische Theologie”, 68 (2008), pp. 310-324; J. Dierken, Die Autonomie der Vernunft und ihr theologischer Sinn. Zur Habermas-Ratzinger-Debatte über Vernunft und Religion, in Kommunikation über Grenzen, a cura di F. Schweitzer, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 2009, pp. 644-656. 115 J. Ratzinger, Ciò che tiene unito il mondo, in Id. – J. Habermas, Etica, religione e Stato liberale, cit., p. 48. 116 Ivi, p. 48. 117 Si veda ivi, p. 52: “Entrambi [N. d. A. il cristianesimo e la ragione] considerano sé stessi, secondo la loro autocomprensione, come universali e de iure possono anche esserlo. De facto devono per necessità riconoscere d’essere accettati solo in parti dell’umanità e di essere anche comprensibili soltanto in parti di essa. Il numero delle culture concorrenti è però molto più limitato di quanto possa apparire a prima vista”. 118 Si veda ivi, p. 53. “Anche se la cultura secolare di una razionalità rigorosa, di cui ci ha dato un’immagine impressionante Habermas, è largamente dominante e crede d’essere il fattore che lega tutto, la comprensione cristiana della realtà è, come sempre, una forza operante. I due poli si trovano in diverse posizioni di vicinanza o di tensione, in atteggiamento di disponibilità ad apprendere reciprocamente o di più o meno deciso rifiuto”. 119 Si veda ivi, p. 56: “Io parlerei di una necessaria correlatività tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e

al mutuo risanamento, e che hanno bisogno l’una dell’altra e devono riconoscersi l’una l’altra”. 120 Si veda ivi, p. 54. Questo è anche il senso del tanto discusso Discorso all’Università di Regensburg, 12 settembre 2006, che voleva essere la constatazione che non è possibile imporre un modello culturale europeo a una realtà culturale ricchissima, ma anche “straniera”, come il pensiero teologico e filosofico islamico. Esso nasceva dal profondo rispetto per una cultura e una mitologia “altra”, piuttosto che dal desiderio, spesso avanzato dalla razionalità europea, di dominarla e di costringerla nei suoi angusti limiti. 121 J. Ratzinger, Ciò che tiene unito il mondo, in Id. – J. Habermas, Etica, religione e Stato liberale, cit., p. 56. 122 J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, in M. Pera – Id., Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Mondadori, Milano 2004, p. 66. 123 Ibidem. 124 Si veda ivi, p. 67: “Il valore della dignità umana, precedente a ogni agire politico e a ogni decisione politica, rinvia al Creatore: soltanto Lui può stabilire valori che si fondano sull’essenza dell’uomo e che sono inviolabili. Che esistano valori che non sono modificabili da nessuno è la vera e propria garanzia della nostra libertà e della grandezza umana; la fede cristiana vede in ciò il mistero del creatore e della condizione di immagine di Dio che egli ha conferito all’uomo”. 125 Si vedano J. Ratzinger, Udienza al nuovo ambasciatore di Germania, 28 settembre 2006; Discorso alle autorità civili e al corpo diplomatico, Praga, 26 settembre 2009; Discorso alla Delegazione della Commissione delle Comunità Europee presso la Santa Sede, 19 ottobre 2009; Udienza generale. Caterina da Siena, patrona dell’Europa, 24 novembre 2010; Messaggio per la celebrazione della XLIV Giornata Mondiale della Pace, 1 gennaio 2011. Si vedano S. Savona e F. Arcelli (a cura di), Le radici giudaico-cristiane nella costituzione europea?, Rubettino, Soveria Mannelli 2004; A. Cortesi e A. Tarquini (a cura di), La laicità e le radici cristiane in Europa, Nerbini, Firenze 2006; R. de Mattei, De Europa. Tra radici cristiane e sogni postmoderni, Le Lettere, Firenze 2006. 126 J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, in M. Pera – Id., Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, cit., p. 71. 127 Ivi, p. 72: “I cristiani credenti dovrebbero concepire se stessi come una tale minoranza creativa e contribuire a che l’Europa riacquisti il meglio della sua eredità e sia così a servizio dell’intera umanità”.

128 J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Introduzione di M. Pera, Cantagalli, Siena 2005. Si veda anche M. Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa, l’etica, con una lettera di Benedetto XVI, Mondadori, Milano 2008. 129 J. Ratzinger, Le origini della teologia occidentale e le radici della cultura europea. Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins (Parigi, 12 settembre 2008), in “Avvenire”, 13 settembre 2008, pp. 4-5. 130 Si veda ivi, p. 4. 131 Si veda ivi, p. 5: “Potremmo dire che questo è l’atteggiamento veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere. Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in sé stesso già un trovare”. 132 J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, cit., pp. 6365.

CAPITOLO DECIMO ASSMANN. RELIGIONI E VIOLENZA. UN ESITO NECESSARIO? Nell’ultimo decennio la filosofia della religione è stata scossa dall’irruzione di un noto egittologo, Jan Assmann, che ha spostato la discussione degli studiosi dal ruolo che la religione rivendica in un contesto pubblico ai suoi fondamenti violenti, in particolare nelle religioni monoteiste. Nell’interpretazione di Assmann, le religioni abramitiche portano con sé un patrimonio di violenza, che è insito nei loro fondamenti dottrinali, che le rende pericolose per la civile convivenza dei popoli nell’epoca della globalizzazione. Questa teoria, come vedremo, pur se più volte criticata, ha segnato e continua a segnare in profondità l’attuale dibattito, sotto la spinta dei tragici eventi di violenza che hanno viste coinvolte le religioni monoteiste. Per comprendere l’argomentazione di Assmann è opportuno partire da una citazione di Goethe, che lui stesso commenta133, tratta da Israel in der Wüste (1797), in cui il poeta tedesco scrive: “Il vero, unico e più profondo tema nella storia del mondo e dell’umanità, al quale tutti gli altri sono subordinati, rimane il conflitto fra la non fede e la fede”134. Il conflitto tra la fede e la non fede, tra la fede vera e la fede falsa o idolatria, segna, ricorda Assmann, l’intero percorso dell’umanità. Il carattere violento della religione, che separa il vero dal falso, le credenze vere dall’idolatria, non è una costante, diciamo così strutturale, dell’essenza della religione, ma viene in luce soltanto a partire dal monoteismo biblico. Nelle religioni pagane, in quella greca così come in quella babilonese o egizia, c’è una distinzione tra puro e impuro, santo e profano, giusto o sbagliato, ma mai tra vero e falso. La distinzione tra veri e falsi

dèi è propriamente monoteistica ed è sconosciuta alle religioni politeistiche. Assmann chiama questa distinzione la distinzione mosaica, perché inizialmente nel suo libro più noto Moses der Ägypter. Entzifferung einer Gedächtnisspur (1998)135, fa risalire la svolta dal politeismo al monoteismo alla figura di Mosè quale è narrata nel libro dell’Esodo136. Egli, sulla scorta di una serie di suoi lavori precedenti come Das kulturelle Gedächtnis: Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen (1992) e dell’influenza degli scritti sul ricordo e la storia di sua moglie Aleida Assman, come Erinnerungsräume: Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnisses (1999)137, precisa che il Mosè cui egli si riferisce non è il Mosè della storia ma il Mosè della tradizione, della memoria storica e culturale: Nel libro Mosè l’egizio […] avevo sviluppato il metodo della mnemostoria e volli rappresentare in quella relazione il grande significato mnemostorico di talune distinzioni intellettuali e mutamenti di direzione. Con l’espressione distinzione mosaica intendevo la svolta dal politeismo al monoteismo, che ha trovato la propria espressione narrativa nel libro dell’Esodo e in Mosè la figura portante del ricordo. Nella prospettiva della mnemostoria, non si guarda al Mosè storico (chi era veramente Mosè), bensì al Mosè oggetto di memoria, al Mosè della tradizione.138

L’interesse di Assmann è volto a ricostruire la figura di Mosè non dal punto di vista storico-critico, ma in base alla sua storia degli effetti o mnemostoria come egli la definisce139. È l’immagine di Mosè quale è rimasta nei secoli successivi a interessarlo, più che la sua esistenza reale come principe egiziano e condottiero del popolo ebraico intorno al XIV-XIII sec. a.C. Per questa ragione Assmann utilizza pochissimo le fonti storiche o l’esegesi veterotestamentaria su Mosè, da cui sono poi provenute le sue principali critiche (T. Rendtorff, K. Koch, E. Zenger), e riprende alcuni scritti filosofici ed esoterici dell’età barocca e illuminista (Toland, Warburton, Reinhold,

