Stella Duffy Carne Fresca (fresh Flesh, 1999): A Yvonne Baker Con Affetto

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STELLA DUFFY CARNE FRESCA (Fresh Flesh, 1999) a Yvonne Baker con affetto Grazie a servizio consulenza sulla maternità: Maki, Sarah, Janet, Estèr e Jo; sorelle Duffy e parenti acquisiti; Shelley e Yvonne; e Laurence per la sua allegra cordialità, seppure opinabile. 1. Sara urlava. Urlava nella sua testa, urlava con ogni osso e muscolo del corpo, urlava forte, con la bocca secca che si lacerava agli angoli delle labbra screpolate e riarse, e quell'altra voce aspra, non la sua, che le spingeva attraverso il corpo, attraverso il dolore, verso il freddo nulla all'esterno della sua pelle. Urlò più forte di quanto credeva sopportabile, dentro i suoi stessi timpani, con il sangue che pulsava e graffiava gli ossicini, battendo un ritmo senza sosta. Solo che quella gente continuava a dirle di non far rumore, erano tutti schierati contro il suo dolore, a negare la sua sofferenza. A dirle di concentrarsi. Di respirare. Di stare zitta e farlo, e basta. Non sei speciale. Smettila. Smettila subito. È davvero troppo tardi per questo genere di cose. Urlare adesso non ti serve a niente. Avevano ragione. Urlare non serviva. Non mandava via il dolore. Non mandava via loro. Ma non riusciva a trattenersi. Non riusciva a fermare il rumore di quella grande sofferenza, che si gonfiava, facendosi strada a forza dentro di lei. Spingeva contro di loro, contro quel momento, voleva che se ne andassero via tutti. Non credeva possibile che le stesse succedendo quella cosa, non sapeva se si sarebbe mai fermata. E dal profondo della sofferenza, del rumore stridente e di quella accecante luce bianca, non voleva nemmeno che si fermasse. Non voleva passare al momento successivo. Lo spingeva fuori e lo tratteneva dentro. E alla fine, malgrado i suoi sforzi, ci fu un ultimo lamento corrosivo e basta, era tutto finito. Non erano abituati alle urla, volevano di nuovo silenzio. Le appoggiarono la maschera di gomma sul viso, bloccandole quel gas disgustoso sulla bocca, sul naso, l'unica scelta possibile era respirarlo, accoglierlo in sé. Le

sue braccia erano troppo deboli per respingerli, non c'era più resistenza. Respira profondamente, respiralo tutto, ci siamo, è fatta, sta' buona ora, brava ragazza, brava ragazza. Anche se Sara non sapeva chi fosse la brava ragazza. Non lei, di sicuro. Cercò di non aspirarlo, di non sprofondare di nuovo, ma non riusciva a urlare con quella spessa maschera nera sul volto, non riusciva nemmeno a togliersela, le braccia, le gambe si afflosciavano, si distaccavano lentamente, la testa e il corpo quasi tenuti assieme da un sottile filo d'etere, quasi liberati. Sta' buona ora, è tutto a posto, è fatta. Dormi adesso, è quasi finita, ti sentirai meglio quando sarà finita. Ma Sara non voleva dormire, non voleva esser messa da parte, non voleva che finisse. E poi si fece buio e Sara si svegliò con i crampi che le trafiggevano le braccia e i piedi intorpiditi, sudata e attorcigliata tra le lenzuola sottili, con il cuscino appallottolato sotto una spalla. Rinvenne nella notte sterile, di nuovo a letto, nella stanza silenziosa, con altre cinque che dormivano profondamente attorno a lei, respirando piano nel buio dolente, e la campana delle tre del mattino al municipio rintoccò flebile in lontananza. Giaceva immobile, svuotata e sofferente, il corpo ammaccato, ferito, conati di vomito che le attraversavano la gola lacerata dalle urla, su fin dentro il catino di plastica che aveva a fianco della testa, vomito insanguinato, il letto insanguinato. Si pulì il viso sulla ruvida manica della camicia da notte dell'ospedale, abbandonò il corpo indolenzito al silenzio e pianse fino a riaddormentarsi, con il cuscino intriso di lacrime asciutte. 2. Saz Martin correva sotto la pioggerella estiva e le brevi boccate di fredda aria mattutina la trafiggevano in fondo alla gola. Attraversò la strada davanti al parco di Hampstead Heath, imboccò l'ultimo faticoso chilometro in salita, girò di nuovo a sinistra e rallentò fino a passo di trotto girando l'angolo della grande e vecchia casa, con tre brutti cassonetti allineati davanti. Salì gli ultimi quattro gradini fino al suo appartamento, si frugò nelle tasche alla ricerca delle chiavi di casa, riuscendo a farle cadere praticamente subito, si chinò a raccoglierle di nuovo, si strappò dalle orecchie i lamenti di Neil Young, e sentì il telefono che squillava dentro casa. «Merda, cazzo, merda, affanculo, cazzo.» Poi il walkman le cadde dalle dita nervose e si schiantò sui gradini di cemento dietro di lei. Scelse di ignorare il rumore della plastica che andava

in frantumi. Alla fine riuscì a far girare tutte e tre le chiavi nella serratura giusta e si precipitò nell'appartamento, spalancò la porta della cucina e ripescò il telefono, dietro due tazze da caffè sporche e una ciotola di muesli a malapena assaggiato e ormai ridotto a un pastone. «Pronto?» «Ci sono novità?» «Oh cazzo, Carrie, sei tu.» «Bella accoglienza, grazie. Ora, se io fossi in te e mi avessero dato questa occasione di capire che una delle mie migliori amiche era così preoccupata per il mio futuro e il mio benessere, senza contare quello della mia affascinante compagna...» Saz interruppe la sua ex prima che avesse il tempo di prendere il ritmo: «Carrie, sono appena tornata, ero a correre.» «È tardi per te, Richard e Judy sono già a metà della seconda bottiglia. Pensavo che tu facessi jogging la mattina appena alz...» «Carrie! Smettila. Volevo stare con Molly stamattina, ho aspettato che lei uscisse prima di andare a correre.» «Credevo che l'avresti accompagnata in ospedale!» «Lo credevo anch'io. Fino a stamattina. Poi Molly si è svegliata persino più nervosa di ieri sera e ha deciso di andarci da sola. Ecco perché sono andata a correre così tardi, abbiamo litigato di brutto stamattina. Non voleva che l'accompagnassi, voleva ricevere la notizia da sola.» «Ma tu, stai bene?» «Sì, no, non lo so. Cioè, capisco che per molti versi è più dura per lei che per me...» «Ma vi riguarda entrambe.» «Sì, ma cazzo, Carrie, non importa adesso. E non ho voglia di parlarne, non con te.» «Grazie tante.» «È una cosa tra me e lei. E ormai è andata. Non ha importanza. Molly fa come le pare.» Saz guardò l'orologio della cucina: «E dovrebbe anche essere già a casa ora, quindi vuol dire che ha fatto come le pareva.» «Non dovresti permetterle di spadroneggiare in questo modo, Saz.» «Carrie, non mi piace che parli male di Molly.» «Non stavo parlando male di lei. Stavo facendo il tifo per te.» «Non ho bisogno di sostegno, grazie. Non sei la mia psicologa, sei la mia ex ragazza.» «E la tua inquilina.» «Purtroppo.»

«Inquilina illegale.» «E in arretrato di un altro mese con l'affitto.» Carrie stranamente rimase in silenzio per un attimo. «Ti ho zittita, eh?» «Sto solo cercando di rendermi utile.» «Lo so.» «Nessuna novità sui genitori di Chris?» «Nessuna, Carrie, e nemmeno pettegolezzi. E adesso schiodati. Devo controllare i messaggi, devo chiudere a chiave la porta di servizio, devo recuperare il walkman che mi è caduto mentre mi precipitavo a rispondere alla tua telefonata e adesso è lì per terra in un ammasso di rottami, oppure se l'è rubato qualcuno di quei ragazzacci del quartiere che si infilano nel giardino sul retro.» «Ma nella tua parte di mondo non fabbricano ragazzacci, Saz, fanno solo bambocci firmati, bambini-accessorio. Dovresti saperlo.» «Carrie, per piacere, metti giù quel cazzo di telefono? Ti avverto appena so qualcosa, okay?» «Bene, come vuoi, ma mi raccomando chiamami per prima. Ciao!» Carrie riattaccò, allegra come all'inizio della telefonata, e Saz uscì a raccattare le macerie della corsa mattutina. Recuperò il walkman, un po' malconcio ma non scassato, in fondo alle scale che portavano all'appartamento, e tornò nel soggiorno. C'erano tre messaggi in segreteria, uno di sua madre e uno di sua sorella, Cassie, che chiedevano entrambe, ansiose, se ci fossero notizie. Il terzo era di Molly: «Ciao piccola, mi spiace per stamattina. So che volevi venire con me. Solo che... ma dai, certo che so cosa vuoi, e tu sai che volevo affrontare questa cosa da sola. Comunque sto tornando a casa adesso. Sto bene, ma voglio parlarti di persona e non lasciare un messaggio, non voglio farlo al telefono. Sarò a casa presto.» A Saz si rivoltò lo stomaco, le strette anse dell'intestino che premevano contro gli addominali scolpiti, contro le vecchie cicatrici delle ustioni che coprivano i muscoli ben delineati, il corpo pronto a reagire, preparato a qualunque mazzata stesse per piombarle addosso. Con una sberla spense la segreteria, furiosa con Molly che non le aveva lasciato un messaggio completo; moriva dalla voglia di vedere la sua compagna e le scocciava moltissimo di non avere altra scelta se non aspettare. Saz passò i quaranta minuti seguenti a fare su e giù per il grande appartamento luminoso. Lavò i piatti della colazione, appena toccati, reduci da

un pasto che aveva portato più discussioni che nutrimento, poi si preparò un bricco di caffè troppo forte, che non riuscì a bere. Sistemò i vestiti sparpagliati su tutto il pavimento della camera da letto e ritornò in cucina a dare un morso a una grossa brioche che non riusciva a masticare, figuriamoci a inghiottire. Rifece il letto, aprì tende e finestre, spostò fiori da un vaso all'altro e riempì la vasca per farsi un bagno caldo e schiumoso che avrebbe lasciato raffreddare. Sfogliò distrattamente tre quotidiani, girando due pagine alla volta senza leggerne nemmeno una, e cambiò una mezza dozzina di canali della tv via cavo. Nel frattempo controllava gli orologi da muro, quello che aveva al polso, e faceva il numero di Molly ogni due minuti. Ma il cellulare rimaneva irrimediabilmente spento. Finalmente sentì la chiave nella serratura, e corse all'ingresso trattenendo il respiro. «Moll?» Corse verso la sua compagna, ne scrutò il viso, con tutti i muscoli del corpo in tensione per il bisogno di sapere. Molly rimase in piedi a una trentina di centimetri da lei e annuì, con le braccia tese ad accogliere la sua ragazza: «Sì. È un sì, Saz.» Saz scoppiò a piangere. 3. Saz spinse Molly dentro casa, sbattendosi dietro il pesante portone di legno, tenendo stretta la sua compagna come per rendere reali quelle nuove parole, per fare in modo di sentire quella nuova verità, oltre che conoscerla. La tenne stretta più che poteva, ma improvvisamente ebbe anche la sensazione che la donna che stava abbracciando ora fosse di finissima porcellana traslucida: «Oddio.» Molly annuì: «Lo so, è sconvolgente.» «Cazzo, è meraviglioso.» «Eh sì.» Le due donne si fermarono nell'atrio luminoso, colpite entrambe dall'enormità di quella notizia, che le bloccava in piedi sul parquet liscio. Si fissarono per un po' e poi Saz riuscì a dire a voce alta ciò che non avevano avuto nemmeno il coraggio di sussurrare negli ultimi due mesi, se non in quei minuti bui nel silenzio notturno, se non tra sé e sé nella vasca da bagno, o in casa da sole, con la musica alta in sottofondo che smorzava l'ansia: «Oddio, Moll. Sarai madre.» Molly, scuotendo la testa: «Saremo madri, Saz.»

«Cristo, mi sa che siamo adulte.» Le due donne attraversarono lentamente il salotto; ormai la pioggerellina del mattino si era dissolta e il sole entrava a fiotti dalle alte finestre che ricoprivano una parete della stanza, venti gradi di luce che bruciavano l'umidità del mattino londinese. Scivolarono insieme sul pavimento e rimasero per un po' in silenzio, abbracciate, ognuna contemplando il proprio nuovissimo futuro, il cambiamento radicale. Appoggiate al divano, la testa di Saz sulla spalla di Molly, guardavano fuori dai vetri della terrazza verso Hampstead Heath. «Quindi, Moll, sono proprio sicuri che lui, il bambino, il feto, è, voglio dire...» «Vitale?» «Sì, vitale.» Molly si strinse nelle spalle e si lanciò in un cauto discorso di tipo medico: «Arrivati ai tre mesi, una volta che si è impiantato bene...» «E lo ha fatto.» «Sì, sembrerebbe che questo ci sia riuscito... e quando tutto procede bene, il resto della gravidanza dovrebbe svolgersi normalmente. Sai, non si è mai davvero sicuri fino alla nascita del bambino, non possiamo dare nulla per scontato fino ad allora, ma allo stadio attuale, d'ora in poi, tutto dovrebbe essere proprio come una gravidanza qualsiasi. Normale.» Saz sorrise: «Una normalità maledettamente costosa, tesoro.» «Già, ma ne vale la pena.» «Certo che ne vale la pena.» Saz si mise seduta per baciare meglio Molly, poi si tirò di nuovo indietro a guardarla, e ancora assolutamente incredula scosse la testa: «Oddio, Moll, lo stiamo davvero facendo, tutta quella programmazione, e la clinica e le terapie e tutto quanto. Ce l'abbiamo fatta. Avrai il mio bambino.» Molly annuì: «Basta che non mi canti una merdosa canzone anni Settanta. Ho prenotato un'ecografia per la prossima settimana.» «Grande.» «Vuoi chiamare Chris?» «E tu?» Molly scosse la testa: «No. Non ne ho molta voglia. Pensavo che avrei voluto farlo, ma ora credo che dovresti dirglielo tu. Da un membro del pool genetico all'altro. E già che ci sei fammi una tazza di tè.» Saz andò a mettere sul fuoco il bollitore e a chiamare Chris dalla cucina e Molly si distese sul pavimento. La paura e il nervosismo, l'eccitazione e

l'euforia del mattino l'avevano provata, per non parlare della nausea con cui si era svegliata. E anche il pesante litigio che avevano avuto prima che lei uscisse, decisa a farlo da sola, già nervosa di suo ma ancor più preoccupata per Saz. Per l'enorme desiderio di Saz di avere questo bambino, che si sarebbe trasformato nella depressione più nera se anche questo tentativo fosse fallito come l'ultimo, e quello precedente. Molly sapeva che, se ci fossero state cattive notizie, voleva essere lei a comunicarle a Saz. Medico lei stessa, non voleva lasciare il compito a un altro camice bianco insensibile. E sapeva anche che se fosse andato tutto bene, voleva essere lei ad annunciarle la grande notizia. Quando tornò nella stanza venti minuti dopo, Saz trovò Molly profondamente addormentata sul pavimento. Si sedette accanto a lei e bevve il suo tè, guardando la sua ragazza inspirare ed espirare, e ogni respiro delineava chiaramente il piccolo addome che negli ultimi tre mesi era cresciuto su quel fisico alto e snello, un addome che nessun altro avrebbe mai notato, una pancia minuscola sulla quale Saz e Molly avevano riversato tutte le loro speranze. Per dieci minuti Saz rimase completamente smarrita di fronte alla natura pazzesca dell'impresa che a quanto pareva avevano compiuto. Dopo un po' Molly si svegliò, troppo scomoda sul pavimento per fare più di un breve sonnellino al sole. «Cos'ha detto Chris?» Saz sorrise: «Le parole precise sono state: "Sarei grato se la donatrice dell'ovulo esprimesse alla portatrice del bambino i più sinceri auguri da parte del donatore dello sperma."» «Cretino.» «È quel che gli ho detto.» «Cretino?» «No. Gli ho detto che è un coglione. Ci ha anche invitate a bere qualcosa.» «Bene.» «Champagne per lui, Marc e me, acqua per te.» «Fantastico. Non vedo l'ora.» «E ci ha chiesto quando volevamo far venire la troupe del documentario.» «L'hai mandato a cagare?» «Gli ho detto che non c'era niente da documentare. Che c'è di così strano in una donna che porta in grembo il feto di un'altra donna?»

«Perfettamente normale.» «Esatto.» Molly si fermò un attimo e quindi aggiunse: «Non l'avrà mica chiesto sul serio, vero?» «Ops! Gli ormoni hanno già avuto la meglio sul senso dell'umorismo. Ma no, certo che no.» Saz esitò un attimo. «Però ha chiesto se hai deciso se Marc può filmarti.» «Questo è già più sensato. Be', penso di sì, cioè, non so ancora per quanto riguarda il momento del parto, ho visto abbastanza cose del genere durante la specializzazione per considerarlo come minimo un po' pacchiano, se non peggio, abbastanza volgare. Ma i progressi del pancione, direi di sì. Solo che non volevo decidere finché non eravamo certe che fosse tutto a posto.» «Lo sanno.» «Immagino che, quando troverai i suoi genitori naturali, sarà contento di poter mostrare loro tutta la faccenda.» «Non esaltarti: se fosse stato così semplice, ormai avrei già scoperto tutto.» «Hai appena iniziato. Ma almeno non ti metterai a girare il mondo e a scappar via da me in piena notte per seguire le tracce di sua madre.» «Potrebbe aver lasciato l'Inghilterra.» «Non mi importa se l'ha fatto. A questo serve la posta elettronica.» «Preferisco lettere e telefonate, grazie.» «Conservatrice.» «E felice di esserlo.» Molly si appoggiò più pesantemente su Saz: «Tu, mia dolce luddista, non vai proprio da nessuna parte. Ti voglio qui con me. Ti vogliamo qui con me.» Saz annuì, ben consapevole della serietà che nascondeva quel tono leggero. «Lo so. E non ti preoccupare, non vado da nessuna parte.» Saz sapeva bene che Molly avrebbe preferito che si fosse scelta un'altra professione e si preoccupava per la sua incolumità. Ansie giustificate da una serie di spiacevoli eventi passati. Molly sorrise, e il sorriso diventò presto una smorfia: «Be', comunque non penso che dovresti considerarti in tutto e per tutto legata a me. Adesso, per esempio, potresti aver voglia di saltar su e andarmi a comprare un po' di gelato.» «Ce n'è nel freezer.»

