Bacchin - I Fondamenti Della Filosofia Del Linguaggio - 1965

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PUBBLICAZIONI DELLA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI «S. PAOLO» DI ASSISI

GIOVANNI ROMANO BACCHIN

I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO

ISTITUTO EDITORIALE UNIVERSITARIO - ASSISI 1965

Union* Arti Grafiche • CBtà di CasMlo 1966

INTRODUZIONE

Non credo di esagerare se dico che le uniche opere di filosofia del linguaggio che possano dirsi veramente tali — a parte spunti e note ed osservazioni sparsi un pò ovunque — e non solo di questi ultimi anni, sono opere che non intendono trattare ex -professo del linguaggio e sono, anzi, opere metafisiche. E ciò non stupisce se alla filosofia del linguaggio si chiede innanzitutto di essere filosofia ed alla filosofia di essere « metafisica » nel senso più rigoroso della parola. Il migliore esito della contemporanea attenzione prestata al linguaggio da parte di studiosi di provenienze culturali le più disparate è, penso, l'acuirsi della sensibilità critica nel suo uso, nella scelta appropriata dei termini in vista di un rigore effettivo delle varie ricerche. E si ha un linguaggio delle scienze (in cui pare che le scienze si risolvano) e si ha un linguaggio della filosofia (che si risolve — come tale —• in filosofia teoretica, nell'atto del filosofare che esso non può esaurire né « definire ») e si hanno altri linguaggi, circoscritti e circoscriventi l'umana esperienza. In ciascuno va cercato il « rigore » che è metodologicamente la necessità di non estendere un linguaggio ad ambiti per i quali non sia stato « costruito » o nei quali più non si riconosca ciò che l'ha fatto nascere. Ora, il rigore stesso della ricerca filosofica importa che ad essa non si pervenga trascinandosi dietro i pesi di un linguaggio che, nato in altro terreno, induca estrapolazioni, falsi miraggi, rappresentazioni inadeguate, crisi apparenti. Di fatto, l'opera del filosofo nei confronti delle attuali ricerche intorno al linguaggio si risolve proprio nel liberare (meglio : purificare) la filosofia con la sua autentica problematica da problemi fittizi, rivelando criticamente i punti in cui si generano più facilmente gli equivoci e le discussioni meramente verbali.

VI

INTRODUZIONE

Tale opera è, tuttavia, condizionata all'attuarsi effettivo della filosofia, per così dire all'interno di se stessa e non solo in confronto con altre attività umane. Ma è proprio questo collocarsi e radicarsi profondo del filosofo nella filosofia, che, escludendo rigorosamente ogni interesse che non sia autenticamente filosofico, accredita anche una filosofia del linguaggio che non sia solo una « riflessione critica » sul linguaggio, o un'analisi di linguaggi effettivamente disponibili, o linguistica generale od anche curiosità erudita. Una volta chiarito — ed è chiarimento molto importante — che la filosofia non è da risolversi nel pensiero così detto « scientifico », non ha più senso per la filosofia condizionarsi alle tecniche operative di cui si avvalgono le scienze e i loro linguaggi particolari. Del resto, la stessa espressione « filosofia del linguaggio"» come l'espressione « filosofia della scienza », rivela che scienza e linguaggio sono passibili di una ricerca che non coincide semplicemente con la posizione — anche critica — dei loro termini. In ogni caso, se l'intima intenzione delle « filosofie del linguaggio », dai frammenti di Parmenide, al Cratilo platonico, alla Sprachenphilosophie di VON HUMBOLDT, alla « Languistique generale » del De Saussure al Tractatus di Wittgenstein, alla « Sintassi logica del linguaggio » di R. Carnap, alle ultime rielaborazioni a carattere più informativo che costruttivo (e che caratterizzano la produzione italiana in materia), secondo vari intenti, è di raggiungere una sufficiente consapevolezza del linguaggio fino alla sua giustificazione fondante, è non solo possibile, ma necessario enucleare tale « intenzione » nella sua purezza e vederne l'intima consistenza ed è questo, appunto, il compito della filosofia o il modo di considerare il linguaggio in filosofia. Con che il filosofo è ancora a casa sua dove del linguaggio non si chieda come psicologicamente o socialmente si origini, né come si possa adeguare alle cose che con esso si vuole « dire » o « comunicare », ma si chieda a quali condizioni il linguaggio, o segno o semantizzazione o forma di pensiero, sia pensabile. Portata al limite, là dove solo il filosofo può pervenire con il suo totale ricercare, la ricerca sul linguaggio radica in se stessa la differenza di cui ci si serve, di fatto, tra « linguaggio » e « lingua » e non solo per una proposta, ma per una intrinseca necessità : « linguaggio » volendo essere il pensiero in quanto dicibile o significabile e tale a prescindere dai « segni » di cui una lingua di fatto dispone.

INTRODUZIONE

VII

E questo importa che del linguaggio si determini la « struttura » nella sua originarietà ; che è l'originarietà stessa del concetto di « struttura » e del « concetto », appunto, o « pensiero » di cui è « struttura ». La presente ricerca dei « fondamenti » della filosofia del linguaggio si collega, pertanto, direttamente a due gruppi di lavori, per un verso affini anche se nati indipendentemente e in altro clima : ovviamente i miei lavori teoretici precedenti, a cominciare dal lavoro Su le implicazioni teoretiche della struttura formale (i), ed i lavori teoretici di Emanuele Severino, specialmente la Struttura originaria (2) e Studi di filosofia della prassi (3) nei quali risultano rigorosamente tolte le pregiudiziali da cui ci si muove per considerare « filosofia » ciò che è, al più, « cultura », interesse alle « cose », più che al loro intimo senso, che è poi il senso dell'essere. Non tutto del pensiero metafisico del Severino io accolgo, ma molto del suo pensiero io incontro sulla mia strada procedendo indipendentemente da lui, ed a partire dalla originaria impostazione problematica del pensiero classico che ritengo sia stata fatta valere nella sua purezza da Marino Gentile (4), del quale mi onoro di essere discepolo. Se nella pura problematicità, che è il totale problematizzare o discussione totale, i singoli contenuti di asserzione sono revocabili in dubbio, dissolvibili nella loro pretesa consistenza, indissolubile, irrevocabile appare, invece, la « struttura » ed il « concetto » che la dà ed in cui la struttura è, piuttosto, l'originario strutturarsi del « trascendentale », che è essere e pensare, pensare perchè essere. Di un più chiaro recupero del livello trascendentale si avvale questo mio ultimo lavoro nei confronti del lavoro Sulle implicazioni teoretiche detta struttura formale, perchè il trascendentale si chiarisce qui non solo come struttura, ma come l'impossibilità che in esso « struttura » e « funzione » si distinguano, e non, piuttosto, che « funzione » del trascendentale sia dissolversi o vanificarsi come « oggetto » non appena lo si pensi, essendo esso ciò in virtù di cui si pensa e si dice. (1) (2) (3) (4)

Roma, 1963. E . SEVERINO, La struttura originaria, Brescia, 1958. E. SEVERINO, Studi di filosofia della prassi, Milano, 1962. Si veda soprattutto di M, GENTILE, Filosofia e Umanesimo, Brescia, 1948,

Vili

INTRODUZIONE

Questo vanificarsi del trascendentale è dialettico ed è l'attestazione dialettica che il linguaggio, nato per « significare », non può valere dove non valgano l'i oggettivazione », l'« entificazione », la « cosalizzazione » dell'esperienza e che l'uso filosofico del linguaggio è la critica dissoluzione della sua pretesa di significare la totalità. Ed ogni cosa è, nella sua concretezza o pienezza d'essere, la totalità di se stessa. Del linguaggio ci si serve dunque, in filosofia, per dire che con il linguaggio non si dice di filosofico se non la necessità di considerarlo tutto condizionato, necessità di dire nonostante il linguaggio, dialetticamente.

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CAPITOLO PRIMO

SOMMARIO : i . Il carattere filosofico della presente ricerca. — 2. 77 carattere dialettico, 0 negatorio della filosofia. — 3. La dialettica dell'identico livello. — 4. La dialetticità della filosofia e il momento analitico della filosofia del linguaggio. — 5. / limiti di validità dell'analisi nella filosofia del linguaggio. — 6. Limili di validità e valore. — 7. Come è possibile una filosofia del linguaggio. — 8. Concetto di « teoria » e sua riduzione. — 9. La riduzione del concetto di teoria e la radice pragmatica dell'intellettualismo. — io. La nozione ateoretica dello « in generale » come base della teoria. — 11. Riduzione del procedimento analitico all'inde' terminato, cioè al contraddittorio. — 12. Differenza ontologica tra il contraddittorio ed il negato. — 13. La dialetticità come impossibilità di un procedimento analitico sulla totalità. — 14. La domanda totale e la totalità domandata. — 15. L'intero della domanda totale e della totalità domandata. — 16. La conversione dialettica della totalità domandata nella esclusività del domandare. — 17. La domanda come riferirsi in atto alla risposta. — 18. La problematicità della « definizione » concettuale. — 19. L'intersoggettività come dimensione dialettica. — 20. La struttura dialettica dell' implicazione.

§ 1. — II carattere filosofico della presente ricerca. La presente ricerca sul linguaggio si colloca sul piano filosofico puro (1) e, da un punto di vista esclusivamente filosofico, si svolge in ordine alla domanda di come il linguaggio possa venire giustificato e perciò di come possa giustificarsi una ricerca filosofica intorno ad esso, che le due cose coincidono. Coincidono perchè la giustificazione è, essenzialmente, la fondata attribuzióne di un valore in base al quale si giustifica il processo stesso onde si perviene a questa attribuzione ; e così la giustificazione del linguaggio è il linguaggio nel suo valore e la filosofia del linguaggio procede consapendo o sapendo insieme, se stessa e il valore del linguaggio nel suo essere tale. Con che si (1) La parola « puro », d e t t a per indicare la filosofia nella sua teoreticità, determina il carattere intrinseco della filosofia, ossia la filosofia è pura o non è filosofia.

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CAPITOLO PRIMO

chiarisce che la filosofia del linguaggio è il linguaggio stesso nel suo venire considerato dalla filosofia od anche il linguaggio nella filosofia. È così che si rivendica la piena autonomia del filosofare, anche nel caso della filosofia del linguaggio, in quel caso, cioè, in cui, di fatto e per le molteplici implicanze dei vari linguaggi disponibili, più difficile appare l'autonomia del filosofare. La facile — invero banale — osservazione che definire la filos ofia come « giustificazione » è presupporre qualcosa alla ricerca e che la stessa parola « giustificazione » appartiene al linguaggio che si intende giustificare, onde non sarebbe legittimo porsi originariamente ad un livello filosofico puro nei confronti del reale, e del linguaggio in particolare (i), va tolta con quest'altra osservazione, che ogni ricerca, a qualsiasi livello, in tanto legittimamente si pone in quanto « motivata » in ordine al valore che le si attribuisce e questa motivazione ha però senso solo dove il valore venga consaputo nel suo autentico senso, ossia come « giustificazione », la quale è, si voglia o no, filosofia. E la filosofia, come totale e perciò pura problematicità (2), non può risultare (3) « condizionata » senza cessare di essere ; il che significa che è indispensabile porre in questione ogni forma di « condizionamento » che di essa si pretende e da parte delle scienze e da parte dei linguaggi dei quali esse si strutturano e da parte del « linguaggio comune » di cui pure si abbisogna per farsi intendere, e da parte di quella particolare scienza che è la scienza delle strutture logiche o « sintassi logica del linguaggio ». Così, se questi « condizionamenti » vanno messi in questione, e se filosofia si intende questo radicale epperò totale questionare, non sarà mai possibile rinunciare alla autonomia del filosofare e non sarà il linguaggio, nella sua struttura e nella sua funzione, a compromettere questa autonomia ; che, se ciò si pensasse, si dovrebbe pur sempre pensare o che il linguaggio è tutta la filosofia e, di conseguenza, non è linguaggio perchè altro non avrebbe (1) È l'osservazione che mi muoveva L. GEYMONAT a proposito in « Sapere scientifico e sapere filosofico », Simposio a Padova, i960. (2) Rimando il lettore agli altri miei lavori teoretici, rispetto ai quali il presente è un ulteriore approfondimento della problematicità come è intesa nel pensiero di M. Gentile. (3) Una filosofia che « risultasse » sarebbe già t u t t a condizionata e riproporrebbe il problema del valore di ciò da cui la si fa risultare, problema teoreticamente spostato, mai risolto.

I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO

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da comunicare se non se stesso e non potrebbe, perciò, « comunicarsi », o che esso è un particolare « caso » (particolare anche se insopprimibile e sempre presupposto) di una totalità in cui si inscrive ed è tale da non potersi mai convertire in essa. Questa totalità, appunto, che pur con il linguaggio si comunica, è dal linguaggio indipendente se questo si inscrive in essa e tale indipendenza è già l'autonomia del dire la totalità, che è la totalità nel suo affermarsi o filosofia che afferma se stessa : il pieno epperò concreto affermarsi della filosofia. § 2. — II carattere dialettico, o negatorio (i), della filosofia. La forma più comune — e perciò stesso più banale — in cui, implicitamente od esplicitamente, appare il dubbio intorno al significato ed al valore della filosofia è quella vagamente « storicistica » che pretende alla misura del vero come « attuale » e della « attualità » come « contemporaneità », nel senso delle rappresentazioni collettive (2) delle quali si materia ciò che è, di volta in volta, e per tutti i tempi, « il nostro tempo », « la moda del tempo ». Tale forma è in effetti la domanda : « la filosofia ha ancora qualcosa da dire nel nostro tempo ? », la quale domanda, presa nel suo significato preteso, suppone in ogni caso risolto o mai discusso che cosa significhi « dire qualcosa » ed « avere ancora da dire » e « nostro tempo » ; essa suppone tutto questo perchè è dal senso comune che essa muove ed è in esso che si mantiene, cosicché il suo valore dipenderebbe solo e tutto dalla rilevanza di quel « senso comune » in filosofia, ma, dove si pervenga a tale consapevolezza, è già dissolta la pretesa di porre una simile domanda intorno alla filosofia, perchè la consapevolezza critica del limite del senso comune (nonché delle questioni che esso suscita ed alimenta) è già « filosofia » (3). Quella domanda, presa nel suo effettivo significato, si semplifica nella seguente : « la filosofia ha qualcosa da dire ? ». Perchè, (1) « Negatorio » diciamo e non « negativo », perchè la negazione vi compie la funzione positiva della riaffermazione del limite o dialetticità essenziale al filosofare, p e r l a quale il negativo è condizione al rilevamento del vero, dove tutto sia messo in discussione (ipotetizzato come non vero). Cfr. G. R. BACCHIN, Originarietà e mediazione nel discorso metafisico, Roma, 1963. (2) Per « rappresentazioni collettive » intendo l'uso comune di parole non sufficientemente consaputo nelle sue ragioni : di t u t t i e di nessuno. (3) Si veda, a proposito, il Cap. I I , § 3.

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CAPITOLO PRIMO

se essa, come filosofia, ha avuto qualcosa da dire, essa, restando filosofia, ha ancora ed avrà sempre qualcosa da dire e se ora risultasse che come filosofia essa non ha nulla da dire, ciò significherebbe che essa non ha mai avuto qualcosa da dire, nonostante l'apparenza contraria. Qui l'appello alla storicità, per dire che la filosofia svolgendosi ha perso di attualità, dovrebbe significare che la filosofia ha cessato di essere filosofia, donde la necessità di tornare ad essere ciò che era per essere ancora filosofia, oppure che essa non è mai stata filosofia e perciò non è mai stata attuale e che lo svolgimento storico all'interno di essa, quello che porterebbe alla dissoluzione della filosofia, vale solo a mostrarne l'illusorietà ; illusorietà però che solo la filosofia ora potrebbe rilevare, perchè dovremmo chiamare filosofia almeno questa consapevolezza raggiunta, nonché il processo per raggiungerla. E la filosofia avrebbe per unico compito di eliminare se stessa ; il quale compito è ovviamente contraddittorio e perciò si elimina, restituendo così il compito incontraddittorio della filosofia, quel compito che è, a rigore, tutto nella sua stessa incontraddittorietà, nella incontraddittorietà dell'essere che per esso si rivela (nel tentativo frustrato di negarlo), precisamente il compito «metafisico » (i). È fuori dubbio, comunque, che alla domanda se la filosofia abbia qualcosa da dire, nel senso che si giustifichi come filosofia, si suppone che solo la filosofia possa rispondere, che ad essa ci si rivolge e non avrebbe senso attendere una risposta da chi non tende o pretende alla filosofia ; dove è almeno implicito che, se tale domanda ha un senso, questo senso è ancora filosofia, per cui, a rigore, non ha alcun senso porsi questa domanda se non come consapevolezza che la filosofia attua di se stessa (2) ; dovrebbe pensarsi cioè fuori dubbio ciò che darebbe « senso », o valore, alla domanda relativa intorno ad esso e il dubbio così non avrebbe senso. La massima concessione che si può dunque fare a chi pone domande filosoficamente banali (3) è che queste domande possono venire poste solo banalizzando il loro stesso senso, cioè sup(1) Cfr. G. R. BACCHIN, Originarietà ecc., cit., p . 4 0 ; L'originario come implesso esperienza - discorso, Roma, 1963, p. 79. (2) Cfr. G. R. BACCHIN, SU l'autentico nel filosofare, Roma, 1963, p . 12. (3) È filosoficamente banale il discutere sulla base di « presupposti ».

•si

I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO

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ponendo che la filosofia sia l'unico senso che esse potrebbero avere : che se ciò di cui si dubita è il senso stesso del dubitare, dubitare non ha più senso. § 3. — La dialettica dell'identico livello. Il rifiuto della filosofia a prendere in considerazione queste pretese è per lo meno giustificato quanto il rifiuto della filosofia da parte di chi non ne vede la ragione ; per lo meno, diciamo, non perchè effettivamente sia così, ma perchè così si pretende e solo tanto si è disposti a concedere alla filosofia se ci si pone a discuterla a partire dal senso comune (e mantenendosi in esso). Questa parità di diritti compare con l'atteggiamento di generica tolleranza con cui il senso comune può contraffare l'autentica ricerca che è problematicità ; generica tolleranza, proprio perchè si può « tollerare » solo genericamente, ossia come atteggiamento o disposizione, non come critica consapevolezza dell'« oggetto », cosicché la « tolleranza » si rivela piuttosto una rinuncia alla critica che una disposizione ad attuare pienamente la critica. Ma anche a porsi in questo atteggiamento di tolleranza, che è rinuncia, la filosofia e chi la nega negandole ciò che le spetta si dispongono inevitabilmente al medesimo livello, quello stabilito dalla supposta parità di diritti, il quale, proprio perchè identico per entrambi gli atteggiamenti, deve essere filosofia, la quale, così, nega la negazione che si pretende di essa e, non subendo negazione, caccia dal suo piano chi pretende negarla. Non si può negare, cioè, che la parità di diritti venga inizialmente supposta, perchè la questione sorge solo a condizione che si suppongano inizialmente compossibili i suoi termini, che sono qui la filosofia e la sua negazione, compossibilità che è l'assunzione ad un medesimo livello dei due opposti (non v'è opposizione se non all'interno di una supposta omogeneità) (i), per cui, tolta l'identità di livello tra i termini in questione, è tolta la questione, la quale si toglie sdoppiandosi in una negazione mai pertinente e in un negato sempre fuori negazione : la negazione della filosofia, non orientata a questa, non sarebbe e la filosofia, mai veramente negata, continuerebbe ad essere. È così che, a partire dall'identico livello, nella figura da chiun(1) Cfr. ARISTOTELE, Metaph.,

ITI, 2 ; IV, 6 ; Cai.,

X.

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CAPITOLO PRIMO

que facilmente concessa della iniziale parità di diritti tra la filosofia e chi la nega, mettendo in evidenza con un atto di natura filosofica che almeno questa identità di livello sarebbe filosofia (se i livelli fossero diversi, la negazione non sarebbe mai pertinente), si conclude escludendo (i) proprio quella parità di diritti, riducendola a semplice pretesa che è discussione teoreticamente nulla. L'identico livello, supposto nella figura della parità di diritti, sarebbe dunque in qualche modo « filosofia », perchè, se non lo fosse, di essa non si potrebbe dire che è, né si potrebbe pretendere che essa non sia. Ora, basta che essa sia in qualche modo filosofia perchè sia veramente filosofia, perchè l'insufficienza del modo è qui, piuttosto, l'insufficienza di chi lo intende (o pretende) vero, mentre che la filosofia sia già annunciata in questo « qualche modo » deriva dal fatto che essa è sempre presente anche se oscuramente consaputa (2). § 4. — La dialetticità della filosofia e il momento analitico della filosofia del linguaggio. Se la filosofia è il porsi e l'attuarsi del processo di giustificazione, la filosofia del linguaggio è il linguaggio come tale, ossia la presenza del linguaggio nel suo concetto (3) ; con ciò resta escluso (1) « Concludere escludendo » è, propriamente, procedere negando valore alla premessa da cui si p a r t e (cfr. G. R. BACCHIN, L'originario ecc. cit., App. § 14, la riflessione esplicativa dell'unità). (2) Questa perenne presenza della filosofia non viene constatata come un fenomeno che l'esperienza offre constantemente (ciò potrebbe valere, al più, per stabilire che vi sono, ossia esistono, taluni che si dicono « filosofi »), m a viene recuperata col tentativo di negarla, ossia dialetticamente ; la dialetticità del metodo filosofico importa la dialetticità della sua affermazione : è dialettica anche l'affermazione della dialetticità del filosofare, essa è una cosa sola, cioè, con la filosofia stessa. (3) Quali e quanti sono i problemi del linguaggio ? Il problema dell'origine, dello sviluppo del linguaggio, della struttura dei sistemi linguistici, del significato delle espressioni linguistiche, della funzione del linguaggio. Di fatto, questi problemi vengono distinti t r a loro ed è, invero, utile circoscrivere ciascun problema onde approfondire la conoscenza dei suoi termini, m a una a t t e n t a riflessione su tale problematica rivelerebbe che ciascun problema richiama l'altro e della soluzione eventuale dell'altro si avvale. Cosi, ad esempio, il problema della funzione del linguaggio si collega con quello dell'origine e costituisce insieme a questo il problema più fondamentale della « natura » del linguaggio. Usando delle classificazioni di Morris e di Carnap si potrebbe denominare «sintattico» il problema della s t r u t t u r a e «semantico» quello del «significato».

I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO

J

che si possa pensare una critica al concetto come tale mediante l'analisi del linguaggio ; che è quanto dire che il linguaggio, nel suo concetto, non può venire considerato analizzando un particolare linguaggio, procedendo questa analisi solo a supporre la unità -unicità del concetto di linguaggio. Questa considerazione ci consente di osservare come il valore della cosidetta « filosofia analitica » sia da demandare a quel senso lato per cui « analisi filosofica » sarebbe « ogni filosofia fondata su generiche operazioni di analisi, di riflessione, di interpretazione, e simili (cioè ogni filosofia non meramente mistica o intuizionistica) » (i) ; e bisognerà subito stabilire come si possa parlare di filosofia analitica o d'analisi filosofica, se la filosofia è essenzialmente dialettica e se il linguaggio deve essere anche il linguaggio della filosofia. Si vedrà più avanti l'intreccio tra filosofia del linguaggio e linguaggio filosofico ; per ora è sufficiente determinare che cosa venga presupposto al concetto di una filosofia « fondata (2) su operazioni Sintassi e semantica rappresentano cosi le due dimensioni fondamentali dell'analisi linguistica : come « sintassi » il linguaggio è pura forma logica, come « semantica » il linguaggio è pura esperienza, donde la necessità di riesaminare il rapporto esperienza-struttura (cfr., a proposito, il mio lavoro che ritengo fondamentale all'intelligenza della presente indagine : .SM le implicazioni teoretiche della struttura formale, Roma, Iandi-Sapi, 1963 ; specialmente capp. IV, VII, V i l i ) . (1) A. PASQUINELLI, Linguaggio, scienza e filosofia, Bologna 1962, p . 19. (2) Si sa che la parola fondamento è metaforica e richiama l'immagine della « costruzione » : è fondamento ciò su cui si costruisce. Ricercare il fondamento significa, cioè, determinare ciò su cui posare l'intera costruzione filosofica, la quale costruzione non può venire posata su di una qualche base, se non si possiede, previamente, la conoscenza del rapporto t r a la base e la costruzione stessa, rapporto che determini la proporzione t r a costruzione e (suo) fondamento : non ogni costruzione abbisogna del medesimo fondamento. Nel caso della costruzione filosofica poiché la filosofia si pone intenzionalmente in ordine alla totalità, la determinazione del fondamento sarà ordinata a « sopportare » la totalità. Ora, essendo il fondamento della totalità inevitabilmente interno alla totalità, fondare la totalità non è possibile senza intendere che è la totalità a fondare se stessa (nel senso che il fondamento della totalità è determinabile all'interno della stessa totalità e che lo si può determinare solo a condizione di possedere questa totalità). Paradossalmente, per trovare il fondamento della costruzione filosofica bisogna disporre dell'intera costruzione filosofica, per trovare ciò su cui poggia la filosofia bisogna disporre della filosofia. Pertanto, la determinazione del fondamento non precede la costruzione filosofica, né la segue, m a l'accompagna in qualsiasi momento del suo processo : non la precede, perchè senza la costruzione il fondamento sarebbe fondamento di nulla, non la segue perchè senza il fondamento la costruzione, « infondata », è nulla, m a l'accompagna nell'intero processo perchè l'intero prò-

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CAPITOLO PRIMO

d'analisi ecc. ». Dove si prenda per « filosofia » un discorso fondato direttamente su operazioni anziché su valori, bisognerà anche riconoscere che una filosofia che si fondasse su operazioni dovrebbe essere tutta nelle operazioni che la fondano e queste dovrebbero esaurire in se stesse il valore in funzione del quale però si costituiscono come operazioni. Il valore della « filosofia analitica » dovrebbe consistere, cioè, non in ciò cui l'analisi, come operazione tende, ma nell'analisi stessa, che, se è solo un metodo (se non fosse solo un metodo sarebbe anche dottrina), è un metodo considerato fuori relazione, «metodo» e non « metodologia », ossia òSó? che non ha termine, un « andare » senza meta. Che, se si vuole dare « consistenza » all'operazione, bisogna presupporle una filosofia che, condizionando l'analisi, non può subirne i procedimenti né strutturarsi degli stessi termini nei quali l'analisi si pone e si attua ; d'altro canto, l'analisi è possibile solo dove si assuma l'oggetto da analizzare come « analizzabile », come già analiticamente disposto : l'analisi del linguaggio suppone una filosofia che consenta di considerare il linguaggio come un complesso di termini, costatandone i modi e i nessi, precisamente la concezione empirica del linguaggio, quella che solo l'empirismo può consentire. L'empirismo sarebbe qui scelto come filosofia per la duplice ragione che di una filosofia si ha bisogno per condizionare (e situare culturalmente) l'analisi del linguaggio e che solo l'empiricesso è « presente » in ogni sua « p a r t e », costituendo appunto il « senso » o il « verso » dello svolgimento, presenza che è la totalità per cui ed in cui solo può dirsi che « qualcosa » è o diviene. Il metodo teoretico della determinazione del fondamento è dunque la constatazione che il fondamento della totalità, o fondamento filosofico, non può essere estraneo alla totalità, che anzi solo nella totalità esso è reperibile, per cui, in effetti, la totalità non si costruisce come fondata, bensì come condizione alla sua possibilità di fondare, essendo ciò entro cui ha senso porre il fondamento, od anche è essa il porsi stesso di quel fondamento Con ciò dovrebbe concludersi che la totalità, coincidendo con il fondamento, non ha fondamento, ossia che è la totalità a fondare se stessa, ad essere eie il proprio fondamento. Ma, in questi termini, facendo coincidere il fondamento filosofico con la costruzione filosofica, si è dissolto il problema del fondamento di tale costruzione e si è resa vana la ricerca del fondamento. Dire che la totalità fonda se stessa e dire che il fondamento è fuori ricerca, è dire la stessa cosa : che il fondamento non può non esserci e che questa necessità non è essa il fondamento.

I FONDAMENTI DELLA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO

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smo consente di guardare il linguaggio come un « meccanismo scomponibile pezzo (i) ». Dal disposto combinato delle due ragioni si evince facilmente che il motivo della preferenza data all'empirismo da parte degli analisti è tutto condizionato alla loro intenzione di operare sul linguaggio empiricamente e non è, perciò un motivo, venendo a coincidere con l'azione che esso dovrebbe motivare. Del resto lo stesso empirismo non ha una sua ragione, perchè esso rinuncia esplicitamente a giustificarsi, dal momento che assume come giustificazione proprio ciò che abbisogna di venire giustificato : quell'empirico cui esso riduce l'esperienza, costituendosi come funzione logica di questa, non riesce ad assorbire l'esperienza, né a giustificarla ; cosicché si può dire che il « nominalismo » è ancora empirismo, nonostante l'apparenza : il nomen è fatto sussistere come « cosa » tutta mentale (flatus vocis), ma ancora come « cosa » che in qualche modo sussista. Il grande movente, che di moventi si può qui parlare più che di motivi, dell'analisi del linguaggio è la difficile situazione in cui ci si viene a trovare quando si affronta un discorso filosofico mantenendosi al livello empirico, che è per l'impossibilità non consaputa di ridurre all'empirico l'intero arco del filosofare : non potendo intendere il linguaggio filosofico e tanto meno comprenderne le ragioni, si decide di commisurarlo con il linguaggio usuale previa mente assunto come ordinario » (2), rifiutando ciò che di quello appare irriducibile a questo ; dove la ragione del rifiuto è solo il fatto che non si vede perchè si debba accettare, e si rifiuta, così senza una vera ragione. Si può dire con Filiasi-Carcano che le difficoltà presentate dal neopositivismo potrebbero valere, piuttosto, come una « incapacità di intendere » (3). § 5. — / limiti di validità dell'analisi in filosofia del linguaggio. Per poter parlare di « analisi filosofica » o di « filosofia analitica » (4) è necessario precisare il senso in cui si attua in filosofia (1) Cfr. U. SCARPELLI, / Fondamenti e il metodo della analisi del linguaggio, in a II pensiero americano contemporaneo », Milano, 1958, p . 186. (2) Cfr. U. SCARPELLI,

op. cit., p . 186.

(3) Cfr. P . FILIASI-CARCANO, Dall'analisi alla filosofia del linguaggio, in « Archivio di Filosofia », 1955, p . 19. (4) Non si può veramente utilizzare l'analisi come strumento di chiarifica-

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l'analisi e, precisamente, se l'analisi sia compossibile con la filosofia e, in caso, se essa sia un momento del processo filosofico o ne esaurisca l'intero processo. Ma, per stabilire se l'analisi sia compossibile con la filosofia, va stabilito il senso in cui l'analisi può dirsi un processo in sé concluso anziché un procedimento finalizzato a momenti ulteriori ; per « processo » intendo qui lo svolgimento di un'iniziale assunzione da cui non è dato uscire e il cui risultato è già « preconcetto » all'inizio ; per « procedimento » intendo il passaggio da un « momento >> ad un altro, nessuno dei quali « proconcetto » in altro, epperò passaggio che presuppone il disporsi dei termini l'uno all'altro ulteriore. In questo senso, anche il procedimento, ove venga totalmente consaputo, si inserisce in un processo, e non si converte perciò in esso e mantiene, pur sempre.u la distinzione da qesto, così come si mantiene in atto la distinzione tra atto e operazione. Ora, se l'analisi è un procedimento, è anche un'operazione, epperò un agire su termini presupposti, il cui valore è tutto in quei termini e quindi tutto presupposto e la funzione dell'analisi sarebbe allora quella di disporre quei termini nel modo più chiaro, ma non per questo più vero, che la « chiarezza » è sempre relativa alla necessità di uscire da una precedente oscurità o confusione (i), la quale può venire riconosciuta solo dove già si sia in qualche modo usciti da essa, usciti in virtù di quell'atto stesso che stabilisce la necessità di uscire. Non potrei, infatti, sapere che debbo chiarificare un discorso se non sapessi che esso è oscuro, se non sapessi, cioè, che esso è insufficientemente chiaro, chiaro solo relativamente ad una situazione che ho già superato, situazione variabile, quindi, e che, variando, determina di volta in volta, come per una funzione matematica, i diversi gradi di chiarezza. Se l'analisi, come procedimento e quindi operazione, ha dunque la funzione ( = il compito) di chiarificare il discorso, essa non può non dipendere da un canto dalla effettiva distinzione dei termini zione e « consapevolizzazione » del linguaggio, se non si perviene alla piena consapevolezza della utilizzabilità dell'analisi come tale : è quanto manca per lo più alle impostazioni essenzialmente « storiche », meglio « informative », delle quali si comincia ad abbondare anche in Italia ; si veda, ad esempio, l'opera citata del Pasquinelli. (i) È da esaminare a parte il nesso t r a « chiaro » e « distinto », non due criteri, ma uno : è chiaro ciò che è distinto.

