Massimo Recalcati - Le Nuove Melanconie

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Collana di Psicologia clinica e Psicoterapia diretta da Franco Del Corno

www.ra aellocortina.it © 2019 Ra aello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2019

INDICE

Introduzione Capitolo I Le nuove melanconie Capitolo II La pulsione securitaria Capitolo III L’illusione della perversione Capitolo IV Denaro, mania e avidità della pulsione orale Capitolo V Non esiste gioco senza perdita: osservazioni sul gioco del desiderio Capitolo VI Eredità e soggettivazione: alcune note sul complesso di Telemaco Capitolo VII Volti dell’ingovernabile nell’esperienzadella psicoanalisi Appendice Il concetto di forclusione: quattro variazioni Bibliogra a

Alle compagne e ai compagni di Jonas

INTRODUZIONE

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce. , ,

Il secolo della grande paranoia è alle nostre spalle. I cimiteri generati dal delirio di massa delle ideologie totalitarie appartengono al dramma della nostra memoria storica. La nuova psicologia delle masse non si costituisce più sull’identi cazione verticale e idealizzante con il leader, ma si sbriciola in un usso frastagliato di monadi. L’atomizzazione in questi ultimi decenni ha prevalso sulla massi cazione. Tutti i maggiori studiosi delle trasformazioni interne allo spirito del capitalismo ipermoderno e del loro impatto sulla psicologia sociale – pur divergendo sia sulle conclusioni generali che su analisi speci che – mettono giustamente in luce il carattere liquido, uido, sparpagliato delle masse occidentali e del godimento ipermoderno.1 La globalizzazione, la libertà senza Legge dei mercati, l’abbattimento neo-liberista dei con ni nazionali, il culto freneticamente nichilistico del consumo, il godimento come nuova con gurazione neolibertina della Legge, come inedito “fattore politico”, esaltano la dimensione senza argine, clinicamente maniacale, della pulsione neo-liberale. Il paradigma della clinica del vuoto, che ho personalmente teorizzato a cavallo tra gli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo e riarticolato più recentemente ne L’uomo senza inconscio,2 si sosteneva proprio su questa enfatizzazione del godimento nella vita individuale e collettiva. La spinta compulsiva al consumo coincideva con il crollo delle contrapposizioni ideologiche e con la ne del primato della grande paranoia nella strutturazione dell’ordine politico e sociale dell’Occidente. In primo piano non era più l’identi cazione idealizzante al capo, né la cementi cazione di legami sociali di massa solidi, ma la metamorfosi della mancanza in un

vuoto smarrito, avido e impersonale che anela incessantemente al suo riempimento. È la metamorfosi sostenuta dal discorso del capitalista come Lacan lo ha decifrato, il cui dispositivo, anziché assicurare – come falsamente promette – la saturazione di quel vuoto, non fa, in realtà, che rigenerarlo continuamente. È la sua astuzia fondamentale.3 Se osserviamo invece gli ultimi decenni legati alla grande crisi del sistema capitalistico nella sua evoluzione più recente e il suo impatto sulla vita collettiva, non possiamo non cogliere la profonda oscillazione di questo paradigma. L’assenza di argini e di con ni propria della libertà del turboconsumatore ipermoderno si è via via tradotta in un sentimento di uso di angoscia provocato dalla perdita di punti di riferimento simbolici stabili, ma, soprattutto, ha fatto sorgere una nuova domanda di protezione e di sicurezza. Siamo così passati dall’enfasi maniacalizzante relativa alla dissoluzione di argini e con ni alla necessità del loro ristabilimento e del loro ra orzamento securitario. L’ebbrezza maniacale e perversa del discorso del capitalista nella sua fase espansiva ha lasciato attorno a sé solo un mucchio di ceneri. Una nuova deriva melanconica si di onde non solo nella vita individuale, ma anche in quella collettiva. Risulta sempre più di cile associare la vita al senso; l’esistenza non è sperimentata come eksistenza, apertura, desiderio, trascendenza, ma è spinta a chiudersi su se stessa. Assistiamo a un movimento regressivo di barricamento e di ritiro sociale di usi. La postura prevalente del soggetto non è più quella della rincorsa a annata verso gli oggetti di godimento, ma quella della chiusura auto-conservativa propria di un ripiegamento neo-melanconico. La necessità della presenza surclassa l’esperienza dell’assenza, dalla quale può sorgere la trascendenza del desiderio e del senso. La pulsione di morte riappare prepotente sulla scena clinica e su quella del mondo sociale. Una nuova melanconia si a accia in contrasto aperto con l’umore maniacale che aveva caratterizzato la fase globalizzata ed espansiva del discorso del capitalista: caduta del senso, perdita del desiderio, adesività autistica a oggetti anonimi la cui presenza costante agisce come rimedio nei confronti di una angoscia epidemica. Con l’aggiunta decisiva che questa nuova inclinazione melanconica si intreccia con la comparsa di una altrettanto inedita pulsione securitaria. L’emblema politico e sociale del muro – oggi di uso in tutto l’Occidente – si presta bene a illustrare simbolicamente questo passaggio di paradigmi: la

spinta propulsiva al consumo – di tonalità maniacale –, propria della clinica del vuoto, sembra sostituita dalla spinta compulsiva alla chiusura, alla solidi cazione dei con ni, alla loro tras gurazione psicopatologica in muri – di tonalità melanconica –, propria di una nuova clinica securitaria. Il primo paradigma – quello della clinica del vuoto – oscilla kleinianamente verso il secondo – quello della clinica securitaria –: la pulsione preserva l’Uno, si chiude autisticamente su se stessa, punta alla propria auto-conservazione più che al proprio accrescimento; il desiderio non si in amma immaginariamente nell’inseguimento di sempre nuovi oggetti, ma sembra piuttosto richiudersi in un circuito separato dallo scambio con l’Altro investendo libidicamente la frontiera come nuovo e paradossale oggetto pulsionale. Il con ne cessa di svolgere la sua funzione di transito e di apertura; la sua porosità viene meno, la sua plasticità si irrigidisce, l’Uno si separa dall’Altro. Questa inedita pulsionalizzazione del con ne ne tras gura la natura. Anziché consentire la transizione la impedisce, la ostacola, la rigetta trasformandosi in muro, lo spinato, porto chiuso. Sebbene il simbolo del muro evochi ancora la presenza di una vocazione paranoica del collettivo ipermoderno, sarebbe una forzatura leggere questa tendenza al “chiuso”, all’auto-conservazione, come il rigurgito regressivo della grande paranoia protagonista delle vicissitudini drammatiche del Novecento. In primo piano, in realtà, non è più il pericolo di una conversione fascista dello spirito del capitalismo, né, tanto meno, di una riorganizzazione politica delle vecchie ideologie totalitarie. Dobbiamo provare a leggere in questo passaggio di paradigma dalla clinica del vuoto alla clinica securitaria l’a ermazione di una nuova melanconia che corrompe la trascendenza vitale del desiderio assegnando al desiderio stesso un destino di morte. L’esistenza, anziché essere esposta all’aperto, anziché ek-sistere, tende a richiudersi su se stessa, a ripararsi dall’apertura dell’esistenza, a dissociarsi dalla spinta erotica della pulsione di vita. Quello che la nuova clinica della melanconia mette in rilievo non è l’uomo senza inconscio, ma piuttosto l’esistenza di un inconscio fascista, o, se si preferisce, di una tendenza fascista immanente al desiderio inconscio. Si tratta di quella spinta sempre presente nell’umano a ri-territorializzare quello che la dinamica propulsiva del desiderio di vita tende a uidi care e a de-territorializzare.4 Non a caso, già a partire da Freud, la psicoanalisi ha messo in evidenza come il ri uto dell’Altro, lo scongiuro difensivo

dell’apertura, della contaminazione, il ra orzamento delle difese siano tendenze pulsionali primarie della vita umana. Se la gura del muro non può non evocare la dimensione paranoica della proiezione e della segregazione, del rigetto all’esterno di ciò che il soggetto (la città, il gruppo sociale, la nazione) non è in grado di tollerare, la cifra della nostra epoca non va più ricercata nella grande paranoia ideologica, quanto piuttosto in una nuova versione della melanconia esito di una destrutturazione del campo simbolico. Senza il sostegno dell’ideologia, la paranoia tende infatti ad arretrare oscillando verso una spinta alla chiusura nei confronti del mondo, alla separazione dall’Altro, alla de-erotizzazione della vita. Nella clinica classica della melanconia – come viene concettualizzata da Freud in Lutto e melanconia – domina la potenza inquietante della pulsione di morte. Eros si azzera, anatos trionfa; la pulsione di vita si slega da quella di morte e conduce la vita alla sua rovina. È indubbio che uno dei tratti fondamentali del nostro tempo sia costituito da una deerotizzazione del desiderio, dal disimpasto tra pulsione di vita e pulsione di morte, da una introversione radicale della libido. Si tratta allora di distinguere due forme cliniche della melanconia. La prima è quella classica, de nita dalla codi cazione freudiana. È la melanconia come “delirio morale”, centrata sul senso di colpa e sulla presenza di una Legge interna – quella del Super-io – sadica e in essibile. È la melanconia fondata sui vissuti di auto-denigrazione e di auto-rimprovero del soggetto. Accanto a questa forma di melanconia ne vediamo però emergere una nuova. Il suo fenomeno elementare non è più l’accanimento ipermorale della Legge superegoica sul soggetto, né il postulato delirante di indegnità che ne deriva, ma l’emergenza dell’esistenza come peso da trascinare, la chiusura dell’apertura dell’ek-sistenza, la sua involuzione securitaria, l’assenza del desiderio, la carenza fondamentale del sentimento della vita e della sua trasmissione da una generazione all’altra. La di usione di questi quadri clinici neo-melanconici investe soprattutto le nuove generazioni, mostrando la faccia in ombra del discorso sociale contemporaneo; il circo maniacale della festinazione permanente, della girandola impazzita del consumo illimitato innescata dal discorso del capitalista, rivela la sua triste verità nell’esperienza di una caduta verticale del senso e del desiderio di vita. Il culto avido del denaro, la pulsione securitaria che elegge il con ne a nuovo oggetto pulsionale, l’odio

fondamentalista o sovranista, le dipendenze patologiche e la deriva narcisistica della giovinezza, l’adesione alla presenza di un oggetto-Cosa che non deve conoscere interruzioni, lo spegnimento del desiderio sono tutte gure cruciali attraverso le quali la passione mortifera della nuova melanconia prende forma e interroga non solo gli psicoanalisti, ma il destino stesso dell’Occidente. Milano, Noli, Valchiusella, settembre 2019

1. Cfr. G. Lipovetsky, L’Ère du vide. Essais sur l’individualisme contemporain, Gallimard, Paris 1983; S. Žižek, Il godimento come fattore politico, tr. it. Ra aello Cortina, Milano 2001; Z. Bauman, Modernità liquida, tr. it. Laterza, Roma-Bari 2002; D.-R. Dufour, Le Divin Marché. La révolution culturelle libérale, Denoël, Paris 2007; M. Magatti, La libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano 2009; C. Melman, L’uomo senza gravità. Conversazioni con JeanPierre Lebrun, tr. it. Bruno Mondadori, Milano 2010; F. Chicchi, Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano 2012; M. Fisher, Realismo capitalista, tr. it. Nero, Roma 2018. 2. Cfr. M. Recalcati, Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze, psicosi, FrancoAngeli, Milano 2002, e L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Ra aello Cortina, Milano 2010. 3. Cfr. J. Lacan, Del discorso psicoanalitico, tr. it. in Lacan in Italia, a cura di G.B. Contri. La Salamandra, Milano 1978. Per un inquadramento del discorso del capitalista, vedi M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Ra aello Cortina, Milano 2016, Appendice. Ma anche il capitolo , in questo libro. 4. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. Einaudi, Torino 1975.

I LE NUOVE MELANCONIE

Il fuoco è reale. Il reale dà fuoco a tutto. Ma è un fuoco freddo. Il fuoco che brucia è una maschera, se posso dire così, del reale. Il reale va cercato dall’altro lato, dal lato dello zero assoluto. . , Seminario PER UNA NUOVA CLINICA DELLA MELANCONIA

La clinica della melanconia è una clinica della pulsione di morte: il soggetto è preso in una spirale di odio per se stesso – di ri uto della propria vita – che sembra non avere argini e che tende a trascinarlo fuori dalla scena del mondo. Nella sua versione freudiana più classica la melanconia è caratterizzata da una incessante ruminazione morale sul senso di colpa: il soggetto melanconico è sovrastato dal peso di una Legge sadica e in essibile e da un profondo sentimento di indegnità.1 La tesi che intendo sviluppare in queste pagine è che nel nostro tempo siamo di fronte a nuove forme di melanconia sempre più di use. In esse non riscontriamo più il corredo sintomatico classico della melanconia codi cata da Freud: ritiro libidico, auto-denigrazione, auto-accusa, senso di colpa inscal bile, spinta suicidaria, delirio di rovina. Di questo corredo sopravvive ancora il ritiro libidico come tendenza del soggetto alla chiusura, al ri uto dei legami sociali, unito a una restrizione drastica della sua spinta vitale. L’elucubrazione delirante sulla perdita dell’oggetto e sul senso di colpa sembra però essere sostituita da un altro fenomeno: una sorta di pulsione a chiudere il legame con la vita, una inclinazione paradossalmente securitaria che conduce il soggetto a disertare il proprio desiderio. Nelle nuove forme di melanconia – presenti in modo preoccupante soprattutto tra le giovani

generazioni – in primo piano non c’è più l’auto- agellazione morale e la dimensione irrimediabile della perdita dell’oggetto, quanto invece una inclinazione a ritirarsi dalla precarietà e dall’ingovernabilità della vita, a ridurre al minimo le tensioni interne all’apparato psichico, alla chiusura securitaria. Il punto clinicamente più cruciale è che mentre nella sua versione freudiana il soggetto melanconico viveva l’impossibilità di elaborare il lutto per la perdita di un oggetto narcisisticamente signi cativo, nelle nuove melanconie emerge una adesione intensa nei confronti di un oggetto sempre presente tenuto ad agire come una sorta di supporto “iperanaclitico” che penalizza l’emergenza del desiderio del soggetto. È questo un tratto davvero contemporaneo: la nuova melanconia scaturisce non dall’assenza o dalla perdita dell’oggetto, come avveniva nella melanconia freudiana, ma dalla presenza iper-presente dell’oggetto. Se il fallimento dell’elaborazione del lutto obbligava il melanconico a sperimentare l’adesività dell’oggetto in quanto assente – l’assenza dell’oggetto è per il soggetto melanconico sempre presente –, le nuove melanconie vivono l’assenza dell’oggetto come insopportabile, impossibile da elaborare, incollandosi alla presenza di un oggetto che ripara il soggetto dal rischio della perdita sottraendolo all’esperienza dell’assenza. Il loro nucleo è autistico non nel senso delle psicosi infantili, ma in quello del ritiro regressivo della libido dal mondo: la vita si ritrae dalla vita, la libido regredisce, il soggetto si introverte su se stesso. Si tratta di una tendenza alla chiusura che de nisce in generale la spinta oggi dominante non solo nel campo strettamente clinico (anoressie, dipendenze, isolamento, ritiro dai legami, depressioni), ma in quello più apertamente sociale che ha ormai con gurato un nuovo volto del discorso del capitalista. Esaurita l’enfasi esaltata, neo-liberale, della globalizzazione, emergono tendenze apertamente reazionarie e involutive che glori cano il muro: nazionalismo, sovranismo illiberale, chiusura identitaria. CRISI DELLA CLINICA DELLA RIMOZIONE

Queste nuove forme di melanconia possono essere comprese solo nel contesto della generale crisi della clinica psicoanalitica classica fondata sul primato simbolico-metaforico della rimozione. Il più grande mutamento clinico del nostro tempo, nel campo della psicoanalisi, è costituito, infatti,

dal profondo ridimensionamento della clinica della rimozione che aveva istituito il fondamento della psicopatologia classica della nevrosi. L’epoca della nevrosi è l’epoca della Legge che governa e struttura il desiderio e del rimbalzo trasgressivo del desiderio contro la Legge. Il con itto Leggedesiderio resta il con itto nucleare che anima l’Edipo di Freud e la sua funzione strutturante nella nevrosi: da una parte il programma trasgressivo del desiderio, dall’altra quello normativo della Legge. La rimozione del desiderio inconscio fonda la clinica della nevrosi come bipartita tra nevrosi ossessiva e isteria: nell’isteria il desiderio contrasta il carattere universale della Legge rivendicando la sua singolarità assoluta; nella nevrosi ossessiva la Legge viene invocata per esorcizzare il carattere anarchico del desiderio, per regolare, imbalsamare, pietri care la sua vitalità irrequieta. Ma anche nella fobia la Legge scrive il proprio nome attrezzando il soggetto a prendere le difese da un reale eccessivamente presente e minaccioso. Mentre la rimozione resta una gura eminentemente dialettica, in quanto la rappresentazione o l’a etto che subisce la rimozione ritorna nelle forme cifrate del sogno, del sintomo, dell’atto mancato, del lapsus, consentendo la sua integrazione soggettiva, la clinica contemporanea appare radicalmente anti-dialettica. Sembra venire a mancare il principio dialettico che integra il negativo (l’escluso) come condizione di allargamento della conoscenza. Basti pensare alla prevalenza – constatata da più parti – di processi extrametaforici come quelli della difesa e della scissione, i quali non sono a atto – come la rimozione – modi di espressione dell’inconscio – manifestazioni oblique della sua facoltà di signi cazione –, ma indici della presenza del reale primordiale fuori senso, processi che non implicano l’inconscio come potere espressivo, ma quella che Green de nisce come un’“invasione anarchica dell’Es”.2 Questa prevalenza dell’Es (a etto, passione, atto) sull’inconscio rappresentativo sembra essere il segno distintivo della nostra epoca. La pulsione aggredisce il pensiero creando fenomeni di surriscaldamento del senso (paranoia) o fenomeni di estremo ra reddamento (melanconia, psicosi bianca, ecc.); l’annodamento tra forza e signi cato, ssazione e plasticità, struttura e storia, soggetto e Altro viene meno.3 Se la rimozione implica una divisione dialettico-simbolica del soggetto che rende possibile il ritorno simbolico del rimosso, la difesa e la scissione sono processi che escludono la possibilità di questo ritorno. Nella difesa in primo

piano è il compattamento del soggetto – la sua identi cazione alla rigidità caratteriale, l’anestesia psichica o l’ipertro a narcisistica del proprio Ego – che ottura la divisione; nella scissione predomina invece una separazione verticale che esclude ogni possibile transito da una parte all’altra della personalità dei contenuti psichici scissi. Nel primo caso la difesa ripara il soggetto dall’angoscia arginando l’elemento pulsionale attraverso un ra orzamento del narcisismo dell’Io; nel secondo caso staccando una parte di sé dal proprio essere, rendendola impermeabile. Il declino della rimozione e la predominanza di difesa e scissione nella clinica psicoanalitica contemporanea comportano una inevitabile ride nizione dell’inconscio. In un caso – nella clinica della rimozione – l’inconscio si manifesta come potere creatore, di traduzione; lavoro di cifratura, di metaforizzazione e di sublimazione entro cui rientrano anche il potere plastico del transfert e la sua di erenza irriducibile rispetto alla mera ripetizione-riedizione di ciò che è già stato. Nell’altro caso – nella clinica della scissione e della difesa – l’inconscio si con gura come spinta, moto pulsionale acefalo, eccedenza di godimento, anarchia incandescente e destabilizzante dell’Es. In gioco è il passaggio dal modello semiotico del sogno a quello energetico della scarica; da una topica centrata sul potere creatore dell’inconscio a una topica centrata sulla difesa e sulla scissione dove in primo piano è, come scrive giustamente Balsamo, una “restrizione massiccia della simbolizzazione”.4 LA CLINICA DELLA RIMOZIONE E IL SUO ROVESCIO PERVERSO

La clinica della nevrosi è una clinica del ritorno del rimosso e della sua cifratura simbolica. La natura strutturalmente fallimentare della rimozione è l’indice della plasticità dell’apparato psichico e della sua facoltà di signi cazione: nella rimozione quello che conta è l’associazione delle tracce mnestiche – il loro concatenamento simbolico –, che genera una signi cazione retroattiva. È la dimensione linguistica o, se si preferisce, mentale o metaforica che contraddistingue il sintomo nevrotico, il quale scaturisce non da ciò che è avvenuto “prima”, ma solo dalla sua interpretazione a posteriori. Con l’aggiunta che il ritorno del rimosso, anche quando accade sulla scena del corpo del soggetto, non smarrisce mai la sua natura altamente simbolico-metaforica. È questo l’insegnamento

insuperabile dell’isteria già nei tempi dell’origine della psicoanalisi: supremazia del simbolo sull’organo, o, più precisamente, tras gurazione dell’organo che diventa discorso, che si istituisce propriamente – per usare una nota espressione di Freud – come un “discorso d’organo”. Un primo forte ridimensionamento della clinica della nevrosi scaturisce dalla di usione della perversione. Il suo primato attuale nel discorso sociale implica una alterazione di usa e profonda nei rapporti tra Legge e desiderio.5 La perversione nella sua vocazione più strutturale non indica tanto la tendenza alla semplice e, per certi versi ordinaria, trasgressione della Legge, reperibile, tra l’altro, anche nella nevrosi, o, meglio, nella struttura del suo fantasma. Questa tendenza può de nire, infatti, solo il tratto comunemente perverso del desiderio nevrotico. La perversione in senso strutturale implica, invece, una frattura netta e irreversibile nella dialettica tra la Legge e il desiderio: lo spirito perverso del nostro tempo comporta la dissoluzione della Legge come limite e condizione del desiderio situando la volontà di godimento come Legge, ponendo la spinta acefala al godimento – l’imperativo super-egoico a godere – come l’unica forma possibile della Legge.6 Il perverso – come Lacan e Pasolini, in modi diversi, hanno indicato – si assimila a Dio o a un animale che non vive l’oppressione della Legge perché colloca la Legge del godimento al di là di ogni altra forma possibile della Legge. In questo senso egli non si accontenta di trasgredire la Legge, ma si consacra devotamente alla fondazione di una nuova Legge: la Legge del godimento. Incarna il godimento come Legge libera dal peso inutile della Legge. Per questo non si possono confondere le cosiddette perversioni sessuali – ma potrebbe mai esistere una sessualità umana senza perversione? Non è la sessualità umana in quanto tale, in quanto intaccata dall’azione del linguaggio, strutturalmente perversapolimorfa? – con la perversione considerata dal punto di vista della struttura. Il disegno del perverso oltrepassa di gran lunga il carattere “anormale” delle pratiche sessuali esprimendo una volontà loso ca e pedagogico-politica precisa: rifondare la nozione stessa di Legge, situare la Legge al di là di ogni sua versione “umana”, liberare la Legge dalla Legge degli uomini.7 L’anomia della Legge liberata dal peso sacri cale della Legge diviene così l’unica forma (inumana e impersonale) della Legge. Non è la semplice autorizzazione all’arbitrio, ma è l’elevazione dell’arbitrio a nuova forma – la

sola possibile – della Legge. Per questa ragione il perverso de nisce, insieme al paranoico, la gura dell’anti-analizzante per eccellenza. È, del resto, per questa stessa ragione che anche lo spirito del nostro tempo subisce la fascinazione di un godimento assoluto che sostituisce l’interdizione repressivamente dispotica della Legge; il nostro tempo sarebbe il tempo dove la libertà dalla Legge istituisce un nuovo tipo di uomo, inaugurando quella che Pasolini aveva de nito come una vera e propria “mutazione antropologica”, quella dell’uomo in “consumatore di godimento” che non consente a nessuna Legge simbolica di interrompere o di rendere discontinuo il suo rapporto di prossimità con la Cosa del godimento. La via della perversione ridimensiona pesantemente la clinica della rimozione come clinica della signi cazione. Non a caso per Freud la perversione è il rovescio, la “negativa della nevrosi”. In primo piano non c’è la divisione del soggetto dell’inconscio, ma la sua negazione calibrata, paradossalmente volontaristica e, insieme, apatica; l’a ermazione univoca di una volontà di godimento determinata e priva di oscillazioni etiche che compatta il soggetto sino a raggiungere la sua metamorfosi nel carattere animale e impersonale del cane, del detrito, dello straccio masochistico. LA PSICOSI COME ROVESCIAMENTO DEL LUTTO

Il più drastico ridimensionamento della clinica della rimozione avviene però con la clinica delle psicosi. La lezione della psicosi indica con forza il difetto strutturale che intacca l’ordine simbolico e, di conseguenza, mina alla radice la dialettica della rimozione. Lacan è colui che, tra tutti gli autori della psicoanalisi dopo Freud, ha maggiormente insistito, almeno nel periodo considerato più classico del suo insegnamento, nel porre in una secca alternativa la clinica della rimozione propria della nevrosi e quella della forclusione speci ca delle psicosi.8 Nella clinica delle psicosi la rimozione come attività di simbolizzazione lascia il posto alla forclusione, ovvero a un processo di esclusione radicale e di espulsione che disarticola l’ordine simbolico. Diversamente dalla clinica della rimozione non si veri ca alcun ritorno del rimosso lungo le vie del linguaggio, ma una frattura, quella che Freud de niva come una “abolizione interna”,9 per cui ciò che non ha potuto essere simbolizzato dal soggetto ritorna direttamente nel reale. Nella sua teoria più classica della

forclusione Lacan traduce questa “abolizione interna” con l’assenza nel luogo dell’Altro di quel signi cante – il Nome del padre – in grado di dare stabilità al quadro della realtà e di sottrarre il soggetto dal “servizio sessuale della madre”.10 Nel soggetto psicotico mancherebbe nell’Altro il Nome del padre come signi cante ultimo e fondamentale della Legge. L’assenza forclusiva di questo signi cante pregiudica la costituzione del quadro della realtà dando luogo a catastro immaginarie e inchiodando il soggetto nella posizione di puro oggetto del godimento dell’Altro. La forclusione del Nome del padre comporta la conseguenza di ritorni erratici del reale come accade esemplarmente nell’allucinazione o nel passaggio all’atto.11 In questa sua declinazione più classica il concetto di forclusione sarebbe il risultato di un drastico rovesciamento del lutto.12 Questa de nizione è nevralgica per il mio ragionamento d’insieme perché mostra con evidenza l’opposizione tra il lavoro del lutto e la psicosi, ovvero de nisce, nella sostanza, la psicosi come l’esperienza di una impossibilità del lavoro elaborativo del lutto, come il suo rovesciamento negazionista, appunto. Non a caso nei Complessi familiari Lacan aveva de nito la psicosi come una impossibilità o una “stagnazione” della sublimazione.13 L’analogia tra lutto e sublimazione non deve ovviamente sfuggire ed è stata sottolineata più di una volta da Lacan stesso; entrambi sono lavori simbolici che avvengono sullo sfondo di una assenza, sono pratiche simboliche che presuppongono un “vuoto centrale”.14 Il soggetto psicotico si trova accomunato a quello perverso in quanto per entrambi il lavoro psichico del lutto e la sua necessaria attività di sublimazione appaiono come un’esperienza inaccessibile. Psicosi e perversione non sono in grado di assumere l’assenza della Cosa poiché rigettano la metaforizzazione primordiale del linguaggio. Lacan ci consegna due de nizioni precise di questa comunanza. Non a caso nel Seminario egli a erma che lo psicotico è colui che ha la “certezza della Cosa” e che porta con sé la Cosa, che la tiene nelle sue tasche. Con questa semplice immagine intende sottolineare la natura incestuosa del godimento psicotico che non rinuncia alla presenza della Cosa materna. Sicché la Cosa per lo psicotico non è mai perduta, ma è una presenza sempre presente con la quale il soggetto è perennemente in contatto. Lo psicotico è, secondo una nota formula di Lacan, sempre “immerso nel reale”, a bagno nella Cosa. Non è un caso che i temi deliranti dell’essere intercettato, visto, spiato,

invaso, percosso, controllato, impossibilitato a sottrarsi allo sguardo e al controllo dell’Altro, del non riuscire, insomma, a liberarsi dal “contatto” con l’Altro siano così centrali nella clinica delle psicosi. Essi segnalano la presenza sempre presente – non negativizzata – della Cosa e la sua incombenza sulla vita del soggetto, il suo essere, appunto, immerso nel reale. Ma anche il soggetto perverso non acconsente al lutto della Cosa rigettando il lavoro della sublimazione. Nello scritto Kant con Sade, Lacan de nisce precisamente la postura del soggetto perverso come votata a mantenersi la più prossima possibile al reale della Cosa.15 Essa non vuole riconoscere la Legge della castrazione come Legge che distanzia irreversibilmente il soggetto dalla Cosa del godimento. Per il perverso, infatti, la Legge non sbarra l’accesso alla Cosa, ma diviene la Cosa stessa: una Legge che – al di là della Legge degli uomini – proclama l’assoluto godimento della Cosa. In entrambi i casi, come si vede, in primo piano è la non soggettivazione della distanza del soggetto dalla Cosa, del suo lutto, l’impossibilità di assumere la perdita della sua presenza o della sua prossimità: la forclusione come rovesciamento e negazione del lavoro del lutto. In primo piano è il grande tema del lutto strutturale che l’esistenza del linguaggio impone. Il perverso e lo psicotico sono accomunati dallo sforzo di negare la necessità di questo lutto. Con una di erenza sostanziale però: mentre lo psicotico subisce passivamente la presenza della Cosa, il perverso si proclama padrone della Cosa. È la distanza abissale che separa perversione e melanconia. Nella melanconia il soggetto è sovrastato dalla Cosa e dall’impossibilità di concepire la sua assenza. Freud de nisce la melanconia come un lutto perennemente incompiuto o, meglio, come l’impossibilità di portare a compimento il lavoro del lutto in quanto il soggetto resta preso in una “pervicace adesione all’oggetto perduto”.16 Per questa ragione, l’esistenza del melanconico coincide con la Cosa.17 Nella perversione, al contrario, il soggetto si impone come padrone della Cosa del godimento. Questo signi ca che la Cosa non è cancellata dalla Legge ma si trova a essere elevata alla dignità della Legge. È, per esempio, quello che avviene – se seguiamo la lettura proposta da Lacan – con il programma della Critica della ragion pratica di Kant, dove la Legge si manifesta come luogo della Cosa in contrasto con tutti gli interessi (patologici) dell’Io. Legge inumana

che solo l’eresia libertina di Sade porterebbe al suo massimo compimento in quanto Legge del godimento. Qual è, infatti, l’operazione fondamentale compiuta da Sade nella sua radicalizzazione di Kant? Elevare la Cosa – la realtà pulsionale della Cosa – allo statuto della Legge, fare della pulsione la Legge o, se si preferisce, fare della Legge una pulsione. Mentre nella psicosi l’Altro è il luogo della pulsione poiché il soggetto è incalzato dal godimento dell’Altro – pensiamo al rapporto di Schreber con il Dio voluttuoso che lo sevizia –, nella perversione la pulsione prende il posto dell’Altro, compie il de nitivo parricidio dell’Altro a ermandosi come l’esercizio di padronanza di una volontà impersonale che assimila compiutamente la Cosa alla Legge.18 Ritorniamo ora all’a ermazione di Lacan, secondo la quale la forclusione sarebbe il rovescio del lutto, per cogliere meglio le pieghe interne di questa tesi. Se nell’esperienza del lutto in primo piano è la di cile attività di simbolizzazione della perdita reale dell’oggetto (la perdita è reale mentre il lavoro del lutto è simbolico), nella forclusione avremmo una perdita interna al simbolico e un ritorno erratico del reale forcluso (la perdita è simbolica mentre la forclusione implica un ritorno reale). Mentre nel lutto il soggetto si confronta con l’assenza dell’oggetto – con la sua privazione reale –, nella psicosi esso non vuole sapere nulla di questa perdita perché la rigetta in quanto impossibile da digerire simbolicamente. Più precisamente, è la Unglauben (non-credenza) paranoica a venire in primo piano. La tendenza maggiore del soggetto paranoico è quella di non volerne sapere nulla della sua responsabilità rispetto a ciò che gli accade; la sua certezza delirante è che tutto il male che lo concerne sia sempre responsabilità della malignità dell’Altro persecutore. Non vuole sapere in nessun modo quale sarebbe la sua implicazione soggettiva in ciò che lamenta. Non però nel senso ancora dialettico della rimozione (anche la rimozione è un non voler sapere), ma in quello, appunto, privo di mediazioni e anti-dialettico dell’Unglauben. La paranoia scaturisce da un irrigidimento estremo della posizione innocente dell’anima bella come Hegel l’ha caratterizzata: ri uto di vedersi parte di quel mondo che dall’alto della sua purezza – della Legge del cuore – giudica aspramente come marcio e corrotto. Questa idea della forclusione come rovesciamento del lutto proposta da Lacan riprende un passaggio cruciale di una lettera di Freud a Jung nella quale, riferendosi proprio alla paranoia, Freud la de niva come un

capovolgimento del lutto.19 Nella psicosi il soggetto esige di restare ancorato alla presenza assoluta dell’oggetto, ri utandosi ostinatamente di registrarne l’assenza. È il centro di una vignetta clinica riportata in Neuropsicosi da difesa: una paziente psicotica dopo aver perso il suo bambino – nell’impossibilità di elaborare simbolicamente un lutto troppo doloroso – tiene tra le braccia un pezzo di legno allucinandolo come il corpo del glio perduto. In questo caso si può vedere bene come il lavoro del lutto sia una simbolizzazione della perdita che implica necessariamente una separazione del soggetto dalla presenza dell’oggetto e come la psicosi consista invece nel ri uto di questo tragitto tortuoso per preservare una prossimità delirante con l’oggetto. La posizione di questa donna che non accetta la perdita dell’oggetto perduto non può non evocare la melanconia. Con la di erenza che al soggetto melanconico non è così chiaro che cosa egli abbia veramente perduto, sebbene tutto il suo universo ruoti attorno a un sentimento permanente di perdita. Come si può dedurre dalla vignetta clinica di Freud, l’Unglauben melanconica consiste nel non voler credere alla perdita, nel non voler sapere della morte avvenuta dell’oggetto amato. È il tratto essenziale dell’Unglauben melanconica: rigettare la perdita, allucinare l’assenza, farne una forma imperitura della presenza. In questo senso alcuni autori distinguono con cura l’“introiezione simbolica” che caratterizza il lavoro del lutto dall’“incorporazione” che segnalerebbe invece il fallimento di questo lavoro. Mentre l’introiezione simbolica implica la soggettivazione e ettiva della perdita dell’oggetto, l’incorporazione sarebbe invece un’attività di sostituzione dell’oggetto perduto con un oggetto analogo destinato a occupare una sorta di “cripta interna” e a rendere impossibile il compimento e ettivo del lavoro del lutto.20 Il meccanismo dell’Unglauben melanconica evidenzia l’atto di noncredenza del soggetto di fronte all’assenza dell’oggetto. Il che non esclude a atto che un soggetto melanconico possa anche vivere l’a izione del lutto, ma questa a izione non sarà in grado di generare un lavoro di introiezione simbolica perché l’incorporazione dell’oggetto perduto ottura lo spazio psichico necessario al compimento del lavoro del lutto. Per questa ragione per Freud il lutto è il paradigma della “via lunga” della sublimazione e del pensiero in alternativa alla “via breve” dell’allucinazione. Mentre la paziente psicotica evita l’incontro con la morte reale del suo piccolo, il soggetto

impegnato nel lavoro del lutto assume il carattere irreversibile di quella perdita, l’impossibilità di preservare la presenza dell’oggetto. LA COLPA DI ESISTERE

Per Freud la melanconia è un delirio morale di indegnità che ruota attorno al tema del senso di colpa e delle sue ritorsioni sulla vita del soggetto.21 Mentre nella sua esaltazione euforica il maniaco confonde il proprio Io con l’Ideale dell’Io,22 il soggetto melanconico vive la Legge come un Ideale rispetto al quale il proprio essere appare indegno, inadeguato e pertanto colpevole. Il postulato di indegnità classi ca la sua esistenza come scarto e ri uto rispetto all’Ideale irraggiungibile della Legge. Non c’è atto di trasgressione, non c’è elevazione del godimento a nuova forma della Legge – come accade invece nella perversione –, quanto il sentimento di una lontananza siderale dalla Legge, di una colpa inguaribile, inestinguibile, di una colpa che nessuna Legge può sanzionare e che proprio per questo si dà come assoluta e inemendabile. La colpa del soggetto melanconico non si riferisce infatti realmente a nessun atto del soggetto ma alla sua stessa esistenza: è colpa di esistere. È colpa di un’esistenza che si trova gettata nel mondo in una condizione insormontabile di inermità e di sconforto radicale che Freud traduce con il termine tedesco Hil osigkeit.23 All’origine del vivente non è il senso ma la vita fuori dal senso, la vita come pura esistenza, eccesso insensato del vivente. Questa è la colpa originaria dell’esistenza che riemerge prepotentemente nella melanconia, dove l’esistenza appare come una protuberanza priva di valore, presenza senza senso, angoscia assoluta. La colpa è un’ombra che sovrasta il soggetto e che rigetta ogni responsabilità etica – non è una colpa in rapporto a una scelta, a un atto, a una decisione – per a ermarsi come priva di ogni riscatto possibile. La colpa melanconica eccede la dimensione etica della responsabilità. Non è colpa legata a un atto ma alla propria stessa esistenza in quanto scorporata dal senso. È la dimensione a ittiva, passiva, derelitta, lamentosa della melanconia. Mentre il perverso mostra la menzogna della Legge come se fosse un ostacolo pretestuoso e ingannevole all’accesso alla verità cruda del godimento, la melanconia rivela invece tutto il carico del godimento mortifero della Legge. Il masochismo morale di cui parla Freud testimonia questa aberrazione sacri cale della Legge che ritroviamo anche

nella nevrosi ossessiva: il soggetto è assoggettato dalla violenza sadica del Super-io che si accanisce contro di esso nelle forme dell’auto-denigrazione, dell’auto-rimprovero e dell’auto-accusa permanenti. Il masochismo del melanconico – diversamente da quello del perverso – non punta così a realizzare un godimento libero dalla mancanza – a emancipare la vita dalla sua forma umana –, ma si pro la come sottomissione a un indebitamento eterno, impossibile da saldare. Il soggetto melanconico occupa la posizione di un servo masochista asservito a un padrone sadico, incarnato, secondo Freud, da un Super-io particolarmente in essibile, “ultrapotente” e “ipermorale”.24 La Legge è trascinata dal simbolico verso il reale: il soggetto è sempre colpevole, senza però mai essere responsabile della sua colpevolezza. È colpevole nella sua esistenza; in questo modo, confonde la sua mancanza a essere – la mancanza che inerisce alla forma umana della vita – con la sua colpa inemendabile.25 La colpa di esistere è dunque il fenomeno elementare della melanconia: il soggetto appare soverchiato da un auto-rimprovero permanente che non dipende da un proprio atto, ma lo precede, scaturendo da una condizione di indebitamento che non può trovare soluzione perché investe direttamente la sua stessa esistenza, la sua presenza nel mondo. Ma quale sarebbe la colpa dell’esistenza? Perché l’esistenza – come insegna la gura clinica della melanconia – può coincidere con la colpa? Quando l’esistenza si rivela come colpevole? La colpa dell’esistenza è generata dalla scissione tra l’esistenza e il senso. La scena del mondo è la scena del senso; l’essere umano abita la scena del mondo in quanto scena del senso. La scena del mondo è l’orizzonte del senso in cui il soggetto viene alla luce dell’essere. Cosa accade invece nella melanconia? Accade che la scena del mondo si disfa, che il suo quadro collassa e che il soggetto cade fuori da questa scena trovandosi chiuso, con nato, isolato nel “proprio mondo”. Il melanconico fa così esperienza dell’esistenza come una immanenza eccedente rispetto all’essere, incontra il carattere contingente e insensato dell’esistenza. Se l’esistenza è alla sua origine priva di senso, il senso interviene – primariamente nella forma del desiderio dei genitori – a riparare l’esistenza stessa dalla sua origine insensata. Nel caso della melanconia il riparo del senso non ha invece tenuto e l’esistenza emerge traumaticamente in tutta la sua insensatezza originaria.26

ESISTENZA E INESISTENZA DEL SOGGETTO E DELL’ALTRO

Il vissuto delirante di indegnità che contraddistingue l’esperienza melanconica ri ette un difetto profondo nella trasmissione simbolica della Legge e della sua umanizzazione. Ne scaturisce una Legge di morte, puramente sacri cale e patibolare, nemica irriducibile della vita. Questa morti cazione della Legge non deriva dal simbolico, ma dal reale stesso. La “morti cazione simbolica” è quella prodotta dall’azione che il signi cante esercita sul vivente. Questa morti cazione non è una privazione repressiva della vita, ma una donazione poiché libera il soggetto dalla presenza incombente della Cosa incestuosa, aprendo lo spazio della mancanza da cui scaturisce la trascendenza del desiderio. La morti cazione simbolica della vita genera la “mancanza a essere” come apertura, la forza e la trascendenza del desiderio. La “morti cazione reale” è invece quella testimoniata drammaticamente dal soggetto melanconico. L’inattività del signi cante lascia che, in questo caso, l’esistenza appaia direttamente nel reale come puro non-senso. Non esiste né la mancanza a essere, né la forza e la trascendenza del desiderio. Il soggetto melanconico coincide con l’Uno chiuso della sua esistenza. La “morti cazione reale” coincide con l’emergenza dell’esistenza come pura insigni canza. Non è l’attività della simbolizzazione che morti cando l’organismo vivente rende possibile l’emergenza nel soggetto della mancanza e del desiderio, ma è la sua inattività a lasciare che l’esistenza si realizzi come pura morti cazione, assenza di mancanza e di desiderio. È quello che accade nelle anoressie melanconiche, dove il soggetto vive la morti cazione reale del proprio corpo come conseguenza della inattività del signi cante. Il corpo ridotto a pelle e ossa è un corpo privato di ogni mancanza e di ogni desiderio; è un corpo morti cato, cadaverizzato nel reale e non nel simbolico. L’esistenza dell’Altro come luogo del senso occulta l’esistenza reale del soggetto come puro non-senso: la riveste, le assegna un mandato, la signi ca rendendola amabile. È l’inesistenza dell’Altro a far emergere il reale puro dell’esistenza – la sua radicale insensatezza – scorticata dal velo necessario del senso. Nella melanconia l’esistenza si rivela come sconforto, inermità, assoluto abbandono, come Hil osigkeit. È l’esperienza che Sartre racconta nel romanzo loso co La nausea: attraverso l’esperienza a ettiva della nausea l’esistenza si scopre come eccedenza impossibile da signi care,

come reale informe che disfa l’ordine canonico della realtà. Allora il corpo, la vita stessa del soggetto, appare come una protuberanza assurda, senza senso, presenza assolutamente contingente e “di troppo”.27 Il reale che non viene ltrato dal signi cante è un reale informe; è il reale della nuda esistenza. La dimensione del senso è un argine necessario alla rivelazione dell’esistenza come bruta eccedenza insensata. La vita umana – a erma Lacan –, pur essendo “sprovvista di senso” alla sua origine, aspira al senso, insiste per entrare nell’ordine del senso.28 Senza senso, infatti, l’esistenza cade nell’insensatezza delle sue origini, si rivela come pura “mu a”, eccedenza informe. La melanconia è la gura clinica che più di ogni altra rivela la condizione dell’esistenza come un’immanenza assoluta privata dell’ossigeno della trascendenza del desiderio. Per il melanconico l’esistenza è una condanna che inchioda la vita al non-senso. Quando non c’è trascendenza, quando non c’è la trascendenza del senso e del desiderio, quando viene a mancare l’esistenza dell’Altro, in primo piano emerge il trauma della atrocità assurda dell’esistenza, l’Uno chiuso dell’esistenza melanconica. La sola forma che il senso può assumere è allora quella persecutoria della Legge del Super-io, dunque un senso insensato e una Legge inumana. Anche la responsabilità etica del soggetto scivola nel reale e si tras gura in un “delirio morale”: il soggetto è sempre colpevole ma non è mai paradossalmente responsabile della sua colpa. Se per un verso l’enfatizzazione reale della responsabilità comporta che il soggetto melanconico si senta responsabile di tutto (come per esempio testimonia il cosiddetto “delirio di rovina”), per un altro verso, invece, questa responsabilità è senza soggettività; se il soggetto si sente responsabile di tutto è perché, in realtà, non è responsabile di nulla. Tuttavia la Legge incombe sulla sua vita come un peso inaggirabile: il soggetto melanconico è corroso tanto dal senso di colpa – dalla chiusura nella propria esistenza vissuta come insigni cante e indegna – quanto dalla inevitabile punizione che esso si attende da una Legge spietata che non conosce perdono: La melanconia è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in auto-rimproveri e auto-ingiurie e culmina nell’attesa delirante di una punizione.29

Nel ragionamento freudiano articolato in Lutto e melanconia, la

melanconia è causata dal fallimento del lavoro simbolico del lutto. La perdita reale dell’oggetto non viene arginata da una adeguata simbolizzazione, ripercuotendosi sulla vita intera del soggetto. Si tratta di una impossibilità di risalire la via tortuosa del lutto per confrontarsi con l’assenza dell’oggetto. Il soggetto melanconico, secondo Freud, ri uta la vita a causa di un attaccamento insistente all’oggetto perduto, il quale estende la sua ombra sull’Io del soggetto.30 In primo piano è qui ancora – come accade, sebbene in una logica assai di erente, anche nella perversione – la presenza dell’oggetto più che la sua assenza. L’ombra dell’oggetto perduto che cade sull’Io indica infatti che questa assenza – l’assenza dell’oggetto perduto – tale non è perché l’oggetto resta sempre presente sebbene nella forma paradossale della sua assenza. È l’assenza come versione estrema della presenza. Questa assenza non è un’assenza, ma assume, nel delirio melanconico, la forma di una presenza sempre presente, di una assoluta presenza. In questo senso il paradigma melanconico implica un estremo attaccamento alla Cosa. La sua passione non sopporta la mancanza, l’assenza, la perdita dell’oggetto. Se la paranoia mette in luce la proliferazione del senso, o, se si preferisce, per usare le parole del presidente Schreber, omaggiate più volte da Lacan, l’abolizione del non-senso, la melanconia è un suo rovesciamento radicale. Nell’universo melanconico, infatti, il senso è abolito. La vita è priva di senso, non ha alcun senso, cade fuori dal senso. Non esiste verità se non nell’assenza di verità, non esiste senso se non nella sua radicale insensatezza. La vita si disgiunge radicalmente dal senso. L’esistenza simbolica dell’Altro si dissolve rivelando l’esistenza del soggetto come presenza priva di signi cato. Mentre la paranoia è una clinica dell’Altro, la melanconia è una clinica dell’Uno. Il paranoico pretende di detenere la verità in modo assoluto, di includere a forza (di delirio) l’esistenza nel senso. Se il perverso si pone come padrone del godimento, il paranoico si pone come padrone della verità. E la sua verità – la sua certezza delirante – è che l’Altro esista ma sia malvagio. Questo signi ca che l’Unglauben (non credenza) paranoica, mentre istituisce il soggetto come innocente – esso non vuole sapere nulla della sua responsabilità in ciò che lamenta –, fonda, nel medesimo tempo, l’esistenza solida dell’Altro come causa assoluta di ogni Male. Sicché nella paranoia l’Altro appare sempre consistente: l’Altro esiste in quanto maligno, folle e privo di Legge. Per questa ragione nella paranoia Altro e pulsione

coincidono, nel senso che la pulsione viene sempre dall’Altro, investendo arbitrariamente il soggetto ridotto a oggetto del suo godimento abusivo. Ma tutto questo non intacca l’esistenza dell’Altro, non la corrompe con il tarlo della inesistenza. L’Altro della paranoia ha la stessa solidità dell’odio paranoico che può manifestarsi sia come odio dell’Altro verso il soggetto che come odio del soggetto verso l’Altro secondo le due facce speculari della persecuzione. La proliferazione paranoica del senso assicura l’esistenza dell’Altro; il soggetto paranoico rivendica un mandato: quello di sottrarre l’esistenza alla minaccia dell’Altro per incarnare un Altro più giusto, o, meglio, per incarnare la giustizia dell’Altro, la Causa assoluta dell’Altro. Nella paranoia la Causa è, infatti, sempre causa dell’Altro, è sempre Causa dell’Altro dell’Altro. In questo modo il soggetto paranoico e i gruppi umani che si costituiscono come sette paranoiche non fanno mai davvero esperienza dell’inesistenza dell’Altro poiché l’esistenza dell’Altro ha la funzione primaria di riparare il soggetto dall’impatto con l’assenza di senso dell’esistenza che la melanconia invece rivela. Ecco perché non è così raro, laddove l’inesistenza dell’Altro si riveli, che un paranoico possa sprofondare nella più tetra disperazione melanconica. Ma ntanto che l’Altro esiste – e il paranoico lavora incessantemente per preservare l’esistenza solida dell’Altro – il soggetto non incontrerà mai il reale della sua esistenza. Il primo e etto dell’esistenza dell’Altro consiste infatti nell’associare la vita al senso, nel garantire la sovrapposizione tra il senso e l’esistenza. L’esistenza dell’Altro esclude, infatti, l’esistenza del soggetto allo stesso modo in cui nella clinica classica della nevrosi la prevalenza della domanda dell’Altro esclude l’esperienza singolare del desiderio.31 È il programma che s anca l’ossessivo, il quale fa di tutto, spesso disgraziatamente o go amente, per far esistere, senza successo, l’Altro. Egli, infatti, diversamente dal paranoico, rimuove l’inesistenza dell’Altro, ma non può rigettarla essendo esposto al suo ritorno continuo – per esempio, nel carattere mortale dell’esistenza che nessun Altro può scongiurare. Nella paranoia, invece, l’esistenza dell’Altro ricopre compiutamente l’esistenza del soggetto: se l’Altro esiste, se la sua esistenza è solida – sebbene nella forma della persecuzione –, allora l’esistenza ha un senso. Se l’esistenza indica il reale del vivente che non è stato signi cato dall’Altro, nella paranoia l’esistenza del soggetto riceve il suo senso – sino al limite in ammato della persecuzione – proprio dall’esistenza solidi cata

dell’Altro. Le grandi ideologie totalitarie del Novecento sono incarnazioni del grande Altro che hanno o erto una falsa garanzia al soggetto, tutelandolo, a dandogli – come direbbe Sartre ne L’Idiota della famiglia – il mandato dell’Altro.32 Ricevere un mandato è fare esperienza piena dell’esistenza dell’Altro dalla quale dipende la giusti cazione della vita stessa del soggetto. In questo senso la clinica della paranoia è sempre una clinica dell’Altro. Ricevere un mandato dell’Altro è fare esperienza dell’esistenza dell’Altro e dell’inesistenza del reale della nostra esistenza. Il soggetto paranoico è colui che ha la certezza – come accadde a Hitler – di eseguire il mandato ricevuto dall’Altro (dalla storia, da Dio, dalla propria razza, dalla Causa, ecc.). In questo senso il soggetto paranoico, diversamente da quello melanconico, è consistente, è pienamente identi cato, come ricorda giustamente Lacan, con la propria personalità; coincide con la sua propria personalità.33 Solo quando l’Altro cade e si svela inconsistente, l’esistenza del soggetto può fare la sua apparizione. Non a caso è proprio questa esistenza che Hitler vuole cancellare quando, decidendo di suicidarsi, ordina di bruciare i suoi resti, il suo cadavere, di non lasciare alcuna traccia della sua esistenza. Se Berlino distrutta dai bombardamenti degli Alleati è una immagine traumatica dell’inesistenza dell’Altro – del crollo del mito delirante del Terzo Reich –, Hitler vorrebbe che di questo crollo non restasse alcun testimone, che tutto venisse raso al suolo, il suo popolo cancellato dalla faccia della Terra, nessun sopravvissuto, il suo stesso corpo carbonizzato, ridotto in cenere.34 Prigioniero com’è della sua megalomania, il delirio paranoico non può riconoscere il reale senza senso dell’esistenza e l’inesistenza dell’Altro, non può accettare la caduta della vita nell’esistenza. Diversamente dal soggetto paranoico, il melanconico non è padrone della verità, ma incontra, piuttosto, la sua eclissi, il suo oblio; vive la verità dell’eclissi della verità, incontra il versante traumatico della verità, l’assenza di verità. Nessuna verità è infatti in grado di dare solidità all’esistenza dell’Altro. Il melanconico non incontra nessuna verità se non quella verità senza verità del dolore e della colpa di esistere. È in questo deserto della verità che troviamo la sua lezione più fondamentale: la caduta dell’Altro, la sua perdita, la sua inesistenza fanno emergere l’assioma delirante di indegnità. Se l’Altro non esiste – se né il senso, né la verità esistono – l’orrore senza fondo dell’inesistenza dell’Altro si rivela insieme al reale informe e

insensato dell’esistenza del soggetto. Sono due movimenti sincroni: l’esistenza emerge quando l’Altro non esiste e, a sua volta, la rivelazione dell’esistenza porta con sé la rivelazione dell’inesistenza dell’Altro. Questo è anche il fondo depressivo che accompagna ogni ne analisi che, come tale, implica sempre l’incontro del soggetto con l’inesistenza dell’Altro. Se la clinica della paranoia è una clinica dell’Altro, la clinica della melanconia è una clinica dell’Uno senza l’Altro. Nella melanconia, a erma Lacan, non c’è nulla che signi chi la vita del soggetto; la sua “realtà vivente” viene esclusa da ogni signi cazione.35 In questo senso la clinica della melanconia è una clinica del reale. Il reale non si manifesta, infatti, solo nelle sue forme incandescenti, nella sregolazione pulsionale, nell’invasione anarchica dell’Es, ma anche nelle forme dell’azzeramento della vita, del suo spegnimento, nella forma di un “fuoco freddo”, dello “zero assoluto”: Il fuoco è il reale. Il reale dà fuoco a tutto. Ma è un fuoco freddo. Il fuoco che brucia è una maschera, se posso dire così, del reale. Il reale va cercato dall’altro lato, dal lato dello zero assoluto.36 ESISTENZA, SENSO, ESSERE

La caduta dell’esistenza dell’Altro – la sua inesistenza – comporta l’emergere dell’esistenza senza senso del soggetto e del suo “dolore di esistere”,37 che coincide con la rivelazione del reale dell’esistenza dissociato dal senso. È l’esistenza di un Uno solo senza l’Altro, forcluso dal senso.38 Tutti i signi canti che vengono dall’Altro sono infatti costretti a mantenersi in una relazione di esteriorità rispetto all’immanenza di questo sordo dolore dell’Uno. Non a caso nel Seminario , per de nire il dolore, Lacan invoca il regno della pietra come regno della inamovibilità, della ripetizione eterna, dell’esistenza senza discontinuità e senza mancanza.39 L’esistenza – come recita anche la loso a tragica di Schopenhauer – è dolore in quanto rivela l’Altro come inesistente. Nessun senso, nessuna verità può giusti care il reale sordo di questo dolore nella misura in cui l’Altro si rivela inesistente. Il dolore è, infatti, l’esperienza umana che più di ogni altra rivela l’inesistenza dell’Altro. È questa la verità ultima – la “verità senza verità” – della melanconia: l’esistenza è dolore. Per questo per Lacan il padre è colui che, innanzitutto, iscrive l’esistenza nel campo del senso, annoda esistenza e senso. Solo grazie a questo annodamento dell’esistenza col senso l’esistenza

stessa del vivente può accedere all’essere. Possiamo sintetizzare tutto questo in uno schema provvisorio:

Da questo schema si può dedurre che è solo la signi cazione dell’esistenza, resa possibile dalla sua iscrizione nell’ordine del senso, che consente l’iscrizione del soggetto nell’essere. È il senso a fungere come istanza di mediazione tra l’esistenza e l’essere. Se invece avessimo la forclusione del senso – l’azzeramento della funzione simbolica del padre, P0 nell’algebra di Lacan –, l’esistenza si separerebbe dall’essere manifestandosi come puro reale, come puro “dolore di esistere”. In questo caso – ed è propriamente il caso della melanconia – l’esistenza è il suo stesso reale, è la sua presenza come protuberanza ingiusti cata, eccedenza insensata, presenza “di troppo”, priva di senso. L’insegnamento insuperabile della melanconia è che se la vita esige di entrare nell’ordine del senso per accadere all’essere e se il padre è il Nome che presiede a questa possibilità, nessun senso – nemmeno il “senso del senso” (che non esiste) – potrà mai guarire la vita dalla vita, dalla ferita dell’esistenza, dall’insigni canza delle sue origini. La melanconia non è dunque solo l’esperienza del ritiro del senso – della caduta verticale del senso –, ma è l’impatto con la dimensione strutturalmente precaria del senso, con la sua impossibilità rispetto al reale traumatico del non-senso. Tra senso ed esistenza non c’è infatti sovrapposizione piena, né conciliazione possibile. L’esistenza è la parte dell’essere che non potrà mai essere del tutto coperta dal senso. È una immanenza che residua al di qua del senso. Il nostro schema lo indica: il capo dell’esistenza resta fuori dalla zona di intersezione con il senso da cui scaturisce l’essere. Questa esperienza dell’eccedenza dell’esistenza rispetto alla zona del senso e dell’essere è ciò che irrompe sulla scena della melanconia.