«No, l'ho finito stanotte.» Staccandosi dal fianco di Molly, Saz brontolò: «Se avessi saputo che la gravidanza per te sarebbe stata solo una scusa per trasformarti in un personaggio da telefilm, non avrei mai permesso che fossi tu a restare incinta.» «Troppo tardi, tesoro.» Saz adottò un'altra tattica per evitare di dover lasciare quell'angolo comodo: «Ingrasserai.» Molly stirò il lungo corpo snello nella chiazza di sole sul pavimento: «Ma questo, mia cara, credo sia l'unico motivo per cui valga la pena di rimanere incinta. Nessuno lo noterebbe. Ora fila.» Muovendo la mano con gesto regale: «Una vaschetta di pistacchio, una di crema al cocco, una di caffè alla nocciola e una di stracciatella. E niente porcherie di gelato magro.» «Eh no, cavolo» mormorò Saz chiudendo la porta. «È già abbastanza bizzarro che questo bambino abbia quattro genitori gay, non vorremo mica che crescendo diventi anche anoressico.» 4. Molly aveva conosciuto Chris quattro anni prima in ospedale. Come lei si era specializzato in pediatria, e come lei aveva espresso spesso il desiderio di diventare padre, ma al contrario di lei non si era mai sentito abbastanza maturo o sistemato per prendere seriamente in considerazione quel desiderio. Finché non aveva conosciuto Marc. Marc lavorava nella City, era un gay dichiarato, era piuttosto benestante ed era incredibilmente normale. Tutto ciò che Chris - mulatto, adottato alla nascita da una famiglia molto ricca, fervido attivista gay sin dalla prima adolescenza - non era. Fu amore al primo litigio. Dopo due mesi Chris si trasferì da Marc, e un anno e mezzo dopo suggerirono a Saz e Molly che forse era il momento di cominciare a pensare a riprodurre la specie. Non che questa considerazione fosse una novità per Molly e Saz. Già da tempo avrebbero voluto compiere il passo successivo, avere un bambino, cosa che le coppie avevano sempre fatto in maniera abbastanza naturale, anche senza bisogno dello stimolo sociale, già da molto tempo prima che la Bibbia decidesse che era stato Dio in persona a insistere perché andassero e si moltiplicassero. Però, diversamente dalle donne dei miti biblici, molto più fortunate, Saz e Molly erano consce del fatto che avrebbero avuto bisogno di un padre reale. In corpo come in spirito; cosa che rendeva il tutto leggermente più complica-

to. Saz e Molly discussero a lungo quella proposta. Molly parlò con Chris. Saz ne discusse con Marc. Tutti e quattro analizzarono all'infinito gli ostacoli, i problemi, le difficoltà. Rinviarono la decisione fino a quando avrebbero potuto raccogliere maggiori informazioni. Rifletterono a lungo e intensamente su quello che stavano progettando, fino al punto di averci pensato così tanto che sembrava un ostacolo insormontabile. Troppo difficile, troppo complicato, era proprio una proposta da rifiutare: un'ottima idea, ma davvero troppo problematica da mettere in pratica, accidenti. Finché la cugina diciannovenne di Saz, che viveva ancora in un pensionato con il figlio di due anni, annunciò la sua seconda gravidanza, e Saz e Molly capirono finalmente che se i ragazzini potevano sfornare bambini con tanta leggerezza, forse era il caso che ci provassero anche quattro adulti, con quattro stipendi, due case e, non per fare troppo i leziosi, un sacco di amore da dare. Invitarono i ragazzi a cena e passarono la serata a discutere del come, del quando e del chi e, non meno importante, di tutte le implicazioni legali della questione. Tre mesi dopo si erano accordati su ogni dettaglio e la lunga procedura tecnica del creare la vita poteva iniziare. Dopotutto, come Chris diceva con gran tatto: «Mettetevela via, ragazze, non è che i vostri ovuli ringiovaniscano.» Molly avrebbe partorito il bambino di Saz. Si trattava di un procedimento invasivo e costoso, ma se lei portava l'ovulo di Saz fecondato dallo sperma di Chris, tutti e tre sarebbero stati intimamente coinvolti. A causa delle vaste ustioni che Saz aveva subito qualche anno prima, sarebbe stato comunque più sicuro e salutare che fosse Molly a portare in grembo il bambino. Inoltre Molly, che aveva un vero lavoro proprio in ospedale, avrebbe potuto richiedere un buon sostegno economico dal suo sistema di previdenza e un lungo congedo per maternità. Saz, come lavoratrice autonoma, non godeva di simili benefici. Se Molly portava in grembo il bambino di Saz, entrambe le donne sarebbero state in un certo senso madri biologiche, anche se una sola avrebbe fornito il materiale genetico. Molly attivò contatti attraverso i colleghi medici e alla fine trovò una clinica disposta ad accoglierle: per una cifra esorbitante, ovvio. Chris e Marc si offrirono di pagare ma a Saz e Molly sembrò di chiedere davvero troppo, perciò le due donne riunirono tutte le risorse di cui potevano disporre, racimolarono il denaro necessario e pregarono che le terapie funzionassero al primo colpo. Nel frattempo trovarono un avvocato davvero disposto a collaborare

e stipularono un contratto incredibilmente complicato. E, poiché sapevano che il contratto non sarebbe stato legalmente vincolante nel caso in cui uno dei due genitori naturali avesse cambiato idea, tutti e quattro firmarono le loro copie con mille promesse di non litigare mai. E pregando in silenzio di stare facendo la cosa giusta. Saz si sottopose al difficile processo dell'estrazione dell'ovulo, Chris e Marc si occuparono da soli del prelievo dello sperma, sicuramente meno difficile, e il primo embrione fertilizzato venne impiantato. Tutti e quattro trattennero il respiro speranzosi. Molly ebbe un aborto spontaneo dopo cinque settimane e mezza. Anche se era stato un periodo tanto breve e tutti erano preparati a questa evenienza, il senso di tristezza fu comunque grande, tremendo soprattutto per Molly ma anche stranamente difficile per Saz, la quale, pur non attraversando gli stessi cambiamenti ormonali di Molly, stava tuttavia subendo un vero e proprio processo di maternità per procura. Anche il secondo tentativo si concluse con un fallimento. Dopo un'altra notte terribile di lacrime e delusione, Molly e Saz concordarono che avrebbero provato solo altre due volte. Significava che erano a metà delle loro possibilità. Dopo un mese dal terzo tentativo sembrava che tutto andasse bene, ma avrebbero dovuto aspettare fino al terzo, il primo scoglio di sicurezza per qualsiasi gravidanza, e ancor più nel loro caso, per poter cominciare a parlare del feto come di un bambino e perché l'ostetrica di Molly permettesse loro di sperare per il meglio. Nel frattempo Chris aveva chiesto a Saz di parlarle. «È per lavoro. Riguarda mia madre.» «Sta facendo casino per il bambino?» «Cavolo, no, non potrebbe esserne più felice. Proprio come noi, non vede l'ora di essere sicura che è tutto okay. No, mi riferisco alla mia madre naturale, penso che mi piacerebbe trovarla.» Chris aveva sempre saputo di essere stato adottato: in quanto mulatto con dei genitori bianchi, difficilmente avrebbe potuto non accorgersene, e i suoi erano sempre stati molto franchi sul fatto che l'avevano adottato quando la loro ultimogenita aveva compiuto dieci anni e a loro mancava la presenza di un bambino in casa. Chris, però, aveva sempre dimostrato una totale mancanza di interesse verso i suoi consanguinei, perciò Saz fu davvero stupita nel sentire che aveva cambiato idea. «Pensavo che non lo volessi sapere.» «Infatti. Ma ora lo voglio. Forse è l'idea che io stesso sarò padre. Oppure

è solamente il fatto di aver parlato fino allo sfinimento delle implicazioni dell'essere genitori che ha risvegliato il mio interesse. Non saprei. So solo che mi sento diverso ora.» «Non so se sono la persona giusta, è una procedura che non conosco bene; e inoltre sono in qualche modo coinvolta personalmente. Non sarebbe meglio contattare un'agenzia, o qualcosa del genere?» Chris scosse la testa. «Ci ho pensato. Ma non voglio che la mia vera madre, la mia madre adottiva, sappia che ho intrapreso questa ricerca. Per quanto lei sia sempre stata davvero sincera con me, penso che potrei ferirla se le dicessi che ho cominciato le ricerche. E immagino che un'agenzia si metterebbe in contatto con lei, per scoprire cosa ricorda, cosa sapeva mio padre.» «Non potrebbero farlo se tu ti opponessi.» «Forse, ma di sicuro preferirei che lo facessi tu. Proprio perché sei coinvolta da un punto di vista personale. Tu e Molly siete diventate le nostre migliori amiche. Ho fiducia in te. Non mi sono mai curato dei miei genitori naturali, e ora questo desiderio di sapere mi ha abbastanza scombussolato. Forse penso che tu saresti più delicata, più attenta.» Saz si mise a ridere: «Ci proverò, ma se fossi in te non andrei in giro a dire quanto sono delicata davanti a Molly: è proprio l'ultima cosa che pensa di me.» Sei settimane dopo, quando Molly tornò a casa da sola dall'ospedale e annunciò la grande notizia, Saz pensò che, proprio come Chris, stava cominciando a interessarsi alla storia genetica del suo bambino. Era arrivato il momento di lanciarsi in un'azione più diretta sul fronte della scoperta dei genitori naturali. 5. Il padre di Chris era morto tre anni prima e sua madre, volendo stare più vicina a Chris e Marc con cui andava molto d'accordo, e un po' più lontana da sua figlia Anna, con cui intratteneva rapporti un po' meno invidiabili, aveva venduto l'enorme dimora di famiglia nel Surrey per spostarsi in una casa più comoda dalle parti di Wimbledon. Saz approfittò dell'assenza della signora Marquand, in vacanza a Edimburgo con il secondogenito, per passare una giornata a spulciare gli archivi di famiglia. Secondo Chris, sua madre era la donna più ordinata d'Inghilterra, e il trasloco dalla campagna

in città le aveva consentito di esserlo anche di più. «Adoro quella donna, Saz, ma è una fanatica dell'ordine. Sono cresciuto in una casa con nove stanze da letto e non abbiamo mai avuto una donna delle pulizie. Avrebbero potuto permettersene anche cinque, ma lei non ha mai voluto. In realtà, mia madre ama tutti quegli arnesi per spolverare e lucidare. Ma le piace ancora di più conservare le cose in ordine. Anzi, è una cosa che ama alla follia, cazzo.» Chris non si sbagliava. Tutta la soffitta della casa di Wimbledon, originariamente convertita in uno spazioso studio dal precedente proprietario, ora alloggiava quattro schedari a sei cassetti, uno per ogni figlio, Chris e i tre fratelli maggiori. Ciascun cassetto era pieno di cartelline, etichettate per data e categoria. Saz ci mise meno di cinque minuti per trovare le pagelle scolastiche di Chris. «Madonna, è incredibile. Abbastanza balzano, cavoli, ma anche fantastico. Ed è sempre stata così tua madre?» «Già, e in più quando ero piccolo la cosa era utilissima. Gli altri bambini dovevano riordinarsi la stanza e le loro madri gli urlavano sempre di raccogliere i giocattoli, e cose del genere.» «E tu no?» «Eh no. Lo faceva la mamma. Diceva che così era contenta.» «Piccola peste viziata. Spero che alla fine tu abbia imparato a badare a te stesso.» Chris fece una smorfia: «Penso di sì. Ma attenta, non credo che Marc sia d'accordo.» Saz indicò un mucchio di scatole impilate sulla parete di fondo: «Cosa sono quelle?» «Le cose di mio padre. Non le ha ancora sistemate. Non sono sicuro che abbia voglia di farlo, la costringerebbe ad accettare il fatto che se n'è andato.» «Per quanto tempo sono stati sposati?» «Quarantotto anni.» «Porca vacca!» «Già, e sono stati tutti anni felici.» «Davvero?» «Temo di sì. Un matrimonio perfetto.» «Mmm, non esiste.» Chris alzò le spalle: «Pensa quello che vuoi. Mi sono sempre sembrati abbastanza felici, che cavolo. Comunque, nella vecchia casa tutto era chiu-

so in scatoloni e lei si innervosiva ogni volta che andavamo lì a cercare qualcosa, lasciando casino in giro, e quindi ha pensato a questo nuovo sistema di archiviazione quando si è trasferita a Londra.» «Ma nessuno di voi aveva voglia di tenersi le sue vecchie cose?» «E privare la mamma di ore e ore di attività piacevoli? A volte sei una stronza insensibile, Saz.» Saz lo ignorò, e continuò: «E gli schedari funzionano meglio delle scatole?» «Di certo impediscono ad Anna di rovesciarle tutte per arrivare alle foto di quando era piccola, e poi ributtare tutto dentro alla rinfusa.» «Forse lo fa per tenere occupata tua madre. Forse pensa di essere gentile.» «No, Anna no. A dire il vero fa delle cose apposta per innervosire la mamma.» «Pensavo sostenessi che la tua famiglia era perfetta.» «No. Dicevo che i miei genitori erano una coppia perfetta. Non è proprio la stessa cosa. Davvero, non penso che Anna li abbia mai perdonati per avermi adottato.» «I tuoi genitori?» «Già. Quando sono arrivato, lei ha smesso di essere la piccolina di casa.» «Per cui non va d'accordo nemmeno con te?» «Cristo no, Anna mi adora, ha dieci anni più di me ed era come se fossi il suo bambolotto. No, è con mia madre che non va d'accordo. Non ha avuto difficoltà a ricevermi come giocattolo, solo che voleva ancora essere la preferita. L'ha sempre voluto.» Saz si strinse nelle spalle, pensando che forse Anna poteva aver ragione. Poi andò dritta verso una scatola non ancora archiviata. Una conversazione sui metodi migliori per crescere un figlio non solo non avrebbe gettato nuova luce sui genitori naturali di Chris, ma in più la faceva sentire dolorosamente impreparata a diventare madre. Decise quindi di comperare al più presto dei libri per futuri genitori. L'alternativa era guardare più spesso Una famiglia americana. Chris la lasciò sola in soffitta per tornare all'ospedale, e Saz continuò a lavorare per tutto quel lungo e caldo pomeriggio. Quando Chris tornò a prenderla diverse ore dopo, Saz aveva scelto alcune carte da esaminare con lui. Scesero nell'ampio giardino che dava a sud e, aiutata da un paio di robusti gin tonic, Saz raccontò a Chris cosa aveva

scoperto. «Allora, ci sono cinque sei lettere dall'avvocato di tuo padre, Richard Leyton. Lo conosci?» «Perché?» Saz mise la lettera da parte: «Non ne sono sicura. Ma tu sei nato nel '63 vero?» «Sì, in marzo.» «Bene, non è che ci fossero montagne di scartoffie da avvocati e, dato che ho trovato solo una decina di lettere in tutto spedite da Leyton, e quattro avevano la data dei primi mesi del 1963, e sono le lettere con il linguaggio legale più tortuoso e generico che abbia mai visto...» «Pensi che potrebbe aver aiutato a organizzare l'adozione?» «Be', forse. Era l'avvocato di tuo padre, era ovvio che lo facesse, credo. E, chiaro, non è molto, ma in due lettere fa riferimento a una "acquisizione", e in un'altra parla di un "accordo". Forse si trattava di te, non è che abbiano mai voluto fingere che tu fossi figlio loro.» «Cristo, sembra proprio una compravendita.» «È esattamente il termine che usano loro. Magari si tratta solo di una stronzata di gergo legale, ma poiché la data corrisponde, penso valga la pena di approfondire. Credi che possa parlare con lui?» Chris scosse la testa: «Morto e sepolto, purtroppo. Sua figlia ha rilevato lo studio un paio d'anni fa.» «Okay, magari verificherò con lei. Leyton deve aver tenuto traccia del lavoro svolto per tuo padre e lei non deve essere del tutto all'oscuro della sua attività, se ne sapeva abbastanza da rilevarla. Forse ci potrà dire qualcosa.» «Dovrai faticare moltissimo per tirarle fuori un qualsiasi segreto.» «Già, ma di sicuro abbiamo più chance di ottenere qualcosa da una donna giovane che da un vecchiaccio.» «Giusto. Ti autorizzo a provare. Dovrei avere il suo numero da qualche parte. Hai trovato altro?» «Non molto direi. Alcune lettere che tuo padre ha scritto a tua madre, che di sicuro si riferiscono al nuovo bambino, cioè tu, ma non rivelano nulla sui genitori naturali.» «Magari non ne sapevano niente.» Saz annuì, aprì la bocca per parlare, ma ci ripensò un attimo, poi decise di dirlo ugualmente: «Potresti chiederglielo, sai, Chris.» Chris distolse lo sguardo: «No, non posso.»

«Sì, ma ci sarebbe d'aiuto anche scoprire che tua madre non sa nulla. Almeno sapremmo da dove partire.» Chris mantenne lo sguardo fisso sul merlo che beccava vermi sul prato: «No, Saz.» Saz aspettò un attimo, si rese conto che a quel punto non ne avrebbe cavato più nulla e quindi continuò: «Come vuoi. C'è una lettera a Leyton che chiede di cambiare il testamento di tuo padre per includere anche te. Ed è tutto. Conosci queste persone?» Saz porse a Chris una vecchia foto in bianco e nero venticinque per venti. Chris la guardò e sorrise: «È il mio battesimo.» «È tua madre che ti tiene in braccio?» «Sì, e mio padre è dietro di lei. Questi tre a sinistra sono gli altri figli. Questa è Anna, che guarda di traverso mia madre perché mi monopolizza. Il fratello di mio padre e sua moglie, mia nonna materna. Ah, e questo dev'essere Richard Leyton. Be', qui è piuttosto giovane. L'ho visto solo un paio di volte da ragazzo e mi è sempre sembrato un vecchiaccio, sempre serio. Ed è tutto. Non ho idea di chi siano questi due, o l'altro bambino.» Chris stava indicando una coppia sulla destra del gruppo, con un bambinetto di tre o quattro anni aggrappato al braccio della donna. «Non sono parenti?» «Nessuno che io conosca.» «Bene. Non ci resta che scoprire chi sono.» «Mi spiace dirlo, Saz. Ma non penso che si riveleranno essere il mio papà o la mia mamma naturali.» «Non si può mai dire.» «Sono bianchi, Saz.» «Certo Chris, me ne sono accorta. Capita che dei bianchi scopino con dei neri e nascano bambini neri. O mulatti. Di certo non bambini bianchi. È per questo che quegli imbecilli dei neonazisti non solo sono degli idioti completi, ma hanno anche sfortuna. Il mondo va così, comunque.» «Ben detto.» «Ma in realtà non stavo pensando che potessero essere i tuoi veri genitori. Ci sarebbe voluta una bella apertura mentale per invitare i tuoi genitori naturali al tuo battesimo e ho qualche dubbio che i tuoi fossero così disinvolti. Ma poiché quelle persone erano lì, e tu non dovevi avere più di due mesi, magari sanno qualcosa. Certamente avranno saputo che eri stato adottato.»