Schiller). L’autore barocco di riferimento è John Spencer, cui dedica il capitolo III di Moses der Ägypter, dal titolo Significato e origine della legge. John Spencer come egittologo140. Nel suo De Legibus Hebraeorum Ritualibus et earum Rationibus Libri Tres (1685)141, la tesi di Spencer è che Mosè sia stato culturalmente più permeato dai misteri d’Egitto che dal monoteismo ebraico, in quanto educato come un principe all’interno della corte egizia, quando crebbe e tornò al suo popolo di provenienza portò a quel popolo l’eredità della cultura egizia, trascrivendo in legge e dogmi ebraici quanto aveva appreso in Egitto. Nasce qui l’idea del Mosè egizio, di cui Assmann si è fatto interprete, di un Mosè che è debitore in modo decisivo della tradizione egizia e avrebbe sotto mentite spoglie traslato i misteri egizi, rendendoli comprensibili al popolo ebraico: gli Israeliti ai quali fu data la Legge erano, dal punto di vista culturale, Egizi. Durante il loro lungo soggiorno in Egitto si erano completamente assimilati alla cultura egizia. Per essi, Yahveh era un dio sconosciuto come lo era per il faraone. Quella che oggi chiameremmo etnicità o identità culturale che li avrebbe differenziati dagli Egizi non esisteva ancora, perché la costruzione di tale identità distintiva era per l’appunto il compito della Legge.142

Per Spencer non può porsi differenza tra l’universo egizio e l’universo ebraico, perché ai tempi di Mosè esisteva soltanto una realtà culturale, quella egizia, cui la realtà ebraica partecipava completamente. Solo in seguito grazie a Mosè fu possibile distinguere i due mondi, che nonostante la loro distinzione rimasero profondamente e sostanzialmente uniti nella loro concezione religiosa di tipo misterico. È grazie a un contemporaneo di Spencer, Ralph Cudworth, che Assmann attraverso il suo The True Intellectual System of the Universe (1688)143 scopre che la religione egizia, che è stata tramandata quasi esclusivamente da fonti latine e greche, ha una sua profonda originalità, legata alla natura e non a una

rivelazione, e questa originalità risiede principalmente nell’essere stata una religione inclusiva e non esclusiva, in quanto ha pensato la traducibilità delle divinità che presso il monoteismo era proibita. La religione egizia è uno Spinozismus ante litteram in cui l’adorazione del cosmo (il cosmoteismo) gioca un ruolo unificante rispetto alle singole tradizioni religiose. Se esiste un cosmo unico sotto cui le singole religioni pensano gelosamente la propria divinità, allora deve anche esistere una religione del cosmo che superi e realizzi l’unità delle varie religioni. L’incontro intellettuale, tuttavia, che segna il percorso di Assmann in direzione dell’elaborazione della distinzione mosaica è Der Mann Moses und die monotheistische Religion di Sigmund Freud, l’ultima opera dello psicanalista austriaco, scritta nel 1939 pochi mesi prima di morire, in cui egli riprende un’intuizione che aveva avuto a Roma davanti alla statua di Mosé scolpita da Michelangelo e narrata nel saggio, il Der Moses des Michelangelo. Schriften über Kunst und Künstler (1914)144. In quest’opera Freud discute dell’origine del monoteismo e del suo significato per l’uomo odierno, ponendo al centro della sua attenzione la figura di Mosè, le sue origini e il suo legame con il popolo ebraico. Egli sostiene, giungendovi in modo indipendente da Spencer, che Mosè non fosse ebreo, perché a quel tempo di ebraismo e di etnicità del popolo ebraico ancora non si può parlare, ma fosse un egiziano di antiche e nobili origini che trasmise al popolo ebraico la religione del faraone Akhenaton, un’eresia rigorosamente monoteista che ebbe una vita brevissima nell’Egitto del Nuovo Regno intorno al 1330 a.c.145 Freud è convinto che Mosè riprenda l’eresia di Akhenaton, avvenuta circa 50-100 anni prima della sua nascita, e la trasferisca sotto mentite spoglie al popolo ebraico, a una minoranza all’interno dell’Egitto al fine di far sopravvivere questo antico culto monoteistico146. Tra le prove che Freud porta a suo favore c’è la somiglianza del Dio egizio Aton con

l’ebraico Adonai, tanto che egli traduce la formula ebraica con “Ascolta Israele il nostro Dio, Aton è l’unico Dio”. Inoltre, menziona Freud la somiglianza del Salmo 104 che loda la grandezza e la potenza del Signore nella natura con l’Inno al Sole di Akhenaton del XIV sec. a. c., che è il testo fondamentale nell’introduzione del monoteismo in Egitto. Al culto rigorosamente monoteistico e atonita che il primo Mosè trasmise alla minoranza ebraica, si affianca in seguito l’opera di un sacerdote medianita (che è stato identificato in Jethro, il suocero di Mosè), adoratore di un Dio vulcanico del fuoco, che introdusse il principio della violenza contro gli adoratori degli altri dèi e l’odio verso le altre popolazioni, principalmente il popolo cananeo. Pur riconoscendo la profonda differenza tra il Dio di Akhenaton (o Ekhnaton) e il Dio di Mosè, Assmann concorda con la tesi di fondo di Freud e cerca di attualizzarla sulla base dell’evolversi delle ricerche nell’ambito dell’archeologia e dell’egittologia: Fra il monoteismo di Echknaton e quello di Mosè c’è un abisso. Ciò che hanno in comune è l’aver introdotto la distinzione fra verità e falsità e l’aver fatto della falsità oggetto di emarginazione e persecuzione nel modo più drastico. È inoltre comune a entrambi il fatto che la verità consista nel riconoscimento di un unico Dio.147

L’analogia principale tra la religione di Amarna e la religione biblica risiede nella negazione di tutti gli altri dèi all’infuori del solo Dio, fuori di lui non c’è nessuna altra divinità, nessuna verità ma solo falsità e idolatria. Negare l’esistenza di tutti gli altri dèi è un atto radicalmente rivoluzionario, che ha per Assmann cambiato il volto non solo delle civiltà egizia ed ebraica ma dell’umanità intera. L’innescarsi della violenza religiosa rivolta ai miscredenti, ai pagani è una novità nella storia dell’umanità, perché prima di Mosè la violenza religiosa non aveva il carattere di una punizione verso i miscredenti, i

pagani, quanto piuttosto era compiuta per ingraziarsi i favori della divinità, come presso gli Aztechi. Che cos’è, dunque, si chiede Assmann, la violenza religiosa? A mio avviso si tratta di una violenza che distingue tra amico e nemico in un senso religioso, frutto della distinzione tra vero e falso. La violenza sacrificale distingue tra puro e impuro, dove solo il puro può essere sacrificato, mentre vero e falso non contano. La violenza religiosa si rivolge invece contro i nemici di Dio.148