IL LUTTO DEL LINGUAGGIO

Il passo successivo che dobbiamo compiere consiste nel mostrare che il lutto non è solo l’esperienza della simbolizzazione dell’oggetto perduto, ma un e etto inevitabile provocato dall’azione del linguaggio che cancella l’essere della Cosa. Questa azione implica un lutto strutturale, una morti cazione simbolica: la cancellazione della Cosa, la sua perdita irreversibile e la sua dislocazione frammentata negli oggetti del desiderio e del godimento. Di conseguenza è necessario distinguere questo genere di lutto vincolato all’azione del linguaggio (“lutto strutturale”) da un “lutto contingente” legato alla perdita e ettiva di un oggetto, come direbbe Freud, “narcisisticamente signi cativo”. Mentre il primo inerisce all’operatività simbolica del linguaggio, il secondo riguarda l’esperienza localizzata della perdita. Si tratta di una distinzione per certi versi omologa a quella che possiamo stabilire nella clinica della fobia, dove si può distinguere una fobia speci ca che de nisce il modo elettivamente infantile di organizzare l’angoscia non facendola de agrare ma circoscrivendola a un oggetto pauroso, da quella che invece struttura il rapporto primordiale del soggetto con il reale e che non a caso Lacan de nisce come una “difesa”: non esiste costituzione del soggetto se non attraverso una prima presa di distanza dal reale da parte del soggetto.40 In questo caso la fobia assumerebbe una portata primordiale e strutturale, non storica e contingente, derivando dal fatto che il soggetto può istituirsi sempre e solo come un movimento di difesa dal reale. In questo senso preciso esiste una fobia primordiale – non psicopatologica – che esprime la necessità di preservare un intervallo tra il soggetto e il reale e che anticipa le eventuali fobie infantili intese in senso clinico stretto (zoofobie, ecc.).41 Allo stesso modo è sullo sfondo del processo originario di metaforizzazione che dobbiamo collocare l’esistenza di un lutto primordiale che Lacan ci invita a pensare come perdita irreversibile di godimento, svuotamento della Cosa, cancellatura signi cante, trauma del linguaggio. Si tratta di un lutto strutturale diverso dai lutti contingenti che la nostra vita ci impone. Un lutto che precede ogni esperienza del lutto e che si riferisce all’azione che il linguaggio esercita sull’essere umano; solamente se il soggetto perde la sua prossimità con la Cosa può rendersi possibile l’esistenza della parola e, viceversa, è solamente l’esistenza della parola a

imporre al soggetto la perdita irreversibile della Cosa. Per questa ragione, come ha colto lucidamente Bion, nel campo del simbolico la Cosa ha sempre l’aspetto della non-Cosa (No- ing), dell’assenza della Cosa. Lacan lo esprime a suo modo quando de nisce la Cosa come “ciò che del reale primordiale patisce del signi cante”.42 Si tratta di una de nizione importante che mette in evidenza proprio questo rapporto stringente tra lutto e linguaggio.43 Dove c’è il signi cante c’è patimento del reale; dove c’è signi cante c’è svuotamento dell’essere della Cosa, c’è passaggio dalla Cosa alla non-Cosa. Possiamo de nire questo movimento – il movimento stesso della metaforizzazione – un lutto primordiale. L’esperienza del linguaggio – come già Hegel aveva messo in luce – esclude, infatti, ogni forma di immediatezza naturale portando con sé la morte della Cosa. Si tratta di una morti cazione traumatica della vita che non possiamo scansare perché coincide con l’umanizzazione stessa della vita. Il che non esclude che l’azione del linguaggio comporti anche la pulsionalizzazione perversapolimorfa, per usare una gura freudiana nota, della vita stessa e della sua economia libidica. Il linguaggio, infatti, non è solo – è questo il suo lato propriamente hegeliano – negativizzazione dell’essere, cancellazione della sua immediatezza, ma è anche perversione, devastazione attraverso il Verbo dell’esistenza – è questo il suo lato propriamente freudiano-lacaniano.44 Ma rimane il fatto che la vita umana resta intaccata da un meno, da una negatività, dalla perdita dell’immediatezza della vita nella sua forma naturale, istintuale, animale. La condizione del pensiero e della lingua impone la non esistenza della Cosa, la morte della Natura, la frattura dell’immediatezza della vita istintuale, il suo annientamento. È un punto sul quale hanno molto insistito nel campo della psicoanalisi sia Bion che Green: il pensiero implica il dolore dell’assenza, la capacità di tollerare la frustrazione per l’assenza del seno-Cosa. Per questo, come si diceva, se è l’esistenza del simbolo a rendere possibile l’esperienza dell’assenza della Cosa, è, altresì, l’assenza della Cosa a rendere possibile l’esistenza del simbolo. La vita umana non è solo gioia, slancio vitale, apertura, perché essa non può evitare la ferita dell’assenza e della perdita. Nondimeno, questa perdita è anche la condizione della trascendenza della vita stessa e della sua spinta desiderante, della sua ek-sistenza, del suo esistere fuori da se stessa, esposta alle sue possibilità vitali. Quando la negativizzazione della Cosa viene respinta, ri utata, rigettata,

forclusa, quando la frustrazione dell’assenza viene negata e la presenza dell’oggetto non si lascia annichilire dal simbolo, siamo di fronte a una resistenza di tipo melanconico al lutto strutturale imposto dall’azione del linguaggio. L’esito di questa resistenza forclusiva è il sequestro del pensiero che resta assorbito dall’ombra della Cosa. L’assenza dell’oggetto diviene una forma assillante di presenza; è una assenza che, essendo sempre presente, sostituisce la presenza stessa. È quello che un mio paziente traduce e cacemente quando, parlando di un suo vecchio amore non dimenticato, a erma di sentirsi come “ingombrato dalla perdita”. Ritroviamo qui anche la formula preziosa che Lacan, riprendendo una lettera di Freud a Jung, ci ha ricordato: la forclusione è il rovesciamento del lutto. La psicosi non è disponibile a cedere la presenza all’assenza, non consente la sua assenti cazione che è, tuttavia, la condizione stessa di ogni attività di simbolizzazione. Essa ri uta il trauma immanente al linguaggio. È questo il punto di convergenza profondo che unisce perversione e psicosi: il rovesciamento negazionista del lutto impedisce di attraversare la perdita dell’oggetto e di tradurre simbolicamente la presenza in assenza. Psicosi e perversione sono infatti posizioni radicali di ri uto e di rovesciamento del lutto. Non è un caso che la cifra fondamentale del nostro tempo sia proprio quella di esaltare la presenza come unica forma di vita possibile. La connessione perpetua e incestuosa con l’oggetto deve scongiurare ogni possibilità dell’assenza e fomentare lo spettro sempre presente della Cosa insieme al suo impossibile annientamento simbolico. L’adesione melanconica all’oggetto ri uta il trauma del linguaggio e il lutto della Cosa che esso porta con sé. Se il linguaggio è una “struttura di separazione”,45 la melanconia tende a negare ogni forma di separazione; è una posizione del soggetto che si oppone al taglio traumatico del linguaggio. IL TEMPO NEO-MELANCONICO DELL’OGGETTO-COSA

Il nostro tempo ostacola il passaggio dalla presenza all’assenza e, di conseguenza, la nascita del pensiero e la funzione della simbolizzazione.46 In questo consiste la sua inclinazione profondamente melanconica: l’adesione all’oggetto-Cosa prevale sulla necessità della separazione. Il nostro tempo alimenta la credenza idolatrica verso l’oggetto negando lo sfondo di

assenza che accompagna inevitabilmente ogni esperienza umana dell’oggetto. La metamorfosi ipermoderna comporta che la gura dell’oggetto non si stagli su di uno sfondo di assenza, ma ricopra costantemente questo sfondo con un nuovo oggetto; sicché l’oggetto, anziché sorgere dall’assenza, ne costituisce la sua più profonda negazione. Questo oggetto non è un oggetto marcato dalla mancanza, ma un oggetto che si o re come possibile saturazione della mancanza. Da dove viene questa nuova versione dell’oggetto staccato dalla mancanza, questa versione idolatrica dell’oggetto? Indubbiamente da un indebolimento di uso dell’ordine simbolico, da una evaporazione non solo e non tanto dei padri, ma del grande Altro come luogo che custodisce la Legge del linguaggio. Se questa Legge, come abbiamo visto, impone il lutto traumatico della Cosa – dove c’è parola c’è morte della Cosa, c’è il venire meno della presenza della Cosa –, se il linguaggio è una struttura di separazione, il soggetto è esposto all’esperienza della non-Cosa, della sua perdita irreversibile. Non a caso Lacan ha descritto l’azione del linguaggio in termini di rapina e di morso: l’organismo vivente è eroso dall’azione del linguaggio che frammenta, spezzetta, disgrega la sua unità umanizzandola.47 Se invece il simbolico non è attivo, se non c’è operatività della sua Legge, se è disattivato – come tendenzialmente accade a causa dell’a ermazione del discorso del capitalista –, al posto della perdita della Cosa, al posto della sua assenza, avremo una presenza sempre presente di un oggetto che si pro la non come un oggetto sullo sfondo dell’assenza della Cosa, ma come un oggetto-Cosa, un paradossale oggetto melanconico, un oggetto che esclude l’assenza. È questa una cifra decisiva del nostro tempo. Si pensi, per fare solo un esempio, alla cosiddetta iperattività infantile. L’inattività simbolica dell’Altro genitoriale suscita l’iperattività nel bambino che diviene, al tempo stesso, una sorta di appello rivolto verso l’Altro simbolico, verso la sua attivazione, e un ri uto narcisistico radicale di questo stesso Altro.48 Il culto sfrenato della presenza è nalizzato a esorcizzare melanconicamente l’esperienza insopportabile dell’assenza. È qualcosa che possiamo vedere all’opera nell’adolescenza ipermoderna. Un cambiamento di segno è intervenuto ormai da diversi decenni: mentre il disagio della giovinezza un tempo era caratterizzato dall’antagonismo tra l’istanza sovversiva del desiderio e l’imperativo repressivo dell’ordine costituito,

dall’esigenza di staccarsi, di separarsi dalla dimensione conformistica della realtà, nel nostro tempo in primo piano dobbiamo riconoscere una adesione senza scarti del soggetto all’oggetto che sembra non conoscere pause, discontinuità, interruzioni. La connessione all’oggetto deve essere perpetua. Il nostro tempo è radicalmente melanconico perché, come accade nella melanconia come gura clinico-psicopatologica, l’oggetto trionfa, sovrasta il soggetto. Al punto che non è più il soggetto che si dirige – nel movimento immaginario del suo desiderio – verso l’oggetto, ma è l’oggetto che assedia, accerchia, aderisce come una ventosa al soggetto stesso. Sono gli svariati oggetti di godimento messi a disposizione dal mercato che si moltiplicano incessantemente. Sono quelli, commenta Lacan, che si incontrano “sul selciato uscendo, a tutti gli angoli della strada, dietro tutte le vetrine”,49 insomma, dappertutto. Una nuova forma di attaccamento melanconico ha preso il posto del ri uto rivoltoso nei confronti del feticismo dell’oggetto. Mentre l’adolescente vissuto in un’epoca ancora ideologica si nutriva della critica politica al sistema degli oggetti, quello ipermoderno – privato di ogni riferimento ideologico – sembra vivere per l’oggetto, esige di fare parte di quel sistema, non sopporta l’assenza dell’oggetto al punto tale che questo oggetto sempre presente assume le forme incestuose di un oggetto-Cosa. L’iper-presenza dell’oggetto tende a far collassare lo spazio del pensiero e del desiderio, il quale, invece, per aprirsi, necessita di uno sfondo di assenza. La de nizione che Bion propone del tossicomane ri ette perfettamente questo dominio ipermoderno della presenza dell’oggetto sulla sua assenza, o, meglio, l’esigenza di una presenza che neghi ogni forma di assenza. “Il tossicomane – scrive Bion – è colui che non sa aspettare.”50 Il nostro tempo interdice l’attesa perché non riesce a sopportare il lutto della Cosa; esso reagisce alla sua assenza con l’iperattività maniacale del discorso del capitalista che vorrebbe negare il tempo morto, occultare le esperienze dell’abbandono, della solitudine, della malattia e della morte dove non è la presenza dell’oggetto, ma la sua assenza a trionfare. Nella ispirata de nizione del tossicomane proposta da Bion troviamo in primo piano non solo la cifra clinica della tossicomania in generale, ma anche quella del nostro tempo in quanto tempo intossicato: spinta all’evacuazione, all’agire senza pensiero e senza mente, impossibilità del pensiero, ri uto della frustrazione, allucinazione come “via breve” del

soddisfacimento, anti-sublimazione o distruzione della sublimazione, addiction, godimento vincolato al primato autistico della necessità assoluta della scarica, dell’agito pulsionale. In modo semplice ma netto Bion sintetizza il cortocircuito della pulsione sull’oggetto reale del godimento che forclude ogni genere di assenza e che caratterizza la mutazione ipermoderna dell’uomo. L’IRRIGIDIMENTO DELLA PRESENZA

Ne L’uomo senza inconscio avevo de nito la dipendenza dall’oggetto come una reazione difensiva al rischio del contatto con la mancanza e con il desiderio che insorge sullo sfondo della perdita della Cosa introdotta dall’azione del linguaggio. È la parentela stretta che unisce la tossicomania all’universo della perversione e della psicosi. In queste posizioni soggettive, sebbene in modi diversi, viene meno il ritmo che alterna simbolicamente la presenza con l’assenza. È un passaggio fondamentale della ri essione del Basaglia psichiatra-fenomenologo sulla psicosi. Nelle psicosi verrebbe abolito l’intervallo che disgiunge il soggetto dalla presenza dell’Altro; questo intervallo simbolico subirebbe, come nel caso della paranoia, una abbreviazione estrema.51 Per il paranoico non “c’è più distanza fra lui e lo sguardo d’altri, egli è oggetto per altri tanto da arrivare a essere posseduto dall’altro. L’ostile in questo caso devasta gli argini protettivi del soggetto”.52 Ma si potrebbe aggiungere che questa mancanza di intervallo può anche assumere le forme dell’estrema dilatazione, come accade nella melanconia. Se nel risucchio della distanza il soggetto può avvertire costantemente la presenza dell’Altro come una minaccia invasiva che sconvolge ogni con ne che separa il soggetto dall’Altro – come avviene nella paranoia –, nella dilatazione estrema dell’intervallo il soggetto perde ogni contatto con il mondo, si sgancia dall’Altro senza preservare alcuna forma di legame, perdendosi in una lontananza siderale – come avviene nella melanconia. L’osservazione di Basaglia sulla perdita dell’intervallo tra soggetto e Altro ci conduce a pensare che nella clinica delle psicosi venga a mancare quella dialettica del fort-da descritta da Freud in Al di là del principio di piacere attraverso il celebre gioco del rocchetto del piccolo Ernst. L’invenzione di questo gioco e il suo ritmo hanno per condizione l’assenza generata dal movimento di separazione introdotto dall’andirivieni della madre. È un

gioco che, com’è noto, si articola simbolicamente come una scansione di assenza (fort) e presenza (da). In un primo tempo il bambino allontana il rocchetto da sé facendolo sparire, ripetendo in questo mondo l’allontanamento della madre (fort, via). In un secondo tempo, invece, lo richiama alla presenza (da, qui), scongiurando la sua sparizione. Ebbene, la mia tesi è che nel tempo ipermoderno questa dialettica si sia fratturata spezzandosi in un fort assoluto o in un da assoluto. Da una parte il fort del rigetto, della sottrazione, della sparizione, del ri uto, della rottura senza mediazione del legame; dall’altra parte, il da che esige la presenza assoluta e incestuosa dell’oggetto-Cosa, la necessità del supporto anaclitico dell’oggetto, la sua eterna presenza. La frattura dell’alternanza simbolica dell’oscillazione del fort-da comporta sia un possibile irrigidimento del fort (via) che un possibile irrigidimento del da (qui). Avremo, dunque, due distinte espressioni cliniche dello sfaldamento della dialettica tra assenza e presenza. Nel caso dove prevale l’irrigidimento del fort, avremo una assenza che ri uta ogni forma di presenza, o meglio, che diviene essa stessa una forma assoluta di presenza; l’intervallo si allarga, si dilata; il soggetto sprofonda melanconicamente nell’assenza dell’oggetto che diviene in realtà la forma più estrema della sua presenza. Nel secondo caso invece, quando prevale l’irrigidimento del da, avremo la presenza insistita dell’oggetto-Cosa a escludere l’assenza: la necessità della presenza adesiva dell’oggetto che impedisce il passaggio verso la mancanza e la trascendenza del desiderio. La frattura della dialettica tra il fort e il da e il suo conseguente irrigidimento unilaterale sono cruciali per intendere la clinica contemporanea e la sua biforcazione fondamentale: l’allontanamento della presenza verso l’assenza o l’assillo della presenza che esclude l’assenza. Da una parte lo scivolamento verso una separazione senza più connessione con l’Altro, l’irrigidimento mortifero del fort, del ri uto, dell’allontanamento; dall’altra l’impossibilità di sostenere l’assenza, l’esigenza di una presenza sempre presente, di un da compulsivo che la girandola degli oggetti o erti dal mercato globalizzato sembra favorire incentivando l’inclinazione maniacalizzante che comporta il rigetto di ogni esperienza della assenza e della mancanza. La clinica psicoanalitica può aiutarci a esempli care i due estremi di questa oscillazione. Sul lato dell’irrigidimento del da possiamo collocare

quell’esigenza intrattabile della presenza che caratterizza in modo esemplare le cosiddette dipendenze patologiche (tossicomanie, bulimie, alcolismo, dipendenza dagli oggetti tecnologici, ecc.). L’impossibilità di tollerare la frustrazione, l’assenza, o, come direbbe Bion, l’attesa, sospinge il soggetto verso la ripetizione compulsiva di un godimento che vorrebbe escludere il desiderio. Non si tratta semplicemente di uno schiacciamento del desiderio sul carattere imperioso del bisogno primario, come alcuni autori hanno pensato,53 quanto piuttosto, almeno a mio giudizio, di una estinzione del desiderio stesso, di una evacuazione interna dell’angoscia che la sua trascendenza irriducibile implica. Nelle dipendenze patologiche è la presenza dell’oggetto-Cosa che tende a uccidere il simbolo e non viceversa. È quello che accade in modo eloquente nel fenomeno della crisi bulimica: la divorazione dell’oggetto punta a raggiungere la Cosa del godimento escludendo ogni forma di mancanza e di desiderio. La fame bulimica non è in rapporto all’oggetto orale ma all’oggetto-Cosa. È un insegnamento che possiamo ricavare dal celebre caso clinico di Ellen West di Ludwig Binswanger. L’incessante spinta a mangiare che si impossessa del soggetto non è diretta verso l’oggetto orale ma verso un oggetto-Cosa irraggiungibile. Per questa ragione alla ne di ogni abbu ata non c’è alcuna sensazione di pienezza, di sazietà, di soddisfazione, ma solo una “orrenda sensazione di vuoto”.54 La presenza di questo vuoto inestinguibile mostra che quello a cui Ellen aspira non è il semplice soddisfacimento dell’appetito, ma il raggiungimento della Cosa, la negazione della sua separazione dall’oggetto-Cosa. Anche la paura di ingrassare non è primaria ma secondaria e difensiva rispetto a questa urgenza pulsionale di ingoiare la Cosa. La bramosia che la contraddistingue se per un verso ri ette il carattere acefalo della pulsione – il suo autismo strutturale – per un altro verso porta con sé la neutralizzazione del desiderio. Lo stordimento del godimento bulimico appare come una anestesia altrettanto estrema di quella ottenuta attraverso la sua privazione anoressica. È questo un altro degli insegnamenti maggiori del caso di Ellen West: l’angoscia domina sia il tempo della divorazione che quello della restrizione. È il “laccio” dal quale Ellen non può liberarsi. Angoscia di ingrassare, angoscia di essere piena, angoscia di cadere nel vuoto. Il riempimento del corpo attraverso la divorazione bulimica del cibo e la via ascetica del ri uto anoressico del cibo sono due modi per ripararsi da

un’angoscia che, in realtà, non si lascia vincere. Il suo convulso bisogno di riempirsi non genera mai alcuna soddisfazione ma solo la ripetizione dello stesso inesorabile vuoto. La sua iperattività si rivela come una assoluta prostrazione: Il godimento si trasforma in frenesia di godimento e in bramosia per il fatto che, rappresentando un appagamento e un acquietamento meramente momentanei, getta sempre e di nuovo la presenza nel vuoto esistentivo e dunque la lascia sempre e di nuovo cadere nel mondo […]. Il cappio è in questo modo stretto, la prigionia è irrimediabile.55

Questa febbrile esigenza del riempimento che domina la vita di Ellen West – del da senza fort – la ritroviamo anche nella clinica dell’iperattività, non solo nella sua forma strettamente clinico-diagnostica – angoscia irrequieta del bambino di fronte all’inattività simbolica dell’Altro –, ma anche nella sua estensione sociale. Non a caso Lacan ha decifrato attraverso la gura psicopatologica della mania la struttura stessa del discorso del capitalista: eccitazione permanente e mortale che invoca costantemente oggetti da consumare sino a consumare se stesso in questa stessa spinta compulsiva al consumo.56 La mania costituisce infatti – accanto alla melanconia – l’anima essenziale della vita ipermoderna e del suo bipolarismo di fondo. La temporalizzazione del soggetto si contrae in una assolutizzazione smembrata del presente. La megalomania e la millanteria dell’Io maniacale comportano una negazione della sua provenienza e della sua destinazione. Il suo tempo si consuma in una successione di istanti senza legame tra loro, in puri presenti isolati; non c’è soggettivazione, costruzione, progetto, ma solo presunzione e delirio di grandezza. Il soggetto si disperde nella girandola di “momenti” che non generano alcuna forma. Tutto perde di profondità; alla super cialità del “momento” segue la riduzione dell’alterità dell’Altro a mera cosa da usare o da consumare.57 In questo senso l’eccitamento maniacale o re la base psicopatologica dell’iperattività di usa alimentata dal discorso del capitalista: essere dappertutto e in nessun luogo. Quando invece è la polarità del fort a irrigidirsi, recidendo ogni rapporto con la scansione del da, avremo a che fare con posizioni patologiche caratterizzate da ritiro libidico, ripiegamento narcisistico, chiusura, rottura del legame, separazione che viene agita nella realtà più che mediata dal simbolo. In primo piano non è tanto l’esigenza della presenza, ma

l’abbandono, la derelizione, l’auto-esclusione, l’uscita del soggetto dalla scena del mondo. È in questa seconda oscillazione che possiamo collocare le nuove tendenze melanconiche del soggetto. In primo piano abbiamo il suo annullamento nirvanico, il suo sprofondamento isolazionista, il suo ri uto estremo dell’Altro. Troviamo questa tendenza espressa con particolare e drammatica forza espressiva in certe anoressie che de niamo, appunto, neo-melanconiche, dove il soggetto, ri utando l’esperienza traumatica dello svezzamento dal seno – lo sfondo d’assenza necessario della non-Cosa –, resta abbarbicato adesivamente all’oggetto primario (all’oggetto-Cosa) ri utando qualunque forma di sublimazione. Si tratta di un attaccamento melanconico, non dialettico, alla presenza che scaturisce dal ri uto del trauma dell’assenza e della perdita dell’oggetto, che però tende a capovolgersi nell’allontanamento e nel ritiro del soggetto dalla scena del mondo. È questo il quadro clinico complesso in cui possiamo iscrivere le nuove melanconie. ANORESSIE E NUOVE MELANCONIE

La clinica psicoanalitica dell’anoressia ha aperto la porta a una nuova forma di melanconia, dove il tarlo della colpa e dell’auto-rimprovero morale, dell’auto-ingiuria e dell’attesa delirante della punizione della Legge non appaiono più come temi centrali. In passato ho lungamente commentato la biforcazione che separa due forme prevalenti dell’anoressia isolate con precisione da Lacan: quella isterica e quella melanconica.58 Ne I complessi familiari nella formazione dell’individuo Lacan sostiene che l’anoressia sia una forma di melanconia atipica da iscrivere all’interno delle più gravi forme psicosomatiche e delle tossicomanie. Ne La direzione della cura e i principi del suo potere avanza invece l’ipotesi che l’anoressia porti con sé un tratto isterico irriducibile nel preservare una insoddisfazione di fondo che nessun oggetto è adeguato a colmare. Con questa seconda tesi Lacan insiste nel porre in evidenza il carattere dialettico del ri uto anoressico attraverso il quale il soggetto rimarca l’eterogeneità della soddisfazione del desiderio dalla soddisfazione naturale dei bisogni; il ri uto serve il desiderio perché obbliga l’Altro a distinguere il segno dell’amore invocato dall’anoressica dall’oggetto nalizzato al mero soddisfacimento del bisogno. Sarebbe questa, appunto,

l’anima isterica dell’anoressia: il ri uto è nalizzato a ribadire l’eccentricità del desiderio rispetto al piano materiale del mero soddisfacimento dei bisogni. Diversamente dalla dimensione isterica del ri uto anoressico – il “No!” al cibo è un modo per invocare il segno del desiderio dell’Altro –, la forma melanconica dell’anoressia de nisce l’anoressia più come una difesa del desiderio del soggetto, come una sua atro a, un suo impaludamento, una sua negazione. In queste forme estreme di anoressia il desiderio tende infatti ad assumere delle con gurazioni larvali. In primo piano emerge una morti cazione non simbolica ma reale. È il tratto che, come abbiamo visto, caratterizza le melanconie in generale. In questo caso l’anoressia non è un ri uto dell’Altro nalizzato a fare mancare l’Altro – come accade nell’anoressia isterica –, ma un vero e proprio “appetito di morte” che sospinge la vita verso una sorta di suo auto-annullamento.59 In primo piano non è qui il ri uto come manovra dialettica nalizzata a preservare l’eterogeneità tra il bisogno e il desiderio, ma il ri uto della vita in quanto tale. Per questo Lacan de nisce l’anoressia come un “suicidio non violento”, dunque di erito.60 La melanconia anoressica non ha – diversamente da quella istericonevrotica – come oggetto l’ingovernabilità della pulsione sessuale e dell’alterità del corpo – il con itto non è tra l’Io e l’Es –, ma quella della pulsione di vita in quanto tale. Tuttavia, diversamente dalla melanconia più classica, la spinta suicidaria non tende a innescare veri e propri passaggi all’atto, ma una specie di sua innervazione somatica. Il soggetto vive nella morti cazione reale della vita senza che si veri chino necessariamente passaggi all’atto suicidari. Il di erimento del suicidio indica nuovamente la presenza di una morti cazione reale e non simbolica: il sentimento della vita non si è radicato su cientemente nel cuore del soggetto; la vita sembra sprovvista di spinta, slancio, energia vitale, appare svuotata, sfocata, disabitata dal desiderio. Diversamente però dal quadro tipico della melanconia freudiana, nelle nuove melanconie non c’è più traccia della colpa e del masochismo morale che ne consegue; non emerge l’istanza dell’auto-accusa e dell’auto-rimprovero; il soggetto non è schiacciato dal peso sadico di una Legge in essibile. La marca della colpa sembra essere stata sostituita da quella, meno incisiva e visibile, dell’apatia, del ritiro, della chiusura, dell’anestesia, nanche dell’atarassia. La vita anoressica in queste

nuove forme di melanconia – diversamente dal caso di Ellen West di Binswanger – non appare più dilaniata sotto il peso dell’auto-rimprovero, torturata dal senso di colpa, lacerata dall’auto-accusa, ma semplicemente richiusa autisticamente sulla propria esistenza. Il fenomeno più eclatante che caratterizza le nuove forme di melanconia non è più quello della colpa e della Legge ipermorale del Super-io, quanto la sua paradossale inconsistenza. Il soggetto appare trincerato in una posizione radicale di difesa dalla eccedenza ingovernabile della vita. La sua imperturbabilità lo spinge a sganciarsi da ogni forma di legame, a restringere non solo e non tanto le proprie abitudini alimentari, ma l’orizzonte della sua stessa vita. Il desiderio del soggetto è in condizione larvale, sprovvisto di forza, di slancio; è un desiderio semimorto. IL CORPO SPENTO

Possiamo riconoscere nel fenomeno del “corpo spento” uno dei tratti ricorrenti delle nuove forme di melanconia; il soggetto sembra mancare di vita. Il suo corpo appare solo biologicamente vivo, ma, in realtà, è un corpo spento, non erotizzato, non animato dal desiderio. È questo, com’è noto, un tratto caratteristico della depressione in senso lato: la vita del depresso è una vita senza vita, s nita, priva della forza generativa della vita. Ma cosa distingue le nuove forme della melanconia dalla depressione ordinaria? La depressione clinicamente – diversamente dalla melanconia classica, che appartiene al registro delle psicosi – ha sempre una radice strutturalmente nevrotica. Essa concerne la di coltà del soggetto ad attribuire un adeguato valore fallico alla sua vita, a soggettivare il desiderio come proprio. Non a caso Lacan de nisce la depressione nevrotica una “viltà morale”, l’incapacità di sostenere con decisione il proprio desiderio.61 Più precisamente essa riguarda la di coltà del soggetto a separare il proprio desiderio dalla domanda dell’Altro; quando il desiderio è sommerso dalla domanda dell’Altro c’è a etto depressivo. Il passo indietro di fronte al proprio desiderio fa scivolare regressivamente il soggetto verso l’abbattimento sconsolato della depressione. In questi casi la Legge della castrazione non è forclusa, ma pienamente attiva. Lo è a tal punto da in iggere al soggetto una ferita narcisistica particolarmente dolente; la castrazione viene scambiata per una mutilazione insanabile. Diversamente,

nelle nuove melanconie il problema non è più quello del passo indietro rispetto al proprio desiderio – viltà morale del depresso secondo Lacan –, ma del non-accesso al desiderio. Non c’è con itto tra desiderio e Legge, non c’è divisione soggettiva che sorga a causa di questo con itto, ma una impossibilità del soggetto di accedere al suo stesso desiderio. Il soggetto neo-melanconico osserva la vita dall’esterno come se non avesse alcun diritto di partecipare al suo gioco. È una declinazione particolare della forclusione che non colpisce direttamente il signi cante del Nome del padre, ma il sentimento della vita in quanto tale. Il fenomeno centrale delle nuove melanconie manifesta l’altra faccia dell’eccitamento maniacale di cui si nutre il discorso del capitalista. Non è la viltà morale della depressione, non è il ri uto del desiderio, il cedimento sulla sua Legge, il venire meno alla sua vocazione, ma la sua forclusione: il soggetto vive l’assenza del desiderio come una condizione d’essere permanente. La nuova melanconia si disgiunge da quella freudiana a partire dal suo contenuto extra-morale. La centralità della colpa viene sostituita dalla centralità del peso della vita. Senza la spinta propulsiva del desiderio la vita tende infatti ad appassire, a ritirarsi da se stessa. Diventa un peso morto da trascinare. Ma non è un peso che lacera il soggetto. Piuttosto lo sprofonda, lo inabissa in un vuoto in nito, in una sensazione di usa di insensatezza. Con la precisazione che il vuoto non nasce dall’assenza dell’oggetto – per esempio come accade quando un soggetto sviluppa una reazione depressiva dopo la perdita della persona amata – ma dalla sua presenza eccessiva. È uno dei tratti fondamentali delle nuove melanconie: al centro non abbiamo l’oggetto perduto – presente nella forma della sua assenza –, come avviene nella melanconia freudiana, ma il soggetto allacciato a doppio giro con l’oggetto senza il quale si sente esso stesso perduto. Tuttavia questo oggetto non è un oggetto che causa il desiderio, ma un oggetto che sostiene e rassicura il soggetto. Una sorta di protesi che difende il soggetto dall’irruzione dell’angoscia. Questa presenza costante dell’oggetto comporta altresì che il proprio corpo sia vissuto dal soggetto come peso, ingombro, piombo da trascinare, corpo senza desiderio. È un altro tratto distintivo delle nuove melanconie: l’assenza del desiderio, la sua forclusione, la sua disattivazione. È il mistero di un corpo biologicamente vivo, ma morto in ciò che dovrebbe renderlo invece vivente, morto nella presenza del desiderio. Il corpo libidico cessa di essere luogo

della forza della pulsione per mostrarsi solo come peso insopportabile. Il corpo-forza è il corpo libidico-pulsionale; il mito della lamella di Lacan lo esalta come sostanza- usso “ultrapiatta” che allarga il campo della vita.62 Diversamente il “corpo peso” è il corpo ridotto alla sua nuda fatticità; è un corpo disabitato dal desiderio. La forza della pulsione sembra non pulsare più; il corpo appare come un corpo disabitato dalla forza della libido – in perdita di libido, direbbe Freud –, un corpo che si manifesta senza forza. Un ristagno, un blocco, congela la forza trasformandola in peso. Sono gli enunciati che ascoltiamo frequentemente nei pazienti, soprattutto giovani. Il corpo spento è un corpo a itto da un peso più che animato da una forza: è un corpo che viene vissuto dal soggetto come “un peso da trascinare” – così si esprimeva una mia giovane paziente che da tempo aveva deciso di non frequentare più la sua scuola. Un’altra – gravemente anoressica – vive lamentandosi della “rabbia di dover respirare” che la a igge ogni giorno. L’orizzonte del mondo si coarta, si restringe, si cristallizza. Il corpo spento è quello che incontriamo nelle anoressie restrittive gravi, ma anche in quelle adolescenze che scelgono la via del ritiro sociale e della chiusura autistica. È un corpo a itto da una morti cazione reale e non simbolica. Nelle anoressiche gravi appare come un corpo ibernato, mummi cato, nirvanizzato. Un corpo “disvitale”, lo de niva una giovane paziente. Se il corpo vivente è un corpo acceso dal desiderio, il corpo spento è un corpo dove il desiderio si è ritirato; è un corpo disabitato dal desiderio. Non c’è senso di colpa o delirio morale, non c’è l’attesa della punizione esemplare della Legge, c’è semplicemente l’emergenza dell’esistenza come peso da trascinare. Mentre il trionfo dell’oggetto nella melanconia freudiana sospinge il soggetto fuori dalla scena del mondo, nella neo-melanconia vediamo disegnarsi una economia di risparmio, omeostatica, apatica, ridotta al minimo del dispendio. Una applicazione letterale del principio di piacere: evitare ogni genere di tensione interna all’apparato psichico. Il vuoto si è sganciato dal desiderio e non è più in relazione alla mancanza. Appare come una mancanza staccata, scissa, separata dal desiderio.63 È un vuoto de-erotizzato, ma non caotico, come invece spesso accade nelle psicosi; predomina il segnale di un’assenza impensabile, inelaborabile, senza simbolo. A nché vi sia desiderio è necessario infatti svuotare la presenza sempre presente dell’oggetto. Nelle nuove melanconie l’assenza del desiderio

mostra, al contrario, che il solo orizzonte possibile è quello della semplice presenza dell’oggetto. È una manifestazione dello spirito del nostro tempo: l’accelerazione maniacalizzante della vita, anziché coprire l’esistenza del corpo come peso, la rivela. Lo spazio pubblico del divertissement lascia il posto al ritiro in uno spazio privato, isolato dal mondo, separato. Il nuovo melanconico ha necessità della Cosa e non degli oggetti; per questa ragione il suo pro lo è quello di un anti-consumatore. Tuttavia il proprio spazio di reclusione non è il luogo dove incontrare l’assenza, piuttosto una specie di nicchia che custodisce le spoglie dell’oggetto-Cosa. Nessun senso di colpa accompagna questo vissuto, nessun delirio di rovina, nessuna spinta all’auto-denigrazione, nessuna auto-accusa. In primo piano c’è solo una profonda atrofia del desiderio. La prevalenza – diversamente dalla melanconia freudiana – non è quella dell’azione sadica del Super-io, ma della dimensione anti-vitale dell’esistenza. Sullo sfondo un difetto della liazione simbolica nella trasmissione del sentimento della vita. È un dato clinico-anamnestico assai frequente: in questi casi il soggetto si iscrive in una catena generazionale dove la trasmissione – l’eredità – del desiderio non è avvenuta. Si tratta dell’esito di una cattiva liazione: solo se il desiderio dei genitori è stato su cientemente attivo potrà consentire la sua trasmissione nella vita del glio. Diversamente, quando questa condizione è assente la trasmissione del desiderio si inceppa, non risulta generativa, la vita può a ossarsi nel reale dell’esistenza senza senso, nell’insigni canza delle sue origini. È una sottolineatura clinica insistente di Lacan: quando manca il desiderio dei genitori, la vita accade come priva di senso; diviene preda di una tendenza mortifera: Il soggetto da quando viene al mondo cade in una catena signi cante [...] è soggiacente a quello che chiamiamo “desiderio dei genitori”. È di cile non tenerlo in considerazione rispetto alla nascita del soggetto in questione.64

Nelle nuove melanconie la morti cazione reale dell’esistenza – diversamente da come frequentemente accade nelle melanconie più tipiche – non assume le forme dirette del passaggio all’atto suicidario, di una spinta risoluta verso la morte. Piuttosto assistiamo a una progressiva devitalizzazione della vita, al suo ritiro autistico, alla sua chiusura securitaria; a vite che, anziché essere sospinte verso il passaggio all’atto suicidario, incarnano il ri uto della vita nella spoliazione di fatto del loro

desiderio più singolare. NUOVE MELANCONIE E PRINCIPIO DI NIRVANA

Quando l’esistenza può diventare un peso? Quando prende forma la melanconia? Lo abbiamo visto: quando il senso non si allaccia più all’esistenza consentendo la sua iscrizione nell’essere. Nelle nuove melanconie la forclusione colpisce innanzitutto la trasmissione del desiderio. Senza il senso del desiderio, la vita si rivela come pura esistenza e il corpo come peso in quanto non è animato e vivi cato dal desiderio. Lacan aveva colto lucidamente questo aspetto particolare attraverso le sue ri essioni sull’anoressia melanconica. Non a caso ne I complessi familiari si riferisce al desiderio anoressico-melanconico come a un “desiderio della larva”.65 Esisterebbe una dimensione larvale del desiderio, come a dire un “desiderio senza desiderio”, un desiderio di non aver desiderio, un desiderio di essere senza desiderio. È la dichiarazione esplicita di una mia paziente che riconosce in questo desiderio paradossale e larvale – “il mio solo desiderio è quello di non desiderare più nulla” – il solo signi cato del suo desiderio. In un articolo prezioso titolato Il problema economico del masochismo, Freud introduce, sull’onda delle ri essioni sulla pulsione di morte elaborate in Al di là del principio di piacere, il “principio del nirvana”.66 In questo principio è in gioco una distorsione, o meglio una radicalizzazione distorta, del principio di piacere. Il principio di piacere è un principio di tipo edonistico che sospinge l’apparato psichico a evitare le eccitazioni e i turbamenti interni, nell’obiettivo di ridurre al minimo il dispiacere mantenendo la tensione interna ai livelli più bassi possibili. Il principio di piacere è un principio omeostatico che persegue un ideale (aristotelico) di equilibrio, capace di evitare le inquietudini provocate dai sussulti eccitatori interni o provenienti dall’esterno. Questa tendenza all’equilibrio rigetta l’eccesso ingovernabile dell’esistenza facendo tendenzialmente coincidere la tensione con il dispiacere. La nirvanizzazione del principio di piacere o, se si preferisce, la sostituzione del principio di piacere col principio di Nirvana provoca un mutamento fondamentale nell’orientamento dell’apparato psichico. Per chiarire i rapporti tra questi due principi Freud si serve di un’espressione

veramente notevole e illuminante che chiarisce la struttura delle nuove melanconie. Egli scrive che la radicalizzazione del principio di piacere operata dal principio di Nirvana consiste nella sua “narcotizzazione”.67 Mentre il principio di piacere esprimerebbe una tendenza del soggetto verso il raggiungimento di un punto di equilibrio che ridurrebbe l’impatto spiacevole delle tensioni interne ed esterne, il principio di Nirvana trasformerebbe questo stesso equilibrio in una forma di narcosi, di anestesia. Narcotizzazione del principio di piacere signi ca infatti puntare allo spegnimento dell’increspatura ingovernabile ed eccedente del desiderio. È un esempio massimo di cosa signi ca l’irrigidimento del fort: il fort senza da è sconnessione, frattura del legame con l’Altro, negazione senza dialettica della inquietudine inaggirabile della vita. La logica che ispira le nuove melanconie può essere illustrata attraverso il ricorso al principio di Nirvana e al suo funzionamento. Non c’è spazio per il delirio morale, per l’auto-denigrazione o l’auto-accusa melanconiche classiche, né per il senso di colpa, ma solo per la spinta a ridurre al minimo ogni espressione vitale del soggetto, a divaricare il soggetto dalla vita. Se il principio di piacere impone alla vita la riduzione delle tensioni al loro minimo, la sua narcotizzazione indica che questo minimo tende a ridursi sino a provocare lo spegnimento del sentimento della vita, la chiusura, la separazione della vita dal mondo. La tendenza è a ra reddare la corrente pulsionale; il corpo pulsionale non è più il luogo della pulsione di vita, ma di una sottrazione, di una evacuazione delle tensioni inevitabili che l’esistenza della pulsione innesca nel soggetto. Un tratto particolare di queste nuove melanconie è quello dell’attacco al proprio corpo, del suo ri uto. In generale nella clinica delle depressioni gravi il corpo tende sempre a essere ri utato, a essere vissuto come uno scarto. Questo ri uto può assumere le forme di un odio per se stessi radicale. È ri uto della propria vita in quanto vita viva. Il ri uto del corpo è una manifestazione dell’odio verso il proprio corpo. Questo odio non ha più però lo spessore delirante della certezza di indegnità e del sentimento irreparabile della colpa proprio della melanconia classica. Nondimeno, anche in questo caso la morti cazione non prende la via del simbolo, non è una morti cazione simbolica, ma passa direttamente nel reale. Una mia paziente, essendo medico, si sottoponeva a continui salassi per sottrarre quote di vita alla sua vita. Metteva in atto con questa pratica la

morti cazione reale come puri cazione del sangue dalla presenza tossica della Cosa del godimento. Togliere sangue al corpo era un modo per puri carlo dalle sporcizie della vita, dall’orrore per il godimento. Il carattere metodico e apatico con il quale si dedicava a queste operazioni – unito a una grave forma di anoressia restrittiva – mostrava con chiarezza che il tratto più essenziale delle nuove melanconie non consiste nella autoagellazione morale, ma in un movimento securitario di chiusura verso la vita. Non tanto perché – come accade nelle melanconie classiche – la temporalizzazione del soggetto si trova alterata dal predominio del passato sul presente e sul futuro, ma perché subisce una sorta di contrazione regressiva. Non c’è il tarlo di un auto-rimprovero incessante (“Se non avessi fatto quella scelta lei sarebbe ancora viva”; “Se non avessi perduto il lavoro tutto sarebbe ancora sereno”), né la tipica identi cazione freudiana all’oggetto perduto come modo per evitare lo strappo della perdita dell’oggetto, ma una contrazione e una regressione della vita. Non prevale l’emergenza dannata della colpa o l’azione fustigatrice e sadica del Super-io. Il nuovo melanconico appare piuttosto come lo scarto inquietante dell’anima maniacale del discorso del capitalista. Scaturisce come l’estraneo di quella eccitazione iperattiva della vita che contraddistingue l’epoca ipermoderna segnalando come il prodotto paradossale di questa maniacalizzazione di usa sia in realtà il ri uto e la chiusura della vita verso la vita. Bisogna mettere in connessione l’eccitazione maniacale con la pulsione di morte.68 La nuova melanconia prende le forme del ritiro, della regressione e dell’isolamento. La clinica del vuoto che caratterizzava la melanconia più classica si complica in una clinica solida, securitaria, che ha come suo punto perno l’impossibilità di accendere la spinta generativa del desiderio e la difesa rigida nei confronti del carattere ingovernabile della vita. La solidità illusoria della chiusura del soggetto su se stesso prende così il posto dell’auto-rimprovero e del delirio morale della colpa. Il ritiro sociale, il godimento autistico, ma anche l’enfatizzazione dei con ni della sicurezza identitaria esprimono la faccia (melanconica) in ombra della maniacalità febbrile del discorso del capitalista. Considerando l’importanza che sempre più assume nel nostro tempo la dissoluzione delle identità e dei con ni in un movimento di de-territorializzazione sospinto, le nuove melanconie ci ricordano che il soggetto nutre una passione profonda per il chiuso, per la non contaminazione, per la difesa dei propri con ni e della propria identità

solida, per l’adesione alla presenza senza discontinuità dell’oggetto-Cosa.

1. Per un inquadramento delle ri essioni di Freud e Lacan sulla melanconia, mi permetto di rinviare a M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica, cit., capitolo 5. 2. Green è stato, tra gli psicoanalisti del dopo Freud, quello che probabilmente si è più so ermato sulla natura extra-metaforica della clinica contemporanea. L’ipotesi di costruire una “terza topica” in grado di dar conto di questa nuova clinica ha orientato tutta la sua ricerca teorica. Cfr. A. Green, Psicoanalisi degli stati limite. La follia privata, tr. it. Ra aello Cortina, Milano 1991, p. 262; M. Balsamo, André Green. Il potere creativo dell’inconscio, Feltrinelli, Milano 2018. 3. Cfr. A. Green, in collaborazione con J.-L. Donnet, La psicosi bianca, tr. it. Borla, Roma 1992, e Psicoanalisi degli stati limite…, cit. Su questi temi vedi anche il recente M. Balsamo, Ascoltare il presente. Tempo e storia nella cura psicoanalitica, Mimesis, Milano-Udine 2019. 4. Cfr. M. Balsamo, André Green…, cit., p. 23. 5. Imprescindibile su questo tema il lavoro di Jean-Pierre Lebrun, in particolare J.-P. Lebrun, La perversion ordinaire. Vivre ensemble sans autrui, Denoël, Paris 2007. 6. Cfr. M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit. 7. Cfr. J. Lacan, Kant con Sade, tr. it. in Scritti, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1976, vol. 2, p. 787. Su questo tema vedi il capitolo , in questo libro. 8. Per un inquadramento di questa problematica, vedi M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica, cit., in particolare i capitoli 2 e 3. 9. Cfr. S. Freud, Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiogra camente (Caso clinico del presidente Schreber) (1910), in , vol. , p. 396. 10. J. Lacan, Del “Trieb” di Freud e del desiderio dello psicoanalista, in Scritti, cit., vol. 2, p. 856. 11. In seguito Lacan emancipa la forclusione dal meccanismo speci co della psicosi – assenza del signi cante fondamentale del Nome del padre in grado di ordinare l’insieme dei signi canti – per farne invece la condizione strutturale dell’essere parlante in rapporto al reale del godimento: l’incandescenza del reale non può essere integralmente neutralizzata, né ospitata dal simbolico; il reale forcluso ritorna in modo erratico e abusivo lacerando irreparabilmente l’ordine simbolico, o, meglio, mostrandone la strutturale inconsistenza. Cfr. M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica, cit., capitoli 2 e 3. 12. J. Lacan, Il Seminario. Libro . Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959), tr. it. Einaudi, Torino 2013, p. 371. 13. Cfr. J. Lacan, I complessi familiari nella formazione dell’individuo, tr. it. Einaudi, Torino 2005, p. 59. 14. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro . L’etica della psicoanalisi (1959-1960), tr. it. Einaudi, Torino 1994, p. 155. 15. J. Lacan, Kant con Sade, cit., p. 787. 16. Freud, Lutto e melanconia, in , vol. 8, p. 104. 17. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro . L’angoscia (1962-1963), tr. it. Einaudi, Torino 2007, p. 321. 18. Il nostro tempo porta con sé una cifra psicotica, oltre che perversa, proprio per questa ragione: la sua tendenza è quella di rovesciare il carattere fatalmente penoso del lavoro del lutto in una allucinazione sociale che vorrebbe escludere la “via lunga”, come direbbe Freud, del lavoro, della sublimazione e del desiderio. 19. S. Freud, C.G. Jung, Lettere tra Freud e Jung (1906-1913), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1990, p.

41. 20. Sono stati Abraham e Torok a proporre questa distinzione. Nell’incorporazione come gura melanconica l’oggetto perduto viene sostituito e preservato in una nicchia segreta interna. È, dunque, un oggetto, al tempo stesso perduto ma presente. Un uomo che al ristorante ordina due interi menù dopo aver perduto la propria compagna non può però essere preso come un esempio di incorporazione, ma piuttosto di una allucinazione che nega l’oggetto perduto (p. 257). L’incorporazione prolunga piuttosto la vita del morto internamente, in una cripta interna. Essa, diversamente dal lutto, ha un carattere “istantaneo e magico” (p. 229). È una sorta di “monumento commemorativo […] una tomba nella vita dell’Io” (p. 230). “Signi ca rifiutare il lutto […] ri utare di sapere il vero signi cato della perdita” (p. 254, corsivo nel testo), ovvero la sua introiezione. L’incorporazione è un processo di de-metaforizzazione e di oggettivazione (p. 254). Il seppellimento dell’incorporazione preserva il morto in una sorta di muratura interna; l’esistenza di questa cripta non è, in realtà, l’esito della melanconia ma una alternativa ulteriore alla melanconia. È solo quando la cripta si disfa che può sorgere la melanconia vera e propria. In questo caso è l’Io stesso che diviene cripta (p. 267). N. Abraham, M. Torok, La scorza e il nocciolo, tr. it. Borla, Roma 2009. 21. Cfr. S. Freud, Lutto e melanconia, cit., p. 105. 22. “Nel maniaco l’Io e l’ideale dell’Io sono con uiti insieme, per modo che, in uno stato d’animo di trionfo e di contentezza non turbato da alcuna autocritica, la persona può rallegrarsi della mancanza di inibizioni, riguardi e auto-rimproveri.” Cfr. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in , vol. 9, p. 319. 23. Cfr. S. Freud, Progetto per una psicologia, in , vol. 1, e Inibizione, sintomo e angoscia, in , vol. 10. 24. Cfr. S. Freud, L’Io e l’Es, in , vol. 9, pp. 514-516. 25. “Il soggetto melanconico è un soggetto per il quale la mancanza assume la signi cazione della colpa […]. Il soggetto eleva la mancanza alla colpa prendendo la colpa su di sé.” Cfr. C. Soler, “Perte et faute dans la mélancolie”, in Aa.Vv., Des mélancolies, Edition du Champ lacanien, Paris 2001 (traduzione mia). 26. Nella mia ri essione è questo il paradigma Van Gogh. Cfr. M. Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, Bollati Boringhieri, Torino 2004. 27. Cfr. J.-P. Sartre, La nausea, tr. it. Einaudi, Torino 1998. Sull’esperienza della Nausea in rapporto al reale dell’esistenza, vedi l’intenso F. Fergnani, Sartre. La scoperta dell’esistenza, Feltrinelli, Milano 2019. 28. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro . L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (19541955), tr. it. Einaudi, Torino 1991, p. 295. 29. S. Freud, Lutto e melanconia, cit., p. 103. 30. È la celebre formulazione freudiana della melanconia: “L’ombra dell’oggetto cade sull’Io”. Ibidem, p. 108. 31. Il nevrotico soddisfa la domanda dell’Altro – fa prevalere l’Altro della domanda – per non assumere soggettivamente il proprio desiderio. 32. Cfr. J.-P. Sartre, L’idiota della famiglia. Gustave Flaubert dal 1821 al 1857, tr. it. il Saggiatore, Milano 2019. 33. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro . Il sinthomo (1975-1976), tr. it. Astrolabio, Roma 2006, p. 50. 34. Nella dottrina di Lacan il reale nella nevrosi si con gura come un resto – oggetto piccolo (a) – dell’operazione di signi cantizzazione. Anche nella paranoia il reale non coincide con l’esistenza, ma ritorna nella forma, più o meno localizzata, del delirio di persecuzione. Solo nella melanconia il reale non appare come un resto, ma coincide con l’esistenza tout court, è l’Uno assoluto dell’esistenza “sprovvista di senso”. 35. J. Lacan, Il Seminario. Libro . Le formazioni dell’inconscio (1957-1958), tr. it. Einaudi, Torino

2004, p. 310. 36. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 117. 37. Cfr. J. Lacan, Kant con Sade, cit., p. 777. 38. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 117. 39. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 75. 40. Cfr. J. Lacan, Del soggetto nalmente in questione, tr. it. in Scritti, cit., vol. 1, p. 228. 41. Questa distinzione tra due fobie si trova ampiamente e originalmente teorizzata in I. Morin, La phobie, le vivant, le féminin, Presses Universitaires du Mirail, Toulouse 2009. 42. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 151. 43. Cfr. anche j. kristeva, Sole nero. Depressione e melanconia, tr. it. Feltrinelli, Milano 1987. 44. J. Lacan, Il trionfo della religione, in “Dei Nomi del padre” seguito da “Il trionfo della religione”, tr. it. Einaudi, Torino 2006, p. 104. 45. Cfr. S. Agosti, L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, in A. Zanzotto, Le poesie e le prose scelte, Mondadori, Milano 1999, p. . 46. Cfr. J.-P. Lebrun, Les couleurs de l’inceste, Denoël, Paris 2013. 47. Cfr. J. Lacan, Radiofonia, tr. it. in Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 414. 48. Cfr. U. Zuccardi Merli, Non riesco a fermarmi. 15 risposte sul bambino iperattivo, Bruno Mondadori, Milano 2012. 49. J. Lacan, Il Seminario. Libro . Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), tr. it. Einaudi, Torino 2001, p. 203. 50. R.W. Bion, Cogitations-Pensieri, tr. it. Armando, Roma 1992, p. 133. 51. Cfr. F. Basaglia, Corpo, sguardo, silenzio. L’enigma della soggettività in psichiatria, in Scritti, Einaudi, Torino 1981, vol. 1, p. 304. 52. Ibidem, p. 305. 53. Cfr. B. Brusset, Psicopatologia dell’anoressia mentale, tr. it. Borla, Roma 2002. 54. Cfr. L. Binswanger, Il caso Ellen West, a cura di S. Mistura, tr. it. Einaudi, Torino 2011, p. 27. 55. Ibidem, p. 115. 56. Vedi il capitolo , in questo libro. 57. Cfr. L. Binswanger, Melanconia e mania. Studi fenomenologici, tr. it. Boringhieri, Torino 1983, pp. 82-84. 58. Cfr. M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno Mondadori, Milano 2007, e Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze, psicosi, cit. Sulla ri essione complessiva di Lacan sull’anoressia, rinvio a N. Ranieri, D. Letterio, Quel che Lacan diceva dell’anoressia, Mimesis, Milano-Udine 2017. 59. Cfr. J. Lacan, I complessi familiari nella formazione dell’individuo, cit., p. 18. 60. Ibidem, p. 19. 61. Cfr. J. Lacan, Televisione, tr. it. in Altri scritti, cit., p. 520. 62. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro . I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), tr. it. Einaudi, Torino 2003, pp. 191-194. 63. Cfr. M. Recalcati, Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze, psicosi, cit. 64. J. Lacan, Posto, origine e ne del mio insegnamento, tr. it. in Il mio insegnamento e Io parlo ai muri, Astrolabio, Roma 2014, p. 44. 65. Cfr. J. Lacan, I complessi familiari nella formazione dell’individuo, cit., p. 16. 66. Cfr. S. Freud, Il problema economico del masochismo, in , vol. 10. 67. Ibidem, p. 5. 68. Vedi il capitolo , in questo libro.

II LA PULSIONE SECURITARIA

Una buona parte della nostra vita passa a turare i buchi, a riempire i vuoti, a realizzare e a fondare simbolicamente il pieno. .- . , L’essere e il nulla UN NUOVO PARADIGMA?