«E quindi come li troviamo?» «Non lo so. Di' a tua madre che ero in preda all'istinto materno e volevo vedere le vecchie foto di famiglia.» Chris la fulminò con lo sguardo. «Okay, non parlarne con tua madre. Allora di' ad Anna che ricordi di aver giocato con questo bambino quando eri un po' più grande, ma che ora non rammenti come si chiama. Porta la foto da quella Leyton e chiedile se sa chi è, dille che non ricordi il nome dell'amico di tuo padre, ma che vorresti contattarlo ora che lui è morto. Chiedi a un photo editor di aiutarti a rintracciare il primo amore di tua madre come regalo per il suo settantesimo compleanno. Qualsiasi cosa, inventati una scusa al momento. È quello che faccio sempre anch'io.» «Parli di mentire, Saz.» «Sì, Chris, mi sa di sì.» 6. Chris e Saz se ne andarono dalla casa della madre di lui e si diressero a nord nel verso opposto a quello del traffico: avevano appuntamento per cena con i rispettivi compagni. Quando arrivarono Molly stava già aspettando, coi piedi sulla sedia di fronte, una ciotola piena di noccioli d'oliva davanti e il cameriere che ne stava portando un'altra piena di olive, con un'aggiunta di pane. Saz baciò la sua ragazza e si sedette: «Hai un po' di famina, eh?» «No, sono un po' incinta. Novità?» Saz e Chris la aggiornarono sulla ricerca dei genitori e lei rispose alle loro domande sulla gravidanza. Sì, stava bene. Stava bene proprio come alla mattina, quando era uscita per andare al lavoro. In effetti stava bene come quando aveva visto Chris l'ultima volta in ospedale, appena tre ore prima. E no, non era successo nulla di particolare nel frattempo. Non si stava ancora muovendo nulla. Nulla che non si potesse attribuire ai normali movimenti digestivi, comunque. E infine, non c'era proprio niente di più appassionante che parlare del fatto che era incinta di tre mesi e nessuno se ne accorgeva, soprattutto quei bastardi indifferenti che non hanno nessuna intenzione di cedere il posto sulla metro? «Moll, questo succede perché sei ancora così alta e snella e splendida.» «È molto carino da parte tua, tesoro, e sono lieta di dire che probabilmente è anche vero. E ora chiamate quel cazzo di cameriere così ordinia-

mo. Se Marc insiste a lavorare fino a tardi, si adatterà a mangiare tardi. Non vedo perché dovremmo soffrire anche noi.» Nel tempo che Marc ci mise ad arrivare dall'ufficio, riuscendo a sembrare al tempo stesso pentito, contrariato e bellissimo, Molly aveva quasi finito di mangiare l'antipasto e stava aspettando affamata la portata principale, Saz e Chris iniziavano la seconda bottiglia di vino e tutti e tre studiavano la foto del battesimo, sperando che anche il loro bambino avesse quell'aria angelica alla stessa età. Marc prese la foto, la scrutò per un attimo, sorrise nel vedere il suo ragazzo da neonato e, ordinando un trancio di tonno al sangue, chiese che ci facesse lì al battesimo Gerald Freeman. Saz sputacchiò nel bicchiere di vino: «Chi?» «Gerald Freeman. Un uomo d'affari importante.» Molly scosse la testa e prese un paio di patatine dal piatto di Saz. «Un uomo d'affari morto.» Saz afferrò la foto dalla mano di Marc: «Tu sai chi è questo tizio?» «Sì, Saz. Come qualunque altro inglese che conosca anche superficialmente la vita finanziaria di questo paese.» «Nemmeno Chris l'ha riconosciuto.» Chris sorrise e versò il resto del vino a Marc: «Io conosco, e superficialmente, solo Marc. Per me è già abbastanza come intimità con la City, grazie.» Alla terza bottiglia di vino, Marc gli raccontò i particolari su Gerald Freeman. Alla fine lo ascoltava solo Saz, mentre Chris e Molly si erano immersi in una conversazione su uno dei loro colleghi le cui terapie ortopediche erano appena più interessanti del resoconto di Marc sull'ascesa al successo di Gerald Freeman. Finalmente Saz lo interruppe: «Senti Marc, la carriera di Freeman nell'industria plastica è molto interessante, ma che ne è del ragazzo?» «Cioè?» «Magari lui sa qualcosa della famiglia di Chris.» «Perché dovrebbe?» «E perché no? Mi sto arrampicando sugli specchi, ma non sappiamo altro. Potrei anche contattarlo e vedere se si ricorda qualcosa.» Si voltò verso Chris: «I tuoi genitori erano bianchi, tu sei nero. Anche a un bambino di quattro anni dev'essere sembrata una cosa memorabile: i primi anni Sessanta non erano certo un focolaio di integrazione razziale.» Marc aggrottò le sopracciglia: «Be', potresti provare. Ma dubito che gli

caveresti fuori qualcosa facilmente.» «Perché?» «Dio, Saz, ma davvero non li leggi i giornali della domenica?» «No, Marc, davvero non leggo tutte quelle porcherie che scrivono su come se la passano bene i rampolli dell'alta società, grazie alle conoscenze di mamma e papà. Ma chi è diventato quel bambino? William Hague?» «Patrick Sweeney.» «Lo chef? Quello che grida sempre?» «Proprio lui. È anche un ottimo cuoco, tra l'altro.» «Ma perché ha cambiato nome?» «Forse perché non voleva si pensasse che era diventato ricco e famoso grazie alle conoscenze di mamma e papà?» «Già, grazie tante. Bene, allora ragazzi, meglio che paghiate voi il conto stasera, mi sa che la mia prossima cena fuori sarà parecchio più costosa di questa.» Patrick Sweeney era un quarantenne di successo, figlio unico di Sir Gerald Freeman, ricco industriale di quelli nominati spesso nei supplementi domenicali come la crème de la crème. La madre di Patrick era morta quando aveva solo otto anni e da allora suo padre lo aveva tirato su perché prendesse le redini degli affari di famiglia. Ma lui deluse amaramente le ambizioni dinastiche di Sir Gerald quando a diciotto anni voltò le spalle alla laurea in economia che il padre aveva pianificato per lui e alle sue grandi attese nell'ambito dell'industria plastica per impiegarsi come apprendista cuoco nella cucina di uno degli alberghi più modesti della capitale. Patrick cambiò il cognome per non dover sentire voci sul fatto che approfittava del nome di suo padre e diventò un lavapiatti in carriera. Otto anni dopo, grazie alla sua ottima mano nel pulire le pentole e a una capacità invidiabile di ingollare enormi quantità di superalcolici e droghe pesanti fino a notte fonda svegliandosi comunque fresco come una rosa per contrattare con i commercianti al mercato alle quattro e mezza del mattino, era a capo della sua cucina e appariva anche più spesso del padre sui supplementi domenicali. Declinò abilmente gli inviti ai tormentoni televisivi che gli piovevano da ogni parte finché non gli venne finalmente offerto un programma tutto suo come protagonista e produttore esecutivo, e quindi detentore del potere assoluto, e allora sì che i veri soldi cominciarono a girare. Comprò il suo primo ristorante a trentadue anni, con i suoi soli soldi, sudati guadagni personali, e a trentaquattro anni finalmente accettò di parlare di affari con suo padre. Tre mesi dopo nacque la seconda generazione delle industrie Free-

man. Grazie a Marc, Saz ora sapeva tutto quello che le serviva sulla brillante carriera di Patrick Sweeney. Ma nulla che fosse in grado di procurarle un colloquio con lo chef, che aveva fama di persona difficile. Da quel poco che conosceva del suo mito personale, una semplice richiesta di aiutarla a investigare sui veri genitori di un amico, e solo perché per caso si trovava in una vecchia foto, non l'avrebbe portata da nessuna parte. Aveva bisogno di qualcosa di più succulento con cui presentarsi da lui. Fu Molly a suggerire un'alternativa. Finalmente sazia, raggiunse Saz a letto dopo aver divorato ancora mezzo pacchetto di biscotti ai fichi al rientro dal ristorante. «Stanotte finisce che non dormi, vero piccola?» «No, almeno finché non avrò trovato un sistema per incontrare questo Patrick.» «Chiederai a Gary di fare delle ricerche su Chris?» «Sì, pensavo di chiamarlo domattina.» «Allora chiedigli anche di Freeman.» «Perché?» «Oh, non so, corruzione, immoralità, una qualsiasi di quelle belle cose in cui sei tanto brava.» «Grazie.» «Prego. Ma dai, ci dev'essere qualcosa di losco sul loro conto. A quanto pare Marc crede che siano un'incredibile dinastia di gente di successo. Ma francamente non c'è niente che mi renda più sospettosa di un grande successo. Ci dev'essere del marcio da qualche parte.» «Tu, mia cara, sei una perfida cinica.» «Ma con tutta probabilità ho ragione.» «Forse. E poi cosa faccio quando ho ottenuto queste informazioni da bustarella?» «Chiama Patrick, fatevi due chiacchiere, minaccialo di rivelare che sua madre ha cambiato sesso prima di avere lui...» «Molto plausibile.» «Ma dai, ti sto solo dicendo come giocartela. Poi Patrick dirà che sicuramente ricorda tutti i particolari del battesimo di Chris, e che proprio suo padre gli ha rivelato i nomi dei genitori naturali di Chris in punto di morte, tu ricevi l'informazione, e sei a cavallo!» «E tutto finisce a tarallucci e vino.» «Sì, qualcosa del genere. E ora che è tutto sistemato, non pensi di riusci-

re a rilassarti abbastanza da lasciarmi addormentare?» «Ci provo.» «Bene. Noi mamme abbiamo bisogno di riposo, sai.» Saz rimase immobile, ascoltando il respiro di Molly rallentare fino al sonno. Avrebbe chiamato Gary la mattina dopo, ma si trattava più che altro di routine, visto che non si aspettava chissà che rivelazioni dal suo amico all'anagrafe di St. Catherine's House. Piuttosto riponeva le sue speranze nella visita alla figlia di Richard Leyton prevista per il pomeriggio seguente. Stava sdraiata nel buio e nel silenzio, cercando in tutti i modi di non agitarsi e non disturbare Molly, mentre aspettava che l'alcol bevuto quella sera facesse il suo effetto e le calmasse la mente irrequieta abbastanza da concederle un sonno ristoratore. Alle due del mattino la stanchezza ebbe la meglio sulla tensione. Quattro ore dopo si svegliò per andare a correre. 7. Gary era l'ex ragazzo della sorella di Saz. Talmente ex, in effetti, che Cassie non si ricordava nemmeno l'ultima volta che lo aveva visto, per non parlare del motivo per cui avevano rotto, anche se, a richiesta, avrebbe potuto ripescare dalla memoria l'immagine di una persona che non si accontentava di essere quasi felice, se poteva essere nella depressione più nera. Negli ultimi dieci anni Gary era stato un attore di scarsissimo successo e di recente aveva ampliato il suo repertorio di giovani arrabbiati includendo alcuni ruoli di uomini un po' più vecchi e meno arrabbiati. L'ampliamento però non era riuscito a fargli ottenere più di un piccolo ruolo secondario in un episodio di The Bill e un paio di lavori d'avanguardia all'anno. Dopo l'ultima recensione feroce su di lui comparsa su Time Out - «Perfetto se uno vuole sbattersi fino a Battersea per vedere una scialba produzione di uno dei primi lavori di Harvey» - era tornato al suo impiego regolare all'anagrafe. Anche se aveva lavorato saltuariamente per anni a registrare le morti, sapeva anche qualcosa sulle nascite. E ben più di qualcosa su come procurarsi illegalmente dei dati. Ma gli serviva sempre una spintarella. «Saz, mi inguaierei se cominciassi a far ricerche su Patrick Freeman.» «Ma no, non succederebbe nulla. Non è un'azione malvagia. Lo potrei fare io stessa, ma tu puoi arrivarci più in fretta.» «E anche più a fondo, lo sai.» «Lo so, ma ti sto solo chiedendo di controllare i certificati di nascita, anche se, nel caso saltasse fuori qualche altra cosa...»

«La vorresti sapere?» «Be', per quale motivo dovresti tenertela per te? Sai, i nomi dei genitori, gli indirizzi e i numeri della tessera sanitaria non sono roba che possa interessarti molto.» «Saz, non è che il certificato di nascita ti dia tutte queste informazioni.» «Ma dice chi sono i genitori.» «Non sempre. Se il tuo amico è stato adottato, i suoi genitori avrebbero potuto mentire.» «Cosa?» «Il bambino avrebbe potuto essere registrato a Londra dalla madre un giorno e poi portato via, ed essere registrato a Liverpool da persone completamente diverse il giorno dopo.» «Davvero?» «È così.» Saz non era entusiasta, aveva sperato che ne venisse fuori qualcosa di più concreto: «Bene, allora... non so. Ma immagino che se chiunque registra una nascita può mentire, allora non importa molto che tipo di informazioni mi trovi, giusto?» «Non hai intenzione di mollare, eh, Saz?» «Senti Gary, francamente mi interessa solo quello che riesci a trovarmi su Chris, è il mio lavoro, e ho il suo permesso. Quell'idea di Patrick Freeman è solo una specie di jolly.» Gary si mise a ridere: «Non mi dirai che hai avuto un'intuizione, Saz?» «Cazzo, no, lo sai che non sono così furba. Ho solo pensato di cavarti fuori tutto quello che potevo, già che ti parlavo. E ricorda, io mi sono sbattuta fino a Battersea per vederti recitare.» «Vero. Quand'è così, penso di doverti qualcosa. Vedrò che posso fare. Chiamami domattina e forse avrò qualcosa per te.» «Gary, sei un tesoro.» «No, Saz, per te divento un criminale.» «Sì, e ti sono grata per questo.» Saz riagganciò, contenta che le sue moine avessero avuto un tale successo. Conosceva personalmente un solo avvocato, quell'ubriacona della sua amica Claire, che era diventata una legale quasi per caso, e se ancora non sapeva come comportarsi con sua madre, figuriamoci con i clienti. Al di là di Claire, Saz immaginava che tutti gli avvocati fossero dei paranoici ultrapedanti che vivevano in ufficetti bui e stracolmi, circondati da scatoloni

di pratiche ammuffite abbandonate da anni, dei poveri fissati che sarebbero stati felici di scartabellare tra vecchie carte in cerca di qualcosa di utile, benedicendo la ventata di aria fresca che un viso giovane e vivace avrebbe portato nelle loro vite altrimenti polverose. Non questo avvocato. Georgina Leyton lavorava in un'oasi di ricchezza e raffinato design quasi ad altezza nuvole, al decimo piano di un nuovissimo palazzo sul lato sud di Regent's Park. La vista dalla reception era tutta verde, e la città calda e afosa era tenuta fuori dalle finestre a tutta altezza. La silenziosa aria condizionata dell'ufficio manteneva la temperatura un po' troppo bassa per le braccia nude di Saz. Era chiaro che i clienti di Georgina Leyton non se ne andavano in giro in maglietta per una Londra estiva. L'intero piano era occupato solo dalla reception al centro e da sei uffici che se ne dipartivano a semicerchio, senza dubbio disposti seguendo il feng shui. Anziché umido e polveroso, quel monumento alla ricchezza era fresco, arioso e calmo. Ma non proprio accogliente. Non se si arrivava privi di appuntamento. L'impiegato fu abbastanza educato quando lei entrò, ma era chiaro che non apprezzava i visitatori inattesi, che incasinavano la sua perfetta scaletta di appuntamenti. Dopo aver parlato sottovoce al telefono, guardò verso Saz e inarcò le sopracciglia per esprimere quanto trovasse sorprendente che l'avessero anche solo fatta entrare nell'edificio, e ancor di più il fatto che la sua titolare l'avrebbe ricevuta. «La signorina Leyton non la stava aspettando?» «No. Sono solo passata un attimo. Ho pensato che sarebbe stata la cosa più facile.» In realtà Saz aveva pensato che sarebbe stato meglio cogliere Georgina Leyton di sorpresa. Piuttosto che chiamarla prima e chiedere quelle informazioni riservate che, lo sapeva, difficilmente avrebbe ottenuto. Così Georgina Leyton avrebbe dovuto sbarazzarsi di lei personalmente, invece di lasciarlo fare al suo segretario. Adam, il serissimo assistente, non si impressionò: «Sì, certo. Comunque, visto che questa sembra essere una questione della massima importanza...» Lasciò in sospeso il resto della frase per il tempo sufficiente a farle capire quanto lo stava scocciando, e le fece strada lungo il corridoio stretto verso un grande ufficio sulla sinistra. Era chiaro che Saz non si era fatta un nuovo amico. La donna che l'accolse sulla porta dell'ufficio era minuta, magra e perfet-

ta in modo avvilente. Per quanto più bassa di Saz di qualche centimetro, i tacchi di sei centimetri e il completo firmato facevano sembrare che le sue gambe arrivassero fino alle spalle di Saz. I capelli lucidi erano tagliati in un classico caschetto simmetrico, tinti di un nero notte scurissimo, gli zigomi cesellati e le sopracciglia arcuate sembravano lottare con i capelli per avere la supremazia in quel gioco severo ma davvero splendido. Georgina Leyton indossava un completo di lino nero che sottolineava ogni delizioso centimetro di quel corpo da indossatrice in miniatura, e riusciva a sembrare del tutto rispettabile e al tempo stesso una che l'avrebbe data via con facilità. Le unghie con la french manicure erano lunghe e impeccabili, i gioielli poco vistosi ma eleganti, e il profumo Angel di Thierry Mugler che emanava il suo corpo era ancora perfetto e fresco - e costoso - come quando lo aveva spruzzato alle sette di mattina. Georgina era bella, distesa e controllata. Saz no. Saz cercò di mettere da parte la sua innata diffidenza verso i ricchi, cercò con tutte le forze di prenderla per quello che era e di non giudicarla per l'accento o i vestiti, o per la disinvoltura con cui viveva la propria ricchezza. Ma i suoi tentativi di essere equa furono disastrosi. Saz odiò quella donna a prima vista. Non era l'atteggiamento migliore per iniziare un colloquio implorante. E nemmeno il migliore dei colloqui imploranti, tra l'altro. Forse a Georgina Leyton importavano davvero le clausole vincolanti secondo cui i documenti di suo padre dovevano restare totalmente riservati. Forse era stata colpa di Saz, che decidendo che Georgina avrebbe fatto la difficile non appena l'aveva vista, si era tirata addosso una sfortuna nera. Quale che fosse il motivo, Georgina era irremovibile. «Mi dispiace signora Martin, io comprendo le difficoltà del suo cliente, ma davvero non c'è nulla che io possa fare.» «Non ne sa davvero niente?» «Degli affari di mio padre quando ero neonata? No di certo, signora Martin.» Saz cercò di frenare la voglia che aveva di darle uno schiaffo e fece un sorriso forzato: «No, mi scusi. Non intendevo questo, certo che lei non avrebbe potuto sapere nulla dell'adozione di Chris. Mi chiedevo se avesse dato un'occhiata alle carte di suo padre.» «Sicuramente non le ho guardate tutte e solo quando erano di importanza fondamentale per chi era ancora nostro cliente.» «Be', ma non potrebbe darci un'occhiata? Suo padre deve aver saputo dell'adozione, ci sono delle lettere scritte al padre di Chris, non dovrebbero