L’esclusività del Dio biblico richiede che ci si impegni attivamente e in modo violento per ridurre l’apostasia e l’errore e riportare i popoli all’adorazione dell’unico e vero Dio. Le religioni monoteistiche nell’interpretazione di Assmann si basano su una “teologia della differenza”149: il Dio biblico è differente da tutti gli altri dèi. La sua verità è assoluta, proclamata una volta per tutte nelle scritture e esclude ogni altra passata e futura rivelazione. Il possesso della verità differenzia gli adepti delle religioni monoteiste da tutti gli altri culti pagani. Il Dio è unico e chiede una adorazione unica e assoluta e non tollera nessun altro credo e nessun altro Dio. Chi adora il vero Dio è nella verità e deve rimanere separato, anche fisicamente, da chi è nella non verità. Si comprende come questa netta separazione abbia potuto giustificare anche l’uso della violenza nei confronti di chi non condividesse questo credo e fosse considerato come nulla, non-esistente: “Chi rispetterà tale divieto, chi cioè non adorerà altri dèi e rimarrà fedele a Dio, diventerà suo amico e verrà ricompensato per la sua fedeltà fino alla millesima generazione”150. Non c’è nessuna possibilità di conciliazione tra il Dio creatore di tutte le cose e le altre divinità, degradate al rango di semplici dèmoni. Chi possiede la fede del Dio creatore è nella verità e in quanto tale ha l’obbligo di opporsi anche in modo violento a chi è nell’errore. Il monoteismo con la sua rigorosa distinzione tra il vero e il falso, chi è nel vero e chi è nel falso, inaugura secondo Assmann un modo violento di interpretare i rapporti delle

divinità tra loro e dei credenti tra loro. L’inconciliabilità tra le divinità si ripercuote sull’inconciliabilità di diverse religioni e la necessità che soltanto una religione, quella monoteista, sopravviva allo scontro di visioni del mondo. Viene meno completamente nell’ebraismo e in tutte le religioni abramitiche la tolleranza verso il diverso, l’estraneo, colui che pratica un altro culto. Il monoteismo definisce sé stesso principalmente come una contro-religione, perché si fonda sul principio “Non avrai altri dèi!”, quindi prima di dire che cosa esso sia, il monoteismo dice che cosa va innanzitutto evitato: l’avere altri dèi. La storia del monoteismo è perciò la storia di una frattura, di una rottura violenta tra ciò che c’era prima, la religione primaria, e sé stessa come contro-religione. “Il monoteismo è teoclastia”151, come afferma Assmann, perché si pone inizialmente come una opposizione, un contrasto radicale e violento, inaugurando una “semantica della violenza”152, che si porterà dietro come un marchio di origine. A questo aspetto violento e teoclastico del monoteismo si lega la sua contiguità con il potere politico. Ai legami tra politica e religioni Asmmann ha dedicato una densa raccolta di articoli: Herrschaft und Heil. Politische Theologie in Ägypten, Israel und Europa (2000)153, dove analizza la problematica ad ampio spettro: Egitto, Grecità, Cristianesimo, Ebraismo. La consapevolezza di Assmann è che tutte le religioni e le comunità antiche vivano uno stretto legame tra politica e religione. Gli dèi erano gli dèi dello Stato e della città; era sconosciuto un culto personale o individualistico che non toccasse anche la dimensione pubblica e comunitaria. Il patto che Yahwé sigla con gli israeliti ha il carattere di una alleanza politica, di un patto tra due entità dotate di una forza politica. Allo stesso tempo, i Dieci Comandamenti hanno una doppia valenza, sia come regole per una condotta di vita etica sia come fonti di una legislazione pubblica. Nella Legge le due dimensioni, privata e pubblica, non sono separate, ma la

dimensione religiosa diventa fonte di legislazione pubblica. Non esiste da questo punto di vista una distinzione tra comportamenti etici e leggi dello Stato. Il fondamentalismo religioso, radicato nei tre monoteismi, nasce dall’indistinzione tra la sfera dei comportamenti personali e le prescrizioni della legislazione pubblica. Israele fonda insieme lo Stato etico e teocratico. L’unica differenza tra Israele e le altre teocrazie antiche come l’Egitto è che il sovrano antico fungeva da mediatore tra la divinità e il popolo, mentre Yahwé si sceglie il suo popolo e diventa la sua guida senza richiedere ulteriori mediatori. Questa provenienza diretta da Yahwé dei dieci Comandamenti fa sì che il popolo di Israele si senta tenuto a rispettarli fuori da ogni limite temporale. In questo ambito lo studioso tedesco dimostra il suo profondo debito nei confronti di Jacob Taubes e della teologia politica di Carl Schmitt154. Per Taubes e per Schmitt i legami tra l’aspetto sacrale e l’aspetto politico dell’esistenza sono strettissimi, tanto da essere le due facce di una stessa unità: il potere teologicopolitico. Così come la dottrina dello Stato moderno è stata la traduzione in chiave secolarizzata dei concetti teologici di sovranità, legge divina, sudditanza, allo stesso modo nell’antico Egitto e in Israele c’è stata una traduzione inversa dell’idea politica della regalità nell’idea di un Dio unico, onnipotente, legislatore. Il patto che nella Bibbia è stipulato tra Dio e il suo popolo è nell’interpretazione di Assmann la ripresa sul piano religioso dei patti tra Stati e perfino dei patti commerciali: Nella Bibbia Dio si presenta come legislatore: questa è la funzione più importante del re in Egitto e in Mesopotamia. Nella Bibbia il popolo rappresenta il partner dell’alleanza e insieme il partner amoroso, e persino il figlio primogenito di Dio; questo ruolo viene qui trasferito dal re al popolo. Ciò si mostra per molti altri concetti biblici, che derivano dalla sfera politica del sacro regno egizio-orientale. Questa teologizzazione di concetti politici quali diritto, legge, lealtà, filiazione, ira, grazia, etc. fa parte della teologia dell’alleanza biblica e, dunque, della svolta verso il monoteismo, che ho descritto in Mosè l’egizio come l’introduzione della distinzione

mosaica, e che ho approfondito ora molto più dettagliatamente nel mio libro Exodus.155

Al centro dei lavori più recenti dello studioso tedesco156 c’è proprio la riflessione sulla politicizzazione della violenza nell’orizzonte del monoteismo abramitico. La teologia biblica, quale è contenuta nell’Esodo, nel Deuteronomio e nei libri storici (Giosué e i due libri dei Re), nasce da un corto circuito che teologizza la politica e politicizza la religione. Il potere e la salvezza superano la separazione in sfera politica e sfera religiosa e si riunificano in Dio, che è il dispensatore della salvezza in virtù del patto politico-religioso che lui stesso ha stretto con il suo popolo. Coloro che sono al di fuori di questo patto sono allo stesso tempo fuori dalla comunità politica, quindi sono dei nemici, e fuori dalla comunità religiosa e perciò destinati alla dannazione eterna. La politica in tal senso decide anche della salvezza individuale: ciò che è fuori dall’alleanza è fuori dalla salvezza. E per tale ragione la religione diventa la vera garante della politica: lo Stato è giusto solo quando è una diretta emanazione delle leggi divine, che derivano dal patto che il popolo ha stretto con il suo Dio. La questione dei rapporti tra teologia e politica è ripresa da Assmann nella Lettera a Pier Cesare Bori (2015)157, dove mostra come il monoteismo, per un verso, abbia scisso l’Herrschaft dall’Heil, separando in modo definitivo il potere politico da quello religioso e desacralizzando il potere politico, dall’altro, riunisca l’Herrschaft e l’Heil, unendo sotto un’unica entità di tipo religioso la potestà politica e la salvezza individuale. Questa indistinzione tra l’ambito politico e l’ambito religioso ha creato i presupposti per la violenza religiosa, in particolare nel cristianesimo e nell’Islam. Infatti, il Dio geloso (El qanna’) pretende per sé una adorazione unica ed esclusiva e i suoi fedeli sono chiamati a essere dei fedeli esecutori del volere divino. La figura dello zelota, il fanatico seguace disposto a usare violenza pur di imporre il volere di Dio, nasce

nel seno del monoteismo abramitico ed è la conseguenza naturale del suo esclusivismo158. Questa nuova concezione esclusiva della divinità si pone in netta contrapposizione con il paganesimo che lo aveva preceduto, dove molte divinità convivevano tra loro pacificamente e nessuna pretendeva il monopolio sulla sfera religiosa: Le religioni monoteistiche si basano su una teologia della differenza. Il loro Dio è diverso da tutti gli altri dèi, la loro religione è diversa da tutte le altre religioni. Si fondano su una verità assoluta proclamata una volta per tutte, e la cui rivelazione codificata in scritture sacre. Il possesso e il rispetto di questa verità li differenzia dagli altri, pagani e miscredenti, e li separa polemicamente. Una simile cosa è ignota alle antiche religioni politeistiche. In esse non dominava il principio della separazione nei confronti degli altri, bensì quello della traducibilità: gli dèi delle religioni politeistiche erano traducibili gli uni negli altri, così che queste religioni non dovevano sforzarsi di riconoscere i propri dèi in quelli degli altri o almeno di metterli in relazione, perché tutti avevano una funzione cosmica o culturale, dunque un tertium comparationis, che li rendeva correlabili e persino reciprocamente traducibili.159