Le nuove tendenze autoritarie, sovraniste, populiste che attraversano il mondo contemporaneo ci impongono di ripensare il paradigma fondamentale della psicopatologia contemporanea. Il mentale, come indicava Freud in Psicologia delle masse, non è mai separabile dal sociale, la psicologia individuale non può mai essere sganciata da quella dei collettivi. Se vale questo assunto freudiano per il quale la psicologia individuale è sempre psicologia sociale, se, cioè, non è possibile scorporare l’individuale dal campo sociale, dobbiamo dedurre che il nostro tempo non è più quello del neo-liberalismo consumistico e del mercato globalizzato della ne del secolo scorso, ma un tempo dove sono prepotentemente riemerse in tutto il mondo occidentale spinte apertamente reazionarie di natura nazionalistasovranista. Anche la psicopatologia – come l’economia, la politica e la cultura in generale – non può restare indenne da questa mutazione, ma deve provare ad assumerla come chiave di lettura di una nuova forma del disagio mentale. Lo spostamento di paradigma in gioco, o, meglio sarebbe dire, l’oscillazione alla quale siamo confrontati è, come ho già indicato, quella tra il paradigma della clinica del vuoto che ho teorizzato per leggere i cosiddetti nuovi sintomi del disagio della civiltà (tossicomanie, depressioni, anoressie, bulimie, alcolismo giovanile)1 a partire dagli anni Novanta e un nuovo paradigma che potremmo de nire “securitario”. Insistere

sull’oscillazione tra queste due “posizioni” – come direbbe Klein – è essenziale per provare a trovare una chiave di lettura di alcuni sintomi della contemporaneità e più in generale della cifra antropologica che contrassegna il nostro tempo. Se dovessi sintetizzare il paradigma della clinica del vuoto assumerei la gura psicopatologica dell’iperattività come suo indice generale. La clinica del vuoto ha come sfondo sociale essenziale la nuova psicologia delle masse generata dall’a ermazione incontrastata del discorso del capitalista e del suo inedito totalitarismo dell’oggetto. Si tratta di una psicologia dell’atomizzazione narcisistica, della frammentazione di godimenti individuali che il discorso del capitalista nella sua fase di espansione neoliberale ha contribuito in modo decisivo a di ondere. Il sintomo maggiore di questo discorso è l’iperattività, la compulsione sregolata – senza Legge – del godimento, l’in ammazione della pulsione priva di argine. In primo piano troviamo l’incandescenza della pulsione che caratterizza le gure cliniche della tossicomania, della bulimia, dell’iperattività infantile, del panico, ecc. La caratteristica collettiva di questa inclinazione è che il discorso sociale, anziché porre dei limiti al godimento pulsionale – come dovrebbe essere nella sua struttura –, tenderebbe a surriscaldarlo. Il discorso capitalista, nella sua fase globalizzata, esprime una vocazione maniacale: uno stato di brillazione, di eccitazione convulsa costante che rompe ogni argine, che, più precisamente, vive, come vive il soggetto maniacale, la presenza di ogni argine simbolico come un sopruso, un peso inutile, un laccio da cui liberarsi. La clinica del vuoto si impernia sullo scorrimento incessante del godimento che non conosce punti di arresto e che, a causa di questa assenza di vincoli simbolici, scivola fatalmente verso la distruzione e la morte. L’eccitazione maniacale del discorso del capitalista produce uno scon namento mortifero dell’attività della pulsione. Se proviamo ora a de nire il nuovo paradigma, quello della clinica securitaria, quali gure psicopatologiche dovremmo collocare al suo centro? Si tratta di gure che condividono la tendenza all’isolamento, alla chiusura, al barricamento. Al centro del paradigma della clinica securitaria dobbiamo collocare, per esempio, quelle adolescenze che preferiscono all’aperto della vita il chiuso delle loro stanze, agli scambi e ai legami sociali la connessione perpetua con gli oggetti tecnologici; oppure quelle anoressie restrittive che

anestetizzano ogni forma di contatto con il mondo esterno restringendo il mondo all’orizzonte privo di ossigeno del loro corpo. Sono le gure delle nuove melanconie che si caratterizzano, oltre che per un ripiegamento claustrale del soggetto, per una sua introversione, per uno spegnimento del sentimento della vita e per un ra orzamento estremo del proprio con ne identitario. Se, dunque, nel paradigma della clinica del vuoto il personaggio principale è la pulsione senza argine, in quello della clinica securitaria, se mi è consentita l’espressione, è il paradosso di un argine senza pulsione o, meglio, dell’argine come nuovo oggetto della pulsione. Si tratta evidentemente di una formulazione teoricamente approssimativa perché non può esistere qualcosa come un argine senza pulsione. Tuttavia, nella clinica securitaria la dimensione eccitatoria, maniacale, la pulsione senza argine, iperattiva, propria della clinica del vuoto, pare torcersi in quella, inedita, di una pulsione che investe libidicamente il con ne come un nuovo oggetto di godimento. Mentre la clinica del vuoto trovava nel “bordello” – nella sregolazione pulsionale – la sua cifra, quella securitaria lo ritrova nella “prigione”, nell’autoreclusione, nella ricerca dell’argine identitario come nuovo oggetto pulsionale.2 Mentre la prima esalta maniacalmente e perversamente il godimento come unica forma della Legge a discapito della trascendenza del desiderio, la seconda eleva la chiusura e la sicurezza al rango di nuove forme di godimento. Tuttavia, occorre sempre tenere presente che non si tratta di una sostituzione – dal paradigma 1 della clinica del vuoto al paradigma 2 della clinica securitaria –, quanto piuttosto di una oscillazione in senso kleiniano: esistono nuclei dell’una nell’altra e viceversa in un movimento non progressivo di sostituzione, ma di oscillazione problematica.3 L’elemento basico sul quale questi due paradigmi clinici convergono è la centralità che in essi riveste la pulsione di morte. Ma mentre nella clinica del vuoto la sua incidenza si rivela nell’ordine della sregolazione anarchica della pulsione, nella seconda genera piuttosto fenomeni di solidi cazione quali sono l’auto-conservazione e la chiusura. In questo senso la clinica securitaria mette in luce la spinta regressiva della pulsione che anziché aprirsi alla vita si chiude sul proprio argine facendo dell’auto-conservazione la sua unica meta. Si rivela qui un aspetto altamente problematico e interessante della ri essione di Freud sulla pulsione di morte. Essa non è responsabile solamente della guerra e della distruzione, di un godimento

privo di Legge e di desiderio (clinica del vuoto), ma è anche a fondamento dell’inclinazione fascista a conservare la propria identità incontaminata, a tutelare il sistema chiuso di un godimento senza trascendenza imperniato sul ri uto dell’incontro con l’alterità del mondo, della pulsione come movimento mortifero di auto-conservazione. È questa l’inclinazione securitaria della pulsione che radicalizza la spinta all’auto-conservazione tras gurandola in una spinta alla propria distruzione. IL RITORNO DELLA PULSIONE DI MORTE

L’identi cazione della psicoanalisi alla peste con la quale Freud spiegava a Jung il carattere sovversivo della sua invenzione ruotava attorno al grande tema della sessualità. I corpi, sembra dire Freud, seguono senza compromessi la legge del loro godimento. Il carattere autenticamente inaudito della sua ricerca sulla sessualità umana non consiste nell’aver semplicemente rivelato l’esistenza di una sessualità infantile di tipo pregenitale, eccentrica a quella normata dal primato genitale, ma nell’aver ricondotto a quella sessualità e ai suoi più tenaci e preistorici fantasmi la sessualità della cosiddetta vita adulta. Il punto non era tanto quello di aver rivelato l’esistenza di una sessualità infantile, ma di aver ricondotto a essa la sessualità umana in quanto tale; nell’aver pensato al suo carattere strutturalmente infantile, perverso-polimorfo, anarchico ed erratico. In questo senso Freud, come Socrate, secondo Lacan, porta nel cuore della città qualcosa che risulta radicalmente “atopico”, eccedente, inintegrabile nell’ordine canonico della polis, senza con ne, letteralmente “senza luogo”.4 Aver mostrato l’irruenza costitutiva della pulsione sessuale nella costituzione della vita umana non poteva essere accettato dalla cultura borghese e sarebbe fatalmente stato oggetto di discriminazione e di ripulsa, alimentando politiche securitarie di immunizzazione. In realtà il carattere eversivo della natura perverso-polimorfa della sessualità si è rivelato più facilmente integrabile di quello che si potesse immaginare. Il programma della civiltà ipermoderna, anziché fustigare, espellere, segregare il morbo sessuale, sembra eleggerlo a meta ideale di una vita che non conosce più inibizioni e limiti. In un modo impensato da Freud stesso, il cosiddetto “sistema dei consumi” – nella diagnosi storica già presente nella Scuola di Francoforte e nel Pasolini corsaro – sembra aver

perfettamente integrato il passo sovversivo del padre della psicoanalisi assumendo il carattere perverso-polimorfo della sessualità come luogo di una libertà del godimento nalmente a rancata dal peso oppressivo della Legge. La peste non si è rivelata tale, ma ha dato vita all’ideologia della liberazione sessuale che ha ispirato non solo i movimenti giovanili degli anni Sessanta-Settanta e la giusta emancipazione della sessualità dall’oscurantismo delle ideologie religiose e patriarcali, ed è divenuta parte integrante dell’attuale programma della civiltà ipermoderna, capovolgendosi semmai in una nuova forma di oscurantismo, dove il discorso amoroso sembra totalmente surclassato dalla macchinizzazione sospinta del godimento sessuale o erto senza più alcun tabù.5 Il ritorno perturbante di Freud nell’orizzonte del nostro tempo non avviene dunque attraverso la via della sessualità e del suo carattere originariamente pregenitale e infantile. Dovremmo rivolgere altrove il nostro sguardo per cogliere l’attualità più scabrosa di Freud. Dovremmo rivolgerci all’aspetto più radicalmente sconcertante del suo pensiero. Esso si condensa nell’invenzione del concetto di Todestrieb, di pulsione di morte. Si tratta dell’ultimo vertiginoso passo metapsicologico e clinico che Freud porta a compimento con la stesura di Al di là del principio di piacere. Grazie alla natura sovversiva di questo passo, il programma ipermoderno della Civiltà è obbligato a confrontarsi con qualcosa il cui carattere inquietante non si lascia a atto integrare nella egemonia della cosiddetta ideologia del benessere fondata sulla di usione capillare dell’ideale edonistico del piacere. Se, infatti, la vita umana – come ritiene questa ideologia – persegue il proprio Bene e se il Bene – dissociato da qualunque forma di valorialità – è ridotto al criterio elementare del più utile, se, in altre parole, il Bene viene nella civiltà ipermoderna identi cato con l’utilitarismo del piacere, se, ancora, questa fosse la nuova bussola che ordina i comportamenti dell’essere umano nella nostra epoca, allora l’idea freudiana dell’esistenza della pulsione di morte non potrebbe che risultare sconcertante, indigeribile, impossibile da masticare. Non a caso quando Freud introdusse la categoria di pulsione di morte negli schemi della sua metapsicologia suscitò immediatamente grandi perplessità anche all’interno del movimento psicoanalitico che, salvo rare, anche se signi cative eccezioni – come quelle di Melanie Klein e Jacques Lacan –, la respinse seccamente. Il ricorso alle vicissitudini biogra che del padre della psicoanalisi – la guerra, la perdita

dei gli, la vecchiaia, la malattia – ha decisamente prevalso con l’intento di s lare questo concetto dal corpus della dottrina della psicoanalisi, considerandolo alla stregua di una vera e propria bizzarria teoreticoloso ca di un anziano estremamente provato dalla vita e chiuso in un pessimismo inconsolabile. PULSIONE VS ISTINTO

Quella che viene ri utata attraverso il quasi unanime rigetto della nozione di pulsione di morte è l’idea di Freud che esista nella vita una spinta profondamente melanconica a evitare la vita, una aspirazione inconscia della vita alla morte, a ri utare se stessa, a chiudere l’apertura in cui la vita stessa consiste, una paradossale pulsione securitaria. Se la vita nella sua forma umana è ek-sistenza, apertura verso il mondo, verso l’Altro, se la traduzione in ek-sistenza della vita porta necessariamente con sé la sua trascendenza – la sua esposizione all’alterità –, l’idea della pulsione di morte mostra in modo scandaloso che esiste una tendenza più fondamentale della vita stessa a ri utare l’apertura della vita, a ricercare il chiuso, la morte, il proprio annientamento. È a questa originaria tendenza alla chiusura che si può ricondurre il carattere “regressivo” e “conservativo” – come lo de nisce Freud – della pulsione di morte, la sua volontà “demoniaca” tesa a ripristinare uno stato di vita precedente.6 PULSIONE A CHIUDERE

Una ri essione sul nuovo paradigma della clinica securitaria non può che iniziare da qui. La spinta del Todestrieb mostra la natura misteriosamente melanconica della pulsione che contraddice ogni sua rappresentazione puramente vitalistica. Si tratta di una spinta altamente problematica che, in realtà, attraversa dall’origine tutto il corpus teorico freudiano. Il problema investe innanzitutto la natura della pulsione: la pulsione è spinta alla soddisfazione orientata dal principio di piacere oppure in essa si cela una tensione che eccede le cornici edonistiche di questo principio? La pulsione è sempre pulsione di vita, manifestazione dello slancio e della forza della vita che vuole se stessa, oppure può davvero esistere una pulsione che esprima non tanto la forza disperatamente a ermativa della vita, ma quella negativa della morte, fosse anche nella forma paradossale della difesa estrema della

vita?7 È questo lo scandalo sollevato dalla pulsione di morte. La sua esistenza mostra che la vita che si protegge dalla vita, che punta a conservare la vita sino al punto di perdere la vita, di rinunciare a se stessa, di ri utare il suo stesso spasmo vitale, la sua esposizione trascendente alla vita, disgrega ogni rappresentazione naturalistico-edonistica dell’esistenza propria di ogni “istinto di vita”. È lo scandalo della tesi maggiore di Freud: la tendenza primaria della pulsione non è verso l’apertura ma verso la chiusura. È questa tendenza che dobbiamo collocare al cuore della pulsione securitaria che, dunque, in quanto tale, sarebbe l’espressione più pura della pulsione di morte come pulsione non solo impegnata febbrilmente a riempire – paradigma della clinica del vuoto –, quanto a chiudere – paradigma della clinica securitaria. L’espressione “pulsione di morte” comporta qualcosa di altamente contraddittorio come l’esistenza di una pulsione anti-pulsionale, di una pulsione che contrasta il dinamismo vitale della pulsione stessa. Si tratta di una pulsione a chiudere, dunque di una pulsione fascista, priva di Eros, anti-sessuale, costantemente attiva nel riportare alla sua matrice inorganica – teorizza Freud – l’eccesso discontinuo della vita, di una pulsione che segue il movimento opposto a quello dell’ek-sistenza come movimento di apertura e trascendenza. Nella forma di vita che de niamo umana, non esiste, in realtà, né istinto di vita, né istinto di morte. È questa una delle tesi fondamentali del pensiero di Freud. Se assumiamo la bussola orientativa del concetto di pulsione (Trieb) siamo obbligati a ri utare la riduzione della vita umana alla dimensione immediata e biologica dell’istinto. È la radice anti-vitalistica e anti-evolutivista della ri essione freudiana sulla pulsione di morte. L’istinto de nisce l’immediatezza della vita animale che risulta preclusa alla forma di vita che de niamo umana. In questa forma di vita l’istinto appare, infatti, come da sempre contra atto, contorto, snaturato dall’azione del linguaggio, da quella che Freud de nisce come la dimensione strati cata delle “limitazioni” imposte alla vita innanzitutto dal discorso educativo e, più in generale, dal programma della Civiltà.8 In questo senso la vita umana non coincide mai con la pura vita istintuale, ma è sempre vita pulsionale, determinata da uno snaturamento originario (per Freud perversopolimorfo) dell’istinto. L’uso che, per esempio, Deleuze insiste a fare della categoria di “istinto di

morte” per tradurre la nozione freudiana di “pulsione di morte” (Todestrieb) non segnala tanto una grossolana scorrettezza teorica, ma rivela qualcosa di assai più signi cativo, ovvero la di coltà teorica del misurarsi con lo sconcerto che fatalmente accompagna chi prova a incamminarsi sulla via aperta da Freud; lo sconcerto di una negatività insopprimibile in seno alla vita che sospinge la vita stessa verso la sua negazione anche in nome della sua difesa e della sua protezione. Una negatività che non ha la forma della mancanza – dalla quale prende invece le mosse il desiderio –, ma quella dell’eccesso; il Todestrieb agisce sospingendo la vita a divorare se stessa sia nella forma di un godimento illimitato che nisce per coincidere con la vita nella sua più disperata a ermazione,9 sia in quella del ri uto dell’apertura della vita nel nome di una sua estrema conservazione che nisce per annientarla. Sono queste le due facce fondamentali della pulsione di morte; se l’eccesso è il suo denominatore comune, esso può declinarsi nella sua forma “a ermativa” (incandescente, sregolata), o in quella “negativa” (autoconservativa, auto-distruttiva). La polarità maniaco-depressiva assunta come gura non semplicemente psicopatologica, ma metapsicologica può forse o rire una immagine e cace di questa alternatività tra i due poli della pulsione di morte.10 Nel regno animale non può esistere alcun istinto di morte perché la vita animale è vita colma di vita, vita immortale, vita piena, vita che esige la ripetizione in nita della vita. L’enigma della pulsione di morte sorge invece dalla contorsione della linearità biologica che connota la Legge universale dell’istinto animale. Non a caso Lacan è ritornato con assidua e martellante frequenza a contrapporre al “realismo” dell’istinto naturale il “collage surrealista”, strambo e totalmente snaturato, della pulsione sessuale.11 Se, infatti, la riproduzione della specie non può essere il ne del comportamento sessuale degli umani è perché la meta della pulsione esorbita e sconcerta ogni programmazione istintuale dei corpi. Ed è proprio questa disgiunzione tra istinto e pulsione a costituire lo sfondo del passo sovversivo compiuto da Freud con la congettura del Todestrieb. La pulsione di morte concerne solo il mondo umano dove la pienezza della vita è corrotta al suo fondamento dalla perversione originaria dell’istinto e dalla “mancanza a essere” che questa perversione porta con sé: la vita umana non è vita piena di vita, non è vita che può coincidere con l’immediatezza della vita, ma è vita divisa dalla vita dall’azione negativizzante del linguaggio, vita

in meno di vita, vita morente, esposta alla mancanza di vita, a una lesione inguaribile dell’essere, inchiodata alla immanenza della sua nitudine e alla vertigine che provoca la sua ek-sistenza, l’esperienza della trascendenza del suo desiderio. AUTO-CONSERVAZIONE

Il regime della pulsione non può dunque essere piegato a quello naturalistico del principio di piacere. Ogni pulsione da questo punto di vista è – come a erma Lacan – “virtualmente pulsione di morte”, è “a ne alla zona della morte”;12 esorbita il criterio della mera soddisfazione del bisogno che caratterizza invece il mondo animale regolato dall’istinto; ogni pulsione è, in questo senso, al di là del principio di piacere. Tuttavia, il punto che Freud sottolinea con più forza nel concetto di Todestrieb è che questa eterogeneità strutturale tra pulsione e istinto non de nisce tanto due regimi separati della vita, ma sancisce l’interferenza costante di un regime – quello della pulsione – sull’altro – quello dell’istinto. La stessa dinamica dei cosiddetti bisogni primari risulta pienamente alterata dall’irruzione sempre attiva della forza pulsionale. È il caso emblematico dell’anoressia dove l’istinto naturale della fame viene travolto dall’esigenza pulsionale che conduce il soggetto a nutrirsi di “niente” piuttosto che di cibo, ovvero a godere della privazione più che della soddisfazione. Non a caso, nella sua rilettura della pulsione di morte, Lacan tende a porre l’accento sull’irriducibilità tra l’esperienza del godimento pulsionale e quella della semplice soddisfazione del bisogno. Tutte le pulsioni hanno a loro fondamento la pulsione di morte in quanto il godimento pulsionale risulta sempre extra-biologico, eccessivo, estraneo allo schematismo lineare che governa il dinamismo immediato e istintuale dei bisogni.13 Il mondo governato dalla pulsione di morte non è il mondo del principio di piacere ma dell’al di là del principio di piacere: la pulsione non gode se non della sua stessa attività, del suo stesso moto, del suo atto perpetuamente in atto. Non dunque di un oggetto – come accade nell’esperienza del bisogno – ma piuttosto del vuoto, della “lacuna” che attraversa ogni oggetto, della sua perdita che il movimento della pulsione costeggia incessantemente.14 È interessante notare come nell’opera di Freud il concetto di pulsione di morte venga rintracciato proprio a partire dal prolungamento e dalla

radicalizzazione della cosiddetta pulsione di auto-conservazione o pulsione dell’Io.15 Se la pulsione di auto-conservazione denuncia la tendenza della vita umana a difendere se stessa, la radicalizzazione di questa spinta combacia, secondo Freud, con la pulsione di morte il cui movimento fondamentale appare, non a caso, come “regressivo” e “conservativo”. Lacan sembra sorvolare su questo punto. La vita che si difende dalla vita è la vita che insiste nel ritornare sempre allo stesso posto, a ripetersi uguale a se stessa, a escludere la possibilità della sua trasformazione. Esiste, infatti, una sorta di attitudine melanconica della vita che consiste nel ri utare la vita stessa, una refrattarietà della vita a tollerare il trauma del taglio e della separazione in itto dall’azione del linguaggio, a rigettare il lutto della Cosa, una sua tendenza a preservare l’attaccamento all’oggetto perduto. Non a caso per Freud è la gura clinica della melanconia, più di tutte le altre, a mettere in evidenza l’esistenza della pulsione di morte.16 La vita tende a distruggere se stessa a partire dalla sua spinta a rigettare la sua stessa apertura, la sua ek-sistenza, il suo essere esposta, fuori di sé, la sua trascendenza. La pulsione di auto-conservazione esibisce per Freud una sorta di passione securitaria che reagisce all’eccesso contingente della vita volendo riportare costantemente la vita stessa all’azzeramento delle tensioni interne e alla protezione nei confronti del mondo esterno. È questo un tema che accompagna sin dall’inizio la meditazione di Freud sul funzionamento dell’apparato psichico. A partire dal suo Progetto per una psicologia, tale funzionamento viene concepito come dominato da una inclinazione alla ripetizione, alla chiusura, alla difesa protettiva, all’aspirazione verso una condizione di vita omeostatica capace di “legare” e di “evacuare” le tensioni interne, l’increspatura, l’eccitazione non padroneggiabile della vita pulsionale e le perturbazioni provenienti dal mondo esterno. “Per l’organismo vivente – scrive Freud –, la protezione degli stimoli è una funzione quasi più importante della ricezione degli stessi.”17 La vita non è solo esposizione all’evento del mondo, non è solo “nel mondo”, non è solo ek-sistenza, esposizione, apertura all’apertura del mondo, come teorizza Heidegger; la vita è anche primariamente difesa dal mondo, muro, arroccamento, scudo, frontiera, porto chiuso di fronte all’angoscia del mondo in quanto fonte inesauribile di perturbazioni, in quanto luogo dove ammontano spaventosamente “enormi energie” impossibili da governare.18 Per questa ragione Freud ha sempre insistito nel

pensare l’odio come “più antico” dell’amore e nel rintracciare in esso la faccia più cupa e più pura della pulsione di morte come prima risposta patemica del soggetto all’ostilità che caratterizza l’impatto con l’alterità del mondo esterno in quanto sorgente ingovernabile di stimoli: “L’odio […] è più antico dell’amore; esso scaturisce dal ripudio primordiale che l’Io narcisistico oppone al mondo esterno come sorgente di stimoli”.19 La comparsa dell’alterità dell’oggetto coincide con la risposta distruttiva dell’odio, sicché l’esterno e l’odiato sono originariamente coincidenti, sono la stessa cosa: “L’esterno, l’oggetto, l’odiato sarebbero a tutta prima identici”.20 Con la complicazione aggiuntiva e decisiva che lo scudo dell’auto-conservazione nulla può contro gli stimoli che provengono dall’interno dell’apparato: Esiste verso l’esterno una protezione dagli stimoli tale per cui le quantità di eccitamento in arrivo avranno un e etto considerevolmente ridotto. Verso l’interno una protezione del genere è impossibile.21

Non si può sfuggire alla immanenza sempre attiva della pulsione. Se tutto il funzionamento dell’apparato è impegnato nel “legare” l’energia libera, nell’impedire che essa generi eccessi ingovernabili, questo impegno appare, in realtà, destinato a fallire. L’apparato psichico è un apparato irrisolto, incrinato alla radice, imperfetto. Il suo funzionamento – sin dai tempi del Progetto – si polarizza attorno a un esercizio conservativo di difesa e di evacuazione: irrigidimento del con ne, perdita della sua porosità; scarica verso l’esterno delle tensioni interne, spinta all’evacuazione sino all’estremo della “via breve” dell’allucinazione. La tensione che proviene dall’interno e la somma di stimolazioni che provengono dall’esterno sono forme non padroneggiabili di Q (eccitamenti) che esigono in prima istanza ra orzamenti della cortina difensiva e in seconda istanza la loro eventuale scarica. Come si vede, il tema della difesa è da sempre presente – quasi assillante – nel pensiero di Freud. L’apparato psichico è innanzitutto un apparato difensivo. È il rimprovero che Elvio Fachinelli gli muove con decisione: aver richiuso lo “squarcio” iniziale con il quale la psicoanalisi ha introdotto l’inconscio come luogo di apertura, come dimensione sempre possibile della creazione, della trovata, dell’evento a una serie di sbarramenti, mura, bastioni, torri di controllo; insomma nell’aver ridotto l’apertura illimitata dell’inconscio alla sua introversione difensiva: Dopo lo squarcio iniziale, la psicoanalisi ha nito per basarsi sul presupposto di una necessità:

quella di difendersi, controllare, stare attenti, allontanare… Ma certo, questo è il suo limite: l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, e forse anche prima, da un pericolo interno. Bardato, corazzato.22

Ma la critica di Fachinelli non coglie che nell’esasperazione freudiana del tema della difesa – nel suo “delirio di difesa”–23 non si esprimerebbe tanto la vita in se stessa, ma una sua tentazione fondamentale: l’inclinazione fascista, mortifera, distruttiva della vita. È questo il tema scabroso imposto dal Todestrieb: esiste davvero una pulsione a chiudere, a difendere la vita dalla sua stessa eccedenza, una tendenza a capovolgere l’a ermatività della vita nella sua negazione? Esiste una pulsione radicalmente melanconicoconservativa, regressiva, tesa a ricondurre la vita all’orizzonte dello zero assoluto, alla restrizione del suo orizzonte, a riportare l’esposizione della vita nel circolo claustro lico di una pulsione che lavora per arginare il movimento vitale e aperto della dimensione più vitale della pulsione? Il primo passo teorico di Freud relativo alla de nizione della pulsione di morte consiste nel porre sulla stessa sconcertante linea la pulsione di autoconservazione, quella narcisistica – de nita “pulsione dell’Io” – e quella di morte.24 In questo modo egli intende mostrare che la stessa vita della pulsione non è a atto predisposta all’apertura, ma che esiste una sua tendenza più profonda alla chiusura, al barricamento, alla difesa dal caos della vita. Nel desiderio fascista delle masse e nella pulsione securitaria che lo sostiene, come nell’annichilimento del soggetto melanconico, secondo una polarizzazione non solo alternata ma speculare, si mette in luce il carattere anti-vitale della pulsione di morte, il suo rigetto della dimensione aperta e della vita, dell’ek-sistenza come essere fuori, all’aperto del mondo. La chiusura solida dell’identi cazione a massa o l’abbattimento masochista del soggetto melanconico sotto il peso della Legge sadica e inumana del Super-io, non vorrebbero forse cancellare l’inquietudine singolare del desiderio, non vorrebbero respingere le stimolazioni eccedenti, perturbanti e intrusive del mondo? La pulsione di morte mette in evidenza il tendere della vita umana all’auto-conservazione anche quando essa assume la forma dello s nimento vero e proprio della vita, della vita che annienta se stessa anche nella sua “disperata a ermazione”, che è poi, in ultima istanza, come abbiamo visto con Lacan, la forma più pura della pulsione di morte. COAZIONE

Le due facce del Todestrieb si possono rintracciare nella struttura del Super-io, de nito non a caso da Freud come “coltura pura della pulsione di morte”.25 Da una parte abbiamo la faccia di un godimento in eccesso e senza Legge, dall’altra una Legge che distrugge ogni possibile godimento rendendo questa stessa distruzione la forma più pura del godimento. Il lato del dispendio sadiano e quello del rigorismo kantiano secondo la celebre lettura di Lacan.26 Nel gesto del tossicomane che rovina in un godimento oceanico che vorrebbe annullare l’esperienza insopportabile della “mancanza a essere” o nell’oppressione melanconica di fronte al carattere in essibilmente “ipermorale” della Legge del Super-io ritroviamo in azione la pulsione di morte; l’esistenza viene sottratta dall’impatto con la trascendenza del desiderio per essere trascinata verso un ideale irraggiungibile di pienezza, di vita senza mancanza e senza desiderio, aderente a se stessa, vita immortale di un godimento senza limiti (mania), vita confusa nella massa compatta delle folle (fascismo) o vita identi cata all’assoluto della Cosa (melanconia). L’attitudine conservatrice della pulsione – vero e proprio scandalo del testo freudiano – indica infatti la spinta della vita a ripetere insistentemente il Medesimo e a escludere il Nuovo, a rendere, in altre parole, impossibile l’evento come ciò che si rivela capace di introdurre una faglia nella barriera protettiva dell’apparato. Ecco perché la pulsione di morte si esprime massimamente nella gura clinica della “coazione a ripetere” (Wiederholungszwang), dove la ripetizione assume la caratteristica dello Zwang, della “coazione”, appunto, che traduce con precisione il Drang, l’esigenza prima della pulsione, il suo moto fondamentale. Questa coercizione segnala il vincolo che lega la pulsione non all’apertura, ma alla chiusura, alla ripetizione dello Stesso, di un godimento che non ha respiro, non conosce alterità, non genera alcuna possibilità di trasformazione, di un godimento privo di vita. È il circolo “demoniaco” di un “eterno ritorno dell’eguale” che, diversamente da quello pensato da Nietzsche-Zarathustra, non istituisce l’evento ma lo rende impossibile, perché uniforma tutti gli incontri alla legge dello Stesso, subordinando la contingenza illimitata e imprevedibile dell’incontro alla necessità del ritorno dell’eguale. È quella “fedeltà indesiderata” che vincola nella coazione a ripetere il soggetto alla replica uniforme dello Stesso.27 È il carattere impietoso della ripetizione attraverso il quale si manifesta la potenza inquietante della pulsione di

morte. Freud è molto preciso su questo punto: Esistono così persone le cui relazioni umane si concludono tutte nello stesso modo: benefattori che dopo qualche tempo sono astiosamente abbandonati da tutti i loro protetti […] e che quindi paiono destinati a vuotare no in fondo l’amaro calice dell’ingratitudine; uomini le cui amicizie si concludono immancabilmente con il tradimento dell’amico; o altri che nel corso della loro vita elevano ripetutamente un’altra persona a una posizione di grande autorità privata o anche pubblica, e poi, dopo un certo intervallo di tempo, abbattono essi stessi quest’autorità, per sostituirla con quella di un altro; o, ancora, persone i cui rapporti amorosi con le donne attraversano tutti le medesime fasi e terminano nello stesso modo ecc.28

In questa “coazione del destino”29 si manifesta l’“irresistibile potere del fattore quantitativo” proprio della pulsione di morte.30 Questa pulsione appare, infatti, “più originaria, più elementare, più pulsionale (triebha er)”31 del principio di piacere. In gioco non è il usso della pulsione che deborda de-territorializzando incessantemente i suoi con ni, l’eccesso deleuziano della vita come pura volontà a ermativa – come volontà di potenza –, ma una forza che si torce contro se stessa, una ripetizione “cattiva”, maledetta che sospinge la vita verso la sua dissipazione sterile, verso la ripetizione inesorabile, senza tregua, dello Stesso. È come se si delineassero due distinte forme della ripetizione, che non devono essere intese in senso morale, o, peggio, moralistico, ma come due destini di erenti – sempre possibili – della pulsione stessa. Da un lato l’esperienza della forza pulsionale come allargamento, espansione, potenziamento generativo della vita; dall’altra l’esperienza della forza pulsionale come restrizione, coartamento, chiusura delle possibilità della vita. La prima è una forza generativa capace di rendere la vita più viva, di potenziare la sua spinta a ermativa; la seconda è una forza che intossica il soggetto, morti ca il suo desiderio, lo assidera in un eccesso che non ha alcun rapporto con il carattere espansivo della forza, ma con una sorta di auto-combustione, di pura distruzione e odio di sé. La clinica della tossicomania si presta a esempli care questa dimensione rovinosa della ripetizione. L’esperienza ci insegna che nel soggetto tossicomane l’insistenza di un godimento che si ripete uniformemente e che restringe le possibilità di vita a una sola, quella, appunto, della dipendenza dalla droga, assoggetta il soggetto. Come ripeteva un mio paziente, “la mia distruzione non è l’e etto collaterale del mio godimento, ma il mio massimo godimento”. In questo caso la ripetizione assume una forma rovinosa; non

favorisce l’espansione della vita, ma il suo annichilimento; non è a ermazione della volontà di vita, ma ri uto ostinato – tendenzialmente melanconico – della vita, coazione a ripetere, pulsione di morte allo stato più puro.32 È la prospettiva “nirvanica” o “neo-melanconica” che ritroviamo sempre al fondo di ogni dipendenza patologica: stordirsi, annullarsi, sospingere l’eccitazione al suo colmo al ne di annullare l’eccitamento impadroneggiabile della vita; perdere tutto per non perdere nulla.33 Non a caso troviamo numerose a ermazioni di Lacan che tendono a far coincidere l’esperienza eccessiva e dissipativa del godimento con la pulsione di morte, sino al punto di poter a ermare che il suo stesso concetto di “godimento” non è altro se non un modo per tradurre clinicamente quello freudiano, metapsicologico, di Todestrieb.34 La coazione a ripetere come manifestazione della pulsione di morte esaspera l’inclinazione umana all’auto-conservazione, alla chiusura della contingenza illimitata della vita, tramite l’attivazione di un circuito cieco che mentre replica sempre lo Stesso s nisce il soggetto in un continuum che non conosce interruzioni. La ripetizione ssata dello Stesso godimento sequestra la plasticità della pulsione, la irrigidisce, la vincola al Medesimo. Le note metafore cosmologico-naturalistiche che circondano l’intuizione freudiana del Todestrieb (tra tutte quella dei salmoni che risalgono la corrente riponendo le uova nel loro luogo di provenienza mentre esauriscono i loro giorni)35 rischiano di tradire la verità più radicale di questa intuizione. Se il reale dell’esistenza è determinato dall’impossibilità di evadere dalla pressione della pulsione e dalle stimolazioni perturbatrici che provengono dal mondo esterno (“straniero e ostile”), allora la nalità che orienta la vita umana non potrà che essere una nalità eminentemente difensiva: ridurre, abbassare sino a evacuare, ogni forma di tensione interna. Con l’aggiunta però che questa tendenza conservatrice propria del moto pulsionale resta fatalmente esposta a una contraddizione insuperabile poiché la riduzione allo zero risulta impossibile da raggiungere, in quanto la Q sempre in eccesso dell’eccitamento (interno-esterno) non è padroneggiabile, non può mai essere integralmente evacuata. Per questa ragione la “difesa” è destinata a capovolgersi nella distruzione di sé e la spinta a raggiungere il “riposo” è destinata a rimanere frustrata da uno s nimento in nito. È, come vedremo fra poco, il vicolo cieco della pulsione securitaria.

LA PERVERSIONE DELLA PULSIONE GREGARIA E IL DESIDERIO DI FASCISMO

La gura della pulsione securitaria nel campo della dottrina della psicoanalisi è ancora senza una teoria rigorosa. Essa viene invocata e citata da più parti, anche nell’ambito del dibattito politico attuale, ma resta ancora un concetto nebuloso. Possiamo provare ad articolare una ri essione intorno alla sua struttura riferendoci inizialmente a una preziosa citazione contenuta ne L’anti-Edipo di Gilles Deleuze e Félix Guattari sulla scia della Psicologia di massa del fascismo di Reich. In questo passaggio gli autori pongono con molto vigore il problema di ciò che de niscono “la perversione del desiderio gregario”. Il fascismo e la sua promessa securitaria possono essere desiderati a discapito della propria libertà. È questa, ai miei occhi, una buona de nizione della pulsione securitaria: No, le masse non sono state ingannate, hanno desiderato il fascismo in tal momento, in tali circostanze, ed è questo che occorre spiegare, la perversione del desiderio gregario.36

La pulsione securitaria non coincide con la pulsione gregaria concettualizzata da Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Come scrivono Deleuze e Guattari, restando fedeli alle analisi di Reich, la pulsione securitaria appare piuttosto come una perversione della pulsione gregaria. Questa pulsione – la pulsione gregaria – consente lo strutturarsi del legame sociale e trova, secondo Freud, il suo modello originario nella domanda di soccorso del bambino inerme nei confronti della propria madre.37 Senza il soccorso dell’Altro la vita umana sarebbe, infatti, vita morta, vita perduta. Nondimeno l’avidità della pulsione comporta che ogni bambino vorrebbe che la madre fosse solo sua, vorrebbe avere con lei un rapporto privilegiato e di assoluto possesso. È l’esistenza plurale degli altri – secondo Freud una delle cause fondamentali del disagio della civiltà – a imporre alla spinta autarchica della pulsione un processo di gregarizzazione. Solo grazie a questo processo il soggetto potrà iscriversi nelle articolazioni orizzontali del legame sociale e rinunciare all’odio, alla distruttività e all’aggressività che si generano dalla spinta pulsionale di essere “il solo amato”. La condizione della trasformazione “sociale” della pulsione è la perdita di una quota di libertà e l’accettazione di una quota di frustrazione. Da questo punto di vista è l’esigenza di proteggere la propria vita che la pulsione

gregaria porta con sé, a imporre la rinuncia all’esercizio arbitrario della propria libertà. Piuttosto di scomparire, di morire o di essere leso – è il rischio corso originariamente dalla vita inerme del bambino – il soggetto si rende disponibile a condividere con altri l’oggetto amato. È questa condivisione a de nire in senso stretto la dimensione gregaria della pulsione il cui fondamento, non bisogna dimenticarlo, è, in ultima istanza, la paura della morte. È quello che Hobbes ha teorizzato prima di tutti nel tempo della genesi dello Stato moderno: il compito dello Stato è fondamentalmente quello di difendere la vita degli individui dalla paura reciproca della morte. Poiché lo stato di natura è stato di “guerra di tutti contro tutti” (homo homini lupus), solo lo Stato – attraverso l’esercizio del suo potere – può garantire che l’aggressività istintuale di ciascuno sia sottomessa a un patto sociale. Anche in questo caso – come sosterrà in seguito Freud – la pulsione gregaria gioca un ruolo decisivo: si rinuncia alla libertà della propria vita in cambio della sua protezione. Questo signi ca che l’investimento pulsionale della protezione della vita, sostenuto dalla pulsione gregaria, non è patologico in sé. Lo diventa quando si determina una perversione della pulsione gregaria, quando, cioè, l’esigenza della protezione si confonde con una condizione di asservimento. Se la pulsione gregaria ha come ne ultimo la socializzazione e la difesa della vita, la sua perversione comporta la rinuncia alla vita in cambio della sua difesa, come se, in una torsione paradossale, la difesa della vita contasse più della vita stessa. È il rapporto strettissimo che Freud stabilisce tra pulsione di morte e auto-conservazione. Anche Deleuze e Guattari richiamano questo paradosso quando scrivono che “il problema fondamentale della loso a politica resta quello che Spinoza seppe porre (e che Reich ha riscoperto): ‘perché gli uomini combattono per la loro servitù come se si trattasse della loro salvezza?’”.38 Lo scrive polemicamente Reich stesso quando ricorda che, come sostengono Deleuze e Guattari, “il sorprendente non è che la gente rubi, che altri facciano sciopero, ma piuttosto che gli a amati non rubino e che gli sfruttati non facciano sempre sciopero. Perché degli uomini sopportano da secoli lo sfruttamento, l’umiliazione, la schiavitù al punto di volerle non solo per gli altri ma anche per se stessi?”.39 Ma già in Freud la pulsione securitaria, distinta da quella gregaria, emergeva come una spinta paradossale “assetata di obbedienza”.40 L’analisi psicoanalitica del totalitarismo novecentesco, come si deduce da

due testi fondamentali quali Psicologia di massa del fascismo di Reich e Fuga dalla libertà di Fromm,41 insiste, seppure in modi di erenti, proprio su questo punto: lo scandalo del fascismo non consiste nella passività delle masse di fronte all’esercizio dittatoriale del potere, né nel fatto che esse siano state ingannate dai mezzi di propaganda; il vero scandalo consiste nel fatto che le masse abbiano potuto desiderare il fascismo, che sia esistito qualcosa come un desiderio di sottomissione, un desiderio di fascismo. Questo desiderio paradossale è la chiave per intendere la perversione del desiderio gregario da cui scaturisce la pulsione securitaria. In questi casi l’esigenza della protezione si ipertro zza e diviene una manifestazione della pulsione di morte. Non deve infatti sfuggire l’omologia profonda tra l’attitudine dell’apparato psichico – isolata da Freud – a difendersi dalle perturbazioni intrusive del mondo esterno e il desiderio fascista che sembrerebbe trarre la sua forza proprio da questa attitudine. Non a caso, come ha sottolineato giustamente Umberto Eco, “il primo appello di un movimento fascista […] è sempre contro gli intrusi”.42 CLINICA DELLA PULSIONE SECURITARIA

Il limite delle pur decisive analisi di Reich e di Fromm consiste nel far derivare la pulsione securitaria dalla cattiva educazione; secondo Reich è l’educazione borghese che, reprimendo la sessualità, prepara la vita al culto del sacri cio su cui si fonda la perversione del desiderio gregario. Per Fromm il carattere nazista sarebbe l’esito di quella “pedagogia nera” – di cui il padre del presidente Schreber era un prototipo inquietante – che coltiva la rinuncia al pensiero critico e alla libertà individuale di fronte all’ideale di una identi cazione collettiva a massa che garantisce una identità solida a un corpo sociale smarrito. La libertà non è la sola aspirazione dell’uomo; esiste anche l’esigenza di una “fuga dalla libertà” che consente – grazie alla sottomissione a un potere più forte – di solidi care la propria identità mettendo la propria vita al riparo dalle insidie e dalla angoscia della libertà. Non esiste solo l’aspirazione umana alla libertà ma, come mostra bene Fromm, esistono anche veri e propri complessi “meccanismi di fuga dalla libertà”.43 Freud non si accontenta di questa lettura critico-sociologica della pulsione securitaria. Dai suoi testi è possibile infatti ricavare una lettura clinica della

pulsione securitaria. Modelli pedagogici sadico-repressivi possono indubbiamente favorire l’emersione della pulsione securitaria, ma quello che egli contesta è che la pulsione securitaria possa derivare integralmente dalla “cattiva educazione”. Per provare a de nire meglio la posizione di Freud occorre ripercorrere i suoi contributi alla teoria della pulsione. Lo faremo isolando brevemente tre distinte teorie freudiane della pulsione che non si armonizzano facilmente perché ciascuna contiene elementi contraddittori rispetto alle altre. La prima teoria pulsionale di Freud è centrata sui concetti di “oggetto parziale” e di “ ssazione libidica pre-genitale”. L’oggetto parziale scaturisce dalla ssazione libidica e viceversa secondo una sequenza topologica; è la ssazione libidica che determina l’oggetto parziale. Se per un verso Freud connota la pulsione in quanto tale come una spinta (Trieb deriva dal tedesco treiben, che signi ca, appunto, spingere) che implica un movimento in avanti, una forza propulsiva, un moto attivo, dall’altro, già con questa prima categorizzazione, sottolinea che la pulsione non procede mai unitariamente verso la sua meta genitale ma tende a ssarsi negli “anfratti” costituiti dalle zone erogene pre-genitali che hanno contrassegnato le prime tappe dello sviluppo della libido.44 La seconda teoria de nisce la pulsione come una spinta all’uni cazione. La ri essione di Freud sulla gura mitologica di Eros si fonda su questo principio: la pulsione è innanzitutto una forza uni catrice, generatrice di legami e della Civiltà stessa, è pulsione di vita, pulsione erotica. La sua lettura del Simposio di Platone è tutta centrata sul discorso di Aristofane, che propone una sorta di genesi mitica dell’essere umano;45 le parti di un primordiale essere androgino, generate dal taglio di Zeus, tenderebbero a superare la propria scissione per ricomporsi grazie alla spinta propulsiva di Eros. È questa la concezione platonica dell’amore: Eros sospinge all’unione, alla ricostituzione dell’intero, alla negazione della scissione. Freud, ovviamente, non segue Platone su questo punto – l’amore come uni cazione resta per il padre della psicoanalisi un miraggio idealizzante –, ma utilizza il mito aristofaneo di Eros per caratterizzare la forza della pulsione come forza aggregatrice. La pulsione erotica è pulsione di vita, forza di ricomposizione e di aggregazione. Non deve sfuggire l’aporia che attraversa queste prime due diverse

dottrine freudiane della pulsione. Non è chiaro come la gura della pulsione ssata all’oggetto parziale possa, infatti, mantenersi coerente con quella della pulsione come spinta aggregatrice. Se la prima accentua un legame unilaterale e singolarissimo tra il soggetto e l’oggetto in quanto, appunto, oggetto parziale – la pulsione resta indi erente all’alterità dell’Altro, appare come un movimento rotatorio su se stesso che ha come perno il vuoto aperto dall’oggetto parziale in quanto oggetto perduto –, la seconda esalta la pulsione erotica come matrice dei legami sociali. Si tratta di una contraddizione evidente: da una parte l’anima autoerotica della pulsione, la coalescenza fondamentale tra la pulsione e il corpo – l’oggetto di cui gode la pulsione è la sua stessa attività, il suo stesso corpo, il movimento rotatorio costante della pulsione su se stessa –, dall’altra, invece, la pulsione come forza sociale, come pulsione di vita, di allargamento e ampliamento della vita stessa e dei suoi legami. A rontare sistematicamente l’aporeticità di queste due diverse dottrine freudiane della pulsione non è però lo scopo di questo lavoro. Interessante è isolare almeno le due alterazioni possibili di questa tensione: la prima alterazione è quella propriamente “ipermoderna”. Questa alterazione consiste nel fatto che il vuoto interno che consente il movimento della pulsione – vuoto lasciato dalla perdita dell’oggetto parziale – si riempie e l’oggetto tende a funzionare come otturatore del vuoto. La clinica dei nuovi sintomi, soprattutto quella dalla quale la mia ricerca ha preso avvio, cioè i cosiddetti disturbi alimentari, mostra come la presenza dell’oggetto venga ad alterare la spinta della pulsione ssandola su di un movimento (illusorio) di riempimento incessante del vuoto.46 L’illusione che permea tutta la clinica del vuoto è che l’oggetto debba turare il movimento, in realtà senza ne, della pulsione. Una paziente anoressica assai grave rivela che il suo godimento consiste nel succhiare incessantemente la sua lingua. Questo godimento è determinato dall’attività del succhiare e non dalla lingua; la sua lingua è piuttosto la condizione che consente al movimento rotatorio della pulsione di ripetersi senza interruzioni. Nella misura in cui la clinica ipermoderna si struttura sulla passione per l’oggetto in quanto otturatore (illusorio) del vuoto, ne deriva un e etto di demassi cazione, uno sbriciolamento del carattere omogeneo della massa e la prevalenza del godimento mortale che rapporta a circuito chiuso la pulsione al suo oggetto. L’iperedonismo del discorso del capitalista suppone una profonda de-massi cazione poiché l’autismo del godimento prevale sulla

forza erotica e aggregatrice della pulsione. Rispetto all’identi cazione verticale al capo che ha strutturato la psicologia delle masse nell’epoca del totalitarismo, ma anche nei primi trent’anni del dopoguerra, prima dell’a ermazione incontrastata del discorso del capitalista, nel tempo ipermoderno in primo piano abbiamo una moltiplicazione degli oggetti di godimento che hanno come funzione prima quella di otturare il vuoto depressivo legato alla caduta dell’Ideale. Si tratta di una sorta di depressione di usa che genera una reazione maniacalizzante. Ma è la seconda alterazione della pulsione, quella securitaria, a interessarci maggiormente. Il suo primo fenomeno clinico non è il riempimento (illusorio) tramite l’oggetto, ma l’irrigidimento del con ne, la tras gurazione del con ne in muro. Il “muro”, infatti, si con gura come l’oggetto privilegiato della pulsione securitaria. È una vera e propria passione del nostro tempo che dalla clinica ci conduce alla politica e viceversa. Si pensi solo al grande muro che separa gli Stati Uniti dal Messico, la cui promessa di edi cazione ha animato tutta la campagna elettorale di Trump, o al passaggio avvenuto in Italia nel centro-destra dalla leadership di Berlusconi a quella di Salvini. Nel caso del muro di Trump i “messicani” divengono il capro espiatorio che dovrebbe risolvere paranoicamente l’esistenza di un’angoscia collettiva del popolo americano assai più di usa legata alla percezione di una precarietà di fondo – Isis, crisi economica, impoverimento, immigrazione, minacce internazionali (Corea, Cina, Russia, ecc.).47 Una nazione intera solidi ca la sua identità ra orzando i suoi con ni (vedi la politica sovranista dei dazi). Ma si tratta – sempre a proposito del muro – di una tentazione che dall’America di Trump è arrivata prepotentemente anche sullo scenario europeo: Brexit inglese, sovranismi nell’Europa orientale, tendenze populiste marcate in quella occidentale. Spinte reazionarie che mostrano chiaramente come il paradigma securitario nella sua inclinazione paranoica sia egemone nel dibattito politico facendo del tema della sicurezza il solo tema possibile, che relega tutti gli altri – sviluppo economico, difesa dell’ambiente, riscatto sociale, ecc. – in una posizione assolutamente laterale. Il muro viene esaltato come nuovo oggetto pulsionale securitario anche nel passaggio da Berlusconi a Salvini nella direzione politica delle forze del centro-destra in Italia. Se con il berlusconismo l’enfasi sulla libertà annunciava il dispiegamento di un individualismo che a ermava solo se

stesso prescindendo da qualunque causa ideale e sovvertendo ogni dimensione simbolica della Legge nel nome del paradigma neo-liberale (o neo-libertino) della libertà assoluta, i colpi della crisi economica che hanno investito l’Occidente, radicalizzando le diseguaglianze sociali e in ammando l’inso erenza soprattutto dei ceti medi e popolari hanno reso possibile – sullo sfondo di una debolezza politica delle forze della sinistra nel rappresentare le istanze di giustizia sociale – l’a ermazione di un nuovo paradigma paranoico sul quale si è cementato il volto sovranista della destra italiana. Mentre quello berlusconiano era fondato sul principio del godimento che si vuole libero dai lacci della Legge nel nome della libertà, quello incarnato da Salvini esalta invece la passione securitaria per il con ne. Al suo centro non c’è più l’a ermazione edonistica della libertà, ma la difesa oltranzista della propria identità minacciata dallo straniero, l’esaltazione nazionalista della frontiera come barriera, muro, porto chiuso. L’enfasi puberale della libertà ha lasciato il posto a quella iper-normativa e, al suo fondo, razziale, della sicurezza: difendere i con ni identitari, ribadire la propria sovranità nazionale contro ogni forma di contaminazione etnica e di in acchimento morale. Il con ne subentra alla libertà come oggetto della nuova passione securitaria. È, se si vuole, l’altra faccia della perversione: mentre la prima – quella berlusconiana – rivendicava la libertà senza con ni, la seconda – quella salviniana – esaspera il con ne come nuovo oggetto pulsionale. Nel transito tra questi due paradigmi, l’edonismo berlusconiano viene surclassato dalla paura e dall’angoscia nei confronti degli invasori (migranti, musulmani, Europa). Il nuovo leader della destra non o re più agli italiani il fantasma lussurioso del palco boccaccesco delle notti di Arcore, ma il rigore tetro del bastione; non crede più al partito della libertà, ma a quello della supremazia sovranista. Mentre il primo prometteva di trasformare l’Italia in un paese del Bengodi, il secondo si impegna a proteggere l’identità minacciata. Lo sfruttamento del carattere securitario della pulsione e della sua vocazione paranoica prende il posto dell’esaltazione del suo tratto rapace. Il carattere bu onesco del primo ha lasciato il posto alla gestualità gretta ma chirurgicamente lucida del secondo. Il paradigma perverso è ruotato su se stesso: la libertà assoluta si rovescia nella assoluta illibertà. Il corpo s nito di Berlusconi viene sostituito da quello dell’energetico leader leghista che rassicura gli italiani sulla solidità dei loro con ni e sul primato dei loro diritti. Il messaggio sembra

irresistibile: la nuova cultura securitaria veste di nero gli abiti di paillettes ormai sfatti del berlusconismo. Questi due esempi politici mostrano eloquentemente il cambio di paradigma avvenuto nel passaggio dalla clinica del vuoto alla clinica securitaria; dal riempimento (illusorio) tramite l’oggetto di godimento all’irrigidimento del con ne identitario. Se è evidente la componente paranoica che struttura la pulsione securitaria, non dobbiamo sottovalutare quella neo-melanconica. Un esempio clinico molto eloquente è quello dell’adolescente che si ritira nella sua camera, smette di frequentare la scuola, si isola. In evidenza non c’è la rincorsa dell’oggetto del desiderio, ma quella che Jung de niva come una “introversione della libido”. Freud riprende questa immagine in una delle sue Cinque conferenze sulla psicoanalisi quando scrive che “la nevrosi sostituisce nella nostra epoca il convento nel quale solevano ritirarsi tutte le persone che la vita aveva deluso o che si sentivano troppo deboli per a rontarla”.48 La scelta del convento – quando non è animata da una autentica fede religiosa – può con gurarsi come una scelta securitaria. Il convento appare come uno spazio claustro lico che sostituisce la precarietà e l’inquietudine dello spazio aperto della vita. Lo spazio securitario del convento protegge la vita dall’eccesso ingovernabile della vita, protegge, scrive Freud, dalle o ese della vita. Questa introversione della libido disegna il nuovo campo della psicopatologia contemporanea dove al centro non c’è più la vita sospinta dalla pulsione a godere senza tenere conto della Legge, catturata dalla girandola degli oggetti del desiderio, ma la vita che si protegge, attraverso una ipertro a della Legge, dalla vita; la vita che ha sempre più paura della vita. È una delle nuove cifre del disagio contemporaneo, in particolare della giovinezza, determinato dal passaggio dalla dimensione maniacale del paradigma della clinica del vuoto alla dimensione melanconica del paradigma della clinica securitaria. La tristezza, l’abulia, l’apatia, l’angoscia dell’uscire fuori, all’aperto, la spinta a ingessare i propri con ni, a renderli impermeabili, a chiudersi nella propria dimora, a trasformare la casa in tana sono espressioni sintomatiche della pulsione securitaria. La casa più sicura è infatti quella che – come una prigione – non ha né porte né nestre. È una casa che si è tras gurata in una casa-fortezza.49 Se la nevrosi è una passione “religiosa” per la propria giusti cazione, per trovare il proprio senso nell’Altro, la pulsione securitaria esprime una passione per la propria

sicurezza vivendo l’Altro (paranoicamente) come una minaccia. Del resto, se rileggiamo il quarto e il quinto capitolo di Al di là del principio di piacere non possiamo non vedere emergere l’idea di un investimento pulsionale che ha come suo oggetto paradossale il con ne dell’apparato psichico. È questa la terza teoria della pulsione formulata da Freud, che sfocia nell’idea della pulsione di morte. In questi due capitoli Freud costruisce una sorta di genesi arcaica della soggettività. All’origine dobbiamo supporre che l’organismo vivente coincida con l’esistenza di una vescichetta in rapporto a una quantità sempre eccessiva di stimoli che essa non è in grado né di programmare, né, tanto meno, di governare. Nel Progetto per una psicologia, che costituisce il testosfondo di Al di là del principio di piacere, Freud aveva già de nito, come abbiamo visto, la quota impadroneggiabile e perturbante di stimoli e di eccitazioni che destabilizza la vita, con la lettera grande Q. In termini lacaniani grande Q è il primo nome del reale; un ammontare di quantità di eccitamenti che non possono essere né assorbiti, né evacuati senza che vi siano tracce della loro irruzione. In questi capitoli di Al di là del principio di piacere l’organismo vivente – la “vescichetta” – de nisce la sua identità vitale solo attraverso la determinazione rigida dei suoi con ni senza però mai riuscire a ricondurre la vita alla inerzia originaria dalla quale è scaturita. La presenza della vita è per Freud qualcosa che turba irreversibilmente la quiete della materia inorganica. È una incrinatura, una tensione, una forza misteriosa che non può più – una volta apparsa – essere ricondotta all’inerzia dell’origine che precede l’insorgere della vita, sebbene sia proprio questo il primo moto auto-conservativo che anima la vita, ritornare alla quiete priva di tensione della condizione inorganica: In un certo momento le proprietà della vita furono suscitate nella materia inanimata dall’azione di una forza che ci è ancora completamente ignota. […] La tensione che sorse allora in quella che era stata no a quel momento una sostanza inanimata fece uno sforzo per autoannullarsi; nacque così la prima pulsione, la pulsione a ritornare allo stato inanimato.50