esserci gli originali della corrispondenza che ha sollecitato quelle lettere?» Georgina fece un sorrisetto, chiaramente divertita dalla palese stupidità di Saz: «Sì, probabilmente ci sono. Ma lei deve capire che mio padre ha svolto questa attività per più di quarant'anni. E anche se avessi il diritto di farlo, cosa che non ho, ci vorrebbe una vita per controllare. E in ogni caso è semplice: non ne ho il tempo. Perciò mi dispiace deluderla, ma ora devo proprio andare.» Saz si fermò sulla porta. «Che ne direbbe se esigessimo di vedere le carte? Si potrebbe fare?» Sul viso di Georgina Leyton rimase stampato un sorriso: «Ma certo che potrebbe provare. Chiunque può tentare di ottenere un'ordinanza dal tribunale. Però potrebbe volerci un po' di tempo.» Cinque minuti dopo, Saz era di nuovo per le strade afose, senza alcuna notizia in più sui genitori di Chris, ma abbastanza certa che Georgina Leyton le stesse nascondendo qualcosa. Più tardi a cena disse a Molly: «Quella stronza mentiva di brutto. Anche se è tutt'altro che brutta.» «Saz, forse pretendi un po' troppo da un unico incontro. Ma sei sicura di non esserti solamente incazzata perché è più ricca e ha più successo di te?» «Ed è più bella e meglio vestita?» Molly afferrò un paio di gamberetti dal piatto di Saz: «Nooo, di sicuro non era più bella.» «Ti ringrazio. Certo, è chiaro che ho provato una piccolissima punta di qualcosa che assomigliava vagamente a invidia, ma non era solo quello. Cioè, sono andata da lei con una richiesta del tutto ragionevole.» «E senza appuntamento.» «Scelta strategica.» «Ma irritante dal suo punto di vista.» «Può darsi. E comunque, dov'è il dramma? Certo, lei avrebbe dovuto aggirare un po' le regole, ma non le stavo mica chiedendo di giurare il falso o qualcosa di simile. Richard Leyton è morto, il padre di Chris è morto, non possiamo ottenere quelle informazioni in nessun altro modo. È chiaro che se la mamma di Chris ci avesse dato il permesso, avremmo potuto avere quelle carte immediatamente, ma lui ha deciso di non fare nulla che possa turbarla.» «Mi sembra legittimo.» «Esatto. E una cosa del genere potrebbe capirla chiunque, credo. Invece

no, bisogna seguire le regole alla lettera o niente.» «Stava solo facendo il suo lavoro, Saz.» «Ed è proprio per questo che non mi fido di lei. Se ama così tanto la precisione, deve per forza essere a conoscenza di quello che faceva suo padre, dev'essersi sicuramente informata su tutto quando ha preso le redini dello studio. E io penso che molto probabilmente lo ha fatto.» «Ma perché credi che ti stesse mentendo?» «Non so, ma tutto questo la rende molto più interessante di quanto sembrasse ieri a quest'ora.» 8. Il mattino dopo, Gary aveva cattive notizie su Chris. «Mi dispiace, Saz, niente di niente.» «Cosa? Mai esistito un Chris Marquand?» «Io non l'ho trovato.» «Ma è impossibile, ci dev'essere qualcosa, è vivo, per l'amor del cielo!» «È chiaro che c'è qualcosa, ma come ho cercato di spiegarti ieri, potrebbe essere stato registrato in migliaia di modi. L'unico nome che mi hai dato è quello dei suoi genitori adottivi.» «Questo vuol dire che Chris dev'essere stato registrato sotto il nome da nubile di sua madre.» «Molto probabile.» «Ma avrà avuto bisogno di un certificato di nascita in qualche momento della sua vita, no?» «Be', non è detto, tu quand'è che hai usato il tuo l'ultima volta? E comunque, i suoi genitori probabilmente hanno dell'altra documentazione sulla sua adozione. Perché non chiede a loro? Forse hanno l'originale del suo certificato di nascita, in cui sarà riportato il nome della madre naturale.» Saz sospirò e spiegò di nuovo le ragioni di Chris. Entrambi concordarono che non era che non lo capissero, ma ciò rendeva le cose molto più complicate. Voleva dire che lei avrebbe dovuto fare un'altra visita ai classificatori nell'attico della signora Marquand, oppure che avrebbe dovuto cercare di sapere qualcosa di più sulla vita lavorativa di Richard Leyton dalla sua riluttante figlia. «E che mi dici di Patrick Freeman? Quali progressi nelle ricerche ti ha permesso la tua coscienza immacolata?»

«È interessante che tu me lo chieda.» Saz smise di scarabocchiare faccine imbronciate sull'elenco telefonico e drizzò le orecchie: «Perché? Cos'hai scoperto su di lui?» «Non ti esaltare troppo, in effetti sembra insignificante, ma...» «Ma cosa?» «Be', niente di sicuro.» «Oh, ma per l'amor del cielo, Gary, spara!» «È solo una discrepanza nelle date.» «Che vuoi dire?» «Stiamo parlando dello stesso Patrick Freeman, conosciuto anche come Patrick Sweeney, lo chef?» «E di chi se no?» «Okay, allora, la data di nascita di Patrick Sweeney/Freeman è riportata nel Who's Who, e in un paio di altri articoli che ho controllato, come il 30 agosto 1959.» «Vedo che stai prendendo sul serio questa cosa.» «Cerco di rendermi utile.» «E quindi dove sta il pasticcio?» «Il certificato di nascita firmato da Gerald ed Eva Freeman, i suoi genitori, indica come data di nascita il 3 settembre 1959.» «Ma sei sicuro che non sia la data del certificato?» Gary sospirò: «Piantala Saz, è il mio mestiere, cazzo. La saprò la differenza tra data di nascita e data di registrazione. Sulla copia che ho visto, il figlio di Eva e Gerald, Patrick, era nato il 3 settembre 1959, registrato il 5. Ora tutti sappiamo che la gente nasconde la sua età, e questo tizio è una specie di puttana mediatica, per cui magari ha più scuse di altri, ma mentre un tizio qualunque si darebbe tre anni in meno di quelli che ha, non sembra che ci sia nessuna cazzo di ragione per darsi tre giorni in meno.» «Quindi mi dici che i Freeman lo hanno registrato di nuovo tre giorni dopo che qualcuno lo aveva già fatto.» «Non voglio saltare a conclusioni affrettate. Quello che dico è semplicemente che Patrick Sweeney, famoso chef, il cui vero nome è Patrick Freeman, ha affermato in varie occasioni che il suo compleanno è il 30 agosto, mentre i suoi genitori hanno dichiarato allo stato che era nato il 3 settembre.» «Magari c'era un oroscopo più favorevole ai nati in settembre quell'anno.» «Certo, Saz, e che io sappia gli uomini d'affari importanti badano molto

agli oroscopi.» «O potrebbe essere che qualcuno menta.» «Questa possibilità mi ha sfiorato la mente. Comunque, vacci piano, d'accordo?» «Con cosa dovrei andarci piano?» «Ti dico solo di non essere precipitosa. Magari i suoi genitori gli hanno sempre mentito. Magari lui non sa nemmeno che c'è questa discrepanza. Ti dico solo di stare attenta.» «Ma per l'amor di dio, Gary, secondo te mi presento e vado a sbattergli in faccia questa cosa proprio mentre sta servendo la portata principale? È chiaro che sarò discreta. E starò attenta a non ferire i suoi sentimenti.» Gary scoppiò a ridere: «I suoi sentimenti sono l'ultimo dei miei pensieri. Intendevo, stai attenta tu. Il tipo ha una pessima reputazione.» Saz riagganciò chiedendosi quanto potesse essere pericoloso un tizio con uno stupido cappello e i pantaloni a quadri. Non appena ebbe riagganciato, Saz cominciò un altro giro di telefonate. Dopo dieci minuti in linea con il servizio elenco abbonati, iniziò con l'agente di Patrick Sweeney. Due diverse segretarie dopo, finalmente riuscì ad averlo in linea e gli chiese se fosse possibile incontrare il grand'uomo in persona per discutere del progetto di una biografia di Sweeney/Freeman che voleva scrivere. Visto che chiunque pensava di sapere tutto su di lui e quasi tutti quelli a cui aveva fatto il suo nome parlavano di Patrick come di una star televisiva, Saz immaginava che le persone che lavoravano per lui avrebbero potuto apprezzare l'idea di una biografia autorizzata. Gli avrebbe dato la possibilità di mettersi ancora di più in mostra, e allo stesso tempo di sfatare alcuni miti su di lui. Cioè, qualsiasi mito lui intendesse sfatare. Dopo la terza telefonata all'agente, e una seconda con il suo amministratore, e una terza, per quanto breve, con la moglie, lo stesso Patrick la richiamò e le chiese di pranzare insieme. Il giorno stesso. In mezz'ora Saz si lavò, si vestì, lasciò un biglietto a Molly e prese un taxi per andare in città. Il ristorante di Patrick a Soho era chiuso, ma si era offerto di preparare il pranzo lui stesso, sarebbe stata una cosa più tranquilla e intima. Lei aveva dieci minuti di ritardo, lui, anche se veniva dalla cucina, arrivò mezz'ora dopo. E servì il pranzo. Quindi continuò dicendo a Saz in quale ordine avrebbe dovuto mangiare le portate. Saz si sarebbe lamentata se il cibo non fosse stato all'altezza della sua fama. Lo era, quindi non fiatò.

Contrariamente alle aspettative, Patrick Sweeney non portava uno stupido copricapo. O i pantaloni a scacchi. Accolse Saz indossando vecchi jeans scoloriti, scarpe da tennis con i buchi sugli alluci, una maglietta bianca pulitissima e una giacca di pelle rovinata che appese alla spalliera della sedia. Teneva lontano dagli occhi la lunga frangia di capelli con un mollettone peloso multicolore di sua figlia, che miracolosamente non lo faceva nemmeno sembrare un coglione, per chissà quale exploit di grazia naturale che Saz non riusciva a capire. Aveva anche un dolce sorriso sbilenco, e un medaglione con dentro le foto dei suoi figli. Saz ne fu completamente affascinata. Quando ebbero finito di mangiare, Patrick si stirò sulla sedia e sorrise a Saz: «Dunque, funzionerà così. Lei mi farà le domande. Se penserò che siano abbastanza interessanti, allora potrà mostrarmi alcune delle cose che scrive. Di che si occupa?» «Be', sa com'è, rubriche, articoli di opinione, la pagina femminile del Guardian, roba del genere.» «Va bene, allora se mi piace quello che ha da chiedermi, e se sarà ancora interessata quando le avrò risposto, forse parleremo anche altre volte.» «Perfetto, be', apprezzo davvero che lei mi abbia ricevuta, cioè, senza nemmeno conoscermi.» «Stavo cucinando, e volevo una cavia per testare il cibo. E le è piaciuto, no?» «Cavoli se mi è piaciuto.» «Bene, allora lei mi ha fatto un favore, io gliene devo uno. Comunque, John controllerà le sue credenziali oggi pomeriggio. Se non vale un cazzo, non la vedrò più e basta, d'accordo?» «Sì, certo. Fantastico. Grazie.» Saz si spremette le meningi per tirare fuori una domanda interessante che non fosse: «Perché lei dice alla gente di essere nato in un giorno diverso da quello del suo certificato di nascita?», qualcosa che la potesse far sembrare davvero la grande inviata che aveva millantato di essere quando aveva parlato con John, il manager, poche ore prima. Purtroppo l'unica domanda che le venne in mente fu: «Da quanto tempo è sposato?» Per fortuna non si rivelò una domanda noiosa per Patrick. Katy Betterton era chiaramente l'amore della sua vita. «L'ho conosciuta proprio qui, lei era entrata in cucina per lamentarsi che l'agnello era troppo al sangue.» «E lei cos'ha fatto?»

«Le ho detto di andare affanculo. E di non portare il bambino nella mia cucina: all'epoca stava allattando.» «Allattava mentre litigavate?» «Già. Le è sempre piaciuto mettersi in mostra. Avere a rimorchio una mezza dozzina di marmocchi urlanti aiuta. Comunque, l'ho cacciata fuori, se n'è andata, ed è tornata a mezzanotte proprio mentre ci stavamo sbarazzando dell'ultimo cliente.» «Con i bambini?» «No, erano a casa con la tata. Si è scusata per l'agnello e mi ha chiesto se le preparavo la colazione.» «Lo ha fatto?» «Rognoni tritati alla diavola. Panino al formaggio per pranzo. E poi mi sono trasferito da lei. Ci siamo sposati un mese dopo.» Anche se Saz non aveva sufficienti nozioni sul mondo degli affari per collegare Patrick a Gerald Freeman, aveva più confidenza con i giornali scandalistici di quanto fosse pronta ad ammettere con Marc. Non sapeva molto di Patrick, se non che era un ottimo chef con un pessimo carattere, ma da ragazzina sfogliava avidamente le pagine dei giornali in cerca di storie di ragazze interessanti che si divertivano molto più di lei, e Katy Betterton era tra le sue preferite. Katy, una pupa rock con un curriculum di ex fidanzati che sembrava l'elenco dei partecipanti al Band Aid, era sopravvissuta agli anni Ottanta e ai primi Novanta in una nebbia di piacevoli eccessi, di solito con un calciatore di serie A a rilassarsi sullo sfondo di festini a base di cocaina. Quando lei e Patrick si erano conosciuti, lei aveva già tre figli dalle prime due relazioni un po' più serie e poco dopo era già incinta del primo degli altri tre figli avuti da Patrick. E dall'espressione con cui Patrick raccontava questa storia, sembrava che il matrimonio e la paternità fossero le sole cose per cui valeva la pena vivere e molto di più. Parlarono ancora per un po', Saz gli rivolse alcune scontate domande sui suoi affari, i suoi rapporti con i media, le sue ambizioni per il futuro. Le cose procedevano senza intoppi e Saz stava per infilare una domanda su come i genitori di Patrick avevano conosciuto la famiglia di Chris, quando si rese conto che avrebbe potuto ammorbidire ancora un po' quel padre affettuoso facendogliene prima alcune specifiche sui figli. Non fu una buona mossa. Il sorriso scomparve, le mani di Patrick strinsero forte il tavolo e la molletta sui capelli improvvisamente non sembrò più tanto carina.

Patrick scosse la testa: «Non parliamo dei bambini. Marina, la seconda figlia di Katy, è morta poco dopo la nascita del nostro primo figlio. Ci ha messo molto tempo ed è stata davvero una cosa tremenda, cazzo. Aveva la leucemia, siamo stati sbattuti su tutti i giornali, abbiamo fatto tutta la beneficenza che ci si aspettava da noi e...» Patrick esitò, giocherellò con la tovaglia di lino. «E nulla è servito a migliorare le cose. È stata una tragedia orribile. Lo è ancora. Non è passata. E col tempo, io e Katy abbiamo capito che nemmeno parlarne ci aiuta. Voglio dire parlarne con estranei. Quindi lasceremo da parte questa cosa per ora, okay?» Il sorriso ricomparve, ma Saz sapeva di aver ricevuto un chiaro avvertimento. E mentre chiunque altro in quel momento si sarebbe tirato indietro, facendo seguire domande innocue sullo stile della sua cucina, lei decise comunque di spingersi oltre: «Allora mi chiedevo se potrei sapere, prima di concludere, perché lei dice alla gente che il suo compleanno cade il 30 agosto quando sul certificato di nascita c'è scritto che è nato il 3 settembre.» Patrick Sweeney non rispose. Prese la borsa di Saz e poi Saz, le trascinò entrambe fino alla porta e le gettò in strada. Poi rientrò e chiuse a chiave la porta. Saz aveva appena scoperto di essersi spinta troppo oltre. 9. Tre ore dopo, mentre Saz si stava applicando con delicatezza mezzo tubetto di arnica sulle ginocchia piene di lividi, suonò il campanello. E ancora. E ancora. Poi dei furiosi colpi sulla porta rimbombarono per tutto l'appartamento. Mentre scendeva nell'ingresso, temeva che da un momento all'altro la sfondassero. Patrick Sweeney stava sulla soglia, rosso in viso e con la bocca quasi schiumante: «Allora, chi cazzo sei?» «Scusa?» «Ho detto, chi sei?» Patrick la spinse dentro l'appartamento, guardando in ogni stanza per vedere se c'era qualcun altro. Saz gli corse dietro: «Ehi, non puoi arrivare e infilarti qui in questo modo. Cosa vuoi?» Patrick le girò attorno: «Voglio sapere chi cazzo sei. Non sei una giornalista, non puoi esserlo. Se lo fossi, non avresti fatto quella figura da cogliona oggi. Quelle serpi sanno dire le bugie molto meglio di te, che cazzo.»

«Ovvio.» «Perciò voglio sapere perché mi stai controllando. E John potrebbe scoprire qualsiasi cosa su di te. Per caso Briony ti ha dato un incarico? Stai lavorando per lei?» «Non so nemmeno chi sia Briony.» «La mia ex moglie.» «Non lavoro per nessuno. Anzi, no, in realtà sì, ma non nel modo che pensi.» «Bene, allora cosa stavi facendo oggi pomeriggio?» Patrick rimase in piedi nel soggiorno; la sua rabbia quasi restringeva lo spazio. Saz pensò che la migliore strategia potesse essere la verità. Almeno lo avrebbe tenuto a sedere tranquillo. Raccontò a Patrick di Chris, accennando anche, ma senza troppi particolari, alla storia del loro bambino, non voleva esagerare alla loro prima vera conversazione. Oppure mettere a dura prova una latente omofobia che forse covava. E comunque, non mentre lui era in casa sua. Poi gli raccontò delle sue scoperte nella soffitta della signora Marquand e gli mostrò la foto del battesimo. «Come sapevi che ero io?» «Non lo sapevo. Il ragazzo di Chris ha riconosciuto tuo padre e abbiamo pensato che forse il bambino eri tu.» «Be', quelli sono i miei genitori e questo sono io. Quei due di sicuro non erano amici intimi dei miei o roba del genere. Almeno non da quando sono abbastanza grande per ricordarmelo. Non li riconosco proprio. E di certo non ricordo quando è stata fatta questa foto.» Saz ne fu delusa, aveva sperato che Patrick potesse dirle qualcosa di più sul perché i suoi genitori erano lì quel giorno. Ma Patrick era ancora più preoccupato per quello che sapeva Saz di lui: «Okay, hai trovato questa foto, ma la storia del certificato di nascita dove l'hai saputa?» Saz non voleva tradire Gary, ma allo stesso tempo capiva che la sua conoscenza di quella discrepanza l'aveva messa in cattiva luce con Patrick. Allora diede qualche particolare sulla sua fonte, senza nominare Gary e facendo sembrare, per quanto possibile, che gli aveva estorto le informazioni. Lui sbiancò quando gli spiegò quello che Gary riteneva fosse il motivo della discrepanza tra le date. «Anche io pensavo una cosa simile. Il problema è che l'ho scoperto solo il mese scorso.»