La traducibilità pagana degli dèi è nell’interpretazione secondo Assmann l’unica possibilità di contrastare, come lo è stato già nel mondo antico, il fanatismo del monoteismo160. Essa è conosciuta non sono nell’ellenismo greco-romano, dove divenne la regola dei rapporti tra le religioni, ma anche presso le antiche società del Vicino Oriente, dalla civiltà egizia e babilonese: Già nel secondo millennio tuttavia le diverse civiltà e i diversi politeismi del mondo antico avevano raggiunto un livello sorprendente di traducibilità interculturale. La convinzione che gli dèi fossero internazionali caratterizzava già le religioni politeistiche dell’antico Oriente. Non dobbiamo immaginarci il politeismo come qualcosa di primitivo e di spontaneo.161

La traduzione dei nomi degli dèi stranieri nelle varie lingue è una tradizione antichissima presso le culture del Vicino e

Medioriente, che si è arrestata soltanto con l’insorgere del monoteismo, in cui Yahwé è geloso del suo nome che non può essere tradotto in altre lingue ma deve rimanere lo stesso, proprio a dimostrazione che la sua unicità è assoluta e parte dal suo stesso nome che non ha corrispettivi in nessuna altra lingua. La caratteristica principale del politeismo è di aver immaginato un universo plurale di divinità che non vivono gelosamente rinchiuse nel proprio mondo, confinate in un rapporto unico ed esclusivo con i propri fedeli, ma si aprono alla libera traduzione, alla trasposizione con le divinità di altri popoli. Ciò è reso possibile dal fatto che le divinità sono poste al centro di una quantità di narrazioni mitiche, di racconti che “costruiscono” il loro significato per il credente. Ogni divinità non è unica e singolare come il Dio monoteista, caratterizzato da una storia personale, da una volontà, da alcuni sentimenti prevalenti e perfino da un volto. Le divinità pagane incarnano dei simboli, dei significati complessivi legati al cosmo o all’esistenza dell’uomo, il sole la luna la saggezza la morte, che sono facilmente comprensibili e accettabili anche da altri popoli, che evidentemente traducono in un’altra lingua una stessa esperienza umana. È questa dimensione vitale, “esistenziale” delle divinità che le rendono traducibili: In forza di questa dimensione semantica i nomi degli dèi diventano traducibili. […] I membri altamente differenziati di pantheon politeistici si prestano facilmente a essere tradotti dall’una nell’altra religione o cultura. […] La traduzione funziona perché i nomi hanno non solo un referente, ma anche un significato. Il significato di una divinità è nei suoi tratti distintivi, quali si manifestano in miti, inni, riti, ecc. Tali tratti consentono di paragonare la divinità ad altre divinità con tratti similari. La somiglianza delle divinità rende possibile la reciproca traducibilità degli appellativi. […] La prassi della traduzione dei nomi di divinità creò un concetto di uguaglianza e di comparabilità degli dèi al di là dei confini delle religioni e produsse alla fine l’idea che gli dèi fossero internazionali, vale a dire più o meno gli stessi ovunque.162

Esisteva, ad esempio, presso i Sumeri, ricorda Assmann, una scienza degli elenchi già nel terzo millennio, in cui in uno stesso glossario è riportato il nome di una divinità in due o più lingue, in modo che una divinità possa essere identificata come la stessa passando da una cultura o da una lingua all’altra. La permeabilità di fondo delle divinità politeistiche è stata sfruttata soprattutto nell’ambito del diritto tra gli Stati e del diritto commerciale. La tolleranza religiosa diviene il senso più evidente delle religioni politeiste, in cui non solo non esiste una divinità assoluta che annichilisce le altre, ma le stesse divinità di un popolo non pretendono di estendere la loro potestà su quelle di un’altra popolazione. Si instaura un regime di reciproca convivenza tra gli dèi sia all’interno di un popolo sia in relazioni alle popolazioni vicine. Viene così tolta alla radice la possibilità dell’insorgere della violenza religiosa, laddove una divinità desidera prevalere sulle altre e chiede ai suoi fedeli di operare in modo violento affinché si compia questa prevalenza. L’insorgere della violenza nel contesto politeistico è arrestata dalla stessa costituzione “teologica” del dato religioso, perché nel pantheon politeistico ciò che rimane lo stesso è il significato di una divinità, la sua dimensione denotativa, mentre cambia l’espressione puramente linguistica. “La grande conquista del politeismo, dice Assmann, è la costruzione di un universo semantico comune”163. La divinità solare o lunare appartiene a un universo semantico comune a tutte le culture del Vicino Oriente e non è difficile trovare la divinità del sole e della luna nelle culture egiziana, mesopotamica, greca, romana. La forte interconnessione di queste culture, che vissero spesso a stretto contatto, fece nascere la consapevolezza che esistesse una sola religione, sebbene articolata nella pluralità delle esperienze culturali. I nomi, i simboli, le rappresentazioni possono cambiare ma gli dèi rimangono gli stessi. Per spiegare questa differenza Assmann richiama la distinzione di de Saussure tra le langage, che indica la possibilità umana e

biologica di parlare, e la parole come la concretizzazione del langage nelle singole articolazioni sia nazionali, les langues, sia individuali come modalità di espressione, utilizzo di determinati costrutti. La religione politeista per Assmann si muove su questi due livelli: essa è 1. la capacità, il desiderio che tutti gli uomini hanno di rivolgersi all’Assoluto, di fare esperienze del cosmo che li circonda e dei rapporti interumani che sono comuni e che tutti gli uomini indipendentemente dalla loro provenienza posseggono; 2. la concretizzazione di questo universale sentimento religioso in una molteplicità di religioni, in una serie di miti e narrazioni locali, che si articolano secondo cerimonie e liturgie che cambiano da popolazione a popolazione. Questo sottile equilibrio di universalismo e particolarismo permea le religioni politeiste, che sempre tese tra il possesso della propria tradizione e la consapevolezza che possono essere messe a confronto con le altre tradizioni, perché si riferiscono a un principio comune radicato nella natura e nell’uomo che non cambia, ma dipende dalla comune appartenenza al genere umano. Negli anni più recenti Assmann ha rivolto il suo interesse prevalentemente alla ricostruzione della possibilità di superare la distinzione mosaica attraverso il ritorno a una concezione più frastagliata, se non espressamente politeistica, della religione. Il superamento della distinzione mosaica avviene per Assmann decostruendo le pretese di verità del monoteismo e rivalutando ciò che appartiene a una visione della verità nell’ambito religioso che abbia un carattere più aperto e tollerante. Per questa ragione egli riprende l’ideale della religio duplex dell’Illuminismo tedesco, insieme alla prisca theologia dell’Umanesimo e del Rinascimento. Nel Settecento è stata in auge presso Lessing, Mendelssohn e lo stesso Mozart la concezione della religio duplex, che opera una distinzione tra la religione popolare (essoterica), che è rivolta a tutto il popolo, e la religione d’élite (esoterica), rivolta a una piccola minoranza

che è in grado di comprenderla. Nella religione popolare sono incluse le religioni concrete, storiche, con le loro differenze locali, che sono espresse in modo che il popolo possa intenderle e al suo interno rientrano anche l’ebraismo, il cristianesimo, l’islam. Invece, la religione d’élite è una religione profonda, ancestrale, che soltanto pochi uomini illuminati possono decifrare e che è unica per tutta l’umanità senza distinzioni concrete e storiche, per cui “esistono numerose religioni concrete o superficiali, ma solo una religione profonda”164. L’idea settecentesca della religio duplex inaugura per Assmann un’ideale di tolleranza religiosa, che non avrà uguali nella storia dell’umanità e che è ben espresso nella parabola dei tre anelli di cui parla Lessing in Nathan il Saggio (1779)165. La religione profonda è una religione libera e tollerante, che non conosce dogmi e norme rigide, così come non ha un concetto di vero/falso, cui il fedele si deve attenere con rigida fissità. Essa supera d’un balzo la distinzione tra il vero e il falso nella religione. È chiesto alla religione popolare di non chiudersi a questo secondo livello della religione, ma di aprirsi a esso con la consapevolezza che così come esiste nella religione un contenuto storico e dogmatico, che differenzia una credenza religiosa dall’altra, ugualmente esiste una radicata tendenza in ogni uomo, per via della sua umanità, a rivolgersi alla divinità che è intimamente legata al senso dell’esistere: Con l’idea di una sovra- o inter-religione, di una religione naturale, comune a tutti gli uomini al di là delle loro religioni positive ereditate, il principio della doppia religione, che indica la contrapposizione tra religione popolare e i misteri, o tra superstizione e verità, si estende all’universale e all’umano. Dalla contrapposizione tra religione pubblica e segreta deriva quella tra religione particolare o positiva, e universale o naturale.166