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sui quali si esercita, dall'altro dalla variabile situazione conoscitiva di chi la esercita : il suo valore è, così, da una parte tutto presupposto, dall'altra tutto costruito ; in entrambi i casi sempre predeterminato all'analisi da qualcos'altro che resta sempre esterno alla analisi e perciò ad essa essenzialmente irrilevante. Perchè l'analisi abbia, come analisi, un qualche valore bisogna che essa si consapevolizzi, a sua volta, come processo nel quale i termini, tra loro distinguendosi e rapportandosi, mantengano un inscindibile nesso con la totalità in cui si collocano, nesso che è, dialetticamente, la presenza della totalità in essi, quella presenza che l'analisi deve solo presupporre e su cui essa non può venire esercitata : il nesso con la totalità che l'analisi suppone non ha carattere analitico. Dove la totalità venisse meno, meno verrebbe la possibilità dell'analisi, la quale non può modificare la totalità proprio perchè, al limite, non la può mai escludere ; e se « filosofia » diciamo, con termine operativo, questa totalità, l'analisi in filosofia non ha alcun valore. § 6. — Limiti di validità e valore. Così, la ricerca dei limiti di validità dell'analisi in filosofia approda alla esclusione di valore all'analisi in filosofia, ma non esclude la necessità dell'analisi come procedimento inerente alla precisa determinazione nel linguaggio dei semantemi che vi compaiono, che la funzione dell'analisi è insostituibile nella misura in cui questi semantemi si distinguono effettivamente tra loro. Di qui la necessità di procedere con rigore e di valutare l'analisi in relazione a questo rigore, non, viceversa, il rigore in base all'analisi dei singoli termini dei quali si fa imprescindibile uso. Se, infatti, il rigore fosse da progettare come risultato della analisi, l'analisi dovrebbe progettarsi non in funzione della chiarezza, ma in funzione della verità del discorso e questa sarebbe da pensarsi alla fine dell'analisi, la quale, invece, analiticamente, non ha « fine » (essa procede, infatti, estendendosi entro i limiti che ad essa impone, di volta in volta, l'analizzato) e non è in grado di stabilire la verità, di « farla nascere ». Rigore e verità sono, dunque, rispetto all'analisi, la stessa cosa, perchè sono, anzi, la « cosa stessa » come valore di ciò che si dice di essa ; cosicché l'analisi ha valore solo se è « rigorosa », cioè tale da rispettare l'intero valore della cosa su cui si esercita, l'intero entro cui la cosa si colloca ; ma allora il valore dell'analisi

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dipende dalla filosofia, perchè essa è rigorosa se rigorosamente -pensata è la « cosa » su cui essa si esercita. La « cosa » è poi rigorosamente pensata sp non si esclude il suo esser(si) la totalità di se stessa, se non si esclude, cioè, l'« essere » che è totalità « intima » di qualsiasi cosa, l'essere che è «metafisica » (i). Qui l'analisi del linguaggio sarebbe, al più, il linguaggio in quanto « analizzabile », ciò che del linguaggio non è « totalità », « essere », « valore », ma « insieme », « termini », « operazioni » (2), dei quali la filosofia pur abbisogna per dire se stessa, ma che essa deve negare come valori se intende veramente dirsi ; questo negare ciò di cui si abbisogna non ha senso, analiticamente parlando, ma ha tuttavia un suo senso, precisamente il senso dialettico della filosofia (§ 2). § 7. — Come è possibile una filosofia del linguaggio. Per determinare il modo in cui è legittimo parlare di « filosofia del linguaggio » è indispensabile che si precisi fin dall'inizio il valore di quel « di » con cui si pongono sintatticamente in rapporto il linguaggio e la filosofia, supponendo che il linguaggio si inserisca nella filosofia, come entro la totalità, e che la filosofia si strutturi e si comunichi con il linguaggio che la significa. Poiché vanno mantenute e la presenza del linguaggio nella (1) Cfr. G. R. BACCHIN, SU l'autentico, cit., pp. 37-38. (2) Che cosa si intende per « linguaggio » ? Un utile punto di riferimento è rappresentato dalla formula «linguaggio è ogni sistema di segni che serve per comunicare » (cfr. A. PASQUINELLI, Linguaggio, scienza, filosofìa, cit., p. 45). Notiamo, però, che, come « sistema », il linguaggio è un insieme ordinato e di esso si può dire quanto si dice appunto di tali « insiemi », come caso particolare di questi ; come sistema « di segni » esso rimanda direttamente ai « significati » ed involve la questione di che cosa sia effettivamente possibile significare, come « comunicazione » esso involve la duplice questione della « intersoggetività » (esclusivamente filosofica) e della « oggettività » delle cose comunicabili (anche questa filosofica e snodabile solo al livello del rapporto teoretico t r a « presenza » ed « oggettivazione ». Se il fondamento della « comunicazione », essenziale al linguaggio come sua « funzione », è la « comunione », essenziale al linguaggio è il modo di essere dì coloro che lo usano, che è, perciò, Vessere stesso degli enti comunicanti t r a loro (cfr. G. R. BACCHIN, Tempo e comunione come senso della storia, in « Rivista internazionale di filosofia politica e sociale» (1964) pp. 206-211). Non si dà una qualche « informazione » che non sia anche « espressione » di chi informa e del suo modo d'essere.

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totalità entro cui esso ha un senso e la funzione del linguaggio rispetto alla filosofia che esso significa, la filosofia del linguaggio abbisogna di chiarire inizialmente il valore del semantema « di », rilevandone l'ambiguità. Tale semantema può venire considerato, come i semantemi affini «per», «da», «con», «a», ecc., consignificante o sincategorematico, per usare una espressione scolastica (i), in quanto esso dice qualcosa solo insieme (sin-cum) ad altro semantema e, tuttavia, ne determina il senso e, quindi, la possibilità di uso nei vari contesti. Il « di » presenta, dunque, una bivalenza strutturale, in quanto esso ha, insieme, funzione sintattica e valore semantico e i due aspetti non sono tra loro scindibili se il nesso tra semantemi è sintattico e se i semantemi vengono determinati in virtù di tale nesso che li modifica, ossia li condetermina. Ma, oltre all'ambivalenza (sintassi-semantica), per la quale esso è, insieme, «connettivo logico » (2) e «semantema » (3), il « di » cela una ambiguità, proprio perchè esso può indicare le due

(1) Cfr. PIETRO ISPANO, Summ. Log. VII, 5, 11 ; m a anche Stuart Mill la usa [Logic, I, cap. I I , par. 2) ; più recentemente HUSSERL (Logische Untersuchungen, II, par. 4) nel senso di p a r t i del nome. Cfr. anche E. CASARI, Lineamenti di logica matematica, Milano, 1961, p. 19. (2) Nella logica contemporanea la parola « connettivo » viene usata nel senso del « simbolo improprio » che, combinato con una o più costanti, dà luogo ad una nuova costante. (3) Uso di questo termine nel senso indicato dal
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funzioni dell'oggettivazione e della specificazione : la prima come operazione connessa al rapporto conoscitivo soggetto-oggetto (conoscenza di qualcosa) e per lo più implicita nel discorso (io penso che . . .), la seconda connessa, come operazione, con il processo di determinazione ulteriore, il quale costituisce l'asserzione intorno a qualcosa (questa cosa è così e così e . . .). Nell'oggettivazione, il « di », indicando ciò di cui v'è conoscenza, non entra a costituire la cosa se non in quanto rapportata al soggetto che la conosce, dove, invece, il « di » specificante entra nella asserzione stessa e riguarda intrinsecamente l'asserito. L'intreccio tra il « di » oggettivante e il « di » specificante entra dunque nell'asserzione stessa ed è intreccio fra asserzione ed asserito nel , senso che la specificazione può dirsi anche dell'asserzione come tale (p. es. l'asserzione di me, mia). Non entro qui nell'analisi dettagliata dei valori linguistici di appartenenza, di attribuzione, ecc., ma è sufficiente avere stabilito che il « di » cela questa ambiguità ,per chiarire che questa ambiguità si riproduce anche nel caso della filosofia del linguaggio : se il « di » vi indica l'oggettivazione, deve potersi pensare la filosofia come attività oggettivante, come tale, cioè, da avere un suo oggetto, oggetto che essa teorizza come esterno ad essa e che essa investirebbe del proprio metodo, ma che sarebbe sempre uno degli oggetti cui essa potrebbe applicarsi (altri esempi si avrebbero con la « filosofia del diritto », « filosofia della scienza », «filosofia della storia», ecc.). Questo « applicarsi » della filosofia agli « oggetti » è oltremodo ambiguo se si mantiene, come si pretende comunemente, di moltiplicare nella filosofia gli oggetti che essa assumerebbe, tali da dividere la filosofia fra i suoi oggetti : la filosofia dovrebbe risultare composta, di volta in volta, di se stessa e del proprio oggetto e quindi non essere mai « se stessa » senza l'oggetto che la condetermina. Se avesse oggetti suoi, la filosofia dovrebbe porre in se stessa una irriducibile molteplicità, che è l'impossibilità di avere un oggetto veramente suo, dovendo essa assumere necessariamente oggetti diversi tra loro. È quanto accrediterebbe una riduzione della filosofia ad attività di « riflessione critica » sugli oggetti, equivocando appunto tra filosofia e « pensiero scientifico », « pensiero giuridico », ecc., quel « pensiero », cioè, che indica semplicemente la consapevolezza di se stessa cui tende qualsiasi scienza e che è, perciò, ancora « scienza », non mai « filosofia ». Solo una volta

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caduti in questo equivoco, l'eliminazione della filosofia come autonoma appare inevitabile, proprio perchè una « filosofia » che non fosse riflessione o coscienza critica che le scienze, strutturazioni dell'esperienza, acquistano progressivamente di se stesse, sarebbe almeno superflua e, quindi, ingombrante. Ma codesta eliminazione della filosofia consegue all'equivoco ed è, perciò, tutta equivoca ; essa, infatti, suppone o che la filosofia sia riflessione sul modo di costituirsi degli oggetti o che pretenda di vincolare a priori gli oggetti al suo modo di vederli : riflessione critica sulla scienza o dogmatismo. Alla « riflessione » si connette il concetto di « teoria ». § 8. — Concetto di « teoria » e sua riduzione. Il concetto di « teoria » si rivela insignificante se lo si riporta a ciò che comunemente con questa parola si intende. Comunemente, per quel linguaggio il cui valore, identificandosi con l'uso, è sempre solo presupposto, si dice « teoria » per indicare il momento espositivo o descrittivo di un qualche ordine di operazioni o di norme e, in questo senso, « teorico » si oppone a « pratico », come momento in cui, più che il fare o agire o produrre, si vuole dire il modo che si ritiene di poter o dovere tener in quel fare o agire o produrre. Al termine « teoria » è infatti connesso il senso negativo di qualcosa di insufficiente o di inadeguato rispetto all'esperienza effettiva ed esso viene fatto equivalere, perciò, ad « astratto » : in teoria le cose starebbero in un modo, praticamente, cioè in effetti, le cose andrebbero altrimenti. Ed anche se si vuole evitare la contrapposizione di « teorico » a « pratico » come di negativo a positivo, di disvalore a valore, la parola « teoria » conserva almeno il significato di esposizione preliminare o, ed è lo stesso, di riesposizione riassuntiva di un ordine di realtà che, rispetto alla teoria, si presuppone concreto. Una teoria generale della scienza (una epistemologia), ed una teoria del metodo, sarebbero pur sempre momenti distinti da quell'effettivo operare che viene fatto o precedere o seguire al discorso intorno ad esso. Tale distinzione il senso comune (ed il comune linguaggio) mantiene sempre, che di essa si materia appunto ogni esposizione di « criteri » o di « valori » che non ritenga di coincidere concretamente con quei valori e fare essa stessa uso di quei « criteri ».

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L'insignificanza teoretica della « teoria » è, così, la stessa pretesa di esporre con un discorso l'intera consistenza del discorso. Essa si rivela dove si dispongano analiticamente i termini nei quali un dato discorso si struttura, in modo che l'esposizione abbia il carattere della provvisorietà rispetto a ciò che vi si espone, provvisorietà che consisterebbe tutta nella impossibilità di ridurre l'esposizione a ciò di cui è esposizione, il dire al « dire se stessa » da parte di quella cosa. La provvisorietà è così da ridursi alla costruzione di un linguaggio che si esaurisca nell'indicazione semantica della cosa, appunto quale indice di valori e di criteri, nonché del loro nesso. Ogni descrizione provvisoria del sapere avviene così per mezzo di una costruzione del sapere stesso, il quale in tanto sarebbe autentico sapere in quanto la costruzione fosse ad esso estranea, ma anche ad esso identica : estranea, perchè quel discorso è indicativo e non risolutivo del sapere ; identica, perchè il sapere è risolutivo di qualsiasi discorso epperò dello stesso discorso con cui lo si dice. Questa situazione aporetica, consistente nel fatto che nel sapere si distingue ciò che col sapere si identifica, domanda che il senso comune che determina l'aporia non possa costituirsi come ciò in base a cui risolvere l'aporia, superandola. Il concetto di teoria, quale provvisoria indicazione di cose concrete fuori di essa, si riduce a quel senso comune mediante la costruzione dell'aporia in cui il sapere e la sua indicazione si elidono reciprocamente nell'impossibilità di indicare un « sapere » senza che si inglobi tale indicazione nel sapere indicato, con la consapevolezza del valore dell'indicazione come tale : indicare il sapere è necessariamente sapere che l'indicazione vale come indicazione ed è, quindi, sapere il proprio sapere. In tal modo, dire il sapere significa soltanto il « dire se stesso » da parte del sapere ed anche che il proprio dirsi, il proprio mostrarsi del pensiero, venga detto : soltanto dirsi ed anche venire detto sono, appunto, la contraddizione in cui ci si viene a trovare se si vuole erigere il concetto di teoria, con la sua immanente aporia, in assoluto, teorizzando all'infinito la sua validità. Ciò che « teoria » può significare è allora niente più che il « presupposto », il quale non può giustificarsi come tale proprio in quanto, come tale, non può non presupporre sempre la propria giustificazione. Il senso comune è così, nella sua stessa avversione alla teoria

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e nel suo stesso contrapporsi ad essa come concreto ad astratto, affatto teorico perchè presuppone appunto un termine da cui si cominci, il quale termine non sia, perchè inizio, quel processo che da esso comincia. Infatti, il senso comune considera la teoria o come momento indicativo di cose da fare o come momento riassuntivo di cose fatte, come insufficiente o come superfluo ; ma insufficienza e superfluità conseguono, in ogni caso, all'assunzione della teoria come momento che, sempre presupposto, astrae dalla giustificazione di se stesso. § 9. — La riduzione del concetto di teoria e la radice pragmatica dell'intellettualismo. Ridurre la teoria al senso comune significa mostrare la radice dell'intellettualismo, il quale, come atteggiamento di fronte alla realtà, suppone, appunto, questo trovarsi di fronte alla propria ed insieme estranea realtà. Atteggiamento che è scelta non consaputa, perchè è presupposizione alle operazioni da compiere e queste sono rese possibili dalla situazione fuori operazione in cui ci si pone per scegliere e che, perciò, non può venire scelta né consaputa. Pervenire a sapere che questa situazione è il presupposto alle operazioni è, d'altra parte, nient'altro che una particolare operazione, la quale non fa che riproporre, in quanto tale, la situazione di tutte le operazioni e, quindi, non è mai tale da mutare la situazione saputa. Per cui, se quella situazione è ateoretica, la consapevolezza della sua ateoreticità non si sostituisce ad essa né le conferisce teoreticità, negando quella ateoreticità di cui è consapevolezza. E quella situazione è precisamente ateoretica perchè sempre e solo presupposta e quindi, estranea a se stessa, « astratta » o teorica (§ 8) : essa presuppone, infatti, la sua giustificazione e si pone, perciò, arbitrariamente come definitiva. È impossibile, infatti, operare senza supporre « definitivo » e concluso il momento da cui si prende ad operare : l'operazione (sulla realtà ) domanda, per se stessa, la definitività del suo inizio quale applicazione tecnica di un concetto già elaborato. La cosa è anche storicamente importante, perchè l'interpretazione scolastica e moderna del « concetto » classico (ossia della

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teoreticità come « teoria ») deriva, appunto, dalla necessità di uno strumento valido d'operazione sul reale e, quindi, obbedisce a due fondamentali istanze : i° che il concetto sia valido come « strumento » da applicarsi al reale ; 2° che il « concetto » sia da verificarsi come « strumento » valido mediante un confronto con quel reale. La duplice istanza, operando per se stessa una dicotomia con il rapporto concetto-realtà, rende insolubile il problema, da essa emergente, della verificazione del concetto, in quanto la realtà con la quale il concetto dovrebbe venire confrontato onde stabilirne il valore, non potrebbe essere estranea al concetto stesso. Ma quella duplice istanza deriva precisamente dall'avere ridotto il concetto a strumento, il cui valore non può venire giustificato dalla sua effettiva applicazione al reale se non identificandosi semplicemente con quel reale e cessando, così, di essere solo strumento : la giustificazione dello strumento dovrebbe semplicemente presupporsi e non giustificarsi (cfr. § 5). Questo presupporre la validità dello strumento significa, allora, nulla più che operare : lo strumento è essenzialmente l'operazione stessa che esso consente. Così la radice dell'intellettualismo è il pragmatismo e l'esito coerente del lognoseologismo moderno non è l'idealismo come recupero dell'identità tra pensiero ed essere, ma il pragmatismo come identificazione tra valore ed operazione.

§ io. — La nozione ateoretica dello « in generale » come base della teoria. La parola « teoria », riportata a ciò che lo stesso etimo dice, non può significare ciò che con essa polemicamente si crede di poter dire : la 9-ecopia è, piuttosto, « visione » e vale ad indicare la pienezza di quell'atto per cui ciò — che — è è presente, e, perciò, equivalentemente, l'attualità della cosa che si conosce e l'attuazione stessa del conoscente come conoscente. Bisognerà approfondire questa assunzione della parola « teoria » ; per ora ci limitiamo ad usare, in questo senso, della parola « teoretico » e riserviamo la parola « teoria » a ciò che comunemente si intende, come si è visto, per « dottrina » nel senso intellettualistico e formalistico dell'esposizione o della riesposizione. Questa distinzione di parole si giustifica con la considerazione del fatto che si dà un caso in cui la teoria si rivela ateoretica,

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ossia ingiustificabile. Questo è precisamente il caso in cui si usa dell'espressione « in generale » e ci si riferisce a qualcosa a prescindere da certe determinazioni, astraendo da ciò che ne costituisce pienamente la concretezza. La nozione dello « in generale » è ateoretica ed equivale all'uso della parola generica « cosa », con la quale non ci si riferisce a qualcosa di determinato, ma si intende una certa sostituzione di qualcosa di determinato con un aspetto di questa cosa che valga a dire tutti gli altri aspetti, senza che si incorra nella necessità di procedere a dire « che cosa » esso sia, all'interno di quella prensione globale, appunto. Dove manchi l'intenzione di procedere verso la determinatezza, la nozione di « cosa » non può significare nulla, perchè la prensione globale di qualcosa non è qualcosa se non per l'operazione del « prendere insieme », del « comprendere », del considerare tutto simul. La parola « cosa », cioè, può voler dire la nozione generica come globalità all'interno della quale si intende procedere alla determinazione dei singoli aspetti o caratteri di ciò che si considera, ma anche può voler dire la possibile sostituzione dei singoli aspetti o caratteri della cosa da parte di un determinato aspetto in cui tutti gli altri, mantenendosi tali, si riconoscono. Nel primo senso, la parola « cosa » ha carattere operativo, perchè, dove manchi l'intenzione di procedere nella determinazione, la cosa è solo l'indeterminato, cioè il nulla e la cosa è tutta nella intenzione di dire che cosa essa sia ; nel secondo senso, la parola « cosa » indica quell'aspetto che non può venire ulteriormente determinato, essendo la determinatezza stessa di ogni altro aspetto e che non è, allora, propriamente « altro » rispetto ai singoli determinati aspetti. Dove, nel primo senso, la parola « cosa », fuori dell'intenzione operativa, è indeterminabile perchè assolutamente indeterminata (determinare il nulla non è determinare), nel secondo senso la parola « cosa » è indeterminabile perchè assolutamente predeterminata quale determinatezza ontologica di ciò che si considera. Il discorso che si articola sulla nozione di « cosa » è, in ogni caso, posizione all'interno di una assunzione i cui limiti sono due indeterminabili : l'indeterminabile « nulla » e l'indeterminabile « tutto ». I limiti, tuttavia, non sono analiticamente inventati, perchè il nulla e il tutto non sono dati immediati dell'esperienza (il nulla

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è operazione, in quanto negazione ; il tutto è la dialetticità dell'impossibile che non sia), per cui dovremmo dire, piuttosto, che il discorso nel suo svolgimento (in atto) pone come suoi limiti il nulla e il tutto e, precisamente, pone il tutto come impossibilità del nulla e pone il nulla come la negazione intrinseca a tale impossibilità. Il tutto è l'impossibilità del nulla nel senso che, dove il tutto non fosse, ogni singola determinazione e l'insieme ipotetico di tutte le determinazioni non sarebbero ; diciamo, dunque, che la nozione di « totalità », analiticamente considerata, è contraddittoria : dire che « domandare tutto è tutto domandare » è tautologia nello stesso senso in cui « domandare tutto » è contraddizione ; quella tautologia è la ripetizione indefinita di una contraddizione, nello stesso senso in cui il tutto di esaustione è l'indeterminato in una serie determinata di determinati (i singoli momenti del processo non potendo non coesistere, nel mentre che il processo, per ogni termine che è la possibilità e quindi la necessità del suo ulteriore (i), non può non essere infinito). La totalità di esaustione ha, al più, carattere postulatorio, non essendo mai « determinabile » ; ma questa postulazione si rivela contraddittoria dovendosi porre come intrinsecamente irriducibile all'« indeterminato », che postulare l'indeterminato è postulare il nulla ; coerentemente non postulare, o postulare e non postulare, contraddirsi appunto. La contraddizione analitica della domanda di tutto è, così, costruzione analitica di un rapporto tra termini i quali escludono precisamente quel rapporto, perchè il domandare importa una dualità tra l'atto e la cosa che in esso e per esso si pone come domandata ; la quale, da parte sua, non può non includere lo stesso atto del domandare, il quale, nel tutto, domanderebbe se stesso, vanificandosi in un processo all'infinito. Fin da questo momento possiamo dire che la problematicità pura, quale domanda della totalità, analiticamente considerata, sarebbe contraddittoria, perchè la reiezione universale della certezza con cui il dubbio si attua domanda che si assuma l'universale come inattaccabile dal dubbio : dubitare di tutto è possibile solo dove il tutto sia ; ma, dove il tutto è, non è possibile dubitare di « tutto » : dell'esservi del tutto non è possibile dubi(i) Cfr., per la s t r u t t u r a della « determinazione ulteriorizzante », G. R. BACCHIN, L'Originario

ecc., cit., I, par. 2.

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tare ; né, d'altro canto, è possibile dubitare di qualcosa che non sia nel tutto, perchè se del tutto non si dubita, non si può dubitare di ciò che fuori del tutto non sarebbe (il tutto non sarebbe se qualcosa gli fosse estraneo). Analiticamente considerato, il dubbio o problema è insostenibile se non al livello tutto psicologico e quindi empirico di una attività presupponente ; al livello teoretico o filosofico, il problema sarebbe la dissoluzione di se stesso : sarebbe un porsi che si toglie da solo ; esso mai sarebbe se l'« altro » da esso non fosse, ma non potrebbe mai attuarsi come universale se questo « altro » non fosse risolubile in esso (se il domandare tutto non fosse tutto domandare) : l'« altro » è così posto e tolto, ed il problema che in funzione dell'« altro » si pone, risolvendo l'altro in se stesso, da se stesso si toglie (poiché domandare tutto è tutto domandare, domandare tutto è domandare niente, non è domandare).

§ l i . — Riduzione del procedimento analitico all'indeterminato, cioè al contraddittorio. L'analiticità domanderebbe dunque un processo all'infinito, perchè il porsi di un termine è, nella sua determinazione, la posizione indicata da un termine ad esso ulteriore. Questo progressus in indefinitum suppone che l'indefinito sia, il che contraddice alla nozione stessa di progressus, perchè questo domanda che ciascun termine sia ulteriore rispetto a tutti gli altri, nel porsi di tutti i termini compresenti tra loro. Così il progressus in indefinitum è assurdo, perchè, supponendo la definitività dell'indefinito, contraddice a ciò che esso, come progresso, dovrebbe porre : il suo presupposto è tolto da ciò di cui è presupposto ; ma questo toglimento stesso presuppone quel presupposto di cui è toglimento, che l'ulteriorità vi consiste nella presupposizione indefinitamente presupposta. Tale progresso risulta nullo perchè, presupponendo indefinitamente se stesso, non sorge mai : la sua nullità è tutta nel suo presupporsi a se stesso ed è questa la ratio della sua contraddittorietà e si può anche dire che, rispetto zìi'indefinitum, progresso e regresso non solo si equivalgono ( = la discriminazione è estrinseca al processo che essi indicherebbero), ma s'identificano, nel senso che l'atto che pone è il medesimo atto che toglie. La contraddittorietà (o nullità) del progressus in indefinitum

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è, precisamente, l'identità tra posizione e toglimento : la progressione è la sua stessa regressione, ed allora né si progredisce né si regredisce, cioè non v'è processo. Ciò che dal rivelamento di tale contraddittorietà consegue non è che il tutto sia finito, e, perciò, esauribile da parte di un progresso che ne svolga fino al termine la finitezza, bensì che un processo inteso alla determinazione radicale non può non essere finito ; che il fondamento, cioè, non può non esservi. Un tutto « finito » equivarrebbe, infatti, ad un tutto « indefinito », perchè esso non potrebbe non includere quell'atto onde è detto come tale, ma quell'atto verrebbe sempre riproposto per dire la sua inclusione e, quindi, verrebbe sempre negato dal suo stesso dirsi incluso : dire che il tutto include l'atto del dire il tutto implica indefinitivamente un atto che dica tale inclusione, la quale, perciò, non può non restare indefinita. La risoluzione del procedimento analitico al contraddittorio importa la determinazione del procedimento come dialettico : la dialetticità è provata con la negazione dell'analiticità. Ma è proprio questa determinazione che domanda il duplice chiarimento della distinzione tra negazione contraddittoria e negazione dialettica : la prima come negazione indeterminata, la seconda come determinatezza ulteriormente indeterminabile. Il duplice chiarimento si ottiene con l'esame della differenza ontologica tra il contraddittorio ed il negato. § 12. — Differenza ontologica tra il contraddittorio ed il negato (i). « Contraddittorio » è ciò che è posto e tolto ; l'atto che pone è lo stesso atto che toglie ; quest'atto non pone né toglie, semplicemente non è. « Negato » è ciò che è posto per venire tolto ; l'atto che pone non è lo stesso atto che toglie ; cioè gli atti sono due ed entrambi reali, ma solo uno dei due è vero, perchè se è vero l'atto che pone, non può non essere falso l'atto che toglie, e viceversa. Il contraddittorio esce, così, dalla considerazione teoretica ; esso è ateoretico, ossia il nulla non è (radice pragmatica della no(i) Cfr. G. R. BACCHIN, Intero metafisico e problematicità pura, in « Rivista di Filosofia Neoscolastica » (1965), articolo in risposta a E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, in « Riv. di Filos. Neosc. ». (1964), p p . 138-175.