«La faccenda delle date di nascita?» «Già. Ecco perché ero così incazzato con te. Da quando mio padre è morto, ci sono stati alcuni giornalisti che volevano scrivere dei pezzi sulla sua vita, e all'inizio ero preparato ad affrontare questa cosa, ma quando ho iniziato a fare ricerche approfondite, lettere dell'avvocato e cose del genere... be', è stato allora che ho scoperto delle date.» «Quindi sapevi di essere stato adottato?» «Da sempre. Avrebbe dovuto rimanere un segreto. Le uniche persone a saperlo eravamo io e i miei genitori.» «Non l'hai mai detto a nessuno?» «Solo alle mie due mogli. Nessun altro.» «È un grosso segreto da mantenere.» «Be', sapevo anche che non volevano che facessi nulla al riguardo, quindi in realtà non c'era motivo di dirlo a nessuno. I miei genitori mi hanno detto la verità, punto. Non ne abbiamo più parlato. Mai. E mio padre era stato molto chiaro sul fatto che si sarebbe incazzato di brutto se avessi mai tentato di conoscere il resto della storia. Il peggior ricatto emotivo possibile.» «E ci è riuscito?» «Non ho fatto una mossa finché mio padre è morto. Comunque il fatto è che quando ho cominciato a interessarmene, è venuto fuori che c'era molto di più di quel che mi aspettavo. E ora voglio davvero conoscere la verità prima che un qualsiasi giornalista del cazzo ci arrivi da solo. Ed è sicuro che prima o poi succederebbe.» «Quindi perché hai accettato di parlare con me stamattina?» «Ma non l'ho fatto, o almeno non nel modo che pensi. Ho pensato subito che ci fosse qualcosa sotto, ma non sapevo cosa. Ho accettato di parlarti per scoprirlo. Ma dato che il tuo pretesto era la mia biografia, ho pensato che volessi sapere della mia vita. Ecco perché mi sono così incazzato quando hai tirato fuori i miei genitori. Hai toccato un nervo scoperto. E recente.» Essendosi ormai esposto fino a quel punto, Patrick decise che tanto valeva raccontare a Saz tutta la storia. Ma, come le spiegò, si trattava di una storia incompleta. Alla morte di Gerald Freeman, Patrick si era sentito libero di scoprire la verità sul proprio passato. Come spiegò a Saz, aveva già avviato la consueta lenta trafila burocratica. E per il momento non c'erano stati sviluppi. «Ma se lo stai facendo per il tuo amico, non è che puoi accollarti anche

il mio caso?» «Non penso proprio.» «Perché no?» Saz si accigliò: «Non è che non voglio aiutarti, Patrick. Solo, non sono sicura di essere la persona più adatta per questo lavoro.» «Ho contattato i servizi sociali. Ho una consulente sulle adozioni, ma questa cazzo di cosa sta andando troppo per le lunghe.» «Ma ci sono anche un mucchio di agenzie investigative che fanno questo tipo di lavoro. Specializzate solo in questo.» «Già, e ci sono anche un mucchio di estranei che possono ricavare molto di più conoscendo i miei segreti che non passandoli a me.» «Potresti dire lo stesso di me.» «Potrei. Ma tu lo stai facendo per aiutare il tuo amico. Con il quale avrai un figlio. O meglio, un finocchio e il suo compagno con i quali tu e la tua compagna avrete un bambino. Ora, correggimi se sbaglio, ma ci sono buone possibilità che proprio tu capisca il mio bisogno di discrezione più di chiunque altro, no?» «Già.» «E ti pagherò bene.» «Sì?» «E credimi, i figli costano un casino.» «L'ho sentito dire. Senti, posso chiederti solo una cosa?» «Cosa?» «Mi hai detto che hai esaminato i documenti dell'avvocato di tuo padre, giusto?» Patrick annuì. «E come si chiamava?» «Richard Leyton.» «Fantastico!» «Cosa?» «Leyton era anche l'avvocato dei Marquand. È su questa foto.» Patrick scosse la testa. «Certo era molto più giovane allora.» «Be', comunque, forse i tuoi genitori non erano grandi amici dei Marquand, ma avevano lo stesso avvocato, che era in qualche modo coinvolto nell'adozione di Chris. Forse Richard Leyton c'entrava anche con la tua.» «Lo so per certo. È così che ho scoperto la differenza nelle date di nascita. Tra le scartoffie di mio padre c'era una lettera di Leyton. Non ho capito molto bene di cosa parlasse, ma dava una data di nascita diversa da quella

che ho sempre creduto vera. Avevo intenzione di fare un controllo con il certificato di nascita, ma non ci ero ancora arrivato. E ora tu lo hai fatto al posto mio.» «Oddio, dev'essere davvero strano pensare di non sapere per certo quando si compiono gli anni.» «E c'è di peggio. La parte più importante della lettera in realtà è la fattura di un pagamento richiesto a mio padre.» «Per aver organizzato l'adozione?» «No. Quella era una fattura diversa, che Leyton aveva emesso dai suoi libri contabili. L'avevo già trovata. Quest'altra è sulla carta da lettere personale di Leyton, e riguarda proprio il compenso per l'acquisto del bambino.» «Scusa Patrick, ma non capisco.» «I miei genitori hanno pagato per avermi. Hanno dato dei soldi a Leyton, non solo per organizzare l'adozione, ma proprio per comprarmi.» «Oh cazzo.» «Già, proprio così.» 10. Patrick lasciò l'appartamento di Saz solo quando lei ebbe acconsentito ad andare con lui nel Sussex, a casa di suo padre, il giorno dopo. Lei poi chiamò Chris e Molly per metterli al corrente delle novità. Molly era felice che avesse conosciuto Patrick Sweeney, si infuriò quando sentì che l'aveva sbattuta fuori dal ristorante, e rimase colpita quando Saz le raccontò della coincidenza relativa all'avvocato. E si scocciò non poco quando seppe che non solo Saz aveva trovato il pranzo pronto quel giorno, ma probabilmente le sarebbe toccata anche la cena l'indomani e la colazione il giorno dopo. «Portami gli avanzi. Oppure, meglio ancora, diventa sua amica e fallo venire a cucinare per noi.» Saz, sapendo che Molly non si sarebbe fatta impressionare dalla sua fama se fosse stata presente quando lui aveva cercato di buttare giù la porta, suggerì che lasciassero perdere quella cosa dell'amicizia per un po'. «Almeno fino a quando non ho passato una notte con lui, piccola.» Chris si dimostrò ugualmente esaltato per la giornata di Saz, ma per nulla preoccupato dallo stato delle sue ginocchia ammaccate. Anzi era piuttosto seccato che Saz avesse quasi rovinato tutto con le sue domande troppo

indiscrete. «Sì, Chris, lo so, ho rischiato giocandomi quella carta. Ma alla fine tutto si è risolto per il meglio, e andrò a dare un'occhiata alle carte di suo padre.» «Va bene, almeno ora ha fiducia in te e sicuramente qualche legame dev'esserci, considerando la foto prima e ora anche lo stesso avvocato.» Saz aveva deciso di non dire a Chris delle rivelazioni di Patrick sulla compravendita di bambini, almeno non prima di aver visto con i suoi stessi occhi la lettera di Leyton. Anche se Chris aveva un ottimo rapporto con sua madre, non era sicura che avrebbe potuto sopportare questo tipo di sospetto. «Già, forse. Non esaltarti troppo, però. Abbiamo ancora molta strada da fare. Ti chiamerò appena rientro.» «O se scopri qualcosa di importante.» «Certamente.» Riagganciarono, Chris speranzoso, Saz preoccupata. Saz partì da casa il pomeriggio seguente, entusiasta e nervosa al tempo stesso. Da una parte era soddisfatta che il suo incarico, o meglio entrambi procedessero bene, dall'altra era un po' preoccupata all'idea di passare le successive ventiquattr'ore in compagnia di un tizio che conosceva appena, e che solo il giorno prima l'aveva buttata fuori di peso dal suo ristorante. Questo era un cliente con cui avrebbe dovuto andare particolarmente cauta. Patrick trascorse la prima parte del viaggio raccontandole a che punto erano le ricerche attraverso i canali tradizionali. A un punto morto. «Il fatto è che non hanno molto su cui lavorare. Sembra insolito che sia arrivato a questa età senza aver mai saputo niente. Di più, senza essere mai stato invogliato a scoprire qualcosa sui miei genitori. Mantenere tutto così segreto era una cosa che si faceva nei tempi bui. Non negli illuminati anni Sessanta.» «Ma i tuoi genitori non erano certo figli degli anni Sessanta.» «Ovvio che no.» Patrick espresse la sua disapprovazione del comportamento dei genitori cercando di stritolare il volante e pigiando il piede destro sull'acceleratore fino ad aumentare la velocità di una ventina di chilometri all'ora. Saz provò con un'altra domanda per distrarlo. «Ma com'è possibile che tu non ti sia mai accorto che sul certificato di nascita c'era una data diversa?»

«Mio padre fece preparare il mio primo passaporto quando avevo sedici anni, ed è l'unico motivo per cui ne avrei mai avuto bisogno. E in qualunque modo l'abbia ottenuto, sicuramente grazie a soldi e conoscenze, porta proprio la data che ho sempre conosciuto, il 30 agosto. Hanno aperto il mio primo conto in banca quando ero piccolo, mi hanno intestato molte cose che sono diventate mie a sedici o diciotto anni, cose così. Come la maggior parte dei ragazzi, credo.» «Dei ragazzi ricchi.» «È quello che sono» ribatté Patrick. «Non ho voglia di ritornare sulla storia dell'uomo che si è fatto da solo. Già mi becco abbastanza commenti di quel genere dalla stampa.» «Scusami. Prendere per il culo i ricchi è una cosa che mi viene spontanea.» Era un po' poco come scusa, ma Saz non trovò di meglio. «Be', comunque sia, questo significava che, se all'epoca avessi avuto bisogno di fare un qualsiasi passo da solo, avevo già tutta una gamma di documenti legali che riportavano la data che conoscevo. E in realtà non ci sono grandi cose per cui serva il certificato di nascita. Non averlo mai visto non era una cosa che mi tormentava. Può essere che i ragazzini ricchi abbiano la pappa pronta più degli altri, ma credo che nemmeno tu conoscessi tutti i particolari della tua situazione anagrafica a sedici anni.» Saz scosse la testa. «Non sapevo nulla quando avevo sedici anni, solo che odiavo i miei, odiavo mia sorella, e che sarei morta se non fossi andata a Londra nel giro di una settimana. E che nessuno mi avrebbe mai capita. O amata.» «Cos'è cambiato?» «Sono andata a Londra. Ma comunque hai ragione, quella roba anagrafica ha cominciato a servirmi solo più avanti. E quindi come hai fatto per il matrimonio?» «Las Vegas. Passaporto.» «No, parlo del primo matrimonio.» «Las Vegas. Passaporto.» «Entrambi i matrimoni a Las Vegas?» «È facile e veloce. E anche romantico, in un certo senso.» «E non avevi bisogno del certificato di nascita.» «A quanto pare la fortuna ha voluto così.» «O il destino.» «Sono la stessa cosa, no?» «Solo se sei fortunato di natura.»

Saz immaginò che, almeno fino a poco tempo prima, Patrick si fosse considerato proprio fortunato di natura. «E non hai avuto bisogno del certificato di nascita quando hai cambiato nome?» «Ma non è una cosa ufficiale. Sono solo conosciuto come Patrick Sweeney. Patrick Freeman che in affari si fa chiamare Patrick Sweeney. Non l'ho cambiato con un atto legale o roba del genere. È solo per il lavoro.» Patrick scosse la testa: «È un peccato, se l'avessi fatto per vie legali, probabilmente avrei dovuto dimostrare chi sono, avrei avuto bisogno di controllare i registri secoli fa, quando mio padre era ancora vivo. Avrei potuto chiederglielo.» «Già, è una sfortuna. Dimmi di nuovo delle lettere.» «Te le mostrerò quando arriviamo a casa. La prima è solo una lettera legale di Leyton in cui conferma che l'adozione è andata a buon fine, e chiede il corrispettivo per la trattativa. Non dice da chi sono stato adottato o dove o altro. Aggiunge che da allora sarei stato l'erede dell'impero della famiglia Freeman. O lo sarei stato da grande. E basta. Non ho altro su cui basarmi. Se non quella seconda lettera, in cui si dice che pagarono l'enorme somma di cinquemila sterline per me.» «Non poco per quei tempi.» «No, non poco.» Patrick tirò un sospiro di sollievo quando il vecchio guidatore mortalmente lento che avevano davanti finalmente svoltò, e lui poté di nuovo guidare alla sua andatura, poco sotto i centosessanta all'ora. In una macchina che faceva sembrare la velocità come una scivolata sul ghiaccio appena lucidato, anche su una strada di campagna tortuosa. Lui continuò a raccontarle la sua storia e Saz controllò cautamente che la sua cintura di sicurezza fosse ben allacciata. «Leyton seguiva personalmente tutte le faccende di mio padre, famiglia, affari, tutto; non voleva saperne di quella robaccia moderna che è la delega. Sua figlia Georgina era uno dei suoi soci e alla morte del padre ha rispedito indietro tutto al mio. È per questo che le carte sono così incasinate, non aveva proprio voglia di mettersi a riordinarle.» Saz si chiese se Patrick conoscesse bene Georgina e decise che per il momento avrebbe taciuto sul suo incontro infruttuoso. «Ma perché tuo padre non l'ha assunta come suo avvocato?» «Non voleva. Anche mio padre era dannatamente all'antica.» «Non si fidava di una donna?»

«Be', è quel che pensavo, ma ora credo che ci fosse dell'altro. Forse non voleva che Georgina ficcasse il naso nei suoi affari e scoprisse che il padre era coinvolto nella vendita di un bambino, e l'unico modo che aveva per assicurarsi di tenerla fuori era farsi ridare indietro le carte. Molto premuroso da parte sua.» «La conosci bene?» «I nostri padri erano in affari insieme, le nostre famiglie si sono incontrate ogni tanto, hai presente, no?» Saz non aveva presente un bel nulla, ma non voleva nemmeno mettere alla prova il carattere di Patrick con un'altra spiegazione sulle loro differenze di classe. «Quindi tutte le carte personali furono mandate a casa di tuo padre?» «Penso di sì. Ma a dire il vero non sono sicuro. Quando ho trovato la lettera sui soldi sono rimasto di sasso, in realtà. Katy mi ha convinto a chiamare i servizi sociali, mi hanno rifilato una consulente sulle adozioni, che assolutamente non volevo, e hanno cominciato il loro lentissimo e inane iter per la ricerca della verità.» «È passato solo un mese, Patrick.» «Lo so, e la volenterosa Lucy, l'irritante ragazzina dei servizi sociali che dovrebbe aiutarmi a superare questo trauma orribile, non fa che dirmi che potrebbero volerci anni.» «Le hai raccontato del pagamento?» «Eh no, cazzo. Le ho detto il meno possibile.» «Non ti piace?» «Non mi piace sorbirmi lezioncine da una ventiduenne appena uscita dall'università, che ha seguito solo un paio di seminari per occuparsi di casi come questo, e non sarebbe in grado di riconoscere una vera emozione nemmeno se ce l'avesse sotto il naso.» «Solo perché è giovane?» Patrick si bloccò: «No, solo perché è stupida. Non ho bisogno di consulenza, ho bisogno di azione. E non accetto che ci vogliano anni. Voglio saperlo adesso. Sono rimasto zitto per trentanove anni, per far piacere ai miei genitori. Ora voglio fare un piacere a me stesso. Ho bisogno di sapere chi sono oltre a Patrick Freeman. Sweeney. O chi altro. E sono fritto se mi tocca aspettare altri quarant'anni per conoscere il resto della storia, cazzo.» «Non credo che ci vorrà tutto quel tempo.» Saz lo disse con più sicurezza di quanta ne provasse in realtà. «Vediamo cosa avremo trovato quando avremo esaminato tutto il resto. Probabilmente qualcosa verrà fuori.»

Rimasero in silenzio per i dieci minuti seguenti, con Saz che allungava il collo per guardare i campi oltre le siepi, poi Patrick annunciò che erano arrivati. Rallentò e svoltò nel ripido viottolo che saliva alla dimora di famiglia. Saz diede un'occhiata al lungo e tozzo edificio di pietra e vetro che avevano di fronte, e sperò vivamente per Patrick che il resto della verità fosse qualcosa che suo padre non avesse già provveduto a cancellare. E anche, al tempo stesso, di poter trovare qualcosa per Chris - e per sé. 11. Saz rimase di sasso quando Patrick l'accompagnò nello studio di suo padre. «Dio buono! Che è successo qui? Sono entrati i ladri di recente?» Patrick scosse la testa ed ebbe la decenza di mostrarsi imbarazzato: «Nessun furto. Ero un po' nervoso quando ho trovato la lettera riguardo al pagamento.» «Già, viste le condizioni di questa stanza e quelle delle mie ginocchia, ricordami di non farti mai innervosire troppo.» Saz passò in rassegna i danni che aveva di fronte. Sui ripiani degli armadietti giacevano pile di carte, le cui gradazioni dal bianco candido al giallino consunto indicavano il lasso di tempo che coprivano. Alcuni cassetti degli schedari erano completamente aperti, con carte ammuffite che spuntavano dall'antico legno scuro, altri cassetti erano socchiusi, con vecchie cartelline ributtate dentro alla rinfusa. Anche il pavimento era ricoperto della vita di Sir Gerald Freeman, sparpagliata come foglie d'autunno. Saz fece una smorfia e con un calcio mandò all'aria alcune pagine: «Le hai tentate proprio tutte, allora, vedo.» «Ho trovato la lettera e mi sono...» «Ti sei sbronzato? Hai distrutto la stanza?» Chiaramente Saz non era impressionata. Patrick offrì un'alternativa a ulteriori spiegazioni: «Che ne dici se vado a preparare la cena?» Saz spostò lo sguardo feroce dalle carte sul pavimento a Patrick che faceva il falso innocente: «E mi molli a sistemare questa roba da sola?» «Be', ho lasciato qui un po' di provviste l'ultima volta che sono venuto. E ho del salmone fresco in macchina. Quindi, se preferisci essere tu a preparare in velocità un salmone su un letto di lenticchie verdi francesi, una maionese al basilico fresco per il couscous e l'antipasto di peperoni alla gri-