Questo aspetto dell’ultima riflessione di Assmann è certamente problematico, anche perché non si vede bene come nel concreto questa religione profonda possa essere professata e se in generale sia possibile una religione universale senza che si

trasformi semplicemente in una convinzione filosofica sull’esempio gnostico. Assmann stesso riconosce che in quanto tale la distinzione tra religione superficiale e religione profonda, se è chiarificatrice dal punto di vista teorico, non ha alcuna possibilità di essere applicata nel concreto nella condizione dell’umanità tardo-moderna. L’applicabilità della religione profonda si riferisce piuttosto nella realtà odierna alla possibilità di superare le differenze concrete delle singole religioni, per raggiungere un punto di vista unitario, che egli chiama “il punto trascendentale”167, in virtù del quale sia possibile attuare una vera tolleranza, in cui le differenze tra le singole religioni concrete si fondino nell’aspirazione comune dell’umanità al bene. Questa religione trascendentale non possiede dogmi e prescrizioni vincolanti, che la riporterebbero nell’alveo delle religioni concrete, ma solo la consapevolezza che Dio è diverso, non solo dagli dèi ma anche da qualsiasi rappresentazione che qualsiasi religione concreta può produrre. È questa assoluta differenza divina a precludere qualunque forma di intollerante insistenza sul possesso esclusivo della verità.168

Consapevole dell’evanescenza di una simile proposta religiosa, Assmann cerca di dare un volto concreto a questa religione profonda con il riferimento all’opera e alle idee del Mahatma Gandhi, quali sono delineate nello scritto di Dieter Conrad, Gandhi und der Begriff des Politischen (2006)169. Anche Gandhi, infatti, distingue tra le religioni concrete come l’induismo, il buddhismo, l’islam, l’ebraismo e il cristianesimo e una religione “vera” cui tutte le religioni tendono. Nella religione vera si raggiunge la verità delle religioni in un’unità che pervade ogni cosa. Consapevole dell’impossibilità di superare le religioni concrete, Gandhi crede nella possibilità che le religioni trovino un terreno di confronto e tolleranza comune riferendosi a una religione universale dell’umanità da cui tutte le religioni provengono. Questa Religione, con la R maiuscola,

non potrà mai essere istituzionalizzata, ma è il frutto di un percorso di ricerca personale e individuale. È chiaro il rifiuto di Gandhi per la presenza pubblica della religione, che crea conflitti e contrasti insanabili, e la scelta per una religione personale, intesa come ricerca, inquietudine, in breve come un religioso intimismo. In tal modo, la religione viene confinata nell’irrilevanza sociale e politica e affidata a una buona volontà personale, che ricerca il bene e l’unità di tutti gli uomini in un quadro complessivo di tolleranza sincretistica di tutte le confessioni religiose. La fragilità dell’ipotesi di una religione profonda e tollerante, di stampo illuminista e massonico, da contrapporsi o da affiancarsi alle religioni concrete, che tendono all’intolleranza e a una implicita istigazione alla violenza interetnica e interreligiosa, è palese e costituisce l’aspetto meno convincente della riflessione di Assmann, che invece pone delle serie questioni alle religioni concrete di origine abramitica, che la filosofia odierna della religione non può ancora a lungo trascurare. Il carattere violento delle religioni abramitiche, soprattutto di quelle che sono state tenute ai margini della modernità, è difficilmente negabile; si tratta ora di comprendere le motivazioni di questa violenza religiosa che vanno certamente individuate nel confronto-scontro con la modernità e in particolare con la sfera pubblica nelle moderne democrazie occidentali. La violenza religiosa, e in questo vede bene Assmann, nasce non nel cuore dell’esperienza religiosa di queste religioni, ma nel momento in cui si cerca di “tradurre” questa esperienza nel linguaggio della sfera pubblica. C’è in questo istante un errore di traduzione che rende un messaggio personale di salvezza un ostacolo alla pacifica convivenza di differenti gruppi etnici e religiosi che si trovano a dover vivere in uno stesso territorio. Una frattura ermeneutica che trasforma il paradiso individuale nell’inferno collettivo.

Superare la violenza religiosa, che si è innestata nelle religioni monoteiste, è certamente possibile, ma sembra difficile, se non proprio velleitario, pensare di sostituirla con una religione intimistica ed elitaria, soprattutto presso culture premoderne che vivono la dimensione comunitaria molto più di quella individuale. Bisogna tornare a una corretta grammatica dell’esperienza religiosa, che non tradisca la traduzione dell’esperienza religiosa individuale nell’esperienza collettiva. Tra l’esperienza individuale e l’esperienza collettiva c’è certamente una profonda continuità, ma sarebbe errato pensare di poter semplicemente riprodurre a livello collettivo l’esperienza individuale, così come è sbagliato pensare di rendere letteralmente un testo da una lingua all’altra, senza operare adattamenti, senza addossarsi il rischio della traduzione. All’uomo religioso è richiesto di essere sensibile all’attività ermeneutica, di adattare il testo della propria esperienza religiosa nel tessuto sociale e collettivo che parla un linguaggio diverso, molto o appena diverso non conta, ma comunque diverso dal linguaggio dell’esperienza personale. Questa opera difficile, rischiosa di traduzione sarà più complessa del semplice richiamo a una religione intimistica e “irrilevante”, a una religione massonica ed elitaria, dove l’esperienza vissuta cede il passo al passatempo intellettuale, ma si può essere certi che sarà più fruttuosa perché ci permetterà di confrontarci con la nostra tradizione religiosa storica e concreta, senza cedere alla pretesa assolutistica di saturare tutti gli spazi di dialogo della società civile, ma anche senza abbandonare l’esperienza religiosa. 133 J. Assmann, Il disagio dei monoteismi. Sentieri teorici e autobiografici, Morcelliana, Brescia 2016, p. 43. Si veda la numerosa letteratura critica su Assmann che è stata pubblicata in questi ultimi anni: G. Kaiser, War der Exodus der Sündenfall? Fragen an Jan Assmann anläßlich seiner Monographie „Moses der Ägypter”, in “Zeitschrift für Theologie und Kirche” (ZThK), Nr. 98, 2001, pp. 1-24; M. K. Holl, Semantik und soziales Gedächtnis. Die Systemtheorie Niklas Luhmanns und die

Gedächtnistheorie von Aleida und Jan Assmann, Königshausen und Neumann, Würzburg 2003; J. Thonhauser, Das Unbehagen am Monotheismus. Der Glaube an den einen Gott als Ursprung religiöser Gewalt? Eine aktuelle Debatte um Jan Assmanns Thesen zur Mosaischen Unterscheidung, Tectum-Verlag, Marburg 2008; R. Gibellini, Il monoteismo e il linguaggio della violenza. Il dibattito teologico sul libro di Jan Assmann, Mosè l’egizio, in “Concilium”, IV, 2009, pp. 141-147; J. Schraten, Zur Aktualität von Jan Assmann: Einleitung in sein Werk, VSVerlag, Wiesbaden 2011; G. Kaiser – K. Koch – K. J. Kuschel – R. Rendtorff – E. Zenger, Appendice, in J. Assmann, La distinzione mosaica ovvero il prezzo del monoteismo, Adelphi, Milano 2011, pp. 205-234, pp. 187-204, pp. 235-246, pp. 161-174, pp. 175-186; R. Celada Ballanti – F. Ghia (a cura di), Jan Assmann e la distinzione mosaica, in “Humanitas”, 68, 5, 2013; J. Assmann, J.-H. Tück, Monotheismus unter Gewaltverdacht. Zum Gespräch mit Jan Assmann, Herder, Freiburg im Br., Basel, Wien 2014. 134 J. W. Goethe, Divano occidentale-orientale, a cura di G. Cusatelli, Einaudi, Torino 1990, p. 326. 135 J. Assmann, Mosè l’egizio. Decifrazione di una traccia di memoria, traduzione di E. Bacchetta, Adelphi, Milano 2000. 136 J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, traduzione di F. de Angelis, Einaudi, Torino 1997. 137 A. Assmann, Erinnerungsräume. Formen und Wandel des kulturellen Gedächtnisses, C. H. Beck Verlag, München 1999. 138 J. Assmann, Il disagio dei monoteismi, cit., p. 39. 139 Nei suoi lavori più recenti Assmann, accogliendo le critiche mosse da eminenti teologi ed esegeti tedeschi come Klaus Koch e Rolf Rendtorff, preferisce non definire più come distinzione mosaica la distinzione tra il vero e il falso nella religione ebraica, perché prende atto che essa non risale direttamente al Mosè dell’Esodo quanto alla tradizione profetica più recente (Geremia, il Deutero-Isaia). Si veda Jan Assmann, Il disagio dei monoteismi, cit., p. 31: “Importanti per me furono soprattutto le obiezioni da parte di diversi studiosi dell’Antico Testamento quali Klaus Koch, Rolf Rendtorff, Erich Zenger, per i quali la differenza tra vero e falso nel libro dell’Esodo non gioca alcun ruolo. Qui si ragiona molto di più sulla differenza tra schiavitù (in Egitto) e libertà (nel patto con Dio). Questo è assolutamente corretto. La differenza tra vero e falso compare per la prima volta presso i profeti come Geremia e Deutero-Isaia, e dunque non ha niente a che fare con Mosè”. Inoltre, J. Assmann, Il disagio dei monoteismi, cit., p. 42/43: “Oggi non chiamerei più questa distinzione