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zione di non-essere). Se il contraddittorio è il non-essere, tuttavia esso « è » in quanto è detto come essere e, perciò, dire il contraddittorio significa « negare » che esso sia. Ne segue che la considerazione teoretica del contraddittorio è la riduzione del «contraddittorio » al «negato » (e non viceversa), dire il contraddittorio non è contraddirsi, perchè l'atto che lo pone non è lo stesso atto che lo toglie : dire il contraddittorio significa dire che in esso porre e togliere sono un unico atto, ma sono un unico atto appunto in esso. Il negato è posto in funzione del suo venire tolto ; poiché i due atti sono entrambi reali ma uno solo è vero, resta fondata rigorosamente la differenza ontologica fra reale e vero : per dire che qualcosa non è vero, è necessario che esso venga preso in considerazione, la quale considerazione non può essere non reale, appunto non può non esserci. Tuttavia, questa considerazione non può non esserci rispetto al suo venire negata e, perciò, non può pretendere veramente all'essere. In tal modo la differenza ontologica fra reale e vero non ha carattere analitico, ma dialettico ; se avesse carattere analitico, bisognerebbe infatti postulare il genere entro cui porre tale differenza, riproponendo all'infinito un'identità (astratta) tra reale e vero entro cui porre la loro differenza o, in altri termini, bisognerebbe far cadere la loro differenza, contraddittoriamente, nell'uno e nell'altro, nel reale o nel vero (la differenza dovrebbe poter essere, indifferentemente reale e vera). Che la differenza fra reale e vero abbia carattere dialettico resta provato dal fatto che, nel « negato », ciò che è posto lo è soltanto per venire tolto, per cui uno dei due risulta « tolto » in ogni caso e quindi, in ogni caso uno dei due deve restare. Che tale differenza sia dialettica significa che nessuna analisi di essa la può dissolvere nella stessa impossibilità di una vera e propria « analisi » di tale differenza. Il negativo, ove sia presente, è anche operante e questo può dirsi la radice teoretica del nichilismo e dell'acosmismo. L'operazione propria del negativo è ovviamente la nientificazione ; ma la presenza del negativo rivela che il nulla non è assoluto : ciò in cui o colui al quale la presenza del negativo risulta non è nulla ; il che significa che il negativo non è il nulla. Ma, poiché il nulla non è, il negativo non si distingue dal nulla e, in quanto non vi si distingue, vi si identifica ; tuttavia, in quanto è vi si distingue. Allora, il negativo è ed anche non è, esso è con-

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traddittorio ; ma esso non è, dunque esso è piuttosto il contraddirsi, ossia è il proprio togliersi, ma è contraddittorio anche come togliersi, perchè per togliersi bisogna essere e per essere bisogna almeno non togliersi. Ciò significa che il contraddittorio si deve togliere, ma nel senso che esso non — può — essere (è il nulla) ; e, perciò, non lo si può considerare nemmeno per toglierlo : esso contraddice anche la propria assunzione: assumere il contraddittorio è non-assumere. Del contraddittorio tuttavia si dice almeno implicitamente, dicendo che qualcosa —• può — essere : non può essere che il reale non possa essere, non può essere che il possibile non possa essere. Ma, non appena ci si mette ad esplicitare la contraddizione, si cade appunto nella contraddizione, perchè la si considera come « essente ». Allora la contraddizione non è implicita, ma solo implicitamente detta, nel senso che la si dice solo indirettamente, dicendo l'impossibilità che essa sia, che è la possibilità di contraddirsi : l'impossibilità che è contraddizione è la stessa possibilità che ci si contraddica. Cioè la contraddizione si rileva nella sua possibilità di venire evitata, la quale è per se stessa la possibilità che non la si eviti ; la necessità di evitare la contraddizione è, per se stessa, la possibilità di contraddirsi. Ma la nullità teoretica che è la contraddizione essendo teoreticamente indicata, è indicata incontraddittoriamente. Se la contraddizione è il nulla e se questo nulla viene teoreticamente indicato come contraddizione, il nulla è posto dalla sua indicazione, è nella sua indicazione, senza alcun residuo. Ma il nulla, totalmente presente nella' sua indicazione, non rende nulla questa indicazione ; che, se la rendesse nulla, non sarebbe mai possibile riconoscerlo e dirlo. Del resto, rendere nullo qualcosa, nientificare, è impossibile, perchè questa operazione domanderebbe, in ogni caso, che vi sia la cosa da nientificare la quale, se non è, rende nulla la nientificazione che si pretende di essa. Nientificare equivale, così, a riconoscere nullo qualcosa, la quale cosa si presenta come « qualcosa », ma non è ciò che sembra essere ; dove il nulla non è mai assoluto, perchè qualcosa può « sembrare » qualcosa e non esserlo solo se è, in ogni caso, qualcosa : dire che qualcosa non è come sembra equivale a dire che essa è qualcos'altro. Allora, ciò che viene nientificato è già nullo in se stesso e nien-

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tificare significa solo dire questa sua nullità : nientificare è dire il nulla e, perciò, il nulla non può nientificare questo suo venir detto. Ciò significa che è possibile dire il nulla senza che il nulla sia e senza che sia possibile dire che « qualcosa » non è ; se il nulla non è, dire il nulla è non-dire ; ed è questo non dire che viene detto, ed è in questo non-dire (impossibilità di venire detto) che il nulla interamente si risolve. Dove il risolversi del nulla è, ovviamente, il dissolversi della sua parvenza ed esso è nullo anche come dissoluzione di se stesso, proprio perchè la dissoluzione di sé è impossibile, riguardando essa la posizione di qualcosa da togliersi e che si toglie nel suo stesso venire posto. Con ciò la dissoluzione della parvenza si attua in un rapporto tra l'attività posta da colui al quale la cosa appare diversa da come è e quella cosa che non è come appare e che, perciò, sarebbe anche se non apparisse. Poiché, nella parvenza (che è essere diversamente da come si appare) è presente ciò che appare e che è come appare e che è, perciò, anche se non appare, non è possibile risolvere l'essere nel'apparire : se l'essere si risolvesse nell'apparire, la distinzione tra apparire dell'essere ed essere parvente (ciò che non è come appare) non potrebbe mai apparire e non potrebbe mai venir detta ; ma essa viene detta almeno con il dire che essere e apparire non sono cose diverse : dicendo che essi sono la medesima cosa, si distingue tra questa loro pretesa medesimezza e quella parvenza che consisterebbe nel sembrare cose diverse. Ciò non significa che essere ed apparire siano tali per cui vi sia un discriminante in virtù di cui qualcosa che appare abbia rispetto all'essere, una propria caratteristica, ma significa che non tutto ciò che appare è e che è questa e solo questa la presenza del negativo. Tra il contraddittorio ed il negativo non v'è differenza, nel senso che il contraddittorio è il nulla ; ma v'è differenza radicale fra il contraddittorio ed il negato, perchè questo è la stessa funzione incontraddittoria di dire il vero, il vero che è incontraddittorio. § 13. — La dialetticità come impossibilità di un procedimento analitico sulla totalità. L'intrinseca contraddizione dell'analisi, al livello della fondazione dei termini, ci ha fatto proporre in esame la nozione di

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negativo e quella di contraddittorio e si è trovato, insieme, che il rapporto tra negazione, negatività, contraddittorietà importa la considerazione del rapporto fra essere e suo apparire, perchè nell'apparire dell'essere come esso non è si trova la presenza del negativo che è il nulla e che è la contraddizione. L'intrinseca contraddizione dell'analisi è tale solo al livello della fondazione ultima dei termini (di ciò che è) ed è, perciò, una cosa sola con l'aporia del cominciamento. Ma se, a proposito del cominciamento si dà aporia, l'autentico cominciamento è l'aporia ; o cominciamento di essa con il riconoscimento dell'aporia e, perciò, con l'invenzione di ciò che la determina ; il che significa consapevolezza della dualità fra ciò che provoca l'aporia e ciò che, sapendo l'aporia come aporia, la dissolve. Questa dualità è l'impossibilità di considerare una cosa sola l'iniziale (empirico) e l'originario, che è come abbiamo esposto altrove (i), il trascendentale ; considerazione che caratterizza l'analiticità, per la quale i termini sono due solo sul medesimo piano e, perciò, radicalmente, per quel piano, non sono due ma uno. Il piano dell'analisi è quello in cui si presuppone ciò di cui si dà l'analisi e, perciò, dove ci si ponga nel cominciamento, si presuppone almeno il qualcosa in generale entro cui si pongano i singoli termini da prendere in esame. Ora, la filosofia come astratta presupposizione è la « nozione » di filosofia, ciò di cui ci si chiede che cosa sia, presupponendo che sia e presupponendo che si sappia che cosa significhi « essere ». Questa nozione è ineliminabile e la determinazione di tale ineliminabilità è la conversione della filosofia da astratta presupposizione alla filosofia come posizione concreta (2). Ma la concreta posizione della filosofia non può essere un risultato, perchè il risultato è vero e concreto solo dove lo siano i termini e l'operazione da cui esso risulti ; da termini astratti non è possibile far risultare nulla di concreto ; analiticamente, il risultato della conversione sarebbe ancora l'insieme dei termini che entrano in essa e non vi sarebbe conversione della presupposizione astratta in posizione concreta, ma solo riproposizione indefinita dell'astratto, trascrizione dell'astratto all'infinito. Ciò significa che la filosofia come concreta posizione è l'atto (1) Cfr. G. R. BACCHIN, L'originario (2) Cfr. G. R. BACCHIN, SU l'autentico

come implesso ecc., cit., p . 83. ecc., cit. I.



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stesso del convertirsi, che non può essere astratto se è consapevolezza (o posizione) dell'astratto come tale e della impossibilità di eliminare l'astratto dalla considerazione del filosofare o impossibilità di ridurre il momento iniziale all'originario e, perciò, di accreditare la risoluzione monista. La consapevolezza del presupposto, che è consaputo come tale solo in virtù di ciò che, rinvenendone Yinsopprimibilità empirica, ne toglie la pretesa di valere come innegabilità originaria, è atto che non può eliminare quel presupposto e non può ridurvisi : non può ridurvisi senza emergere sulla sua riduzione (ed è questa la portata dell'attualismo), non lo può eliminare senza anche presupporlo, senza presupporre, appunto, ciò di cui si progetta come eliminazione (ed è, radicalmente, l'istanza dell'esistenzialismo, l'incontrovertibile affermazione del residuo esistenziale) (1). Se la filosofia è concreta posizione solo in quanto è l'atto del convertirsi da astratta (la nozione presupposta) in concreta (la innegabilità), la filosofia è concreta dialetticamente : il convertirsi è, infatti, dialettico, che se fosse solo analitico non sarebbe mai concreto, né potrebbe mai far risultare il concreto : non sarebbe mai concreto perchè l'operazione su astratti non può modificare il loro carattere astratto, ed è, in questo senso, operazione astratta, cioè nulla ; non potrebbe far risultare il concreto perchè sarebbe, analiticamente, somma di astratti, cioè sarebbe concretamente o veramente astratta. La dialetticità del filosofare è dunque con l'aporia del cominciamento che è, dicevamo, il cominciamento come aporia. E l'aporia si pone come l'impossibilità di venire accettata (contraddittorietà) e, cioè, come posizione originaria della problematicità che in tanto è problematicità in quanto è incontraddittoria, ossia improblematizzabile (2). La problematicità è così la duplice impossibilità di sopprimere l'aporia e di accettare l'aporia : la soppressione dell'aporia sarebbe ancora aporetica, perchè domanderebbe all'infinito la posizione aporetica del fondamento in virtù di cui, ad un tempo, spiegare l'insorgere dell'aporia e la necessità di eliminarla (contraddittorietà dell'aporia assunta in assoluto) ; l'accettazione dell'aporia è (1) Cfr. G. R. BACCHIN, L'originario

ecc., cit., I l i , p a r . 4.

(2) Cfr. M. GENTILE, La problematicità pura, Padova, 1942 ; e G. R. BACCHIN, Su le implicazioni ecc., cit., p p . 47-52.

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aporetica, perchè assumere l'aporia in assoluto è mantenere l'aporia all'infinito, riproporre infinitamente l'aporia (i). La problematicità è così originaria solo in quanto è dialettica e non soltanto dialetticamente provata e la dialettica non è un metodo di filosofare, bensì la intrinseca validità del filosofare, cioè del domandare radicalmente, ossia totalmente. Qualsiasi affermazione è posizione della domanda e si rivela esplicita risposta ad una almeno implicita domanda (2). § 14. — La domanda totale e la totalità domandata. La domanda (T£ ECTTIV ;) si mantiene possibile finché si pone intorno a qualcosa di determinatamente « questo », come domanda delle differenze esperibili, dei limiti esperibili, supponendo la dualità della posizione tra domanda e cosa domandata : comunque la domanda investa la cosa, la cosa non è la domanda intorno ad essa. Con le riserve da fare nell'uso della parola « parte », parola oltremodo ambigua, si potrebbe dire che domandarsi che cosa sia una data cosa è possbile solo in quanto quella cosa è solo una « parte » e la domanda di essa è, quindi, domanda parziale. ~La. dualità che la domanda « parziale » suppone è, in effetti, la struttura analitica della domanda, per la quale, supponendo noto il significato dell'espressione « qualcosa » ed « essere, in generale, una cosa », si ridomanda « che cosa » sia una qualche cosa. La struttura analitica si rivela qui nella supposizione della notizia dell'essere e questa supposizione è la radice, appunto, della parzialità della domanda rispetto alla corrispondente risposta, è quel divenire che è ulteriorità continua dell'esperiente a se stesso, quell'andare oltre senza di cui l'esperienza, assolutizzandosi, cesserebbe d'essere. Il trascendimento in cui l'esperienza si attua è analiticamente la stessa esperienza quale parziale domanda e parziale risposta e, perciò, quale costante ed intrascendibile dualità o alterità ; una volta detta la parte, è detto l'altro da essa e la determinazione della parte è, così, anche ulteriorizzazione rispetto ad essa. Non appena, con il porsi della domanda analitica, dualizzante, (1) Cfr. M. F . SCIACCA, Filosofia e metafisica, (2) Cfr. Su l'autentico ecc., cit., I, § i.

Brescia, 1950, p . 40.



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parziale, trascendibile, si pone l'ulteriore rispetto alla domanda ed alla corrispondente risposta, con la posizione analitica resta escluso che tale ulteriore possa mai « essere » : esso è sempre, per definizione, sospinto oltre se stesso, esso è costantemente ulteriorizzato, che la parte domanda all'infinito, cioè indefinitamente, di non essere tutto ; per cui il tutto, che dalla parte è implicato, è anche dalla parte necessariamente escluso : così la posizione analitica della domanda parziale è anche la contraddizione intrinseca della posizione analitica della domanda totale. In tal modo si perviene alla posizione della domanda totale e, insieme, all'esclusione che tale posizione possa essere mai analitica, cioè strutturalmente identica alla posizione della domanda parziale, della medesima sua natura. La domanda totale è in effetti mai eludibile, perchè qualsiasi domanda, ponendosi intorno a qualcosa, suppone che quella cosa non sia il tutto e suppone, quindi, che il tutto sia. Ma, se la domanda parziale è necessariamente tale da supporre noto che cosa sia lo « essere » o « essere qualcosa » o il « qualche-cosa-che-è », la domanda totale, nella sua totalità, nega tale supposizione e si pone, radicalmente, come domanda dell'« essere » e del « qualcosa » e di qualsiasi cosa : la domanda totale è domanda della totalità. Ora, la totalità, non ponendosi analiticamente se non come costantemente superata e negata e quindi contraddetta dal suo stesso venire sempre postulata, non si pone come ulteriore rispetto alla parzialità intorno a cui si pongono (si dis-pongono) le varie domande, ma si pone necessariamente nelle singole domande e il tutto di cui essa è domanda è il tutto di ciascuna cosa domandata, l'« essere » di quella cosa. L'« essere » non è, in tal modo, se non il tutto della cosa e la domanda totale si pone con il porsi stesso di ciascuna domanda parziale ; se v'è così un tutto analiticamente posto, questo tutto è contraddittorio, e v'è, nella necessità di togliere questa contraddizione, il tutto dialetticamente recuperato che è l'incontraddittorio, il fondamento della possibilità di costruire e di togliere la contraddizione : l'« essere ». Così, la domanda totale è la totalità inesperibile. Il tutto è inesperibile, se l'esperienza è trascendimento, che oltre al tutto non è possibile andare : quel trascendimento in cui si attua l'esperire esclude che del tutto si dia esperire. L'esperire, nel suo essere possibile domanda, è tale per i limiti esperibili che

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sono dati nel loro stesso venire trascesi e, perciò, nel loro non essere il tutto. Il tutto, senza di cui quei limiti non sarebbero perchè dovrebbero necessariamente convertirsi in esso, è dunque limite e limite inesperibile. Così, la posizione del limite inesperibile è posizione inesperibile e, perciò, intrascendibile. § 15. — L'intero della domanda totale e della totalità domandata. L'intero, una volta che se ne chiarisca il recupero dialettico, si rivela l'integrale, perchè recuperato dal decadimento ad un tutto risultante di parti (a parte moltiplicata all'infinito, che è il progressus in indefinitum, (cfr. § 13) : l'intero non è il risultato di una qualche operazione. Ne segue che l'intero è da dirsi di qualsiasi cosa che si dica, in quanto l'intero non è una cosa (le « altre » cose che da esso si distinguessero sarebbero « parti » di esso e da esso non si distinguerebbero), né si può dire che esso sia l'insieme di tutte le cose (o ciascuna cosa è già intera o nessuna di esse può aggiungersi ad altra, che l'aggiunzione è determinata solo se è aggiunzione a qualcosa di determinato). Se ciascuna cosa, in quanto può essere detta, è l'intero, non si può moltiplicare l'intero per ciascuna cosa : questa moltiplicazione sarebbe nient'altro che la riproposizione dell'intero all'infinito ; non che tale moltiplicazione non sia operazionalmente possibile, ma essa è possibile solo a condizione che l'« intero » sia identico in ciascuna cosa ; ma, se esso è identico in ciascuna cosa, la moltiplicazione dell'intero per ciascuna cosa è del tutto superflua. Ne segue che nessuna cosa è l'« intero », perchè ciascuna cosa lascia fuori di sé tutte le altre e implica una congiunzione tra se stessa e tutte le altre ; questa implicazione è l'unità dualizzata del tutto ; il che significa che essa, potendosi ripetere all'infinito, è il processo inverso della moltiplicazione, la dicotomia all'infinito. I due processi, inversi tra loro, teoreticamente si equivalgono (cfr. § 13) : dividere una cosa per se stessa è come moltiplicarla per se stessa : progressione e regressione sono aspetti empiricamente opposti del processo di numerazione, di un processo che è, piuttosto, un procedimento inconcludente. Ma dividere una cosa per se stessa non equivale a dividerla da se stessa ; la dicotomia suppone, infatti, la identità della cosa

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o che la cosa, anche divisa, permanga ciò che è (i) (per cui la divisione, ponendosi qui come operazione sull'indivisibile, si pone come estrinseca a ciò su cui si esercita, irrilevante ai suoi termini) ; laddove, invece, l'astrazione suppone che ciò da cui qualcosa è tolto non sia ciò che da esso viene tolto : non è possibile astrarre tutto da una cosa (sarebbe o assumere interamente la cosa o interamente negarla). Nella dicotomia l'identico è supposto indivisibile da se stesso (p. es. l'i estensione » è dicotomizzabile, in quanto la si può dividere solo perchè essa è sempre, identicamente, divisibilità) ; nella astrazione l'identico è supposto come ciò che precede e condiziona (1) SEVERINO, op. cit., pp. 375-410, La metafisica originaria. Non penso che si possa dire con il Severino che « una qualsiasi determinazione o contenuto semantico x » può assumere anche il significato (valore) dell'essere « formale », ossia può valere come l'essere stesso, tale che la proposizione « x è » sia da interpretarsi, per il valore di x, come la proposizione significante « l'essere è ». Non lo si può dire, perchè l'espressione « l'essere è » è una proposizione che esprime proprio ciò che in ogni altra proposizione non può venire mai espresso e, perciò, è tale da porsi al di fuori di t u t t e le proposizioni possibili, tale da non essere una vera proposizione. La « proposizione » che dice l'esser-e è, come proposizione, identica a t u t t e le altre e, pertanto, lo x, che nelle altre è da determinarsi semanticamente, in questa proposizione è già determinato nel suo essere x e non può quindi, venire sostituito o interpretato. Ogni proposizione è strutturalmente significabile con la forma « x è », dove « x » non può non venire determinato da un qualche contenuto semantico, che è, a suo modo, variamente, l'esperienza come « esperito » ; m a la forma « x è », presa nel suo essere tale, è determinata in modo da non poter venire ulteriormente determinata ; l'assunzione di « x è » come tale può venire significata con la forma « « x è » », dove le virgolette esterne indicano che « x è » è già assunto nella sua determinatezza. Che, se si escludesse questa possibilità di assumere « x è » come determinatezza, la sostituzione di x in essa non potrebbe mai dirsi determinata, proprio perchè x non sarebbe affatto. Con ciò resta escluso che si possa dire che l'essere di « x è » è distinto da x per t u t t i i casi meno uno, quello di x come « essere », perchè il caso di x come « essere » non è un caso che si ponga tra gli altri, univocamente, e la proposizione che lo significa non è perciò, una proposizione, m a la proposizione nella sua struttura, presente, anche se non sempre consaputa, in tutte le possibili proposizioni. Si dirà, allora, che « x è » è la esplicazione « intera » di « x è », valendo per tutti i valori in cui « x è » risulti determinabile ; od anche che « x è » è sostituibile per qualsiasi valore, meno che per se stesso. Quel valore che, secondo il Severino, sarebbe l'unico ad escludere la distinzione significata da « x è » è, in realtà, lo stesso « x è », il quale non può, come tale, venire sostituito e non può venire sostituito, distinguendo in esso lo « x » dallo « è », prop-'o perchè qualsiasi sostituzione (e distinzione) avviene in esso o non avviene.

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il risultato dell'astrazione (p. es. dell'identico « Socrate » si può astrarre il suo essere « filosofo » solo se, una volta astratto da questo, « Socrate » non è più l'identico da cui si astraeva). A questo punto il nostro discorso si sdoppia secondo una duplice prospettiva, quello dell'intero come domanda totale e totalità domandata e quella dell'impossibilità di un intero risultante da una moltiplicazione o, inversamente, passibile di una dicotomia o dualizzazione qualsiasi. § 16. — La conversione dialettica della totalità domandata nella esclusività del domandare. Non si dà domanda filosofica se non come posizione filosofica della domanda che è la piena consapevolezza del domandare, la domanda consaputa come domanda. Ciò significa che la filosofia è presente in qualsiasi domanda consaputa, per cui non v'è bisogno di una particolare domanda per porre la filosofia e, perciò, la domanda intorno alla filosofia si risolve nella filosofia presente nella domanda come tale o attualità del domandare. « Domandare tutto è tutto domandare » significa, così, che la coscienza del limite è il limite della coscienza, ossia la coscienza che trova se stessa come proprio limite : la coscienza non trova (non ha limiti, non subisce limitazioni), che li troverebbe in se stessa o mai ; la coscienza è piuttosto tutta il suo limite : essa è determinata solo se infinita o aperta a quanto in essa si coglie. La coscienza del limite è, infatti, superamento del limite, il quale resta solo a condizione di venire superato : un limite che non sia superabile è un limite che coincide con il tutto, è quel tutto di cui è limite. La domanda di tutto è coscienza del limite, in quanto il limite è la posizione del tutto, del tutto che non avendo qualcosa oltre se stesso, si può dire che limita se stesso, che è il proprio limite, il quale limite, coincidendo con il tutto, non può venire trasceso e cessa, perciò, di essere propriamente limite. La coscienza di tutto è il tutto della coscienza, ossia la coscienza è tutto e solo coscienza e da essa nulla si distingue perchè ogni distinzione è in essa ed un distinguersi da essa sarebbe ancora coscienza. La quale cosa può venire detta anche così : la coscienza dell'essere è l'essere della coscienza, la filosofia dell'essere (valere

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come) è l'essere come filosofia, perchè la domanda di tutto è domanda dell'essere, ossia l'essere stesso della domanda, il « domandare puro ». Il senso in cui la filosofia si pone è così lo stesso senso in cui ogni cosa si pone in essa : questo porsi nella posizione (questa attualità inconvertibile in altro) diciamo, senza indugio, trascendentale, perchè di essa si dice solo in quanto non la si può negare e l'innegabilità non è un « carattere » del trascendentale, ma la sua stessa posizione che è la sua necessarietà, incomponibile con altro, ad altro irriducibile, inanalizzabile. Una considerazione analitica del trascendentale equivarrebbe alla sua negazione e, poiché esso è di per sé innegabile, equivale effettivamente alla impossibilità dell'analisi : l'analisi è possibile solo di ciò che si presuppone che sia e che è, perciò, almeno nel suo presentarsi, non innegabile. « Domandare tutto » non significa domandare questo e quello : la congiunzione è il rapporto tra cose, di modo che si possa dire « altro » rispetto a qualcosa di presupposto o, ed è lo stesso, domandare questo 0 quello : la disgiunzione è l'alternativa per la quale si pone un termine e non necessariamente si pone l'altro, o un termine si pone solo se un altro termine non si pone ; congiunzione e disgiunzione sono momenti tali che ciascun termine si fissa nella totalità, assorbendola o riproducendola.

§ 17. — La domanda come riferirsi in atto alla risposta. La domanda perchè la « filosofia prima » venga dopo la « fisica » (1) nell'ordine del sapere nasce da una originaria « meraviglia », dovuta alla constatazione che si dispone della primalità in due diversi sensi : l'essere primo che è proprio della « filosofia prima », e che è primo per valore, e l'essere primo che dell'inizio del nostro sapere e che è, nell'ordine la « fisica ». La « meraviglia » (2) è dovuta alla constatazione che il primo per valore non è il primo di fatto. Siamo precisamente alla questione del « cominciamento » del filosofare, per il quale si deve evitare di fare della filosofia un momento di un processo del sapere che (1) Cfr. ARISTOTELE, Metaph., I, 3, 983 1. 1 1 ; I I I , 3, 998 1. 30. (2) Cfr. PLATONE, Teet., 155 d ; ARISTOTELE, Metaph. A, 982 b .

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non sia tutto filosofia. La domanda riguardante il rapporto tra esperienza e filosofia all'interno del « sapere », domanda che può venire trascritta in qualsiasi contesto storiografico, presenta un insieme di termini che indicano varie possibilità del discorso : i) un inizio del sapere, 2) un inizio del filosofare, 3) l'esperienza, 4) il rapporto tra esperienza, sapere, filosofia e, perciò : 5) il fondamento (del sapere o dell'esperienza o della filosofia) da determinarsi come « esperienza » o come « sapere » o come « filosofia ». La questione, ridotta all'essenziale, si pone nei seguenti termini : può la filosofia essere « fondante » se essa è nulla più che un momento di un processo più comprensivo ossia più universale ? Il discorso intorno al « prima » ed al « dopo », in termini di filosofia e di esperienza (esperienza scientificamente strutturata od anche ambito di possibili strutturazioni), sembra implicare in ogni caso una identità quale originario « implesso » (1) in cui possano distintamente porsi e l'esperienza e la filosofia ed ogni loro rapporto : non v'è un « prima » che non sia indicazione di una unità che ad esso sottenda. Proprio questa unità va riesaminata per vedere che cosa essa importi rispetto a quei termini che ad essa rinviano. Il rinvio dei termini del rapporto all'unità che vi sottende è la questione dell'originario che è rinvio fondante, nel senso almeno che l'unità non può essere « arbitraria » o « costruita » : è lo stesso rinvio all'unità che pone la questione dell'originario come fondamento, la quale è questione di che cosa sia in se stessa, propriamente, la filosofia, in modo che resti stabilito che il discorso filosofico si fonda in termini inequivocabili e garantisce se stesso come discorso autentico. Se si intende che è « primo » ciò che è più vicino al « principio », il punto di riferimento è da pensarsi come indipendente da riferimenti, né « anteriore » né « posteriore » e questa indipendenza può dirsi la « forma » dell'assoluto (ab-solutus o sufficiente a se stesso). Tuttavia, il concetto di « indipendenza » è negativo perchè, dove non sia ciò da cui qualcosa non dipende, non si può parlare di indipendenza, anche se può dirsi « indipendente » solo ciò che « è » senza che altro sia ; è il caso di dire che la nozione di indipendente » non è sic et sim-pliciter ciò che essa indica : parlando di « indipendente » ci si riferisce a qualcosa che consenta un di-

{1) Cfr. G. R. BACCHIN, L'originario

ecc., cit., cap. I I I .

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scorso su ciò che è, invece, dipendente dalla possibilità di un discorso su di esso. Si hanno, insomma, due punti di « riferimento » che non coincidono tra loro : i) ciò che diciamo « indipendente » perchè può sussistere senza che altro sia, 2) ciò che si presenta come dipendente e in rapporto al quale diciamo che qualcosa è, invece, indipendente. I due punti di riferimento non coincidono e, tuttavia, sono entrambi presenti nella necessità di quel riferirsi in atto che struttura il discorso. Ciò significa che, mantenendoli tra loro distinti, si eviterà anche di « separarli », proprio perchè uno solo di essi sussiste « separatamente » ; ciò importa anche che la pretesa che essi siano una cosa sola (immanentismo) costringe a far sussistere « separatamente » anche ciò che invece « è » assunto quale richiesta che vi sia qualcosa che non dipenda. Diciamo, così, che il concetto di « indipendente » non è l'indipendente, proprio perchè ciò che è indipendente è indipendente almeno dal suo concetto. Diciamo « indipendente » qualcosa in quanto esso risponde alla domanda posta con il darsi di qualcosa che, domandando, si rivela « dipendente » : è all'interno del rapporto tra domanda (ciò che dipende) e risposta (ciò che non dipende) che ha un senso il concetto di « indipendente », ma è solo fuori di questo rapporto che l'« indipendente » può essere veramente tale. In base (o in riferimento) a ciò che dipende, conosceremo nel concetto, che è formulazione problematicamente pura, ciò che non dipende, per cui possiamo dire che il concetto di indipendente dipende dal dipendente, senza che quest'ultimo cessi di dipendere. Il «primo» a venir conosciuto sembra allora il «dipendente», ma esso non si giustifica come tale se non si dispone, in qualche modo, della nozione di « assoluto » ; il « primo » ad essere conosciuto è, nell'assunzione del dipendente, l'indigenza che è domanda o richiesta di qualcosa che non abbia bisogno a sua volta di domandare. Ciò che è veramente « primo » è il domandare e nel domandare è dato il « concetto » come riferimento di ciò che dipende a ciò che non dipende. Se il concetto « formula » la domanda e se la domanda è domanda di qualcosa, quel riferirsi in atto che è il dipendere si trova nel concetto, è, anzi, una cosa sola con esso. Questa formulazione evita, ci sembra, la domanda intorno alla conoscibilità del principio, il quale principio è ciò da cui la conoscenza dipende, ed esclude la possibilità di dire che esso è conosciuto a sua volta in forza di altro « principio ».

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§ 18. — La problematicità nella « definizione » concettuale. Come si sa, Platone nel Carmide sente la difficoltà di una scienza della scienza : egli fa dire a Socrate, infatti, che non v'è una scienza dei discorsi, separata dalla conoscenza di quelle cose concrete delle quali i discorsi sono discorsi. (Carmide, 165 e). Non è concepibile, insomma, un'autocoscienza astratta che sia conoscenza di sé, senza essere anche conoscenza di un'adeguata realtà. Se l'esperienza è continuo problema, il problema tuttavia non sarebbe se non per la coscienza, che esso non è originato dai singoli « dati » : la mancanza, l'indigenza, che pongano domande, non sono mero fatto ; e, d'altro canto, non c'è coscienza che si attui senza problema, senza indicare se c'è un rapporto con il valore : se la « riflessione » è presenza concreta, diciamo che la presenza è concreta come rapporto tra fatto e valore. Per la connessione del valore con il volere, possiamo dire che il problema « vuole » la sua soddisfazione, come suo essenziale costituirsi, volontà che corrisponde alla mancanza, mancanza che si rivela nella riflessione, la quale non risponde né soddisfa ma solo presenta il problema nella sua interezza. Se ci chiediamo, allora, quale sia il nesso tra l'attuale io problematizzante e l'inattuale, che è la possibilità della problematicità, tale nesso si rivela quell'identità della coscienza che può dirsi l'unità operante nella stessa dualità limitante. Se la « teoria » fosse riflessione sulla cosa, la riflessione si pretenderebbe autosufficiente ed essenzialmente « altra » rispetto alla cosa ed al suo valore. Anche qui si profila nettamente la necessità di non equivocare fra teoretico e teorico (cfr. § 1), fra l'astratto preso in assoluto (con il seguente rifiuto di quanto dell'esperienza non coincide con la teoria) ed il concreto assumere che è la « riflessione ». E mi sembra che Platone dica questo nel Carmide. La definizione vi è detta infatti problematicamente quale indicazione od orientamento versola, definizione vera e propria : definire non è « formulare » il vero, bensì, piuttosto, verificare il vero mediante ciò che di esso appare (esperienza) senza che esso si risolva tutto nell'apparire (doxa). L'esperienza v'è corrilevata come assuntiva delle possibilità del vero, in base alla constatazione che il vero è per se stesso improgredibile. Possiamo dire che la « verificazione » è la forma che l'esperienza assume all'interno della « definizione » : se « definire » è iden-

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tificare, negando la dualità di cose che si presentano come due, ma sono una cosa sola, il loro presentarsi come due è l'esperienza, il loro rivelarsi come una stessa cosa è la definizione. Qui identificare equivale a « riconoscere » l'unità, non a « ridurre » operazionalmente i termini ad una qualche unità costruita a partire da essi. « Soltanto mi devi far noto in qual senso tu applichi la parola che vuoi adoperare » (Carmide, 163 d). Il convenire non è, cioè, convenibile ed è questa la normatività stessa del convenire : il linguaggio è costituito da convenzioni, che sono parole alle quali viene connesso un significato e questo è indipendente dalla parola alla quale lo si connette ed è regolato da norme intrinseche alla convenzione : il linguaggio è intrinsecamente « semantico ». Trovare che, per l'intrinseco limite all'arbitrio, non vi può essere assoluta convenzione significa negare lo storicismo, dove questo si ponga come pretesa di assoluta relatività o intrinseca temporalità del vero. Non possiamo qui parlare di idea chiara e distinta, ma di chiarezza che e anche distinzione, in tanto la cosa è « chiara » in quanto è « distinta ». Questo « chiarificarsi distinguendosi » ci consente l'uso di una duplice nozione di « discussione », rispettivamente, la discussione di tipo eristico o sofistico e quella di tipo socratico. Il primo tipo di discussione consiste nell'usare dell'equivoco che è dato dal limitarsi arbitrariamente alle parole ; il secondo tipo consiste, invece, nel riferirsi direttamente ai significati intesi e, quindi, nel dissipare l'equivoco possibile della parola. § 19. — L'intersoggettività come dimensione dialettica. Dimensione del discorso, sua misura, è l'« intersoggettività », che il discorso si pone in funzione dell'altro di cui si dice perchè è funzione dell'altro che si dice. L'altro « a cui » è essenziale al discorso e, perciò, il « dire a se stessi» non è fingersi altri, ma porsi come altri da se stessi : se questa è finzione, la sua inevitabilità elimina la sua negatività e ne rileva l'intrinseca struttura ; l'altro è presente nell'atto e perciò il suo coglimento non domanda che si integri l'atto con qualcosa di estraneo ad esso. In questo senso, ma solo in questo senso, il discorso è sempre analitico, perchè i suoi termini sono compresenti con il porsi di almeno uno di essi. In altre parole, non è possibile aggiungere un termine nel discorso se non fuori dell'aspetto strutturale ; il quale significa la correlazione dei molti nell'uno : l'universale « intersoggettivo » e

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l'« intersoggettivo » come universalizzante si dispongono in modo tale che si può pervenire all'intersoggettivo senza accedere all'universale, ma, in tal caso, la dimensione è negata dallo stesso atto. L'intersoggettivo è la stessa comunicabilità, la quale, essendo supposta in qualsiasi dimostrazione, non può essere oggetto di dimostrazione : essa è anapodittica ed il problema della comunicabilità è fittizio ; nella dissoluzione di tale preteso problema si rivela una duplice presenza : i) l'apparire del problema fittizio, che si coglie solo nella dimostrazione della sua insolubilità ; 2) il fatto insopprimibile di questo apparire : dire che un qualche problema è falso non è ancora dire perchè si diano problemi falsi, che il problema si ripropone in forma negativa per il fatto della sua falsità. Il quale fatto non può essere falso come fatto e non può essere vero come problema, ma ciò suppone una dicotomia tra il vero come esso « è » ed il vero come esso « appare » ; la distinzione tra essere ed apparire suppone, come distinzione, l'unità entro cui attuarsi, la quale non può non essere vera, perchè è veramente implicata : in essa, almeno, essere ed apparire coincidono. Ci troviamo così di fronte ad una unità richiesta dalla distanzioneche, una volta posta, elimina la distinzione in funzione di cui si pone ; il che significa che questa unità è solo fittizia, ed ogni distinzione da essa condizionata, non può non essere distinzionefittizia. Ma la fittizietà è qui tale solo perchè l'unità che sottende alla distinzione è pretesa come analitica e, perciò, non è contingente. Ora, tale unità si mantiene vera unità nel suo stesso dissolversi come unità analitica e questa è lo strutturarsi dialettico della stessa « implicazione ». § 20. — La struttura dialettica dell'implicazione. Per dire che qualcosa implica qualcos'altro, bisogna poter dire che quella cosa non sarebbe se quest'altra non fosse (1) ; in altre parole, bisogna poter escludere la possibilità che quella cosa escluda quest'ultima. Non sarebbe possibile parlare di « implicazione » di B da parte di A, se B non fosse « altro » rispetto ad A ; ma questa alterità escluderebbe l'implicazione se questa fosse estranea al costituirsi di A e di B : la formula analitica dell'implicazione (A implica B) si rigorizza nella formula dialettica A è implicazione di B : A e B sono implicazione in atto, sono l'atto dell'implicazione. (1) Cfr. G. R. BACCHIN, L'originario

ecc., cìt., cap. I I .