glia... e forse un dessert di lamponi precoci su un tortino di pasta frolla al burro salato...?» «Hai tutta questa roba in macchina?» «No. Ho il pesce in macchina. La maggior parte del resto cresce abbastanza felicemente in giardino o è conservata nella dispensa. Si tratta di quello che nel mio ambiente chiamiamo ingredienti.» «E che nel mio ambiente chiamiamo tirarsela.» «Bene, se preferisci pensare alla cena e lasciarmi qui ad affrontare tutto questo, sarò molto felice che ci scambiamo i ruoli per un po'.» Saz, per la quale un pasto da buongustai era qualsiasi cosa cucinasse Molly, che lei solo raramente interveniva a migliorare con le sue sante manine, scosse la testa: «No, davvero, va bene così. Le lenticchie verdi non sono proprio il mio forte. E comunque, preferisco stare qui. Davvero. Brutto bastardo.» Patrick continuò a ghignare soddisfatto finché non si chiuse la porta alle spalle. Saz si mise al lavoro, ricordandosi che forse dare del bastardo al proprio cliente non era la migliore delle prassi. Nel giro di dieci minuti decise che gli avrebbe permesso di cavarsela a buon mercato. Forse Gerald Freeman considerava la sua dimora, progettata personalmente, come l'ultimo grido dell'architettura britannica nel 1972, ma purtroppo era evidente che non si era dato pena di applicare nessun criterio modernista al suo studio. Non solo il padre di Patrick non era riuscito a usare niente che assomigliasse al prosaico ordinamento cronologico o alfabetico per sistemare le pratiche nei massicci armadietti di legno che le contenevano, ma quel poco di ordine era stato completamente sconvolto dalla prima incursione di Patrick nel regno del defunto padre. Due ore dopo, la cena era quasi pronta e Saz si sentiva un po' più contenta di quando era entrata nello studio. Tutte le cartelline che Patrick non aveva buttato per terra in preda alla furia erano state riordinate negli armadietti per quanto possibile, se non in ordine cronologico o alfabetico, almeno raddrizzate e con l'intestazione sul davanti. Una volta chiusi i cassetti, Saz alla fine era riuscita a dare una scorsa alle carte sul pavimento senza sbattere la testa sull'elegante angolo di un cassetto in noce ogni volta che alzava lo sguardo. Le carte che avevano sommerso gli intrichi rossi e viola della moquette ora erano accatastate in quattro pile sulla scrivania di Sir Gerald. La prima, la più alta di tutte, copriva un periodo che andava dal lontano 1895 - gli atti legali della casa del nonno di Sir Gerald in Scozia -

fino a tutto il 1954. Saz pensava che ci sarebbero state poche probabilità di trovare qualche riferimento a Patrick più di cinque anni prima della sua nascita. La pila successiva ricopriva un arco temporale di quattro anni fino al gennaio 1959. La più piccola delle quattro conteneva le uniche sei pagine del 1959, e infine la seconda pila più alta di carte andava dal 1960 sino alla morte di Sir Gerald. Spiegò il suo metodo a Patrick. «Chiaramente non ho ancora cominciato con gli armadietti, quindi forse c'è molto di più riguardo all'anno che ci interessa, ma almeno possiamo raggiungere le cartelle camminando, invece di pattinare su quel mare di carte con la storia della tua famiglia.» Patrick annuì distrattamente, attirato dalle carte con il suo anno di nascita. «Certo, bravissima. E questa roba? C'è niente qui?» «Scusa, ma siamo appena all'inizio. Abbiamo ancora tutta una foresta amazzonica di cassetti da passare al setaccio. Stai guardando solo sei fogli di carta.» «E cosa dicono?» «Be', questo dice che tuo padre ha venduto dieci ettari della sua proprietà in Scozia alla fine del 1958. O meglio, ha cercato di concludere l'affare nel 1958, ma ci è riuscito solo nel febbraio del '59.» «Sarà sicuramente il campo da golf.» «Bene. Possiamo rimetterlo nel mucchio. Poi nel maggio 1959 ha cercato di comprare una proprietà in Francia.» «Non ci è riuscito?» «No, da quello che ho visto finora. Doveva visitare il posto in giugno, e poi di nuovo in luglio. Ma non l'ha mai fatto. A quanto pare, tua madre era "indisposta" ed è rimasta in Inghilterra tutto l'anno.» «Indisposta?» «Be', o era davvero malata o forse è un eufemismo.» «Per cosa?» «Forse era il loro modo per spargere la voce che era incinta. Tuo padre scrive al tizio della proprietà che non può muoversi perché sua moglie non può viaggiare, non può esser lasciata sola, il che implica che spera si credesse proprio quello... è un buon modo per spingere altre persone a confermare la storia.» «Magari mia madre era davvero malata.» «Forse. Si può anche trovare un modo per controllare i suoi referti medici, ma questa non è proprio la parte più importante. Quello che sappiamo è che stava succedendo qualcosa per cui tuo padre non se la sentiva di muo-

versi e lasciare il paese nel periodo intorno alla tua nascita.» «La mia presunta nascita. Non è che esista una foto di me neonato con il cordone ombelicale ancora attaccato su una copia del Times del 30 agosto 1959. E nemmeno del 3 settembre. Porca puttana!» Patrick si voltò e batté un pugno sul tavolo, evitando per un pelo di far cadere un'altra pila di carte sul pavimento. «Non so nemmeno più quanti anni ho. Per quanto ne so avrebbero potuto mentire anche sugli anni, non solo sui giorni.» Saz si era lanciata sulle carte e aveva sistemato alcune altre cose per allontanarle dalla portata della sua rabbia. «Patrick, calmati. Anche se non sappiamo davvero la data esatta, non credo che abbiano mentito di così tanto. Tu hai delle foto di te da neonato, vero?» «E cosa ci dicono i miei album di famiglia?» «Be', anche se si può mentire sugli anni quando si ha la nostra età, è ben più difficile farlo con un neonato. Possono averla fatta franca per qualche giorno, ma la gente si sarebbe certamente insospettita se fossero andati molto oltre. E secondo me l'ultima cosa che i tuoi volevano era destare qualsiasi tipo di sospetto.» «E quindi perché avrebbero mentito su tutta la faccenda?» «Perché così potevano registrarti con il loro nome. Come se fossi figlio loro. È molto probabile che il tuo compleanno cada il 30 agosto e forse sei stato registrato quel giorno dai tuoi genitori naturali, poi i Freeman ti hanno avuto, uno o due giorni dopo, e ti hanno quindi registrato in settembre.» «Ma perché mi avrebbero detto per prima la data di agosto?» «Non lo so. Cioè, in qualche modo è stato abbastanza carino da parte loro dirti l'altra data, se stavano mentendo sul certificato di nascita che avevano compilato.» «Carino? Ma che cazzo stai dicendo?» Saz scosse la testa: «Voglio solo dire che, anche se erano preparati a mentire alle autorità sulla tua data di nascita in modo da far credere alla loro storia, magari volevano che tu conoscessi la data vera. Ecco perché ti hanno detto il 30 agosto. Magari non volevano mentirti su un punto così importante.» Patrick non era dell'umore per essere rabbonito: «Già, grazie tante, se mi avessero adottato con tutti i crismi e non avessero pensato di comprarmi, non avrebbero avuto bisogno di mentire su nulla. Sembra che avessero delle strane idee su cosa è importante e cosa non lo è.» «Chiaro, ma ovviamente volevano davvero che la gente pensasse che tu

eri figlio loro. Non è razionale, ma d'altra parte io non riesco a immaginare che imbarcarsi nell'impresa di avere un figlio, soprattutto in circostanze così particolari, favorisca un pensiero costantemente sensibile e razionale.» Patrick scrollò le spalle: «Può darsi che tu abbia ragione.» Saz sorrise: «E poi la notte è giovane, ci sono ancora un sacco di altri cassetti e cartelle da affrontare, e... prima non avevi parlato di mangiare, per caso?» Patrick guardò l'orologio, ormai il salmone doveva essere cotto a puntino e il vino abbastanza fresco. Annuì: «Tempistica perfetta, c'è un couscous piuttosto allettante per cominciare, insalata di pomodori e peperoni, pane lievitato col bicarbonato...» Saz, il cui appetito spazzava via ogni possibile pensiero sul protocollo da mantenere coi clienti, lo spinse fuori dalla stanza verso il corridoio: «Patrick Sweeney, hai aspettato quarant'anni per questa verità, un'altra mezz'ora non può certo farti male.» Patrick girò intorno a Saz: «Come osi? Mezz'ora? Buon dio, donna, questa cena ha bisogno di essere assaporata, ha bisogno di tempo. E di malia.» «Va bene, come vuoi, sei tu il capo.» «No, sono lo chef. E il cliente.» Saz lo seguì nell'atrio, cosciente più che mai della sua posizione. 12. La cena durò esattamente due ore e trentanove minuti. Saz la cronometrò. Mangiò una porzione e mezza di couscous con confit di zucca dolce, un bel pezzo di salmone e una porzione enorme di dessert. Si era fatta dare da Patrick una seconda porzione di antipasto anche se lui protestava che le avrebbe rovinato l'appetito per la portata principale. Non glielo rovinò. Come spiegò a Patrick - il rapporto tra loro era diventato decisamente più amichevole dopo un pasto e un paio di bottiglie di vino: «Che senso avrebbe che torturassi il mio corpo con un eccesso di attività fisica ogni giorno se poi non ne abusassi senza pietà a mo' di risarcimento?» «Aspetta e vedrai. Alla fine ne pagherai le conseguenze.» Saz guardò il bicchiere pieno di Patrick, il suo corpo lungo e snello, il suo viso finemente scolpito, quasi privo di rughe: «Sì, giusto. Proprio come te e Katy.» «Ma noi stiamo molto attenti alla forma fisica!» «Certamente. Adesso. Ma se avessi passato i miei primi vent'anni a stonarmi di droga e alcol e a scopare a destra e a manca come Kate...»

«Anch'io non me la cavavo poi tanto male.» «È proprio quello che intendevo. Se avessi fatto tutta quella roba da ragazza...» «Attenta!» Saz ignorò la sua protesta e continuò, raccogliendo gli ultimi pezzetti di pasta frolla rimasti sul piatto di portata: «... e ciò nonostante avessi ancora un aspetto fantastico come lei adesso, non sarei qui a difendere uno stile di vita tranquillo fatto di yoga e passeggiate in campagna.» «Ma non l'hai mai fatto nemmeno per sfogare la rabbia e l'amarezza?» «Naah. Meglio la corsa, e la cioccolata. Danno il doppio delle endorfine. E il sesso, ovvio. Funziona sempre. Senti, ma vogliamo stare qui seduti a chiacchierare tutta la notte, che cavolo, o andiamo avanti col lavoro?» Patrick guardò l'ora: «Non dirai sul serio? Sono le undici e mezza, e non sono neanche sobrio!» Saz aspettò che finisse di bere un'altra lunga sorsata di vino: «Me n'ero accorta. Ma dobbiamo finire e tu devi essere al lavoro domani pomeriggio, così bisogna che ci mettiamo sotto per almeno altre due ore adesso.» «Potevi dirlo prima.» «Te l'ho detto. Mi hai detto di smetterla di fare la noiosa, accidenti, mi hai ricordato ancora una volta che sono una tua dipendente e hai continuato a farneticare sul fantastico vino australiano che stavi aprendo. Dicevi che avremmo potuto berne tutta la notte senza effetti sgradevoli. Ti ricordi?» «Ehm. Mi spiace.» «Non importa» disse Saz guardando attentamente Patrick: «Sarebbe forzare troppo le cose se insinuassi che forse hai un po' di coca con te da qualche parte?» Patrick scoppiò a ridere fragorosamente: «Ne ho mezzo grammo nel portafoglio.» «Bene. Dovrebbe bastare a tenerti sveglio per un po' e certamente mi farà andare avanti più o meno per un'altra ora.» Patrick scosse la testa con tristezza e infilò la mano nella tasca della giacca: «Sono scioccato che tu mi creda una persona di quel genere.» «Ah, non so. Secondo me poteva essere un complimento, per uno della tua età.» Per i successivi novanta minuti esaminarono le cartelle con metodo. Saz disse a Patrick di cominciare da quelle più vecchie, mentre lei affrontò quelle che partivano pressappoco dall'anno precedente la sua nascita. Pen-

sò che, anche se era improbabile che le cartelle più datate potessero gettare gran luce sulla faccenda dell'adozione, conveniva esaminarle comunque, nel caso vi fosse stato nascosto qualcosa. Intuì anche che probabilmente sarebbe stato meglio esaminare le cartelle più promettenti da sola, lasciando a lui quelle più innocue: non voleva che tutto il duro lavoro di una serata venisse rovinato se Patrick trovava qualcos'altro che non era di suo gusto e decideva di rimettere tutto a soqquadro. Per un po' lavorarono in silenzio, con Patrick che di tanto in tanto esclamava qualcosa davanti a documenti sul passato dei genitori, vecchie foto di sua madre con l'abito da debuttante, un acquerello dipinto da suo padre all'inizio dell'università, una severa lettera di suo nonno paterno indirizzata a un bambino confuso, mandato via da casa alla tenera età di sette anni e che, a quanto sembrava, non sapeva quando avrebbe potuto tornarci. «Dio, quant'era bastardo.» «Chi, tuo nonno?» «Quel vecchio coglione pieno di boria.» «Era terribile quando eri piccolo?» «No, per niente. Era meraviglioso con me. Eppure, questo...» Saz rimescolò alcune carte innocenti e le rimise nelle cartelle. «Sì?» «Be', in questa lettera proprio non capisce. Mio padre ovviamente è sconvolto per qualcosa: aveva solo sette anni, era la prima volta che si trovava lontano da casa, eppure tutto ciò che quel vecchio idiota riesce a dirgli come risposta è: "Ti farà bene, figliolo". Fargli bene? Cristo!» «A che anno risale la lettera?» «1929.» «Be', appunto. Non puoi giudicare tuo nonno secondo i tuoi standard. A quell'epoca tutti mandavano a scuola i figli lontano da casa. Era normale per la gente del tuo rango.» «Non è possibile che sia mai stato normale mandare un bambino di sette anni da solo lontano da casa.» «Non l'hanno fatto i tuoi genitori?» «No. Almeno, non prima che compissi quattordici anni, e anche allora sono stato io a chiedere di andarmene.» «Hai chiesto di andare in collegio?» «Inizialmente, quando mia madre morì, non volevo andarmene da casa. Non volevo lasciare solo mio padre. Mi sentivo responsabile nei suoi confronti. Penso che sia rimasto davvero colpito quando alla fine gli chiesi se potevo andarmene.»

«Cosa ti fece cambiare idea?» «Tom Dunsford andava a Charterhouse. Non sembrava male.» «Ti piaceva lui?» «Forse un po'. Ma non era proprio questo il punto.» «E cosa, allora?» «Riusciva a procurarsi l'erba molto più facilmente di me, accidenti. Così partii. Certo, una volta lì mi resi conto che non sopportavo di stare lontano da casa, ma ormai era troppo tardi, non potevo tornare indietro dopo avere fatto tutto quel casino per andarci. Questo è il problema di quando si prendono decisioni importanti a quattordici anni, non hai modo di sapere se siano ragionevoli o meno.» «No, questo è il problema di quando si prendono decisioni importanti a qualsiasi età.» Continuarono a lavorare in silenzio ancora per qualche minuto, poi Saz aggiunse: «Sono contenta che tuo padre non abbia voluto mandarti a scuola lontano da casa.» Patrick sollevò lo sguardo da un fascio di carte risalenti agli anni in cui suo padre andava all'università. «Perché?» «Be', dopo tutte le difficoltà che hanno dovuto affrontare per averti.» «Non sappiamo se ci sono state difficoltà.» «Patrick, i grandi segreti comportano sempre qualche tipo di difficoltà: è proprio bello che, una volta riusciti ad averti, abbiano voluto tenerti a vivere con loro. Non hanno fatto come tutte le persone del loro giro, non ti hanno tolto di mezzo facendoti allevare da persone estranee.» «Sì. Bello.» Patrick si fermò, diede un'occhiata alla stanza e poi al suo orologio. «Mi spiace Saz, sono davvero troppo stanco. E a dire il vero, trovo difficile affrontare tutto questo. Non me la sento di esaminare 'sta roba. È stato bello ricordare che mi hanno voluto, che si sono presi cura di me. Il problema è...» A questo punto Patrick balbettò un po', poi si espresse con esitazione. Saz gli fece cenno di continuare appena ci fosse riuscito. «È davvero un po' troppo. Sono riuscito a ignorare la morte di mio padre, nell'ultimo mese o poco più. Era più facile essere furioso con lui dopo la scoperta della lettera di Leyton, e adesso guardare tutta questa roba mi ha fatto ricordare. Il vecchio è morto.» Patrick scosse la testa: «Negli ultimi anni, dopo che aveva accettato le mie scelte di vita, eravamo diventati buoni amici. Mi manca.» «Lo so, è ovvio che ti manca.»

Anche se Saz non era sicura che Patrick fosse disposto a farsi consolare da lei, non seppe fare a meno di offrirsi. Superò vari mucchi di carte per abbracciare Patrick, e con sollievo vide che lui le permetteva di toccarlo, mentre il corpo snello gli tremava leggermente per le emozioni represse. «Mi spiace, Patrick, avrei dovuto prevedere quanto questo ti avrebbe scosso. Vai a letto.» «No, dobbiamo esaminare tutte queste cose.» «Sì, ma non mezzi sbronzi alle due del mattino. Su, finisco solo il cassetto che ho iniziato e poi vado a letto anch'io. Ho fatto davvero il pieno di scartoffie per questa notte.» Patrick non aveva un gran bisogno di essere convinto. Si diresse verso la porta, girandosi verso Saz mentre usciva dalla stanza: «Grazie, apprezzo il tuo aiuto. Buona notte.» Saz annuì e poi, una volta che fu uscito dalla stanza, se la prese con se stessa, ammettendo con aria colpevole che, fino a quando lui non era davvero crollato, il pensiero del suo dolore non le era balenato nemmeno una volta nella testa. Continuò a lavorare, decidendo di essere un po' più sensibile al lutto di Patrick in futuro. Un'ora più tardi Saz si ritirò nella camera degli ospiti rosa sgargiante, piuttosto confusa ma anche esultante e felice. Aveva relegato in fondo ai suoi pensieri tutti i rimorsi per essersi comportata in modo insensibile. Aveva fatto bene a insistere per continuare la ricerca, aveva fatto bene a cominciare all'ora in cui avevano cominciato, e aveva fatto bene anche a esaminare lei stessa i documenti dall'anno della nascita di Patrick in poi. La lunga notte era stata proficua. Sul retro di una cartellina, che stava quasi per mettere da parte solo perché sembrava troppo noiosa per aprirla, aveva trovato un'altra lettera di Richard Leyton. Che era molto scontento dei Freeman. Non gli piaceva il loro atteggiamento e non voleva soddisfare le numerose e insistenti richieste che gli avevano fatto negli ultimi tempi ma, solo perché il medico di Patrick chiedeva di conoscere la sua anamnesi completa, era disposto ad allegare un brevissimo resoconto sulle condizioni di salute della madre naturale di Patrick. Saz andò alla pagina allegata. L'intestazione riportava un indirizzo privato a St. Ives. Il dottor Samuel Lees affermava che, a quanto gli constava, in passato Lillian Hope non aveva sofferto di alcuna forma di malattia artritica congenita, e non ne soffriva attualmente. Se al giovane Patrick era stata diagnosticata quella malattia dal suo attuale medico di base, il dottor Lees