mosaica, perché nel Mosè della Bibbia, cioè il Mosè dei libri dell’Esodo, Numeri e Levitico, non è in gioco tanto la distinzione tra religione vera e falsa, bensì quella tra libertà e schiavitù, così come la differenza tra fedeltà al patto e rottura del patto. […] La distinzione tra vero e falso non ha certamente nulla a che fare con Mosè, piuttosto con Zarathustra. Nella Bibbia comparve per la prima volta nei profeti dell’esilio e del post-esilio come, tra gli altri, Geremia, Deutero-Isaia, Daniele, e risale probabilmente a influssi zoroastriani. Infine gli Alchmenidi, che sconfissero i Babilonesi, che liberarono gli ebrei e dominarono per 200 anni sulla provincia di Yehud, aderivano allo Zoroastrismo”. 140 J. Assmann, Mosè l’egizio, cit., pp. 85-138. 141 J. Spencer, De Legibus Hebraeorum Ritualibus et earum Rationibus Libri Tres, Richard Chiswel, Cambridge, 1685. 142 J. Assmann, Mosè l’egizio, op. cit., p. 109. 143 R. Cudworth, The True Intellectual System of the Universe (1688), J. Walthoe, London, 1743. 144 S. Freud, Il Mosè di Michelangelo (1914), traduzione di D. Silvano, Bollati Boringhieri, Torino 1977. 145 Si vedano: E. Moschetti, Akhenaton storia di un’eresia, Ananke, Torino 2009; F. Cimmino, Akhenaton e Nefertiti, Milano, Rusconi, Milano 1995; E. Hornung, Akhenaton. La religione della luce nell’antico Egitto, traduzione di C. Salone, presentazione di C. Sturtewagen, Salerno Editore, Roma 1998; C. Aldred, Akhenaton. Il faraone del sole, Newton & Compton, Roma 1996 G. Posener, Sur le monothéisme dans l’ancienne Égypte, in A. Caquot e M. Delcor (a cura di), Mélanges biliques et orientaux en l’honneur de M. Henry Gazelles, Verlag Butzon & Bercker, Kevelaer-Neukirchen-Vluyn 1981, pp. 347-351. 146 S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti, in Opere 1930-1938, vol. 11, Edizione diretta da C. L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1979, p. 349: “Un avvenimento molto notevole della storia religiosa egizia, che è stato riconosciuto e valutato solo recentemente, ci apre un altro spiraglio. Rimane cioè possibile che la religione data da Mosè al popolo ebraico fosse davvero la sua, una religione egizia, anche se non la religione egizia. Durante la gloriosa diciottesima dinastia, sotto la quale l’Egitto per la prima volta divenne un impero mondiale, salì al trono introno all’anno 1375 a. C. un giovane faraone, che dapprima si chiamò Amenofi (IV) come il padre, ma poi cambiò nome, e non solo nome. Questo re tentò di imporre a suoi sudditi una nuova religione, che era in contrasto con le loro tradizioni millenarie e con tutte le consuetudini di vita loro familiari. Si trattava di un rigoroso monoteismo, il primo tentativo del genere nella storia mondiale, per quanto

ne possiamo sapere; e con la fede in un unico dio nacque inevitabilmente l’intolleranza religiosa, sconosciuta all’antichità prima di allora e ancora per molto tempo dopo”. 147 J. Assmann, Mosè l’egizio, cit., p. 276. 148 J. Assmann, Non avrai altro Dio, il Mulino, Bologna 2007, pp. 22-23. 149 J. Assmann, Il disagio dei monoteismi, cit., p. 46. 150 J. Assmann, Non avrai altro Dio, cit., p. 71. 151 J. Assmann, La distinzione mosaica ovvero il prezzo del monoteismo, traduzione di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2011. 152 Ibidem. 153 J. Assmann, Potere e salvezza. Teologia politica dell’antico Egitto, in Israele e in Europa, traduzione di U. Gambini, Einaudi, Torino 2002. 154 J. Taubes, La teologia politica di san Paolo, Lezioni tenute dal 23 al 27 febbraio 1987 alla Forschungsstätte della Evangelische Studiengemeinschaft di Heidelberg, traduzione di P. Dal Santo, Adelphi, Milano 1997; J. Taubes, Messianismo e cultura: saggi di politica, teologia e storia, a cura di E. Stimilli, Garzanti, Milano 2001; C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus publicum europaeum”, traduzione e postfazione di E. Castrucci, cura editoriale di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991; C. Schmitt, Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, Giuffré, Milano 1992. 155 J. Assmann, Il disagio dei monoteismi, cit., p. 56. 156 Tra i lavori più recenti del filosofo della religione tedesco si vedano in particolare: J. Assmann, Religio duplex. Ägyptische Mysterien und europäische Aufklärung, Verlag der Weltreligionen, Berlin 2010; J. Assmann, Introduzione a K. L. Reinhold, I misteri ebraici ovvera la più antica massoneria religiosa, a cura di G. Paolucci, Quodlibet, Macerata 2011, pp. 13-61; J. Assmann, Cultural Memory and the Myth of the Axial Age, in R.N. Bellah – H. Loas (a cura di), The Axial Age and its Consequences, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge 2012, pp. 366-407; J. Assmann, A. Assmann (a cura di), Vollkommenheit, Fink, München 2010; J. Assmann, H. Strohm (a cura di), Magie und Religion, Fink, München 2010; J. Assmann, H. Strohm (a cura di), Herrscherkult und Heilserwartung, Fink München 2010; J. Assmann, Steinzeit und Sternzeit: Altägyptische Zeitkonzepte, Fink, Paderborn 2011; J. Assmann – H. Strohm (a cura di), Homo religiosus. Vielfalt und Geschichte des religiösen Menschen, Wilhelm Fink, München 2014; J. Assmann, From Akhenaten to Moses, The American University in Cairo Press, Cairo-New York 2014; J. Assmann, Das Oratorium „Israel in Egypt” von Georg Friedrich Händel, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart