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L'atto d'implicazione si rivela così nella negazione dell'attualità di qualcosa che escluda o non includa la posizione di altro. Questo atto è, nel suo porsi, la stessa integralità dell'esperienza. Nessuna cosa è l'esperienza, ma nessuna cosa può essere detta senza che con essa si dica l'esperienza : in ogni cosa asserita è asserita l'asserzione come atto dell'asserire che è la stessa sua struttura. La struttura dell'esperienza è il rapporto tra una qualsiasi cosa e l'altro da essa (la determinazione ulteriorizzante) e, al limite, il tutto : se il tutto non fosse, nulla sarebbe ; cioè vi sarebbe, contraddittoriamente il nulla. Il rapporto si esplica come implicazione che dice il questo per il porsi di quello. Se quello non fosse « altro », non sarebbe implicato, ma, nella misura in cui è implicato perchè il questo sia se stesso, esso, che è essenziale al questo, vi si identifica e nega così il rapporto onde si costituisce distinto dall'altro. « Essere identico » significa essere fuori rapporto e, per la relazionalità essenziale dell'esperienza, significa essere fuori esperienza, inesperibile. La struttura dell'implicazione è dialettica, perchè l'implicazione è uso della negazione (che esclude l'assunzione positiva del negativo) : se « questo » implica « quello », questo non è « questo » se « quello » non è ; l'implicazione è così anche esclusoine che la cosa implicante sia assoluta. La struttura dialettica dell'implicazione è l'esclusione in atto dell'assolutezza dell'esperienza. Se v'è teoreticamente qualcosa che può essere detto rigorosamente, questo è l'esclusione dell'assolutezza dell'esperienza, perchè il « rigore » si attua nella pienezza della cosa che si dice e questa è esclusione di tutto ciò che è « altro » da essa : il rigore è l'indivisibile ed indimostrabile attualità dell'escludere, è la negazione in atto, l'atto che emerge sub"autonegazione, l'incontraddittorio.

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SOMMARIO : i. L'insignificanza teoretica del disaccordo. — 2. La preoccupazione di raggiungere un accordo effettivo è empirica e filosoficamente ingenua. — 3. Fittizietà del rapporto tra filosofia e senso comune. — 4. La superfluità del problema del « solipsismo ». — 5. Presenza e coscienza. — 6. La realtà come pensiero si risolve nel pensiero come atto. La realizzazione (l'attuai smo come attualismo puro). — 7. La realizzazione come negazione e come posizione. (L'attualismo monistico come naturalismo). — 8. La presenza pura. — 9. La coscienza della presenza pura. — io. Il rapporto tra atto ed oggettivazione tra presenza e presentificazione. — 11. Importo teoretico dell'espressione « Verum et esse convertuntur ». — 12. La metaforicità intrinseca delia parola.

§ 1. — L'insignificanza teoretica del disaccordo. Le parole « accordo » e « disaccordo » (1) indicano un rapporto tra « qualcosa » e coloro che su di essa « convengono » o « non convengono », attribuendo a tale cosa un diverso significato, epperò un diverso valore. Ora, anche non convenendo su qualcosa, non può non esserci qualcosa su cui si debba necessariamente convenire e che è, nella cosa, lo stesso suo esserci ; il quale esserci della cosa è da considerarsi a sua volta, come una cosa e, precisamente, come l'immancabile « dato » che condiziona la possibilità dell'accordo e del disaccordo su ciò che esso di volta in volta può valere. Non che si convenga su qualcosa che, in un secondo tempo, si rivelerebbe invece da discutersi, ma non si può non convenire su qualcosa se questa non può rivelarsi discutibile : l'unico valore che l'accordo universale (2) su qualcosa può esibire è che esso (1) « Accordo » e « concordanza » indicano un modo di convenire intimo, cosi come l'etimo dice : cum-corde, anche se l'uso comune ha perduto questo aspetto della parola (come l'ha perduto per la parola « ricordo » che viene usata per « memoria », « rammentare »). (2) Dovrei dire : il « fatto » dell'accordo universale.

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rappresenti l'impossibilità assoluta di un qualsiasi disaccordo su di essa, che è la riduzione a nulla dell'apporto ad esso da parte di chi lo considera. L'accordo universale, come fatto, ha valore (ossia è veramente universale e non solo generale) solo se non è un semplice fatto, perchè l'eventuale fatto che è il disaccordo sia da qualificarsi « errore », come negazione pretesa di un valore. Il fatto del disaccordo non può mai assurgere a valore che si opponga all'accordo e lo escluda, solo a condizione che questo accordo sia un valore per se stesso indiscutibile, tale, cioè, che l'eventuale sua discussione sia da qualificarsi erronea. Ciò importa che l'universalità dell'accordo non possa venire tolte da un eventuale disaccordo di fatto e che, perciò, tale eventuale disaccordo non ha rilevanza teoretica alcuna. In questa prospettiva per la quale l'accordo universale è tale da falsificare ogni disaccordo di fatto, la preoccupazione di pervenire ad un accordo effettivo e verificabile da parte di tutti è fuori luogo e denuncia, piuttosto, che si è mancato di distinguere la nozione teoretica dell'« universale » così da avere previamente e inconsciamente inficiato il valore inteso (o preteso) di qualsiasi asserzione. § 2. —- La preoccupazione di raggiungere un accordo effettivo è empirica e filosoficamente ingenua. Da questo punto di vista (i), il confronto tra asserzioni opposte (in base alla distinzione numerica tra asserzioni che convergono e asserzioni che non convergono su qualcosa) onde pervenire al dubbio circa la possibilità di un effettivo giudizio su quella cosa avrebbe origine da una distorsione ateoretica dell'interesse nella ricerca : il confronto non avviene, come qui si pretenderebbe, tra asserzioni, bensì tra « asseribilità » ed asserzione, tra le asserzioni effettivamente disponibili e l'asseribilità che vale come critica di quelle asserzioni ; per sapere, cioè, se questa particolare asserzione è vera, non basta chiedersi se essa sia sostenuta anche da altri, ma bisogna chiedersi se la cosa stessa non venga in essa in qualche modo alterata. (i) Punto di vista che non è arbitrario, perchè corrisponde alla riduzione del suo opposto ad impossibile.

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L'accordo effettivo, di tutti o della maggioranza, ha bensì rilevanza sulle decisioni da prendere in questioni riguardanti l'interesse di un « gruppo » e che debbono a loro volta venire controllate dall'esito pratico che da esse si attende ; non ha rilevanza però dove l'interesse, essendo esclusivamente teoretico, ossia in ordine al vero, non può risultare controllato da applicazioni pratiche. Il « controllo » del vero da parte di un gruppo o di una maggioranza non ha senso alcuno ed è perciò un non senso la ricerca di un effettivo accordo su ciò che è nella ricerca del vero, ed è parimenti privo di senso il mettere in questione una « theoria » (i) in base al « fatto » che taluni la discutono : non è sufficiente al livello teoretico, o del valore, che quasi nessuno (o non tutti) convenga su qualcosa perchè si possa concludere che questa cosa sia veramente discutibile, così come non basta che io l'abbia pensata perchè essa sia vera (il solipsimo empirico che fa coincidere il vero con il mio pensamento equivale, infatti, al collettivismo che identifica l'opinione della maggioranza con il vero). Il « controllo » del vero con le sue immanenti contraddizioni verrebbe preteso anche dove si commisurasse il vero alla fecondità delle sue « conseguenze » nell'ordine sperimentale : la distinzione tra teoreticità e teoricità (cfr. § io) opera qui un ruolo importante, se una « teoria » scientifica è considerata valida in ordine al numero dei fenomeni che essa consente di « spiegare » e quindi, subordinatamente, in ordine alle applicazioni (tecnica) che essa è in grado di regolare. Se si usasse della « fecondità come criterio di verità, si dovrebbe demandare la misura della « fecondità » stessa ai vari ordini in cui essa si affermerebbe, con la conseguente problematizzazione del criterio onde stabilire l'importanza di un ordine a preferenza di tutti gli altri (ciò che si rivela « fecondo » in matematica non lo è necessariamente in filosofia e viceversa). Si rivela anche a questo proposito, la riducibilità di un criterio che si presupponga indicativo del filosofare ed estraneo ad esso (fecondità, interessi di gruppo ecc.) alla nozione filosoficamente nulla di « presupposto » : il « presupposto » ha posto ovunque,

( 1 ) È quanto accade alla metafisica : la ratio dubitandi del suo valore viene ingenuamente ( = acriticamente) posta nel fatto che di essa si dubita in quanto su di essa comunemente non si conviene : la ragione del dubbio, sarebbe, cosi, il fatto che di essa si dubita e si dubita, perciò, senza una vera ragione.

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fuorché in filosofia, se la filosofia, ponendosi in ordine alla totalità, è di per se stessa dissoluzione di qualsiasi presupposto. Non si tratta, solo della necessità di fare a meno del presupposto, come può sembrare dal procedimento stesso di chi perviene intelligentemente a cogliere l'intimo senso del filosofare chiudendosi, tuttavia, in esso, ma anche soprattutto dell'essere filosofia come eliminazione in atto del « presupposto », come processo interno al presupposto in quanto sua negazione e ulteriore ad esso in quanto affermazione critica del suo essere mero presupposto (i). Ora, l'accordo effettivo dovrebbe valere o come « presupposto » alla ricerca o come « esito » critico della ricerca : se come presupposto esso sarebbe eliminabile (contraddicendosi come accordo valido), come esito, esso domanderebbe un disaccordo iniziale da cui partire e la filosofia empiricamente data come la « patria del disaccordo » sarebbe appunto valida proprio in ciò che le si imputa a disonore : il massimo disaccordo tra filosofi. L'unico movente della preoccupazione dell'accordo effettivo, cui si orientano per lo più i filosofi del linguaggio od anche, semplicemente, coloro che fanno dell'analisi del linguaggio uno stru(i) È la questione del valore che potrebbe avere in filosofia ciò che precedesse il discorso filosofico : va chiarito il senso in cui si parla di precedere in filosofia, precedere che è, d'altra parte, inizialmente e continuamente richiesto perchè la filosofia non si converta in assoluto sapere (conversione che renderebbe impensabile lo stesso assoluto, in quanto un assoluto che abbisognasse di venire instaurato sarebbe un assoluto perennemente « insufficiente » epperò relativo a ciò che gli manca p e r essere «assoluto »). H E G E L (Encicl., par. i) afferma la duplice necessità : i che la filosofia nulla presupponga ; 2 che la filosofia presupponga una certa notizia dei suoi oggetti non fosse altro per questo, che la coscienza, nell'ordine del tempo, se ne formi prima rappresentazioni e poi concetti ; e lo spirito pensante, solo attraverso le rappresentazioni e, lavorando sopra di queste, progredisce alla conoscenza pensante ed al concetto ». «Rigorosamente — dice E . SEVERINO (La struttura originaria, cit., p . 109) — la filosofia non presuppone nemmeno la « notizia » agli oggetti : tale presupposizione equivarrebbe alla posizione di un piano semantico che, estraneo all'autosignificazione, sarebbe lo stesso piano dell'insignificanza ». Ma la stessa affermazione « L a filosofia non presuppone » ha senso solo presupponendo ciò che la filosofia non presuppone, per cui mi sembra più esatto dire che il « presupposto » è «insopprimibile» (cfr. G. R. BACCHIN, L'originario ecc., cit., pag. 95) e che coincide con l'« iniziale » (cfr. Originarietà ecc., cit., pp. 57-62) che è immagine empirica del trascendentale, il quale iniziale non abbisogna di venire giustificato (eliminato come iniziale) perchè esso è sempre e nello stesso senso (univocità-univocizzazione) e non è eliminabile proprio perchè, se lo si nega come valore, deve valere almeno c o m e ambito della sua negazione.

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mento di ricerca filosofica, è la pretesa che il senso comune valga in filosofia, senza avere chiarito (filosoficamente) il concetto filosofico di « comune » o « valido per i più » o « valido per tutti ». § 3. — Fittizietà del rapporto tra filosofia e senso comune. È importante considerare ora il senso comune, perchè ad esso si fa riferimento quando si usa della espressione « linguaggio ordinario » o « linguaggio quotidiano ». Di fatto, il rapporto tra filosofia e senso comune viene considerato indiscutibile, perchè tale rivelasi con la constatazione della priorità degli interessi pratici su quelli speculativi, priorità che il senso comune non discute ; ma tale rapporto non può venire discusso solo a mantenersi entro l'ambito del senso comune, inglobando la stessa filosofia in quell'insieme di esperienze delle quali la filosofia non sarebbe se non uno dei momenti, accanto agli altri, epperò non « fondamentale » rispetto ad essi. Ma questo rapporto, affatto indeterminato, propriamente non sussiste : esso è indeterminato proprio perchè privo di determinatezza è quel senso comune al quale dovrebbe riferirsi indiscutibilmente ; la distinzione tra « senso comune » e filosofia è dovuta solo alla filosofia essendo essa a giustificarlo tale, emergendo su di esso con quel suo processo che è la revoca in discussione : dire che una qualche asserzione appartiene al senso comune è possibile solo a condizione che si sappia già che il senso comune non è, per se stesso, filosofia. La ricerca filosofica, proprio come revoca totale, ha appunto carattere personale (i) e non per l'apporto della persona al vero, ma per il modo personale del rivelarsi del vero (il modo non identificante o univocizzante del vero nell'alto che lo rivela). Che se ci si mantiene effettivamente in quello che si dice « senso comune », ci si dovrebbe contraddittoriamente distinguere da esso almeno nel dire che esso è « comune » rispetto a ciò che consente di qualificarlo tale : non v'è un « comune » se non per un « proprio » od « esclusivo » che su esso emerga nel dirlo. Il che significa che il rapporto tra filosofia e senso comune potrebbe venire determinato solo a partire dalla filosofia (e mantenendosi in essa) e, di conseguenza, il senso comune sarebbe (1) Cfr. M. GENTILE, Se e come è possibile la storia della filosofia, 1964 : vi si connette la questione del modo di fare filosofia.

Padova,

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parallelamente un momento interno della filosofia, la quale dovrebbe assumersi il compito di determinarlo prima di entrare in rapporto con esso ; la quale determinazione, essendo solo presupposta, non è mai veramente data. In questo senso, si può dire che il « comune » è solo una postulazione, postulazione che si formula solo in quanto la filosofia non può porsi senza anche distinguersi ; ma se la filosofia è atto mai «compiuto », questo distinguersi non va preso come un « fatto » da cui sia dato muovere per filosofare : esso è con il farsi della filosofia e non è assoluto che esca dalla possibilità di venire discusso dalla filosofia. Del resto, per determinare il rapporto tra senso comune e filosofia, bisognerebbe presupporre l'ambito entro cui operare nella determinazione, ambito che sarebbe stabilito solo per quei limiti che la determinazione dovrebbe stabilire : per determinare bisognerebbe avere già determinato e determinare sarebbe solo trovare il limite tra il pensare filosofico e il pensare « comune », comune a coloro che, convenendo su qualcosa, possono non convenire su altro. Non si dà, insomma, un « senso comune » a tutti, quasi universale convincimento del valore (o del disvalore) ma, se mai, il senso comune è funzione di interessi comuni e vi sarà ,così, un senso comune ai matematici, uno comune ai biologi, e così via ; senso comune (1) che, variando in funzione dello spiegamento effettivo di interessi, non può venire effettivamente considerato se non nella misura in cui davvero si partecipa a quegli interessi. E solo il matematico potrebbe parlare effettivamente di matematica ma è ancora il senso comune ai matematici che opererebbe nelle sue prese di posizione nei confronti di ciò che matematica non è. Allora, anche la filosofia dovrebbe porsi con un suo particolare « senso » che sia comune a quanti si dicono filosofi. È a questo punto che si pone la questione del « solipsismo », in connessione con la personalità della ricerca filosofica. § 4. — La superfluità del problema del « solipsismo ». Il problema del « solipsismo » (2) è una cosa sola con il problema della « comunicazione », perchè mettere in questione la (1) La parola « senso » che compare nell'espressione « senso comune » equivale a « sentire ». (2) Il solipsismo più rigorosamente filosofico non può subire alcuna dissolu-

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comunicazione equivale a considerare il solus ipse come escludente ogni relazione con l'altro (od anche, e con il medesimo esito teoretico, come includente o conglobante ogni « altro ») : se io sono l'« unico », o perchè gli altri non sono o perchè, essendo in me, non sono « altri », ogni mio discorso è esclusivamente « mio » e, pertanto, non importa alcuna dimensione intersoggettiva. Ma se il solipsismo si presenta come un problema, e come problema si presenta se non altro nell'intenzione di giustificarsi, ciò vuol dire che il solus ipse è messo in questione dalla presenza dell'« altro », essendo appunto l'« altro » a mettermi in questione, a togliermi la pretesa di essere l'unico. Con ciò il solipsismo si dissolve non appena lo si considera, di modo che l'analisi del linguaggio quando giunge a porsi sul solipsismo non ha più sotto di sé quel solipsismo, perchè questo, problematizzandosi, rivela la necessità che l'« altro » sia come problematizzante, non potendo pensarsi un problema assoluto, od un assoluto che sia intrinsecamente problematico. Se è vero che il problema del solipsismo, « quello più generale ad esso collegato del fenomenismo, hanno travagliata la filosofia moderna dai suoi stessi inizi, da quando Cartesio e Locke si sono sforzati di fondare la conoscenza sulle idee, intese come oggetto immediato del pensiero » (i), una volta che si chiarisca la sua intima natura di « problema », si perviene alla restituzione critica di quanto veniva messo in questione dall'ipotesi della sua verità e il pensiero moderno dissolverebbe da se stesso la propria istanza, consumandosi in una serie fittizia di problemi. Il modo in cui viene formulato il problema solipsistico da parte del pensiero scientifico rivela, però, che esso non deriva punto dalla problematica della filosofia moderna, o almeno non deriva da essa il solipsismo come ipotesi scientifica : chiedersi se « il rosso viene visto da tutti allo stesso modo » (2) suppone un uso empirico delle parole « vedere », « tutti », « modo », un uso

zione da parte dell'analisi del linguaggio, inscrivendosi in esso la stessa analisi che di esso si pretende ; al più potrebbe presentarsi come linguisticamente analizzabile il « solipsismo scientifico », quello formulato ad es. dallo Schròdinger (E. SCHRòDINGER, L'immagine del mondo, t r . it., Torino, 1963, cap. V). (1) A. PASQUINELLI, Linguaggio, scienza e filosofia, cit., pag. 91. (2) Gfr. E. SCHRòDINGER, op. cit., pag. 188.

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cioè per il quale il loro significato si colloca e si mantiene su un piano in cui l'ipotesi solipsistica è solo imposta fittiziamente, come « ipercritica », e proprio perchè ciascuna di quelle parole viene di forza portata nella formulazione del solipsismo, facendo violenza ai loro rispettivi significati. Tale violazione dei significati potrebbe venire operata solo dalla filosofia, in quanto critica radicale o totale discussione, non dalla scienza che intende collocarsi nel « mondo » ed operare in esso. D'altra parte, in filosofia non avrebbe alcuna rilevanza l'ipotesi che il rosso non sia visto da tutti allo stesso modo, dal momento che io e gli altri dovremmo convenire almeno nei termini che entrano a formulare questa proposizione : noi dovremmo, comunque, sapere allo stesso modo il diverso modo di vedere il rosso e dovremmo sapere che è il rosso, ad esempio, che non vediamo allo stesso modo. Così, l'ipotesi solipsistica perde totalmente rilievo, perchè in filosofia dovrebbe formularsi come assoluta tesi o non avrebbe alcun senso, nella scienza dovrebbe negare valore a se stessa, negando significato effettivo ai termini nei quali viene formulata. Ma v'è un solipsismo che è la struttura originaria stessa e che incentra in se stessa l'intero filosofare ed è quello che con espressione drasticamente rigorosa dice di se stesso che « la filosofia è la mia filosofia » (1). Ma questo solipsismo non si pone come esclusione dell'altro, né come problema delle possibilità dell'altro che, per il suo trovarsi nell'esperienza, domanda di non venire escluso, ma che non riesce a giustificarsi di fronte alla mia esperienza : il solipsismo che enuncia questa proposizione è l'unicità dell'atto del filosofare in cui la proposizione « La filosofia è la mia filosofia » si converte nella proposizione « La mia filosofia è la filosofia », in cui l'essere « mia » non va inteso nel senso dell'appartenenza limitata ed esclusiva all'individuo, bensì in quello della presenza inobliabile della persona, rispetto alla quale la filosofia non è qualcosa che si può accettare, rifiutare, limitare, essendo la stessa « personalità » del filosofare : l'« essere mia » della mia filosofia non significa che la filosofia sia valida solo perchè « mia », ma che, se essa non è « mia », non è filosofia, in quanto non vi può essere « altra » filosofia all'infuori dell'atto del filosofare, il quale è unico e indivisibile, epperò

(1) Cfr. E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., p . 23.

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« mio nello stesso senso in cui io sono suo » : la filosofia appartiene a me nello stesso senso in cui io, come filosofo, appartengo ad essa (i). La persona in filosofia è essenziale nel senso in cui è essenziale alla persona il filosofare, filosofare che è la consapevolezza nel senso concreto (cioè fondante perchè innegabile e intranscendibile) (2). § 5. — Presenza e coscienza. Dalla coscienza e mantenendosi in essa ci si muove per compiere l'iter teoretico, o processo che attua la visione pura, per la quale le cose sono la verità di se stesse, essendo per noi ciò che sono in se stesse, ciò che sono, semplicemente. Si muove dalla coscienza, la quale è attuale presenza ; ci si mantiene in essa, perchè fuori della presenza nulla propriamente « è », che essere assente è come non essere ; e questo muoversi non modifica la presenza, alterandola, ma ritrova l'identità dell'essere presente nella diversità stessa delle cose che di volta in volta lo sono. Questo movimento è, dunque, piuttosto, il ritrovarsi dell'identico nel diverso ; per il quale ritrovarsi il diverso, lungi dal venire annullato, viene conservato tale e viene conservato in virtù di quello identico senza di cui ogni cosa dovrebbe sostituire ogni altra cosa, perchè nessuna cosa potrebbe disporsi accanto ad altra ed anzi l'« altro » non sarebbe e la stessa sostituzione sarebbe impossibile. L'identico che è l'essere presente o, più semplicemente, «presenza » è, così, da ritrovare non come la soppressione o negazione del diverso, bensì come sua condizione, anzi come il diverso stesso nel suo essere intelligibile, come l'intrinseca possibilità che il diverso sia. Ma l'identico, che è la presenza stessa del diverso, non rende intelligibile il diverso più di quanto questo non lo sia, perchè solo ne mostra, o ne rivela, l'intelligibilità, manifestando l'identità di ciascuno con se stesso e la non-identità che ne consegue con l'altro da esso ; ossia, l'identità della coscienza, per la quale (1) Cfr. G. R. BACCHIN, II concetto di meditazione e la teoresi del fondamento, Roma, Iandi-Sapi, 1963, p . 10. (2) Cfr. M. GENTILE, Se e come è possibile la storia della filosofia, cit.

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il diverso è « presente » o consaputo come tale, è l'identico mantenersi tale del diverso. Si elimina così un equivoco, che di fatto ha una sua storia in filosofia, l'equivoco tra quell'identico che è la presenza o coscienza e quell'identico che è ciò di cui appunto v'è coscienza ; l'equivoco tra la considerazione, che è tale per qualsiasi cosa che si consideri, e l'identità di ogni cosa con se stessa onde, nel rapportamento o confronto, è dato riconoscere appunto la diversità. Solo se le due identità non si confondono, è possibile evitare la duplice risoluzione monista nell'essere e nel pensare ; e del resto, non è possibile confondere le due identità, perchè la coscienza non è ciò a cui la cosa si presenta se non come il presentarsi stesso della cosa, la cosa nel suo stesso venire consaputa. Si tratta, dunque, di due identità in quanto tra loro irriducibili ; ma esse si mantengono due solo se non si pretende di separarle, facendo di esse due diverse « cose », perchè non appena si pensa la coscienza come qualcosa, sia pure per ridurre monisticamente ad essa ogni altra cosa che in essa e per essa si presenti non la coscienza si pensa ma la « cosa » che si pretende essa sia, non la coscienza che è « presenza » ma la « presenza » ridotta a sua volta ad una qualche particolare « cosa ». La riduzione delle due identità, equivalenti alla loro « separazione » come di due diverse « cose », importerebbe pur sempre la dualità tra il processo della riduzione e l'uno al quale pervenire con la riduzione stessa, rendendo così impossibile o solo fittizia la riduzione, o negando con la riduzione la stessa unità. La dualità, dunque, di identica considerazione del diverso e di identica posizione di ciò che si rivela diverso si mantiene solo in quanto non si equivoca facendo della considerazione, che è la coscienza o « presenza », una delle cose che si possono considerare, solo, cioè, se non si pretende di oggettivare la stessa coscienza, cosalizzandola. L'equivoco è piuttosto, come si vede, una costruzione arbitraria, che esso si svela come processo in cui si identifichino tra loro diversi in base al fatto, assunto almeno implicitamente come ragione, che ogni cosa, in quanto « presente » alla coscienza, equivale ad ogni altra e che, di conseguenza, sia negabile nella sua pecularietà, onde si possa affermare la risoluzione di tutte le cose nell'unità, di ciascuna cosa in quel « tutto » che è, equivalentemente, tutto essere o tutto pensiero. Il monismo è allora precisamente questo equivoco e, perciò,

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questo arbitrio, per il quale, contraddicendosi, si dice che l'identità dell'essere o del pensare, per la quale le cose si risolvono nell'uno, altera la cosa stessa, almeno nel senso che ne rivelerebbe la fittizietà del suo presentarsi come « altra », e si mantiene, tuttavia, l'alterità della cosa nella dualità tra il suo presentarsi come « altra » e del suo intrinseco non essere « altra ». In altre parole, il processo di identificazione che sottende al monismo si risolve in una vanificazione dei suoi stessi termini, perchè separa la cosa da se stessa, epperò la nega, ma la nega contraddicendosi, perchè pur la mantiene nel dire che essa si risolve in quell'identico che non si riduce ad essa ; la contraddizione stessa, per la quale la cosa si presenterebbe come non è e si rivelerebbe poi diversa da ciò che è nel suo presentarsi, ripropone all'infinito quella diversità che si pretende negare e se questa contraddizione è inevitabile quella identificazione è assurda. § 6. — La presenza pura. Il muovere della coscienza ha dunque senso solo per il mantenersi in essa, che non è possibile fare di essa ciò da cui si parta onde pervenire a qualcosa di estraneo ad essa. Tuttavia, il movimento che la coscienza stessa attua è un pervenire a ciò che non è possibile ridurre a coscienza ; ossia non è possibile che quel mantenersi inevitabilmente all'interno della coscienza importi la necessità di assumere la coscienza come assoluta, come l'uno di cui bisognerebbe avere pur coscienza, riproducendo all'infinito la figura della dualità nella stessa tentata dimostrazione dell'unità ; perchè un'assoluta unità che abbisognasse di venire dimostrata a partire dalla presupposta molteplicità, dovendosi dimostrare a se stessa, si contraddice. Ciò che importa, dunque, esaminare è proprio la nozione di quel movimento che, attuandosi sempre all'interno della coscienza, non può valere a porsi come operazione sulla coscienza onde assolutizzarla ; così, ciò che sembrava fornire all'idealista la giustificazione del suo processo di risoluzione nella coscienza è invece la ratio stessa dell'impossibilità dell'idealismo, perchè, se ogni operazione è intrinseca alla coscienza, non si può pensare quella operazione che definisce la coscienza, facendone il tutto o l'assoluto. Il movimento che consentirebbe la risoluzione immanentista deve, cioè, assumere come suo inizio la coscienza ed uscire con-

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CAPITOLO SECONDO

traddittoriamente da essa per progredire nel processo di risoluzione, per procedere, cioè, veramente da un punto ad un altro ; ed il punto da cui si muoverebbe deve pur essere — contraddittoriamente — lo stesso movimento ; ma partire dal movimento è andare oltre il movimento, è non muoversi più. Ora l'idealismo non può negare quel movimento che è almeno implicitamente detto nel riconoscersi assoluto del pensiero o coscienza ; senonchè l'idealista riduce appunto la coscienza a questo riconoscersi o ritrovarsi da parte della coscienza stessa ; e questo egli dice « assoluto », ma ciò importa proprio quello che l'idealista intende negare, importa un ritorno o riflessione a partire da un punto che per consentire il passaggio deve essere estraneo, altro da sé : deve non essere assoluto. La nozione di quel movimento che parte dalla coscienza implica la coscienza come l'intero entro cui quel movimento si attua, ma non importa la riduzione della coscienza a questo movimento, né ad un punto da cui muovere per andare oltre, per pro-cedere alla determinazione di ciò che è « oggetto » di coscienza. Se la coscienza, o pensiero, fosse tutta nel riconoscersi o ritrovarsi da parte di se stessa, dovrebbe contraddittoriamente postularsi un punto estraneo alla coscienza che ne spieghi l'alienazione da cui appunto ritornare. Di un ritorno a sé si può parlare solo se a questo ritorno è predeterminato il « sé », di modo che il ritorno sia un processo orientato ad un suo telos ; che se fosse lo stesso ritorno a determinare quel « sé », il ritorno non sarebbe mai determinato, epperò mai effettivo, sarebbe un andare che non va ; d'altro canto, se il « sé » fosse pre-determinato al ritorno che ne lo recupera, il ritorno, comunque, determinato od orientato, sarebbe superfluo e si riproporrebbe in questione la ragione di esso, proprio perchè in effetti quel « sé » non sarebbe mai alienato da se stesso. E così che non si può parlare di pensiero che « circola dentro di se medesimo » (i), dove questa circolarità del pensiero sia «un punto che si muove e torna a se stesso » (2) : o il punto non è (1) G. GENTILE, Sistema di Logica come teoria del conoscere, capo II, § i. (2) Il punto e la circonferenza possono venire fatti valere come « figure empiriche » del trascendentale. Ma è da notare che il passaggio dalla circonferenza al punto è ancora « interno » al punto, perchè, se, all'inizio, del passaggio dalla circonferenza al punto, il punto non fosse consaput J, il passaggio sarebbe indeterminato, ossia non sarebbe; d'altro canto, se il punto è consaputo già all'inizio, di passare non v'è bisogno per

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una cosa sola con il suo movimento, ed allora esso è anche senza questo movimento e il movimento si aggiunge al punto che esso presuppone ed il ritorno del punto a se stesso sarebbe l'eliminazione dello stesso movimento onde ottenere quel punto come puro punto, senza movimento ; o quel movimento è una cosa sola con il punto, ed allora del tutto inconcepibile risulta il ritorno, perchè il punto, per quanto si muova, non può allontanarsi da se stesso e perciò non può avere bisogno di ritornare a sé. In altre parole, ciò che non è pensabile è proprio l'alienazione da sé, senza di cui non è possibile del resto parlare di ritorno, né di pensiero-astratto « da cui ritornare » a quel punto che è il pensiero : ciò che opererebbe l'alienazione è pur sempre quel « sé » che sarebbe intrinsecamente tutto alienazione e l'alienazione non sarebbe l'astratto ma il concreto ; oppure, nell'alienazione, il « sé », essendo sempre operante, non è mai alienabile veramente, ed allora l'alienazione è non solo astratta ma intrinsecamente impossibile. Se ben si guarda, l'alienazione di sé riproduce la situazione logica della posizione di se stesso propria dell'Assoluto, nonché determinare il punto, ed ogni passaggio effetttivo al punto sarebbe superfluo. L'aporia che si configura qui è data, però, dalla necessità che il passaggio dalla circonferenza al punto sia anche « esterno » al punto, perchè la circonferenza non è il punto e il punto non è il passaggio, essendo ciò cui il passaggio perviene (che se il punto fosse il passaggio al punto, del passaggio non vi sarebbe bisogno). La nozione di « passaggio » è cosi t u t t a ambigua, supponendo il rapporto secondo cui attuarsi e un'attività che si svolga in conformità a quel rapporto : v'è inclusa la duplice nozione di « s t r u t t u r a » (rapporto) e di « attività », (progressiva assunzione di quel rapporto). Solo dove si ritrovi l'« intero » (la indivisibile condizione alla divisibilità dei procedimenti o passaggi) è possibile dissolvere tale aporia. Ma l'intero non è ciò che « è diviso da ciascun significato e dall'altro da quel significato » (E. SEVERINO, op. cit.), perchè, in t a l caso, il significato risulterebbe dalla moltiplicazione di ciascun significato per se stesso o per t u t t i gli altri, i quali non sarebbero mai tutti, anche nell'ipotesi di un numero finito di significati, che la moltiplicazione di un qualsiasi significato per se stesso ( = il numero di volte in cui un significato è considerabile) è necessariamente indefinito. Se la divisione dell'intero fosse possibile, ogni cosa lascerebbe fuori di sé l'intero, nessuna cosa sarebbe interamente se stessa, nessuna cosa sarebbe ; e la divisione che suppone l'intero, domandando l'intero in ogni suo momento, non è divisione dell'intero, m a nell'intero, il quale è divisibile solo astrattamente, come indefinitamente riproposto per ciascuna cosa che risultasse dalla divisione : il tutto non è la somma delle cose poste, ma il porsi di qualcosa (cfr. G. R. BACCHIN, L'originario come implesso esperienza-discorso, cit., p . 15).