La prima forma della pulsione è per Freud, dunque, pulsione melanconica, pulsione securitaria, pulsione di morte. La prima forma della pulsione respinge la tensione che la vita introduce nella quiete dell’inerte. Con questa metafora biologica egli intende sottolineare che esiste – immanente alla vita – una tendenza della vita al proprio annullamento, a

scansare il disordine, l’increspatura, l’inquietudine che la presenza della vita non può non introdurre nell’esistenza. In questo senso Freud può a ermare che la vita che vuole vivere, la vita viva, la vita che non si necrotizza nella pulsione securitaria è la vita che devia dalla spinta alla morte. Nondimeno, il fondamento scabroso della vita resta la sua tendenza melanconica alla difesa e alla negazione della vita. Non a caso in Al di là del principio di piacere appaiono in sequenza una serie di termini che insistono nel sottolineare la centralità, nella costituzione dell’identità soggettiva della vita, del con ne: “scudo”, “protezione”, “argine”, “limite”, “barriera”. Sono tutte gure usate da Freud per evidenziare come la meta prima della pulsione sia la propria auto-conservazione. La sua tesi è loso camente e clinicamente scabrosa: l’apparato psichico si costruisce originariamente, ben prima della pulsione gregaria, come un movimento di ra orzamento dei propri argini al ne di conservare se stesso di fronte al mondo vissuto come “straniero e apportatore di stimoli” ingovernabili. In questo Freud ribalta drasticamente Aristotele: l’uomo non è a atto un “animale sociale”, ma una spinta autistica a proteggere il proprio con ne nel nome della morte contro la vita. È questo il cuore scabroso del Todestrieb: una sorta di desiderio fascista si troverebbe all’origine della vita. Esso scaturirebbe primariamente da una alterazione abnorme della funzione protettiva del con ne. Mentre infatti il con ne, come scrive Freud, “è una membrana porosa, quindi difende la vita ma consente anche lo scambio della vita con l’altro”, il suo iperinvestimento può anche prevalere sulla funzione di “scambio della vita con l’altro” che il con ne è tenuto a svolgere. La pulsione securitaria è, infatti, una patologia del con ne. La vita umana – individuale e collettiva – necessita del con ne e delle sue funzioni di protezione e di iscrizione identitaria. La vita senza con ne è infatti solo la vita schizofrenica. Al tempo stesso però il con ne può smarrire la dimensione plastica della sua funzione irrigidendosi. In questo caso non serve più la vita e la sua a ermazione – “lo scambio della vita con l’altro” – ma la ostacola diventando un agente tossico. L’assenza del con ne, come la sua presenza rigida e impermeabile allo scambio – la sua sclerotizzazione solo rigidamente difensiva –, sono due facce della stessa medaglia e conducono egualmente alla distruzione della vita.51 La pulsione securitaria nella sua vocazione paranoica consiste in un ra orzamento del con ne solo come barriera, muro, bastione. Meglio il chiuso dell’aperto. È la dimensione

neo-melanconica della passione securitaria. Freud lo aveva già notato: “Per l’organismo vivente la protezione dagli stimoli è una funzione più importante della ricezione degli stessi”.52 La protezione appare all’origine più fondamentale della ricezione, l’odio per l’esistenza perturbatrice dello straniero, assai più antico dell’amore. Quando il con ne si ipertro zza irrigidendosi, la membrana che avvolge l’organismo vivente cessa di essere luogo di transito e s’indurisce, perde la sua porosità divenendo carapacica, assomigliando a qualcosa di inorganico, di non-vivente, di morto. La porosità della membrana lascia il posto a una sua cementi cazione, a una perdita di elasticità. Il con ne esaurisce la sua funzione di transito e di scambio e si cristallizza nella protezione dell’organismo vivente dall’eccesso di stimoli. Siamo di fronte a un essiccamento securitario della membrana, a una sua vera e propria calci cazione. Se lo strato più super ciale e più esterno del con ne ha il compito di salvare gli strati più profondi dall’eccesso di stimolazioni, la devitalizzazione del con ne può rivelarsi una catastrofe che non consente nemmeno la sopravvivenza di quegli strati. È questo il fondo melanconico della pulsione securitaria. È la tesi capitale di Freud: la parentela che unisce la pulsione di auto-conservazione (fondata sull’irrigidimento dei con ni) alla pulsione di morte che vuole ricondurre la vita stessa alla quiete dell’inorganico, alla dimensione amorfa della materia inerte. La protezione, lo scudo, la barriera; Freud mostra che l’esito dell’auto-conservazione della pulsione, cioè l’esito della pulsione primaria dell’Io, si incarna nella pulsione di morte. Lo sconcertante di cui si nutre la pulsione securitaria è questa coincidenza tra pulsione identitaria di auto-conservazione – pulsione dell’Io – e pulsione di morte. Nondimeno il ra orzamento mortifero del principio di piacere, la sua degradazione narcotica nell’azione auto-conservativa della pulsione di morte, non è in grado di sottrarre la vita al suo carattere ingovernabile. Non si può, ripete Freud, pretendere di fuggire dalla pulsione; non si possono riportare le perturbazioni della vita al loro grado zero. Il principio omeostatico non può riassorbire le tensioni interne che animano l’apparato. In questo senso, come ricordano giustamente Ansermet e Magistretti, “la psicoanalisi può essere considerata come la scienza del fallimento del principio di piacere”.53 Se la vocazione securitaria della pulsione di morte rigetta l’intruso – l’inquietudine della vita, l’eccesso straniero della pulsione –, se ne difende strenuamente, punta a evacuarlo o

a distruggerlo, la psicoanalisi lavora per favorire l’esistenza di processi di inclusione. È questa la sua cifra politica. Si tratta di un movimento tortuoso, fondato sul “tentennamento” e non sulla scarica che de nisce quello che Bollas chiama “stato democratico della mente” o “mente democratica”. L’eliminazione fascista e scissionista dell’intruso deve lasciare faticosamente il posto alla sua integrazione: La mente democratica mira a contenere e tollerare tutti i propri elementi divergenti, in modo che nulla sia eliminato. Il processo democratico, cui è a dato il compito di occuparsi di tutte le parti, utilizza il tentennamento come un’attività mentale impegnata a muoversi costantemente tra tutte le parti della mente.54 RIMOZIONE NEO-LACANIANA DELLA PULSIONE DI MORTE

Le letture della pulsione di morte ispirate da un lacanismo condizionato fortemente dalla critica anti-edipica di Freud, tendono tutte, seppur con accorgimenti di erenti, a negare esplicitamente – è il caso emblematico di Deleuze – o a risemantizzare positivamente – è il caso altrettanto emblematico di Žižek – la gura sconcertante del Todestrieb. L’operazione consiste nell’eliminare di fatto l’aspetto maggiormente inquietante di questa gura che abbiamo provato sino a qui a mettere in luce in quanto fondamento della pulsione securitaria: esiste una pulsione che tende a chiudere e non ad aprire; esiste una pulsione estrema all’autoconservazione che coincide con la distruzione stessa della vita; esiste una pulsione alla chiusura “più antica” rispetto a quella che sospinge verso l’apertura. Di fronte allo scandalo di questa ipotesi il neo-lacanismo o re una lettura solo a ermativa della pulsione di morte che rimuove di fatto lo scandalo sconcertante del suo carattere “conservatore”. In queste letture si privilegia a senso unico la spinta esorbitante della vita verso se stessa, della volontà immortale di vita, del godimento pulsionale come godimento della immanenza assoluta, della pulsione come moto perpetuo – costantemente in atto – del reale del proprio godimento.55 Lo spigolo duro del reale della pulsione di morte rischia così di essere neutralizzato da una versione puramente a ermativa del reale stesso, del reale come godimento in nito della pulsione che gode di se stessa – che si gode – e della sua coalescenza al corpo. Un esempio notevole tra tutti è quello di Žižek che, pur

prendendo una posizione critica e controcorrente verso la liquidazione deleuziana della Legge della castrazione e della funzione del Nome del padre,56 con uisce di fatto – almeno su questo punto – sulla stessa onda teorica di Deleuze quando a erma che “‘la pulsione di morte’ indica la lamella ‘non morta’, l’‘immortale’ ostinazione della pulsione che precede lo svelarsi ontologico dell’Essere, la cui limitatezza appare all’essere umano nell’esperienza dell’‘essere-per-la-morte’”.57 È il vitalismo fondamentale che ispira tutte le letture neo-lacaniane della pulsione di morte, la quale, depurata della sua negatività, “non è il marchio della nitezza umana, ma il suo esatto contrario, il nome di una vita eterna, di natura spettrale, l’indice di una dimensione dell’esistenza umana che persiste per sempre oltre la nostra morte sica e della quale non possiamo mai sbarazzarci”,58 una sorta di “automa mostruoso” che ci domina, una “macchina di jouissance” che non conosce pause, intermittenze, mancanze.59 Non è certo questo il luogo per interrogare le conseguenze generali di questo tipo di lettura, né, tanto meno, la sua fedeltà al testo di Lacan. Quello che mi preme fare notare è la riduzione che essa opera sul concetto freudiano di Todestrieb facendo evaporare il suo tratto più ostico e indigeribile che invece l’attuale montata reazionaria e sovranista che sta percorrendo l’Occidente rivela in tutta la sua potenza devastatrice. Non la spinta immortale della vita che vuole godere in nitamente di se stessa rigettando ogni forma “maledetta” di mancanza, ma la vita che ri uta e rigetta la vita, la vita che diviene ostile alla vita, il suo desiderio di conservazione, di morte, il suo “fascismo eterno”.60 Come se i due termini antinomici presenti nella gura del Todestrieb – la pulsione e la morte – che Freud congiunge paradossalmente (congiunzione che costituisce l’enigma stesso di questo concetto), tornassero a separarsi a partire da una concezione solo vitalistico-immanentistica della pulsione che subordina la morte alla vita secondo un esorcismo anti-heideggeriano oggi decisamente egemone nel dibattito loso co. Diversamente Freud ci invita, con lucido disincanto, a vedere nella vita medesima una attrazione irresistibile verso l’orizzonte della morte, della negazione della vita; una spinta alla propria assoluta coincidenza – all’espulsione dell’alterità interna della vita – che non può che esitare nella sua morti cazione. Per questa ragione, come scrive lucidamente Bottiroli, “la pulsione di morte è spinta al collasso di ogni distinzione […] prima di

essere lo slancio che porta a distruggere l’alterità dell’Altro, è la volontà di distruggere la propria stessa alterità, vale a dire la non-coincidenza con se stessi”.61 Tutto Al di là del principio di piacere insiste inequivocabilmente su questo punto: la tendenza auto-conservatrice della pulsione, se spinta a fondo, diviene a ermazione di una vita morta, o, meglio, di una vita che usa la morte contro la vita, che non tollera la trascendenza di Eros e “sceglie” – contro questa trascendenza – la potenza morti cante della distruzione, della coincidenza con zero, della coincidenza della vita con la morte. È quella “volontà di ricominciare da zero”, come la de nisce Lacan, che contrassegna lo sforzo impossibile al quale la pulsione di morte si prostra: distruggere tutto ciò che separa la vita dalla sua origine,62 lo sfasamento che costituisce la vita come non coincidente con se stessa, distruggere il legame della vita con la vita, l’esperienza sempre perturbante del legame della vita con altre vite. In questo senso ha piuttosto ragione Ricoeur nel ricordare su questo punto che la sola forma dell’al di là del principio di piacere – la sola “grande eccezione”, la sola resistenza alla pulsione di morte – è Eros.63 In questo quadro altamente problematico si può ben vedere che il vero trauma che la psicoanalisi incarna nei confronti della loso a non sia tanto quello dell’esistenza di pensieri inconsci – della non esaustività tra vita della coscienza e vita psichica –, ma, come a erma Lacan, quello di sospingere la verità sino alle soglie incandescenti “di ciò che Freud ha chiamato pulsione di morte, ovvero il masochismo primordiale della jouissance”. È questo il punto autenticamente traumatico dove “tutti i discorsi loso ci fuggono o si ritraggono”.64 Il punto dove la vita non vuole guarire, dove la vita cerca la soluzione della morte all’inquietudine della vita, dove la vita ri uta la vita restando attaccata al godimento coatto dello Stesso, alla ripetizione necessaria del Medesimo, alla chiusura autistica sul proprio godimento. È questo il passo compiuto da Freud con il concetto di Todestrieb: la vita si ammala non perché viene bloccata nella sua evoluzione adattiva naturale o, che è poi lo stesso, nel suo movimento teleologico verso il Bene, ma perché non vuole rinunciare alla garanzia di un godimento chiuso su se stesso che escluda il rapporto, di un godimento che renda impossibile l’incontro con l’Altro, che agisca come difesa estrema – come barriera protettiva e securitaria – di fronte al carattere fatalmente destabilizzante di questo incontro. Se la forma umana della vita è sempre gettata nella trama

strati cata dei rapporti, se il suo essere, come direbbe Jean-Luc Nancy, lettore radicale di Heidegger, è sempre un “essere-con”,65 la pulsione di morte svela l’inclinazione della vita a contraddire questa consegna radicale, a ri utare l’esposizione irreversibile della vita umana all’Altro. Rivendicando l’interpretazione della pulsione di morte come immanenza assoluta del godimento a se stesso che non conosce discontinuità, né mancanze, che esclude la trascendenza del desiderio, il neo-lacanismo cancellerebbe, “da sinistra”, lo scandalo sollevato dall’ultimo Freud: la vita tende ad agire contro se stessa, tende a fuggire dalla vita, a stagnare nella forma della pietra, attratta irresistibilmente dall’inorganico, dalla compattezza minerale della vita morta. L’interpretazione paradossalmente vitalistica della pulsione di morte nisce così col rimuovere (o forcludere) il punctum pruriens rivelato da Freud. Il realismo e l’eroismo del godimento appaiono ai miei occhi come una grande scotomizzazione del reale sconcertante del Todestrieb, ovvero della tendenza della pulsione a chiudersi piuttosto che ad aprirsi, a “ricominciare da zero” invece di tenere conto della vita come già da sempre esposta al legame con l’Altro. Insomma, l’aperto non è – questo insegna l’ultimo Freud – la sola inclinazione della vita umana; esiste anche quella per il chiuso, la difesa, l’irrigidimento, la barriera, la sicurezza come nuovo oggetto pulsionale, la coazione paradossale della pulsione di morte, l’in essibilità fascista dell’auto-conservazione. “Nell’individuo diventato ‘in essibile’ – scrive giustamente Bottiroli – vediamo in azione quella forza che Freud ha chiamato Todestrieb, pulsione di morte.”66 Questa in essibilità confonde la vita con la morte, l’auto-conservazione con la propria distruzione. Il soggetto melanconico la testimonia nella sua condizione atroce: la vita morta è innanzitutto la vita che ri uta la vita viva.

1. I testi maggiori di riferimento di questo paradigma sono M. Recalcati, Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze, psicosi, cit., e L’uomo senza inconscio, cit. In quest’ultimo testo alcuni temi relativi a un nuovo paradigma clinico rispetto a quello teorizzato nella clinica del vuoto sono già presenti. 2. In un passaggio del Seminario Lacan, non a caso, unisce il “bordello” e la “prigione” come due passioni fondamentali dell’umano: “L’uomo, appena arriva da qualche parte, installa una prigione e un bordello”. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 179. Devo questa citazione all’amica e collega Sara Riccardi. 3. Mi permetto di far notare che L’uomo senza inconscio ri ette già intorno a questo movimento: si

pensi in particolare alla distinzione lì proposta tra clinica dell’“Io senza inconscio” e clinica dell’“Es senza inconscio”. Cfr. M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit., in part. pp. 3-26. 4. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro . Il transfert (1960-1961), tr. it. Einaudi, Torino 2008, pp. 12-13. 5. Si possono leggere a questo proposito diverse considerazioni contenute in M. Recalcati, I tabù del mondo, Einaudi, Torino 2017. 6. Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, in , vol. 9, p. 222. 7. Vedi su questo punto le imprescindibili ri essioni di Roberto Esposito sul paradigma immunitario. Cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, e Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 2006. 8. Cfr. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, in , vol. 4, e Il disagio della civiltà (1929), in , vol. 10. 9. J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, cit., vol. 1., p. 314. 10. Se Lacan e i suoi maggiori allievi hanno via via accentuato il polo a ermativo-maniacale della pulsione di morte, Freud e i suoi primi lettori (Melanie Klein in particolare) hanno accentuato maggiormente il suo aspetto melanconico-negativo. 11. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 165. 12. Cfr. J. Lacan, Posizione dell’inconscio, tr. it. in Scritti, cit., vol. 2, p. 852. 13. Per una articolazione sistematica della complessità di questa lettura mi permetto di rinviare a M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Ra aello Cortina, Milano 2012, in part. pp. 239-336, e Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica, cit., in part. pp. 217-257. 14. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 179. 15. Cfr. S. Freud, Introduzione al narcisismo, in , vol. 7, e Al di là del principio di piacere, cit., p. 246, nota 1. 16. Cfr. S. Freud, L’Io e l’Es, cit., pp. 515-516. 17. S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 213. 18. Ibidem. Per Lacan si tratta della nozione freudiana di “reale”: Q come quota irriducibile di eccitazioni e stimoli, di “quantità non padroneggiabili”. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 35 (corsivo mio). 19. S. Freud, Pulsioni e loro destini, in , vol. 8, p. 34. 20. Ibidem, p. 31. 21. S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., pp. 214-215. 22. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, p. 16. 23. Ibidem, p. 22. 24. Non è forse racchiuso in questa formulazione paradossale l’enigma della pulsione di morte? Come può, infatti, esistere una “pulsione dell’Io”? La pulsione di per sé non dovrebbe escludere per principio la solidità narcisistica dell’Io? 25. Cfr. S. Freud, L’Io e l’Es, cit., p. 515. 26. Cfr. J. Lacan, Kant con Sade, cit. 27. Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 204. 28. S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 208. 29. Ibidem, p. 209. 30. S. Freud, Analisi terminabile e interminabile, in , vol. 11, p. 509. 31. S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 208. 32. Mi permetto su questa declinazione rovinosa della ripetizione di rinviare a M. Recalcati, Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze, psicosi, cit., e L’uomo senza inconscio, cit. 33. Vedi il capitolo , in questo libro. 34. Cfr. J. Lacan, Sapere, ignoranza, verità e godimento, in Il mio insegnamento e Io parlo ai muri, cit., p. 110.

35. Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., pp. 222-223. 36. G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 32 (corsivo mio). 37. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, cit., p. 307. 38. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 32. 39. Ibidem. 40. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, cit., p. 271. 41. W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, tr. it. Einaudi, Torino 2002; E. Fromm, Fuga dalla libertà, tr. it. Edizioni di Comunità, Milano 1978. 42. U. Eco, Il fascismo eterno, La nave di Teseo, Milano 2018, p. 39. 43. E. Fromm, Fuga dalla libertà, cit., p. 136. 44. È su questa teoria della pulsione come ssazione a un oggetto parziale, di tipo pre-genitale che Lacan costruisce la sua famosa teoria dell’oggetto piccolo (a). Questo oggetto, che de nisce la singolarità più propria del soggetto, viene prelevato dal campo dell’Altro. La sua genesi – in un esempio proposto da Lacan nel suo Seminario titolato L’atto psicoanalitico (1967-1968) – trova un suo modello nel mito biblico di Adamo ed Eva. L’oggetto piccolo (a) – la donna come causa del desiderio dell’uomo – scaturisce dal prelievo della costola di Adamo; un pezzo dell’essere del soggetto viene trasferito nel campo dell’Altro generando il desiderio come ssato sull’oggetto in quanto perduto. La costola da cui sorge Eva sarebbe allora la matrice dell’oggetto piccolo (a) in quanto oggetto perduto e trasferito nel campo dell’Altro, ma anche in quanto resto irriducibile di questa stessa operazione. Cfr. J. Lacan, Lé Séminaire. Livre . L’acte psychanalityque (1967-1968), lezione del 21 febbraio 1968, inedito. 45. Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., pp. 242-246. 46. Cfr. M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, cit., e Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze, psicosi, cit. 47. I messicani servono a Trump per alimentare la pulsione securitaria. È un esempio chiaro della perversione della pulsione gregaria: la passione per il con ne non dipende dall’esistenza dei messicani – o, in Europa, dei migranti –, ma è l’esistenza dei messicani – o dei migranti – che serve per alimentare quella passione. 48. S. Freud, Cinque conferenze sulla psicoanalisi (1909), in , vol. 6, p. 168. 49. Bisogna rileggere in questa luce lo straordinario racconto di Franz Ka a, titolato La tana: si vede bene che lì la scelta del soggetto è quella di pensare il con ne come una trincea, una muraglia, pensare il con ne come una barriera. Sulla tras gurazione della dimora in fortezza, vedi S. Petrosino, Capovolgimenti. La casa non è una tana, l’economia non è il business, Jaca Book, Milano 2008. 50. S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 224. 51. Sul tema del con ne, sulla sua esigenza e sulla sua alterazione securitaria, si devono leggere J.-L. Nancy, L’intruso, tr. it. Cronopio, Napoli 2000, e E. Gaburri, L. Ambrosiano, Ululare coi lupi. Conformismo e rêverie, Bollati Boringhieri, Torino 2004. 52. Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 213. 53. F. Ansermet, P. Magistretti, Gli enigmi del piacere, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 24. 54. C. Bollas, L’età dello smarrimento. Senso e malinconia, tr. it. Ra aello Cortina, Milano 2018, p. 67. 55. In Italia i maggiori lettori di Lacan oggi tendono a riconoscersi in queste tesi che ho de nito “neo-lacaniane”. Tra essi cito, tra i più lucidi e interessanti, gli amici loso R. Ronchi, Come fare? Per una resistenza loso ca, Feltrinelli, Milano 2012, in part. pp. 62-89, e F. Leoni, Jacques Lacan. L’economia dell’assoluto, Orthotes, Salerno 2016, e l’amico psicoanalista A. Pagliardini, Jacques Lacan e il trauma del linguaggio, Galaad, Giulianova 2011, e Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale, Galaad, Giulianova 2016. 56. Cfr. il notevole S. Žižek, Organi senza corpi. Deleuze e le sue implicazioni, tr. it. La scuola di Pitagora, Napoli 2012. Ž

57. S. Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, tr. it. Ra aello Cortina, Milano 2003, p. 83. 58. Ibidem, p. 381. 59. Ibidem, p. 493. 60. Cfr. U. Eco, Il fascismo eterno, cit. 61. G. Bottiroli, La ragione essibile. Modi d’essere e stili di pensiero, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 352. 62. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 269. 63. Cfr. P. Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, tr. it. il Saggiatore, Milano 1979, p. 323. 64. Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre . L’objet de la psychanalyse (1965-1966), inedito, lezione dell’8 giugno 1966. 65. Cfr. J.-L.Nancy, Essere singolare plurale, tr. it. Einaudi, Torino 2001. 66. G. Bottiroli, La ragione essibile. Modi d’essere e stili di pensiero, cit., p. 323.

III L’ILLUSIONE DELLA PERVERSIONE

I libertini, nell’adoperare i corpi delle loro vittime come cose, non sono altro che dei in Terra, cioè il loro modello è sempre Dio. .. RIMOZIONE DELLA MANCANZA

Il nostro tempo si sostiene sull’oblio della dimensione della mancanza e del desiderio; la sua premessa maggiore è la negazione maniacale della perdita.1 La di usione delle nuove melanconie segnala tuttavia la verità nascosta dell’egemonia esercitata dal discorso del capitalista: la vita spenta – la vita senza desiderio – esprime la verità rimossa della vita iperattiva. In questo contesto un’altra gura clinica appare dominante. Alludo alla gura della perversione, che nella clinica psicoanalitica indica una posizione del soggetto che nel nome del proprio godimento – dell’Uno chiuso del suo godimento – vorrebbe negare risolutamente l’esistenza della mancanza e del desiderio. La sua illusione è pienamente condivisa dal tempo ipermoderno: assicurare al soggetto un godimento che gli procuri la cancellazione della mancanza e del desiderio. Ma qual è, più in profondità, la lezione fondamentale della perversione? Cosa insegna su questo tema la clinica della psicoanalisi? Perché la perversione contiene un’illusione che appare come il rovescio della medaglia della melanconia? IL FETICISMO PERVERSO

La domanda sulla natura della perversione impone un passaggio necessario attraverso il testo di Freud. La prima scena freudiana della

perversione consiste in uno smembramento della percezione. È la tesi maggiore di Freud: la perversione sorge da una cancellazione, da una negazione, più precisamente, da una Verleugnung (rigetto) di una percezione dal contenuto spiacevole e angosciante. La scena è nota: un bambino entra nella camera dei suoi genitori e osserva stranito il corpo svestito della madre restando pietri cato di fronte alla assenza del fallo nel genitale femminile.2 La prima percezione che è alla base della perversione è una percezione intrisa di angoscia, uno “stigma indelebile” che caratterizzerà quel rapporto di particolare estraneità che tendenzialmente i feticisti intrattengono col vero e proprio genitale della donna.3 Il bambino potrebbe soggettivare quella assenza, oppure rimuoverla, ma, nella sequenza quasi lmica proposta da Freud, non procede né verso l’una, né verso l’altra delle opzioni a sua disposizione. Piuttosto, opera un terzo e inatteso movimento che è a fondamento del feticismo. Freud lo de nisce come un “rinnegamento” (Verleugnung) della percezione che, se per un verso registra l’assenza del fallo nel corpo della madre, per un altro verso la rigetta – la rinnega appunto – provocando quella che Freud chiama “scissione dell’Io” (Ich-Spaltung), ovvero uno dei tratti clinici fondamentali della perversione.4 Il bambino che ha e ettivamente incontrato la castrazione materna, mentre registra questa percezione, al tempo stesso la rinnega, scindendo l’Io in due parti distinte: l’una che conserva memoria dell’orrore della castrazione, l’altra che, appunto, la rinnega. Quello che si impone è dunque una percezione smembrata; due contenuti di erenti vengono registrati simultaneamente dal soggetto dando luogo a una divisione della percezione stessa. Questa divisione, a sua volta, istituisce un errore interpretativo, o, meglio, una vera e propria illusione percettiva. È questo il primo tratto dell’illusione perversa in quanto tale: il bambino freudiano scambia illusoriamente la mancanza con la privazione, percepisce la mancanza sotto l’esclusiva forma della privazione. Si tratta di uno snodo essenziale della logica della perversione: porre la mancanza come luogo di una privazione, schiacciarla – la mancanza – sulla gura negativa di una mutilazione, di un meno, di un de cit, di una assenza, signi ca altresì poterla compensare con un oggetto – il feticcio appunto. Se il corpo della madre non ha il fallo, se ne è privo – come per un verso registra la percezione spiacevole e angosciata del bambino –, a questa mancanza-privazione – essendo mancanza come privazione di qualcosa – c’è

sempre rimedio. Se il perverso interpreta la mancanza schiacciandola sulla privazione è perché in questo modo può proteggersi dall’orrore della castrazione ricorrendo alla funzione otturatrice attribuita all’oggetto destinato a rimpiazzare il fallo assente. La centralità che Freud attribuisce al feticismo nella struttura clinica della perversione consiste proprio in questo: evidenziare l’operazione perversa come manovra di restituzione al corpo della madre – attraverso l’adorazione dell’oggetto-feticcio –, della sua integrità intaccata dalla castrazione. L’oggetto-feticcio è, infatti, il modo con cui il soggetto perverso risolve il problema della mancanza dell’Altro sullo sfondo di una fallace e riduttiva interpretazione di questa stessa mancanza come mera privazione. Quella perversa si pro la pertanto come la risoluzione ingannevole di un falso problema: il feticcio si con gura come il medium di una risoluzione illusoria (il feticcio non è il fallo) a un problema mal posto (la mancanza non è la privazione). Ecco manifestarsi allora pienamente la centralità che Freud assegna al feticismo nella clinica della perversione; esso fornisce il modello teorico puro di questa risoluzione illusoria della mancanza ridotta a privazione: il feticcio prende il posto del fallo assente completando il corpo della madre e proteggendo il soggetto dall’incontro traumatico con quella mancanza. Si tratta però, come abbiamo visto, di un errore interpretativo corretto mediante la creazione di un oggetto illusorio. Nella lettura di Freud, il soggetto perverso non può confrontarsi davvero con l’angoscia di castrazione ntanto che la appiattisce e la confonde sistematicamente con la privazione. È infatti proprio questa confusione dello statuto della mancanza con quello della privazione a rendere impossibile al perverso l’accesso alla dimensione simbolica della mancanza, ossia alla mancanza intesa non solamente come una sorta di negatività frustrata, ma anche come forza, spinta in atto capace di far sorgere la generatività del desiderio. Accedere simbolicamente alla mancanza signi ca accedere non tanto a una declinazione pauperistica della vita, bensì all’espressione di quella trascendenza immanente al soggetto che de nisce il movimento propulsivo del desiderio. Diversamente il giudizio perverso resta impigliato nella sola dimensione immaginaria della mancanza ostacolando così l’accesso del soggetto a quella simbolica che non rinnega la castrazione ma ne riconosce la funzione normativa. È questo, come vedremo fra poco, il grande equivoco della lettura perversa del desiderio.

MALEDIZIONE DEL DESIDERIO?

La prima illusione della perversione concerne la sovrapposizione dello statuto solo immaginario della privazione con quello simbolico della mancanza. Si tratta di un equivoco decisivo; la sovrapposizione dello statuto immaginario della privazione a quello simbolico della mancanza è il punto sul quale scivola anche il passo di Deleuze nella sua lettura critica del binomio, a suo dire, “teologico”, di mancanza e desiderio che, insieme alla nozione di Legge, costituirebbe il cuore della versione freudiano-lacaniana della psicoanalisi.5 Il punto è che Deleuze legge, se si può dire così, solo “perversamente” la logica freudiana della perversione. In gioco è, infatti, una interpretazione perversa della castrazione arbitrariamente ridotta alla dimensione puramente immaginaria della privazione e, di conseguenza, del desiderio stesso descritto “perversamente” come una vera e propria “maledizione”.6 Quello che Deleuze intende contestare principalmente è l’identi cazione di desiderio e mancanza. Si tratterebbe del fulcro di quella “condanna cristiana” – di origine greca – del desiderio che lo assimila a una “tensione spiacevole” che a igge la vita umana. Il desiderio porterebbe con sé la condanna di una mancanza inestinguibile. Freud si iscriverebbe in questo solco aggiungendo che la tensione spiacevole del desiderio può trovare solo nella scarica la sua soluzione. Nondimeno questa soluzione non può che essere provvisoria, considerato il carattere inestinguibile della mancanza stessa. Il godimento raggiunto attraverso la scarica non potrà, infatti, che rivelarsi aleatorio perché insu ciente ad appagare la sua natura incolmabile. Più precisamente, secondo Deleuze, la condanna del desiderio implica tre diverse maledizioni. La prima è quella che inizierebbe con Platone e giungerebbe, passando da Freud, sino a Lacan: il desiderio implica la mancanza di qualcosa, è sempre desiderio di ciò che non si ha. La seconda maledizione consiste nel fatto che la trascendenza del desiderio può conoscere solo stati provvisori di appagamento perché ogni riempimento della mancanza è in realtà una illusione che non cancella la sua insoddisfazione perpetua. La terza, in ne, consiste nel fatto che l’insoddisfazione perpetua del desiderio mostrerebbe la sua irriducibilità a tutti quegli stati di piacere che possono o rire la sua soddisfazione. In

questo modo la trascendenza del desiderio sfuggirebbe sempre alla sua realizzazione immanente e il desiderio nirebbe così per restare “completamente intrappolato, catturato in un cerchio”. Innanzitutto occorrerebbe ricordare che la gura del desiderio perennemente insoddisfatto è una gura isterica che non de nisce a atto la struttura del desiderio in quanto tale. Ma più precisamente, nella ra gurazione deleuziana delle tre maledizioni del desiderio prevale una concezione della mancanza – che lo stesso testo di Lacan in parte autorizza – ridotta al suo statuto di privazione. Essa viene infatti appiattita risolutamente sullo statuto de citario della privazione; intesa come uno stato di a izione, negatività, assenza, come appunto una maledizione solidale a quella del desiderio stesso. Il desiderio che sorge dalla mancanza non può che portare sulla sua schiena il timbro di un destino di insoddisfazione perpetua che lo agita come una passione inutile, come un cattivo in nito destinato a una inquietudine senza pace. Per Deleuze, infatti, il desiderio è condannato a rincorrere a annosamente i suoi oggetti, che si rivelano tutti egualmente insoddisfacenti in quanto non esiste a rigore un Oggetto del desiderio. La mancanza del desiderio si riproduce incessantemente senza mai poter raggiungere una piena soddisfazione. Si tratta di una lettura rigorosamente “perversa” della mancanza che viene ricondotta senza scarti allo statuto della privazione. Il desiderio non è visto come una forza espansiva, come la trascendenza dell’immanenza, ma come il frutto bacato di una mancanza che non si estingue mai. Nulla può infatti, nella lettura di Deleuze, salvare il desiderio dal ciclo maledetto di “mancanza, desiderio, scarica, delusione” destinato a ripetersi in nitamente. Per Deleuze il desiderio nella lettura di Freud e Lacan è solo desiderio di ciò che non si ha, desiderio nichilistico e dissipativo, vittima di una nostalgia inguaribile della totalità. La trascendenza del desiderio resta in questo modo imprigionata in un altrove ogni volta deludente che ribadisce la sua costituzione maledetta. In altri termini, la sua lettura del desiderio traduce l’identi cazione del desiderio alla struttura della metonimia – teorizzata da Lacan – dimenticando completamente che il soggetto di desiderio è altresì, sia per Freud che per Lacan, una forza in atto, una condizione, uno stato d’essere generativo che esorbita da quella dimensione di “coscienza infelice” alla quale Deleuze vorrebbe consegnarla. Ridurre perversamente la mancanza a privazione – vale a dire mancanza di

qualcosa, a izione per un oggetto perennemente mancante – signi ca condannare il desiderio a non essere altro che la spinta a annosa e in nitamente di erita alla ricerca di quell’Oggetto (impossibile) in grado di saturare la privazione che lo istituisce. Ogni sua realizzazione – ogni sua “scarica” – non può dunque che rinnovarsi come in una spirale infernale. Sono queste le “tre condanne” a cui sarebbe immancabilmente votato il desiderio: “1. Mancherai ogni volta che sarai desiderante; 2. Potrai solo sperare nelle scariche; 3. Perseguirai l’impossibile godimento”. Ma questo circuito chiuso è l’esito di una lettura a senso unico (perverso) della gura del desiderio. Manca insomma in Deleuze l’idea del desiderio come motore, causa, forza erotica che attiva e vivi ca la vita, luogo – già in Freud concepito come “indistruttibile” – della più piena realizzazione del soggetto, trascendenza radicata nell’immanenza del corpo pulsionale.7 Il desiderio che vorrebbe la soppressione della mancanza non è il desiderio, ma solo la sua versione perversa. La soggettivazione del desiderio come obiettivo fondamentale di un’analisi consiste proprio nel dissociare il desiderio da ogni gura di totalità o di miraggio di totalizzazione per sostenerlo sulla mancanza non come de cit o privazione a ittiva ma come motore generativo. LA CONFUSIONE TRA INCOMPLETEZZA E INCONSISTENZA

La lettura perversa della castrazione si fonda sulla confusione tra mancanza e privazione. È la sua prima interpretazione fallace. A questa confusione ne seguono altre due. L’illusione perversa si appoggia su di un tripode immaginario che ha come primo piede la sovrapposizione di mancanza e privazione e come altri due piedi, la sovrapposizione (o la confusione) di incompletezza e inconsistenza e la confusione della perdita dell’oggetto con l’insoddisfazione perpetua del desiderio. Iniziamo a vedere il secondo piede di questo tripode immaginario: la confusione tra incompletezza e inconsistenza. Andiamo dritti al punto: il perverso scambia l’inconsistenza con l’incompletezza dell’Altro. Esso si confronta solo con l’incompletezza e non con l’inconsistenza dell’Altro, così come si confronta solo con la privazione e non con la mancanza. L’incompletezza suppone l’idea di totalità compiuta. Per esempio quella del corpo della madre. Se manca un oggetto – il fallo – in questo corpo è perché

la sua esistenza ha il potere di ricostruire la totalità di quello stesso corpo. È la funzione otturatrice del feticcio: rendere il corpo della madre non castrato, completo, non intaccato dalla castrazione. Esiste pertanto una profonda omologia tra la privazione e l’incompletezza; entrambe queste gure suppongono una totalità minata che deve essere protetta nella sua incolumità. Il soggetto perverso non accede al piano simbolico della inconsistenza dell’Altro ma resta inchiodato alla versione solo immaginaria del grande Altro come Altro che manca di qualcosa. Un Altro, dunque, che si tratterebbe di completare aggiungendo, come accade nel feticismo, l’oggetto di cui esso manca (il fallo). Il feticcio è, infatti, un oggettosupplemento deputato a colmare e a risolvere la mancanza dell’Altro proteggendo il soggetto dall’eventualità dell’incontro con la sua inconsistenza strutturale. Il problema è che si tratta anche in questo caso, come nel caso della privazione, di una mancanza immaginaria, di una mancanza concepita solo sul modello empirico della privazione. In gioco non è l’inconsistenza, ma l’incompletezza dell’Altro. Lo statuto simbolico dell’inconsistenza dell’Altro – così come Lacan lo riformula prolungando, per certi versi, proprio la ri essione di Freud sulla perversione – è tutt’altra cosa rispetto a quello immaginario dell’incompletezza. Nondimeno, l’identità tra inconsistenza e incompletezza, come quella tra mancanza e privazione, è un piede essenziale del tripode immaginario dell’illusione perversa. Se si interpretano l’inconsistenza o la mancanza dell’Altro come incompletezza, se, cioè, si interpreta, come accade nella perversione, la castrazione come una privazione – come mancanza del fallo nel corpo della madre –, si resta fatalmente prigionieri della gura immaginaria della totalità. Quello che il perverso rigetta è l’inconsistenza dell’Altro che prevede la presenza della dimensione simbolica della castrazione, la quale non segnala tanto la mancanza di qualcosa, di un oggetto, del fallo come, appunto, oggetto assente nel corpo della madre, quanto la mancanza come condizione strutturale dell’Altro. L’inconsistenza, diversamente dall’incompletezza, non dipende infatti da nessun oggetto perché concerne, al contrario, l’e etto che il reale produce sul simbolico (capovolgendo un assioma classico dell’insegnamento di Lacan secondo il quale il simbolico agisce sul reale negativizzandolo). Se ci riferiamo all’inconsistenza dell’Altro è per liberarci dall’idea che il sistema dell’Altro possa essere garantito da un fondamento ontologico, fosse anche quello del Nome del padre. In realtà la

soggettività umana è consegnata all’esposizione con l’impossibilità del fondamento dell’Altro, con l’inesistenza dell’Altro dell’Altro, come si esprime radicalmente Lacan. Questa tesi non si limita ad a ermare la mancanza nell’Altro di qualcosa, ma indica che è la mancanza stessa a strutturare il luogo dell’Altro, che non esiste evasione possibile da questa mancanza perché l’Altro non manca contingentemente di qualcosa, ma porta con sé una mancanza strutturale, impossibile da aggirare; è un Altro mancante per de nizione. Non esiste una mancanza nell’Altro – come ritiene invece illusoriamente il perverso –, ma esiste una mancanza dell’Altro, interna allo stesso sistema dell’Altro. Questo signi ca che l’Altro è mancante perché non può ricoprire il reale, non può ridurne l’eccesso, la sua presenza ingovernabile. È proprio l’esistenza del reale a rendere il luogo dell’Altro mancante, ovvero inconsistente. Questo è d’altronde un tema ricorrente nella ri essione di Lacan: il reale è ritagliato dal signi cante – prodotto dal signi cante –, ma, al tempo stesso, è ciò che esorbita dal signi cante. Non tutto, infatti, spiega Lacan in diverse circostanze, è signi cante, non tutto rientra nell’ordine del signi cante. Opporre l’inconsistenza dell’Altro all’incompletezza non signi ca solo mostrare che il luogo dell’Altro è intaccato da una mancanza inaggirabile – “non tutto è signi cante” –, ma signi ca soprattutto mostrare che l’esistenza del soggetto è sempre in rapporto a un certo grado insopprimibile di assenza. È quello che il bambino freudiano vorrebbe rigettare nel suo tentativo di trovare una soluzione perverso-feticistica al problema angosciante della mancanza. Se il tempo del reale – il tempo del godimento – vive nell’assoluto presente, quello della vita umana è un tempo storico, dunque sempre circondato, braccato, attraversato da un’assenza che non è mai possibile né cancellare, né neutralizzare. L’immanenza della vita implica sempre l’eco di una assenza, come mostra in modo insuperabile e sublime il ciclo delle Delocazioni di Claudio Parmiggiani.8 Oppure, per fare un altro esempio non meno signi cativo, si pensi alla memoria, agli spettri dei morti, dei nostri avi, delle generazioni che ci hanno preceduto e che non cessano di accompagnare la nostra esistenza. Il lutto non è solamente una esperienza circoscritta a un oggetto perduto, ma, come mostra bene Jacques Derrida in Spettri di Marx, coincide con il processo stesso di soggettivazione. Una vita non è concepibile se non come un continuo lavoro del lutto al punto che, come sostiene Derrida contro Freud, questo

lavoro non può mai concludersi, non può mai risolversi una volta per tutte. è la traccia melanconica che residua irriducibile in ogni lavoro del lutto.9 È questo un insegnamento fondamentale e insuperabile della clinica psicoanalitica. Siamo tutti fabbricati, costituiti “da” e “attorno” a qualcosa che manca all’orizzonte della semplice presenza. L’inconsistenza dell’Altro indica il fatto che la presenza non è mai scissa, disgiunta del tutto dall’assenza; mostra come l’immanenza della vita non può essere mai separata del tutto dalla sua trascendenza. Con un’aggiunta essenziale e doverosa: è solo questa inconsistenza – l’inconsistenza dell’Altro – a rendere possibile la contingenza assoluta dell’atto. Se, infatti, il sistema dell’Altro fosse completo, fondato da una Legge ontologica, se, insomma, esistesse un Altro dell’Altro, un Altro a garanzia dell’esistenza dell’Altro, non saremmo nient’altro che le sue marionette inermi. Accade nella rappresentazione paranoica dell’Altro come sistema fondato su se stesso, chiuso, solido. Per il paranoico l’Altro dell’Altro possiede una esistenza certa che o re all’orizzonte del mondo un quadro stabile anche se delirante. Gli atti del soggetto sono passaggi all’atto richiesti dal grande Altro della Causa, sono espressioni di obbedienza del soggetto alla volontà dell’Altro. Diversamente, se il luogo dell’Altro si rivela come inconsistente – nonostante il perverso, come il paranoico, cerchi tutte le strategie possibili per renderlo consistente, ossia completo –, l’atto diventa possibile proprio come manifestazione e sperimentazione in atto dell’inconsistenza dell’Altro: l’atto è ciò che buca, fora, interrompe il sistema ordinato dell’Altro, la credenza immaginaria nell’esistenza dell’Altro dell’Altro, nella sua completezza, nella sua solidità ontologica. In questo senso per Lacan l’atto è sempre in rapporto al reale: solo se c’è sperimentazione dell’inconsistenza dell’Altro, c’è possibilità dell’atto e, a sua volta, è proprio perché si dà possibilità dell’atto che l’Altro è reso inconsistente. Atto e inconsistenza si richiamano quindi vicendevolmente come accade nella celebre scena kierkegaardiana della scelta, dell’aut-aut, del “tremore”, della responsabilità, della dimensione assolutamente singolare e disarmata dell’atto. LA CONFUSIONE TRA PERDITA E RINUNCIA DEL GODIMENTO

Il terzo piede del tripode immaginario che sostiene l’illusione perversa è quello della confusione tra la perdita dell’oggetto di godimento e la rinuncia

al godimento. Il soggetto perverso opta per il godimento assoluto ri utando la perdita dell’oggetto e il lutto che essa impone. In questo senso la perversione è radicalmente anti-melanconica. Il soggetto perverso interpreta la perdita come se fosse una rinuncia al godimento. Nell’interpretazione perversa l’oggetto perduto da cui scaturisce il desiderio darebbe luogo a una mistica negativa del desiderio destinato a rincorrere in avanti un oggetto che, in realtà, lo causerebbe alle spalle secondo una nostalgia inestirpabile. È il nerbo della lettura deleuziana della maledizione del desiderio. In realtà, questa rappresentazione ra orzerebbe – come abbiamo visto – l’idea solo sacri cale e privativa – pauperistica – della mancanza e del desiderio come suo frutto disperato. È il nucleo essenziale della lettura perversa del desiderio: il perverso ri uta il desiderio nel nome del godimento perché sposa una lettura del desiderio come mera a izione dell’essere, una lettura che confonde la perdita necessaria dell’oggetto – stabilita dall’azione del linguaggio – e, di conseguenza, il carattere inaggirabile del lavoro del lutto con la vocazione del desiderio alla insoddisfazione perpetua. Ma rinunciare all’oggetto perduto non comporta necessariamente la rinuncia al desiderio come potenza a ermativa! È solo l’interpretazione perversa del desiderio che ri uta l’esperienza della perdita dell’oggetto temendo di “perdere” o, peggio, di dover “sacri care” a essa – alla perdita – il suo desiderio. Ecco perché il perverso tras gura l’esperienza del desiderio, come Lacan indica in Kant con Sade, in pura e assoluta “volontà di godimento” che esclude per principio l’esperienza della mancanza e del desiderio.10 La terza confusione della perversione, dopo quella tra privazione e mancanza e quella tra incompletezza e inconsistenza, è, insomma, quella tra la perdita dell’oggetto – provocata dall’azione del linguaggio e necessaria al sorgere dell’esistenza del desiderio – e la rinuncia al godimento come conseguenza fatale di quella perdita. Quello che sfugge alla interpretazione perversa della dinamica della perdita è che la perdita non scatena necessariamente l’attaccamento a ciò che si è perduto, non curva il desiderio verso il rimpianto nostalgico di un godimento sottratto o, meglio, questa è solamente la versione nevrotica o melanconica del desiderio, poiché la dinamica della perdita accende la trascendenza erotica del desiderio, sprigiona la sua forza, la sua generatività immanente. La perdita dell’oggetto – il sacri cio dell’immediatezza animale della vita – implica il lutto del

linguaggio – la morti cazione simbolica – ma non il lutto del desiderio. La perdita dell’oggetto non genera di per sé una declinazione nostalgica del desiderio. Il fuoco dell’incontro amoroso, per fare solo un esempio che spero eloquente, non scaturisce dalla combustione dell’amore infantile per la madre; il desiderio amoroso non è l’esito di una ripetizione di un amore primordiale già vissuto. Piuttosto, questo nuovo amore esorbita dall’orizzonte della mera ripetizione dello Stesso; non è amore per il familiare ma per lo straniero, per il segreto, per lo sconosciuto. In questo senso la perdita dell’oggetto – la morte dell’amore per la madre, il lutto per la Cosa-madre – libera, anziché imprigionare in un abito melanconico, la forza del desiderio. Questo è propriamente il passaggio dal desiderio come aspirazione perennemente frustrata – la maledizione del desiderio secondo Deleuze – al desiderio come stato d’essere, come potenza erotica totalmente in atto.11 Rinunciare all’oggetto perduto non signi ca a atto rinunciare al desiderio tout court o al godimento di vita, ma, casomai, separarsi dallo Stesso per esporsi al rischio del Nuovo. È allora la perversione a restare prigioniera nostalgica dell’Origine, del mito di una vita piena e incorrotta, della leggenda di un Eden beato senza mancanza e desiderio. È a partire da questo fantasma dell’Origine che il perverso intende ri utare il carattere necessario della perdita dell’oggetto identi cando, appunto, questa perdita con la natura a ittiva e maledetta del desiderio. Per il perverso l’esigenza del godimento senza mancanza e desiderio è la bussola fondamentale della sua azione. Diversamente l’idea di una perdita originaria dell’oggetto introduce ipso facto l’oggetto angosciante – la mancanza del soggetto e dell’Altro – dal quale esso ha necessità di ripararsi. In questo senso la perversione è una forma di attaccamento incestuoso all’idea di un’Origine piena, di una vita priva di mancanza, assoluta, completa. Per questo l’ideologia perversa esalta il pre-linguistico, il pre-signi cante, la Natura, la vitalità del corpo come un assoluto che prescinde da ogni esperienza negativa della mancanza e del desiderio. In questo modo il perverso si oppone, nel nome di un’a ermazione assoluta del reale del godimento, alla perdita irreversibile dell’oggetto sancita dalla Legge del linguaggio. IL FONDO ORDINARIAMENTE PERVERSO DEL DESIDERIO

Il tripode immaginario della perversione si costituisce, come abbiamo appena visto, assemblando tre confusioni: la mancanza confusa con la privazione; l’inconsistenza confusa con l’incompletezza; la perdita dell’oggetto confusa con la rinuncia al godimento. Ora proseguiamo la nostra ri essione sulla natura del desiderio perverso. Il primo passo da compiere è quello di distinguere questo desiderio – il desiderio perverso in quanto tale – dal carattere ordinariamente perverso del desiderio umano. Un riferimento testuale si impone; è alla Lettera ai Romani di Paolo di Tarso. Precisamente nel passaggio, che anche Lacan ha contribuito a rendere celebre, dove scrive che è solo l’esistenza della Legge a fondare la possibilità del peccato.12 La sua tesi è chiara: è l’esistenza simbolica del limite che impedendo l’accesso alla Cosa del godimento fa “divampare” la spinta del desiderio.13 Solo l’esistenza dell’interdizione rende possibile la manifestazione del desiderio; solo l’esistenza della Legge provoca la nascita del desiderio come volontà della sua trasgressione. Questa è la logica paolina della Legge. Si tratta, come si vede, di una versione dialettica della Legge: l’intensità del desiderio aumenta proprio laddove l’oggetto verso cui esso si rivolge è colpito dal marchio della proibizione. È un fatto di esperienza comune: niente come l’interdizione di un oggetto può rendere quello stesso oggetto un oggetto di desiderio. La proibizione alimenta il desiderio di ciò che viene proibito. In altre parole, è l’esistenza della Legge che fomenta la spinta al suo oltrepassamento trasgressivo. Ebbene, questa concezione dialettico-teologica della Legge non concerne in senso stretto la perversione, come invece si potrebbe pensare. Essa concerne piuttosto il desiderio del nevrotico, o, più precisamente, il tratto comunemente perverso della versione nevrotica del desiderio. Deleuze sembra non cogliere questa di erenza quando confonde il ragionamento paolino sul rapporto tra desiderio e Legge con la verità ultima di questo rapporto enfatizzando, insieme all’aspetto privativo del desiderio, la sua dipendenza regressivo-infantile – edipica – dalla Legge. In realtà, nella tensione che apparenta il desiderio alla Legge – l’interdizione del desiderio innesca la spinta del desiderio stesso al superamento trasgressivo dell’interdizione medesima – si tratta del fondo comunemente perverso che caratterizza il desiderio umano. È solo il nevrotico che interpreta la Legge come ciò che, ostacolando la realizzazione del proprio desiderio, spoglia impunemente il desiderio stesso del suo diritto rendendolo come tale

colpevole. Non a caso il nevrotico è attratto dal superamento perverso del limite della Legge proprio perché egli resta totalmente assoggettato a una versione della Legge come repressione disciplinare del desiderio. Il perverso realizzerebbe allora quello che il nevrotico può solamente fantasticare. La sua è una messa in atto del fantasma inconscio del nevrotico. In questo senso la nevrosi, diversamente dalla perversione, resta vincolata alla dipendenza dialettica del desiderio dalla Legge come Paolo l’ha ra gurata. Nella lettura paolina l’esistenza della Legge non indica la struttura del desiderio perverso come tale, ma solo l’inclinazione del desiderio umano a trasgredire la Legge, a vivere “perversamente” il desiderio come antagonista della Legge. L’interdizione in quanto tale non nutre a atto il desiderio, ma solo la sua declinazione nevrotica. Se questo è vero dobbiamo compiere un passo in avanti e chiederci: esiste una versione del desiderio che pur non essendo perverso possa prescindere dalla interdizione? Esiste un desiderio la cui esistenza non sia dettata dalla Legge come ciò che estende l’ombra moralistica della “proibizione” e del “peccato” sul desiderio stesso? Esiste, cioè, una Legge del desiderio che prescinda dalla Legge? Una Legge che non sia ipotecata dalla sua versione valoriale-assiologica che nisce per sancire la vita del desiderio solo come morte della Legge e viceversa?14 Lacan si accosta a questa dimensione quando fa riferimento non tanto al con itto nevrotico o perverso tra la Legge e il desiderio, ma all’esistenza di una “Legge del desiderio”.15 Questa Legge – se esiste – non indica a atto il rapporto con ittuale del desiderio con una Legge che lo vorrebbe ridurre all’obbedienza pastorale, ossia che vorrebbe rinchiudere il desiderio in una dialettica dell’obbedienza o della trasgressione di stampo gnostico. “Legge del desiderio” signi ca, piuttosto, pensare l’esistenza di una Legge assolutamente immanente al desiderio e, come tale, eccentrica a ogni versione perversa del desiderio. UNIFICARE IL CORPO CON IL GODIMENTO

Nella lezione del 26 marzo 1969 del Seminario Lacan o re una de nizione rigorosa del godimento perverso e della sua illusione.16 Questa illusione consiste nel rendere assolutamente compatibile il corpo con il godimento. Mentre la forma umana della vita implica una distanza irriducibile tra il corpo e il godimento generata dall’azione traumatica del

linguaggio sull’essere del soggetto che, appunto, separa irreversibilmente il corpo dal godimento rendendoli incompatibili l’uno rispetto all’altro, il disegno del perverso è quello di contrastare la Legge del linguaggio e annullare questa distanza. Si tratta di una manovra di uni cazione che punta alla coincidenza assoluta di corpo e godimento. Tuttavia, il corpo è destinato a essere in perdita di godimento, a non essere corpo animale, corpo abitato dalla pienezza vitale dell’istinto. Il corpo umano resta, infatti, luogo dell’Altro, luogo dove il godimento si ssa in determinate zone (erogene per Freud) senza poter mai riempire integralmente il corpo. Il disegno illusorio del perverso è invece quello di riempire il corpo di godimento annullando la distanza che separa il corpo dal godimento. Questo disegno implica altresì la spinta a esercitare una padronanza assoluta di questo corpo, a divenire un Maître del godimento del corpo, di fare del godimento del corpo che gode di se stesso la sola forma possibile della Legge. L’ideale della coincidenza perversa tra corpo e godimento è quello che personalmente percepisco come il vero rischio etico del neo-lacanismo.17 L’evento reale dell’inconscio coinciderebbe con l’evento del corpo come evento puro di un godimento tutto in atto – assoluto, sganciato dall’Altro, irrelato, immanente – che vorrebbe escludere l’esperienza della distanza e della mancanza e che, in ultima istanza, mirerebbe a escludere la morte, essendo la morte un nome radicale di questa distanza e di questa mancanza. La morte, infatti, non appartiene per nulla al registro dell’immaginario, come a volte sembra a ermare lo stesso Lacan. Quella forma di vita che de niamo “umana” è destinata a non sottrarsi mai al pensiero della morte, a non emanciparsi dall’incombenza della sua presenza. L’imminenza sovrastante della morte (come, del resto, l’eccesso illimitato della vita) è il nome della distanza che scuce l’illusione perversa di raggiungere una piena compatibilità di corpo e godimento. Lo sforzo del perverso è quello di sollevare una obiezione decisa a questa incompatibilità invocando la piena coincidenza di corpo e godimento, di un corpo che rivendica la sua assoluta immanenza, la sua “volontà di godimento” ri utando ogni esperienza della di erenza tra sé e sé, della non coincidenza, dell’assenza della presenza. Il soggetto perverso punta a ridurre lo strappo traumatico che il linguaggio introduce nel corpo; non vuole passare dal lutto necessario della Cosa del godimento.