raccomandava caldamente ai Freeman di chiedere un altro consulto. Data l'anamnesi della madre, risultava estremamente improbabile che a Patrick fosse stata fatta la diagnosi giusta. Su un foglio di carta allegato, Richard Leyton inoltre consigliava ai Freeman di rivolgersi a un nuovo avvocato, se intendevano avanzare nuovamente richieste eccessive di quel genere. Non concludeva la lettera con i suoi saluti più cordiali. 13. Patrick si strofinò di nuovo gli occhi, rigirando con forza i pugni nelle orbite asciutte, cercando così di eliminare la spossatezza e capire meglio. Non funzionò. Si portò le mani agli occhi per la sedicesima volta e il rumore della pelle che si sfregava sui bulbi oculari sempre meno lubrificati fece trasalire Saz. Per lei i rumori corporali più schifosi erano molto più sgradevoli dello stridere di unghie lunghissime su una lavagna polverosa. «Vuoi smetterla, per favore?» «Mi aiuta a concentrarmi.» «Sì, be', e a me aiuta a vomitare. Patrick, hai gli occhi iniettati di sangue e adesso te li sei fatti diventare gonfissimi. Sembri allergico a te stesso. Com'è possibile che questo ti aiuti a concentrarti?» Patrick sogghignò: «Sì, in effetti fa andare su tutte le furie anche Katy.» Erano tornati in cucina, dove la luce, filtrata dalle enormi finestre, entrava dal giardino fin troppo protetto. Saz era andata a letto dopo avere rimesso con attenzione la lettera sul comodino con sopra la bottiglia di whisky ormai vuota. Si era tenuta vicino la lettera perché aveva il terrore irrazionale che, ora che aveva trovato un indizio per Patrick, potesse sparire prima del sorgere del nuovo giorno, nonostante il rinomato sistema di sicurezza della proprietà. Dormì profondamente per quattro ore e mezza, poi si alzò rammaricandosi di non avere la minima idea di come spegnere l'imponente sistema di sicurezza e, quindi, di non poter entrare in quel bel giardino per fare la sua corsa mattutina. Saz era nervosa per la mancanza di sonno e di esercizio fisico. Patrick era in down per l'eccesso di coca, era in preda a terribili postumi di sbronza, e aveva avuto un padre di cui non sapeva più cosa pensare. Non erano certo i compagni di colazione più allegri che ci si potesse immaginare. «Ma, Patrick, potrebbe essere magnifico. Abbiamo il nome della tua madre naturale.» «Sì, e lo sappiamo da Leyton. Un uomo che molto probabilmente ha or-

ganizzato la mia vendita quando ero appena nato, un uomo che ho frequentato per gran parte della mia vita, che ha chiaramente incoraggiato i miei genitori a mentirmi, e quindi cosa ti fa pensare che ci possiamo fidare di un nome fornito da lui?» Saz emise un gemito acuto di esasperazione. «Non possiamo fidarci ancora di niente, ma almeno adesso abbiamo qualcosa da cui partire.» Patrick rigirò ancora una volta la lettera tra le mani, poi la mise giù e preparò ancora un po' di caffè scuro tostato: «Abbiamo solo una montagna di "forse" del cazzo.» «Perciò facciamo delle ricerche sulla tua madre naturale, e vediamo dove ci portano.» «Ipotizzando che sia vero quello che è scritto qui.» «Sì, certo, si ipotizzano un sacco di cose, è così che funziona. Facciamo ipotesi e poi vediamo se risultano vere o false. Quasi come nella vita vera.» «A me sembra che succeda solo nella mia cazzo di vita vera.» Saz sospirò. Era furiosa con se stessa per avere permesso a Patrick di bere così tanto la notte precedente ed era fuori di sé perché ogni volta che iniziava a pensare di sapere come comportarsi con Patrick, la collera di lui o la propria mancanza di tatto - li riportava al punto di partenza. O peggio. Adesso che avevano un nome, poteva iniziare la ricerca vera e propria. Avrebbe fatto lavorare Gary sull'identità della madre. Almeno avrebbero saputo se era mai esistita una Lillian Hope. Il metodo graduale per scoprire la verità era piuttosto elementare. Persino Saz, stanca com'era, non poteva incasinarsi e sbagliare. Quello che non sapeva era come affrontare Mister Scontroso. Erano le dieci e mezza, non avevano ancora fatto niente da quando aveva detto a Patrick della lettera un'ora prima, e restavano solo tre ore prima che lui dovesse tornare a Londra per andare al lavoro. Aveva sentito che l'unico modo per ottenere una risposta da Patrick quando era in preda alle sue famose paturnie era semplicemente ignorare le sue bizze e lasciarlo perdere. Consapevole di ciò che presto le sarebbe toccato, gli anni di fiato sospeso e di panico da carrello del supermercato che le si paravano davanti, Saz pensò che fosse ora di fare un po' di pratica come madre. Decise di provare col senso di colpa. «Va bene, Patrick. Fai quello che vuoi. Puoi stare seduto qui a lamentarti che tutto è una merda e, credimi, sono d'accordo con te, la posizione in cui ti trovi è davvero angosciante, che cazzo. Ma lamentarsi non aiuta. Non

oggi, e probabilmente mai. Dio solo sa quanto considero giusto il tuo dolore, ma in realtà non ha alcun rapporto con quello che stiamo provando a fare adesso. Oggi non abbiamo molto tempo e, anche se possiamo tornare qui di nuovo se necessario, sono certa che tu, e anch'io, del resto, in realtà preferisci ritornare a Londra pensando di avere fatto qualche progresso, invece di perdere tempo senza far niente, a parte deprimersi. Ora io ritorno nello studio per esaminare altre carte. Con la speranza di trovare qualcosa che possa farci fare altri progressi. Sicché tu hai due alternative. Puoi stare lì seduto tutta la mattina a compiangerti, oppure puoi venire con me a fare qualcosa per risolvere 'sto casino. Cosa preferisci?» Saz si fermò sulla soglia e si girò a guardarlo. Patrick si alzò e si lanciò verso di lei. Per un attimo si chiese se stesse per darle un ceffone in faccia. Le afferrò la mano, con forza. Poi si fermò, allentò la presa, piegò la testa, le baciò la mano e la seguì docilmente nello studio del padre. E sottovoce mormorò anche: «Tu e le tue prediche del cazzo.» Quando Patrick chiuse a tripla mandata la casa e partirono per Londra, avevano già esaminato metodicamente altri cinque schedari e c'erano un bel po' di nuove possibilità che Saz portò a casa con sé. Avevano una pila sottile di cartelle cliniche di Eva Freeman che probabilmente avrebbero potuto gettare un po' di luce su quello a cui si riferiva Sir Gerald accennando a una malattia della moglie nell'anno della nascita di Patrick. Saz fu lieta di notare che il medico da cui lei era in cura allora era lo stesso uomo che, stando a Leyton, aveva affermato che Lillian Hope era perfettamente sana. Chiaramente quel dottor Lees era una sorta di anello nella catena dell'adozione - Saz prese nota mentalmente di cercare il modo di controllare anche le cartelle cliniche della madre di Chris. C'era anche un'altra lettera che decise di portare a Londra con sé, in cui Richard Leyton chiedeva a Gerald Freeman di parlare con un altro dei suoi clienti. Secondo l'interpretazione del gergo legale che dava Saz, sembrava che Leyton chiedesse delle referenze al padre di Patrick. Patrick non conosceva il Jonathan Godwin a cui si faceva riferimento nella lettera, ma, come osservò, credeva di non conoscere nemmeno i Marquand. Forse Leyton stava solo richiedendo un elogio delle sue grandi capacità notarili. Tuttavia Saz sperava in qualcosa di meglio. Insieme alla pila di carte risalenti all'incirca al periodo in cui Patrick era nato, Saz se ne stava portando a casa anche una serie un po' più delicata, fondamentalmente tutto ciò che recava la scritta «Personale» o «Strettamente riservato». Ottenne da Patrick il permesso di esaminare questo

gruppo di carte, anche se lui le chiese di fare attenzione. «Voglio sapere dei miei genitori. Ma se aprendo una di quelle carte scopri che si tratta di lettere d'amore dell'amante di mio padre...» «Aveva un'amante?» «Più di una, stando alle rubriche di cronaca rosa. Quella è roba che non mi interessa.» «Sei sicuro?» «Assolutamente. Ho il diritto di sapere ciò che mi riguarda, a prescindere da quel che volevano loro. Ma ci sono anche cose che lui aveva il diritto di tenere segrete. Se avesse voluto che sapessi delle sue amanti o di altri segreti, me lo avrebbe detto lui.» Saz si trattenne dal fargli notare che lo stesso ragionamento si poteva applicare in primo luogo all'adozione - non pensò fosse il caso di farlo mentre Patrick guidava a più di centodieci all'ora lungo un viottolo di campagna molto stretto. Tuttavia, era contenta di aver tenuto da parte le due lettere rosa pallido che aveva trovato in mezzo a documenti di viaggio, pensando di leggerle con attenzione in assenza di Patrick. Non si poteva mai sapere. Il suo ragionamento, però, aveva a che fare poco con Patrick o la suscettibilità del padre, ma piuttosto con la sua convinzione che un segreto personale poteva suggerire qualcosa di più riguardo ad altri. Annuì e chiese: «C'è qualcos'altro che non ti interessa?» «Mio padre era un uomo di successo, sicuramente ci sono affari rischiosi di cui non voleva che si sapesse. Naturalmente, tutte le cose di quel genere dovrebbero trovarsi nelle cartelline private. Mi affido alla tua discrezione.» Saz si accigliò, chiedendosi dove tracciare la linea tra ciò che si poteva dire tranquillamente a Patrick e ciò che gli avrebbe fatto scatenare un altro attacco di collera: «E per quali ragioni non vuoi sapere?» Patrick alzò le spalle, frenò di colpo e sbandò in un sentiero laterale per evitare un trattore che stava arrivando a una velocità quasi pari alla loro. «Coglione!» gridò nello specchietto retrovisore e poi ripartì, senza segni di inquietudine e, di sicuro, senza rallentare fino a una velocità più consona a una strada tutta curve. «Semplicemente non voglio sapere altra roba. Se scopri cose che riguardano i miei genitori naturali, allora dimmele. Ma quanto al resto...» Patrick prese uno svincolo e si infilò in autostrada, attraversando con abilità le due corsie di traffico lento per piazzarsi nella corsia di sorpasso e sfrecciare a una velocità costante di centocinquanta all'ora: «Ho riavuto mio padre solamente negli ultimi anni. Stavamo diventando davvero amici. Non voglio

perdere tutto. Certo, ora che sono padre anch'io, ho una visione molto diversa della mia infanzia. Non voglio perdere altro.» Saz annuì, comprendendo, sebbene non fosse completamente d'accordo, il suo desiderio di rimanere aggrappato a una sorta di visione rosea del suo passato. «Okay, va bene. Farò del mio meglio.» Chiuse gli occhi e si adagiò sul sedile per ascoltare i Pulp che uscivano a tutto volume dalle casse collocate nei punti strategici. Jarvis cantava di padri e figli e Saz capì che stava attraversando un territorio alieno. 14. Sara sognava un enorme edificio di mattoni rossi, con finestre da cui non entrava nessuna luce. Lunghi e ossessionanti corridoi scuri di epoca edoardiana, che la opprimevano e la perseguitavano. Pesanti ombre che incombevano, illuminate due volte da un sole intenso e abbagliante e dalla luce dei suoi occhi chiusi. Guardando attraverso la propria pelle, Sara vedeva ogni cosa color carne, di un rosso sangue e non rosa. Fuori era piena estate, il mondo al di là dei mattoni rossi era caliginoso e sudato, passava al rallentatore accanto a quell'edificio, avanzando a fatica sotto il giogo di giugno e poi luglio e poi agosto e ancora la pioggia non arrivava. Ondate di calore denso si scioglievano dal marciapiede verso il cielo, poi ricadevano ancora più grevi sui passanti. Che girovagavano incespicando. Sara non passeggiava per la strada. Sara si trovava ben dentro quelle spesse mura. Dentro c'erano sentieri imbiancati a calce, tende che si muovevano senza vento. Dentro, era congelata. Sara non era sola. Erano in parecchi lì dentro, dovevano essere molti, Sara non teneva gli occhi aperti abbastanza a lungo per contare quelli che le stavano attorno, sentire la vicinanza della loro pelle le bastava. Disadattati, asociali, inadatti. Non c'era la soddisfazione dell'oscurità, nessun riparo, solo la luce costante che nutriva cose in crescita, e si nutriva di cose in crescita. La luce fredda dell'interrogatorio, blu e accecante. Sara teneva gli occhi ben chiusi. Avrebbe dormito se avesse potuto, dormiva ogni volta che poteva. Rispondeva alle loro domande, e stava nei binari, e tornava a essere una brava ragazza, imparava a essere una ragazza tranquilla. Ma non riusciva a fare la faccia da ragazza felice. L'estate torrida aveva zittito la felicità, l'aveva rallentata fino a farle prendere la sua stessa pulsazione, con la bocca spalancata e la testa gettata all'indietro in una risata silenziosa, l'immagine fissa

nella smorfia di un urlo. Sara era come una sonnambula che sprofondava nell'inverno. 15. Saz passò il pomeriggio al telefono. Lasciò un messaggio a Chris chiedendogli se poteva avere in qualche modo le cartelle cliniche di sua madre - in particolare quelle risalenti più o meno al periodo in cui lui era nato. Lasciò un altro messaggio a Carrie chiedendole se avesse mai sentito parlare di un tale Jonathan Godwin e poi, quando Gary rispose al telefono, fu ben lieta di poter parlare con lui invece che con una segreteria telefonica. Gli diede la bella notizia su Lillian Hope. Gary fu meno entusiasta di quanto si sarebbe aspettata. «Non è assolutamente certo che quel dottor Lees abbia dato il vero nome della madre, Saz.» «No ma, diamine, non ha moltissime ragioni per mentire. È una lettera strettamente personale mandata all'unica altra persona che era a conoscenza della vendita del neonato.» «Comunque non significa niente.» Il brontolio di Saz arrivò fino all'altro capo del telefono: «Gary, è tutto quello che abbiamo trovato finora, dannazione. Non c'è il benché minimo progresso riguardo ai genitori naturali di Chris e questa via traversa è quella che finora ci va più vicino. Forse si tratta del vero nome della madre naturale, forse il dottore non mentiva su di lei...» «Forse non è morta e sepolta. Ci sono un sacco di forse.» «Sì, ma nessuno di questi forse è poi così inverosimile. Si tratta solo di scoprirlo, lo farai? Per favore? Almeno sai in che parte del paese cercare.» «Probabilmente si è trasferita molto tempo fa.» «Tu non l'hai fatto. Abiti a solo cinque strade di distanza dalla casa dei tuoi genitori.» «A venti minuti abbondanti, veramente. In una città completamente diversa.» «Quello che voglio dire è che avresti potuto trasferirti a Londra, ma non l'hai fatto. Ti sei semplicemente trasferito a un tiro di sputo. Forse anche lei vive ancora in mezzo alla campagna.» «Gillingham non è certo campagna.» «Lo era l'ultima volta che l'ho vista.» «E cosa devo fare con questo Jonathan Godwin?»

«Non so. Cercalo in qualche banca dati o roba del genere. Dimmi cosa scopri.» «Cercarlo in una banca dati? Saz, hai delle idee molte strane su come svolgo il mio lavoro.» «Certo, Gary, ma credimi, non mi interessa sapere di più della tua vita d'ufficio. Sono felicissima di andare dall'altra parte di Londra per venirti a trovare in tutti i teatrini d'avanguardia della città, accidenti. E poi di discutere per tre ore sulla complessità del tuo personaggio. O sul fatto che devi proprio trovarti un agente migliore. E di quanto è dura provare a fare gli artisti in questo mondo spietato. Sai che sono disposta a sostenerti in quella parte del tuo lavoro. Lo sai che l'ho sempre fatto.» Gary concordò a malincuore con l'analisi di Saz sull'altra sua carriera: «Sì?» «Ma in realtà, per quanto riguarda il lavoro con cui ti mantieni, non mi serve sapere come funziona, non mi importa. Mi interessano solo i risultati.» «Stronzetta opportunista.» «Fino al midollo. Chiamami quando sai qualcosa e ti farò un regalino. Ciao.» Saz mise sul fuoco un'altra caffettiera mangiandosi nel frattempo mezza tavoletta di cioccolata amara Hobnobs mentre sfogliava l'elenco del telefono; le venne un colpo vedendo quante pagine di J. Godwin c'erano. Stava giusto per immergersi nella pila di carte di Gerald Freeman, davanti a una tazza di caffè forte, quando il telefono squillò. Sperando che fosse Gary che la richiamava già con qualche buona notizia, rispose direttamente invece di far prendere la telefonata dalla segreteria telefonica. Grande errore. Per i successivi quaranta minuti Saz stette ad ascoltare la sua vecchia amica Judith mentre lanciava improperi contro la sua ancora più vecchia amica Helen - ora ex di Judith. Naturalmente, lo sfogo che era iniziato contro la nuova ragazza di Helen finì con Judith che si lamentava di non riuscire a riconquistare Helen e del suo strazio al pensiero che avrebbero passato il resto della vita lontane. Anche se Helen era una stronza infedele, senza cuore e disonesta. Saz riuscì a pronunciare alcune parole insignificanti e per il resto si accontentò di sfogliare le pagine di fronte a lei facendo meno rumore possibile, in modo che Judith non la sentisse. Cosa che non poté fare quando, dieci minuti dopo che Judith finalmente aveva messo giù la cornetta, spuntò Helen per "bere un caffè veloce". Il caffè si trasformò in

whisky e lacrime, e Helen era ancora lì quando Molly tornò a casa dal lavoro alle sette, si fermò a cena, bevve due bottiglie di vino e tre bicchieri pieni di brandy. Evidentemente la sua nuova storia non andava poi tanto bene. All'una di notte, quando Helen alla fine si lasciò cadere sul sedile di un taxi in attesa e Molly se ne andò a letto barcollando, Saz tirò fuori le lettere d'amore che aveva iniziato a esaminare mentre era al telefono con Judith. Erano scritte entrambe con inchiostro viola su carta rosa pallido, una carta così sottile da sembrare quasi carta velina, erano indirizzate all'«amatissimo Gerry» e firmate con un turbine di baci sparsi dalla «carissima Sukie». Entrambe le lettere traboccavano di sentimentalismo svenevole inframmezzato da riferimenti sessuali spiacevolmente leziosi. Nessuna delle due missive rosa pallido era datata, tuttavia una nominava il figlio di Gerald, e poiché erano ovviamente testimonianze di una tresca, dovevano risalire a prima della morte della madre di Patrick. La seconda lettera era un po' più specifica. In basso, nell'ultima pagina, in gran parte dedicata ai ricordi dei loro ultimi «deliziosi abbracci», la carissima Sukie rivelava all'amatissimo Gerry il proprio vero carattere. E non sembrava particolarmente rosa e soffice. Nell'angolo a destra in fondo alla pagina era scarabocchiata una postilla: «Desidero così tanto averti tutto per me, caro Gerry. A volte mi trovo davvero a pregare che la sua malattia ritorni, una volta per tutte. Voglio che si tolga di mezzo. Non sono cattiva?» Saz rimise la lettera in cima al mucchio. La madre di Patrick aveva avuto un cancro quando lui aveva nove anni, poi si era ripresa fino al secondo attacco che l'aveva uccisa, lentamente, nei due anni prima che Patrick ne compisse quattordici. Così Sukie doveva avere avuto una relazione con Gerald Freeman tra il 1968 e il 1973. Chiunque sapesse manovrare bene il proprio amante come faceva lei in quelle lettere doveva avere scoperto un po' della verità. E Patrick aveva detto che le cronache rosa avevano nominato spesso le amanti di Sir Gerald, per cui Saz non doveva fare altro che controllare attentamente le pagine mondane di quegli anni fino a scoprire chi era questa Sukie. Poi sarebbe andata a parlare con lei. La protagonista di una storiella su carta da lettere rosa del periodo dell'estate dell'amore, quando gli spinelli giravano liberamente, non doveva essere troppo difficile da trovare. A meno che, naturalmente, la donna non si fosse rifatta dalla testa ai piedi e adesso vivesse felice a Kensington. Gestendo una catena multinazionale di negozi. O un bordello di lusso. O il governo.