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della gnoseologistica posizione della cosa in se, la cui formulazione è strutturalmente priva di senso : lo « in » dello « in sé » dovrebbe porsi a sua volta « in sé », che la relazione che lo « in » sta ad indicare viene tolta da quella identità che è il « sé ». Perchè di circolarità si possa parlare nel senso assoluto, bisognerebbe che l'allontanarsi coincidesse con il ritornare, di modo che « la massima distanza da se stesso coincida con la negazione di ogni distanza » (i) ; ma i termini che indicano le opposte funzioni dell'allontanarsi e dell'avvicinarsi hanno senso determinato solo in riferimento a qualcosa che non si allontana né si avvicina e ciò ripropone la distinzione del punto dal qual movimento onde esso si aliena e si ritrova ; proprio la distinzione che la circolarità assoluta intenderebbe eliminare. Del resto, se allontanarsi è anche avvicinarsi, le due funzioni non si riferiscono in senso opposto ad un punto di cui si dicono, ma, riferendosi nello stesso senso all'identico punto, si identificano concretamente con esso, di modo che da quel punto non è possibile allontanarsi né avvicinarsi ; e quel punto è semplicemente immobile. Che, se quel punto coincidesse senza residuo con il suo muoversi, l'immobilità si riproporrebbe almeno per questa impossibilità di non muoversi e il punto, comunque, resterebbe immobile ; ossia il movimento dovrebbe risultare solo come interno al punto, proprio perchè, se il movimento fosse lo stesso punto, da una parte dovrebbe dirsi che esso si muove dal suo stesso muoversi e, quindi, che cessa di muoversi, dall'altra che esso non può non muoversi e che questo significa, rispetto alla possibilità di muoversi e di non muoversi, l'impossibilità di muoversi, l'immobilità. Con ciò, il movimento per cui dalla coscienza si parte rende impossibile che dalla coscienza si esca, epperò nega la possibilità di fare della coscienza un assoluto, che dirla assoluta significherebbe considerarla a sua volta come qualcosa di cui si abbia coscienza ; onde ci è dato concludere che, se la coscienza è presenza, questa presenza è pura solo se, nell'assumerla, non si pretende di assolutizzarla : la coscienza assolutizzata sarebbe, infatti, la coscienza e l'operazione che l'assolutizza, l'insieme, ovviamente fittizio, di coscienza e operazione su di essa.

(i) G. G E N T I L E , Sistema

ecc.,

cit.,

II.

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§ 7. — La coscienza della presenza fura. Va chiarito, e sempre approfondendo ciò che è dato cogliere nel concetto di presenza pura, il modo in cui della coscienza si parla senza dare, tuttavia, oggettivazione, ne per analizzarla come i dati che in essa e per essa si presentano, né per assolutizzarla come l'unico che veramente sussista, risolvendo ed inverando ogni altro che ad essa si opponga. Restano escluse, cioè, sia l'operazione più propriamente fenomenologica dell'analizzare la coscienza come contenuto o peculiare contenuto offerente, sia l'operazione più propriamente metafisica dell'identificare la coscienza con quelle identità che in essa si pongono e si presentano. Se l'atteggiamento fenomenologico cosalizza la coscienza nella forma del dato, l'atteggiamento monistico la cosalizza nella forma dell'assoluto e, in entrambi i casi, la coscienza stessa dell'operazione richiesta per « cosalizzare », rivelando la sua intrinseca contraddizione, restituisce la necessità di dire la coscienza senza ridurla ad « altro » e senza risolvere l'altro in essa. Importa intanto chiarire l'intrinseca contraddittorietà del monismo. La ratio pretesa del monismo idealistico è, come si sa, la conclusività innegabile della autocoscienza che è il sapere del sapere, qualunque sia il sapere di cui si ha sapere ; senonchè, quel sapersi che è autocoscienza è ancora il sapersi come sapere, ossia l'intendersi come intendere, il pensiero che si porta su se stesso e che si mantiene intero ed indivisibile in questo suo movimento. Non si può dire, cioè, che l'autocoscienza sia l'atto per il quale si intende di intendere, perchè questo atto non sarebbe se non la moltiplicazione della coscienza all'infinito o la riproposizione all'infinito dello stesso intendere, sarebbe cioè una presenza dell'oggetto senza la consapevolezza del suo essere « presente » ; non sarebbe veramente « presenza ». Ciò significa che l'atto dell'essere consapevoli non si pone sull'atto che presenta ciò di cui si è consapevoli e che l'autocoscienza non è un momento diverso della coscienza o particolare e conclusivo intenzionamento della coscienza stessa e significa, di conseguenza, che nessuna filosofia può darsi della filosofia, quale ricerca (all'infinito) del criterio stesso del filosofare, perchè tale ricerca non potrebbe che riproporre se stessa senza mai pervenire alla sua soddisfazione : non v'è un problema filosofico della filosofia, perchè non v'è una coscienza

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della coscienza come atto in sé concluso ed oggettivante ed il problema che la filofosia pone di se stessa è solo e tutto interno alla filosofia, così come l'autocoscienza è ancora l'intera coscienza, l'intero della coscienza. Quell'intero che è la coscienza si mantiene, dunque, entro i limiti invalicabili dettati dalla presenza che è, simultaneamente ma non congiuntamente, la cosa e il sapere questa cosa, la relazione in atto epperò indisgiungibile di presenza come cosa che si presenti e di presenza come persona a cui la cosa si presenta ; ed esso si mantiene purché non lo si riduca ad apparenza e non lo si risolva in Assoluto. E non di posizione intermedia tra due limiti si tratta, bensì della consapevolezza dell'invalicabilità di questi limiti, che è ancora il mantenersi della coscienza in se stessa, il muoversi stesso della coscienza che rivela a sé l'impossibilità duplice di dirsi solo « apparente » o senz'altro « assoluta ». Essa non è sapere apparente, perchè « è » e, se non fosse, nessuna cosa potrebbe mai dirsi che sia ; e non è sapere assoluto, perchè abbisogna di attuarsi come processo che, pur rimanendo all'interno di un invalicabile limite, tuttavia permane come divenire. § 8. — La realtà come pensiero si risolve nel pensiero come atto. La realizzazione (l'attualismo come attualismo puro). Non si può dire che il pensiero realizzi una realtà, nel senso che esso renda « reale » qualcosa che è solo « possibile », perchè quella stessa possibilità è pensiero e la realizzazione di essa è ancora il pensiero della sua possibilità. Si dovrebbe, allora, poter dire che il pensiero, realizzando una possibilità come pensiero di tale possibilità, realizza se stesso ; ma una realizzazione di sé suppone che il pensiero sia solo realizzazione e mai realtà, mentre il pensiero « è » epperò è reale ; comunque la realtà del pensiero venga pensata, essa « è », e la realizzazione stessa o è realtà che non si realizza o è realizzazione all'infinito che non può essere mai realtà se consiste tutta nel suo farsi. La realtà come realizzazione si presenta come un concetto particolare di realtà che, all'interno di una nozione più ampia ed anzi la più ampia, distingua quella realtà che consiste nell'« essere » che non abbisogna di venire realizzato e quella realtà che consiste nella « realizzazione », la quale è solo come atto, e

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quella realtà che consiste nell'« essere » che può venire realizzato. Il quale atto propriamente non può dirsi « reale », né « realizzabile », né « realizzato », ma atto e basta, irriducibile a qualsiasi concetto ; per cui la distinzione di esso dagli altri concetti di « realtà » è, piuttosto, la negazione che esso sia un concetto di realtà e quella nozione più ampia di « realtà » è solo astrattamente la più ampia, perchè solo astrattamente comprensiva e della realtà e della realizzazione e del realizzato e dell'atto che non è realtà né realizzazione né realizzato. L'atto non è, infatti, pensabile se esso è il pensiero e il pensamento di esso è appunto quella nozione ampia che è tale solo astrattamente e che è l'« essere » nella sua formulazione generica ed astratta. Dire che anche il pensiero « è », epperò è « reale », e che, di conseguenza, il concetto di « realtà » (o di « essere ») è il più ampio e fondante, significa porre il pensiero, che è atto, al di là della sua posizione, significa « pensare » che il pensiero « è », significa ancora affermare l'atto del pensiero che assume se stesso come essente e, come tale, si assume. Il pensare come atto è, così, in qualsiasi pensamento ed anche nel massimo pensamento che è il pensamento dell'« essere », l'atto che non può venire pensato. E l'atto che non può venire pensato viene per se stesso pensato come impensabile (i) e come tale si mantiene di fronte a se stesso, ma ciò non contraddice all'impensabilità, perchè è solo e sempre affermazione dell'impensabilità. E chi crede di intravvedere una contraddizione nella affermazione (pensiero) dell'atto come pensiero impensabile scambia l'impensabilità dell'atto con l'impensabilità di tale impensabilità ; ma l'atto si rivela « impensabile » solo di contro al pensiero e l'impensabilità è negazione di ciò che esso non è, e l'atto, in se stesso, non è negazione. Perciò, chi crede di vedere nell'attualismo una contraddizione si contraddice, perchè suppone che quel pensiero che pensa l'impensabilità del pensiero sia quello stesso pensiero che è impensabile e suppone questa identità perchè riduce l'impensabilità a un concetto positivo (ad un pensiero analiticamente posto), dimen(1) L''impensabile di cui si parla qui non è l'inoggettivabile, ma l'anapodittico, in quanto è contraddittorio che si pensi ciò in virtù di cui si pensa : l'atto, il fondamento.

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ticando che l'impensabilità è solo negazione (dialettica) della possibilità di venire pensato e questa negazione non è un concetto, bensì la sua negazione : il concetto di negazione è negazione del concetto ; il concetto del nulla è, infatti, il nulla di ogni concetto. Così la contraddizione non è tanto nell'attualismo, quanto nella sua formulazione monistica. § 9. — La realizzazione come negazione e come posizione. (L'attualismo monistico come naturalismo). Se il pensiero è atto, nulla sta di contro ad esso, ed il naturalismo della realtà distinta od opposta al pensiero è la dicotomia contradditoria del pensiero separato da se stesso ; ma anche nulla sta dentro ad esso e l'attualismo come assoluta posizione del pensiero che pone se stesso è l'assunzione di quella dicotomia in assoluto e non, come pretende di essere, il superamento di quella contradditoria dicotomia. Infatti, distinguere dentro, il pensiero, il pensiero come atto e il pensato come ciò che tale atto, pensando, in se stesso pone, realizzandosi, significa riprodurre all'interno del pensiero quella dicotomia che si riscontra al livello del naturalismo ; ma, interna od esterna al pensiero, quella dicotomia resta dicotomia e il naturalismo resta naturalismo indiscutibilmente. Del resto, il riconoscimento della contraddizione naturalistica è già pensiero e il pensiero che riconosce tale contraddizione non la risolve e assumere il pensiero della contraddizione come soluzione della contraddizione equivale a dire che la contraddizione si risolve da sola, cioè che quella contraddizione è solo apparente e l'attualismo sarebbe, di conseguenza, solo apparentemente vero. Se non si può dire che la realtà stia di contro al pensiero (fallacia naturalistica), nemmeno si può dire che essa stia nel pensiero (fallacia monistica), perchè solo nel pensiero sarebbe dato di cogliere una realtà di contro al pensiero e il naturalismo si pone nello stesso attualismo monistico con il porsi dell'opposizione al pensiero nel pensiero che ne è consapevole. Con che resta escluso che il pensiero in assoluto possa superare il naturalismo, risolvendone la contraddizione, perchè lo stesso pensiero naturalistico si pone nel pensiero e il pensiero di esso non è che la sua posizione e assolutizzare tale pensiero equivale ad assolutizzare quella posizione e il naturalismo non è superato,

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ma riprodotto ad un livello che lo mantiene all'infinito : assumere la contraddizione in assoluto non è risolvere la contraddizione nell'assoluto, ma riproporre la contraddizione assolutamente, cioè indefinitamente. In tal modo, è dato riscontrare che il presupposto naturalistico è presente e perciò operante (o, meglio, inibente) nella stessa posizione che ne inficia la validità, perchè, ove la posizione opposta venga pensata come monismo, cioè come assoluta unicità, quell'opposto ad essa che è il naturalismo diventa ad essa essenziale e, come tale, si mantiene con il porsi dell'assoluto, perchè si pone in assoluto o, ed è lo stesso, l'assoluto viene pensato come il porsi stesso della opposizione che è i due termini insieme, e l'uno e l'altro, inscindibilmente. Così, coerentemente, l'attualismo monistico è anche naturalismo, avendo bisogno di esso per sorgere e per negarlo ; ma è evidente che in tanto può sorgere da esso, o insorgere su di esso, in quanto lo nega e, perciò, o sorge senza negarlo (e lo porta in sé) o lo nega senza mai sorgere e separarsi da esso (e così, negandolo, si nega). § io. — Il rapporto tra atto ed oggettivazione, tra presenza e presentificazione. Nella funzione ( = attività) del pensare è implicita la funzione dell'« oggettivare » e nell'oggettivare si rivela con chiarezza l'emergere del pensante come tale sulla propria attività e sul termine di essa che è l'oggetto : non è possibile, cioè, che nel pensare si pensi veramente il pensante, che il pensante sia oggetto (sarebbe oggetto di se stesso). Si ha così il profilarsi di due presenze indicate da una medesima parola (l'oggettivazione) : i) la presenza della. « cosa » come oggetto che è di « esperienza », il quale oggetto non può inglobare il pensante (questa presenza è totalmente « presentificata » al pensante) ; 2) la presenza del pensante che attua la presentificazione e non può, perciò, venire presentificato ; quest'ultima presenza è necessariamente implicata dalla prima, assolutamente irriducibile ad essa. Sorge allora il problema di come sia possibile « dire » la presenza implicata del pensante, se « dire » è presentificare, in qualche modo « oggettivare » : non basta ovviamente dire che la presenza

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CAPITOLO SECONDO

del pensante è implicata dalla presenza del pensato, perchè la implicazione è, a sua volta, pensabile per i termini implicanteimplicato ed è in questione precisamente la possibilità di dire il termine implicato. Ciò che va preso in esame è appunto il modo di « essere presente », che è, a rigore, il modo d'essere della presenza, ossia l'essere nel suo « presentarsi » ; dico nel suo presentarsi e non nel suo « venire presentato », perchè il « presentarsi » è intrinsecamente indicativo della duplice presenza che è la cosa pensata e l'atto del pensarla, duplice presenza non divisibile, perchè non sarebbe pensabile l'eventuale divisione se non per un atto indivisibile che dia in uno la divisione e la presenza divisa, atto indivisibile che è il pensiero. Questo pensiero è, allora, l'essere nel suo presentarsi, ciò che diciamo semplicemente « presenza ». In questi termini risulta abbastanza evidente che la presentificazione, come funzione implicita dell'oggettivare, non è l'intrinseco costitutivo del pensare, ma è tale da essere pienamente condizionata dall'atto essere-pensare : si può « presentificare » qualcosa in quanto sussiste una presenza che è lo stesso presentarsi dell'essere, che è lo stesso essere del pensiero. L'esito di questo nostro discorso è teoreticamente importante in un duplice ordine di aspetti : da una parte si ridimensiona la portata del discorso attualistico, articolato tutto sulla impossibilità di oggettivare l'atto (il pensante non può decadere a pensato), perchè l'atto non può venire oggettivato ( = presentificato) solo in quanto non ne ha bisogno essendo sempre presente, essendo anzi la stessa presenza (essere-pensare) ; dall'altra, si elimina radicalmente la pretesa di una filosofia che rinunci a se stessa in base alle difficoltà originate dal linguaggio, dove il linguaggio nel suo uso comune si riveli inadeguato a « dire » interamente ciò che deve venire detto, perchè non è necessario dire la « presenza » che è l'atto nello stesso senso in cui si dicono le cose presenti (= presentificate), anche se la parola per dire la presenza nel senso dell'atto è la medesima parola che dice la presenza nel senso del dato, della cosa presentificata. In effetti, va « penetrata » questa parola per coglierne, dietro le resistenze provocate da immagini indotte, quella « intenzionalità » intrinseca al pensiero, per la quale non va contrapposto o giustapposto qualcosa ad esso, ma qualunque cosa per esso si pensi è se stessa nel suo venire pensata, è se stessa a prescindere dal suo eventuale venire « oggettivata ». Proprio

per

l'intenzionalità, la funzione

dell'oggettivare-

"

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presentificare si rivela inessenziale in quanto non intrinseca al pensiero come atto, intrinseca tuttavia alle « rappresentazioni » nelle quali si struttura via via il linguaggio. La funzione del pensare non è, dunque, « presentificare » la cosa, ma assumere la cosa nel suo intrinseco presentarsi ; e la cosa non si presenta in quanto assunta dal pensante, ma è veramente ( = effettivamente) assunta dal pensante, perchè essa stessa attua il proprio presentarsi ad esso. Il rapporto che dice la presenza a se stesso del pensante non è, perciò, considerabile alla stregua del rapporto che dice il presentarsi della cosa al pensante, solo se si riduce ogni presenza al « venire presentificato », riduzione, s'è visto, impossibile : il pensante non può venire presentificato perchè esso è sempre presente, come sempre presente è l'essere, onde si ha la duplice conversione dell'atto di pensare nell'essere e dell'essere nel suo « presentarsi ». Questa conversione è, in effetti, la radice teoretica della «intenzionalità » la quale, così, non è un rapporto tra il pensante e il pensato, ma è piuttosto l'essere stesso del pensante nel suo rapportarsi al pensato ed anche l'essere stesso del pensato nel suo darsi come tale al pensante. Parleremo, dunque, di una « presenza intenzionale », e che è, piuttosto, una totale assunzione della cosa, la intenzionalità che, lascia essere la cosa nel suo essere presente : non ha bisogno, così il pensiero di « cercare » la cosa uscendo da se stesso, perchè lo stesso oggetto-intenzionato non cade fuori dalla posizione pura dell'atto in atto ; « oggetto intenzionato » significa semplicemente l'intenzionalità dell'oggetto : la penetrazione totale della cosa nel suo essere considerata tale. § i l . — Importo teoretico dell'espressione « Veruni et esse convertuntur» (i). La ratio del loro convertirsi l'uno nell'altro è, ovviamente, l'identità di ciascuno dei due con l'altro ; il che significa che essi nel loro essere idem, sono tali che è possibile ed anche necessario distinguerli tra loro come verum et esse. Ma la congiunzione verum et esse suppone proprio ciò che la conversione stessa nega, e la conversione suppone quella confi) Si veda l'interpretazione che ne da G. GENTILE, (Sistema ecc., cit., I, i , n ) riferendosi al ROSMINI, (Logica, n. 1048 e n).

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giunzione per cui, più che di identità, si dovrebbe parlare di identificazione, di processo, cioè, consistente nell'attuarsi del riconoscimento dell'identità ; per il quale riconoscimento, l'identità preceda e condizioni la validità del processo (riconoscimento di qualcosa che è come viene riconosciuto) e, tuttavia, segua quel processo perchè riconoscibile solo in esso e per esso. Ma come è possibile che il veruni e l'esse siano due se sono idem tra loro ? E come è possibile dire che essi convertuntur se non sono tra loro idem ? Se penso l'esse e il verum come due, l'esse non essendo il « vero » è affatto impensabile e il verum, non « essendo », è parimenti impensabile. La contraddizione inerente a questa duplice impensabilità impone, dunque, una chiarificazione del termine « pensiero » : il pensare vi viene assunto equivocamente come riconoscimento di qualcosa che è e come aggiunzione di qualcosa che non è senza il pensiero. 1. Se il pensare è lo stesso verum in cui l'esse si converte, pensare è semplicemente questo convertirsi e, tuttavia, è aggiunzione della conversione all'esse, perchè è appunto nel pensiero che l'esse si rivela verum. 2. Se il pensare è il prendere atto di ciò che è, ossia semplicemente il riconoscere, il convertirsi dell'esse nel verum « è » a prescindere dal fatto che venga pensato ; e cioè il convertirsi stesso è l'esse nel verum ; ed anche, come convertirsi dell'uno nell'altro, non è questo né quello. E v'è così un'eccedenza del pensiero sul convertirsi nel pensiero dell'esse, eccedenza per la quale il pensiero è atto ed è -procedimento ; atto, ossia indivisibile consapevolezza di ciò che è, procedimento, ossia passaggio e quindi divisione dei momenti di quel convertirsi che domanda la dualità tra ciò che si converte e ciò in cui la conversione avvenga. Il convertirsi è dunque una « dimostrazione », perchè è un procedimento che suppone (come ipotesi) la possibilità della sua negazione : dire che il verum e l'esse sono uno equivale a dire che non è vero che siano due come appare dalla loro congiunzione ; equivale a dimostrare cioè che la loro congiunzione è solo fittizia. D'altro canto, la conversione potrebbe venire dimostrata solo come questione della legittimità del problema della conversione stessa e se il convertirsi dell'esse nel verum fosse da dimostrare, la dimostrazione stessa potrebbe valere solo in base a quel convertirsi, che una dimostrazione è vera solo in quanto v'è ciò che essa dimostra. La formula di congiunzione « verum et esse », si chiarisce come

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formula di identità « verum est esse », identità che non abbisogna di venire dimostrata ed è tuttavia dimostrabile, dimostrabile nella forma della negazione del negativo che è l'impensabilità dell'ipo-, tesi opposta : « verum non est esse », ossia « non verum est esse » e « non esse est verum », e « non esse est » (l'assurdo del nulla che è). E si ha così anche occasione di chiarire che della dimostrazione si danno due tipi : i) la dimostrazione che è il fondamento, quale situazione metafisica ; 2) la dimostrazione della indimostrabilità del fondamento (l'apodissi dell'anapoditticità). Il nostro discorso sul pensiero della conversione dell'esse nel verum importa una posizione da cui si parta per parlare di pensiero in cui la conversione avvenga è il pensiero che è la stessa conversione in atto. Questa distinzione è appunto solo iniziale e non va mantenuta, perchè il pensiero non è solo il piano su cui la conversione avviene, ma è la stessa conversione in atto. Come piano di conversione o unità implicata, la funzione del pensare è inconvertibile nella congiunzione di « verum et esse », ossia irriducibile alla conversione stessa ; e il vero vi appare come modo d'essere nel pensiero; ma, poiché non è possibile, per la conversione stessa, che l'essere non sia vero, l'essere non è tale se non è anche pensiero ; che, se si volesse affermare l'indipendenza dell'essere dal pensiero, si dovrebbe poter dire che non ogni essere è vero. E allora il pensiero, che si annuncia piano di conversione, su cui la conversione avviene, risolve in se stesso questa conversione, è l'atto stesso della conversione. Risoluzione in cui è dato enunciare : 1) La unità implicata dalla dualità non è estranea alla dualità implicata e, quindi, è da esplicitare, non da dimostrare ; 2) non vi può essere vero pensiero che non sia pensiero del vero e, quindi, l'errore non è pensiero (ateoreticità dell'errore). Non è, perciò esatto dire che l'essere è intelligibile, poiché ciò suppone che si possa pensare l'essere, che si possa anzi indicare l'essere come « qualcosa-che-è » ; si dovrà dire, piuttosto, che l'intelligibilità degli enti, il loro intrinseco essere pensabili, è l'essere, e che, quindi, il loro effettivo venire -pensati si mantiene nel loro costitutivo essere pensabili, nel senso che nulla apporta loro il nostro pensamento, l'attività del prenderli in considerazione. § 12. — La metaforicità intrinseca della parola. Pensiero, perciò, non è rappresentazione, la quale è inconvertibile neh' «essere » se l'essere è « presenza ».

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CAPITOLO SECONDO

La rappresentazione, nel suo essere « ripresentazione », è anche « figura » e come tale si pone nella forma del simbolo. Caratteristica operativa del simbolo è la sostitutività : l'operazione sul reale è, in effetti, operazione sui simboli, che sono « segni tipici », per usare l'espressione del Black (1), e che vanno perciò usati in modo che possano venire interpretati. Uso ed interpretazione sono strettamente connessi nel simbolo, sono anzi, a rigore, il modo d'essere proprio del simbolo, cosicché il simbolo è da un canto la regola stessa del suo uso, dall'altro la necessità di venire interpretato. Non è qui luogo di uno studio sui simboli, ma ci basta rilevare che l'uso e l'interpretazione del simbolo non possono costituire problema, al livello filosofico puro, se non può pensarsi un simbolo che non sia utilizzabile ed interpretabile. Si vedrà a suo tempo che l'uso e l'interpretazione sono, in realtà, la medesima cosa, purché l'uso venga portato alla sua piena consapevolezza. Prescindiamo intanto dalle possibili suddivisioni dei simboli in « segni convenuti » per analogia, o per associazione e ideografia, o per allusione, e consideriamo del simbolo il carattere fondamentale della rappresentatività, per il quale non è possibile confonderlo con il « concetto » che è « presenza ». La rappresentatività che è del sinbolo è anche struttura del « mito », dove questo sia inteso come segno di cosa « nascosta » (come altro rispetto al suo segno) (2). Il mito è cosa adombrata ed è caratterizzato dalla « verosimiglianza » (3) che lo connette con la verità e stabilisce in che senso lo si possa capire. Non interessa qui l'aspetto genetico del mito, onde stabilire che cosa determini il suo insorgere nella realtà umana e la domanda del perchè si elabori il mito cade fuori della presente ricerca. Ora, infatti, che il mito sia il tentativo di rispondere per via immaginativa a domande che investono la realtà nei suoi fondamenti equivale a dire che il mito rivela esigenze e bisogni dell'uomo e che è, perciò, anche una proiezione dell'uomo nella realtà. Con ciò si sa solo che il mito rivela l'uomo, non si sa ancora quale ne sia l'intima struttura. In ogni caso, l'elaborazione del mito si attua dove non si possa (1) Cfr. M. BLACK, Language and philos., V I , 2 ; trad. it., p. 181. (2) Da [xiio> { = nascondo) (3) Cfr. PLATONE, Gorgia, 523 a ; la verosimiglianza è tipica del discorso umano (PLATONE, Titti., 29 d), ed è via alla «persuasione».

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procedere a dimostrare ciò che si dice : ci si affida a garanzie che non possono pretendere all'evidenza e che si pongono perciò, di forza, al posto dell'evidenza. Di qui il fatto che il mito affidi il suo credito alla tradizione, la quale è tanto più attendibile quanto più antica (più vicina alle origini) ed in modo tale che l'antichità diventa il criterio di verità : di qui gli elementi connessi : l'iniziazione come forma di comunicazione, la immobilità come condizione di validità. L'interpretazione del mito, identica alla piena consapevolezza del suo uso, equivale insieme alla sua valorizzazione ed al suo superamento : si valorizza il mito trovando in esso la presenza della cosa che esso adombra o « nasconde », si supera il mito togliendo ad esso la pretesa di indicare una realtà effettivamente esperibile (o pensabile). L'interpretazione è, essenzialmente, una lettura in cui il mito è segno di cose che vanno oltre le esperienze e tali da rivelare il valore. Già nel caso del mito si annuncia la distinzione teoreticamente importante tra il reale ed il vero : reale è ciò che in qualche modo « è », vero è il valore di ciò che « è », di modo che non tutto ciò che si presenta ha, perchè si presenta, un valore ; e l'atto critico si giustifica proprio in questa necessità di giustificare il reale con il vero, che è necessità di togliere a determinate « rappresentanzioni » la pretesa di valere come « presenza », alle « immagini » la pretesa di valere come « concetti ».

CAPITOLO TERZO

SOMMARIO: I . La «cosa stessa » come l'intero di se stessa.— 2. L'identità pensareessere. — 3. Il riproporsi del pensiero su se stesso come origine della parola « cosa ». — 4. La duplice funzione della parola « cosa ». — 5. Le condizioni ad un'indagine critica. — 6. L'atto critico 0 negatorio come atto di pensiero nella coscienza. — 7. La ricerca del mezzo logico adeguato e l'interrogazione — 8. / limiti teoretici delle asserzioni condizionate da interessi. — 9. La riduzione pretesa del « sapere » al « potere » e il concetto ateoretico di « teoria ». — io. L'interpretazione matematicistica nei suoi limiti. — 11. La teoria come formulazione generale. •—• 12. La radice dell'interpretazione matematicistica. —• 13. Le condizioni imposte dal concetto d'interpretazione. — 14. Il carattere teoretico del controllo sull'esperienza. — 15. Lo spostamento del limite come essenziale alle determinazioni. — 16. La determinazione come ritorno dell'atto : totalità di definizione e totalità di esaustione. — 17. La totalità di definizione come «essenza ». — 18. L'atteggiamento fondamentale umano operante nella definizione concettuale. — 19. Il modo indiretto dì dire l'essenza.

§ 1. — La « cosa stessa » come l'intero di se stessa. La piena consapevolezza di una cosa è, dunque, quella cosa nella sua interezza ; nel caso del linguaggio la consapevofezza « piena » di esso è la consapevolezza di che cosa « è » il linguaggio ; il linguaggio consaputo nella sua «essenza» (1). E si potrebbe evitare un discorso intorno all'essenza del linguaggio solo se si potesse evitare la domanda intorno ad esso, la quale, invece, è presente almeno nelle varie asserzioni intorno ad esso. Di qui l'importanza fondamentale che nel linguaggio consaputo acquistano le parole « intero », « pienezza », « domanda totale », « totalità domandata », « essenza » ; importanza che è una cosa sola con la criticità della consapevolezza al livello teoretico e non meramente teorico ; e, pertanto, la necessità di procefi) La parola « essenza » è qui presa nella correlatività alla domanda nella sua struttura : al « xtèaTiv » ; al « che cosa è ? ».