2015; J. Assmann, Die Zauberflöte. Eine Oper mit zwei Gesichtern, Picus, Wien 2015. 157 J. Assmann, Lettera a Pier Cesare Bori, in Monoteismo e distinzione mosaica, a cura di R. Celada Ballanti, Morcelliana, Brescia 2015, pp. 2743. 158 Si veda ivi, p. 42: “Io credo che uno dei compiti più importanti sia di separare finalmente la religione dalla politica e dalla violenza. Se la religione deve svolgere la sua funzione di potere alternativo nel mondo moderno, l’unica cosa che si può opporre al potere politico nella sua pretesa totalizzante sulla vita umana, essa deve rinunciare all’uso della violenza. Questo significa che le religioni post-bibliche devono prendere le distanze da parti delle loro stesse tradizioni e devono storicizzare aspetti dei loro testi sacri. Il concetto stesso di rivelazione divina deve essere limitato e messo in relazione alla sapienza, senza la quale la razza umana non sopravviverà nell’età della globalizzazione”. 159 J. Assmann, Il disagio dei monoteismi, cit., p. 47. 160 Ibidem: “Venni a contatto con l’idea di traducibilità in senso religioso quando nel 1991 fui invitato a Gerusalemme per partecipare a un congresso sul tema The Translatability of Cultures (La traducibilità delle culture). Là tenni una conferenza dal titolo Translating Gods (Tradurre gli dèi). La facilità con cui gli Egizi traducevano i nomi dei loro dèi in greco, ovvero con cui li traducevano con i rispettivi nomi degli dèi greci, mi ha sorpreso da subito. Amun si traduce con Zeus, Osiride con Dioniso, Thot con Hermes, Ptah con Efesto, Hathor con Afrodite, Horus con Apollo, e così via […] Per poter tradurre concetti di lingue diverse, dev’esservi un referente comune, un comune denominatore semantico. Questi denominatori comuni, per le antiche religioni, erano rappresentati da entità cosmiche come il sole, la luna, l’acqua, l’aria, etc., oppure da aspetti culturali ed esistenziali umani come la scrittura, l’aritmetica, la saggezza, l’amore, la morte, il potere, etc. Furono le religioni dell’immanenza, l’intramondanità degli dèi, a rendere possibile la loro traducibilità”. 161 J. Assmann, Mosè l’egizio, cit., p. 73. 162 Ivi, p. 74. 163 J. Assmann, Dio e gli dèi. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, traduzione di L. Santi, il Mulino, Bologna 2009, p. 78. 164 Ivi, p. 204. 165 Nel terzo atto (scena 7) della commedia Nathan il Saggio di Lessing il protagonista viene messo alla prova dal sultano Saladino che gli chiede quale sia la vera religione. Il saggio mercante, visto il carattere insidioso della domanda, non risponde direttamente ma racconta la parabola dei tre anelli identici, simboleggianti le tre grandi religioni monoteistiche. G. E.

Lessing, Nathan il Saggio, introduzione di E. Bonfatti, traduzione e note di A. Casalegno, Garzanti, Milano 2002, pp. 155-163: “Molti anni or sono un uomo, in Oriente, possedeva un anello inestimabile, un caro dono. La sua pietra, un opale dai cento bei riflessi colorati, ha un potere segreto: rende gradito a Dio e agli uomini chiunque la porti con fiducia. Egli lasciò l’anello al suo figlio più amato; e lasciò scritto che a sua volta quel figlio lo lasciasse al suo figlio più amato; e che ogni volta il più amato dei figli, senza tenere conto della nascita ma soltanto per forza dell’anello, diventasse il capo e il signore del casato. E l’anello così, di figlio in figlio, giunse alla fine a un padre di tre figli. Tutti e tre gli ubbidivano ugualmente ed egli li amava tutti nello stesso modo. Così, con affettuosa debolezza, promise l’anello a tutti e tre. Andò avanti così finché poté. Ma, vicino alla morte, quel buon padre si trova in imbarazzo. Offendere così due figli, fiduciosi nella sua parola, lo rattrista. Che cosa deve fare? Egli chiama in segreto un gioielliere, e gli ordina due anelli in tutto uguali al suo; e con lui si raccomanda che non risparmi né soldi né fatica perché siano perfettamente uguali. Quando glieli porta, nemmeno il padre è in grado di distinguere l’anello vero. Felice, chiama i figli uno per uno, impartisce a tutti e tre la sua benedizione, a tutti e tre dona l’anello e muore. Morto il padre, ogni figlio si fa avanti con il suo anello e pretende di essere il signore del casato. Si litiga, si indaga, si accusa. Invano. Impossibile provare quale sia l’anello vero, quasi come per noi provare quale sia la vera fede. I figli si accusarono in giudizio. E ciascuno giurò al giudice di avere ricevuto l’anello dalla mano del padre (ed era vero), e molto tempo prima la promessa dei privilegi concessi dall’anello (ed era vero anche questo). Il padre, ognuno se ne diceva certo, non poteva averlo ingannato; prima di sospettare questo, diceva, di un padre tanto buono, non poteva che accusare dell’inganno i suoi fratelli, di cui pure era sempre stato pronto a pensare tutto il bene; e si diceva sicuro di scoprire i traditori e pronto a vendicarsi. Il giudice disse: Portate subito qui vostro padre o vi caccio via. Pensate che stia qui a risolvere enigmi? O volete restare finché l’anello vero parlerà? Ma… aspettate! Voi dite che l’anello vero ha il magico potere di rendere amati, graditi a Dio e agli uomini. Sia questo a decidere! Gli anelli falsi non potranno. Su, ditemi: chi di voi è il più amato dagli altri due? Avanti! Voi tacete? Ciascuno di voi ama solo sé stesso? Allora tutti e tre siete truffatori truffati! I vostri anelli sono falsi tutti e tre. Probabilmente l’anello vero si perse e vostro padre ne fece fare altri tre per sostituirlo. Il mio consiglio è questo: accettate le cose come stanno. Ognuno ebbe l’anello da suo padre: ognuno sia sicuro che esso è autentico. Vostro padre, forse, non era più disposto a tollerare ancora in casa sua la tirannia di un solo anello. E certo vi amò ugualmente tutti e tre. Non volle, infatti,

umiliare due di voi per favorirne uno. Orsù! Sforzatevi di imitare il suo amore senza pregiudizi. Ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno il potere della pietra nel suo anello, con la dolcezza, la pazienza, la carità e con profonda devozione a Dio. Quando il potere degli anelli apparirà nei nipoti, e nei nipoti dei nipoti, io li invito a tornare in tribunale, fra mille e mille anni. Sul mio seggio siederà un uomo più saggio di me e parlerà. Andate! Così disse quel giudice modesto”. Sulla parabola dei tre anelli si veda R. Celada Ballanti, La parabola dei tre anelli. Migrazioni e metamorfosi di un racconto tra Oriente e Occidente, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2017. 166 J. Assmann, Religio duplex. Ägyptische Mysterien und europäische Aufklärung, Verlag der Weltreligionen, Berlin 2010, p. 173 (citato anche in J. Assmann, Il disagio dei monoteismi, cit., p. 74). 167 Ivi, p. 205. 168 J. Assmann, Dio e gli dèi. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, cit., p. 205. 169 D. Conrad, Gandhi und der Begriff des Politischen, Fink, München 2006.

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Tonelli, I., Ermeneutica della traduzione e monoteismo inclusivo, in “Humanitas”, nuova serie, Brescia, anno LXVIII (2013) n. 5, pp. 831-845

FILOSOFIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna 505. Valentino Bellucci (a cura di), Uddhava-gītā. Il grande dialogo della liberazione 506. Emanuele Enrico Mariani, Come un sole al mattino. Etica, psicologia e trasfigurazione del sacro nel Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche, prefazione di Elke Angelika Wachendorff, postfazione di Giuseppe Aziz Spadaro 507. Jacques Ellul, Sistema, testimonianza, immagine, Saggi sulla tecnica, a cura di Cristina Coccimiglio 508. David Hume, Scritti sulla guerra (1745-1748), a cura di Spartaco Pupo 509. Luigina Mortari, La materia vivente e il pensare sensibile. Per una filosofia ecologica dell’educazione 510. Walter Benjamin, Il concetto di critica d’arte nel romanticismo tedesco 511. Natale Sansone, La ragione schiava delle passioni. Hume, Sade e un altro illuminista radicale 512. Guido Cusinato, Ferdinando Luigi Marcolungo e Alberto Romele (a cura di), Interpretazione e Trasformazione 513. Caterina Di Rienzo, Per una filosofia della danza. Danza, corpo, chair 514. Daniele Sgaravatti, Esperimenti mentali e metodo filosofico. Un saggio antieccezionalista 515. Daniela Andreatta, Vivere senza appello. La scommessa di Camus 516. Silvio Ceccato, La mente vista da un cibernetico 517. Paolo Calegari, In(equalities) 518. Cecilia Rofena, Allo scoperto.L’emozione del linguaggio 519. Claudia Caneva, Mahougnon Sinsin, Scaria Thuruthiyil, Filosofie in dialogo. Lexikon universale: India, Africa, Europa 520. Francesca Ferrara, Alle origini del sacro. L’esperienza religiosa in Rudolf Otto 521. Carmela Covino, La prima voce 523. Antonio De Simone, Dismisure. Abensour, Machiavelli e la contemporaneità 524. Mirko Integlia, Filosofie e narrazioni dell’assurdo 525. Riccardo Roni, Il flusso interculturale. Pragmatismo etico e peso della storia nella filosofia emergente 526. Francesco Roat, Religiosità in Nietzsche. Il vangelo di Zarathustra 527. Marco Francesconi e Daniela Scotto di Fasano (a cura di), Aree di