I TRE PASSI FONDAMENTALI DELLA PERVERSIONE

Possiamo riassumere l’illusione perversa in tre passi distinti. Il primo passo è quello critico. Il perverso ambisce a denunciare la Legge degli uomini come un’impostura, a smascherarne la falsità e l’ipocrisia, a sviluppare una serrata critica alla dimensione disciplinare, repressiva, assoggettante della Legge. Per Sade la Legge assomiglia a un “serpente velenoso”. La Legge degli uomini è un veleno perché trasforma la vera Virtù – la spinta acefala della pulsione – in Vizio e la associa al giudizio morale imboccando la strada super-egoica dell’esaltazione idealizzante del sacri cio e della colpa morale. La critica della Legge è una esigenza fondamentale del pensiero perverso. Sade assume l’atto perverso come una sorta di “negazione della negazione”: negazione di quella negazione morale che la Virtù eserciterebbe sul Vizio. Sade nega la negazione della vita promossa dalla Legge: solo il Vizio, non la Virtù, è infatti l’espressione naturale – “senza Legge” – della vita. Il carattere di impostura e di arti cio simbolico della Legge consiste, invece, nel fatto che essa allontana l’uomo dalla Natura rendendolo schiavo, prigioniero della Legge stessa, la quale non sarebbe altro che una manifestazione della difesa impaurita del soggetto nei confronti dell’eccesso indomabile del godimento. Questa è la prossimità paradossale che Lacan sottolinea tra Kant e Sade: promuovere il godimento – la “volontà di godimento” sadiana – a nuovo imperativo universale della Legge, imperativo al quale vengono, reiteratamente, subordinate le vite individuali e i loro interessi empirici. In particolare, la colpa e la maledizione della Legge degli uomini è quella di negare la realtà della Legge del godimento. La Legge degli uomini aliena la vita dalla sua Origine, da quel godimento compatibile con il corpo che Sade vede, al contrario, incarnato nella vita della Natura. Non è quindi un caso che il progetto sadiano consista in una rinaturalizzazione radicale dell’uomo recuperandone l’Origine, ossia l’innocenza della vita di Natura che ha preceduto il trauma male co dell’esistenza della Legge. Il secondo passo è quello fondazionista. Il progetto perverso non può essere contenuto nella sola critica alla Legge. La sua esigenza è assai più radicale. Esso non si accontenta della versione paolina della Legge nella sua dialettica con il desiderio (interdizione-trasgressione), ma pretende di riscrivere ex novo la Legge, di rifondare la Legge, di dare alla Legge un nuovo inaudito fondamento. Il “senza Legge” del godimento perverso non

è quindi un vero “senza Legge” perché il godimento diviene la nuova e unica forma possibile della Legge una volta abbandonata l’impostura della Legge degli uomini. Il vero perverso non gode, infatti, della trasgressione della Legge – è questo semmai il tratto perverso che può accompagnare il desiderio nevrotico –, ma aspira alla sua rifondazione radicale. Quale? Qual è la Legge delle Leggi alla quale il perverso si vota come un “crociato”, come un “cavaliere della fede”, per usare le espressioni che Lacan propone nel Seminario ? Qual è la Legge delle Leggi che dovrebbe oltrepassare la maledizione colpevolizzante della Legge degli uomini? Questa Legge è la Legge della Natura, che, non a caso, Sade concepisce come una sorta di “armonia invertita” e che Pasolini sintetizza nella prima battuta di uno dei membri del diabolico quartetto del suo Salò: “L’eccesso è Bene”. Battuta che eleva l’eccesso del godimento alla sola forma possibile della Legge, alla sua forma compiuta e inumana. Non a caso il terzo e più fondamentale passo della perversione è quello metamor co. Il passo più essenziale della perversione non è né quello della critica alla Legge, né quello della spinta alla sua rifondazione. Il passo più essenziale e più decisivo della perversione è quello della metamorfosi dell’umano. Quale metamorfosi? Quella che Lacan nel Seminario descrive con precisione come trasformazione del Soggetto sbarrato (soggetto del desiderio e dell’inconscio) nell’oggetto piccolo (a). Si tratta, più precisamente, di una metamorfosi masochista; il soggetto del desiderio viene degradato a oggetto di godimento, alla funzione dell’oggetto “deietto”, gettato, “al cane, nella spazzatura, nella pattumiera, tra i ri uti dell’oggetto comune”.18 Il perverso non si limita infatti a realizzare il godimento di fronte alla negatività infelice del desiderio, ma punta a trasformare il soggetto stesso del desiderio, il soggetto diviso, sbarrato, mancante, il soggetto che non può mai coincidere con se stesso – il soggetto dell’inconscio – in un oggetto inerte che non conosce mancanza, non conosce divisione, desiderio, negatività. In Sade questa metamorfosi rinvia alle gure di Dio e dell’animale come due forme di vita che escludono la distanza che separa il corpo dal godimento. L’esito ultimo della metamorfosi perversa è quello di assimilarsi a Dio (“Dio è presente ovunque in Sade”, ha a ermato Lacan) o – ma nella logica perversa è, paradossalmente, la stessa cosa – all’animale. Dio e l’animale sono, difatti, le due forme di vita nelle quali la disgiunzione che distanzia e

che separa il godimento dal corpo verrebbe annullata. La metamorfosi masochista eleva, più propriamente, il masochismo alla forma compiuta della perversione. Solo nel masochismo possono realizzarsi la piena soppressione del soggetto diviso e il passaggio metamor co a un’altra forma di vita, quella dell’oggetto inumano e impersonale. È questo tutto il privilegio che Lacan attribuisce al masochismo rispetto al sadismo.19 La vera perversione trova la sua realizzazione nella metamorfosi masochista di soggetto in oggetto perché nel sadismo sopravvive ancora una quota di soggettività, una quota di volontà, di intenzionalità, di divisione soggettiva che invece l’opzione masochista annulla de nitivamente. Il sadico, infatti, vuole godere, agisce per sottomettere l’Altro al suo regime volontaristico gettandolo nell’angoscia, ma non può mai coincidere con l’oggetto del suo godimento. La sua resta ancora una spinta a godere che denuncia paradossalmente lo scarto che continua a sussistere tra corpo e godimento, la trascendenza dell’uno rispetto all’altro. Nel sadismo – come mostrano mirabilmente le pagine sartriane de L’essere e il nulla dedicate al desiderio sadico –20 sussiste una spinta a godere che, mentre vorrebbe annullare la distanza insopprimibile tra il godimento e il corpo, è, in realtà, costretta a rivelarla eternamente. Ecco perché in Sade le pratiche sadomasochiste dei suoi personaggi devono essere ripetute in nitamente secondo uno stesso copione. La distanza che disgiunge corpo e godimento rendendoli strutturalmente incompatibili può essere soppressa, sebbene illusoriamente, solo dall’inerzia della posizione masochista. Per questo secondo Lacan, diversamente da Freud, non esiste alcuna simmetria tra sadismo e masochismo; sadismo e masochismo non sono cioè, rispettivamente, il polo attivo e passivo di una identica economia pulsionale. Piuttosto, secondo Lacan, è il masochismo a realizzare quella metamorfosi compiuta del soggetto alla quale punta il disegno perverso. Nel masochista, assai più radicalmente che nel sadico, ci troviamo di fronte a una totale abolizione del soggetto diviso del desiderio. Il masochista si gode, infatti, solo in quanto oggetto; si rende oggetto compatto come un minerale, una pietra, un “cane”, un “detrito”, uno “scarto”. Puro oggetto, impersonalità assoluta del godimento Uno. L’aspirazione più estrema della perversione è quella di realizzarsi – come scrive puntualmente Lacan in Kant con Sade – nella “vicinanza” assoluta con la Cosa.21 Il masochista è un Dio che non conosce la morte: essere un

cane, uno scarto, un detrito signi ca realizzare una forma di vita (inumana) nella quale la mancanza e il desiderio siano nalmente estirpati e la Legge del linguaggio abolita. L’impersonalità del masochista spurga de nitivamente la vita dall’angoscia per la morte e per l’eccesso anarchico della vita. Essa restituisce al corpo – sottratto alla Legge del linguaggio – la sua integrità assoluta di corpo di godimento, compatto come il cemento, assoluto, immortale, libero da ogni forma di patimento. In questo senso il masochismo è il tentativo più radicale di raggiungere in vita una forma di vita (impersonale) che non conosce più l’assillo della mancanza. Si tratta di tras gurare la vita in una vita che non coincide con se stessa, come sono quelle, appunto, di Dio o dell’animale. L’operazione perversa-masochista è pertanto una operazione che mette a morte la forma umana della vita. Per il masochista il desiderio deve essere, in quanto tale, morto per porre il godimento come assoluto. Nessuna trascendenza, nessuna aspirazione, nessuna ferita, nessun desiderio. Per il masochista essere cane, scarto o detrito signi ca essere una forma di vita in cui la mancanza è irreversibilmente estinta. Essendo il desiderio morto, il godimento è nalmente divenuto assoluto. La forma di vita masochista vorrebbe essere una forma di vita libera dall’angoscia della morte, vorrebbe ribaltare la verità senza verità della melanconia.

1. Cfr. M. Recalcati, Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze, psicosi, cit., e L’uomo senza inconscio, cit. 2. Cfr. S. Freud, Feticismo, in , vol. 10, pp. 491-497. 3. Ibidem, p. 493. 4. Cfr. S. Freud, La scissione dell’Io nel processo di difesa (1938), in , vol. 11, pp. 557-560. 5. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, cit. 6. Il mio riferimento preciso è a G. Deleuze, Anti Oedipe et mille plateaux: dualismo, monismo e molteplicità, lezione tenuta nel Corso di Vincennes, 26 marzo 1973, a cura di A. Siciliano e F. Chicchi (inedito). Tutte le citazioni di Deleuze che seguono sono tratte dal testo citato. 7. Lo sviluppo di questa versione non a ittiva del desiderio è al centro di tutto il mio lavoro più recente, compresa la lettura di Jacques Lacan. Mi limito a rinviare a M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, cit., Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica, cit., e Contro il sacri cio. Al di là del fantasma sacri cale, Ra aello Cortina, Milano 2017. 8. Cfr. M. Recalcati, “Claudio Parmiggiani: la preghiera della pittura”, in Il mistero delle cose. Nove ritratti di artisti, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 177-205. 9. Cfr. J. Derrida, Memorie per Paul De Man. Saggio sull’autobiografia, tr. it. Jaca Book, Milano 1995, e Spettri di Marx, tr. it. Ra aello Cortina, Milano 1994. Su questo tema vedi le notevoli ri essioni di S.

Regazzoni, La decostruzione del politico. Undici tesi su Derrida, Il Melangolo, Genova 2006, pp. 431504. 10. Cfr. J. Lacan, Kant con Sade, cit., p. 773. 11. Cfr. E. Fachinelli, Il desiderio dissidente, in Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi, Milano 2010, p. 112. 12. Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 7,7. 13. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 105. 14. Tutta la mia lettura di Lacan prova a sondare questa ipotesi: l’etica della psicoanalisi si edi ca come emancipazione della categoria di desiderio dalla sua versione nevrotico-perversa mediante la supposizione dell’esistenza di una forza immanente al desiderio che prescinde da ogni versione morale-sacri cale della Legge. Vedi, in particolare, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, cit., in part. il capitolo , e Contro il sacri cio. Al di là del fantasma sacri cale, cit. 15. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., e Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, tr. it. in Scritti, cit., vol. 2, p. 830. 16. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro . Da un altro all’Altro (1968-1969), tr. it. Einaudi, Torino 2019, pp. 244-256. 17. Vedi il capitolo , in questo libro. 18. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 116. 19. Cfr. M. Fiumanò, Masochismi ordinari, Mimesis, Milano-Udine 2016. 20. Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it. il Saggiatore, Milano 1980, pp. 447-502. 21. Cfr. J. Lacan, Kant con Sade, cit., p. 787.

IV DENARO, MANIA E AVIDITÀ DELLA PULSIONE ORALE

Il maniaco ci dimostra inequivocabilmente di essersi liberato dell’oggetto che lo aveva fatto so rire anche perché si getta come un a amato alla ricerca di nuovi investimenti oggettuali. . , Lutto e melanconia IL DENARO COME IDOLO DEGLI IDOLI

La domanda è antica e probabilmente retorica: la ricchezza, il possesso di grandi quantità di denaro o di beni genera davvero la felicità? Il nostro tempo fa di tutto per sostenere questa illusione. È il cuore della pubblicità: il possesso illimitato degli oggetti renderebbe felici. Più saggiamente si potrebbe rispondere a quella domanda: “No, il denaro non rende felici, però aiuta”. Ma il denaro può davvero aiutare a essere felici a una sola condizione: se esso serve la vita e non riduce la vita al suo servizio. Nei termini della loso a classica questo signi ca considerare il denaro come un mezzo e non come un ne. Perché quando il denaro si trasforma da mezzo che serve alla vita a ne alla quale la vita viene asservita, esso assume fatalmente le forme spettrali di un idolo. La nostra non è solo una società liquida, senza bussola, cinica e narcisistica, ma è anche idolatrica. Ed è idolatrica proprio perché liquida. L’idolo o re, infatti, una solidità di cui il tempo ipermoderno pare mancare; fornisce la salvezza elevando un oggetto al rango del “tutto”.1 Il denaro è in questo senso l’idolo per eccellenza, l’idolo degli idoli. Non è una parte, ma un tutto. In questo senso è un oggetto paradossale che tende ad assumere – come molti hanno notato – una connotazione religiosa, sovrasensibile. È questo un punto sul quale ha insistito anche Marx: il denaro è una cosa che non è una cosa, un oggetto

che non è un oggetto. Il denaro è il simbolo astratto del valore. Il suo carattere è, dunque, eminentemente sovrasensibile, feticistico, idolatrico, appunto. Il capitalismo nanziario ha esaltato a dismisura questo carattere religioso del denaro che sa generare denaro senza ricorrere alla mediazione simbolica e pratica del lavoro. È una de nizione che dalla Politica di Aristotele rimbalza direttamente nel Capitale di Marx: il denaro genera denaro a prescindere dalla mediazione del lavoro e delle merci; il potere magico-spettrale del denaro consiste nel fatto che il denaro genera autarchicamente se stesso. Pasolini aveva già visto nel passaggio dal capitalismo industriale a quello della società dei consumi una prima metamorfosi – “mutazione antropologica” – che è a fondamento del tempo ipermoderno. Per Pasolini si trattava del passaggio storico-epocale dal monoteismo verticale delle società religiose, dove Dio abitava il cielo sopra le nostre teste, al politeismo dell’idolatria del mercato, dove Dio si sparpaglia nel mondo in in niti idoli; a tale passaggio corrisponde la tras gurazione del soggetto da suddito a consumatore.2 È il nuovo totalitarismo fondato sull’idolatria dell’oggetto in cui siamo immersi. Ma nel quale, occorre non dimenticare, è il denaro a costituire la misura ultima del valore; a essere l’idolo di tutti gli altri idoli. LA DIMENSIONE RELIGIOSA DEL DENARO

Secondo Marx è piuttosto ingenuo porsi il problema di cosa gli uomini fanno del denaro; il vero problema è cosa il denaro fa degli uomini. Il Capitale introduce una trasformazione della soggettività assai simile a quella prodotta dal fenomeno dell’alienazione religiosa. Marx la sintetizza come una pura “inversione di soggetto e oggetto”.3 L’uomo non è l’arte ce del denaro, ma il denaro è l’arte ce dell’uomo. L’uomo non è il soggetto che ha l’oggetto a sua disposizione, ma, al contrario, è il denaro il soggetto e l’uomo l’oggetto a sua disposizione. Il punto, dunque, non è cosa gli uomini possono fare col denaro, diventando padroni del denaro, ma quello che il denaro può fare di loro, diventando padrone degli uomini. L’inversione è radicale: non siamo noi che possediamo il denaro ma è il denaro che ci possiede. È questo il tratto religioso-idolatrico del denaro: il denaro è un Dio che esige fede e obbedienza e che ha il potere magico-spettrale di alimentare in nitamente se stesso. Per questo Benjamin, criticando l’idea

weberiana che la religione (il protestantesimo) abbia o erto le condizioni culturali e sociali per la genesi del capitalismo moderno, a erma risolutamente che il capitalismo è esso stesso una forma di religione che ha soppiantato le antiche religioni del passato. Allo stesso modo di quelle religioni esso agisce a ermando un vero e proprio culto del denaro al quale vengono a date speranze, desideri, so erenze, angosce. Si tratta di un culto, precisa Benjamin, che non conosce soste, pause, giorni feriali, poiché “non c’è alcun giorno che non sia festivo, nel senso terribile del dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estrema tensione che abita l’adoratore”.4 Con l’aggiunta, non secondaria, della trasposizione del meccanismo sacri cale debito-colpa – al cuore della religione cristiana, secondo Benjamin lettore di Nietzsche – sul piano economico-sociale; la vita borghese appare integralmente sottomessa al giudizio spietato e irreversibile del Dio-denaro dalla cui volontà dipendono il bene e il male. Siamo noi che giochiamo col denaro o è il denaro che ci gioca? È qualcosa che vediamo bene nella dipendenza patologica del gioco d’azzardo: il soggetto non decide liberamente di giocare – come ritiene illusoriamente –, ma è giocato forzatamente dal gioco, è schiavo, preda del gioco. Non è lui che gioca perché è giocato dal gioco che gioca. Si tratta di un circolo vizioso che è uno dei grandi sintomi del capitalismo contemporaneo. Se il denaro genera denaro, esso si rende autonomo dalla dimensione realmente produttiva del lavoro e del commercio. Il denaro che genera denaro non produce, infatti, nulla se non pro tto. È questa autosussistenza dell’oggettodenaro che contribuisce a esaltarne il carattere religioso-idolatrico. La celebre cecità di Pluto – il Dio denaro messo in scena da Aristofane – non indica forse questa dimensione chiusa su se stessa, autoreferenziale, acefala, priva di visione del denaro?5 Esiste forse un autismo della ricchezza? Non sarà per questo che Gesù considera più facile per un cammello passare dalla cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli? Ma quale è la sindrome autistica del denaro che Gesù condanna? La ricchezza non è infatti considerata un male in se stessa. Quando lo diventa? Quando cessa di essere generativa e si insterilisce come accade all’albero di co, maledetto per l’eternità dalla sua ira perché, appunto, incapace di generare frutti. Questo signi ca che l’autismo del Capitale consiste nel fatto che il Capitale accresce se stesso senza generare nulla. Moltiplica costantemente il suo valore per una sorta di inerzia interna sempre più

scissa dall’attività produttiva, scorporata dal lavoro. È il trucco fondamentale sul quale si regge l’economia ipermoderna fondata sul primato della nanza. Il denaro genera denaro, senza generare nulla. Il ricco che Gesù condanna è il soggetto che resta attaccato al valore solo idolatrico del denaro separandolo dall’attività produttiva. Non a caso le analisi che Max Weber dedica allo spirito del capitalismo mostrano come il primo volto del capitalismo non sia stato a atto quello nanziario – meramente speculativo – ma quello fondato sull’etica del lavoro. Il materialismo del capitalismo non è tale se prevale l’etica dell’impegno, della dedizione al lavoro, del risparmio nalizzato a fare crescere una impresa. L’a ermazione della religione riformata mostra che è possibile che la ricchezza non serva il demonio ma Dio stesso. Nella cultura della Chiesa protestante e, in particolare, nel calvinismo, secondo le celebri analisi di Weber, in primo piano emergono gli ideali di parsimonia, sobrietà, risparmio, modestia, autocontrollo, evitamento dell’ostentazione e dello sfarzo inutile, autodisciplina ascetica, ma, soprattutto, il valore etico del “dovere professionale”, la vocazione (Beruf) a impegnarsi nel proprio lavoro con dignità e coerenza.6 In questo modo la spinta al guadagno – che istituisce secondo Weber la mentalità anti-tradizionalista dello spirito moderno del capitalismo – si colora moralmente e religiosamente come una sorta di preghiera rivolta verso Dio. Nella parola tedesca Beruf, vocazione, come fa notare Weber, si de nisce, infatti, “un compito assegnato da Dio”.7 I DUE VOLTI PULSIONALI DEL DENARO

Possiamo distinguere schematicamente due volti pulsionali del denaro. Il primo è quello che mette in scena Molière nel suo Avaro e che Freud riprende parlando della passione per il denaro come derivata da una ssazione pregenitale della libido alla sua fase anale. Il denaro sarebbe, per il padre della psicoanalisi, solo sterco, non del diavolo, bensì dell’uomo. Sembra questa la tesi centrale di Freud sullo spirito del capitalismo: il carattere anale trattiene e coltiva i prodotti del suo intestino come fossero oro. La sua ritenzione stretta annuncia il risparmio patologico dell’avaro. L’interesse per il denaro è pulsionalmente identico a quello per le feci e per la defecazione. Lo sviluppo della personalità e i processi educativi hanno allontanato il soggetto dalla sua ssazione pulsionale verso l’oggetto anale

dislocando questo interesse originario verso il denaro. Non a caso per Freud esiste un passaggio lineare tra il piacere del trattenere le feci e quello di accumulare soldi.8 Qual è la posta in gioco di questa manovra? Tenere tutto chiuso in cassaforte, preferire la cassetta a Marianna, come accade all’avaro di Molière, preferire l’avere al dare, il trattenere al rilasciare, seppellire il proprio talento per paura di perderlo, come accade nella celebre parabola evangelica. L’avaro osserva il mondo da fuori per evitare l’esperienza inevitabile della perdita. Non vuole perdere nulla e, pertanto, rischia di perdere tutto. È il ragionamento di Arpagone nei confronti di Marianna: amare una donna signi cherebbe una perdita economica secca. Meglio lasciar perdere. Meglio trattenersi, conservare, custodire i propri beni. L’avarizia erige una diga di fronte alla possibilità dell’incontro (sempre necessariamente in perdita) con una donna. Meglio accumulare ricchezze, denaro, roba. Il denaro appare come un rifugio solido nei confronti della aleatorietà liquida della vita. Nel linguaggio dell’economia si parla e ettivamente di liquidità in riferimento al denaro. Ma il denaro segnala l’esistenza paradossale di una sorta di liquido solido. Mettere il denaro in cassaforte è mettere la vita al riparo dalla vita. È questa l’illusione più profonda del carattere anale. L’avaro non gode di quello che ha ma gode dell’illusione di poter sfuggire al destino fatale della corruzione, delle insidie ingovernabili della vita e della morte. Benjamin lo notava a ermando che il capitalismo “serve essenzialmente all’appagamento delle ansie, pene e inquietudini alle quali un tempo davano risposta le cosiddette religioni”.9 L’avaro trasforma la sua vita in quella di un morto. Per questo Paolo di Tarso fa dell’avarizia il “vizio dei vizi”. L’avaro non vorrebbe mancare di nulla, vorrebbe farsi da sé, non dipendere da nessuno. Ma l’ombra costante della morte gli ricorda che nemmeno il denaro è in grado di sottrarre la vita al suo destino ineludibile. Non è un caso che il sintomo dell’avarizia aumenti solitamente col passare degli anni. Più la vita scivola verso la morte più l’avaro prova ad attaccarsi a tutto quello che ha per proteggersi dalla dissoluzione inevitabile di tutti i suoi averi, compreso quello più prezioso: la salute del proprio corpo. Come se tutto quello che ha, quello che possiede, tutto il suo denaro, diventasse un amuleto in grado di scongiurare il sopraggiungere inevitabile della morte.10 Il primato dell’autismo della ricchezza passa attraverso la passione

dell’avarizia, la passione per l’accumulazione che Marx descrive, non a caso, nel primo libro del Capitale, come una sorta di ssazione pulsionale alla trasformazione del valore d’uso in denaro.11 Una variante signi cativa di questa inclinazione è quella studiata da Weber che rintraccia nella cultura protestante, in particolare nel calvinismo, le radici etiche dello spirito del capitalismo. L’etica del lavoro come vocazione accresce la gloria di Dio; la propria realizzazione individuale è il segno della propria elezione, della propria salvezza. Come scrive Weber: Ne derivava per l’individuo l’impulso al controllo metodico del suo stato di grazia nella condotta della vita, e quindi alla sua con gurazione ascetica. Ma questo stile ascetico dell’esistenza […] signi cava appunto una conformazione alla volontà razionale della vita intera, orientata secondo la volontà di Dio […] Non già l’ozio e il godimento, ma solo l’agire serve ad accrescere la gloria di Dio, secondo la sua volontà […] E quindi perdere tempo è, di tutti i peccati, il primo e quello per principio più grave.12

Questa variante del capitalismo non si accontenta dell’accumulazione ne a se stessa, ma valorizza asceticamente il lavoro come scopo ultimo della vita prescritto da Dio stesso. La ricchezza diviene pericolosa solo quando si stacca dal lavoro e diviene fonte di godimento per il possesso in quanto tale, ozioso o dissipativo, senza Legge, lontano da Dio. Nondimeno, la “coazione ascetica al risparmio” resta presente nella cultura protestante determinando secondo Weber le condizioni culturali per l’accumulazione originaria del capitale.13 La passione anale per il denaro – la spinta meramente avara o ascetica alla sua accumulazione – non è però il solo volto pulsionale del denaro stesso. Dobbiamo descrivere un secondo volto che non è più caratterizzato dall’avarizia e dalla ritenzione, dalla centralità della pulsione anale e del suo ascetismo sacri cale – trattenere anziché rilasciare –, ma dalla gola, dalla ssazione pregenitale di tipo orale, dalla avidità della pulsione orale. Mentre il carattere anale dello spirito del capitalismo delle origini comportava una postura morale ascetica – de niscono i tratti maggiori di questo carattere per Freud: parsimonia, caparbietà, ostinazione, scrupolosità;14 per Weber: moderazione, risparmio, autodisciplina, ascesi, dovere professionale, contenimento –, quello orale comporta una sregolazione ingorda della pulsione. È questo il volto dell’homo felix del nostro tempo; è il volto del soggetto tras gurato in “turboconsumatore”.15 Nulla di più lontano dalla gura antropologica dell’uomo della Beruf del

protestantesimo. Lacan nella sua teorizzazione del discorso del capitalista accentua decisamente questo secondo volto della passione umana per il denaro in contrasto aperto con lo spirito del capitalismo delle origini teorizzato da Weber. In realtà questo volto emergeva già fragorosamente nel Pluto di Aristofane. Il Dio Pluto – il Dio denaro – è, oltre che cieco, un Dio ingordo e perennemente a amato. La sua cecità sottolinea il carattere acefalo – senza testa – della pulsione che lo domina. La sua insaziabilità rimarca la spinta incessante della pulsione orale che divora se stessa, o, meglio, che si soddisfa nella sua stessa attività di divorazione. È il polo Sud dello spirito del capitalista ipermoderno rispetto al polo Nord dell’ascetismo protestante. In primo piano in questo secondo volto pulsionale del denaro non ci sono più la custodia parsimoniosa, la conservazione, la cassetta di Arpagone, la ritenzione anale, la coazione al risparmio, il sacri cio morale della rinuncia, l’etica del lavoro. Il ritratto che dobbiamo evocare non è più quello dello zio Paperone che nuota nel suo denaro senza consumarlo, né quello dell’impresario calvinista dedito con parsimonia e costanza al proprio lavoro, ma piuttosto quello del protagonista diabolico e febbricitante di e Wolf of Wall Street di Scorsese recitato da un formidabile Di Caprio (2013). Questo secondo volto del denaro fornisce una chiave di lettura del reale attuale del capitalismo ipermoderno. In primo piano non è più il capitalista weberiano chiuso nel suo tinello, che, come ricordava di sé un famoso vecchio capitalista italiano, vive monacalmente, mangia carne in scatola e beve acqua del rubinetto non tanto e non solo per risparmiare, ma perché quella della rinuncia al godimento è una postura di fondo del suo essere e condizione stessa – unita alla sua laboriosità – dell’accumulazione del capitale. In questo secondo volto del capitalismo emerge invece il godimento orale del denaro, lo sperpero e non l’accumulo, la dissipazione e non la conservazione, il dispendio e non l’accumulazione, la febbre della gola e non il carattere ascetico della ritenzione anale. Non è forse questa la parte maledetta dello spirito del capitalismo messa in luce da Bataille? Al fondo dell’economia del Capitale non troviamo una spinta alla distruzione, al dispendio, alla divorazione insaziabile di ogni cosa? Una gola dove tutto sprofonda? Una passione per la dissipazione più che una passione per l’accumulazione?16

BULIMIA DEL DENARO

Il passaggio dalla ssazione anale a quella orale contraddistingue il capitalismo ipermoderno. È questo il tratto bulimico della passione ipermoderna per il denaro: divorare tutto alla ricerca della soddisfazione rinnovando, in realtà, sempre la stessa insoddisfazione. Il carattere religioso del capitalismo, il suo spiritualismo sovrasensibile, prigioniero del fantasma della colpa e del debito in nito, lascia il posto allo scatenamento della pulsione che rigetta ogni forma di debito simbolico. Per questa ragione Lacan attribuisce al discorso del capitalista la forclusione della castrazione.17 In primo piano non c’è la sublimazione della laboriosità e della parsimonia proprie dello spirito protestante del capitalismo, ma la distruzione di ogni possibile sublimazione; la pulsione di morte che anima una eccitazione febbrile del consumo che nisce per consumare se stessa. È questa la follia del capitale nanziario – o la sua iperattività, come ha diagnosticato Lacan – di cui le bolle speculative sono i nuovi sintomi. Essi rivelano un vuoto, una assenza, una inconsistenza della dimensione valoriale o etica del capitalismo, o, come direbbe Badiou, la sua “natura atonale”. È un altro aspetto della cecità del denaro di cui parla Aristofane nel suo Pluto. C’è una violenza nel denaro che annienta anche il lavoro come luogo della produzione del valore. La fantasia orale che si alimenta è la possibilità che tutto possa essere comprato, assorbito, divorato. Il Dio denaro – come insegna ancora il Pluto aristofaneo – è il padrone “più pazzo del mondo”. La sua logica non è tanto quella del risparmio, dell’accumulazione ascetica, della rinuncia al soddisfacimento immediato delle pulsioni, della ritenzione anale. La sua azione non mira né al risparmio parsimonioso, né al lavoro come dovere morale. Il Dio denaro è il Dio del dispendio, dello spreco, della dissoluzione, dell’orgia del godimento. È il Dio stolto della guerra, della miseria, della domanda compulsiva di oggetti di consumo, della distruzione e della morte. Le sue radici non hanno più a che fare con l’etica del protestantesimo, ma con quella iperedonistica del godimento per il godimento. È l’anima folle, maniacale, corrosiva di ogni possibile legame sociale, del discorso del capitalista messa in luce da Lacan. Il suo ritratto è quello di una sedia a rotelle lanciata a folle velocità e destinata a sfracellarsi, a “scoppiare”. La passione del denaro non conosce appagamento se non quello della propria consumazione. La macchina del capitalismo

ipermoderno è alternativa a quella simbolica della rimozione; non c’è metafora, lutto della Cosa, ma solo una costante accelerazione piantata immobile su se stessa. La sua azione è senza Legge, senza senso del limite, senza argini simbolici: consuma se stessa nella sua stessa attività. In questo essa rivela la natura metonimica pura del desiderio umano: nessun oggetto del mondo può soddisfare la sua spinta. Non esiste persona che possa essere sazia di denaro. In realtà questo riguarda anche lo zio Paperone che riempie piscine e nuota nel denaro nonostante (o proprio perché) la sua cupidigia non si plachi mai. Tuttavia, lo zio Paperone non sperpera il denaro che possiede, ma lo custodisce gelosamente per provare (illusoriamente) a custodire la sua immortalità. Nell’inquietante e Wolf of Wall Street di Scorsese è il carattere avidamente orale del denaro – la gola insaziabile di denaro – a emergere traumaticamente e a trascinare la vita verso la sua distruzione. Aristofane prima di Lacan lo illustra come una metonimia impazzita che rende vana la vita. Distruzione di forme, dei legami, pulsione di morte: Se hai un milione, ne vuoi due… se ne hai due ne vuoi altri quattro. E quando ne hai quattro ne vuoi quarantaquattro – sennò, che vita è mai. Meglio morire.18 MANIA E DISCORSO DEL CAPITALISTA

Risulterebbe ingenuo pensare che il sistema dei consumi si limiti a o rire l’illusione di oggetti capaci di soddisfare pienamente lo slancio metonimico del desiderio. Lacan ci mostra l’astuzia che abita il discorso del capitalista: gli oggetti di godimento o erti dal mercato hanno una doppia caratteristica. La prima è quella feticistica che Marx ha bene evidenziato nel Capitale: l’oggetto promette la salvezza, il riparo dalla infelicità, la soluzione del problema del dolore di esistere. È un nuovo idolo – l’idolo di tutti gli idoli – che garantisce – attraverso l’o erta illimitata di oggetti – di sanare la mancanza del desiderio, di trasformare la povertà della mancanza in uno stato di soddisfazione senza mancanza. Ma questa promessa è falsa, o, meglio, è, come precisa Lacan, una vera e propria “astuzia”. Infatti la seconda caratteristica dell’oggetto di godimento prodotto dal discorso del capitalista è quella della vacuità: nessun oggetto ha davvero il compito di soddisfare la mancanza ma, al contrario, quello di riciclarla in nitamente. Per questa ragione l’oggetto che promette la soddisfazione deve generare

solo insoddisfazione. In tale modo la macchina della produzione resta perennemente attiva.19 È il soggetto che diventa oggetto dei suoi oggetti, divorato dall’oggetto che divora. È il paradosso dell’avidità bulimica della pulsione orale: inghiottire la propria esistenza in un godimento che più che dissolvere l’oggetto dissolve il soggetto. Ma l’oggetto non manifesta qui la sua funzione feticistica (colmare il vuoto) quanto piuttosto la sua più pura vacuità; il vuoto deve essere riprodotto per rilanciare la domanda in nita di altri oggetti. Dunque l’o erta dell’oggetto anziché soddisfare il desiderio ha come compito (inconscio) quello di alimentarne continuamente l’insoddisfazione. L’astuzia del discorso del capitalista non consiste nel risolvere il problema della mancanza, ma nel produrre incessantemente sempre nuove mancanze. L’oggetto non deve soddisfare, ma deve alimentare forzatamente l’insoddisfazione. Il Nuovo deve generare sempre la stessa condizione di domanda febbrile di oggetti. È la seggiola a rotelle che sfreccia al nostro anco diretta follemente verso il vuoto. Possiamo stringere un nesso profondo tra la temporalità del discorso del capitalista e quella della mania. La mania è infatti, dal punto di vista strettamente clinico, una alterazione profonda della temporalità. Binswanger la de nisce come un “difetto dell’appresentazione” che consiste nello scioglimento dei nessi che uniscono il presente ai momenti ritentivi (passato) e protentivi (futuro) della temporalità.20 Questo scioglimento si accompagna a un senso delirante di euforia: il soggetto maniacale non percepisce nessun legame, vive nella propria “millanteria”, nella propria “spensieratezza” e nella totale “mancanza di riguardi” verso l’Altro. Esso “salta” e “trascorre” da un oggetto all’altro, da un presente all’altro, da un’idea all’altra senza mai generare nulla. I suoi progetti risultano aleatori, irrealistici, faraonici, condizionati dal delirio di grandezza. Anche in questo dobbiamo vedere una profonda corruzione della temporalizzazione: “La sua protentio è completamente campata in aria, poiché mancano i momenti ritentivi sui quali essa si potrebbe costruire”.21 La sua iperattività e la sua irritabilità ri ettono non solo la distorsione profonda dell’unità temporale – il suo perdersi in una “momentaneità” vuota di senso –, ma anche i legami con gli altri. È questa distruzione dell’unità dell’esperienza in “innumerevoli frammenti isolati”22 che de nisce la saldatura profonda tra la mania e il discorso del capitalista. Non c’è più storia, soggettivazione, provenienza, apertura progettuale, perché il soggetto

maniacale – come lo stesso discorso del capitalista: Vive in puri presenti, nell’assoluta de cienza di un’autentica temporalizzazione […] non c’è più di erenza tra i mobili spinti qua e là e l’infermiera trascinata qua e là; questa diviene per [lui] un semplice mobile, una semplice “cosa”, un “oggetto” da usare o da consumare. Non diciamo forse che il maniaco “consuma” il suo ambiente, lo “succhia a sangue”, lo “rovina” o lo “distrugge” con la sua autoritarietà intollerante di ogni obiezione, con l’invadenza, la violenza, la logorrea, con i suoi in niti desideri, ordini, incarichi, scritti, con la sua irritabilità e suscettibilità, il suo contraddire sempre, la sua illimitata curiosità, il suo toccare e rendersi conto di tutto, il suo intromettersi in ogni cosa?23

La vocazione maniacale del discorso del capitalista distrugge l’esperienza del soggetto, frammentando la sua memoria e rendendo vacua la sua apertura sull’avvenire. Nelle descrizioni psicopatologiche di Binswanger non possiamo non vedere il volto pulsionale di questo discorso e la sua stretta parentela con la pulsione di morte. La macchina del consumo non genera nulla se non il consumo avido di se stessa. L’avidità maniacale del discorso del capitalista rende l’oggetto falsamente consistente per ripetere in nitamente la sua appropriazione. È il carattere intossicato che Freud riconosce alla mania come gura clinica. Il soggetto dominato dal carattere insaziabile della pulsione orale è un soggetto iperattivo, insonne, in perenne agitazione, un soggetto, appunto, intossicato, drogato. La sua melanconia di fondo – l’impossibilità di separarsi dall’oggetto-Cosa – è oscurata dall’entusiasmo maniacalizzante della vita in costante movimento. Non c’è tempo per commemorare la perdita dell’oggetto – per il lavoro del lutto – ma solo per l’a ermazione di una libertà che non riconosce alcun debito simbolico. Mentre il soggetto melanconico si chiude di fronte al mondo ritirandosi presso di sé – “introversione della libido” secondo Jung, “perdita della libido” secondo Freud –, quello maniacale vorrebbe a ermarsi come libero da ogni vincolo, in uno stato di agitazione permanente. Se nella melanconia l’ombra dell’oggetto cade sull’Io, nella mania non esiste più alcun oggetto signi cativo perché tutto è aspirato da una ingordigia dissolutrice. È il tratto “bulimico” – ingordo – della mania che contrasta apertamente con l’ascetismo forzato del melanconico – con la sua inappetenza. Non a caso Freud presenta il soggetto maniacale come un “a amato” che si getta su nuovi oggetti senza mai però ssarsi su uno in particolare.24 È questa la tesi di Lacan che de nisce il soggetto maniacale come privo dell’ormeggio

o erto dall’oggetto piccolo (a); il suo godimento anziché coordinarsi a tale oggetto svicola in una pura metonimia che lo trascina verso la morte. L’eccitamento maniacale non può infatti essere pensato come una difesa dalla pulsione di morte (Melanie Klein), perché è, in realtà, una manifestazione diretta di quella pulsione. L’espansività, l’entusiasmo, l’iperattività, l’evasione, l’agitazione motoria, la logorrea, l’esaltazione, l’assenza di inibizioni che accompagnano regolarmente il mondo maniacale non sono manifestazioni della vitalità della vita ma della presenza della pulsione di morte. Non c’è autentica gioia, espansione vitale, forza generativa. L’iperattività maniacale è alimentata da una corrente delirante che il discorso del capitalista incoraggia e vorrebbe alimentare incessantemente; l’Io maniacale è totalmente assorbito dal suo Io ideale. Questo assorbimento è all’origine del suo stato di costante ebbrezza – della sua sensazione delirante di trionfo – destinato però a precipitare fatalmente nella distruzione di sé. La corsa in nita del soggetto maniacale nella sua apparente esuberanza non ha altro destino se non la rovina e la morte.

1. Cfr. S. Petrosino, L’idolo. Teoria di una tentazione. Dalla Bibbia a Lacan, Mimesis, Milano-Udine 2015. 2. Cfr. P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1976. 3. K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1989, parte , p. 71. 4. W. Benjamin, Capitalismo come religione, tr. it. Il Melangolo, Genova 2018, p. 61. 5. Cfr. Aristofane, Pluto, tr. it. Garzanti, Milano 2003. 6. Cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, tr. it. Rizzoli, Milano 1997. 7. Ibidem, p. 101. 8. Cfr. S. Freud, Carattere ed erotismo anale, in , vol. 5, pp. 404-405. 9. W. Benjamin, Capitalismo come religione, cit., p. 59. 10. Il cosiddetto “disturbo da accumulo” classi cato nel più recente può essere preso come una degenerazione psicotica di questo scongiuro; il soggetto trasforma la propria casa in un vero e proprio magazzino folle dove accumula alla rinfusa e senza alcun ordine – che resta invece un tratto diagnostico importante del carattere anale – tutto quello che gli appartiene: giornali, provviste avariate, vestiti, oggetti di ogni genere. Nulla può essere gettato, nulla può essere perduto; gli oggetti vengono accumulati alla rinfusa, in un caos totale, senza alcuna piani cazione. Cfr. American Psychiatric Association ( ), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione ( -5), tr. it. Ra aello Cortina, Milano 2014, pp. 286-291. 11. Cfr. K. Marx, Il capitale, cit., vol. 1, pp. 145-149. 12. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit., pp. 213-217. 13. Ibidem, p. 231. 14. Cfr. S. Freud, Carattere ed erotismo anale, cit., pp. 401-406.

15. G. Lipovetsky, Una felicità paradossale. Sulla società dell’iperconsumo, tr. it. Ra aello Cortina, Milano 2007. 16. Cfr. G. Bataille, La parte maledetta, preceduto da La nozione di dépense, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003. Vedi anche R. Ronchi, Il reale del capitalismo. Bataille e Lacan, in A. Pagliardini (a cura di), Il reale del capitalismo, et al., Milano 2012. 17. “Ciò che distingue il discorso del capitalista è la Verwerfung, il rigetto al di fuori di tutti i campi del simbolico […]. Rigetto di che cosa? Della castrazione.” Cfr. J. Lacan, Il mio insegnamento e Io parlo ai muri, cit., p. 151. Sul concetto di forclusione vedi l’Appendice, in questo libro. 18. Aristofane, Pluto, cit. 19. Cfr. M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit. 20. Cfr. L. Binswanger, Melanconia e mania, cit., pp. 97-98. Sulla mania, proprio alla luce del discorso del capitalista, è fondamentale anche L. Binswanger, Sulla fuga delle idee, a cura di S. Mistura, tr. it. Einaudi, Torino 2003. 21. L. Binswanger, Melanconia e mania, cit., p. 98. 22. Ibidem, p. 92. 23. Ibidem, pp. 83-84. 24. Cfr. S. Freud, Lutto e melanconia, cit., p. 114. La clinica dei disturbi alimentari gravi ci ha insegnato che la bipolarità di anoressia (restrizione) e bulimia (divorazione) può associarsi strutturalmente a una oscillazione psicopatologica bipolare di melanconia e mania, sebbene non necessariamente la condizione melanconica coincida con la restrizione anoressica e quella maniacale con quella bulimica. Più frequentemente, assistiamo all’esatto contrario: l’esaltazione maniacale connota la fase anoressico-restrittiva legata all’euforia della realizzazione dell’ideale narcisistico del corpo magro, mentre quella melanconica si associa alla fase bulimica, legata invece all’odio e al disprezzo di sé per essere venuta meno all’ideale ascetico anoressico e, di conseguenza, al crollo depressivo del proprio Io ideale.

V NON ESISTE GIOCO SENZA PERDITA: OSSERVAZIONI SUL GIOCO DEL DESIDERIO

La vita s’impoverisce, perde interesse se non è lecito rischiare quella che, nel gioco dell’esistenza, è la massima posta, e cioè la vita stessa. . , Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte DUE SOGNI: QUANDO DIVENTA IMPOSSIBILE GIOCARE

Un paziente porta questo sogno in analisi: è al tavolo da poker insieme ad altri giocatori. Ogni volta che riceve le carte per iniziare una nuova partita si trova tra le mani quattro assi che lo rendono immancabilmente vincitore. Dopo diversi giri di carte dove questo schema si ripete inesorabile, gli altri giocatori, stanchi di perdere, abbandonano il tavolo da gioco lasciandolo solo. Nessuno vuole più continuare a giocare con lui. Il sogno termina con una sensazione di disperata impotenza che invade il paziente. In questo limpido sogno emerge una verità che concerne l’esperienza del gioco in quanto tale: se si vince sempre, se si esclude la perdita, non si può giocare. Non solo: come mostra argutamente il sogno, nessuno, in questo caso, è più disposto a condividere il gioco con noi. Saremmo fatalmente costretti alla solitudine narcisistica dei quattro assi. Potenti nell’assicurarci una vincita sicura, ma impotenti nel consentire il proseguimento del gioco. Questo sogno illustra un fantasma fondamentale della nevrosi: ri utare a tutti i costi il prezzo della castrazione e della sua Legge comporta l’impossibilità del legame e la pietri cazione amorfa, isolata della propria vita che non può più giocare la partita della propria esistenza con l’Altro. Un altro paziente condivide pienamente questo fantasma: egli sogna di essere pronto per entrare in campo con la propria squadra di calcio quando

l’allenatore, improvvisamente e senza alcuna ragione apparente, gli dice di mettersi in panchina perché non ha più un ruolo di titolare nella sua squadra. Dovrà così osservare la partita senza poter giocare. Anche in questo caso il sogno del gioco si trasforma in un sogno di esclusione dal gioco. Mentre però il suo allenatore gli comunica la decisione di lasciarlo in panchina, gli ri la segretamente un sacco che contiene una somma di denaro che nel racconto del sogno il paziente de nisce “smisurata”. Le libere associazioni conducono la gura dell’allenatore a quella tirannica del padre che non gli ha mai consentito di manifestare il proprio desiderio. Con tutto quel denaro tra le mani – simile ai quattro assi del sogno dell’altro paziente –, il soggetto resta con la netta e bizzarra sensazione di essere stato tru ato. Gli è stata data una somma smisurata, ma questa somma è ciò che non gli permette di giocare, o, meglio, sembra prendere il posto del gioco. Incassare sottobanco una somma “smisurata” di soldi contanti appare solo inizialmente una specie di contropartita per la sua esclusione. In realtà, nel sogno il paziente intuisce che è proprio a causa di quella somma che è stato costretto alla panchina. Come ha indicato Lacan, se la borsa resta piena la vita non può giocare la sua partita.1 Anche in questo sogno, infatti, come in quello dei quattro assi, per il soggetto non c’è più alcuna possibilità di partecipare al gioco. La sua posizione è quella di uno sguardo che contempla dall’esterno, come un semplice spettatore, quello che accade sul campo di gioco. Con l’aggiunta che questa posizione comporta una vincita permanente, un guadagno “smisurato”, quasi a sottolineare che, nella prospettiva della nevrosi, è sempre più redditizio evitare il gioco che giocarvi poiché ogni gioco implica sempre la possibilità della perdita. Meglio allora incassare il proprio godimento senza gettarsi nella partita sempre di cile e incerta del desiderio. Ma questa “scelta” – non giocare per non perdere nulla, anzi, non giocare per incassare un guadagno smisurato – non genera alcuna soddisfazione; senza la possibilità della perdita non si dà infatti possibilità di gioco. Per questa ragione il soggetto costretto in panchina percepisce che il proprio guadagno è decisamente sproporzionato; esso gli appare come una “tru a”, come la solitudine colpevole di escludersi dal gioco. In entrambi questi sogni di due pazienti nevrotici, in primo piano è il desiderio di evitare il gioco – necessariamente in perdita – del desiderio, è il desiderio come difesa dal desiderio. Questo evitamento si produce come un

guadagno ripetuto e privo di perdita durante il gioco (primo sogno) o come un rimborso “smisurato” che prende il posto del gioco (secondo sogno). Ma in entrambi i casi “l’avere” – la vincita – ostacola la possibilità del gioco o, se si preferisce, si sostituisce letteralmente a questa possibilità. Non c’è più gioco, quanto piuttosto un tornaconto “smisurato” nel sottrarsi al gioco che però mutila drasticamente la vita del soggetto che, in tutti e due i sogni, nisce per restare solo, escluso dal gioco, fuori dalla partita. Non voler perdere nulla signi ca, infatti, rischiare di perdere tutto. È sempre il miraggio della totalità a impedire l’esercizio del gioco. IL GIOCO DEL DESIDERIO È SEMPRE IN PERDITA DI PADRONANZA

I due sogni che ho brevemente commentato realizzano il desiderio paradossale di evitare l’evento senza padronanza del gioco del desiderio: il desiderio di difendersi dal desiderio. È il fantasma fondamentale della nevrosi: evitare il rischio del desiderio assecondando la domanda dell’Altro, facendosi servo impotente e ossequioso del suo desiderio (nevrosi ossessiva), oppure liberando il desiderio dalla domanda dell’Altro nella rincorsa utopica di una realizzazione sempre di erita di se stesso (isteria). Nella nevrosi ossessiva, come nell’isteria, il soggetto tende in ogni caso a disertare il gioco del proprio desiderio consacrandosi a soddisfare il desiderio dell’Altro.2 Con l’aggiunta che questa diserzione comporta in realtà il fantasma della realizzazione di una padronanza immaginaria sul desiderio dell’Altro. Si tratta, in altre parole, di sopprimere insieme al desiderio come desiderio dell’Altro la sua stessa ingovernabilità. Giocare la partita del desiderio ha come sua condizione di fondo la perdita di padronanza sulla trascendenza del proprio desiderio. Il logos loso co che abita questi due sogni vorrebbe infatti garantire al soggetto una padronanza impossibile sul desiderio. Questa impossibilità appare chiaramente proprio laddove l’illusione della padronanza sembra realizzarsi compiutamente: i quattro assi del primo sogno e la somma “smisurata” del secondo sogno realizzano una “vincita” che rende impossibile continuare a giocare. Se si è i soli padroni del gioco è letteralmente impossibile giocare perché si gioca con l’Altro, e il gioco con l’Altro implica sempre l’impossibilità di governare pienamente lo sviluppo del gioco. Solo il fantasma perverso stabilisce che è possibile giocare incarnando la posizione del padrone assoluto, ma il suo gioco – il

gioco feroce della perversione – non può più essere un gioco del desiderio, quanto quello della sua completa distruzione nella sua forma sadica o masochistica nel nome di un godimento di morte.3 LO SPIRITO DI SERIETÀ E IL GIOCO DEI SIGNIFICANTI

L’indebolimento inevitabile della padronanza è un motivo essenziale e costituente di ogni gioco. È un tema che ritroviamo nelle intense pagine de L’essere e il nulla dove Sartre contrappone l’attività del gioco allo “spirito di serietà” (esprit de sérieux), il quale vorrebbe fare esistere il soggetto come se fosse una cosa, come se avesse la solidità identitaria di un “in sé”, di un essere compatto privo di mancanza. Per questo il fantasma nevrotico può prendere la forma piena dello “spirito di serietà” che suppone l’esistenza come giusti cata nel suo essere dall’essere dell’Altro. In questo caso la soggettività umana non è consegnata al gioco del desiderio ma, come direbbe Sartre, al “diritto di esistere”, alla garanzia di un’esistenza sotto la tutela dell’Altro. In altri termini, lo spirito di serietà cancella la contingenza della soggettività riducendo la soggettività stessa allo statuto di un oggetto inerte. I materialisti e i rivoluzionari di professione (gli psicoanalisti?), a giudizio del losofo francese, sono delle incarnazioni paradigmatiche dello spirito di serietà: non sanno giocare al gioco del desiderio perché leggono il mondo a partire dal dominio serioso e inerte dell’oggetto. “L’uomo – scrive Sartre – è serio quando si prende per un oggetto.”4 Ma cosa signi ca prendersi per un oggetto? Signi ca rinunciare alla propria singolarità e alla dimensione senza fondo dell’Altro – senza garanzia, senza giusti cazione – che l’esistenza di ogni singolarità comporta. Il gioco al quale il nevrotico vorrebbe sottrarsi prendendosi come un “oggetto” è, come abbiamo visto, quello del desiderio. Questo gioco implica un paradosso di fondo che è al cuore della trovata freudiana dell’inconscio: il soggetto non è padrone di questo gioco, non può insignorirsi delle sue regole, né governarne l’esito: “Il soggetto non è padrone in casa propria”, ripete insistentemente Freud. Esso, in quanto giocatore, appare come, innanzitutto, giocato dal gioco, giocato dal gioco del suo stesso desiderio. È quello che lo “spirito di serietà”, secondo Sartre, vorrebbe, in malafede, escludere radicalmente dall’orizzonte: il materialista e il rivoluzionario di professione (lo psicoanalista?) percepiscono i valori solo attraverso il loro “consolidamento rassicurante e

cosista”,5 li ipostatizzano tras gurandoli in idoli immobili, in una Causa universale che vorrebbe annientare ogni increspatura irregolare della singolarità – sempre eccentrica a ogni modello ideale – della vita. Questo signi ca prendersi come un “oggetto”, come un oggetto, appunto, al servizio dell’Altro. In questo modo lo spirito di serietà fonda l’essenza del totalitarismo che rende impossibile ogni forma di gioco perché in ogni gioco è la libertà della soggettività che pone “il valore e le regole dei suoi atti”.6 Come accade nello spirito di leggerezza (Nietzsche) o nell’ironia (Kierkegaard) che, non a caso, lo spirito di serietà può solo odiare e colpire a morte. L’uomo sottomesso all’incubo super-egoico dello spirito di serietà non sa giocare perché nel gioco del desiderio si è obbligati a entrare innanzitutto come “giocati” e non come giocatori padroni del gioco. Solo in un tempo logicamente secondo può divenire possibile giocare al gioco del desiderio che ci gioca. Vale, insomma, lo stesso principio che regola il rapporto tra il linguaggio e la parola ripensato da Lacan: il soggetto è, prima di essere “contante”, innanzitutto “contato”; è, prima di essere “parlante”, “parlato”; è, prima di essere “giocatore”, “giocato”. Questo signi ca che la condizione della parola consiste nella trascendenza del linguaggio, sebbene la parola si costituisca come quell’inserzione singolare nel linguaggio che costituisce la possibilità di un evento che – pur provenendo dal linguaggio – non è mai del tutto riducibile alla sua Legge universale e al suo Codice: l’evento diacronico della parola è sempre eccentrico rispetto all’esistenza sincronica del linguaggio. Il suo gioco – come mostra in modo sublime l’arte della poesia – è sempre divergente e sovversivo rispetto alle leggi del linguaggio dal quale pure quel gioco scaturisce. Si tratta di un margine – di un “margine di gioco” – che il sistema del linguaggio non può mai escludere, né riassorbire integralmente. Nondimeno, entrare nel linguaggio è un moto che in realtà non suppone alcun prima e alcun poi, alcuna scansione diacronica. È piuttosto una entrata che è già da sempre avvenuta; essere umani signi ca essere presi strutturalmente nel gioco sovraindividuale dei signi canti e delle loro concatenazioni. Si tratta di una “presa” che anticipa e fonda la possibilità stessa della vita e del suo desiderio. Lacan è molto preciso su questo punto: Questo gioco dei signi canti infatti non è inerte, perché in ogni partita particolare è animato

da tutta la storia dell’ascendenza degli altri reali implicati nella contemporaneità del soggetto dalla denominazione degli Altri signi canti […]. Il soggetto d’altra parte entra nel gioco come morto, ma è come vivente che lo giocherà.7

Per comprendere appieno questo passaggio è necessario fare riferimento alla pratica della psicoanalisi. Nell’esperienza dell’associazione libera che regola il lavoro dell’analizzante in analisi, il soggetto non è mai padrone dei pensieri che irrompono nel suo discorso. Anzi, l’indicazione freudiana consiste proprio nel comunicare al paziente questa regola (“dica tutto quello che le passa per la mente”), nel ribaltare la posizione di padronanza dell’Io per lasciare in primo piano l’emergenza di signi canti che il soggetto non governa e che lo sottomettono. L’associazione libera è una esperienza di indebolimento del soggetto che sperimenta il suo essere giocato dai signi canti. Non è lui il padrone del loro concatenamento ma è il loro concatenamento che ogni volta lo può sorprendere. Più radicalmente ancora questa sottomissione rivela la condizione stessa del processo di soggettivazione che si genera sempre a partire dall’assoggettamento del soggetto, come scrive Lacan, a “tutta la storia dell’ascendenza degli altri reali implicati” nella sua vita. Traduciamo: per parlare di sé, il soggetto non può che parlare dell’Altro, di quelli che Lacan denomina qui come gli “Altri signi canti”; non può che parlare dell’Altro all’Altro. In questo senso il soggetto, come scrive puntualmente Lacan, entra sempre nel “gioco dei signi canti” come “morto” – assoggettato, determinato dall’azione traumatica dell’Altro. È l’esperienza del dominio dell’automatismo del signi cante sul carattere intenzionale del signi cato a cui l’essere parlante è sottomesso. Si entra sempre come morti nel gioco del signi cante. Ma questa entrata non esaurisce a atto il gioco del desiderio, costituendone solo la condizione preliminare. Perché è solo come “viventi” – continua Lacan – che si potrà giocare la partita del desiderio. Si entra sempre come morti nel gioco della vita; la vita viene alla vita passando inizialmente dalla sua stessa morte provocata dall’azione del linguaggio, decretata dalla presa simbolica del signi cante sul vivente (morti cazione simbolica). Ma è solo come vivente che ciascun soggetto potrà riprendere singolarmente il gioco dei signi canti dell’Altro che lo ha determinato. Lacan ribalta così il percorso evolutivo lineare che situa la morte alla ne della vita. Porre la morte all’entrata – all’entrata del soggetto nella vita – signi ca ribadire l’importanza della presa della combinatoria del signi cante, con gli

inevitabili e etti di alienazione che questa presa suscita nel cammino del soggetto. Ma signi ca anche, nello stesso tempo, porre la singolarità del soggetto come eccedente il potere di determinazione del signi cante. GIOCATI DAL DESTINO?