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CAPITOLO TERZO

dere a stabilirne il senso, ossia l'aspetto sotto il quale è possibile usare di esso senza involvere contraddizione. Ora la ricerca della piena consapevolezza, ossia la domanda della totalità di una cosa, suppone, in ogni caso, nota la cosa di cui è domanda, epperò la domanda intorno alla nozione di « cosa » è impossibile se la si pone in modo « assoluto », come esclusione, cioè, di qualsiasi presupposto ; non è possibile chiedersi « che cosa » sia la « cosa », perchè con tale domanda si userebbe la risposta stessa come domanda : non si domanderebbe né si risponderebbe. La domanda intorno a qualsiasi cosa si serve, infatti, della nozione di « cosa » e la stessa ricerca della genesi della nozione di « cosa » non può prescindere dall'uso della nozione « cosa ». La quale nozione è convertibile in una posizione indeterminata ; « cosa » e « indeterminato » sono il medesimo, sono cioè il modo di dire ciò che esce dalla possibilità di venire « detto » : l'assenza di determinazioni, che è assenza di termini esperibili e comunque semanticamente presenti nell'asserzione, in qualsiasi asserzione. L'indeterminato non è qualcosa-che-ha-la determinazione-dellaindeterminatezza, ma è appunto assenza di ogni ( = qualsiasi) determinatezza ; l'assenza non è però indeterminata, ma determinatamente « assenza », che è la negazione di una presenza dovuta, e constatabile proprio perchè « dovuta » : l'assenza non è se non come il rilevamento di una determinazione mancante, epperò di una determinazione insufficientemente presente, ma pure « presente » in qualche modo per potersi dire « mancante » o « dovuta ». Con ciò, il livello in cui è dato stabilire la mancanza della determinazione non può essere il medesimo livello in cui se ne stabilisce la innegabile « presenza », ossia, appunto, l'essere stesso di quella determinazione che si constata mancante ; perciò, se il livello della constatazione di una mancanza è quello dell'esperienza-analiticità della « cosa », il livello della « nozione » o « presenza » della determinazione che manca è quello che consente il rapporto costitutivo della cosa come essa si presenta di fatto e di volta in volta e come essa deve essere. Ma, riguardo alla paiola « cosa », che è l'« indeterminato », l'assenza della determinazione è totale e, perciò, il piano della constatazione delle determinazioni mancanti è inglobato tutto in quello della loro « presenza » e non si ha la cosa come « è » di fatto e la cosa come essa « deve essere », ma la cosa è tutta come non deve essere, perchè totalmente destituita delle sue determinazioni : non è possibile il confronto, pur impli-

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cito, tra la cosa e le determinazioni che le mancano, perchè manca tutto della cosa e la cosa, perciò, non « è », epperò non è confrontabile. A rigore, quindi, nemmeno è dato sapere che cosa le manchi, perchè non è possibile stabilire che cosa non le manchi : mancandole tutto, di essa nulla può venir detto, nemmeno che è « qualcosa » e se, tuttavia, si dice che è una « cosa », si indica con la parola « cosa » questo suo non essere ; e la parola « cosa » è il modo positivo di dire il puro negativo, modo « costruito » e tutto interno al suo venire costruito (i). Appunto, perchè non è possibile pensare il niente (sarebbe non-pensare), il «niente» (il non-ente) è pensabile solo in quanto si costruisce la « nozione » di qualcosa, solo, cioè, come costruzione che si avvale, come qualsiasi operazione, di termini -presupposti. E si profila ora il problema di come sia possibile costruire la nozione di « cosa », se ogni operazione suppone che vi sia « qualcosa » su cui operare, che operare sul nulla non è possibile e l'operazione è qui piuttosto il pervenire al « nulla » mediante la sottrazione progressiva di determinazioni previamente assunte, anziché una costruzione di termini. Sottrarre progressivamente, del resto, importa che non si sottragga mai totalmente, perchè il procedimento aprirebbe quella serie indefinita (il progressus in indefinitum) che è anzi contraddittoria (cfr. p. 21) : non v'è un termine ultimo della sottrazione e, perciò, il termine al quale di volta in volta si perviene funge da ultimo od è considerato come ultimo. Così, se è la sottrazione di tutte le determinazioni ad originare la nozione di « cosa », e se la sottrazione di tutte le determinazioni non è possibile, l'unico modo di togliere tutte le determinazioni è di considerare la cosa come se si potesse pervenire a toglierle tutte le determinazioni. Questo « come se » si serve, ovviamente della nozione di totalità il cui opposto è, come totale assenza, il nulla ; ma, appunto perchè il nulla è totale assenza, esso è la totalità delle determinazioni considerate come non-essenti, considerate tuttavia e poi annullate come entro una parentesi a carattere « psicologico », parentesi riguardante l'atteggiamento in cui si colloca chi considera la cosa ; si ha, dunque, non proprio una opposizione tra totalità

(1) Si noti che il carattere « operativo » della parola « cosa » è detto dalla sua stessa etimologia : « cosa » è dal latino « causa », indicante, cioè, un'azione ; il greco ha l'espressione Tzpà.t\ui, indicante la « cosa compiuta », « fatta ».

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CAPITOLO TERZO

presente (l'essere) e la totalità assente (il nulla), perchè la totalità assente è ancora la totalità (presente) considerata come assente (i) e questa considerazione, avendo carattere psicologico, non si oppone ad altro : si opporrebbe ad altra considerazione, senonchè le considerazioni non si succedono, si sostituiscono, non si oppongono (per opporsi dovrebbero coesistere e si dovrebbe procedere considerando in opposizione a se stessi : contraddirsi, appunto).

§ 2. — L'identità pensar e-esser e. Poiché pensare è sempre pensare qualcosa (« io penso che ...»), il pensiero non abbisogna di « costruire » né di « cercare » ciò di cui è pensiero : non c'è problema del rapporto tra pensiero ed essere, proprio perchè manca la possibilità di qualsiasi rapporto tra di essi, ciascuno dei quali sussistente nell'altro, ciascuno dei due convertibile nell'altro e perciò non propriamente « altro ». Tale impossibilità di pensare un rapporto pensiero-essere vale come fondazione dell'identità essere-pensiero, che è anche l'identificarsi dell'uno nell'altro, di modo che l'altro è tolto come « altro » non appena lo si pensa per quello che esso « è » : se si pensa il pensiero per quello che esso « è », si pensa l'« essere », pensando l'essere del pensiero ; se si pensa l'essere come « essere », pensando di pensare l'essere, si pensa il « pensiero » nel suo essere tale ; né dall'essere si passa al pensiero né dal pensiero all'essere, se il « passare » è pensabile solo come pensiero che « è » ed è tale ; « passare » dovrebbe valere uscire dall'uno per entrare nell'altro e questo uscire e questo entrare sarebbero « pensiero » e si penserebbero perciò come « essere » ; del resto uscire è anche entrare in altro, non due atti, ma un atto solo. Con ciò, il rapporto pensiero-essere non si « costruisce », né si « cerca », ma, piuttosto, si toglie ; ma lo si toglie dopo averlo tuttavia presupposto, ossia considerato inizialmente come reale e vero, proprio perchè si distingue nel linguaggio tra « pensiero » ed « essere » e si distingue in modo che si è poi costretti a provare, con un ragionamento (che è quello fatto sopra) che essi non si distinguono, ossia che il linguaggio non rispetta la loro identità e

cit.,

(i) Cfr. G. R. BACCHIN, SU le implicazioni teoretiche della struttura formale, p p . 52-58 ; con ulteriore approfondimento in Originarietà ecc., cit., p. 16.

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che, se si vuole ritrovare tale identità, bisogna forzare appunto il linguaggio, eliminare la semantizzazione da esso operata. A questo punto va dunque cercata l'origine della distinzione, ossia il motivo della duplice semantizzazione propria del linguaggio : « pensiero » ed « essere » ; per quale ragione si usano due parole per dire la medesima cosa ? Si sa che storicamente la radice della distinzione, proposta in termini di verum et esse, venne indicata nel rapportarsi dell'essere all'intelletto, donde il « verum », ciò che diciamo « pensiero » (e il rapportarsi dell'esse alla volontà sarebbe il «bonum»). È abbastanza evidente che tale rapportarsi non può riguardare l'essere (che è tale anche per l'intelletto nonché per la volontà) e che, perciò, deve riguardare gli enti nel loro diverso disporsi nei confronti dell'esperiente-conoscente, per cui la radice della distinzione dovrebbe essere di natura psicologica 0 quanto meno fenomenologica. L'intelletto sarebbe, così, considerante l'essere come verum (= pensiero) e la volontà sarebbe appetente il medesimo essere come bonum e l'intelletto, ancora, dovrebbe considerare se stesso e la volontà come radici degli aspetti dell'essere o come rilevanti la radicale diversità di questi aspetti tra loro. Con questa distinzione, la differenza fra intelletto e volontà può venire chiamata in causa solo in rapporto alla presenza dell'essere in quanto « rappresentato » dall'esperiente, cioè in quanto è istituito un qualche rapporto con l'essere. Ma il rapporto con l'essere è possibile solo dove l'essere venga considerato come un ente, dove cioè sia venuto meno l'intrinseco modo di dirlo nella negazione di poterlo dire per se stesso. Se, dunque, da una parte non è possibile un rapporto con l'essere, dall'altro, è possibile considerare l'essere come un ente solo nella « intenzione » di istituire un rapporto con l'essere. Questa ultima possibilità però non è legittima ed è anzi tutt'uno con la possibilità di errare : è l'errore come possibile, come tale da doversi evitare. A questo punto vi sono due vie da battere nella nostra ricerca : 1) la posizione della dualità pensare-essere nella forma del convertirsi del «verum» nell'essere »; 2), la ricerca della genesi del rapporto istituito, per il venir meno dell'intenzionalità, tra l'esperiente e l'essere (di cui non si dà «esperienza»). Il rapporto con l'essere è la « rappresentazione » ed è in termini di « rappresentazione » che si può parlare ancora di « cosa » nel senso in cui se ne è parlato sopra.

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§ 3. — II riproporsi del pensiero su se stesso come origine della parola « cosa ». Se il pensiero è intrinsecamente essere, non si può più dire che esso sia un orientarsi all'essere od un rapportarsi ad esso : il pensiero, essendo l'essere stesso di cui è pensiero, non si dirige all'essere come al suo termine e, perciò, non può dirigersi a se stesso reduplicandosi come pensiero sul pensiero. Nello stesso senso in cui il pensiero è essere, il pensiero non può porsi su se stesso, senza essere già se stesso anche in questo sovrapporsi che è la sua riflessione. Ma dove il pensiero, che è già intrinsecamente riflessione o non è pensiero, che è già « autocoscienza » o non è « coscienza », venga distinto dal suo stesso atto e si ponga una dualità tra l'atto del pensare e ciò di cui l'atto è pensiero, il pensiero si avvolge in un processo senza termini e che è circolare in quanto totalmente indicato in ogni suo momento : il pensiero del pensiero del pensiero (penso che penso che penso . . .) : dove si ponga la riflessione e si sdoppi l'atto del riflettere, la riflessione continua a sdoppiarsi senza un termine ultimo. L'arresto di tale processo che, una volta iniziato, da solo non si estingue, è dovuto allora all'inserimento di un termine « nuovo » rispetto alla riflessione in corso, un termine che segni il punto in cui è dato di distinguere il pensiero in quanto pensante dal medesimo pensiero in quanto pensato, distinzione fittizia (proprio perchè il pensante emerge sempre sul pensato epperò su se stesso), ma senza di cui non sarebbe possibile dire di pensare, dire questa « cosa » : che si pensa. Ho detto « inserimento », ma dovrei precisare che si tratta, piuttosto, di una esplicitazione se, non appena si pone l'atto di pensare sul pensare, si distingue il pensiero da se stesso, in se stesso sdoppiandolo. Ciò che arresta il processo iniziato dal pensiero sul pensiero è ancora ciò che lo ha pensato, ma solo una volta consaputo come tale, ossia nel suo venire tamatizzato : il « che » del « senso che . . . » (il « di » oggettivante), appunto la « cosa ». In altre parole, se il pensiero viene scisso da ciò di cui è pensiero, esso non cessa di essere pensiero, perchè è impossibile cessare di pensare (sarebbe un cessare per un pensiero che lo pensi). Ogni riproposizione del pensiero su se stesso non è un ampliamento né un arricchimento né un approfondimento del pensiero,

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ma solo una reiterazione (i) del medesimo, spostato sempre e mantenuto tale. Il pensare è in realtà tutto « pensare », atto, non stato ; atto, non l'oggetto pensante, cosa pensante (res cogitans), ma la conversione dell'essere nella sua attualità. Il dire « cosa pensante » è pensare (atto) una cosa pensante, la quale « cosa » è inglobata e superata in questo atto. Dove si pensi l'atto e lo si tenga davanti, non si pone l'atto davanti ad altro atto, di modo che l'atto che è posto davanti divenga « oggetto » di pensiero, ma si sdoppia questo atto stesso in atto che pone l'atto davanti a sé ed atto che è posto davanti a sé, di modo che l'uno e l'altro atto si rivelino il medesimo, proprio in questo « sé ». Lo sdoppiarsi dell'atto, dunque, è la radice della « entificazione » dell'atto, la radice, cioè della considerazione dell'atto come « stato » o del decadimento dell'atto essere-pensare ad ente, a « cosa pensante » e « cosa pensata ». Il dire questo atto è, infatti, già sostantivare l'atto e tale sostantivazione appare chiaramente nell'articolo « il » : il pensare, il dire. L'uso dell'articolo nella lingua italiana non si considera qui come determinante (esso corrisponde alle indicazioni esplicite di parole private di desinenza), ma solo come indicativo della situazione logica del sostantivare che è considerare l'atto come sussistente, al medesimo modo di quel « reale » che si « pretende » tale davanti all'esperiente : la sostantivazione è, dunque, un'estensione (2) della « sostanzialità » oltre la sua diretta affermazione, se sostanzialità si dice questo sussistere ; sostantività è considerazione dell'atto come se sussistesse. Ne segue che è all'interno della sostantivazione che si può distinguere ciò che è sostanziale (il « separato » da altro, « l'altro » come separato) da ciò che non lo è : potremmo dire che il pensiero, che è distinzione in atto, si attua nella sostantivazione, si attua sostantivando. Per intenderci, possiamo dire « cosa» lo «schema » della sostantivazione, che è il luogo in cui il pensiero si attua e che senza il pensiero è nulla : la nozione di « cosa », che è nozione vuota se indica lo indeterminato, è nozione imprescindibile come di uno « spazio » logico in cui possono collocarsi i termini stessi del pen-

(1) « Reiterazione » più che « ripetizione », se ripetere è rinnovare la domanda. (2) Il concetto di « estensione » e l'azione dello « estendere » verranno presi in esame più avanti, a proposito di spostamento del limite.

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siero ed è unità del pensiero che li mantiene tali in se stesso, separandoli o tenendoli separati tra loro. In tal modo, la nozione di « cosa » rivela la sua intrinseca ambiguità che ne segna anche la fecondità in ordine alla nostra ricerca : essa indica lo indeterminato come assolutamente insignificabile e, insieme, la condizione stessa alla possibilità di un riferirsi del pensiero (che come pensiero è anche essere), a qualcosa di estraneo ad esso, alla cosidetta « realtà » ad esso esterna e che si porrebbe a suo contenuto conoscitivo o presenza di cosa esperita e conosciuta. Così, se da un canto la nozione di « cosa » si considera nella sua indeterminatezza ed è puro luogo logico in cui si collocano le determinazioni da esso inderivabili, dall'altro, considerando la cosa come « nozione », essa si dissolve come « cosa » per rivelarsi intrinseca all'atto del pensare, essa « è » allora il pensare stesso, lo stesso atto d'essere nella sua intelligibilità. § 4. — La duplice funzione della parola « cosa ». Perchè la nozione di « cosa » possa rivelare tutta la sua portata, è necessario distinguere, come si è fatto nel paragrafo precedente, il duplice rapporto 1) tra cosa e pensiero e 2) tra pensiero e « nozione » di cosa : se la nozione di cosa viene considerata come estrinseca al pensiero («posta davanti»), essa si rivela un nulla teoretico, nozione che non è veramente tale, perchè l'indeterminato che essa sostituisce come parola è del tutto impensabile ; se la medesima nozione viene considerata nello intrinseco distinguersi e rapportarsi che è il pensiero (« penso che » ; « pensiero di . . »), essa rivela la sua identità con il pensare ed è perciò indicativa dell'essere nel suo senso trascendentale ed è, perciò, massimamente determinata. Nel primo senso, essa è indeterminabile perchè è assolutamente indeterminata, nel secondo senso essa non può venire determinata perchè è la stessa determinatezza, Tatto-valore di qualsiasi determinazione possibile. Il duplice senso è dunque mantenuto tale ed ogni tentativo di superarlo in una identità che ponga la « cosa » in un senso pienamente univoco si converte in una riproposizione della dualità ad altro livello. Allora, se la nozione di « cosa » nel senso trascendentale è l'essere-pensare e non può separarsi dall'essere e dal pensare, essendone l'intrinseco distinguersi e rapportarsi in atto, di essa non ci

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si può servire come di uno strumento per operare sul reale : essa è semplicemente una parola che semanticamente si pone in ordine al reale nella sua totalità ed equivale appunto alla parola « tutto » ed è per questo che vale per ciascuna realtà, valendo per la totalità di qualsiasi « cosa ». Ma se la nozione di « cosa » è presa nel senso operativo, appunto, la sua intrinseca indeterminatezza consente di servirsi di essa in una univocità di senso che è, piuttosto, la perdita di qualsiasi senso determinato : univocità tutta negativa che si dice negando le determinazioni in sostituzione delle quali si pone. Va considerata attentamente questa situazione teoretica, perchè, se la nozione di « cosa » è considerata senza che si distingua l'accezione trascendentale da quella univoca, poiché l'univoco ha funzione operativa (è univocizzante), in essa si toglie ogni possibilità di pensare determinatamente il linguaggio, perchè questo perde totalmente senso con il venire meno delle « cose » che ad esso sottendono ed a cui le parole si riferiscono : è il caso di qualsiasi monismo, a cominciare da Parmenide, per il quale la « cosa » ingloba la totalità e la solidifica, per così dire, in una « cosa », quella cosa che è assoluta, conclusa e quindi, a rigore, indicibile. Ma poiché l'empirismo considera ciascuna realtà come « cosa », l'origine teoretica dell'empirismo è la medesima del monismo ; si potrebbe anche dire che l'empirismo è un monismo moltiplicato per ciascuna cosa nella sua individualità, nel suo essere separata, epperò « assoluta » (ab-soluta). Si può dire, così, che della parola « cosa » bisogna fare un uso chiaramente controllato, perchè senza di essa non è possibile dire nulla e con essa, presa a sé, si dice l'opposto di ciò che si intende dire : si dice sempre e solo il nulla rivestendolo di « positività » : e nulla essenzialmente dicono l'empirismo nella sua pretesa di affidarsi all'esperienza (i) con la sua molteplicità di « cose » ed il (1) Che senso ha dire che ogni conoscenza procede dalla esperienza ? (cfr. KANT, Crii, ragion pura, I, 1). È quel «procedere» da discutersi, perchè, se effettivamente si può conoscere solo ciò che l'esperienza attesta, le parole « esperienza » e « conoscenza » dicono la medesima cosa, dicono, cioè, il rapporto t r a quella « presenza » che è la cosa conosciuta (o esperita) e quella « presenza » che è il conoscente (o l'esperiente) ; ed è, in fondo, una tautologia : è conosciuto ciò che è esperito, perchè è esperito ciò che è conosciuto. Per evitare il truismo, bisogna supporre che « esperienza » e et conoscenza » non siano perfettamente sinonimi, che vi sia, cioè, un conoscere che non è esperire, e che, quindi, non ogni conoscenza proceda dall'esperienza ; bisogna supporre, insomma, proprio l'opposto di ciò che si vuole dire.

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monismo nella conseguente intenzione di risolvere le cose nella unità del loro venire pensate. Empirismo e monismo escono così dai limiti dell'indagine critica. § 5. — Le condizioni ad un'indagine critica. La condizione fondamentale è che l'oggetto sia sufficientemente « precisato », ossia che la sua considerazione sia per un sapere i limiti della cosa considerata, giacché « preciso » significa, dialetticamente, non confondibile con altro : la « precisione » è, infatti, relativa al rapporto tra termini, ciascuno dei quali « altro » non per se stesso, ma in rapporto alla considerazione dell'insieme in cui si colloca. La definizione di « preciso » è dunque negativa, poiché la precisione non è una « premessa » né un presupposto, bensì un risultato dell'indagine ; la prima assunzione della cosa, infatti, è sincretica o globale ed è allo interno di questa sincresi che si attua la consapevolezza, la quale è « critica » in quanto tende alla pienezza ; questo tendere consiste in un passare « da . . . a . . . », e In effetti, la proposizione kantiana usa del termine « esperienza » in un senso ambiguo : 1. l'esperienza che è modificazione dell'esperiente «causata » dall'esperito (la cosidetta « esperienza esterna » di impronta empiristica) ; 2. l'esperienza che è la presenza conoscitiva come tale, a prescindere dall'esperienza « esterna » e che potrebbe dirsi di idee o nozioni innate (contenuti conoscitivi a-priori, che precedono l'esperienza non derivando da essa). Ciò che K a n t intende negare è appunto che vi siano « conoscenze » (idee, nozioni) precedenti l'esperienza o a-priori rispetto ad essa. È evidente che K a n t deve supporre strutturato il reale in termini di « esterno »« interno », di esperienza come causazione della cosa nell'esperiente e di conoscenza pensata come incausata e preesistente rispetto alla nozioni derivate ; ora, le distinzioni esterno-interno, prima-dopo, delle quali si s t r u t t u r a la realtà nella supposizione kantiana, sono, ovviamente, spazializzazioni e temporalizzazioni assunte presuntivamente alla stessa discussione critica delle nozioni di « spazio » e di « temp o » ; ossia quello spazio (esterno-interno) e quel tempo (derivazione) senza dei quali non si potrebbe parlare di « esperienza » nel senso di a-posteriori, sono usati come fondamento dell'intero reale, come fondanti appunto il rapporto t r a esperiente ed esperito e t r a conoscente e conosciuto. Cosi spazio e tempo non cadono, è vero, t r a gli esperiti e di essi non si dà esperienza, m a nemmeno cadono nell'esperiente o nel conoscente come costitutivi della sua soggettività e sono, piuttosto, oltre la stessa relazione t r a esperiente ed esperito, sono oltre ad essa proprio perchè presunti come suo fondamento e, perciò, il rapporto interno-esterno, prima-dopo è tutto conglobato in essi e da essi identificato con l'assolutezza del « fondamento ».

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il passare è tale da supporre una continuità tra i termini, che è presente e sottende appunto ad essi (passare senza questa continuità sarebbe cessare d'essere o «passare al nulla»). È questo il senso in cui il passare può attuarsi solo all'interno di questa sua assunzione. L'assunzione è qui una cosa sola con la « presentificazione », epperò con l'« oggettivazione ». L'attività obbiettivante è dunque : r. porre davanti a sé la cosa ( = separarsi da essa) ; 2. cogliere la relazione che si viene a costituire tra oggetto ed atto oggettivante ( = ritrovarsi in essa). La relazione, interna all'oggettivazione, non è estrinseca rispetto all'oggetto, se questo, fuori relazione, è oggetto di nulla, propriamente nullo. La critica, operando all'interno di una assunzione globale, può togliere, escludere, negare solo in quanto la presa iniziale della cosa in questione va oltre la cosa stessa : per attuare il toglimento, che è, critica, deve attuarsi il coglimento che è consapevolezza. In tal modo il coglimento iniziale, essendo da precisare, deve eccedere l'ambito della cosa da sapere. Precisare significa, infatti, togliere ciò che è in più ed è questo togliere una scelta consaputa, che è anche consapevolezza della cosa da togliere. Ed è quanto segna la differenza tra « assunzione fenomenologica ed « atto critico » : l'assunzione fenomenologica è essenzialmente a carattere opzionale (tra « questo » e « quello », presi insieme, scelgo « questo ») e la scelta può essere motivata senza che il motivo sia pienamente saputo (1) ; l'« atto critico » è, invece, essenzialmente negatorio ( tra « questo » e il suo opposso, presi insieme, io escludo « questo » o il suo « opposto »), scelta escludente che ha in sé la propria ragione. L'assunzione fenomenologica è sempre demandata ad altro ed è sempre aperta a possibilità opposte, l'atto critico, invece come necessariamente escludente è anche assoluto. Con ciò si rivela insieme e che l'assunzione fenomenologica non è sufficiente alla critica e che la critica opera all'interno dell'assunzione fenomenologica e, pertanto, non può mai pervenire ad escluderla o a superarla. Ma questa impossibilità di superarla è appunto l'impossibilità

(1) La differenza tra « motivo » e « movente » è tale che il motivo è necessariamente saputo, il movente può non esserlo : la ricerca dei moventi è di natura psicologica.

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di trascendere l'esperienza con la negazione, che esperienza e ragione sono non due termini di un procedimento, ma una compresenza e innegabile (perciò criticamente connessa) all'atto unico dello esferire. § 6. — L'atto critico 0 negatorio come atto di pensiero nella coscienza. La negazione, o toglimento, che si opera all'interno dell'assunzione fenomenologica, è irriducibile ai singoli termini assunti ed è coincidente con l'atto che sceglie in funzione del valore della cosa stessa : atto e valore sono appunto la coscienza. Ora, poiché la coscienza è essenzialmente presenza del valore e dell'atto (più precisamente : presenza del valore che è « atto ») lo stesso pensiero, che è giudizio (perciò atto critico) (1) è presente nella coscienza in quanto saputo come tale (coscienza del pensiero) ; ma poiché il pensiero è giudizio di valore su ciò che ad esso invia, anche la coscienza è nel pensiero in quanto pensata (giudicata) come tale (pensiero della coscienza). Dunque, se la coscienza è tale nel pensiero ed il pensiero è tale nella coscienza, tra pensiero e coscienza non si dà un vero e proprio rapporto, perchè, se ciò fosse, si postulerebbe una estraneità dell'una all'altro, la quale importerebbe una impossibilità di incontrare l'una w^'altro. L'estraneità domanderebbe una qualche spazialità, quasi di « luoghi » nei quali si vengano a collocare e l'uno e l'altra. La presenza dovrebbe indicare un doppio « esserci », l'uno all'altro esterno : l'« esserci » del pensiero oltre l'« essersi » della coscienza. Tolto il preteso carattere spaziale alla coscienza ed al pensiero (2), è tolta la possibilità di confondere la « presenza » con la « presentificazione » e, quindi, con la « rappresentazione » : la presenza è « atto », la rappresentazione è « stato », stato che dà origine, per esempio, alla costituizione grammaticale dello « stato in luogo figurato », che è figurato a partire dallo stato in luogo empirico del senso comune. La differenza tra « presenza » e « rappresentazione » ricalca (1) giudico (xpÉvto), vale come attribuzione di «valore» : «iustum dicere de . . .» (2) Questa spazialità è sempre indicata e supposta quando si considerano empiricamente la coscienza e il pensiero, alla stregua di quei termini ehe in essi compaiono.

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dunque quella, più radicale, tra atto e stato e va approfondita per le implicanze strette del linguaggio con la « rappresentazione » che, essendo figurata, ha inevitabilmente carattere « spaziale ». § 7. — L a ricerca del mezzo logico adeguato e l'interrogazione. La ricerca, nel senso critico della piena consapevolezza, si risolve in ricerca del mezzo logico adeguato, anche se l'adeguatezza del mezzo non sarebbe misurabile se non a partire dalla cosa stessa : l'autentica posizione del mezzo è il fine, in quanto un mero strumento non sarebbe nemmeno strumento, mancandogli il senso della sua stessa funzione. In ordine a qualsiasi ambito di ricerca, la ricerca del mezzo logico adeguato è l'atto dell'interrogare con cui si precisa un rapporto tra soggetti in ordine ad un interesse comune. Poiché la ricerca si struttura come « domanda », vanno esplicitate qui subito le condizioni intrinseche alla distinzione possibile tra « interrogare » e « domandare ». L'interrogazione [inter-rogo] si struttura come un « rivolgersi a qualcuno per sapere intorno a qualcosa » ; dove, appunto, il « qualcuno » — soggetto (persona) cui è rivolto l'atto dell'interrogare si situa in linea diretta, mentre la « cosa » da sapere si situa, rispetto al medesimo atto, in linea obliqua : l'atto dell'interrogare ha origine dall'intenzionamento della cosa da sapere, ma questo intenzionamento non raggiunge la cosa da sapere se non mediante il soggetto che la dovrebbe far sapere, per cui l'atto dell'interrogare termina non alla cosa, ma alla « persona » che dovrebbe « rispondere ». Se questo è il caso del quaerere latino, il caso del petere latino trova nella « domanda » più che nella « interrogazione », il suo equivalente : si domanda qualcosa a qualcuno ; dove l'atto del domandare si rivolge direttamente alla cosa intenzionata, onde ottenere quella cosa da qualcuno e rivela un rivolgersi obliquo al soggetto. È da rilevare, intanto, la bivalenza strutturale dell'interrogazione, in quanto essa rivela l'interesse dell'interrogante ; la quale rivelazione non è necessariamente intenzionata dall'interrogante, ma solo implicitamente presentata nell'interrogazione in forma di motivazione. Un esempio può venire portato, a proposito : all'interrogazione « cosa pensi di questa cosa ? » può venire risposto direttamente

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e può venire elusa la risposta mediante un'altra interrogazione da essa suscitata : « perchè me lo chiedi ? ». L'atto che penetra la bivalenza dell'interrogazione è atto critico, in quanto ricerca della piena consapevolezza dell'assunto, mediante la determinazione di quegli elementi che concorrono a situarlo nella sua pienezza. Si avrebbe con ciò la seguente serie strutturale : a) l'asserzione su qualcosa, b) la radice logica dell'asserzione che è l'interrogazione, e) la motivazione dell'interrogazione che è l'aspetto sotto il quale si considera quella cosa. Con ciò si mostra che l'asserzione [ad-firmatio] si inserisce in un suo contesto che è la posizione dell'interrogare e si inscrive come una delle possibilità ipotetizzate dall'interrogazione stessa : la asserzione è, dunque, una « risposta » ad una interrogazione che ipotetizza possibilità tra loro opposte : « A è così od è così ? » ; la risposta appunto adfirmat, ossia tiene ferma una delle possibilità ipotetizzate, che l'interrogazione lascia trascorrere il pensiero dall'una all'altra possibilità, non fissandosi in una piuttosto che in altra. Ora, la struttura dell'interrogazione, ponendosi come originario contesto dell'asserzione, condiziona nel suo porsi il valore dell'asserzione stessa e si può dire che, se l'interrogazione è motivata da interessi ateoretici, non è possibile che la risposta (asserzione) da essa condizionata abbia valore teoretico. Si stabilisce così un criterio importante per valutare le asserzioni intorno a qualcosa (asserire è già, come si è visto, « interpretare »), che è il risalire alle condizioni senza le quali l'asserzione non sarebbe possibile. L'interrogazione e la domanda, pertanto, sono autentica posizione nei confronti del richiesto e del domandato solo nella misura in cui l'interesse di chi le pone si rivela nullo (non che non rivelino l'interesse, ma che lo rivelino nullo), la qual cosa è possibile solo se esse coincidono totalmente con la cosa richiesta e domandata, ossia se è la cosa stessa a porsi nella richiesta o nella domanda come insufficiente al proprio « essere se stessa », per cui ciò che la cosa domanda (e ciò che di essa si chiede) è la sua pienezza, il suo essere interamente se stessa. Si può dire, così, che la risposta (l'asserzione) è teoreticamente adeguata solo se restituisce la cosa come essa «è», senza alterazioni di sorta. La quale restituzione è assicurata negativamente dalla considerazione della cosa a prescindere dagli interessi che spingono a considerarla. Questa considerazione, nata da interessi, è

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piuttosto un inserire la cosa nello inter-esse come entro un insieme di operazioni da compiere su di essa (onde si darebbe luogo ad una duplice struttura : la struttura del rapporto tra la cosa considerata e l'interesse ad essa e la struttura del rapporto tra la medesima cosa e l'operazione su di essa). L'interesse è, piuttosto, nullo a condizione che si attui un « distacco », per così dire, da essa, che è distacco propriamente da se stessi come piena aderenza al valore della cosa presa per se stessa, ed è appunto rottura di ogni relativizzazione della cosa a chi domanda ed è rimando alla « teoreticità » dello irrelativo ; l'interesse, infatti, non esclude la teoreticità della cosa, ma la nasconde ; per cui non si tratta di « attuare » la teoreticità, bensì di togliere gli impedimenti (gli « ostacoli ») al suo « manifestarsi ». Teoreticamente parlando, il soggetto interrogante è la negatività della cosa stessa, perchè la cosa manifesta se stessa solo dove l'interrogante non consideri se stesso, solo nell'oblio ottenuto dall'interrogante sugli interessi che lo portano ad inserire la cosa nel proprio « mondo ». Questo non considerarsi è d'altronde possibile come intenzione di non asservire la cosa a se stessi. Il recupero della cosa nella sua interezza teoretica è dunque il senso della intenzione fondamentale della ricerca e perciò vale come « criterio » per stabilirne il valore. § 8. — I limiti teoretici delle asserzioni condizionate da interessi. Può essere utile, per compiere un'analisi della situazione logica che caratterizza le asserzioni condizionate da interessi, l'analisi della medesima situazione logica in un caso semplificato e tale caso può essere indicato, ad esempio, dall'asserzione « io domando il mio libro a te ». Tale asserzione (che dice in forma assertoria un particolare stato di domanda) è, in effetti, un insieme di asserzioni, che vanno esplicitate, se si intende coglierne l'intera portata. Le asserzioni implicite sono, ad esempio : i. esiste un libro ; 2. questo libro appartiene a me ; 3. qualcuno possiede questo libro ; 4. questo qualcuno è colui al quale io mi rivolgo ; 5. io intendo possedere questo libro che mi appartiene, ecc. (è evidente che l'esplicitazione potrebbe proseguire e, del resto, non è necessario esplicitare ogni implicito, poiché in effetti, la implicitezza è proprio il modo d'essere continuo dell'esperienza).