confine. Cosa, Corpo, Parole tra Filosofia e Psicoanalisi 528. Stefano Versace, Leopardi e l’analogia. Una nuova lettura dello Zibaldone 529. Gloria Zanardo, Un’apertura di infinito nel finito 530. Adriana Romaldo (a cura di), A Maurizio Bettini. Pagine stravaganti per un filologo stravagante 531. Marco Ferrari (a cura di), Il problema della giustizia 532. Lucia Parente, Rosa Chacel lettrice di Ortega y Gasset 533. Marco Ferrari (a cura di), Logos e techne 534. Louis Bertrand Castel, L’uomo morale contro l’uomo fisico di Rousseau. Lettere filosofiche, dove si confuta il Deismo contemporaneo 535. Domenico Devoti, Gli psicologi di fronte a Dio. Volume I. Il contrastato percorso della psicologia della religione 536. Giulia Delogu, La poetica della virtù. Comunicazione e rappresentazione del potere in Italia tra Sette e Ottocento 537. Tonino Griffero, Atmosferologia 538. Paolo Bellini, Claudio Bonvecchio, Erasmo Silvio Storace, Città, utopia e mito. Studi di filosofia e teoria politica 539. Silva Oliva, János Bolyai. Uno sguardo psicoanalitico su genio matematico e follia. Con un testo di Imre Hermann 540. Luigi Vero Tarca, Differenza e negazione. Per una filosofia positiva 541. Davide E. Daturi (a cura di), La filosofia messicana del novecento. Temi e problemi 542. Giangiacomo Vale, Una e diversa. L’Europa di Denis de Rougemont 543. Hagar Spano (a cura di), La ragione contro la paura. Religione e violenza, prefazione di Mauro Pesce 544. Gabriele Scaramuzza, Incontri. Per una filosofia della cultura 545. Marco Russo, Il mondo. Profilo di un’idea 546. Salvatore Prinzi, Scrivere le cose stesse. Merleau-Ponty, il letterario, il politico, prefazione di Renaud Barbaras 547. Ryōsuke Ōhashi, Kire. Il bello in Giappone, a cura di Alberto Giacomelli 548. André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola Vol. 1 549. André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola Vol. 2 550. Federico Rampinini, Musica e utopia. Ernst Bloch e la filosofia della musica 551. Beatrice Magni (a cura di), Machiavelli. Sette saggi di teoria politica 552. Alessandro Novembre, Il giovane Schopenhauer. L’origine della metafisica della volontà 553. Antonio Banfi, L’uomo copernicano. Saggi di una filosofia critica, a cura di Concetto Solano

554. Roberta Ioli, Il felice inganno. Poesia, finzione e verità nel mondo antico 555. Saša Hrnjez, Tertium Datur. Sintesi e mediazione tra criticismo e idealismo speculativo 556. Luca Nave, Più logica per tutti. L’argomentazione e la filosofia nella vita quotidiana 557. Paolo Scolari, Nietzsche. Tracce morali 558. Elena Muceni, Apologia della virtù sociale. L’ascesa dell’amor proprio nella Crisi della coscienza europea 559. Henri Bergson, Lezioni di metafisica. Spazio, tempo materia e teorie dell’anima, a cura di Simone Guidi, prefazione di Rocco Ronchi 560. Alessandra Gerolin, Etica e interpretazioni della secolarizzazione: problemi e percorsi 561. Vallori Rasini, L’agire dell’uomo. Sul pensiero di Arnold Gehlen 562. Matteo Vincenzo d’Alfonso, Il male del mondo. Arthur Schopenhauer nella costellazione post-kantiana 563. Nidesh Lawtoo, Il fantasma dell’io. La massa e l’inconscio mimetico 564. Massimo Luigi Bianchi, Francesco Fronterotta, Due immagini di Platone in età contemporanea. Il Neo-kantismo, Martin Heidegger 565. Giuseppe Zuccarino, Immagini sfuggenti. Saggi su Blanchot 566. Lorenzo Chiuchiù, Atleti del fuoco. Undici studi tra arte, tragedia e rivolta 567. Alberto Simonetti, La filosofia di Proust. Dalla parte di Deleuze 568. Susanna Iris Rizzi, Friedrich Nietzsche e Lou Salomé. Il femminile e le donne 569. Fabio Ricardi, L’esperienza del tempo. Uno sguardo multidisciplinare 570. Michela Venditti, Il volo sospeso di Gajto Gazdanov. Vita e opere di uno scrittore russo emigrato a Parigi 571. Fabio Vander, La critica e le forme. Saggio di filosofia dell’arte 572. Giampaolo Ghilardi, Etica dell’agire scientifico e tecnologico 573. Fabio Farotti, Eternità mancata. Spinoza 574. Alberta Giorgi, Religioni di minoranza tra Europa e laicità locale 575. Alessandro Chiessi, Bernard Mandeville. Corruzione, umorismo, male minore 576. Edoardo Robino, Dare forma alla contingenza. Scritti e sculture 577. Stefano Bevacqua, Ricordi e desiderio 578. Valeria Bizzari, Sento quindi sono. Fenomenologia e Leib nel dibattito contemporaneo 579. Gabriel Liiceanu, Emil Cioran. Itinerari di una vita. L’Apocalisse secondo Cioran (ultima intervista filmata), a cura di Antonio Di Gennaro

580. Paolo Calegari, La disgnità umana dal concetto di Pico della Mirandola alla sua oggettivazione storica 581. Antonella Mancusi, La presenza. Essere dinanzi al mondo, essere dinanzi al vuoto 582. Silvano Tagliagambe, Angelo Malinconico, Tempo e sincronicità 583. Dal Pozzo C., Negri F., Novaga A., La realtà virtuale. Dispositivi, estetiche, immagini 584. Ercole De Angelis, Mente e coscienza. La mente come costruzione 585. Raniero Fontana, E Dio non disse. Ermeneutica della Torah e antiermeneutica della Natura 586. Alessandro Becchi, Arlecchino e il microscopio. Saggio sulla filosofia naturale di Leibniz 587. Tiziano Boaretti, Affidarsi al nulla. Una ricognizione intorno a Max Stirner 588. Francesco Massobrio, Il cristianesimo alla prova del racconto evolutivo. Un confronto critico necessario 589. Giuseppe Armogida, Infinito confine. Plotino e il pensiero dell’Uno 590. Mario Stefani, La libertà esistenziale in J.-P. Sartre, prefazione di Paolo Del Debbio 591. Enzo Cocco, L’amore nel Settecento francese. Idee e forme 592. Maria Russo, Per un esistenzialismo critico. Il rapporto tra etica e storia nella morale dell’autenticità di Jean-Paul Sartre 593. Antonio De Simone, Oltre Hermes. Il comprendere dell’umano. Una storia filosofica da Dilthey a Gadamer 594. Giancarlo Lacchin, Ludwig Kirchner fra espressione e forma 595. Paolo Calandruccio, L’identità che trascende nel valore. Una proposta sull’essenza dell’Uomo fondata sul pensiero di Ernesto De Martino 596. Lucia Maria Grazia Parente, Una voce che veniva da lontano. Saggi e ricerche su María Zambrano, Prologo di Stefano Santasilia 597. Silva Oliva, János Bolyai. Uno sguardo psicoanalitico su genio matematico e follia. Con un testo di Imre Hermann 598. Francesco Postorino, L’altro Croce. Un dialogo con i suoi interpreti 599. Luigi Longhin, I fondamenti epistemologici della psicoanalisi 600. Aldo Cichetti, Ripensare la bellezza. Oltre Bateson 601. Fabián Ludueña Romandini, L’ascensione di Atlante. Glosse su Aby Warburg

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