La particolare tensione che si sviluppa tra la morte e la vita e il gioco dei signi canti come riassuntivo dell’ascendenza di tutti gli Altri reali che hanno contribuito a dare forma al processo di soggettivazione è il nostro punto chiave per cogliere in cosa consiste la singolare libertà dei “giocatori”. Lo abbiamo appena visto: è solo in un tempo secondo che il soggetto può giocare come “giocatore” il gioco dei signi canti che lo gioca. Solo l’inserzione singolare della parola nel campo del linguaggio può introdurre la soggettività come possibilità (poetica) eccentrica al sistema sincronico della lingua. Si tratta di una tensione tra due polarizzazioni irriducibili ma intrecciate topologicamente: l’essere giocati dal gioco dei signi canti dell’Altro e la possibilità di riprendere come giocatore questo gioco che ci gioca. Per cogliere la prima di queste due polarizzazioni – quella del gioco dell’Altro, dell’essere “giocati” dal gioco del desiderio dell’Altro, dal gioco dei signi canti dell’Altro –, possiamo ripensare brevemente a Edipo re di Sofocle. Edipo non sa a quale gioco sta giocando: egli cerca a annosamente il colpevole, vuole trovare la causa del Male che infesta la sua città, ma esclude pregiudizialmente se stesso da ogni colpa. Intraprende la ricerca della verità dimenticando (colpevolmente) di includere se stesso in questa ricerca. Per questo il suo sguardo resta cieco. Egli, come sappiamo, appare nella tragedia più giocato che giocatore. La sua posizione – come quella dell’Ulisse di Dante – è radicalmente anti-socratica: trascura di leggere l’hybris che lo gioca, non sa vedere la verità del proprio destino, postula la sua innocenza come una evidenza assoluta. Supponendosi senza colpe egli ricerca il colpevole sempre altrove. In fondo, pensa – come tutti noi pensiamo? – di essere quello che è, senza accorgersi, invece, che egli è proprio quello che non avrebbe mai creduto di poter essere.8 Edipo gioca la parte del Re di Tebe, del marito di Giocasta, del padre dei suoi gli, ma non sa di essere regicida, parricida, glio incestuoso, padre assurdo dei suoi fratelli. Edipo si propone come padrone del gioco ritrovandosi tragicamente

giocato dal gioco che pretende di padroneggiare. Dovremmo radicalizzare attraverso Edipo – il glio maledetto – la lettura della celebre de nizione sartriana del per-sé come quell’essere che “non è ciò che è e che è ciò che non è”, poiché questa de nizione ospita una precisa caratterizzazione del gioco che si confonde con quella forma di vita che Sartre chiama “realtà umana”, la quale ha, appunto, come suo tratto costituente una distanza irriducibile – un interstizio, un margine di gioco – che la separa ontologicamente da se stessa incrinando ogni sua identità e compattezza ontologica.9 I suoi quattro assi gettano Edipo nell’abisso senza fondo della maledizione. In questo senso, Lacan ci ricorda nel Seminario che la dimensione più radicale del gioco è quella del destino. Non è forse questo il “gioco” che inquadra tutta la tragedia di Edipo? Non è questo il tiro di dadi con il quale l’oracolo – il Dio Apollo – gli assegna il suo posto fatale nel discorso dell’Altro, nel gioco dei signi canti? Ma qual è il vero volto, il vero nome dell’oracolo? Chi è il vero padrone del gioco del destino? Esiste un “macchinista” occulto che guida la nostra vita come se fosse quella di una “marionetta vivente”?10 La ssazione del soggetto a un signi cante della catena non coincide forse con il suo destino? La ripetizione inesorabile che questa ssazione genera non conduce all’assoggettamento al gioco fantasmatico del desiderio come verità ultima della vita umana? Non è questa – come si esprime Lacan esplicitamente – la “linea di destino” che orienta tutta la vita del soggetto?11 Entriamo nel gioco della vita come in una tavola già apparecchiata. Siamo seduti in un posto che l’Altro ci ha assegnato in anticipo sulla nostra possibilità di scelta. È la dimensione combinatoria del signi cante che non si limita a rappresentarci nella catena dei signi canti – nel loro gioco – ma ci inchioda a occupare un posto determinato. È il caso esemplare del piccolo Gustave Flaubert nella straordinaria e visionaria opera di ricostruzione della sua vita che possiamo leggere ne L’idiota della famiglia di Sartre, dove l’Altro pietri ca la sua esistenza di glio alienandolo a un signi cante – quello di un “desiderio morto” – che gli nega il diritto di essere vivo precludendogli l’accesso a un proprio desiderio singolare. Ma è anche la lapidaria sentenza che Ernst Jones – l’“imperturbabile gallese” secondo Lacan –, biografo di Freud, pronuncia a proposito del suicidio del glio di Breuer, concepito come rimedio frettoloso alla vicenda burrascosa dell’amore di transfert della

sua nota paziente Anna O.: se la vita viene concepita senza desiderio, il suo destino sarà segnato da una irresistibile tentazione di uscire fuori dalla scena del mondo, di staccarsi dalla catena signi cante.12 I bambini non desiderati portano con sé il destino fatale di non poter “accettare quello che sono”, di non volere “quella catena signi cante nella quale sono stati ammessi controvoglia dalla propria madre”.13 È in questa prospettiva che dovremmo intendere l’insistenza di Heidegger – dopo quella di Sofocle – sul fatto ontologico che l’esistenza si dà come sempre in “ritardo” sulla sua origine, sfasata, lesa, slogata, gettata nel mondo, destinata all’impossibilità di “insignorirsi del suo fondamento”.14 Il gioco del desiderio (sostenuto dal fantasma) è, in realtà, un assoggettamento: il soggetto vi appare innanzitutto come assoggetto (assujet). Eppure anche l’incontro con il proprio destino – con la scrittura immobile e pietri cata della sentenza dell’oracolo – o re sempre la possibilità di un ricominciamento inedito. Ma come può ricominciare quello che non smette di ripetersi inesorabilmente come eterno ritorno dell’eguale? Come si può scegliere il proprio destino? Come è possibile riscrivere la sentenza già scritta dal desiderio dell’Altro? È la grande posta in gioco dell’esperienza dell’analisi che di erenzia questa esperienza da ogni procedura di ortopedizzazione normalizzante della vita, elevandola invece alla dignità della tragedia: come trasformare quello che si è già scritto – l’ascendenza storica di tutti i signi canti dell’Altro – in una soggettivazione inedita, mai scritta prima, non ancora avvenuta? Qual è il segreto di questa torsione che trascrive l’essere giocati dal gioco dei signi canti dell’Altro in un gioco che ci vede agire come giocatori attivi, come protagonisti della partita del desiderio? Lacan è chiaro su questo punto: la posta in gioco dell’analisi non riguarda l’aggiustamento delle funzioni normali del corpo o del pensiero, ma – come accade nella tragedia greca – il rapporto del soggetto con il proprio destino: L’analizzato cosa viene a cercare in analisi? Viene a cercare quello che vi si può trovare o, più esattamente, se cerca vuol dire che c’è qualcosa da trovare. E la sola cosa che ci può trovare, a dire il vero, è il troppo per eccellenza […] quello che si chiama il suo destino. Se dimentichiamo il rapporto che c’è tra l’analisi e quello che chiamiamo destino […] vuol dire che stiamo dimenticando le origini dell’analisi.15

Se la temporalità del soggetto è, come ripete Lacan, al “futuro anteriore” è perché il determinismo del signi cante non è inesorabile, ma resta sempre

aperto all’evento singolare della sua signi cazione retroattiva. La pietri cazione del soggetto al suo signi cante traumatico non è mai destinata a ripetersi senza scarti, senza discontinuità, senza margini di gioco. Il gioco che il vivente gioca attraverso il proprio desiderio è quello che consiste nel riprendere in modo nuovo ciò che lo determina da sempre. È solo la contingenza aleatoria dell’incontro a rendere possibile la ripresa di ciò che ha costituito la nostra necessità prima. In questo senso il processo di soggettivazione può avvenire sempre e solo retroattivamente: se sono i casi della vita che ci sospingono a destra e a manca, siamo noi che, risigni candoli après coup, forgiamo quella trama che chiamiamo destino.16 PRESI DAL GIOCO DELL’ALTRO

Sono io (“io” chi?) che desidero o è il desiderio (di chi?) che desidera? Se il desiderio è innanzitutto dell’Altro, se viene, proviene dall’Altro, può davvero esistere qualcosa come un “mio” desiderio, qualcosa come un desiderio “proprio”? Se il gioco del desiderio è dettato dalla prima sentenza dell’Oracolo, esiste veramente la possibilità di giocare attivamente a questo gioco come un “giocatore”, un “contante” e non un “contato”? Se, come abbiamo visto, il soggetto è sospeso a una ripetizione che non può governare – quella della ssazione inconscia al proprio signi cante traumatico –, come può uscire da questo assoggettamento senza inseguire illusioni di padronanza e di riappropriazione di sé, ma senza nemmeno restare passivamente giocato dal gioco fantasmatico del suo desiderio? La domanda è alta e ricorre insistente: quanta libertà c’è in un destino? Come può esistere un atto, una scelta, una decisione se tutto appare già scritto? È il soggetto nel suo gioco a costituire il suo destino o è il destino che gioca be ardamente, nella sua cieca violenza ripetitiva, la vita del soggetto e quella del suo desiderio? È il soggetto che porta il suo desiderio o è il desiderio che porta il soggetto? Sono tutte domande che attraversano costantemente la pratica della psicoanalisi.17 Nessuno può scegliere le sue carte dal mazzo della combinatoria signi cante. Qualcosa piuttosto si distribuisce secondo una catena che il soggetto non può pretendere di governare. Lacan fa riferimento a questo proposito al gioco della tombola: la sorte distribuisce i suoi numeri a caso, seguendo una legge assolutamente contingente, ma questa

“disorganizzazione reale” deve consentire all’ordine della Legge della struttura di manifestarsi “permettendo conformemente al gioco che siano letti come oracolo”.18 Il che signi ca che l’“indi erenza combinatoria”19 che caratterizza il rapporto del soggetto col signi cante ruota attorno a un punto perno – ad alcuni signi canti chiave – che non rappresenta a atto il soggetto per un altro signi cante, ma lo cristallizza, lo ssa, lo imprigiona, lo gioca imponendo la violenza della sua ripetizione. Per questa ragione Lacan insiste nel mostrare lo stretto legame che sussiste tra il rapporto del soggetto col signi cante e la pulsione di Freud come “coazione a ripetere”. Ecco nuovamente riapparire la domanda più decisiva: il destino è veramente – come accade per Edipo – già scritto e attende solo il tempo della sua ripetizione, oppure è generato, prodotto dall’attività stessa del soggetto? Possiamo pensare che il gioco che mi gioca diventi il mio gioco, si realizzi come il destino che ho scelto? RIPRENDERE IL GIOCO

Entrare come morti nella vita – come abbiamo visto – signi ca essere identi cati ai signi canti dell’Altro. Questa identi cazione non è immaginaria ma reale poiché implica l’innesco di una ripetizione. Il soggetto è come sequestrato da uno o più signi canti che lo giocano, rendendolo, come si esprime Lacan, la “marionetta vivente” del proprio fantasma.20 L’esperienza dell’analisi incontra questo signi cante, lo snida e lo denuda, conduce il soggetto di fronte al signi cante dell’Altro al quale la sua vita è rimasta inchiodata. Lacan chiama a volte questo signi cante “fantasma fondamentale”, altre volte “signi cante-padrone”, “signi cante traumatico”, “a-semantico”, “lettera”, “marca”.21 Ma la sostanza del suo discorso è che la vita umana è costituita dalla presa traumatica di questo signi cante che pietri ca il gioco del desiderio in una coazione a ripetere che sembra non conoscere interruzioni. Di fatto nell’esperienza stessa dell’analisi rinnoviamo la ripetizione dell’incontro con questo primo trauma. Con un problema aggiuntivo e decisivo: come possiamo incontrare per la prima volta – dunque in un modo nuovo – quello che abbiamo già sempre incontrato e non cessiamo del resto di incontrare e che l’analisi ha consentito di isolare? Nei sogni dei quattro assi e del sacco di denari che contiene una somma “smisurata”, il soggetto, abbiamo visto, “sceglie” di uscire dal gioco. Sceglie la

posizione di chi non gioca più o si limita a osservare il gioco dall’esterno, dalla panchina. Diversamente l’esperienza dell’analisi ci invita a non cedere alla tentazione della ripetizione senza perdita – che sarebbe, come abbiamo visto, la morte del gioco del desiderio –, ma suggerisce la perdita come condizione del gioco, come condizione della liberazione dalla violenza traumatica della ripetizione. Tuttavia questa liberazione non si oppone semplicemente alla ripetizione come se fosse il suo rovescio speculare, ovvero come una disalienazione che spoglierebbe la ripetizione della sua forza coattiva. Piuttosto il gioco dell’analisi consiste nell’assumere proprio il rinnovamento transferale della ripetizione come chiave della liberazione dalla ripetizione. È la dimensione kierkegaardiana-cristiana della ripresa: portare a compimento la Legge liberandola dal peso della Legge; introdurre uno scarto tra la combinatoria dei signi canti e il desiderio singolare del soggetto. Torsione della ripetizione che non genera l’eterno ritorno del trauma, ma una vita nuova capace però di nominarsi e reperirsi proprio attraverso quel trauma. Si tratta, in altri termini, di provare a intendere bene il gesto del morso dello Zarathustra di Nietzsche che decapita il serpente della ripetizione traumatica. Cosa signi ca interrompere lo scorrere nichilistico del tempo per approdare al mistero di un eterno ritorno dello Stesso che rinnova ogni cosa che accade? Prendiamo, per essere il più possibile chiari, due passaggi chiave di Lacan presenti nel Seminario . Nel primo egli sottolinea come un’analisi spinta a fondo conduca il soggetto a vedere il signi cante irriducibile a cui la sua vita è stata assoggettata: “Ciò che è essenziale è che egli veda […] a quale signi cante – non-senso, irriducibile, traumatico – egli sia, come soggetto, assoggettato”.22 Si tratta, in altre parole, dell’incontro con quel signi cante traumatico che, anziché articolarsi con la catena degli altri signi canti, ha ssato – pietri cato – il soggetto assoggettandolo alla sua ripetizione mortifera. Ma questo è solo il primo movimento della partita dell’analisi. Il secondo – quello decisivo – viene restituito da Lacan in questo altro intensissimo e decisivo passaggio che conclude il Seminario . Al termine dell’analisi, scrive, “confrontato con il signi cante primordiale, il soggetto giunge per la prima volta in posizione di assoggettarvisi”.23 In questo secondo e terminale movimento non si tratta solo di incontrare il signi cante traumatico attraverso il quale la vita morta è entrata paradossalmente nel gioco della vita viva, non si tratta solo di vedere

all’opera il “macchinista” del fantasma rispetto al quale noi saremmo nella posizione della “marionetta vivente”, ma di “confrontarsi” con questo stesso signi cante giungendo, “per la prima volta”, ad assoggettarvisi. È in questa torsione della passività in attività, o, meglio, di una attività che realizza una forma nuova di passività, di passività non passiva, è nel mistero di questa “prima volta” che possiamo davvero assumere attivamente quello che sino a quel momento abbiamo solo subito passivamente. Questa “prima volta” non segnala ovviamente una precedenza in senso cronologico, ma è, piuttosto, una esperienza nell’ordine dell’evento. È vedere quello che avevamo sempre visto, ma vederlo, questa volta, in modo totalmente nuovo, come se, appunto, fosse visto per la “prima volta”. Si tratta di decidere di assoggettarsi per non essere più assoggettati, di consegnarsi al proprio destino per svincolarsi da ogni consegna. Signi ca restare al tavolo da gioco senza possedere i quattro assi, signi ca tenere la propria posizione di titolare senza restare in panchina e ri utando la vincita di “contrabbando”; signi ca ri utare la somma “smisurata” che consente di osservare il gioco sottraendo il soggetto alla possibilità del gioco e della perdita. Solo grazie alla ripresa singolare di questa “prima volta” si può aprire una discontinuità nel tto omogeneo della ripetizione traumatica. Si tratta di essere quello che sono sempre stato, ma in modo assolutamente nuovo, “per la prima volta” appunto. Solo così la ripetizione che ho sempre subito può tras gurarsi in una decisione inedita e aprire il campo della contingenza illimitata dell’esistenza. È la decisione per il gioco del desiderio che esclude il dominio incontrastato del gioco o la sua diserzione. È sempre la possibilità del gioco – l’atto stesso del giocare – la vera vittoria del gioco. È solo lo stare al gioco che scansa il peso violento dell’essere giocati dal gioco. Non voler perdere nulla e perdere tutto sono le due facce simmetriche di quella medaglia che Freud nomina come pulsione di morte: il gioco della vita nisce nella morte; l’estremismo della pulsione di auto-conservazione – non perdere nulla – si ribalta nella caduta melanconica del soggetto – perdere tutto. Diversamente, nel gioco di Eros ritroviamo il grande “Sì!” col quale Nietzsche proclama la forza del desiderio come separata dalla serietà meta sica di valori morali che pre-esistono alla vita intralciando l’accesso al suo gioco. Così leggo la liberazione della vita dal peso del sacri cio e della dedizione seriosa e risentita al Dio oscuro della Causa. Qui possiamo ritrovare tutta la saggezza di Freud quando concepisce la vita stessa come

movimento di Eros, come un gioco continuo fatto di deviazioni, complicazioni, salti, scarti, ritorni, aggregazioni, concatenamenti imprevedibili, nalizzato a ritardare – a giocare? – l’appuntamento fatale con la serietà nale della morte.

1. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., pp. 206-210. 2. Per un approfondimento della dimensione clinica di questo fantasma nell’isteria e nella nevrosi ossessiva mi permetto di rinviare a M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica, cit., capitoli e . 3. Ibidem, pp. 395-451. 4. Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 697. 5. Ibidem, p. 78. 6. Ibidem, p. 697. 7. J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, in Scritti, cit., vol. , p. 548. 8. Per la lettura di Edipo in questa chiave mi permetto di rinviare a M. Recalcati, Il segreto del glio. Da Edipo al glio ritrovato, Feltrinelli, Milano 2018, in part. Parte prima. 9. Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit. 10. Cfr. J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere, in Scritti, cit., vol. 2, p. 633. 11. Ibidem, p. 592. 12. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 153. 13. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 251. 14. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. Longanesi, Milano 1976, pp. 460-461. 15. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 348 (corsivo mio). 16. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 159. 17. Importante per tutti questi interrogativi è la lettura di M. Balsamo, Ascoltare il presente…, cit. 18. J. Lacan, Nota sulla relazione di Daniel Lagache. Psicoanalisi e struttura della personalità, in Scritti, vol. 2, p. 654. 19. Ibidem, p. 655. 20. J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere, cit., p. 633. 21. Il lavoro originale di Alex Pagliardini scandaglia nel dettaglio il territorio extra-linguistico dello statuto di questo signi cante traumatico. Cfr. A. Pagliardini, Jacques Lacan e il trauma del linguaggio, cit., e Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale, cit. 22. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 246. 23. Ibidem, p. 271.

VI EREDITÀ E SOGGETTIVAZIONE: ALCUNE NOTE SUL COMPLESSO DI TELEMACO

L’esserci, libero per la sua morte, si tramanda in una possibilità ereditata e tuttavia scelta. , Essere e tempo TELEMACO L’EREDE-ERETICO

Nel mio pensiero Telemaco è l’immagine del “ glio giusto”; egli incarna il luogo simbolico di una interpretazione etica della liazione come soggettivazione singolare dell’eredità.1 Al cuore della gura omerica di Telemaco scolpita nell’Odissea il grande tema dell’eredità appare come decisivo: il glio è tenuto a dare prova di saper essere un erede giusto, di fare propria l’eredità che l’Altro gli ha consegnato, di intraprendere il suo viaggio singolare. L’ereditare non è un processo assimilabile alla riscossione di un diritto, all’acquisizione passiva di rendite, di beni o di geni, ma si con gura come un movimento di trascendenza, in avanti, rivolto all’avvenire e non al passato. Per questo trovo inadeguate le letture critiche del complesso di Telemaco che hanno voluto ricondurre questa gura di glio nel solco della tradizione paternalistica nella forma di una nostalgia accorata e inestinguibile per il padre.2 Nella mia lettura del glio di Ulisse la chiave nostalgica è oltrepassata da quella etica: Telemaco indica che il compito del glio è quello di farsi erede-eretico, di riconquistare la propria eredità in un movimento che non guarda nostalgicamente indietro, ma si rivolge al non ancora stato, all’inedito, al non ancora avvenuto. Per questa ragione avevo evocato Aspettando Godot di Beckett per provare a chiarire come di fronte all’assenza del padre – tema che accomuna i due vagabondi

beckettiani alla vicenda di Telemaco – vi fossero due risposte possibili e inconciliabili. Quella della paralisi e dello smarrimento pietri cato – del lutto melanconico – di una attesa in nita senza possibilità che il padre morto – Padre, Dio, Fondamento – possa ritornare. E quella incarnata dal mio Telemaco, dove è solo il viaggio del glio – il suo movimento eretico – a rendere possibile l’esperienza dell’eredità come riconquista singolare.3 Nella mia lettura Telemaco non è solo una gura dell’invocazione o della ricerca del padre – sebbene la clinica psicoanalitica confermi quanto il disagio attuale della giovinezza possa essere letto attraverso il dramma di una invocazione inascoltata del padre –, ma, soprattutto, una gura dell’atto: Telemaco non attende passivamente il ritorno del padre, ma si mette in moto, sceglie il proprio viaggio, si muove in prima persona per riportare la giustizia nella sua città devastata dai Proci. Il movimento del glio è qui un movimento di riconquista soggettiva di ciò che egli ha ricevuto dall’Altro e non di rivendicazione di un diritto acquisito; in questo senso l’ereditare è una impresa che circonda un vuoto centrale, è un processo che è per de nizione eretico, divergente; non è uniformazione ma soggettivazione. Non una semplice acquisizione di ciò che si è già depositato in un passato remoto – rendite, geni, beni –, ma un viaggio, uno strappo in avanti. Il compito del glio è quello di impegnarsi nell’impresa dell’ereditare concepita a partire dal non ancora avvenuto e non come ritorno conservativo-regressivo sul già stato. Sicché non si tratta di ripristinare il padre come bussola infallibile e ideale che orienta la vita del glio – rappresentazione solo patriarcale della paternità – ma di cogliere, appunto, la sua assenza, il vuoto centrale che la sua gura apre. L’antecedenza e la provenienza storica del soggetto si signi cano solo a partire dal movimento in avanti del glio. In un passo del suo L’uomo Mosè e la religione monoteistica Freud sottolinea come l’essere umano sia impensabile senza l’“eredità arcaica” di tutte le “tracce mnestiche” iscritte nelle generazioni che lo hanno preceduto: Nella vita psichica dell’individuo [sono] all’opera non solo esperienze personali, ma anche contenuti congeniti n dalla nascita, elementi di provenienza logenetica, un’eredità arcaica […]. In che cosa consiste questa eredità arcaica, che cosa contiene, quali ne sono le prove? […] L’eredità arcaica consiste in determinate predisposizioni, proprie a tutti gli esseri viventi […] quello che potremmo dire il fattore costituzionale dell’individuo […]. L’eredità arcaica degli

uomini non abbraccia solo disposizioni, ma anche contenuti, tracce mnestiche di ciò che fu vissuto da tutte le generazioni precedenti.4

L’eredità non è legata solamente alla dimensione logenetica propria di tutti gli esseri viventi, ma implica la catena simbolica delle generazioni. Il compito del glio è quello di soggettivare non solo l’eredità intesa nel suo senso logenetico, ma le iscrizioni strati cate dell’Altro che costituiscono l’orizzonte della nostra provenienza. Lacan ha precisato a suo modo la centralità di queste iscrizioni quando, per esempio, occupandosi del caso clinico freudiano dell’uomo dei topi, a erma che l’avvento di un glio può accadere solamente all’interno di una determinata “costellazione fatidica”5 che disegna innanzitutto la condizione fantasmatica che ha orientato il desiderio delle generazioni che hanno preceduto la vita del glio (in particolare quello dei genitori) e nel quale questa vita si è trovata gettata e, almeno per un verso, determinata. Sempre nello stesso commento all’uomo dei topi di Freud, Lacan ritiene che il processo di liazione implichi sempre quello che nel linguaggio nanziario si de nisce “protesto”,6 ovvero un debito insoluto, rimasto sospeso, non saldato. Nel processo di liazione, oltre alla “costellazione fatidica” entro la quale si costituisce la vita singolare del glio, si deve prendere in considerazione anche un elemento irrisolto, rimasto in sospeso nella catena delle generazioni e che contribuisce in modo decisivo a determinare il destino del glio, o, meglio, il suo modo di farsi erede. Il che signi ca che non si eredita solo ciò che si è compiuto nelle generazioni che ci hanno preceduto, ma anche quello che è rimasto latente e incompiuto, sospeso e indeterminato. Sicché ogni glio eredita qualcosa che non è stato simbolizzato adeguatamente nelle generazioni che hanno preceduto la sua venuta al mondo. Non a caso Lacan ha ricordato in diversi luoghi del suo insegnamento che “per fare uno psicotico ci vogliono tre generazioni”. Per intendere qualcosa della psicosi bisogna mettere in rapporto l’evento dello scatenamento della psicosi con quello che è storicamente avvenuto nelle generazioni che hanno preceduto la vita del soggetto. Il concatenamento generazionale mostra che lo sfondo del processo di liazione non dipende dall’intenzionalità del soggetto, ma è qualcosa che viene ereditato. Nel caso delle psicosi la non iscrizione del Nome del padre si produce a causa di qualcosa che non trova realizzazione nelle generazioni che hanno preceduto la vita del soggetto: la funzione

simbolica del Nome del padre non si è iscritta, non è stata ereditata, è rimasta forclusa.7 TELEMACO: L’ANTI-EDIPO

Telemaco è insomma l’immagine del glio giusto. Non è il glio che vive la dipendenza dal padre come una maledizione, ma non è nemmeno il glio assoggettato a questa dipendenza. È colui che si è confrontato radicalmente all’assenza, al lutto del padre, al suo vuoto centrale senza restare irretito nell’impotenza infantile – nell’attesa nostalgica e passiva del padre – o nell’odio rancoroso che vorrebbe negare ogni dipendenza dal padre. Telemaco non ha ricordi, non ha memoria di suo padre. Il padre per lui è il nome di un’assenza. Ma non è forse questo il destino di ogni padre che il complesso di Telemaco ci aiuta a cogliere? Non è ogni padre, in fondo, nella sua struttura ultima, un’assenza sempre presente, la presenza insuperabile di un’assenza? Il viaggio di Telemaco con il quale si apre l’Odissea (Telemachia) mostra che il glio eredita innanzitutto la presenza di questa assenza.8 La forza del mio Telemaco non è quella di essere il glio che attende nostalgicamente il ritorno del proprio padre. La sua è quella che manca a Amleto, il quale resta irretito dall’eredità – come è possibile ereditare la volontà di un Altro? La volontà del padre che esige che sia vendicato dal glio? –, impotente ad accedere all’atto. Nella Telemachia il glio è tenuto a fare esperienza del vuoto centrale del padre come condizione di accesso all’atto. Mentre Amleto è incalzato dallo spettro immortale del padre, Telemaco può sperimentarne l’assenza e costituirsi come erede proprio sullo sfondo di questa esperienza. Il suo incontro con la mancanza dell’Altro è radicale. Ma è proprio grazie a questo incontro che può mettersi in movimento e iniziare il suo viaggio. Amleto resta invece come prigioniero della volontà del padre morto che esige da lui la morte del fratello-zio colpevole del suo assassinio. È necessario uno strappo, un taglio traumatico – la morte di Ofelia – perché Amleto possa fare il lutto del padre e accedere all’atto. Il padre di Telemaco, invece, non è uno spettro che visita il glio esigendo vendetta, ma è un’assenza centrale. Diversamente da Amleto, Telemaco non si impegna a fare la volontà dell’Altro – a servire il padre – ma si comporta

da erede giusto; signi ca retroattivamente quella assenza come un compito, interpreta l’eredità come una riconquista, come un’eresia. Per questo egli è profondamente anti-edipico: diversamente dal glio Edipo, Telemaco non vuole la morte del padre. Non è l’aggressività cieca che de nisce il suo rapporto con Ulisse, ma la mancanza. Telemaco è una gura che interpreta correttamente l’eredità come trascendenza, spinta, inclinazione eretica. Al contrario, Edipo resta prigioniero del con itto interminabile con il padre. La morte del padre getta la sua ombra imperitura e melanconica sulle spalle del glio. Edipo resta legato al padre perché lo uccide, perché la sua eredità gli sfugge, perché non ha soggettivato il suo debito simbolico con la sua provenienza. Lacan lo ricorda nella sua nota a ermazione: “Del padre se ne può fare a meno a condizione di servirsene”.9 Diversamente, il fantasma edipico esige il parricidio del padre – la lotta a morte col padre – per poter a ermare il desiderio ribelle del glio e la sua libertà. All’opposto di Edipo, Telemaco invoca invece la ricostruzione del patto tra le generazioni. La sua non è inettitudine nel fare valere la Legge senza il sostegno del padre, ma capacità di riconoscere che senza la ricostruzione di un nuovo patto generazionale non c’è possibilità di riportare la Legge a Itaca. Per questo l’orizzonte di Telemaco – diversamente da quello di Edipo e di Amleto – non è il passato ma il futuro, non ciò che si è già scritto – il destino tragico preconizzato dall’oracolo o il ritorno dello spettro del padre – ma l’avvenire, il non ancora avvenuto. Telemaco è una gura profonda dell’invocazione: non vuole porre la sua vita al riparo della vita del padre, ma invoca il ritorno del padre come possibilità di una vita nuova non tanto per se stesso, ma per la sua gente e la sua città. Non cerca la custodia del padre, ma sa confrontarsi con il pericolo del viaggio; sa che l’eredità non è un lasciapassare, ma un viaggio tortuoso che implica un rischio mortale. DUE EREDITÀ

Diversamente da Edipo, Telemaco, il glio anti-edipico, non misconosce il debito senza per questo eternizzarlo. Edipo fallisce il compito dell’erede: riconquistare quello che si è ricevuto, riconoscere il debito oltrepassandolo. La natura paradossale del glio, del soggetto in quanto glio, consiste nel fatto che la sua esistenza non è possibile se non all’interno di un processo di liazione che, come tale, implica sempre un debito simbolico: la vita del

glio non può decidere il suo fondamento, non può essere causa di se stessa, ma si trova impegnata in un processo di soggettivazione che consiste nel darsi, senza fondamento, il proprio fondamento a partire dalla propria provenienza. A ermare che la vita del glio non possiede il suo fondamento signi ca che il primo carattere della sua vita è la provenienza del glio dal luogo dell’Altro. Sicché la vita del glio viene sempre in ritardo rispetto alla pienezza senza mancanza della vita. È vita gettata nella vita senza che essa possa ergersi a padrona delle sue origini. La sua vita avviene sempre in ritardo – sfasata – rispetto alla immediatezza della vita; è una vita consegnata all’eterogeneità inappropriabile delle sue origini. È proprio perché nessun essere umano è proprietario della sua origine che i bambini amano cimentarsi a fantasticare sulla loro provenienza, a costruire dei veri e propri romanzi familiari sulle loro origini.10 Con queste costruzioni fantasmatiche il bambino mette in atto un primo movimento di riappropriazione della sua provenienza: inventarsi di essere glio di grandi scienziati, di reali, di personaggi famosi… Il problema è che nessun glio può costruirsi una “propria” genealogia perché la sua esistenza è eterodeterminata dalla catena generazionale che la precede. È l’antecedenza storica che istituisce la prima forma dell’eredità. Si tratta, come ci ha ricordato Freud, dell’eredità arcaica delle nostre tracce. Ma il movimento della liazione non si esaurisce nell’assorbimento passivo di questa antecedenza e del suo potere di determinazione. Le tracce del nostro passato non sono mai sentenze perché la plasticità stessa dell’apparato psichico metabolizza quelle tracce trascrivendole in modo nuovo. È il carattere anti-deterministico della soggettività letta dal punto di vista della psicoanalisi; il soggetto può sempre scegliere di riscrivere quello che si è già scritto. È una tesi sostenuta recentemente anche da Ansermet e Magistretti nel loro complesso dialogo con le neuroscienze: “Un soggetto – scrivono – è biologicamente determinato per non essere totalmente determinato. È determinato per non esserlo”.11 Nella loro rivisitazione del Progetto per una psicologia di Freud lo stesso funzionamento del cervello, che trova il suo fondamento nella plasticità neuronale, viene concepito a partire da un difetto fondamentale che, in realtà, custodisce la sua massima risorsa e la sua libertà: Il concetto di plasticità comporta che l’esperienza può imprimersi nella rete neurale. Un evento

vissuto in un dato momento si registra in quell’istante e può persistere in modo duraturo. L’evento lascia una traccia e contemporaneamente il tempo si incarna. Ma questa traccia può essere rimaneggiata o rimessa in gioco in vario modo associandosi con altre tracce. Al di là del determinismo biologico (neurale o genetico), come anche di quello psichico, l’esistenza della plasticità implica quindi un soggetto che partecipa attivamente al proprio divenire, incluso quello della propria rete neurale.12

La possibilità di riscrivere quello che si è già scritto – di associare in vario modo tracce ad altre tracce – de nisce il tempo della soggettivazione. Siamo al cuore del problema dell’eredità. Per un verso la vita del glio proviene dalla catena delle generazioni che lo hanno preceduto portando con sé la “costellazione fatidica” della sua nascita, ma, per un altro verso, il suo compito è quello di soggettivare questa provenienza, di elevare l’eredità alla sua potenza (come si dice in matematica), di ereditare singolarmente l’eredità ricevuta, di riconquistarla. È questo il paradigma Telemaco. Esso esprime la seconda forma, non logenetica ma etica, dell’eredità: fare qualcosa di quello che l’Altro ha fatto di noi,13 riscrivere in modo inedito quello che si è già scritto grazie alla risigni cazione – nella temporalità dell’après coup – delle tracce dell’Altro che hanno innescato il processo di costituzione del soggetto. Più propriamente, il movimento della soggettivazione de nisce la seconda eredità nel suo rapporto costitutivo con la prima. Le tracce incarnate della prima eredità subiscono un processo plastico di trascrizione che introduce nel campo del determinismo della traccia uno scarto, una discontinuità in cui consiste la libertà del soggetto. Questo scarto – questa trascrizione – è il modo attraverso il quale un soggetto può soggettivare la sua provenienza come un destino scelto, o, meglio, può fare della sua stessa eredità l’esito di una scelta. È una tesi presente in Lacan ma anticipata con rigore già in Essere e tempo di Heidegger: l’eredità coincide, in ultima istanza, con il tempo di una scelta.14 Secondo Lacan la di erenza tra una cura analitica e una cura psicoterapica è che la prima implica la ri-soggettivazione di questa scelta, dunque il destino del soggetto, o, più precisamente, la sua riscrittura, mentre la seconda trascura la dimensione etica dell’eredità cercando di rendere nuovamente e ciente l’azione comportamentale e mentale del soggetto. Diversamente da ogni forma di psicoterapia, nella psicoanalisi è in gioco la seconda eredità del soggetto: come si può ricostruire il proprio destino, come si riesce a dare una forma singolare alla contingenza dei fatti

storici, per usare una formula di Lacan presente nel Seminario , che 15 hanno determinato la nostra esistenza? È questa, se si vuole, la de nizione più elementare e radicale della soggettivazione: dare forma di destino al caso della contingenza seguendo la temporalità retroattiva dell’après coup e non quella lineare dello scorrere ordinario del tempo. Queste due diverse concezioni dell’eredità richiamano due diverse possibili rappresentazioni dell’inconscio. Per un verso l’inconscio appare come un “sistema di segni”, come discorso dell’Altro, strati cazione di tracce (mnestiche) che provengono dall’Altro. Sono le parole, le frasi, i ricordi inarticolati ma anche le leggende, i fantasmi presenti nel luogo dell’Altro che hanno condizionato la vita del soggetto. In questo senso per Lacan l’inconscio è una pura “esteriorità”, è, appunto, l’esteriorità del discorso dell’Altro e non un’interiorità remota o archeologica. L’inconscio come discorso dell’Altro evidenzia l’esteriorità della catena signi cante e la sua azione causale sul soggetto. È questa la prima forma dell’eredità. Siamo tutti “parlati” dal discorso dell’Altro prima che “parlanti”; siamo tutti “contati” dall’Altro prima che “contanti”. Tutta la ri essione che Lacan compie sull’inconscio come discorso dell’Altro è una ri essione sulla traccia, cioè come il discorso dell’Altro sedimenta, produce, genera quelle tracce da cui la vita del glio proviene. Questa lettura dell’inconscio che, in fondo, de nisce l’inconscio freudiano, entra in attrito, o, quanto meno, in una tensione dialettica con un’altra concezione dell’inconscio che Lacan inizia a sviluppare nel secondo volume degli Scritti, in particolare col testo titolato Posizione dell’inconscio, dove l’inconscio non viene più de nito come discorso dell’Altro, ma come taglio in atto. “Taglio in atto” signi ca che l’inconscio non è solo “discorso dell’Altro”, ma è anche ciò che introduce rispetto a questo discorso una discontinuità, un taglio appunto. L’inconscio non è tutto quello che si è scritto alle spalle del soggetto, ma è, soprattutto, la possibilità di scrivere in modo nuovo quello che è già stato scritto. Non si tratta però, in prima istanza, come pensa invece Bion, di scrivere ciò che non è ancora stato scritto, ma di ereditare il testo dell’Altro che ci ha preceduto e costituito; si tratta, innanzitutto, di scrivere in modo nuovo quello che è già stato scritto per rendere poi possibile l’avventura del non ancora visto, non ancora pensato, non ancora conosciuto. Tuttavia, senza la soggettivazione dell’eredità della prima scrittura – dell’inconscio come discorso dell’Altro –

non si dà alcuna possibilità di scrivere il non ancora scritto. È questo doppio passo a de nire il movimento più denso dell’ereditare come processo di soggettivazione. OGNI FIGLIO È UNO SFORZO DI POESIA

Il campo del linguaggio è il luogo della prima eredità, dell’inconscio come discorso dell’Altro. Per Freud, come abbiamo visto, si tratta di un’eredità abissale che spinge non casualmente lo stesso padre della psicoanalisi a confrontarsi, nell’ultima grande opera della sua vita, con Mosè, il padre originario del suo popolo. Lacan ha insistito nel porre il linguaggio come “campo” che precede e istituisce la vita dell’uomo; l’uomo non è padrone, ma servo del linguaggio. Nondimeno, Lacan non pensa mai il linguaggio separato dalla parola. Se il campo del linguaggio implica il processo di iscrizione- liazione della vita, quello della parola è il tempo della seconda eredità dove si introduce nel campo universale del linguaggio l’inserzione singolare della funzione della parola. Se il linguaggio è un trauma per l’uomo perché lo separa dalla propria esistenza immediata e naturale – aliena la vita animale nella vita umana –, la parola è un trauma per il linguaggio perché introduce nel campo universale e anonimo del Codice della lingua l’elemento assolutamente singolare ed evenemenziale della parola. Se la parola dipende dal linguaggio, essa è altresì un buco, un vuoto interno al linguaggio, il suo punto più radicale di mancanza. La dialettica tra parola e linguaggio ricalca quella tra le due forme fondamentali dell’eredità per come le stiamo distinguendo. Nel soggetto psicotico, come Lacan lo descrive soprattutto nella prima parte del suo insegnamento, c’è una evidente di coltà di accesso alla parola, di soggettivazione dell’eredità del linguaggio. La clinica delle psicosi mostra la predominanza di un linguaggio senza parola, di una provenienza senza destinazione, di una costituzione senza soggettivazione. Il soggetto resta inchiodato al discorso dell’Altro senza riuscire ad assumere soggettivamente quello scarto singolare che la deviazione irriducibile della parola introduce rispetto al Codice della lingua. Il soggetto psicotico resta oggetto passivo del discorso dell’Altro; non accede alla sublimazione della parola, non soggettiva il lutto della Cosa imposto dal linguaggio. È una tesi forte del

primo Lacan: nella psicosi non c’è possibilità di sublimazione; c’è una “stagnazione della sublimazione”.16 Anche nella clinica della nevrosi ossessiva troviamo in primo piano la compattezza del linguaggio dell’Altro come oppressione e negazione della singolarità della parola. Nel suo eloquio, come nel suo rapporto con il sapere e con il linguaggio, l’ossessivo nomina se stesso come se fosse un altro, neutralizzando il piano dell’enunciazione che viene subordinato asetticamente a quello “oggettivo” dell’enunciato. L’ordine simbolico tende a irrigidirsi, a divenire in essibile, cercando di espellere da esso qualunque elemento vitale. La passione dell’ossessivo è per il linguaggio come macchina anonima, impersonale, come assenza totale di soggettivazione. Di qui la sua attrazione per i Codici chiusi, per i linguaggi che non conoscono incertezze e mancanze, per i saperi “duri” della matematica, dell’informatica, della giurisprudenza… Nel processo di soggettivazione ogni glio assume il carattere eretico della parola rispetto a quello normativo del linguaggio. È una tesi che ho sviluppato ne Il complesso di Telemaco e ne Il segreto del glio: come la poesia sovverte ogni volta il Codice già stabilito del linguaggio, allo stesso modo il glio è tenuto a sovvertire la legge del destino già costituito dall’Altro. In questo senso ogni glio è uno sforzo singolare di poesia. È quello che emerge con forza, molto spesso caotica, nell’adolescenza. Il glio è tenuto ad attraversare l’alienazione ai signi canti dell’Altro ma solo per separarsene. È tenuto a svincolare il proprio desiderio dalla pressione della domanda dell’Altro, a ribadire l’eterogeneità tra lo statuto della domanda (dell’Altro) e quello del desiderio. Per questa ragione possiamo reperire in ogni isterica un tratto adolescenziale che consiste nel fare prevalere la separazione sull’alienazione, mentre, al contrario, possiamo reperire sempre nell’ossessivo un tratto infantile che consiste nel fare prevalere l’alienazione sulla separazione. LO SNODO ADOLESCENZIALE NELLO SCENARIO IPERMODERNO

Se ogni analisi innesca un movimento di ripresa del desiderio (proprio) del soggetto scisso dalla domanda dell’Altro, in ogni analisi si ripete un processo inedito di liazione che ha come perno non solo e non tanto un ritorno dell’infanzia – come sostiene con decisione Freud accostando il

lavoro analitico a quello archeologico –, ma una ri-soggettivazione dello snodo adolescenziale, del taglio separativo che l’adolescenza comporta. Taglio che non investe solo la separazione del soggetto dalla famiglia, ma anche quella del suo desiderio dalla domanda dell’Altro. La pubertà del corpo scompagina la prevalenza della domanda dell’Altro nell’infanzia perché esibisce una istanza pulsionale nuova, eccedente, che non può soddisfarsi soddisfacendo la domanda dell’Altro come invece accadeva nell’infanzia. Nella pubertà la separazione dai signi canti dell’Altro avviene solo come acting del corpo. La separazione è innanzitutto separazione del corpo puberale dal corpo infantile. È la forza vitale della sessualità che nel suo manifestarsi porta con sé una obiezione fondamentale all’assoggettamento del soggetto alla domanda dell’Altro. Tuttavia questa obiezione può restare muta, senza pensiero, senza parole, senza una simbolizzazione adeguata. Allora la separazione può prendere le forme di un agire rivoltoso contro l’Altro; il corpo diventa teatro dell’opposizione radicale, della contraddizione senza dialettica tra l’emergenza separativa del desiderio del soggetto e l’inclinazione alienante della domanda dell’Altro. È la manifestazione del corpo puberale come esuberante, incontenibile, ormonale, pulsionale. È l’evento di una forza ancora priva di forma, di una forza “in cerca” della sua forma. Il glio è uno sforzo di poesia laddove prova a dare una forma a questa forza. È il suo compito fondamentale. In questo senso il viaggio di Telemaco è il viaggio di ogni glio. Le pratiche educative non possono mai garantire il buon esito di questo sforzo. L’atto di poesia come atto di dare forma alla forza del corpo, senza replicare gli stereotipi o erti dal Codice della lingua, non può che essere un atto senza garanzia. Nondimeno le pratiche educative rivestono un ruolo fondamentale nell’incoraggiare o nell’ostacolare, più o meno pesantemente, questo processo singolare di sublimazione. Lo scenario ipermoderno ha reso assai più complicato lo snodo dell’adolescenza. Nelle società patriarcali dove il complesso di Edipo costituiva il nucleo simbolico della vita individuale e collettiva, lo sfondo della formazione soggettiva avveniva sul vuoto che l’interdizione della Legge della castrazione, veicolata dal padre, apriva nell’essere del glio e dal quale sorgeva il desiderio che tras gurava positivamente quel vuoto in una mancanza. La triangolazione simbolica del con itto – il padre separa il soggetto dalla Cosa materna entrando in con itto con il desiderio

(incestuoso) del glio – favorisce la frattura dalla prossimità con la Cosa materna mettendo in movimento l’elaborazione del lutto di cui si nutre ogni processo di soggettivazione. Il punto è che la dissoluzione della funzione simbolica del padre rende oggi questa elaborazione sempre più di cile. Al posto del lavoro del lutto interviene una adesione neo-melanconica alla Cosa-madre o all’oggetto-Cosa che rende più di cile la separazione e, di conseguenza, la singolarizzazione in atto nel processo di soggettivazione. Questa di coltà si può facilmente constatare osservando, per fare un solo ma signi cativo esempio clinico, come il nostro tempo abbia disumanizzato l’oggetto del desiderio sostituendo la sua matrice originaria – la Cosa-madre – con quella disumana dell’oggetto che deve assicurare al soggetto la sua presenza come sempre presente (smartphone, alcol, droga, cibo, ecc.). In questa “disumanizzazione” dell’oggetto al centro non sono più le sue qualità immaginarie – enfatizzate dal discorso della pubblicità –, ma solamente la garanzia della sua presenza, la connessione perpetua che l’oggetto fornisce al soggetto. Non è di cile vedere nella natura necessariamente continuativa di questa presenza l’alone melanconico di una prossimità adesiva con la Cosa del godimento. In primo piano non è tanto la liquidità metamor ca degli oggetti – la loro in nita varietà metonimica che il discorso del capitalista deve produrre incessantemente –, ma la matrice solida di questa liquidità che è costituita dalla tras gurazione neomelanconica dell’oggetto in Cosa: l’oggetto non è reperito sullo sfondo di una assenza – non diviene, in quanto oggetto perduto, oggetto causa del desiderio, per usare il linguaggio di Lacan –, ma deve garantire la presenza sempre presente della Cosa. Esso non appare sullo sfondo di un’assenza ma serve ad abolire l’assenza. Più precisamente, la consistenza della sua presenza – della presenza di questo oggetto-Cosa – deve neutralizzare lo spazio della mancanza da cui sorge il desiderio. È una sorta di sovranismo autarchico di tipo psichico che agisce come una risposta alla dissoluzione dei con ni simbolici che venivano assicurati dall’attività del grande Altro. Questa dissoluzione è una delle manifestazioni più decisive dell’evaporazione del padre di cui parlava Lacan e che ho lungamente commentato.17 Ed è anche il fondamento di quella distruzione della sublimazione che ritroviamo come elemento costante nella cosiddetta clinica dei nuovi sintomi (tossicomania, alcolismo, dipendenze tecnologiche, bulimia, ecc.). Il carattere compulsivo delle pratiche pulsionali

legate a fenomeni di dipendenza ostacola infatti la possibilità della sublimazione come movimento plastico della pulsione che sa contornare il vuoto lasciato dall’oggetto perduto. Nei nuovi sintomi il vuoto è otturato, la plasticità pulsionale ridotta a una ssazione inerte del godimento senza alcun margine di movimento. La solidità dell’iper-connessione neomelanconica all’oggetto-Cosa è totalizzante se non proprio totalitaria. L’evaporazione del grande Altro comporta che il taglio traumatico della Legge della castrazione non sia in grado di interrompere il legame incestuoso con l’oggetto-Cosa. Lo dimostrano le reazioni dei giovani preadolescenti quando si impone loro una riduzione drastica nell’uso dello smartphone: l’angoscia che li consuma non è proporzionata, appare come l’espressione drammatica di una vera e propria regressione, come quando – letteralmente – al neonato viene tolto improvvisamente il seno. In particolare, nel rapporto dei giovani con la realtà virtuale del loro schermo tecnologico si può osservare una sorta di collasso della dialettica simbolica del riconoscimento. In gioco non è più il desiderio del soggetto che si rivolge al desiderio dell’Altro in cerca del suo riconoscimento simbolico. La domanda di riconoscimento sembra lasciare il posto a una attività di continuo rispecchiamento tra pari. L’uso dei social può subire spesso questa distorsione, e i fenomeni dell’aggressività e dell’idealizzazione che si esprimono, oscillando tra i like e gli insulti, confermano la regressione del soggetto a una sorta di stadio dello specchio collettivo. I padri sono destituiti di valore e sostituiti dai giovani predicatori YouTuber. Il sapere viene raccolto orizzontalmente senza la fatica inevitabile che comporta la sua verticalizzazione. Le stesse prove simboliche che dovrebbero delineare un percorso di formazione vengono sistematicamente evitate – spesso con la complicità dei genitori – a rischio di essere sostituite da continui passaggi all’atto. Se, infatti, il discorso educativo – in primis quello familiare – non è più in grado di sostenere l’importanza cruciale di queste prove – nanche dell’angoscia e del fallimento eventuale che ogni prova può comportare –, esso rischia di incentivare ripetuti passaggi all’atto anziché incoraggiare l’accesso all’esperienza singolare dell’atto che non può, appunto, prescindere dall’esperienza simbolica della prova (una volta iscritta in rituali collettivi di iniziazione). Mentre, infatti, la dimensione dell’“atto” si realizza pienamente nell’assunzione soggettiva delle sue conseguenze, il “passaggio all’atto” è la realizzazione di una incapacità di sostenere l’atto e la sua prova, dunque un

atto allucinato, una dimensione solo perversa o psicotica di un atto che vorrebbe porsi come privo di conseguenze. L’inclinazione apparentemente maniacale del discorso del capitalista ha ra orzato una inclinazione neo-melanconica nei giovani che tendono a lasciarsi assorbire dalla presenza sempre presente dell’oggetto, tras gurando l’oggetto in un oggetto-Cosa. Non è più l’oggetto che appare sullo sfondo del lutto della Cosa, ma è l’oggetto-Cosa a negare melanconicamente quel lutto. Mentre l’impulso eccitante del discorso maniacale sospinge verso il ricambio incessante dell’oggetto in una successione di presenti frammentati privi di continuità storica, questa nuova e particolare adesività all’oggetto – per esempio, all’oggetto tecnologico – rivela la corrente sottotraccia di questa spinta euforica: l’incollamento neo-melanconico all’oggetto, l’impossibilità di sostenere la sua perdita, il rigetto del lutto della Cosa. Una connessione perpetua all’oggetto-Cosa che diventa una forma radicale di sconnessione. L’esempio clinico tra i più emblematici è quello del ritiro regressivo di molti adolescenti che disertano la vita sociale per restare incollati al mondo virtuale che li assicura della presenza sempre presente dei loro oggetti. Il mondo dell’oggetto-Cosa sostituisce il mondo dell’incontro con l’Altro e le sue inevitabili turbolenze. IL LAVORO DELL’ANALISI COME PROCESSO DI SOGGETTIVAZIONE

In ogni analisi proviamo a rilanciare il processo di soggettivazione, a fare in modo che il soggetto non sia paralizzato dall’inconscio come “discorso dell’Altro” e dalla inesorabilità della sua ripetizione; proviamo a favorire il movimento in avanti della seconda eredità come soggettivazione della prima. In questo la gura di Telemaco resta per me un riferimento cruciale.18 La ripetizione come replica senza scarti di quello che è già avvenuto è l’e etto più sintomatico della prevalenza dell’inconscio come “discorso dell’Altro” sull’inconscio come “taglio in atto” – evento e ripresa –, dunque, della prima eredità sulla seconda. Nell’analisi ci impegniamo ogni volta a riattivare il processo di soggettivazione. Si tratta di provare a scrivere in modo nuovo ciò che è già stato scritto, di trascrivere in modo singolare le tracce costituenti dell’Altro. Non si tratta di liberarsi illusoriamente del potere della ripetizione, quanto piuttosto di dare alla ripetizione una forma

nuova. Riprendo i due fondamentali passaggi del Seminario , già commentati, dove Lacan sintetizza e cacemente questo snodo aiutandoci a intendere come sia possibile dare alla ripetizione una forma nuova. Nel primo di questi due passaggi, egli si so erma sulla struttura del soggetto o rendoci una chiave precisa per intendere il primo movimento – la prima eredità? – che il lavoro dell’analisi riattiva. Il soggetto viene condotto a incontrare il signi cante traumatico al quale è rimasto assoggettato nella sua storia e di cui la ripetizione è espressione univoca. “Sarebbe essenziale – a erma Lacan – che il soggetto veda a quale signi cante – non-senso, irriducibile, traumatico – egli sia, come soggetto, assoggettato.”19 È questo, come abbiamo già visto, il primo movimento di un’analisi: portare il soggetto a vedere quali sono i signi canti traumatici ai quali la sua vita è rimasta assoggettata. Si tratta di scandagliare la sua provenienza, le tracce sedimentate dell’Altro, i signi canti traumatici e irriducibili, cioè quei signi canti che non rappresentano il soggetto per un altro signi cante, ma lo inchiodano alla ripetizione inesorabile di un godimento rovinoso. Fintanto che l’analisi resta nell’orbita del reperimento di questi signi canti essa manifesta tutto il proprio dinamismo. L’analizzante ricostruisce la sua provenienza dal discorso dell’Altro, rintraccia la logica della sua vita sino ad allora rimasta sepolta dalla rimozione, riscopre le tracce degli Altri che lo hanno costituito. Tuttavia, questo dinamismo tende fatalmente a lasciare il passo a una tonalità depressiva se non a un vissuto di profonda disillusione: il disco sembra rotto; la consapevolezza della logica che anima la ripetizione non annulla la ripetizione. Una sorta di impasse circolare sembra catturare non solo i lamenti del soggetto, ma anche gli stessi materiali analitici: l’analisi sembra ruotare sempre sulle stesse monotone note. Per uscire da questo circolo vizioso dell’analisi è necessario un passaggio discorsivo verso la seconda eredità. Non a caso Lacan individua la posta in gioco dell’esperienza analitica in un movimento di soggettivazione dell’assoggettamento signi cante. È questo il secondo movimento essenziale dell’analisi: rendere possibile l’assunzione singolare del signi cante traumatico al quale la vita del soggetto si è scoperta assoggettata. È solo questa assunzione che può dare alla ripetizione la forma di una “di erenza assoluta”. È questo a cui punta il desiderio dell’analista:

Il desiderio dell’analista […] è un desiderio di ottenere la di erenza assoluta, quella che interviene quando, confrontato con il signi cante primordiale, il soggetto giunge per la prima volta in posizione di assoggettarvisi. Solo qui può sorgere la signi cazione di un amore senza limite, perché è fuori dai limiti della legge, dove soltanto può vivere.20

Il desiderio dell’analista mira a “ottenere la di erenza assoluta” del soggetto. L’inconscio si rivela come “taglio in atto”, sospensione della ripetizione, evento singolare che torce singolarmente l’inconscio come discorso dell’Altro. È questa la meta ultima di ogni analisi: fare emergere l’inconscio come apertura, possibilità, interruzione dell’automaton della ripetizione. Ma la “di erenza assoluta” si può estrarre solo quando il soggetto si è radicalmente confrontato con il signi cante primordiale, coi signi canti traumatici e irriducibili che hanno impresso la loro traccia sulla sua vita. Non dalla liberazione dalla loro presa, ma dall’assunzione soggettiva di questa presa, dalla ripresa singolare della loro presa. È importante notare che qui Lacan non parla più di signi canti al plurale, ma usa con cognizione l’espressione singolare: si riferisce a un “signi cante primordiale”. Perché? Il lavoro dell’analisi procede asciugando la biogra a del soggetto e riducendola al solo signi cante primordiale che ne ha tracciato la logica interna. Ma come diventa possibile la separazione del soggetto da questo signi cante traumatico e irriducibile se la sua vita è assoggettata a quel signi cante? Nel primo movimento dell’analisi il soggetto ha incontrato questo signi cante, lo ha già visto in opera innumerevoli volte, lo ha riconosciuto come tale. Tuttavia Lacan a erma, in modo paradossale, che, in questo secondo movimento, il soggetto è come se si trovasse di fronte “per la prima volta” a questo signi cante al punto che, anziché ri utare la sua ripetizione assoggettante, vi si identi ca, decide, appunto, di “assoggettarvisi”. Si tratta di stabilire il signi cato di questa “prima volta” e di questa assunzione singolare dell’assoggettamento al signi cante primordiale. In gioco è un vero paradosso perché in questo caso la “prima volta” non viene “prima” in senso cronologico, ma è resa possibile solamente dalla ripetizione del signi cante traumatico che l’ha preceduta. È una “prima volta” resa possibile da qualcosa che è già accaduto. Prima, infatti, c’è la visione del signi cante traumatico da parte dell’analizzante; solo in un tempo secondo il soggetto può accedere alla visione della “prima volta”. Sicché la prima volta non è una fuoriuscita dalla ripetizione, ma il suo più profondo

prodotto. Non c’è possibilità di vedere “per la prima volta” il signi cante traumatico – che il soggetto ha già visto – se non a partire dalla ripetizione di questo signi cante. È, in altre parole, solo l’innesco della ripetizione che rende possibile la sua interruzione. L’assoggettamento non è più una condizione che il soggetto subisce, ma qualcosa che il soggetto vuole e sceglie, che può vedere davvero “per la prima volta” come deciso e non subito. Per la prima volta può, cioè, assumere quello che nora lo ha tormentato come signi cante traumatico come se fosse un suo nome proprio. Il soggetto si assoggetta a questo signi cante, ma assoggettandovisi può estrarre la sua di erenza assoluta. È la liberazione dalla ripetizione come risultato di un’inedita obbedienza. È a questo paradosso estremo che l’analisi consegna il soggetto. Siamo di fronte all’essenza della seconda eredità: vedere per la prima volta quello che da sempre ho visto, quello che da sempre sono stato. È solo nel tempo della seconda eredità che il soggetto può dire “Sì!” alla sua provenienza e al suo destino. “Solo qui – prosegue Lacan – può sorgere la signi cazione di un amore senza limite, perché è fuori dai limiti della legge.”21 Il signi cante traumatico – primordiale e irriducibile – che il soggetto ha isolato con il primo movimento dell’analisi viene nuovamente incontrato come se fosse la prima volta. Non si tratta, dunque, di una scoperta, ma di un ritrovamento. Solo quando il soggetto decide di assoggettarsi a questo signi cante può liberarsi dal suo peso inesorabile e avanzare verso “un amore senza limite”. Verso quale amore? Verso l’amore per cosa? Un amore “fuori dai limiti della Legge”, a erma Lacan, dunque assoluto. Ma per cosa se non per la vita stessa nella sua assoluta di erenza? In primo piano non è più l’inconscio come “discorso dell’Altro”, ma “l’inconscio come taglio in atto”. Mi sono nalmente riconosciuto in questa traccia facendone l’indice della mia assoluta singolarità. E in questo riconoscimento – e etto di una torsione singolare della ripetizione – posso accedere a un “amore senza limite”, ovvero a un amore liberato dalla domanda, a un amore senza domanda, non limitato dalla passione immaginaria del narcisismo; “senza limite” perché il soggetto non ha più nulla da chiedere all’Altro, se non di poter amare “fuori dai limiti”, di esistere come una vita nuova.