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Ciò che importa rilevare è che questo esplicitare tende a ridurre la linea obliqua (cfr. par. 7) su cui si pongono i singoli termini del discorso a linea diretta, ossia a portare l'intero discorso a quella sua forma fondamentale che è quella del discorso oggettivo (la proposizione soggetto-predicato), il « logo apofantico del pensiero classico. Questa riconduzione delle linee oblique a linee dirette rivela ad un tempo 1. che le linee nelle quali si situa il discorso non sono tutte dirette alla cosa (ossia la cosa non è sempre intesa direttamente come tale) ; 2. che le linee non dirette possono venire ridotte a linee dirette rispetto alla cosa (ma, in tal caso, si stabilisce che la cosa è sempre intenzionata sotto aspetti diversi che danno origine alle varie domande, ma che non possono valere come l'intero della cosa stessa). Ora, nella interpretazione scientifica (1) dell'esperienza si rileva facilmente come l'interrogazione in cui essa si situa è rivolta obliquamente alla « cosa », perchè direttamente essa considera della cosa un aspetto, che è anzi quella « parte » che è la natura in quanto « controllabile » in termini di misura: si interroga la cosa chiedendo ad essa solo ciò che di essa è controllabile, ossia si limita la cosa alla sua controllabilità con strumenti che la assicurano ; ed il controllo è senza residuo quando è misurazione. L'atto pienamente critico scopre allora la necessità di non ridurre l'intero fenomeno ad un momento della serie in cui esso viene considerato ; l'asserzione scientista nel senso del matematismo è condizionata dalla particolare modalità del suo porsi nella realtà, quella modalità che è propria del porre la domanda come estranea alla cosa (dove, invece, la domanda intorno alla cosa è interamente vera solo se sorge dalla cosa stessa, non appena la si dice), nel senso che, se non si adegua la nostra domanda alla intrinseca domanda della cosa, è già detto che ogni nostra domanda deriva dall'inserimento della cosa nel nostro uso di essa. Il che significa che la domanda che il matematico (o lo « sperimentatore ») pone alla cosa potrebbe venire considerata come « teoretica » solo se risultasse teoreticamente che non c'è altro possibile atto di pensiero ( = razionalità) all'infuori di quello matematico. Il che significa anche che l'orientarsi alla matematica da parte del filosofo potrebbe venire teoreticamente giustifi(1) Il rapporto tra « discorso oggettivo » e « discorso obliquo » apre una questione che qui non interessa.

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cato solo se non derivasse, come effettivamente deriva, dalla riduzione del « sapere » al « potere » che è commisurazione del sapere agli strumenti che garantiscono il « potere ». Con ciò si stabilisce fin d'ora che i limiti propri delle asserzioni scientifiche (condizionate da interessi) sono da qualificarsi « teorici », nel senso in cui la scienza è, al più, « teoria », non mai « teoresi » o « teoreticità » (cfr. I, par. 8). § 9. — La riduzione pretesa del « sapere » al « potere » e il concetto ateoretico di « teoria ». L'idea (meglio : l'ideale) del « potere » è ovviamente connessa con l'idea di « controllo » sull'esperienza, controllo che è essenzialmente per una riduzione pregiudiziale del concetto di « verità » a quello di « verificazione » (riduzione del concetto entitativo a quello operativo). Nella « verificazione » è già implicitamente richiesto che la « razionalità » dell'esperienza sia considerata come « razionalizzazione » (1) dei suoi contenuti, che è, piuttosto, una misurazione di essi in rapporto a modelli previamente « costruiti ». « Verificare », infatti, ha senso come « confermare » o « rettificare » o « falsificare » il modello supposto, che è il concetto « scientifico » di ipotesi e che è, perciò, tutto operativo. Si sa che il successo della scienza moderna è precisamente dovuto alla creazione ed alla verifica di questi « modelli » ; ma ciò che va discusso non è la creazione e l'uso di tali « modelli », bensì la tendenza a generalizzare l'importo di essi, generalizzazione che è tutt'uno con la riduzione detta sopra della verità alla verificazione, della « verità » alle operazioni da compiere per ottenerla. La generalizzazione che si diceva va esaminata a parte nei termini della differenza (che essa trascura) fra « modello » ed « esempio » (che riproduce quella tra generale e universale, fra teorico e teoretico). Qui prendiamo in esame la differenza da essa trascurata fra il sapere e Vagire (essenziale al «potere»). Il sapere finalizzato ipoteticamente al « potere » (sapere per potere) è sapere relativizzato a qualcosa di esterno ad esso, per cui (1) La razionalizzazione avviene qui come « relatività » costruita di dati a valori metrici (il riportare [ = misurare] i dati a questi valori).

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si suppone che il valore di un tale sapere sia tutto in ciò cui esso si orienta. Sapere relativizzato è sapere orientato da un fine ad esso imposto e che non cade all'interno di esso. Ora il sapere esclude precisamente questo suo venire orientato ad altro (da altro), perchè il termine cui esso si orientasse dovrebbe venire « saputo », dovrebbe cioè cadere nel sapere e il sapere orienterebbe, così, se stesso (del puro « ignoto », della «incognita totale» non v'è sapere), in quanto esso ingloberebbe il termine del suo orientamento. È in questi termini che si pone la differenza tra sapere ed agire : l'agire è essenzialmente finalizzato a qualcosa che è esterno ad esso ; il valore dell'azione è nella cosa cui l'azione si finalizza ; l'agire per agire è agire senza una vera ragione, agire casualmente, epperò irrazionalmente (anzi, a rigore, un agire irrazionale o agire per agire non sorgerebbe mai, dovendosi pensare un agire che faccia sorgere l'agire: il « per » della finalizzazione sdoppia, infatti, l'agire vanificandolo). Dire questo equivale ovviamente a dire che nessun agire è veramente casuale, ossia che un'azione non relativizzata, essendo casuale, non sarebbe. Ne segue che quel particolare sapere che può finalizzarsi a qualcosa di estraneo ad esso è un sapere condizionato che non esaurisce il sapere come tale, sarebbe un sapere tutto particolare e relativo perchè condizionato. Il sapere in cui (e per cui) si sanno le cose da fare e il modo in cui le si deve fare (teoria) implica irriducibilmente un sapere che inglobi tutti i termini possibili ( = pensabili), implica un sapere che non sia esaurito dai suoi termini (se ci fosse un termine che lo esaurisse, ci sarebbe un sapere che è tutto e solo in quel termine). L'avere finalizzato il sapere al potere deriva, allora, dall'avere identificato il sapere con l'agire, in base al fatto che nel sapere v'è un agire che si svolge da cosa a cosa, dal noto al conosciuto : la dimensione attiva del sapere viene considerata come l'unica, di modo che il sapere fuori dell'azione non avrebbe alcun valore ; il valore del sapere-azione è, come per ogni azione, estrinseco al sapere, ossia il sapere è misurato e non è misura, ed è invertito, così, l'ordine che costituisce o rivela il valore. In tale inversione di ordine non il valore fonda l'azione (la « giustifica»), ma l'azione nel suo prodotto fonda (stabilisce, fa essere) il valore, e poiché il prodotto dell'azione è valido in quanto serve, un sapere sarebbe vero sapere solo se fosse veramente « fecondo »

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di azioni da esso regolate epperò condizionato agli interessi ai quali esso si commisura come inteso soddisfacimento. L'attività intrinseca al sapere fonderebbe una serie di riduzioni : a) il sapere ridotto all'agire, b) l'agire ridotto all'azione transitiva, e) l'azione transitiva commisurata esclusivamente al suo prodotto, d) il prodotto valutato in base all'interesse che esso dovrebbe soddisfare, quell'interesse che abbraccia tutti i livelli umani, e quello antropologico e vitale. In tal modo, l'ideale del sapere viene commisurato alla funzione e presenza attiva dell'uomo nell'esperienza, perchè il sapere per potere relativizza i fenomeni all'uomo nello stesso momento in cui riduce l'uomo alle sue operazioni (donde un circolo vizioso) : sapere per potere suppone che il sapere senza il potere sia affatto sterile e che, perciò, il potere sia la misura verificativa del sapere. Un sapere « puro », essendo sterile o infecondo, sarebbe un sapere « nullo », sarebbe una curiosa ed inerte ripetizione dell'« universo » nella coscienza dell'uomo, una inutile e compiaciuta imitazione di Dio da parte dell'uomo, per la quale l'uomo limita la propria natura a « copia » : estetismo e « cultura » tendono così a soppiantare la dimensione puramente teoretica o « contemplativa » dell'essere. E l'umanesimo è rappresentato così nella sua valenza più appariscente, ma non più vera.

§ io. — L'interpretazione matematicistica nei suoi limiti. L'interpretazione matematicistica propria della scienza moderna è — piuttosto —• un « inserimento » dei fenomeni nella nostra considerazione utilizzante : si assume del fenomeno solo ciò che di esso importa alla nostra scelta, la quale scelta è una selezione che si attua in base ad interessi e per essa il fenomeno non viene considerato nella sua interezza, proprio perchè nella sua interezza esso non può interessare. L'inserimento del fenomeno, inserimento utilizzante per lo orientamento delle operazioni da compiere su di esso, suppone costituito il piano degli interessi e suppone, perciò, la serie delle « rappresentazioni » come determinante il nostro orientamento. La confusione appunto tra « rappresentazione » e « presenza » è responsabile della « interpretazione » del sapere puro come sapere infecondo, di un sapere in cui l'uomo non riesce a trovare una utilità.

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L'umanesimo, quale centralità dell'uomo, v'è operante nella sua valenza più appariscente ma non per questo più vera, che è l'ideale del « regnum hominis » o del « potere » sulle cose, potere che è funzionalmente un « riprodurre » il fenomeno, facendo di esso non un « oggetto » da sapere ma un « fatto » da utilizzare ; di qui la riduzione del sapere alla determinazione dei nessi tra un fenomeno ed un altro onde assicurare il controllo su un fenomeno in base alle connessioni con altri fenomeni. Il « controllare » diventa, infatti, l'effettivo ideale del sapere. È da considerare così, ciò che importa una riduzione del sapere al « controllo ». Il « controllo » è, essenzialmente un inserimento per il quale si seziona l'esperienza « applicando » ad essa una funzione che la rapporta all'interesse : si può controllare solo ciò che può subire il nostro intervento ; questo intervento sull'esperienza è, però, un impoverimento teoretico dell'esperienza stessa, perchè è limitazione e quindi esclusione. La situazione logica che si viene a creare con il « controllo » è caratterizzata da una duplice impossibilità (che ne stabilisce il duplice limite) : a) non è possibile scegliere tutto ; b) non è possibile, tuttavia, escludere il tutto in cui si situa la scelta. Ora, il controllo dell'esperienza inteso dal matematismo è effettivamente consapevole della necessità di « limitare » insita nella scelta, ma non sembra altrettanto consapevole dell'impossibilità di escludere il tutto, se esso dimentica che l'impossibilità di escludere il tutto è già, di per se stessa, la necessità teoretica di dire il tutto. Questo tutto, che si dice già con l'impossibilità della sua esclsione, si dice ovviamente in modo radicalmente diverso da quello in cui è possibile dire ogni cosa che in esso si situi e si trovi : se per dire il tutto bisogna negare che lo si possa escludere, dire il tutto equivale a negare la negazione che di esso si pretende. La negazione da negare è la limitazione che pretende di esaurire il tutto ; la negazione negante è la consapevolezza che quella limitazione, insita nel controllo, non può esaurire il tutto perchè si pone e si attua in esso : nessuna negazione può essere negazione di ciò entro cui è negazione. Ora, se il tutto in matematica è impossibile (v'è sempre un « numero » maggiore del numero dato), v'è una negazione del « tutto » che è intrinseca alla matematica ; ma ciò che la fa negazione è un tutto entro cui essa si situa e che essa, perciò, non può negare. Con ciò è già detto l'intrinseco limite dell'interpretazione matematicistica, che è da una parte la impossibilità di esaurire la to-

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talità, dell'altra il rimando ad una totalità che venga « detta » in un modo radicalmente diverso da quello matematico, eftperò ad un linguaggio che non può essere né matematico ne matematizzato. Se si tiene conto del fatto che il controllo sull'esperienza è ideato in funzione di un agire su di essa, l'esperienza, così sezionata, viene ridotta all'esperimento e ad esso decade dove non si veda che l'esperimento è fecondo ma teoreticamente nullo ed è nullo proprio perchè è teoretica quell'esperienza che ad esso non si riduce, essendo la totalità entro cui si colloca la stessa riduzione che di essa si tenta. Il sapere il nesso tra i fenomeni, o prescindere da quell'intero che è il fenomeno per se stesso, domanda ovviamente l'ideale della esattezza come valore del sapere, esattezza (i) che non è il « rigore » della cosa stessa, ma la corrispondenza tra il fenomeno e l'unità di misura cui esso viene riferito. Ciò che consegue alla riduzione « sperimentalistica » del sapere al sapere i nessi tra i fenomeni è precisamente un duplice equivoco : a) che l'esatto esaurisca il vero (che la razionalizzazione operata dalla « misura » esaurisca il razionale) ; b) che l'empirico, o individuale o collettivo, esaurisca il reale. Questo duplice equivoco, per il quale è razionale solo ciò che è esatto ed è concreto e reale solo ciò che è empirico, esige che l'opera della ricerca sia essenzialmente un procedimento per il quale si accostino tra loro, come due diversi ordini, l'empirico ( = esperienza) e l'esatto ( = la matematica). E questo « accostare », che vale, insieme, l'applicare la matematica all'esperienza e il formulare matematicamente ipotesi orientative dell'esperimento, domanda che il « razionale » a carattere matematico sia per se stesso vuoto di contenuti empirici, epperò sia, piuttosto, lo in generale (2). Prescindiamo qui dall'indagine sulla genesi storica di questa situazione « culturale » e ne rintracciamo piuttosto le costanti ideologiche come esse si rivelano nella storia e che si sforzano di accreditare la scienza come modo autentico di sapere. Risulta, allora, che l'esatto ( = la matematica) può venire concretamente utilizzato solo se lo si pensa come « astratto » rispetto all'empirico e (1) « Esatto » si dice propriamente per una corrispondenza esigita fra termini. (2) Cosi come il numero 2, ad esempio, potendosi dire di realtà t r a loro in dipendenti e diverse, abbia contenuti empirici e per se stesso, sia solo una vuota generalità.

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la loro rapportazione sarebbe così la misurazione utilizzante. Sono fuori questione, così, le domande veramente teoretiche « che cosa è il fenomeno », « che cosa è il numero », « che cosa è la misurazione », proprio perchè la questione si pone con le seguenti domande : a) « come posso utilizzare questo fenomeno riproducendolo », b) « come posso utilizzare il numero, accostandolo alla natura », ossia, e) « in quale rapporto sta questo fenomeno con quel valore che lo rende utilizzabile ». Ora, proprio questo ordine di domande a carattere operativo suppone già una duplice interpretazione della esperienza e del valore : a) interpretazione dell'esperienza che riduce la razionalità alla sua traducibilità in « formule », b) interpretazione del numero che riduce il suo valore alla sua funzione (che è, precisamente, l'interpretazione opposta a quella magico-simbolica del numero-armonia (i) in quanto si può dire che un numero vale per ogni cosa numerata, indifferentemente, solo in base alla sua isolabilità come numero dalla « realtà » di cui si dice). Questa duplice interpretazione, rispettivamente dell'esperienza e del numero, equivale alla riduzione ateoretica della teoreticità a « teoria », o a formulazione generale o generalizzante del concetto ; di qui la necessità di riesaminare e la formulazione come tale e il numero nella sua portata teoretica. § l i . — La teoria come formulazione generale. L'approfondimento della situazione logica venutasi a creare con il decadimento dell'esperienza ad esperimento importa che si chiarisca in quale senso il controllo sull'esperienza sia la ragione di questo decadimento. Rileviamo, intanto, che l'accenno a questa riduzione (della esperienza ad esperimento) è già in Bacone (il modo di interrogare l'esperienza condiziona, infatti, il modo suo di rispondere), se Bacone intende istituire un apparato metodologico per controllare l'esperienza (la ricerca è pur sempre del mezzo logico adeguato e suppone pur sempre la nozione di questa adeguatezza). Le sue tàbulae {praesentiae, graduum, absentiae), per ottenere l'enumera(i) L'interpretazione magico-simbolica neoplatonica o neopitagorica è quella del numero come « qualità », la qualità che consente di distinguere i numeri in « perfetti » e « imperfetti ».

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zione degli elementi che compaiono e la relazione di alcuni elementi onde determinare le costanti, sono già una interpretazione della esperienza come se essa fosse, essenzialmente, t u t t a in ciò che di essa è controllabile. È vero che l'intuizione delle essenze, una volta obliata, viene reintrodotta da Bacone nella forma della « natura naturante » o fonte di emanazione che spieghi il processo latente dei corpi (lo «schematismo latente»), ma questa «essenza» è già qualcosa di diverso dall'essenza nella sua portata teoretica, perchè è vista come una spiegazione richiesta, dove ciò che si constata non è sufficiente a questa spiegazione. Lo sviluppo di questa riduzione dell'esperienza è, comunque, in Galilei, per il quale la natura risponde se la si interroga matematicamente. È risaputo che il presupposto galileiano (presupposto di natura teorica e non teoretica) è quello del rapporto matematica-natura. In effetti, il rapporto matematica-natura non è in Galilei un problema ma un « postulato » : Dio crea la natura « scrivendo » in figure matematiche, donde la « lettura » matematica della natura da parte dello scienziato. Il fondamento dell'applicazione della matematica all'esperienza è, dunque, solo presupposto, ossia non giustificato. Perchè il numero possa venire considerato come valore metrico (misura) bisogna che lo si intenda come essenzialmente indifferente ai valori dei quali si dice, ossia che non lo si prenda come un predicato. Questa indifferenza deve, d'altra parte, non porsi come costitutiva del numero, perchè l'indifferenza come tale non è un carattere, ma, al più, la possibilità di esso (e come possibilità non può essere « indifferente ») : se l'indifferenza è pensata come una determinazione, con essa cessa ogni possibilità di usarla come tale, essendo indifferenza a qualsiasi uso. La situazione che si viene a creare, dunque, è la seguente : il numero può venire pensato (ed usato) solo a condizione di essere indifferente ai valori numerabili, la numerabilità di tali valori non può, cioè, essere a sua volta un valore ; d'altra parte, la indifferenza non può venire considerata come essenziale al numero. È questa situazione appunto che segna la possibilità di parlare di « astrazione » a proposito del numero considerato come tale. Appellarsi al concetto di « quantità », o « pura quantità », non importa alcun esito se non si chiarisce il nesso originario fra il numero e la cosa numerabile. Il concetto di « astrazione » può



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qui venire considerato sotto quell'aspetto per cui l'astrazione mantiene un nesso con ciò da cui si astrae ; l'atto dell'astrarre è, genericamente, atto del prescindere, dove è preconcetto ciò da cui si prescinde. All'atto (del prescindere-astrarre) è presupposta una conoscenza e l'atto non è, così, conoscitivo ed è perciò soltanto « operativo ». Si rinnova, a proposito dell'astrazione, la situazione logica dell'isolamento (un isolamento assoluto sarebbe assurdo, perchè sempre isolamento da qualcosa, che è l'impossibilità di escludere il nesso che tuttavia si toglie nell'isolarsi). L'atto che toglie (intrinseco all'astrarre) non può togliere completamente ciò che s'intende togliere : lo toglie solo secondo un aspetto. Un aspetto secondo cui il nesso può venire tolto senza risolvere l'eliminazione della cosa da cui esso si toglie, può « progettarsi » come la numerabilità della cosa. In termini entitativi per la risposta alla domanda «che cosa è ? », il numero sarebbe definibile come una operazione : il numero sarebbe la numerazione che esso consente ; esso così non sussiste come valore e non esiste come cosa (i), essendo solo un'attività tra limiti presupposti e che esso non consapevolizza. In tal modo, resterebbe anche spiegato perchè il numero si possa pensare come « relazione ». Una volta chiarito in che senso il numero è numerazione, restano da chiarire le condizioni a tale numerazione, dopo che si è escluso che il numero sussista come « valore ». Il numero è da pensarsi, insomma, come l'assunzione della cosa secondo le volte in cui si considera la medesima cosa. La radice del numero, da questo punto di vista, è la considerazione della cosa a prescindere dalla cosa, ossia la considerazione come attività del considerare (2) : di qui le volte in cui si considera la cosa, quella medesima cosa. Si può dire che il numero è « dato » dalle volte in cui si assume il medesimo, e che, perciò, esso si presenta in un insieme così costituito : 1) si suppone che vi sia ( = sussista) almeno l'uno ; 2) si suppone che la cosa sia la medesima nella considerazione possibile di essa ; 3) si suppone il nesso intercorrente tra l'identità e la medesimezza della cosa ; (1) Il valore non può non esserci (la sua negazione è già la sua contraddittoria posizione) ; il valore non può esserci nello stesso senso in cui sono le cose, essendo queste in virtù di esso. (2) La parola « considerazione » qui si prende senza riferimento all'etimo della parola e vale semplicemente J assumere ».

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4) si suppone la dimensione temporale nello « ancora quello » in cui si struttura il medesimo che si deve dire di qualcosa. L'uno, in tal modo, uscirebbe dalla serie di cui è il primo e importerebbe la questione di come possa darsi una serie a cui manchi l'uno. In ogni caso, l'uno, che è primo della serie numerica, importa in se stesso la relazione tra la serie cosiddetta dei numeri cardinali e la serie cosiddetta dei numeri ordinali, se non appena si considera l'uno in rapporto alla serie che da esso si origina, di esso si dice che è il primo. Qualunque considerazione dell'uno deve lasciare come indiscusso che esso venga considerato almeno implicitamente in qualsiasi altro numero ; la serie dei numeri, infatti, è tale che il 2, 3, 4, siano non disposti sulla medesima linea, orizzontalmente, accanto all'uno, quasi posti dopo di esso, ma è tale che si costituiscono via via sull'uno, considerando nella reiterata (e sempre reiterabile) assunzione dell'uno. L'uno non è « numero », se numero è le volte in cui si assume l'unità : l'uno non lo si assume se già non è ; esso è, insieme, posizione ed assunzione, perchè assumere una volta l'uno è tutt'uno con porre l'uno. Non lo stesso si può dire del 2, del 3, ecc., perchè il 2, il 3, ecc. sono rispettivamente due, tre, ecc. assunzioni dell'uno, che si suppone già posto : il 2, il 3, ecc. non sono posti come tali, essendo le assunzioni dell'uno che è, invece, posto come tale, che è, infine, la posizione di se stesso, il suo porsi. La cosa può subire numerazione solo a condizione che essa (identica a se stessa) sia la medesima nel processo di numerazione (nelle volte in cui la si assume), la medesima, ossia ancora quella della posizione che l'assunzione sempre suppone. Nel « medesimo » (nell'ancora quello, che è il medesimo) è presente la dimensione temporale ; dove si può notare subito che la temporalità non è essenzialmente « successività » (l'altro che è oltre il momento dato). La successione numerica, come successione appunto, non deriva dal tempo in se stesso, ma consegue alla rappresentazione del tempo, alla spazializzazione che è inerente alla figura del tempo in una linea in cui si dispongono i suoi moménti (1). Il prima e il poi sono tali che il 3, ad esempio, segue il 2 e precede il 4 e questo precedere e seguire non sono definizioni del tempo, ma (1) Il tempo della scienza non è perciò il tempo, ma la sua rappresentazione, donde l'impossibilità di formulare il concetto di tempo a partire dall'uso matematizzato che di esso fa la scienza. Cfr. E . BERGSON, ÉV. créatr., 1907, pag. 2.

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sono modi di rappresentare il tempo, quel tempo che deve venire definito. Quel « tempo », che si indica nella medesimezza non è misurabile (matematizzabile) essendo condizione alla possibilità del suo venire misurato. § 12. — La radice dell'interpretazione matematicistica. Il concetto di « funzione » e quello strettamente connesso di « variabile » compaiono, nel discorso, come indicativi di quel rapporto che potremmo dire delle « variazioni connesse » : il variare di A importa il variare di B. Queste variazioni in tanto hanno rilevanza in quanto v'è una « corrispondenza » nello stesso variare, corrispondenza che è « deducibile », teoreticamente, dal concetto stesso di variazione per il rapporto all'invariato che essa necessariamente dice. Ma, se la variazione di qualcosa ha senso almeno per il permanere invariato del « qualcosa », il nesso tra variazione e invariato, cadendo entro il concetto stesso di variazione, non può valere a stabilire le connessioni intercorrenti fra variazioni di cose diverse ; e si ha, così, l'occasione di precisare che nella variazione come tale sussiste il rapporto, o nesso, variare-invariare (nesso che non abbisogna del confronto costruito con il variare di altro) e che il confronto fra il variare di qualcosa e il variare di altro può rivelare il nesso tra le due variazioni, nesso indeducibile da quello che ciascuna variazione dice in se stessa, come variazione. In altre parole, il nesso variare-invariare non è sufficiente a fondare il nesso tra cose che variano, perchè esso entra a costituire la variazione come tale, nel senso che senza di esso la variazione sarebbe affatto impensabile ; il che comporta una diversa operazione per stabilire le « variazioni connesse » tra cose diverse da quella che coglieva il nesso intrinseco al concetto di « variazione » o variazione come tale : quest'ultima operazione è da intendersi come ricerca delle condizioni di intelligibilità della cosa considerata, mentre la prima è da intendersi come reperimento, a carattere fenomenologico o constatativo, della cosa in un insieme che ne comprenda i nessi possibili con altre. Risulta parimenti evidente che, trattandosi di « operazioni » fra loro irriducibili, sarebbe vano pretendere di eliminare una operazione con l'altra od anche, ed è lo stesso, di sostituire una operazione all'altra : ciò che determina il variare di A rispetto al

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variare di B non può escludere che il variare di A in tanto sia possibile in quanto questo A è sempre il medesimo ossia, come A stesso, necessariamente invariato. Con ciò, una ricerca intorno alla modalità del suo variare tra cose diverse (o, il che è lo stesso, tra diverse variazioni) può prescindere dalla piena consapevolezza, che è di altro ordine, di ciò che importa analiticamente (i), il concetto di variazione, ma non può accreditare un esito che comprometta tale concetto, proprio perchè, se le variazioni connesse, nel senso che diciamo, non sono deducibili dal concetto di variazione, implicano, tuttavia, tale concetto e lo implicano comunque vengano via via determinate e teorizzate. Che, se una qualche interpretazione di tali variazioni pretende di porsi come esclusiva (epperò effettivamente escludente), l'implicazione del concetto di variazione da essa oscurato, una volta ritrovato, consente di ridimensionare tale pretesa, stabilendo i limiti entro i quali essa effettivamente può farsi valere. È questo il caso, crediamo, dell'interpretazione matematica delle « variazioni », che in tanto può venire fatta valere in quanto si estende tra quei limiti entro i quali hanno senso le sue operazioni, operazioni essenzialmente riferibili a quel reperimento al livello constatativo che implica l'intelligibilità. L'interpretazione matematicistica delle variazioni può venire, dunque, riesaminata proprio mettendo in evidenza l'implicazione senza di cui essa non sarebbe matematicamente possibile e stabilendo, d'altra parte, un confronto critico tra essa e quelle condizioni soddisfacendo le quali essa può dirsi « interpretazione » ; le condizioni ad essa imposte, appunto, dal concetto di interpretazione.

§ 13. — Le condizioni imposte dal concetto d'interpretazione. L'« interpretazione » o « momento interpretativo » si inserisce nel contesto dell'esperienza in connessione stretta con il momento « descrittivo » e si chiarisce riferendovisi : la descrizione, intesa inizialmente come momento pianamente assertorio, o preliminare ad ogni intervento problematizzante, ad ogni possibile domanda intorno alla cosa che si considera, viene facilmente contrapposta (1) Si prescinde qui dal carattere « costruttivo » delle matematiche.

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all'interpretazione, intesa inizialmente come attribuzione problematica ( = discutibile) di un valore piuttosto che di altro valore ; in tal modo, il momento descrittivo si profilerebbe come indiscutibile perchè constatabile, e l'interpretativo si profilerebbe come quello in cui si pone la stessa possibilità di discutere perchè ordinato a stabilire della cosa il « valore » in un giudizio su di essa. Se non che, da una parte il momento pianamente assertorio, ad un'analisi più attenta, si rivela non proprio così iniziale, dall'altra, il valore del momento interpretativo è una cosa sola con ciò di cui esso enuncia il valore e non ha senso un'interpretazione che non restituisca la cosa interpretata nella sua interezza e il valore che della cosa si dice in tanto è valore di quella cosa in quanto essa non sarebbe veramente o interamente senza di esso ; con che resta escluso, insieme, che il momento descrittivo possa venire isolato da quello interpretativo e che il momento interpretativo possa sopraggiungere dall'esterno alla cosa, come un intervento qualsiasi su di essa : l'interpretazione è, al limite, ossia nella sua essenziale posizione, il senso stesso in cui si assume un qualche significato e, pertanto, quel significato senza interpretazione non ha alcun senso. In termini di « descrizione » e di « interpretazione », il momento assertorio e quello problematico entrano a costituire l'intero come « universo » del fenomeno che noi diciamo, a ragion veduta, husserlianamente la «cosa stessa» che non è però la cosa come si presenta, ma la cosa e tutto ciò senza di cui essa non sarebbe pensabile, semplicemente non sarebbe. Non può dirsi, pertanto, « interpretazione » una qualsiasi « concezione del mondo » che si componga ad esso per valori sopraggiunti e non sia, piuttosto, la restituzione intesa (intenzionata) dell'intero, entro cui si collocano e il « mondo » e le « concezioni » di esso e la intrinseca possibilità di stabilire il valore e del « mondo », e delle « concezioni, e dello stesso concetto di « valore ». Questo « intero », senza la di cui consapevolezza è pur possibile fare scienza epperò « matematizzare », consente che si stabilisca fino a che punto ( = entro quali limiti) operazioni varie all'interno di esso possano valere e, quindi, per quale ragione non possano venire assunte come valori coincidenti semplicemente con esso : se l'operazione si situa nell'intero, nessuna operazione può essere l'intero stesso entro cui si situa. Con ciò resta stabilito che l'interpretazione impone un suo « canone », che è poi una cosa sola con la sua ragione d'essere :



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dare del fenomeno tutto e solo ciò che esso « è ». Nella quale norma è già segnato il duplice limite operativo dell'interpretare che è nulla togliere e nulla aggiungere della « realtà » del fenomeno ; ma v'è anche indicata l'impossibilità di concepire l'interpretazione in senso meramente operativo, quale intervento sul fenomeno a carattere di « procedimento » esteso, come se si potesse pensare che l'interpretazione risulta vera solo dopo che la si sia confrontata con il fenomeno (il « confronto » è appunto un'operazione). È evidente che, se l'interpretazione avesse carattere operativo, la sua verità dipenderebbe dal confronto istituito fra una qualsiasi interpretazione ed il fenomeno da essa « inteso », confronto che mirerebbe a detrarre dall'interpretazione ciò che il soggetto, intervenendo, vi apporterebbe, che « vero » è, almeno, il non-alterato dal conoscente e la interpretazione è tale, almeno, se non è deformante. Ma questo confronto e la « detrazione » che ne conseguirebbe sarebbero, in realtà, pregiudicati dal previo « possesso » del fenomeno fuori di quella interpretazione, di modo che si dovrebbe supporre un insieme costituito dal fenomeno, dall'interpretazione confrontata con il fenomeno, dall'interpretazione coincidente con esso. In altre parole, per sapere se, interpretando, nulla aggiungo e nulla tolgo al fenomeno, debbo possedere previamente il fenomeno ; ma se possiedo il fenomeno prima di stabilire la verità dell'interpretazione di esso, possiederei la sua vera interpretazione, cosicché più non avrei bisogno di sapere se la mia interpretazione sia vera e, pertanto, sarebbe del tutto superfluo istituire il confronto, iniziarne la critica. L'insieme fittizio che si verrebbe a produrre sarebbe costituito dal fenomeno e dall'operazione, supposta, dell'aggiungere o del togliere e dall'operazione che sopprime l'operazione supposta ; ma questo insieme è fittizio proprio perchè esso si dissolve solo che si sappia il fenomeno ; quell'insieme non ha bisogno, cioè, di venire dissolto perchè è già nullo nei termini che lo costituiscono. Con questo si perviene ad un momento non controllabile con operazioni, che condiziona qualsiasi procedimento che su di esso si « costruisca » : deve esserci, ossia non può non esserci, un darsi semplice del fenomeno perchè qualsiasi operazione è su qualcosa che non deriva da quell'operazione. Ed è questo « darsi » che fa essere per me il fenomeno come esso è per se stesso. Le condizioni imposte dal concetto di interpretazione sono dunque tali da escludere che possa dirsi « interpretazione » un prò-

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cedimento od operazione sull'universo del fenomeno che pretenda di esaurire l'intero nelle operazioni che vi si collocano e vi si svolgono ; che è quanto dire l'impossibilità di una interpretazione in termini di « controllo » della esperienza ; che se la struttura di questo « controllo » è appunto l'operazione, un'interpretazione che derivasse da tale « controllo » non sarebbe vera interpretazione, così come l'esperienza che si riducesse a funzione di controllo decadrebbe, se mai, ad esperimento. Solo per una postulazione sarebbe possibile stabilire li valore generale della « formulazione », se « le formule generali — con parole di Leibniz — danno solo ciò che si domanda » ossia ciò che in esse si pone ( = si postula) (i). Il concetto di « formulazione » è strettamente connesso con quello di « teoria », nel senso visto, nel senso cioè che in teoria le cose dovrebbero andare in un certo modo (quello che si suppone « giusto »). « Si chiama teoria — dice Kant — un complesso di regole (anche pratiche) quando siano pensate come principii generali e si faccia astrazione da una quantità di condizioni » (2). Regola sarebbe una qualsiasi proposizione precettiva, il cui valore è ovviamente condizionato alla circoscrizione di esperienza per la quale è fatta valere. Il significato della regola è quella del modello di cui ci si serve per operare (l'operazione è già preindicata nella forma del modello). La teoria-regola-modello ha carattere congetturale, in quanto interpretazione anticipata che domanda una verificazione nella esperienza ; questo suo carattere congetturale, la pone come spiegazione provvisoria, perchè la verificazione è progettata anche come falsificazione. È precisamente questa provvisorietà, essenziale al modello, che caratterizza la sua mera « teoricità » e segna la radicale distinzione tra « teorico » e « teoretico » ; la teoreticità non può dirsi dell'ipotesi (convertirebbe l'ipotesi in tesi), non può dirsi cioè di una posizione provvisoria (la renderebbe definitiva ponendola come effettiva). È questo il senso rigoroso in cui diciamo che il « teoretico » non è oggetto di scienza, non essendo oggettivabile perchè condizione trascendentale ad ogni oggettivazione possibile, possibilità (1) Cfr. LEIBNIZ, Mat. Schriften, V i l i , 217. (2) Cfr. K A N T , Ùber den Gemeinspruch, 1793 ; cfr. N . ABBAGNANO, di Filosofia, Torino, 1961.

Dizionario

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stessa di oggettivare. Se si dovesse stabilire una rigorosa distinzione tra la mera teoricità del modello e la piena teoreticità che sfugge ad esso, si potrebbe ricorrere alla parola « esempio » per indicare appunto la teoreticità del valore. Il modello indica la « imitazione » possibile e il suo fondamento è la somiglianza e questa può venire sempre costruita : in esso il valore è tale da variare in base alla sua considerazione ; valori e disvalori non sono in esso assoluti, ma relativi al punto di riferimento ; così, nella serie dei numeri relativi il valore di tali numeri varia con il variare dell'ordine di numerazione, a partire dallo zero. Uesempio, a differenza del modello, ha valore a prescindere dalla considerazione ed è esemplificante appunto, ossia valido solo se è scelto (trascelto) da una quantità di « cose » omogenee tra loro : esso è valido all'interno del « concetto » che esso stesso esemplifica. Che se si assume l'esempio fuori dal nesso-concetto, esso ha due possibili esiti : esso, o decade ad « evento », del tutto irrilevante, perchè non indicabile veramente nel discorso, o si formula come « astratto » e decade a « generale » (i due esiti si equivalgono : se l'evento ha carattere empirico ed astratto, la formulazione dello «in generale» ha carattere astratto). Con ciò si chiarisce che l'esempio (i) non è un evento staccato, a sé stante, ma è, piuttosto, il verificarsi totale del valore-concetto ; dell'« essere uomo », ad esempio, è esempio « Socrate » e « Socrate » è esempio dell'essere uomo in quanto egli verifica in Sé totalmente l'essere uomo ; ossia il nesso fra lui, considerato a sé, e l'essere uomo è essenziale al costituirsi stesso di lui. D'altra parte, l'esempio non esaurisce la totalità esemplificata ; se ciò avvenisse, infatti, esso si identificherebbe con ciò di cui è esempio e cesserebbe di essere « esempio » : « Socrate » è totalmente uomo, ma non è l'unico uomo, uomo è anche « Platone » ecc. Si stabilisce, così, l'interna relazionalità operante tra l'esempio e il valore esemplificato, per la quale si potrebbe dire che l'esempio è in ordine agli archetipi essenziali, dove invece il modello é in ordine alle figure convenibili (2) : le figure possono venire costruite, gli archetipi invece non si costruiscono, potendosi « costruire » solo (1) Lo ex-emplum è dal verbo èximo ( = cavar fuori) ed implica semanticamente l'omogeneità t r a esempio ed esemplificato, omogeneità che è t u t t o il valore dell'esempio. (2) Cfr. P O I N C A R é , La science et l'hypothèse, 1902, cap. I X ; E . MACH,

nis und Irrtum,

1905, cap. X I V .

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in base ad archetipi (non può darsi, infatti, una figura che contraddica un archetipo se per archetipo si intende la forma prima, che fonda le variazioni possibili). La struttura della scienza moderna è dunque tale da uscire dalla possibilità veramente teoretica, proprio in base ai « modelli » dei quali essa si materia e nei quali si articola : la loro costruibilità è già di per se stessa l'interno limite della loro funzionalità, limite che non si pone alla fecondità della loro applicazione, ma alla surrettizia pretesa di far valere questa fecondità -7- talvolta innegabile — come valore totale della « cosa stessa », come tale da inglobare ed esaurire appunto la totalità dell'esperienza. § 14. — Il carattere teorico del controllo sull'esperienza. Il controllo s^Z'esperienza, onde l'esperienza decade ad esperimento (e, una volta consaputo questo suo decadere, essa viene restituita alla sua originarietà sempre implicata) è inteso già da Bacone quando egli espone un apparato di intervento sull'esperienza : la pars destruens di tale apparato organologico, o negativa, corrisponde alla necessità di togliere ciò che arbitrariamente si aggiunge all'esperito (gli idola, errori o pre-giudizi, sono tali appunto in quanto nascondono il fenomeno, componendosi con esso) ; la pars adstruens vi si intende, d'altro canto, come la necessità di raggiungere il fenomeno nella sua interezza, interpretandolo nella experientia litterata ; ma è ovvio che questa interezza, per validamente ed inevitabilmente intenzionata che sia, è intesa solo come gli strumenti adottati lo possono permettere, e gli strumenti sono già di per se stessi sezioni dell'esperienza, quelle sezioni che presentano la possibilità dell'errore (non ha senso, infatti, che l'errore, gli idola, sia detto come essenziale all'esperienza, perchè se ciò fosse, nessuna esperienza potrebbe rilevarlo e non vi sarebbe esperienza effettivamente in grado di superarlo). Già nel rapportare il fenomeno all'apparato di controllo è implicata una « matematizzazione » dell'esperienza, poiché v'è operante in tale rapportamento la corrispondenza dei termini dei quali si dispone : al fenomeno a è possibile far corrispondere il valore a' ; ed è così preparata la strada alla matematizzazione vera e propria che compare con Galilei. Compito della scienza (= linguaggio scientifico) diventa precisamente la misurazione dei fenomeni, che, ad esempio, solo una volta misurata, la forza può venire sfrut-

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tata a vantaggio dell'uomo. L'introduzione galileiana in meccanica del concetto di « accellerazione » è scientificamente feconda a condizione che la si supponga originariamente uniforme (se non fosse così supposta non la si potrebbe misurare). Dove intervenga una scala metrica, lì la ricerca non può concernere il fenomeno nel suo essere tale, ma solo il modo (e le condizioni) della sua utilizzabilità da parte dell'uomo. I concetti che qui si suppongono sono, nella misurabilità dell'accellerazione, quello di velocità, di lunghezza, di tempo ; concetti supposti ossia non analizzati, usati come li usa empiricamente il linguaggio comune. § 15. — Lo spostamento del limite come essenziale alle determinazioni. Di spostamento del limite si può parlare ad una duplice condizione : 1. che la cosa di cui si tratta varii, 2. che la cosa che varia sia essa a variare e, in questo senso, perciò permanga. Le due condizioni non si contraddicono purché : i. la cosa non sia identica al suo limite, 2. che sia, perciò, pensabile la medesima cosa con limiti diversi (che lo spostamento di limite non alteri la cosa). La cosa, non identica al suo limite, è passibile di limitazione, che è limite « imposto ». Si ha in tal modo una struttura tale da condizionare la duplice azione del conservare la cosa, fissandola nella sua identità e del modificare la cosa, spostandone il limite : azioni correlative perchè « fissare » equivale ad « implicare » il limite della cosa. È questa equivalenza che deve venire spiegata, evitando la contraddizione. Si può pensare uno spostamento del limite solo a partire da un limite « dato » e dentro una serie di limiti « possibili » (dati come possibili) : lo spostamento è rilevabile solo a mantenere il limite dato così come esso è dato (Aa2 è A con il limite spostato solo in riferimento ad Aa1( per il limite ^ di A). Così, spostare il limite non può equivalere ad annullarlo che annullare il limite equivarrebbe a sopprimere la cosa : Aat senza a t non è Aax, ma nemmeno è A, perchè A senza limite è in realtà A con tutti i limiti possibili, A indifferente a qualsiasi limite, indifferente anche al suo opposto. Spostare il limite all'infinito equivarrebbe ancora ad annullarlo, che il limite si « approssima » senza mai coincidere e una cosa limitata all'infinito è cosa illimitata e spostare all'infinito è, in realtà, porre una serie indefinita, la quale, essendo tale da ogni sua parte, da nessun punto di vista sarebbe veramente una serie.

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Ora, il modo di spostare il limite (e di conservare la cosa nello spostamento del suo limite) varia con il variare della « natura » di tale limite (fondamento qualitativo della variazione come spostamento del limite) : A) se si sposta il limite che divide un gruppo da un altro, in base ad una proprietà tipica di quel gruppo, si ha, propriamente, lo « estendere » (si estende all'elemento a di A la proprietà B di b : si estende B in modo da includere in esso a di A ; si sopprime cioè, la differenza tra A e B nel caso a) che vale per il concetto di « classe » o di « estensione » di un concetto, o di concetto di « numero » dei termini cui si estende una data proprietà. B) Se si sposta il limite secondo un interno porsi della cosa da un punto ad un altro, si ha, propriamente il « crescere », donde le espressioni derivate di « concreto » o « concresciuto » (immanenza dello spostamento che è caratteristica dell'organismo). C) Se si sposta il limite in modo di togliere la insufficienza di qualcosa in funzione di cui essa si pone (onde ottenerla), si ha, propriamente, lo « aggiungere » (per giungere al punto A debbo disporre anche di b e lo aggiungo, ad esempio, ad a che è in funzione di A). D) Se si sposta il limite in modo da togliere l'insufficienza della cosa in se stessa, si ha, propriamente, la «integrazione» che è a rigore, una « reintegrazione » perchè implica la ricostituzione della cosa restituendo ad essa ciò che le è stato tolto restituendola intera. § 16. — La determinazione come ritorno dell'atto : totalità di definizione e totalità di esaustione. Ora, considerato il modo di spostare il limite, importa determinare il modo in cui è possibile stabilire il limite, e siamo alla questione di come sia possibile esperire il limite della cosa. Ciò che qui si può rilevare è che ad arrestare l'atto (dello esperire, del pensare, ecc.) è la « differenza » come rottura di una continuità, « rottura » della continuità dell'atto. L'arresto non proviene dall'atto epperò non determina una « inerzia » improvvisa dell'atto, bensì un ripiegarsi dell'atto che è caratteristica del « sapersi ». Con la rottura della sua continuità dovuta alla « differenza », l'atto si dirige secondo due versi opposti tra loro : l'uno è indica-

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tivo del « ritorno » dell'atto sulla cosa, l'altro è indicativo di ciò su cui l'atto « può » ritornare. È questo il senso in cui si può dire che ogni definizione è una determinazione ulteriorizzante rispetto al definito : il duplice esito dell'arresto dell'atto è, cioè, un ritornare sulla cosa dopo che essa si sia percepita ed è un procedere oltre quella medesima cosa. La figura che ne consegue è quella dell'« avvolgere », per il quale « avvolgere » l'esperiente non si trova davanti alla. « cosa », bensì tra cosa e cosa. Ci si trova « immersi » nella « realtà », epperò non ci si trova mai di fronte ad essa. Potremmo dire, così, che l'atto nel suo ritornare non « tocca » la cosa in un suo punto, ma la « avvolge » cogliendola nel suo essere intera ; e così il limite della cosa non lo si « trova », ma lo si « ritrova », che il ritorno non è dell'atto su se stesso, ma dell'atto sulla medesima cosa ed è, perciò, un riportare quella cosa al punto in cui la si distingue da « altro ». (Il ritorno dell'atto su se stesso avrebbe altrimenti esito nullo). L'atto è così « riflessione » e non è atto » reiterato », ma sempre « potenziato », ossia atto che acquista' un valore. In forma immaginativa si può dire, così, che il ritorno dell'atto sulla cosa è possibile solo in quanto la cosa è tutta avvolta dal medesimo atto : l'immagine dell'« avvolgere » adombra la totalità che non può venire pensata analiticamente, per un disporsi di termini lineari, come « pura estensività » ; ed una pura estensività è infatti solo immaginabile, non veramente « pensabile ». Se l'atto non avvolgesse la cosa, verrebbe dalla cosa « assorbito » e non ritornerebbe a se stesso, ma solo su se stesso (come vuoto) o si ridurrebbe alla cosa (come cieco) : la coscienza inerente all'atto è appunto questo avvolgere che riporta la cosa nel circuito del suo venire pensata e porta colui che pensa a sapere il proprio essere pensante. L'atto come pura linearità è dunque impensabile nello stesso senso in cui è da distinguere una duplice nozione di « totalità », duplice inizialmente che una delle due nozioni o si converte nell'altra o si annulla : la totalità di « definizione » e la totalità di « esaustione ». La prima non è mai « data » ed è sempre « supposta » la si « ritrova », non la si « trova », poiché è detta con il ritorno sulla cosa riportata alla sorgente dell'atto : essendo sempre supposta, essa è innegabile, ed è dialettico, non analitico il modo di « averla » (si usa della negazione per tentare di eliminarla, tentativo che risulta vano).

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La seconda è l'alterità all'infinito, l'indefinita ulteriorità ed ha carattere contraddittorio essendo sempre (inevitabilmente) oltre se stessa, donde il suo carattere meramente postulatone*, in quanto costruito per soddisfare determinate esigenze. La totalità di definizione potrebbe venire anche detta dimensione teoretica della « pura profondità », l'altra è, allora, la dimensione pseudo-teoretica della « pura estensione » ; la « pura profondità » è però pensabile, la « pura estensione » è solo rappresentabile in immagini. Per « pura profondità » intendo l'essere coestensivo a tutto, così come lo è la definizione che non ha estensione propria ; è d'altro canto impensabile una estensione che sia solo (= puramente) estensione, che una sola dimensione è impensabile sul piano dell'essenza, mentre è operabile o « costruibile » come postulato. § 17. — La totalità di definizione come « essenza ». Come atto avvolgente, dunque, la « definizione » della cosa è restituzione della cosa nel suo essere pienamente se stessa, nel suo essersi « intera » È questo il senso in cui diciamo che la totalità di definizione non è « descrivibile » né « rapportabile » e non è tale da escludere qualche elemento della cosa stessa contrapponendosi : essa è assunzione della cosa in quella semplice interezza, per la quale la cosa è se stessa con tutte le sue mutazioni. Con ciò è anche detto che la « medesimezza » della cosa nel suo essere intesa non può venire pensata solo come « qualcosa che permanga » nel divenire della cosa, proprio perchè quello stesso divenire detto anche della medesima cosa, ha senso solo in essa e per essa, cosicché le mutazioni per le quali si esperisce la cosa non possono valere ad escludere la necessità dell'essenza. Ciò che consegue a questo importante chiarimento è che della « pura divisibilità » come della « pura indivisibilità » non è possibile dare definizione vera e propria : la pura estensione come il mero atomo, fuori relazione, non sono dati in concetto e se un concetto di essi si pretende, questo è solo in senso improprio, come « rappresentazione » mascherata : la pura estensione esclude, infatti, l'atto avvolgente che è proprio del definire concettuale e il mero atomo esclude, da parte sua, la relazionalità in cui è convertibile la nozione stessa di totalità ; si può dire, così, che l'esteso come tale e l'inesteso come tale non riescono a porsi concretamente non riuscendo ad avere una loro propria totalità.

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L'espressione « come tale » varrebbe per essi ad indicare la loro impossibilità di essere « tali », ossia la necessità di togliere ad essi questa possibilità che è la loro stessa pensabilità : essi sono •pensàbili solo come impensabili e, per quanto si pensino, la loro impensabilità emerge sempre sul tentativo di pensarli ed emerge sfuggendo totalmente al pensiero. Questi rilievi ci mettono ora in condizione di chiarire che cosa va inteso correttamente per « definizione », dove si intenda avvalersi della definizione per « intendere » la cosa nella sua verità (= nel suo «essere tale»). Se con Aristotele diciamo che la definizione è « dichiarazione non dimostrabile dell'essenza » (i) dove si chiarisca che questa «indimostrabilità » sta ad indicare il fatto che l'essenza non è pensabile come un « qualcosa » a sé stante o come parte univoca di un tutto da cui si muova od a cui si pervenga come per una « dimostrazione », dell'essenza si dice che si mostra da sola, che è, anzi, il suo stesso mostrarsi nella impossibilità che essa non sia. Che l'essenza non sia « dimostrabile » vale qui che essa non è « descrivibile » come « qualcosa », non avendo parti, né essendo parte e non è « osservabile » perchè nessuna esperienza può, come particolare atteggiarsi sezionante o limitante, orientarsi ad essa se essa non è già « presente » e condizionante questo stesso orientamento. Con ciò si dimostra, insieme, e che l'essenza non è termine di dimostrazione e che l'essenza non è possibile termine di negazione (la ragione per cui essa è « indimostrabile » è la sua innegabilità). È agevole da questo punto di vista, rilevare come la formulazione kantiana della « definizione » sia inadeguata, se la « definizione » Kant pensa quale « esporre originariamente in concetto esplicito di una cosa entro i suoi limiti » (2). Ma definizione domanda, infatti, che si sappia la cosa precedentemente alla determinazione dei suoi limiti, e rimanda perciò, ad un altro concetto di definizione che dia in uno cosa e suoi limiti. D'altra parte, la definizione in senso meramente operativo perde proprio ciò che dovrebbe accreditarne il valore ; se si dice « ogni qualvolta le condizioni sono così e così, il termine T sarà usato così e così» (3), resta da stabilire di che genere di « condizioni » si tratti : se esse (1) ARISTOTELE, An.

post., I I , 96 a-11.

(2) Cfr. E . KANT, Critica R. pura, D o t t . del metodo, I, sez. I, par. 1. (3) Cfr. M. BLACK, Problemi di Analisi, 1954, pag. 34.

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CAPITOLO TERZO

sono « intrinseche » alla cosa, la definizione è ancora quella aristotelica, se esse le sono « estrinseche » non escludono, perciò, il rimando all'essenza. Va preso dunque in considerazione l'uso definitivo della parola « tutto », proprio perchè è solo come « definizione-concetto » che essa ha un senso. L'atto che dice il tutto della cosa include di essa tutto, ossia nulla esclude : allora il « tutto » è tutto nell'inclusione, ed è perciò tutto o solo « inclusione » tutto o solo l'atto dell'includere. Se il tutto, così, si rivela essere un atto, anziché un termine formulabile in una dottrina che pretenda di possederlo e di comunicarlo, come atto esso non può venire dato. L'« essenza », dunque, non potendo venire « data », non può venire « detta » perchè ciò che si dà e che si dice viene dato e viene detto in virtù di essa. In altre parole, chi nega della cosa l'essenza e chi pretende dirla si pongono, rispetto ad essa, sul medesimo piano, cosicché anche storicamente, si tende ad oscillare tra la fiduciosa asserzione sulle essenze e la esplicita rinuncia a prenderle in considerazione, — e si può dire che non vi sia « convenzionalismo » o « operativismo » che non intenda reagire ad una qualche metafisica delle essenze, rivelandone l'arbitrarietà. § 18. — L'atteggiamento fondamentale umano operante nella definizione concettuale. La necessità che vi sia l'essenza della cosa corrisponde all'atteggiamento fondamentale umano che della cosa non intende cogliere ciò che interessa, ma intende la cosa nella sua interezza. L'intendere l'intimità della cosa è intendere la « dignità » della persona, per cui non di strumentalizzare la cosa importa, né colui che la considera (strumentalizzando tutto, si strumentalizza l'uomo stesso). L'atteggiarsi nei confronti del reale è anche disforre il reale in modo che possa venire considerato da chi si atteggia in rapporto ad esso. Ogni atteggiamento particolare nei confronti della realtà si inscrive in quello fondamentale e non può valere a sostituirlo, così come la necessità dell'essenza (che l'essenza vi sia) risponde alla domanda originaria « che cosa è ? », domanda che è l'originario atteggiarsi nei confronti della realtà. Tale domanda, infatti, non si pone in ordine alla cosa, sezionata, divisa, limitata, ma

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in ordine alla totalità della cosa che è, così, voluta tutta intera. In altre parole, non si può volere tutto (ogni cosa), che il tutto in questo senso è sempre oltre, è sempre « indefinito » solo « postulato » ; ma si deve volere la totalità di ciò che si vuole, che se si rinuncia a questa totalità si rinuncia in effetti e contraddittoriamente alla fondamentale struttura umana : l'oblio dell'intero è anche decadenza dell'uomo. Se « atteggiamento teoretico » diciamo questo volere della cosa il suo tutto, ogni altro atteggiamento può valere come uso possibile della cosa, non come soddisfazione totale (la soddisfazione o è totale o non è soddisfazione) intesa dalla domanda. § 19. — Il modo indiretto di dire l'essenza. L'essenza non può venire « detta », ma l'atteggiamento fondamentale umano è la ricerca dell'essenza, l'essenza deve perciò venire « detta » : dalla contraddizione si esce solo rilevando il modo indiretto di dire l'essenza. Dove si rilevi, come si è fatto sopra, che l'atteggiamento fondamentale nei confronti del reale è quello della domanda e che la struttura della domanda è il « xi È<mv ; » si può parlare di un modo diretto di dire ; in tal modo la cosa è « presente » nel suo venire detta, per cui, piuttosto, la cosa « si lascia dire ». La cosa, presente nel suo venire detta, equivale all'atto uno e indivisibile che è cosa e parola, il loro logos, il rivelarsi della cosa nella forma della parola. Il discorso diretto non può venire negato, proprio per quella originarietà che è del tendere all'essenza ; ma il nostro pensiero, che si struttura nel discorso diretto, trova a questo discorso un limite, che lo costringe a strutturarsi come discorso indiretto. Se il discorso diretto è presenza della cosa nella parola, il discorso indiretto è l'assenza della cosa che si « intende » dire, la quale, per essere detta « assente » deve essere presente nella intenzione di dirla (non esiste, infatti, un'assenza assoluta, che non potrebbe venire pensata) ; ancora una volta il discorso diretto è presente in quello indiretto, cosicché i due discorsi si intersecano tra loro e non sono pensabili come posti l'uno sull'altro. Con ciò si stabilisce una doppia presenza : i. presenza della cosa, 2. presenza della necessità della cosa nel suo doversi rivelare. Le due presenze corrispondono rispettivamente all'apodissi

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CAPITOLO TERZO

e all'anapodissi : si dà appunto apodissi anche dell'anapodissi , si dà dimostrazione della indimostrabilità dell'essenza. Il discorso si pone, tuttavia, intenzionalmente come discorso diretto e dove la cosa non si possa dire direttamente, direttamente si dice almeno l'impossibilità di dirla e con il linguaggio, dunque, si dice, ma il tutto della cosa, l'intero ehe è la «la cosa stessa» si dice, piuttosto, nonostante il linguaggio, dialetticamente. La filosofia del linguaggio, che è il linguaggio in filosofia, che è il modo di dire il tutto di ciascuna cosa, è il modo dialettico di dire l'essere, negando le negazioni (o fraintendimenti) che di esso si pretendono.

CONCLUSIONE

La struttura del linguaggio è la struttura del dire. « Dire » è originariamente « affermare » [ad-firmare] ; affermare è propriamente « rispondere » ad una domanda che si struttura di possibilità opposte od ipotetizzate come opposte (si afferma che la cosa è così, avendo ipotetizzato con la domanda che essa sia « così » o « non così », ma altrimenti) ; la risposta è dunque una delle possibilità proposte nella domanda e la domanda, con le sue proposte, è così il contesto originario della affermazione e, perciò, del discorso. Domandare è domandare qualcosa, ossia la domanda è determinata se è determinato ciò di cui è domanda : il valore della domanda è tutto nella cosa domandata. Domandare qualcosa è domandare tutto di quella cosa, ossia la domanda è intenzionalmente domanda totale, perchè la cosa è veramente se stessa se è totalmente o interamente ciò che è ; il tutto della cosa è il suo « essere ». Domandare tutto è tutto domandare (i), ossia la domanda totale si converte dialetticamente nell'esclusività del domandare, perchè il tutto della domanda totale, implicito nella domanda, è presente in essa e quindi da esso inglobato. Ogni cosa, nella totalità di se stessa, e il domandare in atto, ossia l'esclusività del domandare è la non-assolutezza di qualsiasi cosa che rientra nella totalità del domandare ; il tutto che si converte nel domandare non è assoluto. Il domandare in atto e non essere totalmente atto, ossia la non assolutezza della domanda totale è la restituzione dialettica dell'Assoluto come Atto puro, l'attestazione dialettica della « trascendenza » dell'Assoluto. In tal modo, il linguaggio che « dice » la totalità della cosa si converte nel dire se stessa da parte di quella cosa ed è, radicalmente, il suo domandare ragione, il non essere « ragione » a se stessa. (i) La formula è di M. Gentile ; si leggano, a proposito i lavori che la preparano e quelli che la svolgono (citati nel testo).

INDICE

INTRODUZIONE

Pag.

CAPITOLO PRIMO

SOMMARIO : § r. Il carattere filosofico della presente ricerca, pag. i. — § 2. Il carattere dialettico, o negatorio, della filosofia, pag. 3. — § 3. La dialettica dell'identico livello, pag. 5. — § 4. La dialetticità della filosofia e il momento analitico della filosofia del linguaggio, pag. 6. — § 5 - 1 limiti di validità dell'analisi in filosofia del linguaggio, pag. 9. — § 6. Limiti di validità e valore, pag. 11. •— § 7. Come è possibile una filosofia del linguaggio, pag. 12. — § 8. Concetto di « teoria » e sua riduzione, pag. 15. — § 9. La riduzione del concetto di teoria e la radice pragmatica dell'intellettualismo, pag. 17. — § io. La nozione ateoretica dello « in generale » come base della teoria, pag. 18. — § 11. Riduzione del procedimento analitico all'indeterminato, cioè al contraddittorio, pag. 21. — § 12. Differenza ontologica tra il contraddittorio ed il negato, pag. 22. — § 13. La dialetticità come impossibilità di un procedimento analitico sulla totalità, pag. 25. — § 14. La domanda totale e la totalità domandata, pag. 28. — § 15. L'intero della domanda totale e della totalità domandata, pag. 30. — § 16. La conversione dialettica della totalità domandata nella esclusività del domandare, pag. 32. — § 17. La domanda come riferirsi in atto alla risposta, pag. 33. — § 18. La problematicità nella «definizione » concettuale, pag. 36. — § 19. L'intersoggettività come dimensione dialettica, pag. 37. — § 20. La struttura dialettica dell'implicazione, pag. 38. CAPITOLO SECONDO

SOMMARIO : § I . L'insignificanza teoretica del disaccordo, pag. 41. — § 2. La preoccupazione di raggiungere un accordo effettivo è empirica e filosoficamente ingenua, pag. 42. — § 3. Fittizietà del rapporto t r a filosofia e senso comune, pag. 45. — § 4. La superfluità del problema del « solipsismo », pag. 46.

no

INDICE

— § 5. Presenza e coscienza, pag. 49. — § 6. La presenza pura, pag. 51. — § 7. La coscienza della presenza pura, pag. 55. — § 8. La realtà come pensiero si risolve nel pensiero come atto. La realizzazione (l'attualismo come attualismo puro), pag. 56. — § 9. La realizzazione come negazione e come posizione. (L'attualismo monistico come naturalismo), pag. 58. — § io. Il rapporto tra atto ed oggettivazione, tra presenza e presentificazione, pag. 59. — § 11, Importo teoretico dell'espressione « Verum et esse convertuntur », pag. 61. — § 12. La metaforicità intrinseca della parola, pag. 63.

CAPITOLO TERZO

SOMMARIO : § I . La «cosa stessa» come l'intero di se stessa, pag. 67. — § 2. L'indentità pensare-essere, pag. 70. — § 3. Il riproporsi del pensiero su se stesso come origine della parola « cosa », pag. 72. — § 4. La duplice funzione della parola « cosa », pag. 74. — § 5. Le condizioni ad un'indagine critica, pag. 76. — § 6. L'atto critico o negatorio come atto di pensiero nella coscienza, pag. 78. — § 7. La ricerca del mezzo logico adeguato e l'interrogazione, pag. 79. — § 8. I limiti teoretici delle asserzioni condizionate da interessi, pag. 81. — § 9. La riduzione pretesa del « sapere » al « potere » e il concetto ateoretico di «teoria », pag. 83. — § io. L'interpretazione matematicistica nei suoi limiti, pag. 85. — § n . La teoria come formulazione generale, pag. 88. —- § 12. La radice dell'interpretazione matematicistica, pag. 92. — § 13. Le condizioni imposte dal concetto d'interpretazione, pag. 93. — § 14. Il carattere teorico del controllo sull'esperienza, pag. 98. — § 15. Lo spostamento del limite come essenziale alle determinazioni, pag. 99. — § 16. La determinazione come ritorno dell'atto : totalità di definizione e totalità di esaustione, pag. 100. — § 17. La totalità di definizione come «essenza», pag. 102. — § 18. L'atteggiamento fondamentale umano operante nella definizione concettuale, pag. 104. — § 19. Il modo indiretto di dire l'essenza, pag. 105. CONCLUSIONE

Pag.

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