1. Cfr. M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e gli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013. 2. Tra le diverse interpretazioni critiche di questo genere, mi limito a segnalare P. Godani, Senza padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo, DeriveApprodi, Roma 2014, e G. Mazzoni, I destini generali, Laterza, Roma-Bari 2015. 3. Cfr. M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, cit., pp. 11-17. 4. S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi (1934-1938), in , vol. , pp. 418-420 (corsivo nel testo). 5. Cfr. J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, cit., vol. 1, p. 296. 6. Ibidem. 7. Sul concetto di forclusione come eredità mancata vedi l’Appendice, in questo libro. 8. È solo grazie a Penelope, la madre, che il desiderio del padre si trasmette al glio, che egli può signi care l’assenza del padre non come desiderio di ri uto ma come segno per il suo amore. 9. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 133. 10. Cfr. S. Freud, Il romanzo familiare dei nevrotici (1908), in , vol. . 11. F. Ansermet, P. Magistretti, Gli enigmi del piacere, cit., p. 138. 12. F. Ansermet, P. Magistretti, A ciascuno il suo cervello. Plasticità neuronale e inconscio, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 22. 13. È questa una de nizione sartriana della libertà che ho in più occasioni ripreso per inquadrare il movimento singolare della soggettivazione. Cfr. M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, cit., in part. pp. 422-466. 14. In questo senso considero insuperabile la lezione heideggeriana di Essere e tempo. Cfr. M. Heidegger, capitolo : “Temporalità e storicità”, in Essere e tempo, cit., pp. 447-510. 15. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 159. 16. Cfr. J. Lacan, I complessi familiari nella formazione dell’individuo, cit., p. 59. 17. Cfr. M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit.; Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Ra aello Cortina, Milano 2011; Il complesso di Telemaco…, cit. 18. Come, del resto, quella del Gustave Flaubert di Jean-Paul Sartre ne L’idiota della famiglia, o quella del glio protagonista de La strada di Cormac McCarthy, o, ancora, quella degli “eredi eretici” presenti nell’ultimo cinema di Clint Eastwood, in particolare in Million Dollar Baby e Gran Torino. Cfr. M. Recalcati, Un cammino nella psicoanalisi. Dalla clinica del vuoto al padre della testimonianza (Inediti e scritti rari 2003-2013), Mimesis, Milano-Udine 2016, in part. pp. 189-229. 19. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 246. 20. Ibidem, p. 271. 21. Ibidem.

VII VOLTI DELL’INGOVERNABILE NELL’ESPERIENZA DELLA PSICOANALISI

La pulsione, al contrario, non agisce mai come una forza d’urto momentanea, bensì sempre come una forza costante. E, in quanto non preme dall’esterno, ma dall’interno del corpo, non c’è fuga che possa servire contro di essa. . , Pulsioni e loro destini L’IO NON È PADRONE IN CASA PROPRIA

La frustrazione maggiore che la psicoanalisi impone alla soggettività umana consiste nel pensare l’Io come esiliato, profugo nella propria terra, nel decretare, secondo una celebre formula di Freud, che egli “non è padrone in casa propria”.1 Con questa a ermazione il padre della psicoanalisi iscriveva il suo nome al anco di quelli di Copernico e Darwin. Sono tre nomi che corrispondono a tre grandi “umiliazioni narcisistiche”: quella cosmologica (Copernico), quella biologica (Darwin) e quella psicologica (Freud). Mentre Copernico obbliga l’uomo a riconoscere che la Terra non è il centro dell’Universo, ma solo un pianeta tra gli altri che ruota attorno al Sole, Darwin mostra che la nostra forma di vita non deriva da Dio ma dai primati. In queste prime due umiliazioni narcisistiche l’antropocentrismo dell’umanesimo viene colpito duramente. Ma sarebbe la terza umiliazione, quella inferta da Freud, a intaccare il punto di maggior prestigio narcisistico dell’uomo: la padronanza di se stesso, la proprietà della sua “casa” interna, il suo Io. L’illusione del governo di sé, che aveva ispirato la saggezza greca e che aveva orientato la ragione loso ca moderna da Descartes in avanti viene sovvertita: l’Io non è la “roccia sotto la sabbia” sulla quale si fondano

l’identità e il sapere dell’uomo – per usare una nota metafora di Descartes –, poiché non è padrone nemmeno in casa propria. L’Io non coincide con la vita psichica del soggetto, ma appare, per usare un’immagine proposta dal giovane Sartre, come una sorta di suo inquilino abusivo, un “centro di opacità” che assomiglia a un sasso in un secchio d’acqua.2 In primo piano è l’esperienza dell’ingovernabile che si rivela innanzitutto nella non coincidenza tra la vita del soggetto e quella della sua coscienza. È la lezione fondamentale che Freud eredita da Schopenhauer e da Nietzsche: la forza pulsionale della vita esorbita dalla coscienza, la quale non è altro che una formazione reattivo-difensiva nei confronti del carattere eccedente di quella forza. Siamo agiti da una spinta che non possiamo domare né con la nostra ragione né con la nostra volontà. Ogni sogno di padronanza dell’Io deve essere abbandonato. La clinica psicoanalitica si occupa di questa non padronanza e delle diverse forme che assume l’esperienza dell’ingovernabile nella vita umana. Le cosiddette dipendenze patologiche – dal sesso, dal gioco, dalle sostanze, dagli oggetti tecnologici, ecc. – o rono un primo ritratto – estremo ed evidente – dell’ingovernabile: il giocatore d’azzardo, come il tossicomane o l’alcolista, non possono resistere alla spinta maledetta che li incatena perversamente alla loro passione. La dimensione dell’ingovernabile contraddice l’ideale superomistico di cui il nostro tempo sembra vantarsi; l’ideale ipermoderno di una vita compiuta, su ciente a se stessa, computerizzata, autonoma, capace di governare con sicurezza il proprio destino. Ma contraddice altresì ogni versione economicistico-edonistica dell’apparato psichico; la vita non persegue il suo equilibrio, la sua omeostasi, ma è catturata dall’eccesso. Sicché nessun algoritmo può essere in grado di ridurre la vita a una formula; il caos non è l’opposto gnostico del cosmos, ma la sua matrice, la sua ombra, il suo sangue. La vita contiene un eccesso che sgomenta. Niente, scriveva Lacan, è più angosciante della sensazione di essere ridotto al proprio corpo vivente.3 La vita che vuole vivere è una marea montante che sembra spazzare via ogni intento educativo. E quanto più il discorso educativo prova a divenire normativo nell’illusione di disciplinarla, tanto più esso rischia di fomentarne il carattere sterilmente distruttivo. Un grande psichiatra francese dell’Ottocento – Charles Lasègue – ha coniato a questo proposito una massima luminosa: “L’insistenza genera sempre resistenza”.4 La sua applicazione clinica è sotto gli occhi di tutti. Se gli educatori insistono

troppo nei loro divieti – “Stai fermo!”, “Studia!”, “Mangia!” – rischiano di ottenere il contrario di quello che avrebbero voluto, generando, appunto, iperattività, di coltà di apprendimento, anoressia. L’eccesso della vita non può essere separato dalla ineluttabilità della morte; la vita e la morte sono in questo senso i due nomi speculari dell’ingovernabile. I progressi della medicina, sostenuti dall’avanzata della scienza e della tecnica, non ci renderanno mai immortali. L’inizio della vita porta già con sé il dramma della sua ne. I so smi loso ci che vorrebbero ridurre la morte a una apparizione estranea alla vita o a una presenza inesistente ntanto che la vita è viva e, dunque, altrettanto inesistente quando la vita ha terminato il suo corso – la morte non è un problema, a ermava Epicuro, perché quando io sono vivo lei non esiste e quando lei esiste io non ci sono più –, si sciolgono di fronte all’evento sempre “prematuro” e “innaturale”, come direbbe Simone de Beauvoir, della morte. La sua incombenza sulla vita non si realizza con la morte sica – la morte non è semplicemente la chiusura dell’esistenza, la sua nota nale – ma agisce come un reale traumatico sempre presente. Qual è l’insegnamento della psicoanalisi intorno all’ingovernabile? Si tratta di negarne l’esistenza coltivando l’illusione di un Io padrone a casa propria e del mondo intero? Di imporre sul reale un ordine ideale che escluda ogni forma di disordine? Possiamo pensare davvero che la salute di una città o di un corpo sia garantita da un’azione di governo o di cura che escluda per principio il disordine dell’ingovernabile? In realtà la vita della polis – come quella del corpo – fronteggia sempre qualcosa che sfugge al controllo e alla padronanza: ussi migratori, violenza, criminalità, con itti insanabili, odio e invidie sociali. L’illusione di un governo totale del mondo ha animato i deliri dei sistemi totalitari del Novecento e sostiene oggi i suoi rigurgiti fondamentalisti. La pulsione securitaria, come abbiamo visto, può divenire l’espressione più estrema di questo rigurgito. Il sogno totalitario è sempre un sogno di padronanza: la città ridotta al monolinguismo di una etnia, di una razza, di un solo popolo, di una sola religione, dell’identità del sangue e del suolo, di una sola versione possibile della vita. Tuttavia, esiste anche una versione più so di esclusione dell’ingovernabile; per esempio, la medicalizzazione sospinta della vita – il corpo ridotto a un ingranaggio massimamente e ciente – che domina il nostro tempo. È il mito ipermoderno dell’uomo-macchina regolato dal principio di prestazione.

Vivere facendo amicizia con l’ingovernabile è una promessa impossibile? Un giusto governo della città – come quello di un corpo – non può non implicare il vortice del cambiamento, la pluralità irriducibile degli interessi particolari, la polifonia delle culture e delle etnie di erenti. Non si tratta di eliminare il disordine, ma di dare al disordine una giusta forma. L’impatto con l’ingovernabile ci costringe a convivere, a fare amicizia con lo straniero. Questo comporterebbe un cambiamento radicale di mentalità. Non si tratta a atto di rassegnarsi alla potenza del Male o del Caos, ma di fare spazio a una vulnerabilità condivisa. L’arte della poesia e della scrittura o rono già un esempio illuminante di quanto sia necessario accogliere l’esposizione all’ingovernabile per rendere possibile la creazione. Anche dalla psicoanalisi può venire un’indicazione preziosa: l’accanimento nella volontà di governo che pretende di sopprimere il disordine tende sempre a rovesciarsi nel suo contrario; un ordine ottenuto con l’applicazione crudele del potere è peggio del male che vorrebbe curare; ogni volta che l’ambizione umana cerca di realizzare un ordine senza disordine si scontra fatalmente con delle manifestazioni straripanti e anarchiche del disordine. Il governo giusto non è quello che persegue lo scopo di annullare l’ingovernabile, ma quello che lo sa ospitare. Vale per la vita del corpo come per quella della città. Non a caso è lo stesso problema che fronteggia la grande arte di tutti i tempi. L’ESPERIENZA DELL’INGOVERNABILE ALL’INIZIO DI UN’ANALISI

Nella pratica della psicoanalisi l’esperienza dell’ingovernabile è quella che può portare un soggetto a domandare un’analisi. È un dato clinico: la congiuntura che determina una possibile domanda di analisi concerne l’incontro del soggetto con qualcosa che ha le caratteristiche dell’ingovernabile. Per Lacan è l’incontro con l’alterità del reale: qualcosa scardina l’ordinamento canonico dell’Io e del mondo interrompendo lo scorrere abituale della vita. Il primo volto dell’ingovernabile nell’esperienza analitica è quello del sintomo che, non a caso, Freud de nisce come un “territorio straniero interno”5 sulla cui giurisdizione l’Io non può che manifestare la sua impotenza. Il sintomo è più forte dell’Io; è un reale che costringe il soggetto a sperimentare una ripetizione che, mentre gli impone una so erenza, soddisfa nell’inconscio un godimento sconosciuto al soggetto stesso: insonnia, tabagismo, impotenza sessuale, stati di angoscia,

inibizioni, conversioni somatiche sono tutte manifestazioni di un reale ingovernabile sul quale il soggetto non ha potere di controllo. Il reale del sintomo non è la realtà perché la sua esteriorità ingovernabile non appare nel quadro della realtà del mondo – come, per esempio, uno tsunami o un terremoto – ma all’interno della soggettività. La sua esistenza – l’esistenza del sintomo – è quella – come direbbe Lacan – di una estimità, di una “esteriorità interna”. Per questo Lacan associa il sintomo alla divisione del soggetto; la sua irruzione mostra traumaticamente che l’Io non è il padrone, ma il servo nei confronti di una forza – quella pulsionale che si esprime nel sintomo – che non è in grado di disciplinare con il ricorso alla propria volontà. Trieb – pulsione – viene infatti dal tedesco trieben, che signi ca letteralmente “spingere”. Il soggetto non è padrone della spinta della pulsione ma è agitato, turbato, sorpreso da questa stessa spinta. Non può governare il suo Drang, ma ne è governato. Sicché la presenza del sintomo rivela la costituzione divisa del soggetto, l’impossibilità di coincidere con il proprio essere, la dissoluzione dell’identità tra essere e cogito. Il discernimento razionale, la valutazione cognitiva o l’azione morale della volontà non hanno il potere di disciplinare questa forza dall’alto. Il sintomo snuda la verità antropologica di fondo teorizzata da Freud: l’Io non è padrone nemmeno in casa propria. Con un’aggiunta ancora più sorprendente che compendia la de nizione strettamente psicoanalitica di sintomo e che sconvolge tanto il senso comune quanto quello proprio della semiotica medica: il sintomo – secondo Freud – è l’attività sessuale inconscia del nevrotico. Questo signi ca che non è una semplice alterazione del corpo o del pensiero del soggetto, ma che viene al posto – sostituisce – l’attività della pulsione sessuale rimossa. L’INGOVERNABILE DELLA RIPETIZIONE

Proprio perché il sintomo porta con sé un godimento inconscio esso tende a ripetersi, insiste, pressa il soggetto, non lascia tregua. Diversamente dalla natura evanescente di tutte le formazioni dell’inconscio – il sogno, l’atto mancato, il motto di spirito, il lapsus –, il sintomo ha la caratteristica della permanenza solida, tende a durare. Non c’è, infatti, sintomo senza ripetizione. È questa una cifra essenziale che rivela l’appartenenza del sintomo al registro del reale. La sua ingovernabilità coincide con la sua

inerzia ripetitiva; il sintomo non passa, non si traduce in altro, resiste a ogni trasformazione. Esso, come direbbe Lacan, ritorna sempre allo stesso posto. Di qui la sua monotonia; il godimento del sintomo non genera apertura ma chiusura; è un godimento dello Stesso; è godimento dello Stesso godimento. Per questa ragione l’ultimo Freud associa il sintomo all’orizzonte dell’al di là del principio di piacere e della pulsione di morte. La ripetizione del sintomo tende a comportare una chiusura della contingenza illimitata del mondo; la ripetizione del sintomo esclude il nuovo perché riduce il nuovo allo Stesso. È il nesso che vincola il sintomo al fantasma inconscio del soggetto. L’interpretazione fantasmatica della realtà genera il sintomo e il suo ritorno sempre uguale. Facciamo due esempi clinici. Il primo è quello di un brillante intellettuale che trasforma ogni volta i rapporti con i propri maestri in relazioni dominate dall’aggressività che conducono inevitabilmente alla rottura. L’origine della inclinazione ripetitiva di questo sintomo si trova nella relazione con il proprio padre, del quale da bambino aveva scoperto un tratto scabroso e per lui inaccettabile del suo godimento. Il paziente per caso scoprì una raccolta di video pedo-pornogra ci del padre, che di professione faceva l’insegnante. Questa doppia faccia del padre ricadeva fatalmente sui tutti i suoi maestri. La realtà veniva piegata dalla sua lettura fantasmatica. L’incrinatura dell’immagine ideale del maestro dava luogo prima a rimproveri e a critiche per poi esplodere in una aggressività manifesta che causava la rottura inevitabile del rapporto. Un secondo caso è quello di una donna con grandi risorse intellettuali e una bella professione, di circa quarant’anni. L’inizio della sua analisi fu provocata dalla conclusione di una relazione amorosa durata quattro anni. Parlandone, la de niva una relazione di cui era molto stanca sebbene non riuscisse a trovare il modo per portarla a termine. Ma quando, con sua estrema sorpresa, fu il suo compagno a dirle che non l’amava più e che la loro storia poteva considerarsi nita, questa relazione accrebbe ai suoi occhi improvvisamente la sua importanza, divenendo una vera e propria ossessione. Per un verso questa situazione rivela una trama psichica nota: perdere un oggetto può rendere l’oggetto perduto ricco di valore, mentre era a nostra disposizione non contava nulla o quasi. È la sua perdita a renderlo imprevedibilmente prezioso. Per un altro verso, però, possiamo

comprendere la reazione di questa donna solo se consideriamo il suo fantasma singolare. La conclusione recente di questa sua relazione d’amore è solo l’ennesima di una serie ripetitiva che riproduce sempre lo stesso schema: la donna si accorge di sentirsi coinvolta a ettivamente in modo profondo solo quando il suo partner se ne va. La formula del suo fantasma sembra essere: “Ti amo solo se mi lasci, se sparisci, se mi abbandoni”. Questo schema ha la sua matrice in una scena infantile; aveva sette anni ed era una bambina molto legata al padre, che la preferiva rispetto alle altre sorelle. Una domenica d’estate il padre uscì di casa e non vi rientrò più. In seguito si venne a sapere che aveva un’altra famiglia. È evidente in questo caso il nesso che unisce quello che questa donna ripete nelle sue relazioni amorose e il gesto incomprensibile e traumatico del padre.6 L’enigma del desiderio del padre, con il quale lei non ha potuto avere più alcuna forma di relazione, sembra governare inconsciamente tutta la vita amorosa di questa donna. Il sintomo prende le forme di una sua tendenza a provocare ripetitivamente l’abbandono da parte dell’oggetto amato per poi struggersi disperata. L’INGOVERNABILE DEL CORPO

Nella clinica psicoanalitica sperimentiamo frequentemente come il soggetto parli del proprio corpo come di qualcosa che sfugge al suo governo, come di qualcosa di inappropriabile. Se per un verso possiamo a ermare, contro i dualismi di matrice platonica e cartesiana, che noi siamo il nostro corpo e che il corpo non è il carcere o un rivestimento inessenziale dell’anima, per un altro verso la psicoanalisi ci costringe a separare il soggetto dal suo corpo. Questo signi ca che noi non siamo mai del tutto il nostro corpo, quanto piuttosto abbiamo un corpo. Ed è proprio perché lo abbiamo e non lo siamo che possono, per esempio, prodursi sintomi di dissociazione dal nostro corpo. È l’esperienza dell’angoscia che coglie il piccolo Hans di Freud di fronte alle sue prime erezioni: il suo “fapipì” rivela una sorprendente autonomia rispetto alla volontà dell’Io e non può non provocare nel soggetto una sensazione di angoscia. Possiamo fare un altro esempio clinico: un signore di cinquant’anni dedito alla propria professione con estremo scrupolo vive identi cato con i ritmi piani cati della sua agenda. La sua vita assomiglia a quella di un computer: tutto è in ordine,

classi cato, organizzato. Nei primi colloqui, quando faticavamo a trovare il tempo necessario per le sue sedute, mi diceva mostrandomi un enorme cellulare: “Guardi, vede, la mia agenda è già tutta piena! Non esiste un solo momento vuoto nella mia giornata!”. Trapelava chiaramente una certa soddisfazione fallica nel presentarsi come un uomo-agenda che non conosce spazi vuoti, mancanze, cedimenti. In evidenza, ovviamente, era l’esorcismo ossessivo nei confronti della forza vitale e impadroneggiabile della vita. La sua stessa casa, dove viveva solo, appariva nei suoi racconti simile a un bunker fatto per impedire ogni contatto con l’esterno e per garantire la massima e cienza di ogni cosa al suo interno. Ebbene, questo strano uomo-agenda decise di consultarmi perché sconcertato da un fatto imprevedibile. Nel suo caso l’apparizione dell’ingovernabile aveva preso la forma di un attacco di panico. Stava leggendo, come d’abitudine, prima di addormentarsi. Improvvisamente aveva avvertito la sensazione del proprio cuore, del battito cardiaco, restando profondamente colpito dall’autonomia assoluta del suo ritmo. Una prima associazione che egli mi riferì collegava l’autonomia paurosa del battito del suo cuore alla possibilità della sua morte. In un solo colpo la paura della vita e la paura della morte si compenetrano. Entrambe infatti – la vita e la morte – sono i volti fondamentali del reale in quanto ingovernabile. Se Freud ha messo più in rilievo l’angoscia del nevrotico nei confronti della castrazione di cui la morte è la massima e ultima espressione (niente è più angosciante dell’esperienza della perdita), Lacan ha più insistito sull’angoscia nei confronti dell’eccesso senza misura del godimento, della vita come apertura illimitata. Ma, in ogni caso, la vita e la morte restano i due nomi fondamentali del reale. Il pensiero dell’uomo-agenda di non avere il controllo sul proprio cuore fa aumentare all’impazzata i suoi battiti cardiaci, determinando uno stato di profonda angoscia che culmina in una vera e propria crisi di panico; vertigine, fame d’aria, timore di perdere conoscenza. Il suo cuore non risponde alla ragione, esorbita dal programma tto e impenetrabile della sua agenda, perfora il suo bunker interno. Nei primi colloqui si scoprì che qualche settimana prima dell’attacco di panico, nella vita grigia di quest’uomo, nell’u cio dove lavora, una giovane stagista si era fatta avanti in modo garbato nei suoi confronti. Essendo un uomo non privo di fascino non era la prima volta che cose di questo genere avvenivano. Solitamente però la sua risposta era ltrata – anche in questi casi – dalla sua agenda. Le

respingeva delicatamente come se la loro presenza non fosse stata programmata. Non c’era spazio per loro (come per l’analista, del resto). Ma in questa ultima circostanza aveva avvertito sorprendentemente il desiderio di dire “sì”, di fare posto nella sua agenda a un nuovo incontro. La compattezza della sua postura si era sciolta lasciando emergere una divisione soggettiva. Il suo “no!”, almeno questa volta, aveva contraddetto il suo desiderio. Ecco allora la comparsa dell’attacco di panico. Il suo cuore si era scompensato nella forma particolare della vita che si impaurisce davanti alla possibilità del “sì!” alla vita. Ma anche della morte che appare alle spalle della vita. Sin dalle prime sedute emerge il racconto della perdita precoce del padre – al quale era molto legato –, della bara aperta nella camera ardente e del suo sguardo terrorizzato nel vedere il padre immobile, pietri cato. Terrore che si mescolava a un senso assurdo di compostezza e di compattezza che egli aveva intravisto nella sagoma defunta del padre. Se la vita porta con sé la possibilità della morte, meglio usare la morte contro la vita, meglio anticipare la morte – secondo il lo rosso del fantasma ossessivo – per impedire alla morte di sconvolgere l’agenda programmata della sua vita. In altri casi la spinta al controllo può essa stessa diventare una compulsione ingovernabile. È il caso di quando un’anoressica perde il controllo sulla sua spinta a controllare tutto quello che entra e che esce dal proprio corpo. Esempio clinico signi cativo del tormento che comporta la pulsione securitaria. Nell’anoressia, infatti, l’ingovernabile coincide con l’istanza stessa del controllo, con l’ideale ascetico-padronale del governo assoluto di sé. Si tratta altresì di una esasperazione del sacri cio che diviene una sorta di meta pulsionale di tipo masochistico. Non a caso Freud de nisce la pulsione di morte come una pulsione di controllo che ha perso il controllo su se stessa. In questo caso non è la Legge che divora repressivamente la pulsione, ma è la pulsione (di controllo) che nisce per divorare la Legge. L’INGOVERNABILE DEL TRAUMA

Un altro decisivo volto dell’ingovernabile è quello del trauma. L’evento del trauma espone il soggetto alla propria inermità, alla propria passività originaria. Questo evento non è mai tale in sé, ma lo diviene allorquando

svela quella inermità originaria. In altre parole c’è trauma ogniqualvolta la barriera del simbolico si rivela incapace di arginare l’orrore del reale e la vita del soggetto appare senza difese. Questa de nizione del trauma sovrappone la gura dell’eccesso a quella della sottrazione. L’ingovernabile dell’eccitamento, lo spavento, il terri cante da una parte; l’esperienza della perdita, dell’abbandono, dell’assenza, del tradimento e della scomparsa dall’altra. Al fondo di queste esperienze di segno apparentemente opposto ritroviamo sempre quella vulnerabilità della vita – la sua passività originaria – che Freud ha de nito con la gura dell’Hil osigkeit, dell’abbandono assoluto. Il carattere ingovernabile del trauma coincide con la sua assoluta esteriorità. È come se l’evento traumatico colpisse il soggetto dall’esterno. È il suo statuto reale, inassimilabile al simbolico. Non può essere pensato, metaforizzato, digerito psichicamente. Nondimeno, non esiste determinismo traumatico perché non esiste un evento traumatico in sé. A determinare un evento come traumatico è sempre la mediazione o la risposta del soggetto all’evento; il trauma non può mai essere considerato una causa e ciente. È la centralità che nella clinica del trauma Freud stesso riconosce alle “forze del soggetto”. L’urto del reale si può signi care come trauma solo retroattivamente. Il disturbo post-traumatico non può essere classi cato in base all’entità dell’evento ma solo a partire dalla mediazione o dalla risposta del soggetto. Tuttavia, è come se il trauma fosse senza memoria o come se la sua memoria soggettiva potesse essere solo di tipo allucinatorio, come nel caso dell’incubo, che può prendere il posto, nella sua insistenza ripetitiva, del trauma vissuto. Esso appartiene più al registro della forclusione che non a quello della rimozione: la sua esclusione dal simbolico implica la sua inesorabile ripetizione. La contingenza del trauma si trasforma nella necessità della sua presenza. E la ripetizione di questa presenza comporta una restrizione del mondo. Il soggetto traumatizzato vede il mondo solo attraverso il suo trauma, o, meglio, restringe l’orizzonte del mondo a quello del trauma. Anche il trauma è, dunque, una gura clinica del chiuso e non dell’aperto. Non a caso, nel nostro tempo, marcato dall’evaporazione dell’Altro simbolico, la pulsione securitaria tende a ra orzare proprio l’esistenza dell’Altro per difendere il soggetto dal trauma dell’irruzione dell’intruso. Si tratta di installare un Altro compatto – un Altro-muro – come difesa dal trauma del reale incarnato dal messicano, dal

migrante, dallo straniero. Di fronte allo sbriciolamento dell’Altro simbolico si vorrebbe restaurare un Altro fortemente identitario. Infatti il trauma è un evento che frattura bruscamente la continuità tra l’Io e il suo essere; anche il sintomo opera in questo senso – divide il soggetto –, ma esso si istituisce come una formazione simbolica dell’inconscio e non come una irruzione del reale che devasta l’ordine simbolico. Diversamente dal sintomo, il trauma è un urto, una scossa, una manifestazione improvvisa del reale e non – come accade nel sintomo – una sua organizzazione metaforica. Prendiamo l’esempio di un “piccolo” trauma. Una scena comune di vita familiare che per il soggetto ha però un vero e proprio e etto traumatico, rivelando al soggetto stesso la non coincidenza tra quello che egli pensava di essere e il suo essere e ettivo. Si tratta di un uomo di cultura, padre di famiglia, molto aperto nella educazione dei gli, gura mite e marito amorevole. Nel corso di una discussione avvenuta in famiglia, accade, in un modo assolutamente inconsueto, che quest’uomo perda il controllo e picchi selvaggiamente il proprio glio adolescente. Quando lo ricevo appare a ranto e pieno di sensi di colpa per quello che è accaduto. Ma la domanda che lo conduce dall’analista è un’altra: “Io chi sono veramente?”, si chiede. L’esplosione della sua violenza lo ha sconcertato, ha divaricato il suo atto dal suo essere, ha spalancato la non coincidenza tra il suo pensiero di sé e la sua esistenza. Un evento risulta traumatico quando mostra la discordanza che separa l’essere dall’Io. L’impulso irrefrenabile a colpire ripetutamente in modo violento il glio, trovandosi come in uno stato di trance o dissociato, sortisce per lui l’e etto (traumatico) di scucire l’identi cazione tra l’essere e l’Io. Prendiamo un altro esempio clinico che rivela un ulteriore aspetto del trauma. Una giovane donna cresciuta in una famiglia serena e profondamente amata dai suoi genitori, ricca di talento e di mezzi economici, sempre prima della classe, si rivolge a me disperata dopo aver perso per una grave malattia sua madre, da lei assistita nelle fasi terminali della sua vita. L’esperienza dell’agonia della madre è stata, così la de nisce, “traumatica”. Da allora ha perduto il sonno, non ha più desiderio di vivere, è invasa da pensieri di morte. La malattia e la morte della madre hanno scardinato l’ordine del senso dentro il quale la sua vita era felicemente cresciuta. Questo ordine viene improvvisamente devastato da un reale totalmente fuori senso (la malattia della madre). La sua domanda di analisi

coincide con la perdita traumatica del suo mondo. In questo caso, diversamente da quello del padre che colpisce il proprio glio impulsivamente, in primo piano non c’è un eccesso ma una perdita. Il trauma non segnala l’irruzione della pulsione sulla scena dello schermo narcisistico dell’Io, ma il crollo del proprio mondo, la sua perdita di senso, la rivelazione melanconica del non-senso dell’esistenza. Un altro esempio clinico ci permette di approfondire questa faccia del trauma. Si tratta di una donna cattolica, devota, con una concezione seriamente altruistica della vita, improntata a un grande rispetto verso il prossimo. Durante una breve vacanza si trova coinvolta in un atto terroristico cruento di matrice islamica. Vede le membra sparse di corpi devastati dalla ferocia dell’attentato sulla strada; vede i cadaveri, il sangue e la gente terrorizzata che urla correndo smarrita. In questo caso il trauma si rivela come ciò che in un solo colpo, senza preparazione e senza difese da parte del soggetto, sconvolge non solo la vita delle persone che le sono attorno, ma la sua credenza religiosa nell’ordine del senso. La brutalità di questo attentato ha scosso la sua rappresentazione religiosa del mondo. Quando mi incontra è questo tema a essere in primo piano: cos’è un mondo dove la violenza inaudita degli uomini agisce nel nome di Dio rivelando una brutalità assai peggiore di quella degli animali? Come può ancora esistere il mondo come lo conosceva prima? Il mondo dell’amore per il prossimo, della serenità altruistica della sua famiglia? Il mondo del Bene o della provvidenza? LA NEVROSI COME DIFESA DALL’INGOVERNABILE

La nevrosi de nisce un rapporto di inimicizia con l’ingovernabile, di cui l’inconscio è il volto primario. Anche la psicoanalisi – alla stregua di ogni forma di psicoterapia – corre il rischio di concepire l’inconscio solo come una minaccia da neutralizzare e non come una forza espansiva che deve essere alimentata più che disciplinata. La psicoanalisi può diventare essa stessa una nevrosi quando si impegna a normalizzare o a pedagogizzare la dimensione ingovernabile dell’inconscio. Allora anziché contribuire a dare la parola all’inconscio, a stabilire con l’ingovernabile un rapporto di amicizia e di integrazione, lo silenzia contribuendo a ra orzare le difese dall’inconscio anziché stabilire una giusta

alleanza terapeutica con l’inconscio. In questi casi è la psicoanalisi stessa ad assomigliare a una nevrosi: mette la museruola all’inconscio e ra orza l’alleanza con l’Io – con la cosiddetta “parte sana” del paziente – contro l’inconscio. Si tratta di una rappresentazione repressivamente colonialistica della terapia psicoanalitica.7 La clinica della nevrosi è una clinica del ri uto dell’eccesso del godimento e del rischio che comporta l’esposizione dell’amore all’alterità dell’Altro. Più precisamente, la clinica della nevrosi è una clinica della difesa che può usare l’amore contro il godimento o il godimento contro l’amore. Nel primo caso usa l’idealizzazione narcisistica dell’amore come difesa dal reale del godimento: l’amore nevrotico diventa una difesa dal godimento nella misura in cui accentua la dimensione platonico-idealizzante dell’amore che esclude il carattere scabroso ed eccessivo della pulsione. È il platonismo di cui può circondarsi il nevrotico per arginare il campo incandescente del corpo sessuale. Si può notare con evidenza in certi adolescenti che si impegnano strenuamente nel separare l’immagine ideale di loro stessi dalla perturbazione dell’incontro sessuale. Il sesso come macchia del pensiero, come antagonista nei confronti della dimensione necessariamente religiosa della nevrosi in quanto fede nell’esistenza dell’Altro, ovvero di un Altro della garanzia e della giusti cazione in grado di scongiurare l’impatto traumatico con l’ingovernabile al quale il soggetto si o re come devoto servitore. Piuttosto di vedere l’inesistenza dell’Altro, il nevrotico è disposto a rinunciare al proprio desiderio per soddisfare tutte le domande dell’Altro e, in questo modo, veri care la sua esistenza: Al ne di ottenere le soddisfazioni che cerca, non c’è nulla di più consueto del vederlo prendere una via di cui si può dire che consiste nel dedicarsi a soddisfare – davvero a più non posso – nell’Altro tutte le domande, pur sapendo bene che costituiscono in lui uno scacco perpetuo del desiderio. In altri termini, nella sua dedizione all’Altro trova il modo di non vedere la propria insoddisfazione.8

Nel secondo caso invece è il godimento che può diventare una difesa dal rischio dell’amore. Il caso clinico di un uomo di mezza età lo mostra con evidenza. Per tutta la sua vita egli si è tenuto a distanza di sicurezza dal rischio dell’incontro amoroso. Il modo per farlo consisteva nel degradare le sue partner a meri oggetti sessuali. La compulsione sessuale era la sua difesa nei confronti della aleatorietà dell’incontro con l’Altro sesso. In questa maniera egli provava (inconsciamente) a lenire le cicatrici infantili profonde

provocate da una madre precocemente vedova e alcolista che gli imponeva l’alternanza capricciosa dei suoi stati d’animo che oscillavano da profonde depressioni a picchi maniacali gravi. Evitare l’incontro amoroso era il solo modo per interrompere il legame doloroso con la madre. Il ricorso al godimento compulsivo gli serviva come barriera per neutralizzare il rischio dell’attaccamento amoroso all’oggetto che avrebbe replicato quello con la madre. DUE TRATTI DELL’INGOVERNABILE NELL’ESPERIENZA DELL’ANALIZZANTE

Quali esperienze dell’ingovernabile caratterizzano l’esperienza dell’analisi? La prima è indubbiamente quella dell’associazione libera. Freud la considera come la regola fondamentale dell’analisi: “Dica tutto quello che le passa per la testa”. Si tratta di una esperienza dell’ingovernabile perché il paziente è tenuto a sospendere le due leggi fondamentali che governano il funzionamento della parola nell’ordine canonico del discorso. Deve sospendere la legge della coerenza logica e quella della censura morale. Ma, soprattutto, è obbligato a veri care che per parlare di se stesso – del proprio Ego – è costretto a parlare degli Altri che hanno determinato la sua esistenza. Per parlare di sé l’analizzante non può che parlare del modo in cui gli Altri per lui storicamente determinanti hanno parlato di lui. Il soggetto ripete “liberamente” le parole che hanno marchiato – “crivellato”, secondo Lacan –9 la propria vita. È l’idea lacaniana dell’inconscio come “discorso dell’Altro”; prima di essere parlanti siamo parlati dalle parole dell’Altro; siamo costituiti dalle aspettative, dalle attese, dai fantasmi dell’Altro. Molto spesso la parola che il soggetto crede propria si rivela, nel corso dell’analisi, essere dell’Altro, si riconosce come schiava della parola dell’Altro. Dunque, quando invitiamo il soggetto in analisi ad adeguarsi alla regola fondamentale delle libere associazioni, possiamo ricostruire la struttura che il discorso dell’Altro ha acquisito per quel soggetto, le tracce che esso ha inciso nella sua memoria. Sono quelle parole-sentenza – parole-marchio – che immancabilmente ritroviamo nella storia dei nostri pazienti. È il caso di un mio paziente omosessuale, cresciuto, sin da molto piccolo, in una famiglia di sole donne. Ha sempre avuto la sensazione che il suo pene fosse piccolo, insu ciente. La madre esercitava su di lui un controllo assoluto. Ex-insegnante, gli imponeva, sin da bambino, ore e ore di studio che

terminavano ogni volta con lo stesso insulto: “Sei un cretino!”. Il primo incontro con una donna fu per lui traumatico; nel corso della cena in cui la sensazione di essere insu ciente era quasi paralizzante, ebbe l’impressione che risuonasse nella sua testa la sentenza della madre: “Sei un cretino!”. L’esperienza dell’analisi espone il soggetto anche all’incontro con i suoi sogni. Nella sua teoria del sogno Freud ha insistito sulla sua derivazione dal passato infantile rimosso del soggetto; il sogno, più precisamente, è il modo con il quale il rimosso può ritornare simbolicamente. Egli non considera il sogno come un’apertura inusitata verso l’avvenire. Nel sogno, secondo Freud, si ripete il voto indistruttibile del desiderio (di origine infantile) che ha subito la rimozione. Resta a lui estranea l’idea del sogno come luogo di visitazione, come apertura sul non ancora avvenuto. Il sogno non come luogo della ripetizione, ma come luogo di una convocazione, di una chiamata, di un annuncio. Voglio fare un esempio clinico che mi pare possa chiarire questo aspetto non freudiano del sogno. È il sogno di una donna che ha dedicato molti anni alla sua analisi. Il sogno segue la sua ultima esperienza di maternità e una lieve caduta depressiva a essa legata. In questa fase tende ad allontanare il marito ssandosi sul suo bambino. Il mondo si spegne: “Mi hanno tolto la luce”, dice. In questa situazione la maternità non è un’esperienza di a ermazione e di generazione, ma si colora di nero. Ecco il sogno: vive in Turchia, ma desidera andarsene. Per lei è un paese che è divenuto troppo autoritario. Si reca sul con ne tra la Turchia e un altro paese di cui può ammirare tutta la bellezza. In questo nuovo paesaggio la colpisce la presenza maestosa di un vulcano rosso. Identi ca il vulcano con un “mistero naturale”. In quel momento si accorge di avere per mano il suo bambino. Si chiede: “Lo tengo o lo lascio?”. Il bambino la strattona verso la Turchia. Lei invece decide di lasciare la mano del bambino. Improvvisamente appare un altro paesaggio, dove dominante adesso è la presenza del mare. Vede che sugli scogli il suo bambino saltella felice. Decide allora di oltrepassare il con ne perché non le fa più paura. Lascia la Turchia alle spalle. Pensa che il “mistero naturale” del vulcano coincida con il mistero della vita. In questo sogno non appare nessuna ripetizione, ma una direzione. Quale? Il soggetto è tenuto a oltrepassare l’orizzonte chiuso del materno – il suo regime autoritario –, a varcare il suo con ne verso l’illimitatezza del godimento femminile. In questo sogno l’inconscio agisce indicando una via

di uscita alla condizione depressiva in cui il soggetto si trova. Deve lasciare la mano del bambino, disidenti carsi dall’essere-tutta-madre per consentire al proprio glio di muoversi libero nel mondo – saltellare sugli scogli – e sottrarsi alla passione triste dell’identi cazione al fallo immaginario della madre. Lasciare la mano del bambino le consente di ritrovare la forza propulsiva della vita feconda, l’abisso misterioso del godimento femminile (il vulcano rosso, il mare come orizzonte aperto). L’ANALISTA: L’ULTIMO VOLTO DELL’INGOVERNABILE

L’incontro con un’analista non accade, come si vuole credere, sotto il registro dell’immedesimazione empatica o della comprensione. L’analista è piuttosto una presenza che deve saper incarnare l’alterità, il reale dell’ingovernabile. La sua presenza non è solo il destinatario del messaggio della parola del paziente – l’analista non occupa solo il luogo dell’Altro che riconosce il soggetto nel suo desiderio grazie al suo ascolto –, non è solo il partner della parola del soggetto. Custodire il silenzio, tacere al posto di rispondere, de-simmetrizzare il dialogo non persegue solo l’obiettivo – pure essenziale – di onorare la parola del soggetto consentendogli una nuova signi cazione. Di fronte al silenzio dell’analista che riconosce la parola del paziente si innesta un movimento fatalmente suggestivo che può portare il paziente a dire quello che immagina fantasmaticamente l’Altro si attenda. La dialettica del riconoscimento tende cioè a pervertirsi; la domanda di riconoscimento del soggetto prevale sul desiderio stesso del soggetto. Sentirsi riconosciuto dall’Altro vale (nevroticamente) più della realizzazione del proprio desiderio. In questo modo perseguendo il riconoscimento del mio desiderio rischio di smarrire il contatto con ciò che davvero desidero. Il soggetto vuole fare esistere l’Altro del riconoscimento come Altro che garantisce il suo valore e la sua identità. Il transfert scade allora nella suggestione; il desiderio è sovrastato dall’esigenza di soddisfare la domanda dell’Altro. Il soggetto si consegna all’analista come a un nuovo padrone. Dobbiamo allora reperire una seconda signi cazione del silenzio dell’analista. Il silenzio non serve solo alla dialettica della parola e del riconoscimento, ma è nalizzato a mostrare la credenza religiosa della nevrosi nei confronti del grande Altro e il suo contenuto perverso; il nevrotico – ripetiamolo – è disposto a sacri care il proprio desiderio per

soddisfare la domanda dell’Altro. Se il transfert, nel suo aspetto più immaginario, alimenta quella condizione ipnotica per la quale il soggetto si consegna nelle mani dell’Altro, il lavoro dell’analisi dovrebbe invece favorire una destituzione dell’Altro, una – come si esprime Lacan – “ipnosi a rovescio” a nché emerga la “di erenza assoluta” del desiderio del soggetto nei confronti della dimensione alienante della domanda dell’Altro.10 Un paziente, medico, si rivolge a me in preda a stati di angoscia che non riesce più a governare. In particolare dopo la nomina, avvenuta qualche mese prima, di un nuovo primario la cui gestione del reparto gli appare al tempo stesso autoritaria e irrazionale. Non è in grado di far valere il suo punto di vista e anche il suo lavoro coi pazienti ne risente. I sintomi di una persistente insonnia e continue crisi di angoscia completano il quadro clinico. Un giorno, dopo diverso tempo dall’inizio dell’analisi, mi con da che in sala d’attesa, prima di salire, cade sempre in preda a forti e incomprensibili tremori che proseguono anche nel corso dell’intera seduta per terminare subito dopo aver lasciato lo studio dell’analista. La storia clinica di questo paziente ha come punto perno i feroci maltrattamenti subiti da bambino da parte di sua madre, che quando perdeva il controllo gli appariva come “posseduta da una furia demoniaca”. I tremori in sala d’attesa e nella stanza dell’analisi segnalano la ripetizione di quel pericolo generato dalla sovrapposizione transferale dell’analista con la madre. La presenza dell’analista in questo caso non è a atto una presenza accudente ed empatica, ma viene interpretata come la riedizione della potenza irrazionale del godimento materno, della sua violenza estrema che la nomina del nuovo primario aveva evidentemente fatto emergere. Solo dopo una interpretazione i tremori diminuiscono insieme alle crisi di angoscia e alla paralisi sul lavoro. In una seduta, di fronte all’ennesima apparizione dei tremori, l’analista gli dice che durante quelle crisi – mentre la madre lo percuoteva furiosamente – aveva avvertito di essere in pericolo di vita. In questo caso è evidente che l’analista o re la sua presenza a nché diventi possibile la decifrazione del fantasma del soggetto: di fronte all’Altro che detiene il potere “posso venire ucciso”. Facciamo un altro esempio clinico: dopo diversi anni di analisi, una mia paziente, uscita dallo studio, terminata la sua seduta, mi chiama terrorizzata dicendomi: “Dottore, sono convinta di aver macchiato con il sangue delle mie mestruazioni il suo divano, controlli per favore, la supplico!”.

La sua angoscia era talmente alta che ho davvero controllato, rispondendole di stare tranquilla perché non c’era alcuna macchia sul mio divano. Da quel momento si apre un nuovo capitolo della sua analisi; una madre folle e un padre fragile avevano per ragioni di erenti trasmesso alla glia una rappresentazione caotica e peccaminosa della sessualità. Questa perdita di sangue che macchiava il luogo dell’Altro, vissuto come ideale, signi cava denunciare la presenza di qualcosa di ingovernabile di fronte alla ossessivizzazione mortifera della sua vita come risposta all’impatto traumatico con il caos familiare. Anche in questo caso il luogo dell’Altro non è semplicemente il luogo di una accoglienza empatica, ma quello che consente al fantasma del soggetto di mettersi in opera. È, in altre parole, il fantasma inconscio del soggetto che dipinge il luogo dell’Altro in base alla sua scena fondamentale. Dobbiamo passare da questa rappresentazione del fantasma attraverso lo schermo dell’Altro per giungere a svuotare l’Altro, a cogliere la sua inesistenza. È questo il tragitto di ogni analisi nella clinica della nevrosi. L’Altro che può uccidere, o che condanna moralisticamente la sessualità come caos incarnandolo oscenamente, è un Altro orribile, terri cante, ma è pur sempre un Altro che esiste. Un Altro rispetto al quale la nostra esistenza può trovare una forma paradossale di giusti cazione perché l’esistenza dell’Altro è ciò che protegge il soggetto dall’incontro con la sua inesistenza e, di conseguenza, con la ineludibilità dell’atto. Se, infatti, l’Altro non esiste, il senso del soggetto non può che iscriversi nell’atto – negli atti – del soggetto stesso. Il silenzio dell’analista agisce allora come rinvio necessario all’insostituibilità del soggetto rispetto all’atto.

1. Cfr. S. Freud, Una di coltà della psicoanalisi, in , vol. 8, pp. 659-663. 2. Cfr. J.-P. Sartre, La trascendenza dell’Ego, tr. it. Christian Marinotti, Milano 2011, p. 35. 3. Cfr. J. Lacan, La terza, tr. it. in La psicoanalisi, Astrolabio, Roma 1993, n. 12, p. 33. 4. Cfr. C. Lasègue, L’anoressia isterica, tr. it. in C. Gull, C. Lasègue, La scoperta dell’anoressia, a cura di P. Feliciotti, Bruno Mondadori, Milano 1998, p. 74. 5. Cfr. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), in , vol. 11, lezione 31, p. 170. 6. Nel suo ultimo romanzo Nadia Terranova mostra bene come il trauma provocato dalla scomparsa del proprio padre condizioni profondamente tutta la vita e le relazioni amorose di una donna, compresa la sua di coltà a concepirsi madre. Cfr. N. Terranova, Addio fantasmi, Einaudi,

Torino 2018. 7. L’opera di Elvio Fachinelli insiste nel mostrare questa deriva rischiosa della psicoanalisi non come rivelazione, ma come difesa dall’inconscio. Cfr. E. Fachinelli, La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, Edizioni L’erba voglio, Milano 1980; Il bambino dalle uova d’oro, cit., e La mente estatica, cit. Mi permetto su questo di rinviare a M. Recalcati, Critica della ragione psicoanalitica. Tre saggi su Elvio Fachinelli (in corso di pubblicazione presso Ponte alle Grazie). 8. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 500. 9. Cfr. J. Lacan, Il fenomeno lacaniano, tr. it. in La psicoanalisi, Astrolabio, Roma 1998, n. 24, p. 21. 10. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., pp. 269 e 271.

APPENDICE IL CONCETTO DI FORCLUSIONE: QUATTRO VARIAZIONI

PREMESSA

Nell’insegnamento di Lacan il concetto di forclusione occupa un posto preminente. Esso resta indubbiamente uno dei suoi maggiori contributi alla dottrina psicoanalitica contemporanea. Questo concetto viene prelevato dal testo di Freud traducendo il termine tedesco originario di Verwerfung. Il suo signi cato più noto, come vedremo nelle pagine che seguono, concerne la de nizione del processo causale a fondamento delle psicosi che Lacan elabora negli anni Cinquanta. Tuttavia, questo concetto – se lo si osserva nelle sue varie apparizioni lungo l’intero arco del suo insegnamento – non ha un uso clinico chiaramente univoco. L’obiettivo della mia ri essione non sarà quello di ricostruire storicamente la sua genealogia storica e teorica,1 quanto piuttosto di isolare e valorizzare proprio le sue variazioni interne e i suoi di erenti usi clinici. Più precisamente, dopo aver inquadrato sinteticamente il concetto di forclusione nella sua applicazione più classica in quanto forclusione del Nome del padre nella clinica delle psicosi, mi so ermerò su almeno quattro variazioni interne a questo concetto. Inizieremo dunque col chiarire la forclusione del Nome del padre come processo a fondamento della clinica delle psicosi. LA FORCLUSIONE DEL NOME DEL PADRE

A partire dal Seminario sino allo scritto titolato Questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, Lacan individua nel concetto di forclusione la causalità psichica speci ca della psicosi. Da questo punto di vista il Seminario si con gura come uno straordinario compendio

teoretico di questa gura concettuale. L’idea che Lacan propone è che la forclusione del Nome del padre sia il principio causale alla base dello scatenamento delle psicosi. La relazione è stringente e determinata: dove c’è psicosi c’è forclusione del Nome del padre. Si tratta di una causalità comune a tutte le psicosi; schizofrenia, paranoia e melanconia avrebbero tutte come denominatore comune la forclusione del Nome del padre. Qual è l’evidenza clinica della forclusione? Potremmo scrivere su una cartella clinica: il soggetto so re di forclusione, patisce la forclusione del Nome del padre? Possiamo dedurre l’esistenza della forclusione solo dai suoi e etti clinico-psicopatologici: “ritorno nel reale”, come ci spiega Lacan sin dal Seminario , di ciò che non si è iscritto nel simbolico.2 La sua tesi è generale e rigorosa: la clinica delle psicosi è una clinica dei ritorni erratici nel reale di ciò che non si è iscritto nell’ordine simbolico. Dobbiamo dunque dedurre la forclusione dai suoi e etti, così come, allo stesso modo, dobbiamo dedurre la rimozione nevrotica dal ritorno del rimosso che però, a di erenza del ritorno nel reale del forcluso, avviene nel simbolico. Esiste una relazione simmetrica tra lo schema concettuale che ordina il processo di rimozione e lo schema che ordina il processo di forclusione. Nella clinica della nevrosi rimozione e ritorno del rimosso appaiono legate insieme in modo indissolubile: la rimozione implica necessariamente l’evento del ritorno del rimosso. Un binomio fondamentale organizza per intero la clinica della nevrosi: rimozione di un moto pulsionale (di un desiderio inconscio, di una rappresentazione incompatibile con l’unità narcisistica dell’Io) e ritorno del rimosso attraverso le formazioni dell’inconscio (sintomo, lapsus, atto mancato, sogno). Queste formazioni, occorre precisare, hanno una natura linguistica nel senso che veicolano simbolicamente il contenuto di ciò che è stato rimosso. Ricapitolando, nella clinica della nevrosi avremo una serie minima articolata così: rimozione (processo causale della nevrosi) e ritorno di ciò che è stato rimosso attraverso le formazioni (linguistiche) dell’inconscio. In questo schema bisogna osservare con attenzione che ciò che ritorna dall’esclusione della rimozione può ritornare sempre e solo simbolicamente. Questo signi ca che l’esclusione del rimosso è una esclusione dialettica che non impedisce al soggetto di riappropriarsi di ciò che è stato escluso, cioè di riconoscere che ciò che è stato escluso, in ultima istanza, gli appartiene. Quest’ultimo è un dato clinico assai importante: il rimosso non è estraneo ma appartiene al

soggetto come la parte di sé più eterogenea rispetto all’omogeneità narcisistica del proprio Io. In questo senso la rimozione è una esclusione dialettica: quello che la rimozione ha escluso – quello che il soggetto non ha integrato nella coscienza – può essere sempre reintegrato nella misura in cui è destinato a ritornare simbolicamente presso il soggetto. Nello schema della forclusione in primo piano non abbiamo il ritorno del rimosso come ritorno simbolico poiché quello che viene forcluso riappare direttamente nel reale; ritorna nel reale, non nel simbolico. I cosiddetti “fenomeni elementari” della psicosi (allucinazioni, passaggi all’atto, deliri) sono l’equivalente del sintomo nella clinica delle nevrosi in quanto “formazioni di ritorno”. Solo che nel caso delle psicosi il ritorno non è più un ritorno dialettico nel quale il soggetto può riconoscere che la verità (rimossa) che nel sintomo si esprime lo concerne intimamente, poiché il ritorno di ciò che è escluso avviene, appunto, non per via simbolica, ma direttamente nel reale; accade, letteralmente, al di fuori del soggetto, ritorna dall’esterno, con la conseguenza che il soggetto non può riconoscere in esso qualcosa che lo concerne. Ricordiamo che il concetto di forclusione viene recuperato da Lacan dal testo di Freud. Precisamente, da un passaggio importantissimo presente nello scritto dedicato al presidente Schreber, dove Freud scrive che, nella psicosi paranoica, “quello che è stato abolito dentro di noi ritorna dal di fuori”.3 Questa formula costituisce la cellula teorica fondamentale del concetto lacaniano di forclusione. Quello che è stato abolito all’interno, quello che non ha trovato iscrizione simbolica all’interno del soggetto, che non si è sedimentato nel suo inconscio, ritorna dall’esterno, da fuori, direttamente nel reale. Si tratta di un punto assai problematico del testo di Freud che solo Lacan è riuscito a valorizzare pienamente, perché Freud non sta a ermando semplicemente che nella psicosi, come ha in seguito teorizzato la psicoanalisi post-freudiana, l’interno viene proiettato all’esterno. Non si tratta di interpretare la psicosi come il risultato di una proiezione dell’interno all’esterno. Lacan intende restare fedele alla lettera del testo di Freud: quello che non si è iscritto all’interno, scrive Freud, quello che “è stato abolito all’interno”, che non si è scritto all’interno, proprio per tale motivo – a causa di tale speci ca “abolizione” – può ritornare solo dall’esterno. Quindi si tratta di mettere insieme questi due elementi eterogenei: una non iscrizione originaria – l’“abolizione interna” – con il suo

ritorno dall’esterno. Da questa rilettura del testo di Freud, Lacan ricava la sua tesi generale sulla clinica delle psicosi: quello che nelle psicosi non si è mai scritto, che è stato da sempre abolito – è questa, in de nitiva, la sua aggiunta originale e determinante al concetto freudiano –, è la non iscrizione simbolica del Nome del padre. L’esempio più semplice per vedere il concetto di forclusione messo a terra è lo stesso caso clinico di Schreber. Il padre di Schreber fu un pedagogista tra i maggiori della “pedagogia nera” che preparò il terreno culturale per l’a ermazione della cultura nazista. Fu un padre legislatore, un padre educatore, inventore di uno strumento pedagogico sadico chiamato il “correttore Schreber”, che consisteva in una sorta di croce di ferro incastrata sulla sedia con la nalità di tenere la schiena del bambino dritta. Una ginnastica da camera ferrea e metodi educativi improntati alla violenza corporale e all’esercizio sadico-repressivo del potere costituivano i precetti fondamentali di questa pedagogia delirante.4 Ebbene, è proprio questa pedagogia follemente correttiva che non consente al glio di iscrivere nel proprio inconscio il signi cante del Nome del padre. Non solo; essa costituirà la materia prima del delirio di Schreber; la spinta educatrice della follia del padre si tras gura nella rappresentazione del Dio per do che gode illimitatamente delle proprie creature: quello che non si è mai scritto nell’inconscio del glio – il signi cante del Nome del padre –, a causa di un padre reale che si presenta, come direbbe Lacan in Questione preliminare, come un “legislatore”,5 dà luogo al ritorno nel reale di ciò che non è stato simbolizzato attraverso la gura inquietante di un Dio voluttuoso che gode impunemente di tutti i suoi gli, arte ce dell’“assassinio delle anime”, pura volontà di godimento. Ebbene, questo Dio folle non è altro che il ritorno direttamente nel reale del Nome del padre forcluso; è il padre di Schreber che ritorna nelle forme tras gurate di un Dio onnipotente e anarchico, intrusivo e abusivo che gode abusivamente delle sue creature. Nella clinica della forclusione, quando il Nome del padre non si iscrive nell’inconscio del soggetto, quando viene “abolito”, abbiamo fenomeni di erenziati del suo ritorno nel reale. Esso può assumere le forme dell’allucinazione, del delirio, nanche del passaggio all’atto; il soggetto senza l’ausilio del Nome del padre non si può separare dal godimento dell’Altro che incombe su di lui come una presenza minacciosa e oppressiva.

Nel corso dell’insegnamento di Lacan questa concettualizzazione del concetto di forclusione non è la prima teoria della causalità psichica della psicosi. Essa segue, in realtà, una prima de nizione di questa causalità improntata sull’idea che la psicosi fosse il prodotto di una cristallizzazione dell’immaginario, di un assorbimento alienante del soggetto alla propria immagine speculare; nella psicosi il soggetto resta prigioniero dello specchio – ssato a un narcisismo mortifero – senza poter accedere alla strutturazione simbolica o erta dalla triangolazione edipica. Tutta la prima ri essione di Lacan sulla paranoia mostra, per esempio, che nella psicosi il registro dell’immaginario prevale nettamente su quello del simbolico. È la ssazione narcisistica del soggetto a determinare la causalità prima della psicosi. Il simbolico non è in grado di fare presa sulla densità particolare che il registro dell’immaginario acquisisce nella clinica delle psicosi.6 La teoria della forclusione si sviluppa solo a partire dal Seminario per giungere al suo punto di massima coagulazione nello scritto titolato Questione preliminare. In questo arco di tempo Lacan introduce un’altra lettura della psicosi che non è più dovuta alla prevalenza in sé del registro dell’immaginario (narcisismo mortifero) sul registro simbolico, ma a un difetto interno al simbolico che rende possibile quella prevalenza. Il difetto interno all’ordine simbolico è la non iscrizione del Nome del padre. Quello che Lacan nella Questione preliminare descrive come il “cataclisma immaginario” della psicosi non è la causa della psicosi, ma una conseguenza di un difetto interno all’ordine simbolico, cioè della mancanza forclusiva del signi cante del Nome del padre nell’inconscio del soggetto. Per intendere gli e etti catastro ci di questa mancanza bisogna cogliere bene il valore simbolico del Nome del padre. Lacan lo spiega con chiarezza in un passaggio fondamentale del Seminario dopo aver precisato che il signi cante del Nome del padre è il modo di intendere la dimensione simbolica del padre nella sua azione normativa: Il Nome del padre è ciò che nell’Altro, in quanto sede della Legge, rappresenta l’Altro. È il signi cante che dà supporto alla Legge, che promulga la Legge. È l’Altro nell’Altro. È esattamente quanto esprime il mito necessario al pensiero di Freud, il mito di Edipo […]. Il Nome del padre fonda come tale il fatto che vi sia Legge, vale a dire articolazione in un certo ordine del signi cante – complesso di Edipo, o Legge dell’Edipo, o Legge della proibizione della madre.7

Il Nome del padre è la “sede della Legge”. Di quale Legge? Della Legge della castrazione, la cui funzione simbolica è quella di rendere possibile al

soggetto l’accesso al linguaggio, e, contemporaneamente, di ordinare il godimento che attraversa il corpo dell’essere vivente. Se il Nome del padre è la “sede della Legge”, esso è il signi cante che dà ordine a tutto l’insieme dei signi canti, coincide con la struttura stessa dell’ordine dei signi canti. Questo signi ca che il Nome del padre non si sovrappone al padre reale ma ne suppone piuttosto la morte. Se si vuole, è questo un’eco cristiana della teoria del Nome del padre in quanto il padre del cristianesimo – il Padre rispetto al quale tutti gli esseri umani sono gli – non è una presenza reale, ma, come scrive Matteo l’evangelista, “è nei cieli”.8 Di nuovo il caso Schreber costituisce un paradigma prezioso: esso mostra bene che laddove il padre reale non cede sul suo godimento, ma anzi, appunto, si pone come un legislatore assoluto, ne deriva la conseguenza della forclusione del Nome del padre, ovvero della forclusione del Nome del padre come “sede della Legge” capace di limitare innanzitutto il godimento della madre. Non a caso, nella formula della metafora paterna proposta in Questione preliminare, il Nome del padre sostituisce nel primo algoritmo il Desiderio della madre, ovvero castra normativamente il cannibalismo del Desiderio (meglio sarebbe dire: del godimento) della madre: . Nel pensiero di Lacan il Nome del padre è innanzitutto il luogo della Legge del Desiderio della madre. Per questa ragione Lacan può concludere che in tutte le forme di psicosi abbiamo sempre a che fare con uno “scacco della metafora paterna”.9 Il Desiderio della madre non appare castrato simbolicamente dal Nome del padre; il Nome del padre – come invece detterebbe la formula della metafora paterna – non sbarra né sostituisce il Desiderio della madre. “Forclusione” del Nome del padre signi ca che questo signi cante non è attivo, non opera nessuna sostituzione metaforica rispetto al Desiderio della madre lasciando il soggetto in balia di questo desiderio (meglio sarebbe dire: godimento). L’idea di Lacan è che il processo originario di simbolizzazione – quello che Freud de nisce col termine “rimozione originaria” – di cui il Nome del padre è il principio attivo, consente l’accesso del soggetto al campo del simbolico. Tuttavia la negativizzazione del godimento materno non coincide mai con il suo semplice annullamento; l’azione del signi cante non può cancellare il resto prodotto dalla sua stessa azione. Ma nelle psicosi, a causa della forclusione del Nome del padre, il reale non assume la forma del

resto, di una presenza non circoscritta, non delimitata, non castrata, ma appare come una incombenza sovrastante e minacciosa. Non ha la forma del resto, ma di una presenza maligna senza argini e sempre presente. È un reale che non è il prodotto dell’azione del simbolico ma della sua insubordinazione. È un reale che non cessa di ritornare nelle forme drammatiche dell’allucinazione, del delirio, dei pensieri imposti, del passaggio all’atto. Il Nome del padre è nell’Altro la “sede della Legge” che rappresenta l’Altro, il grande Altro; è, a erma Lacan, il signi cante che “dà supporto alla Legge”, che “promulga la Legge”. È l’Altro nell’Altro, l’Altro che è a fondamento del sistema del grande Altro. Se viene meno questo fondamento viene meno il quadro stesso della realtà. Non a caso per Freud stesso la psicosi è un’esperienza di totale perdita del senso di realtà.10 In questo senso la teoria classica della forclusione di Lacan è una vera e propria ripresa strutturalista della teoria dell’Edipo di Freud. Il Nome del padre è il signi cante che consente la triangolazione simbolica spezzando il carattere incestuoso del rapporto tra il bambino e la madre, la follia fallica che indenti ca il bambino con l’oggetto esclusivo del godimento e del completamento della madre. In un altro passaggio rilevante del Seminario Lacan puntualizza ulteriormente la sua concezione della forclusione quando a erma che la forclusione coincide con una nozione “tipogra ca” della mancanza. È la mancanza di un signi cante o di una lettera che scombina l’articolazione complessiva dello “spazio tipogra co” in cui consiste lo “spazio dell’inconscio”: Intorno a che cosa ho fatto ruotare tutto ciò che vi ho insegnato due anni fa sulla psicosi? Intorno a ciò che ho chiamato la Verwerfung […]. E in che cosa consiste la forclusione? Nel fatto che può esserci nella catena dei signi canti un signi cante o una lettera che manca.11

Se manca il signi cante del Nome del padre signi ca che il sistema signi cante perde il suo fondamento normativo. Sicché questa mancanza ha conseguenze clinico-psicopatologiche profonde. La prima è quella della disarticolazione tra Codice e messaggio. Mentre solitamente Codice e messaggio sono articolati in una dialettica, nel senso che, per costruire un messaggio, il soggetto deve necessariamente utilizzare il Codice universale della lingua – utilizzando i termini di Saussure si può a ermare che l’evento

singolare della parole è possibile solo sullo sfondo del sistema della langue – nella psicosi, invece, non è il soggetto ma il Codice che parla! Non è il soggetto che parla ma è il Codice che parla! Non è il soggetto che nel suo atto di enunciazione sfrutta il Codice della lingua, ma è questo stesso Codice che, paradossalmente, si sonorizza. È questa l’origine delle cosiddette “parole imposte” che appaiono nelle allucinazioni acustiche. Qui non è il soggetto che parla, ma è l’Altro che parla al soggetto, attraverso, appunto, l’imposizione delle parole. Mentre nella clinica della nevrosi il Codice non parla, ma è il soggetto che, grazie al Codice, parla, nella psicosi è il Codice che parla e non il soggetto. Per questa ragione in diversi deliri paranoici, anche nel loro primo a orare, è frequente il vissuto del sentirsi disturbati dalla parola dell’Altro, per esempio dal vicino di casa che non smette mai di parlare o di fare rumori di ogni genere. L’Altro che parla è un fenomeno tipico della psicosi. Basti pensare a come il televisore a volte possa rivolgersi direttamente al soggetto invertendo il criterio normale della fruizione: non è più il soggetto che guarda e ascolta la televisione ma è la televisione che guarda e ascolta il soggetto! È questo un altro esempio possibile dell’animazione psicotica del Codice. Mentre abitualmente il Codice è morto e questa morte rende possibile la vitalità della parola del soggetto, nella psicosi, secondo un rovesciamento traumatico di questa prospettiva, non esiste più parola del soggetto perché chi parla è l’Altro. Il Codice, dunque, si vivi ca e parla mentre il soggetto si morti ca e deve subire l’incalzare della parola incessante dell’Altro. Questo è un esempio eclatante della disarticolazione di Codice e messaggio nel senso della netta prevalenza del primo sul secondo. Nella clinica delle psicosi la forclusione genera disturbi del linguaggio che sono disturbi nell’ordine della signi cazione. Nel suo celebre Grafo Lacan ci ha o erto lo schema fondamentale della signi cazione; l’e etto di signi cato è reso possibile solo dalla retroazione prodotta dall’incontro della parola con il luogo dell’Altro, con il luogo del Codice. Ogni signi cazione si sviluppa retroattivamente; è un e etto dell’incontro della parola del soggetto con il grande Altro del Codice. Parlando decido di chiudere in una frase compiuta il uire della mia parola. È solo a questo punto che il mio discorso acquista – retroattivamente – un signi cato determinato. Il mio messaggio si articola grazie al Codice, ma il suo signi cato complessivo è dato retroattivamente dalla mia ultima parola, dalla parola che sancisce la

chiusura della frase. Nella psicosi, invece, il signi cato arriva in anticipo sul movimento retroattivo di signi cazione della parola. Le allucinazioni acustiche (“Troia!”, “Frocio!”, “Bastardo!”) sono messaggi imposti che trasmettono una sorta di signi cazione assoluta che precede il lavoro della parola proprio del soggetto. Si tratta di una signi cazione paradossale; essa riguarda l’intimità più particolare del soggetto pur provenendo direttamente dal carattere universale del Codice. In questo caso non è il soggetto a utilizzare il Codice per generare una signi cazione singolare, ma è l’universalità del Codice a produrre delle signi cazioni assolute, per esempio nella forma dell’ingiuria che non lascia appello, dunque signi cazioni che annichiliscono la possibilità di parola del soggetto. La produzione del senso viene anticipata dall’Altro anziché essere generata dal discorso del soggetto grazie all’Altro. Ma gli e etti clinici della forclusione non investono solamente il rapporto tra Codice e messaggio. Un altro e etto importante, come abbiamo già visto, è quello legato alla prevalenza dell’immaginario e, di conseguenza, del narcisismo di morte. In ne ricordiamo che l’e etto più cruciale è quello della inattività simbolica della Legge di cui il signi cante del Nome del padre è la sede. Questa inattività, oltre a favorire una regressione al narcisismo mortifero dell’immaginario, accentua il carattere invasivo, abusivo, anarchico del godimento che può frammentare il corpo del soggetto (schizofrenia), trasformarlo in un bersaglio (paranoia), o, ancora, ridurlo a un mero oggetto di scarto (melanconia). Schizofrenia, paranoia e melanconia sono tutte forme di ritorno direttamente nel reale del godimento che frastornano un soggetto che a causa della forclusione non può appellarsi alla Legge del padre per limitare il ritorno abusivo del godimento dell’Altro. LA FORCLUSIONE DEL SOGGETTO

Sino ad ora ho provato a riprendere i li maggiori della ri essione di Lacan sul concetto di forclusione del Nome del padre come concetto cardinale nella clinica delle psicosi. Esamineremo ora la prima variazione nell’uso di questo concetto. Lacan talvolta riferisce la forclusione come un processo che non riguarda solo il Nome del padre ma anche il soggetto stesso. Una citazione del Seminario ci o re il giusto orientamento. Essa

appare nel contesto della lezione dell’8 aprile 1959. Lacan a erma l’esistenza di un grande “segreto della psicoanalisi”. Mentre nella Questione preliminare aveva teorizzato la metafora paterna come veicolo per iscrivere nell’inconscio del soggetto il Nome del padre in quanto signi cante dell’Altro dell’Altro, nel corso di questa lezione sembra problematizzare decisamente il suo punto di vista sostenendo che il grande segreto della psicoanalisi consiste nell’a ermare che “non c’è Altro dell’Altro”. Se sino a quel momento aveva spiegato ai suoi allievi che il Nome del padre è il signi cante che nell’Altro è a fondamento dell’Altro in quanto signi cante della Legge, con questa lezione sostiene l’ipotesi che l’Altro che dovrebbe essere a fondamento del sistema dell’Altro, in realtà, è inconsistente, che, insomma, l’Altro dell’Altro non esiste.12 Questo signi ca innanzitutto che non esiste per il soggetto alcuna possibilità di trovare nell’Altro la risposta su ciò che egli è. Per un verso Lacan ci ha mostrato con la teoria della forclusione che tutto ciò che accade al soggetto dipende da ciò che accade all’Altro, cioè che il soggetto è nulla senza l’Altro o, per dirla con le parole di Questione preliminare, che il soggetto dipende da ciò che avviene nell’Altro, cioè, strutturalmente, dalla presenza-assenza del Nome del padre che ha fatto o non ha fatto la Legge al Desiderio (meglio sarebbe dire; godimento) della madre. È qualcosa che riguarda da vicino la pratica clinica. Nella costruzione di un caso clinico è essenziale chiedersi cosa è stato quel soggetto per il Desiderio di sua madre. È una indicazione preziosa e non banale che Lacan esplicita chiaramente nel suo testo sulla Giovinezza di Gide.13 Interrogarsi su cosa è stato quel soggetto per il Desiderio della madre signi ca assumere che il soggetto stesso appare condizionato nel suo essere dall’incidenza negativa del desiderio dell’Altro, che esso è dipendente da quello che avviene nell’Altro. Con la tesi traumatica dell’inesistenza dell’Altro dell’Altro e della forclusione del soggetto, Lacan sostiene che non vi sia nell’Altro alcun signi cante in grado di poter dire quel che un soggetto è poiché il signi cante del soggetto è forcluso. Il soggetto è verworfen, a erma risolutamente.14 Il taglio del signi cante che costituisce il soggetto lo produce solo in quanto verworfen, cioè in quanto forcluso. È uno dei paradossi maggiori del processo di soggettivazione: il soggetto partecipa al discorso dell’Altro – “dipende da quello che avviene nell’Altro” –, ma, al

tempo stesso, gli sfugge, non può essere incluso nell’Altro poiché non c’è niente nell’Altro che possa de nire quello che egli è; non c’è un signi cante che lo possa pienamente rappresentare nel suo essere. Il soggetto non ha nessuna garanzia che l’Altro possa dare ragione della sua esistenza singolare. Non c’è Altro dell’Altro, non c’è nell’Altro alcun signi cante che possa rispondere di quello che io sono. Questo è il “grande segreto della psicoanalisi”. Il grande segreto è che il soggetto dipende da quello che avviene nell’Altro, ma non c’è niente nell’Altro – nessun signi cante – in grado di rivelare il suo essere. In questo senso il soggetto – che nel suo essere è una “mancanza a essere” – è solo una mancanza all’interno dell’Altro. Sono queste due mancanze che si sovrappongono: la mancanza dell’Altro che non porta con sé il signi cante (forcluso) del soggetto e quella del soggetto che viene reso mancante dall’azione dell’Altro. “La verità senza speranza” – come la de nisce Lacan –, ovvero quella verità che incontriamo a livello dell’inconscio, è una “verità senza volto”, una verità impenetrabile, una “verità senza verità”.15 Ma cosa signi ca propriamente a ermare che il Nome del padre non è più il luogo della verità del soggetto, ma che il soggetto fa esperienza della sua esistenza singolare come “una verità senza verità”, senza alcuna garanzia di verità? Signi ca che il luogo dell’Altro non può mai sostituire il soggetto nel tempo del suo atto, nel tempo della sua scelta. È per questa ragione che Lacan elegge il principe Amleto a gura fondamentale della clinica della nevrosi. Amleto sospende il suo atto, esita, di erisce la sua decisione, in quanto, come sostiene Lacan, sintonizza il suo essere “sull’ora dell’Altro”, volendo fare dipendere il suo atto dall’esistenza dell’Altro. Egli vorrebbe sintonizzare i suoi atti sull’orologio dell’Altro, ma così facendo rende semplicemente impossibile l’evento dell’atto che come tale implica non tanto l’esistenza ma l’inesistenza dell’Altro.16 Tutti i fenomeni nevrotici di inibizione dell’atto hanno, infatti, a che fare con una idealizzazione dell’Altro, cioè con l’idea che esista l’Altro dell’Altro come garanzia della verità ultima del soggetto. Diversamente l’atto diventa veramente possibile solo se il soggetto sperimenta l’inesistenza dell’Altro dell’Altro. La nevrosi ossessiva manifesta in modo chiaro questa paralisi dell’atto che deriva dall’esigenza del soggetto di fare esistere un grande Altro della garanzia. È quello che spiega il sintomo ossessivo della procrastinazione. Il soggetto non potendo trovare nell’Altro nessuna garanzia viene rinviato al

suo proprio atto. La sospensione dell’atto è allora il solo modo per il soggetto ossessivo per continuare a fare esistere l’Altro dell’Altro. L’inibizione che procrastina l’atto è il modo tipicamente ossessivo per non rinunciare all’Altro dell’Altro e, dunque, per essere riparato dalla vertigine della contingenza che contorna ogni atto possibile. È proprio perché il soggetto è forcluso nell’Altro che esso può sperimentare la possibilità contingente dell’atto. Se, infatti, non fosse forcluso sarebbe integralmente determinato nel suo essere dall’essere dell’Altro. È la quintessenza del fantasma ossessivo. Ma proprio perché il soggetto è un punto di mancanza – di assenza forclusiva – nell’Altro che porta con sé la possibilità dell’atto e della scelta singolare. È questo, se si vuole, il modo neo-esistenzialista con cui Lacan corregge il paradigma classico dello strutturalismo; è il modo kierkegaardiano col quale Lacan de-completa il proprio strutturalismo mettendo in relazione la contingenza dell’atto alla inconsistenza strutturale dell’Altro. LA FORCLUSIONE DEL LUTTO

Esaminiamo ora una seconda variazione interna del concetto di forclusione. Sempre nel contesto del Seminario troviamo la gura della Verwerfung accostata a quella del lutto. Più precisamente, la tesi di Lacan è che la forclusione sia il rovescio del lutto.17 Si tratta, in realtà, come abbiamo già segnalato,18 della ripresa di una citazione di una lettera destinata a Jung dove Freud de nisce la paranoia come un rovesciamento del lutto.19 Secondo Freud il lutto è un lavoro del soggetto sulla mancanza aperta nel soggetto stesso dall’oggetto perduto. Lo stesso lavoro dell’analisi appare in Freud – e ancora con più evidenza in Melanie Klein – come un lavoro del lutto, un lavoro di elaborazione simbolica su tutti i tagli che hanno contrassegnato il processo singolare di soggettivazione. In questo quadro la paranoia sarebbe un anti-lutto; il soggetto paranoico si ri uterebbe di soggettivare la perdita dell’oggetto, attribuendo tale perdita alla malignità (immaginaria) dell’Altro. Il paranoico, anziché procedere analiticamente nella soggettivazione del proprio kakon più arcaico20 – dell’oggetto cattivo più proprio –, trasferisce tale oggetto sull’Altro, identi ca l’Altro come luogo del godimento maligno. Opera, in altri termini, una esternalizzazione dell’oggetto anziché la sua soggettivazione; rigetta il lavoro del lutto che per

Freud è un movimento di introiezione simbolica tras gurandolo in una proiezione immaginaria che attribuisce all’Altro la completa responsabilità della perdita. In questo senso la paranoia è un rovesciamento del lutto: anziché ripercorrere le impronte lasciate dall’oggetto perduto in un lavoro di graduale introiezione simbolica della perdita, il paranoico rigetta la responsabilità integrale della mancanza dell’oggetto sulla cattiva volontà dell’Altro. È quello che Freud spiega a Jung nella sua lettera. Anche Franco Fornari nella Psicoanalisi della guerra si riaggancia al contenuto di questa lettera de nendo la guerra come una elaborazione solo paranoica del lutto.21 In diversi studi antropologici condotti sulle tribù africane si registra il fatto che la dichiarazione di guerra di una tribù verso un’altra tribù vicina era in rapporto alla mancata elaborazione di un lutto. La morte di un membro della comunità, o il di ondersi di una epidemia, per esempio, anziché dar luogo al lavoro penoso del lutto, venivano interpretate come l’e etto di un male cio scatenato dallo stregone della tribù vicina. In questo senso la guerra – è questa la tesi di Fornari – accade al posto del lutto, è una non elaborazione del lutto, o, come teorizza chiaramente Fornari, “una elaborazione solo paranoica del lutto”. Anziché lavorare sul reale della morte, si attribuisce la morte all’azione maligna dell’Altro. La lezione clinica della paranoia è precisa: il soggetto paranoico non può accedere al lavoro del lutto, che è un lavoro di introiezione simbolica della perdita, perché la sua spinta è quella a proiettare all’esterno l’oggetto cattivo – il suo kakon più arcaico – e questo movimento rende fatalmente impossibile la sua soggettivazione. È questa, per esempio, tutta la di erenza che passa tra Amleto e Schreber, entrambi confrontati con l’esperienza della morte (della morte del padre per Amleto e dell’assassinio delle anime per Schreber). Mentre in Amleto, nella lettura proposta da Lacan, è la discesa nella fossa dove si sta seppellendo il cadavere di Ofelia a rendere possibile l’accesso all’atto – è un ripiegamento luttuoso che è innanzitutto lutto della propria immagine fallica –,22 Schreber non può scendere nella fossa perché resta totalmente catturato dal godimento dell’Altro. Egli non può fare esperienza del lutto, ma solo della morti cazione reale (allucinata) del proprio cadavere; l’oggetto, infatti, non è perduto, ma coincide con il soggetto stesso; è il soggetto che diventa l’oggetto goduto impunemente – sino alla sua morte – da Dio. Per questa ragione la sola dimensione dell’atto

in Schreber è quella dell’atto di Dio, dell’“assassinio delle anime”.23 Il soggetto può solo difendersi dall’atto dell’Altro, dal suo carattere abusivo e dalla sua voluttà illimitata. Ritorniamo ora sui nostri passi. La tesi di Lacan è che la Verwerfung sia il “rovescio del lutto”. Se il lutto è un lavoro simbolico che avviene a partire da una perdita reale, è un lavoro simbolico sul reale della perdita d’oggetto, il lavoro del lutto è un lavoro simbolico di riassestamento di tutta la catena signi cante che struttura l’assetto del mio mondo. Dopo la perdita dell’oggetto amato il mondo, il mio mondo, non può più essere quello di prima; il lavoro del lutto simbolizza la di erenza della scena del mondo che si è ingenerata a partire dalla perdita dell’oggetto. In primo piano sono un buco reale nel mondo e un lavoro di simbolizzazione di questo buco per riassestare il quadro del mondo. Diversamente, nella forclusione il buco non è reale, ma simbolico. Manca, come abbiamo visto, nell’ordine simbolico quel signi cante del Nome del padre che è a fondamento di quello stesso ordine. Questa assenza genera quel ritorno erratico del reale che è alla base dei fenomeni elementari della psicosi. Lacan è, come abbiamo già visto, estremamente chiaro su questo punto: quello che è rigettato nel simbolico riappare nel reale. LA FORCLUSIONE DE “LA DONNA”

La terza variante sul concetto di forclusione si trova nel Seminario . Il termine forclusione vi compare, in modo abbastanza sorprendente, con riferimento alla femminilità. Siamo nel contesto della lezione del 23 aprile 1958. La forclusione appare questa volta non in rapporto al Nome del padre ma alla donna, all’enigma della femminilità. Come accade per il signi cante del soggetto in quanto tale, anche il signi cante della donna è un signi cante forcluso nell’Altro. È un signi cante colpito da una forclusione strutturale; non è iscritto nell’ordine simbolico. Mentre nelle psicosi, come abbiamo visto, il signi cante che non si è “tipogra camente” iscritto nello spazio dell’inconscio è quello del Nome del padre, ora a subire il processo di forclusione è il signi cante della donna. Esiste infatti una follia femminile che consiste nell’impossibilità di identi care la femminilità a un signi cante. “La Donna” non esiste, a erma provocatoriamente Lacan.24 È ciò che rende tutte le donne uniche, non in serie, eccezioni

singolari dell’insieme universale. Manca per la donna un signi cante valido universalmente – come è il signi cante fallico – per de nirne l’essere. In questo senso ogni donna è destinata a incarnare una eccezione rispetto all’universale (che non esiste) de “La Donna”. Lacan in questo passaggio unisce la forclusione alla donna perché la donna è l’incarnazione della massima alterità della singolarità. E, come abbiamo visto anche a proposito del soggetto, non esiste la possibilità di iscrivere il singolare nell’universale. Il signi cante universale de “La Donna” non è iscritto nell’Altro, ma è forcluso dall’Altro. La clinica dell’isteria mostra con e cacia il ri uto della donna di iscriversi nel campo dell’universale regolato dal signi cante fallico. La domanda dell’isterica verte non a caso intorno all’enigma irrisolto della femminilità: “Cos’è una donna?”, “Chi è una vera donna?”, “Cosa signi ca essere una donna?”. La non iscrizione (Verwerfung) del signi cante de “La Donna” ha come suo rimbalzo clinico evidente l’isteria come movimento di interrogazione sull’essere della donna. L’isterica ricerca spasmodicamente il segreto della donna solo nell’Altra donna – la donna più donna, la donna ideale, la vera donna – incarnata dall’amica più fascinosa, più elegante, dall’amante del marito, dalla sorella maggiore, dall’attrice celebrata –, supponendo che in essa il signi cante della donna non sia forcluso ma incarnato. In questo modo l’isterica cerca di supplire immaginariamente alla non iscrizione strutturale del signi cante de “La Donna”. Sicché ogni donna deve costruire la propria singolarità senza poter ricorrere a una identi cazione universale perché questa identi cazione è, appunto, forclusa. È quello che esplicitamente Lacan de nisce come la Verwerfung dell’identi cazione soggettiva a “La Donna”.25 L’identi cazione all’essere il fallo è la via attraverso la quale le donne tendono a rispondere alla forclusione del signi cante universale de “La Donna”. Di fronte a questa assenza è necessaria quell’identi cazione fallica per avere una consistenza d’essere. Per questa ragione la Verwerfung dell’identi cazione alla donna può essere risolta illusoriamente provando a riscrivere “La Donna” attraverso il desiderio dell’uomo. Sapere nalmente “cosa è veramente una donna” attraverso il desiderio di un uomo. È l’illusione “uomosessuale” – a erma Lacan – perché interroga la donna a partire dall’identi cazione virile inconscia all’uomo, in cui scivolano molte isteriche. L’isteria tende, infatti, da una parte a interrogare “La Donna” attraverso l’Altra donna ma, dall’altra parte, tende ad assimilarsi a quello che

per un uomo dovrebbe essere una donna, a conformarsi all’oggetto del fantasma maschile. Il punto chiave che la forclusione dell’identi cazione soggettiva a “La Donna” mette in luce è che nessuno può dire a una donna cosa è una donna perché non c’è iscrizione simbolica di questo signi cante. Mentre per l’uomo “avere il fallo” sigilla la sua identi cazione virile – a condizione di aver sciolto la propria identi cazione narcisistica a “essere il fallo” – per la donna – il cui punto di partenza non è l’essere il fallo ma il non averlo – si tratta piuttosto di assumere soggettivamente il proprio “non avere” – la propria castrazione – per esserlo nei confronti del desiderio dell’Altro. È il valore che la femminilità assegna alla grazia, alla bellezza, alla fascinazione, al dettaglio. Il fallo per l’uomo è “all’esterno”, a erma Lacan, nel senso che coincide con la feticizzazione del corpo femminile, come avviene in Don Giovanni, dove il fallo come signi cante del desiderio viene situato sempre nel corpo della donna: l’uomo ricerca il fallo nella donna. Qui sorge il problema della femminilità poiché se la donna nel fantasma del desiderio maschile incarna il fallo, ella non vuole essere semplicemente un oggetto del desiderio dell’Altro, ma esige il suo amore, vuole essere insostituibile nel desiderio dell’Altro. Quindi, se da un lato abbiamo una tendenza feticisticometonimica del desiderio maschile, dall’altro – dal lato della donna – avremo la spinta a essere una singolarità irriducibile all’oggetto feticizzato, un oggetto insostituibile appunto. Si tratta evidentemente di due spinte inconciliabili: la donna vuole il segno della insostituibilità, mentre l’uomo vuole il suo corpo come oggetto causa del desiderio. Una donna non vuole solo il fallo dell’uomo – quello che un uomo ha –, ma vuole soprattutto quello che l’uomo non ha: il segno del suo amore, della sua mancanza. È questo che fonda l’aporia insuperabile del rapporto tra i sessi, o, per usare una celebre formula di Lacan, l’insistenza del rapporto sessuale. La forclusione del signi cante de “La Donna” sovverte la tesi freudiana dell’invidia del pene. Mentre per Freud la donna aspirerebbe a colmare la propria mancanza – la propria castrazione reale – attraverso l’avere il fallo dell’uomo o un suo surrogato – il bambino –, per Lacan la donna deborda la misura fallica, è sempre non-tutta fallica; è una singolarità che non può essere signi cata dal fallo. In questo senso la forclusione del signi cante universale de “La Donna” nel luogo dell’Altro non segnala tanto una condizione di estraneità della femminilità nei confronti dell’ordine

simbolico, quanto una eccedenza interna che mostra lo stretto legame che unisce la donna al reale. Per questa ragione la femminilità non può essere pensata a partire dall’uniforme fallica quanto piuttosto come un campo privo di identità solide, metamor co, aperto. Non si tratta – come invece pensava Freud ricorrendo alla gura dell’invidia del pene – di una minorizzazione del femminile. Al contrario: la forclusione della donna può essere assunta come sfondo nella realizzazione di una singolarità incomparabile, senza divisa, eccezione assoluta della serie. La non esistenza della donna – la sua forclusione nel luogo dell’Altro – lungi dall’essere una privazione diviene la possibilità di una apertura inedita, di una non omologazione all’universale. È questa la parentela profonda che unisce la donna al reale. Le metamorfosi del sembiante femminile sono assai frequenti tanto quanto l’uniformità senza variazioni del maschile che invece tende a identi carsi alla rigidità indivisa del sembiante. Queste metamorfosi appaiono come il segno plastico della Verwerfung dell’identi cazione soggettiva a “La Donna”. Lo stesso si potrebbe dire della particolare ferocia che può caratterizzare il rapporto tra la glia e la madre. Lacan lo de nisce col termine francese ravage (“devastazione”), solitamente utilizzato per descrivere delle condizioni di catastro naturali. I legami devastanti tra madre e glia sono sempre caratterizzati da una ambivalenza di fondo che mescola l’odio all’amore, la necessità della presenza alla sua insopportabilità. La glia rimprovera (inconsciamente) la madre di non averle trasmesso l’eredità della donna senza cogliere il fatto che il segreto della donna non è di proprietà della madre perché, appunto, come abbiamo visto, il signi cante de “La Donna” è forcluso. Di qui la particolare aggressività che molte glie manifestano verso la propria madre, colpevole di non avere trasmesso il segreto della donna, di incarnare l’immagine di una donna inarrivabile che trattiene gelosamente per sé il segreto della sua alterità femminile senza donarlo alla glia. Oppure il rimprovero, altrettanto frequente, è quello di incarnare una immagine solo masochistica, passiva, derelitta della donna, spesso al servizio esclusivo dell’uomo, che la glia non vuole in nessun modo riprodurre. Tutto questo è ancora una manifestazione della Verwerfung dell’identi cazione femminile; è un ritorno nel reale di questa forclusione.

LA FORCLUSIONE DI FATTO

La quarta e ultima variazione sul concetto di forclusione è un vero e proprio apax nell’opera di Lacan. Siamo nel contesto del Seminario , titolato Il sinthomo e dedicato a James Joyce. La sua tesi è che in Joyce vi sarebbe una sorta di “forclusione di fatto”.26 Questa formulazione non può non stupire perché contiene una contraddizione evidente in quanto la forclusione come tale non può essere di fatto ma solo di struttura. È la lezione clinica della psicosi: la forclusione del Nome del padre nella psicosi è strutturale, concerne la non iscrizione nell’ordine simbolico del signi cante del Nome del padre. La stessa cosa si deve a ermare per quel che concerne la forclusione de “La Donna”. Ma nel Seminario il motivo inedito è il passaggio da un registro trascendentale-strutturale a un registro empirico-fattuale della forclusione, che viene de nita da Lacan, nel caso di Joyce, appunto, come “di fatto”. Ricapitolo brevemente il contesto teorico nel quale ci troviamo. Il Seminario è uno tra gli ultimi Seminari più signi cativi di Lacan. In esso, in particolare, si condensa una nuova teoria della psicosi rispetto a quella classica fondata sul primato edipico del Nome del padre, sulla sua forclusione e sulla discontinuità strutturale tra nevrosi e psicosi. Possiamo distinguere molto schematicamente due tempi cruciali della ri essione di Lacan sulla psicosi; il primo tempo si dispiega nel corso del ventennio che va dagli anni Trenta sino a Funzione e campo del 1953. Lacan pensa che la psicosi sia causata da una prevalenza mortifera dell’immaginario (del narcisismo) a danno del registro del simbolico. Di qui la centralità clinica attribuita alla paranoia, essendo la psicosi che più di altre pone in evidenza la ssazione narcisistico-mortifera del soggetto allo specchio. Il secondo tempo si coagula a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta – dal Seminario a Questione preliminare – intorno alla teoria classica della forclusione. Lo abbiamo visto: lo psicotico so re a causa di un difetto strutturale che intacca il luogo dell’Altro privandolo del Nome del padre quale signi cante che dà unità all’insieme dei signi canti. È questa la causa strutturale della psicosi. Mentre nel nevrotico l’esistenza di questo signi cante – iscritto nell’inconscio del soggetto – preserva il quadro della realtà e la signi cazione fallica del soggetto, l’assenza forclusiva di questo signi cante comporta la catastrofe immaginaria della psicosi. Si apre il

campo per una clinica radicalmente discontinuista: dove agisce il Nome del padre ci sono nevrosi, soggetto diviso, desiderio e mancanza a essere, Legge della castrazione, triangolazione edipica, fantasma e sintomo. Dove c’è la sua assenza forclusiva ci sono psicosi, soggetto ridotto a oggetto del godimento dell’Altro, ssazione mortifera allo specchio, sregolazione pulsionale provocata dalla non operatività della Legge simbolica della castrazione, fenomeni elementari. Nel caso di Joyce, studiato nel corso del Seminario , il Nome del padre non è più il signi cante che è a fondamento dell’Altro, perché non esiste Altro dell’Altro, perché il grande segreto della psicoanalisi, come abbiamo visto, consiste nello svelamento della sua inesistenza. Il Nome del padre è solo un sembiante a cui il nevrotico crede, mentre lo psicotico lo irride. Il problema diviene allora come concepire la psicosi se la presenza o l’assenza del signi cante del Nome del padre non è più così decisiva nella de nizione della soggettività umana. Il discontinuismo strutturale derivato dalla teoria classica della forclusione (c’è o non c’è Nome del padre) lascia il posto a un continuismo problematico caratterizzato da una mancanza strutturale che colpisce il luogo dell’Altro in quanto tale: non c’è nell’Altro il fondamento dell’Altro. Il difetto del luogo dell’Altro non è più considerato come contingente (c’è o non c’è il Nome del padre), ma è concepito come strutturale; l’ordine simbolico è attraversato da una mancanza che Lacan scrive con A barrato; non è più – come accade nella teoria classica della forclusione – un signi cante – il Nome del padre – che manca nell’Altro, ma esiste una mancanza dell’Altro, interna all’ordine stesso dell’Altro. Il passaggio tra queste due diverse con gurazioni dell’Altro e, di conseguenza, tra queste due diverse concezioni della psicosi, è lo sfondo teorico del Seminario . In questo contesto Lacan a ronta il caso James Joyce introducendo una gura clinica inedita, quella del Sinthomo.27 è la sua chiave di lettura della “follia” dello scrittore irlandese. Ricapitoliamo i tratti fondamentali del concetto sinthomo teorizzato da Lacan. Esso è innanzitutto un’alternativa al sintomo. Il sintomo è una formazione tipica della clinica della nevrosi, una formazione di senso strutturata sul paradigma della metafora (il sintomo è “un signi cante di un signi cato rimosso”, secondo la celebre de nizione di Funzione e campo),28 una formazione dell’inconscio che manifesta il ritorno dall’esilio della rimozione della verità rimossa del soggetto. Il suo fondamento è il Nome

del padre. Esiste infatti una omologia profonda tra sintomo e Nome del padre, in quanto il sintomo è sempre un prodotto della Legge della castrazione che si sostiene sul Nome del padre. Il sintomo nella clinica della nevrosi è altresì ciò che divide il soggetto; espressione della sua non coincidenza, della sua sbarratura. La prima funzione del sinthomo è invece quella di “abolire il simbolo”.29 È una alternativa secca, precisa: nella clinica della nevrosi il sintomo è metafora, ovvero simbolo; nella clinica extranevrosi di cui Lacan si occupa attraverso Joyce, il sinthomo è l’abolizione di questo tratto metaforico del sintomo. Esso non signi ca qualcosa di rimosso, non esprime un signi cato colpito dalla rimozione, non è il signi cante che sostituisce metaforicamente un signi cato rimosso, non concerne in nessun modo la verità inconscia del soggetto, ma sorge come un vero e proprio “disabbonamento dall’inconscio”; è senza inconscio.30 A ermare che il sinthomo abolisce il sintomo signi ca per Lacan l’apertura di un campo clinico dove la manifestazione del desiderio inconscio del soggetto non è più centrale – come lo è nella clinica classica delle nevrosi – perché quello che più conta non sono più il desiderio e le vicissitudini legate alla sua rimozione, ma come un soggetto – nel caso speci co Joyce – riesca a regolare il suo rapporto col godimento senza poter contare sull’ausilio del Nome del padre. Nella clinica della nevrosi il sintomo è un prodotto della Legge di castrazione, è ciò che marca il ritorno del rimosso. In questo senso esso è omologo al Nome del padre. Diversamente il sinthomo non dipende dalla castrazione edipica, perché è “senza Legge”, si situa al di là del Padre, al di là del Nome del padre, non è fondato sulla Legge della castrazione. Per questa ragione, mentre il sintomo nevrotico produce divisione nel soggetto, il sinthomo produce la sua uni cazione. Non genera un e etto di signi cazione che sorprende e divide il soggetto, ma un e etto di “nominazione” che consente al soggetto di reperire una propria identità. Mentre il sintomo nevrotico implica una perdita di identità come e etto della divisione del soggetto, il sinthomo implica, al contrario, un’acquisizione di identità. Il corpo del sinthomo non è – diversamente da quello del sintomo – egodistonico, non è un corpo estraneo, ma è Egosintonico al punto da stabilire una inedita coincidenza del sinthomo con l’Ego stesso. La distanza dal concetto classico di sintomo non potrebbe essere più ampia; se il sintomo è ciò che incrina l’identità dell’Ego, il sinthomo è ciò che la costituisce. Inoltre, mentre la natura simbolica del

sintomo suppone la sua equivalenza con la metafora, dunque con una sua organizzazione solo signi cante, il sinthomo è una organizzazione signi cante che implica però un’organizzazione libidica. L’accento non cade più sul simbolico – “il sinthomo abolisce il sintomo” –, ma sul reale. L’esempio più chiaro è quello di James Joyce scrittore. La scrittura di Joyce, per un verso, è un’attività simbolica, ma, per un altro verso, è un’organizzazione della libido, un’organizzazione signi cante del reale del godimento, un modo singolare di godere. Si può rintracciare la matrice del concetto lacaniano di sinthomo in un articolo di Freud titolato Nevrosi e Psicosi. In questo testo il sintomo nella psicosi viene de nito come un “rammendo”.31 Non è una manifestazione cifrata del ritorno del rimosso, ma una operazione di saldatura, di cucitura che riassorbe uno strappo, una lacerazione. La sua funzione non è tanto espressiva, ma riparativa. Anche il sinthomo lacaniano appare come una sorta di rammendo. In Joyce è il rammendo della scrittura e della letteratura. È, infatti, solo grazie alla scrittura e alla letteratura che egli può farsi un nome, può tenere insieme il proprio corpo facendolo, come a erma Lacan, diventare un libro.32 Può generare una economia singolare di godimento senza il sostegno del Nome del padre. La scrittura è infatti una attività di supplenza del Nome del padre, è l’escabeau sul quale Joyce istituisce il suo nome. Escabeau in francese signi ca “sgabello”. Lacan gioca sulla sua composizione che implica altresì un riferimento alla bellezza (beau), dunque all’arte e alla sublimazione artistica. La pratica singolare della scrittura è l’escabeau che sostiene il nome proprio del soggetto, che cementa il suo Ego in quanto “correttore” della forclusione del Nome del padre.33 Questa supplenza della scrittura è anche la supplenza della insu cienza fallica di Joyce. Il fallo di Joyce, scrive Lacan, è “un po’ moscio”. Questa insu cienza segnala la mancata eredità paterna, la non trasmissione del fallo simbolico da una generazione all’altra. È solo grazie alla scrittura e alla sua funzione di escabeau che Joyce può guadagnare una qualche consistenza fallica.34 È solo la pratica della scrittura che assegna valore alla propria esistenza e al proprio corpo. Diversamente dalla clinica classica delle psicosi, il godimento in Joyce non appare sparpagliato, caotico, invasivo, ma concentrato nella pratica della scrittura che consente un singolare godimento estetico. Joyce scrive sempre. È un dato impressionante della sua

tormentata biogra a.35 Ovunque si trovi, in qualunque condizione, anche di estrema precarietà o so erenza, Joyce non smette mai di scrivere. È una macchina di scrittura. Trasforma se stesso, il suo corpo, in un libro. La scrittura è il suo rammendo, è il suo sinthomo; è su di essa che prende forma il suo artgueill, come a erma neologisticamente Lacan; l’arte come orgoglio del nome, come manifestazione di orgoglio per il proprio nome, per il proprio Ego. In questo senso Lacan può sostenere che l’Ego di Joyce è un “correttore”, in quanto corregge la “forclusione di fatto” che Joyce è costretto a subire. Egli può acquistare un nome solo facendosi padre delle proprie opere o, ancora più radicalmente, facendosi padre e glio delle proprie opere, in una sorta di movimento di auto-generazione, o, meglio, di liazione eretica, non edipica. La trasmissione del nome del soggetto non proviene da un processo di liazione che ha come punto perno l’azione simbolica del Nome del padre, ma si realizza come una invenzione singolare del soggetto che prescinde da ogni provenienza, dunque eretica, priva di eredità. La scrittura istituisce il nome proprio del soggetto senza passare dal Padre, cioè senza alcun ricorso a una strutturazione edipica della liazione. Nella vita di Joyce il padre reale è stato un padre incapace di veicolare la funzione simbolica del Nome del padre. Per questo Lacan sostiene la tesi che Joyce patisca una sorta di “forclusione di fatto”. In causa non è il signi cante del Nome del padre in quanto tale, ma il processo della sua trasmissione attraverso un padre reale. Per questa ragione per Joyce lo scrittore è come Dio, non è il redentore, non è il glio di Dio, ma deve essere come Dio, l’arti ciere assoluto, colui che è in grado di generare ex nihilo il mondo, l’essere dal nulla. È la dimensione clinicamente maniacale di Joyce. Se, infatti, c’è una diagnosi strutturale che si può dedurre dal Seminario è a mio giudizio una diagnosi di mania: Joyce instaura una relazione maniacale con l’Altro che si rivela non solo nella compulsività febbrile della scrittura, ma, soprattutto, nell’identi cazione all’arti ciere assoluto, al grande Altro, al Dio che crea ex nihilo la propria opera. Anche lo stile di Joyce è attraversato da una eccitazione maniacale di usa; è uno stile che nega o contrasta costantemente il punto di capitone, è uno stile di scrittura che genera sciame, magma, una lalangue priva di articolazioni metaforiche. È lo straordinario fascino della scrittura joyciana. Puntualizziamo meglio però la forclusione di fatto. Nella teoria classica

della forclusione, come abbiamo visto, il padre simbolico non è mai riducibile al padre reale, al punto che Lacan pone come condizione di funzionamento del padre simbolico la morte del padre reale. La controprova ci è o erta dalla clinica delle psicosi dove, proprio perché il padre reale non è morto – il caso di Schreber lo mostra in modo inequivocabile –, in primo piano è il godimento anarchico, folle, assoluto dell’Altro in quanto “padre legislatore”, il Dio del godimento intrusivo e non del patto simbolico, il padre reale – onnipresente – che impedisce l’iscrizione nell’inconscio del soggetto del Nome del padre. Cosa succede invece a Joyce? Proviamo a confrontare il padre di Joyce al padre di Schreber. Polo Nord e polo Sud: se il padre di Schreber ha voluto essere il padre educatore, legislatore fanatico della formazione del glio, quello di Joyce, John Joyce, è stato, per usare una de nizione di Joyce stesso, “un bancarottiere”.36 Bancarottiere signi ca che è un padre del solo godimento, un padre che gode senza rinunciare all’assoluto dissipativo del suo godimento; un padre “insolvente” che genera gli e aborti in continuazione, costringendo la propria famiglia a continui traslochi e a indebitamenti, che maltratta la moglie, che non si occupa dell’educazione dei gli, dedito all’alcol, alle donne e al gioco. La sua vita, priva di qualunque desiderio, si barcamena tra un espediente e l’altro. John Joyce è stato un padre-guitto, straordinario narratore di barzellette, venditore di fumo, alcolista e puttaniere. John Joyce è veramente un “bancarottiere”, un padre, come a erma Lacan, dimissionario, incapace di esercitare la sua funzione simbolica. L’esatto contrario del padre-educatore folle di Schreber, ma anche l’esatto contrario del padre della testimonianza.37 Egli delega la sua funzione educativa ai padri gesuiti che sono stati l’e ettivo padre simbolico di Joyce. La sua parola è vuota. Ed è proprio a questo livello – al livello della parola vuota del padre – che Lacan situa la forclusione di fatto. John Joyce è un padre che parla, ma, si chiede Lacan, si è mai rivolto con la propria parola a suo glio? Questo padre parla, parla in continuazione, ma si è rivolto mai con la sua parola a suo glio? Ha mai parlato a suo glio? È questo il punto chiave della sua lettura. È questa la lettura che propongo della formula della forclusione di fatto. Il padre reale è venuto meno alla sua funzione, che è quella di fare esistere la Legge della parola, di umanizzare la Legge del linguaggio attraverso la Legge della parola. Possiamo ritrovare qui il Lacan hegeliano della dialettica del riconoscimento come fondativa

dell’essere singolare del soggetto: solo nella dialettica della parola il soggetto può essere riconosciuto come tale. John Joyce, invece, non ha mai rivolto la parola a suo glio. La sua parola resta una parola vuota. Il padre di Joyce è un padre che non sa dare né trasmettere la parola al glio. È un padre incapace di testimoniare la Legge della parola e del desiderio. In questo senso la forclusione di fatto non concerne la struttura, ma un difetto dell’incarnazione singolare del padre, della sua testimonianza, come colui che – sullo sfondo della inesistenza dell’Altro dell’Altro – deve trasmettere la Legge della parola e del desiderio da una generazione all’altra. Nella storia di James Joyce questa incarnazione si è rivelata assente e questa testimonianza non si è realizzata. Nel padre di Joyce c’è solo godimento senza parola; il padre reale si confonde con quello ordalico di Totem e tabù. Dovremmo, infatti, distinguere due diverse declinazioni possibili del padre reale. Se la prima è quella indicata già da Freud del padre dell’orda, del tiranno che gode di tutte le donne e che vive solo per accrescere il proprio godimento, la seconda è quella del padre della testimonianza, ovvero del padre che o re al glio un modo singolare di tenere insieme la Legge e il desiderio. Non il Nome del padre, ma un padre reale che sa incarnare il suo desiderio nella Legge. Troviamo questa seconda versione del padre in un passaggio intenso del Seminario . Qui Lacan ci o re una de nizione straordinaria di “padre della testimonianza”. Il padre-testimone è colui che è “andato abbastanza in là nella realizzazione del suo desiderio per reintegrarlo alla sua causa, qualunque essa sia”.38 Cosa vuol dire reintegrare il desiderio alla sua causa? Il padre reale in quanto padre testimone è colui che incarna il desiderio come una causa. Il padre di Joyce, John Joyce, è un padre il cui desiderio non ha causa, perché la sua vita è invasa dalla dimensione dissipativa del godimento mortale. Il padre della testimonianza, al contrario, è colui che dà prova del suo desiderio e che non rigetta la sua Legge. È un padre che riconosce il glio come soggetto e assume la responsabilità illimitata della sua funzione senza rivendicare alcun diritto di proprietà.

1. Il testo maggiore da questo punto di vista resta, a mio giudizio, C. Maleval, La Forclusion du Nom-du-Père. Le concept et sa clinique, Seuil, Paris 2000. Mi permetto di rinviare anche a M. Recalcati,

Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica, cit., in part. capitolo . 2. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro . Le psicosi (1957-1958), tr. it. Einaudi, Torino 2010, pp. 16-17. 3. Cfr. S. Freud, Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia…, cit., p. 396. 4. Se si rileggono in questa luce gli scritti pedagogici del padre di Schreber non si può non cogliere come il Dio folle del glio sia l’esito della tras gurazione delirante del padre reale. L’educatore – come il Dio del presidente Schreber – deve tenere costantemente la sua presa sadica sul bambino. Per esempio intervenendo anche di notte, mentre il glio sta dormendo, dando dei colpi improvvisi sotto al letto per mostrare che la presa dell’educatore non si stacca mai ma è costantemente attiva. Cfr. D.G.M. Schreber, L’educazione totale, tr. it. Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1981 e M. Schatzman, La famiglia che uccide. Un contributo psicoanalitico alla discussione sul caso Schreber, tr. it. PGreco, Milano 2018. 5. Cfr. J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, cit., p. 575. 6. Per una sintesi della lezione di Lacan sulla psicosi, mi permetto di rinviare a M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica, cit., in part. capp. e . 7. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., pp. 148-149. 8. Sullo sfondo di questa teorizzazione lacaniana del padre simbolico come padre morto, agisce profondamente la suggestione di Totem e tabù di Freud, dove il padre dell’orda è colui che non rinuncia al proprio godimento; è un padre reale che deve morire per rendere possibile l’esistenza del padre simbolico. È l’assassinio del padre reale a istituire l’esistenza del totem, la Legge simbolica del Padre: il padre morto coincide, in questo senso, con il Nome del padre. Tuttavia, nel pensiero di Lacan questa antinomia tra padre simbolico e padre reale è destinata, come vedremo in seguito, a problematizzarsi. 9. J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, cit., p. 571. 10. Cfr. S. Freud, La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi, in , vol. 10. 11. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., pp. 148-149. 12. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 329. 13. Cfr. J. Lacan, Giovinezza di Gide o la lettera e il desiderio, in Scritti, cit., vol. 2, pp. 747 e 752. 14. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 505. 15. Ibidem, p. 330. 16. Vedi il capitolo , in questo libro. 17. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 371. 18. Vedi il capitolo , in questo libro. 19. S. Freud, C.G. Jung, Lettere tra Freud e Jung (1906-1913), cit., p. 41. 20. Cfr. J. Lacan, L’aggressività in psicoanalisi, in Scritti, vol. 1, p. 109. 21. Cfr. F. Fornari, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 1973. 22. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., pp. 337-354. 23. Cfr. J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento delle psicosi, cit. 24. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro . Ancora (1972-1973), tr. it. Einaudi, Torino 2011. 25. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 362. 26. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 85. 27. Per una introduzione e una sintesi dell’elaborazione di Lacan sul concetto di sinthomo mi permetto di rinviare a M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, cit., capitolo 3, e Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica, cit., capitolo 2. 28. Cfr. J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti, cit., vol. 1, p. 274. 29. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 161. 30. Ibidem. 31. S. Freud, Nevrosi e psicosi (1923), in , vol. 9, p. 613.

32. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 67. 33. Ibidem, p. 148. 34. Cfr. J. Lacan, Joyce il sintomo, tr. it. in Il Seminario. Libro 35. R. Ellmann, James Joyce, tr. it. Feltrinelli, Milano 1964. 36. Ibidem, p. 33. 37. M. Recalcati, Cosa resta del padre?, cit. 38. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro , cit., p. 369.

, cit., p. 162.

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* Salvo diversa indicazione, per la traduzione italiana degli scritti di Sigmund Freud si fa riferimento alle Opere, edite da Boringhieri, Torino 1967-1980, in 12 volumi, che citiamo con e numero del volume.

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