Quando Saz entrò nel letto ormai dopo le due di notte si domandò se fosse giusto svegliare la sua compagna incinta per fare del sesso nel bel mezzo della notte. O per i "bacini e coccole", come li chiamava Sukie. Ma la serata con Helen le aveva sfinite entrambe e il pensiero di questa Sukie e di Gerald Freeman che ci davano dentro a suon di "bacini e coccole" le aveva fatto passare la voglia. Scivolò tra le lenzuola, invece, strisciando lungo il materasso matrimoniale in direzione di Molly, che era coricata proprio sul bordo. C'era sempre la possibilità che potesse cadere per terra nel sonno, ma Saz non sapeva se le fosse mai successo. Abbracciò la schiena calda di Molly, le fece scivolare un braccio sotto il suo per accarezzare il ventre appena arrotondato e immaginò di poterle entrare dentro, per abbracciare il bambino addormentato, che stava raggomitolato dentro sua madre, raggomitolato dentro sua madre. Saz si svegliò con Molly alle sei e mezza quando vennero entrambe sorprese da un forte attacco di nausea mattutina, che aveva tutta l'aria di potersi prolungare in modo irritante fino al primo pomeriggio. Occuparsi di una Molly sempre più depressa per Saz non significava solo rinunciare per un altro giorno di fila alla sua corsa giornaliera, ma anche che era costretta a rimandare le sue ricerche su Sukie e le sue domande per Gary a più tardi, quando Molly, finalmente liberatasi della nausea, fosse andata al lavoro. Ma non prima di aver mostrato alla sua ragazza le cartelle cliniche della madre di Patrick che aveva trovato. «E tu vorresti che io decifrassi questo mucchio di carte per te?» Saz ci andò piano: «Te ne sarei veramente grata.» «La specializzazione in medicina non insegna come leggere annotazioni relative a un caso di quarant'anni prima che riguarda estranei deceduti da tempo» Molly guardò attentamente le pagine, «scritte in una calligrafia assolutamente raccapricciante.» «Lo so. Ma sarebbe utile capire se la madre di Patrick era veramente ammalata in quel periodo, o se era la storia di facciata per non far sapere che non era incinta.» «E suppongo che sarebbe utile scoprire che non riusciva proprio a restare incinta, vero?» «Forse. Comunque, sarebbe un'ulteriore conferma dei nostri sospetti.» «È al limite della moralità, piccola.» «Aha. Neppure comprare il proprio figlio e poi mentirgli per tutta la vita è un comportamento particolarmente esemplare.»

«È vero. Va bene, darò un'occhiata e vedrò cosa posso fare.» «E se riuscissi a scoprire qualcosa anche su questo dottor Lees?» «Anche lui.» Molly uscì per andare al lavoro e Saz guardò la sua testa che percorreva la strada verso la metropolitana, una donna alta e snella che camminava nel sole splendente, solo un po' di tensione delle spalle irrigidite a indicare la sua stanchezza, la sua diversità di quest'estate rispetto alla precedente. Saz e Molly erano entrambe preoccupate per quella nausea. Anche se almeno due delle loro amiche avevano sofferto di nausea per tutta la durata della gravidanza, e avevano sentito storie di tutti i tipi sul fatto che ogni gravidanza è un caso a sé, la nausea di Molly quella mattina le aveva sconcertate entrambe. Il suo caso era già lungi dall'essere tipico e qualsiasi cosa minimamente insolita le preoccupava. Si preoccupavano, ma lo nascondevano agli altri per non spaventarli. E spesso l'ansia inespressa si trasformava fin troppo facilmente in fastidiosa irascibilità. Entrambe ci andavano con i piedi di piombo. Quando Saz si rimise finalmente al lavoro era troppo tardi per concludere granché riguardo a Sukie, e dovette accontentarsi di prendere appuntamento in biblioteca per le dieci del mattino seguente per esaminare vecchi ritagli di giornale. A quanto pareva, il sonno avrebbe dovuto attendere il fine settimana. Ebbe più fortuna con Gary, perché almeno riuscì a parlargli di persona; però, anche se lo stava allettando con offerte eccezionali, il pomeriggio precedente non aveva avuto abbastanza tempo per fare alcunché e, inoltre, le disse che era molto occupato e per almeno un altro giorno non avrebbe potuto dedicarsi ad attività esterne. O aveva davvero troppi decessi da registrare, o il suo disprezzo per il teatro "commerciale" significava che i posti in prima galleria per l'ultimissimo trionfo di un attore hollywoodiano nel West End che gli offriva Saz non erano proprio così irresistibili come lei aveva sperato. E, inoltre, forse sapeva che lei non diceva la verità su quei biglietti. Saz, infastidita per la mancanza di progressi, si costrinse a sedersi per esaminare un paio di scatole piene di carte. Qualche ora più tardi sapeva molto di più di quanto avrebbe mai voluto sull'acquisto di terreni in Francia, Scozia e Spagna meridionale. Sapeva che Gerald Freeman aveva pensato che il mondo gli fosse crollato addosso alla morte della moglie - e che per un po' di tempo, soprattutto rispetto agli affari, sembrava davvero che lo fosse. Sapeva che qualche anno dopo si era ripreso e aveva guidato la

sua società negli aggressivi anni Ottanta con estrema energia. Sapeva che aveva avuto diversi diverbi con vari azionisti e consiglieri - tra questi il più importante era Richard Leyton - riguardo alla diversificazione della sua azienda alla fine degli anni Settanta. Non tutti si erano resi conto come Sir Gerald del potenziale di espansione dell'industria plastica. Persino, e Patrick qui aveva visto giusto, delle sue potenzialità nel commercio delle armi. Saz era contenta di non dover riferire di alcuna trattativa in merito. Però scoprì una cosa su cui Sir Gerald e il suo avvocato erano completamente d'accordo: la necessità di tenere completamente segreta l'adozione di Patrick. Saz iniziava a sospettare che Richard Leyton avesse il controllo della situazione più di Gerald Freeman. Trovò sei lettere diverse riguardo a una serie di preoccupazioni, dai lenti progressi scolastici di Patrick alla malattia artritica di cui aveva sofferto nella prima adolescenza. Secondo Gerald Freeman, Patrick sarebbe stato curato in modo più efficace se il suo medico avesse avuto accesso alla sua anamnesi completa. Era l'avvocato, però, quello che stabiliva quante informazioni potevano essere trasmesse. E, a quanto riferivano tutte le lettere, quello che si poteva trasmettere era un bel niente di niente. Almeno niente di più della dichiarazione iniziale del dottor Lees secondo cui Lillian Hope era del tutto sana al momento della nascita del figlio. Saz non sapeva molto di più circa l'adozione di Patrick, ma sapeva una volta per tutte di volerne parlare seriamente con Georgina Leyton non appena possibile. Non importava quanto fosse stata improvvisa la scomparsa di suo padre: se lei aveva restituito tutte quelle carte a Freeman, doveva prima aver provato a esaminare il suo caso. E se non l'aveva fatto, allora Saz le avrebbe semplicemente chiesto di provarci. Non era disposta a farsi snobbare un'altra volta. Saz stava giusto pensando che forse una corsa nel tardo pomeriggio poteva compensare quella che non era riuscita a fare la mattina presto, quando squillò il telefono. Era Carrie: «Sai quel tipo di cui mi hai chiesto? Jonathan Godwin?» «L'uomo di cui ti ho parlato in stretta confidenza, Carrie, sì. Nel caso avessi sentito dire qualcosa. Non perché lo gridassi ai quattro venti.» «Be', ero sicura di aver già sentito quel nome.» «Non gli hai detto niente, vero?» «Fidati di me, Saz, non sono proprio imprudente come ti piacerebbe pensare.» Saz si accontentò di una risatina e chiese a Carrie cosa volesse. Carrie voleva portarla a ballare.

16. Il ragionamento di Carrie era quantomeno vago. Voleva che Saz uscisse con lei quella sera perché pensava che un tizio, che in qualche modo conosceva e che gestiva un locale non lontano da casa sua, si chiamasse Godwin. Luke Godwin. E che forse veniva da una famiglia benestante. Era un programma non particolarmente preciso e, a parere di Saz, nemmeno molto allettante. Così chiamò Helen. «Come va la testa?» «Malissimo, cavolo. Mi spiace per ieri sera.» «È tutto a posto, Hells, qualsiasi cosa pur di aiutarti; sai, io e Molly siamo veramente preoccupate per te da quando vi siete lasciate. Davvero, credimi, ieri sera non avevamo affatto bisogno di riposare e io non ero in piedi da ore e non avevo montagne di lavoro da smaltire.» «Saz, hai un tono ambiguo, come una che ha bisogno di un favore.» «Helen, hai un tono ambiguo, come una che me lo deve.» Un'ora più tardi Helen la richiamò e le disse che il proprietario del Bar Rage era un certo Luke Godwin. «Prima organizzava serate gay nei pub di Londra Ovest, poi ha comprato questo vecchio pub a Brixton e l'ha tutto rifatto.» «Così è un locale gay?» «No, Saz, è un locale incredibilmente alla moda, aperto a tutti. Suppongo tu non ci sia stata.» «Perché, tu sì?» «Io e Alex siamo andate lì una volta all'inizio, quando ci stavamo per mettere assieme.» «Quando stavi ancora con Judith?» «Sì, era un posto dove sapevo non sarebbe mai andata. È molto grande. E molto rumoroso. E molto giovanile. A Jude farebbe schifo.» Saz riportò in fretta la conversazione sull'argomento prima che Helen si lanciasse in un nuovo delirio su Judith - che si trattasse di discorsi negativi da ex ragazza o di un leggermente più positivo «non sapevo cosa avevo per le mani finché non l'ho perso»; non aveva tempo, c'erano troppe altre cose da portare avanti. Per non parlare del fatto che non aveva assolutamente voglia di farsi coinvolgere ancora nella vecchia storia della sua amica. «Sì, ma Helen, non posso perdere tutta la serata in quel locale solo per-

ché il proprietario ha lo stesso cognome di uno che è nominato in una lettera a Gerald Freeman.» «No, stupida, non mi sarei presa la briga di chiamarti se no. Penso sia suo figlio. O almeno il Luke Godwin proprietario di quel locale è figlio di un Jonathan Godwin. Forse il tuo, forse no. Tuttavia è possibile. Il padre di Luke Godwin ha investito del denaro nel locale e dev'essere ricco sfondato, che cavolo, perché è un bel salto passare dall'organizzare delle serate un paio di volte alla settimana all'essere proprietario di un locale. Penso che valga la pena provare con lui, e Jonathan Godwin ha più o meno la stessa età dei genitori di Chris.» «Credo di sì, è che pensare di chiedere a un perfetto estraneo se è stato adottato mi sembra un po' eccessivo.» «Fallo fare a Carrie. È brava nelle cose eccessive.» «Già, hai ragione.» «Comunque, non ho altro per te. Torno al mio vero lavoro ora. Ah, Saz, aspetta...» Saz sentì il tono di Helen farsi formale nello spazio di poche parole: «Sì?» «Me lo dirai se le cose cominciano a incasinarsi, vero?» «Sto solo cercando di trovare i genitori naturali di Chris, Helen. Adottare un bambino non è esattamente illegale.» «Sì, ma tienimi informata, va bene? Non si sa mai.» Saz incrociò le dita e le rispose di sì. Mise giù la cornetta, contenta della sua scelta di non accennare all'acquisto del neonato. In passato Helen e Judith si erano dimostrate entrambe delle amiche estremamente utili, ma c'erano anche delle volte in cui il loro atteggiamento ligio al dovere cozzava con i programmi di lavoro di Saz. E anche se il passo pesante degli anfibi d'ordinanza dei poliziotti negli uffici di Georgina Leyton probabilmente avrebbe portato a qualche informazione interessante, avrebbe anche fatto uscire allo scoperto la ricerca di Chris, e Saz sapeva che la sua priorità principale era rispettare il desiderio di Chris di proteggere la madre. Di mamma ce n'è una sola. Per il momento. Saz e Molly avevano in programma di passare la serata con Marc e Chris. Invece di rimandare, Molly accettò di uscire con i ragazzi mentre Saz andava per locali con Carrie. Molly era assolutamente felice di fare dell'altro; passare una serata di musica a tutto volume in stanze piene di fumo era l'ultima cosa di cui aveva voglia, anche se sembrò interessarsene

un po' di più quando sentirono dove stava andando Saz e chi sperava di incontrare. La prima reazione di Chris fu di scoppiare a ridere: «Hai fatto tutta quella strada fino al Sussex e ti sei messa a setacciare tutta la roba di Patrick Freeman, solo per venir fuori con Luke Godwin?» «Be', veramente Jonathan Godwin. È l'uomo di cui Leyton parla nella lettera. Luke è suo figlio. O potrebbe essere suo figlio. Almeno è il figlio di un Jonathan Godwin, indipendentemente dal fatto che sia il figlio del nostro Jonathan Godwin...» «Sì, Saz, so chi è Luke. O meglio, lo sa Marc, non è vero, caro?» «Tu cosa...» «Marc conosce il signor Godwin abbastanza bene, in realtà.» Tre paia d'occhi si volsero verso Marc che stava guardando con aria rassegnata fuori dalla finestra verso il parco di Hampstead Heath. «Dio, non sai proprio tenere la lingua a posto, Chris.» «È importante. Saz ha bisogno di saperlo per la sua ricerca. Racconta alle ragazze del tuo primo amore, caro.» Marc scosse la testa e finì la sua birra. «Non è stato il mio primo amore, non è stato amore per niente. Semmai sesso sfrenato. Per circa due mesi; non era una cosa seria. Avevo ventisei anni, lui appena venti, l'ho conosciuto nel primo locale che ha gestito. È il figlio di Jonathan Godwin, è stato adottato, suo padre si è incazzato da morire quando a sedici anni ha fatto coming out e si è rifiutato di parlargli per circa cinque anni. Godwin senior per un sacco di tempo non ha aiutato Luke in alcun modo, ma - l'ho saputo da amici comuni, non perché lo veda ancora - sembra che l'abbia aiutato a mettere su questo nuovo locale, così penso siano tornati in ottimi rapporti. Vi basta?» Non bastava neanche lontanamente a Saz e Molly, le quali non erano mai riuscite a strappare a Marc così tante informazioni sul suo passato e rimasero a bocca aperta nel sentirselo spiattellare in quel modo. Saz tormentò Marc per tirargli fuori informazioni sui vecchi locali di Luke, sul passaggio dai locali più piccoli al locale di successo di sua proprietà, e ogni altra notizia riguardante la sua famiglia che potesse collegarlo più chiaramente al Jonathan Godwin della lettera di Leyton. Molly gli fece domande più piccanti sulla relazione. Chris affermò che Luke aveva spezzato il cuore a Marc, Marc sostenne che le abitudini del suo ex ragazzo in fatto di droghe, e l'indole pericolosamente violenta che a volte manifestava, indicavano che Luke avrebbe avuto difficoltà a trovare qualcuno disposto a

dedicarglisi totalmente. «Quel ragazzo sa essere molto cordiale, è piuttosto simpatico, ma cazzo, è anche completamente imprevedibile. Può essere fantastico stare con lui, persino quando è sbronzo, e soprattutto quando è totalmente fatto di coca. E un attimo dopo, alla minima provocazione, minaccia di spaccarti la testa. E dal modo in cui te lo dice, pensi che faccia sul serio. Non potrei innamorarmi di uno così. Mi piaceva, ero attratto da lui, lo desideravo un casino, ma nessuno che abbia un briciolo di cervello si innamorerebbe di lui.» Saz e Molly lo stavano a sentire, e ognuna di loro era ben consapevole di essersi innamorata più di una volta, in passato, di persone altrettanto pericolose. Molly uscì per andare al cinema e poi a cena fuori e Saz rimase a casa a prepararsi. Malgrado il potenziale passo avanti nel lavoro, non era affatto impaziente di uscire quella sera. 17. Carrie aveva conosciuto Luke tre mesi prima, quando era riuscita a oltrepassare con una scusa le ragazze di guardia alla porta del locale ed era inciampata sulle sue gambe tese atterrandogli in grembo sul divano. Luke pensò che fosse abbastanza divertente per non farla buttare fuori e si imbarcarono nella loro prima gran bevuta assieme. Da allora, avevano salutato insieme l'alba un po' di volte, aiutati da una quantità di vodka sufficiente a cancellare il debito nazionale russo, e ogni tanto da una riga di coca, di cui Luke aveva sempre una riserva. Carrie si era resa finalmente conto dell'importanza dei buttafuori che confiscano la droga all'ingresso dei locali. In una discussione alle prime ore del mattino del fine settimana precedente, si erano rivelati l'un l'altra di essere entrambi scappati da casa a quattordici anni. Carrie perché aveva fatto coming out con sua madre, la quale era rimasta terribilmente scioccata che la carne della propria carne fosse in realtà una lesbicona. Una lesbicona con l'aspetto di una Barbie in miniatura, ma comunque gay. Carrie e sua madre ormai da un pezzo erano grandi amiche, ma il trauma dei quattordici anni era ancora una buona storia da raccontare al bar durante una sbronza. Ancora più facile da raccontare quando il bar era un grande divano imbottito e Luke ordinava da bere gratis per tutta la durata dell'incontro. Diversamente da Carrie, che aveva vissuto con amici, parenti e un'ex

suora molto amichevole fino a quando la collera di sua madre non era sbollita, la fuga di Luke era stata un'esperienza molto differente. Ed era una storia che di solito non raccontava. Né una storia che desiderava particolarmente raccontare. Salvo che Carrie gli versò un'altra vodka, e un'altra ancora. Poi tagliò altre tre righe della sua coca e arrotolò una delle sue banconote da cinquanta sterline. Carrie non era in cerca di informazioni, non desiderava particolarmente sentire la tragedia adolescenziale privata di Luke. Ma Luke aveva da bere gratis e una coca molto migliore della sua, e la ragazza che aveva adocchiato al bar ormai era finita tra le braccia di una ventenne supersportiva. Erano appena passate le tre del mattino e, se Carrie non costringeva Luke a continuare a parlare, se ne sarebbe dovuta andare a casa presto anche lei. Da sola. E andarsene a casa da sola era già di per sé abbastanza brutto, ma andarsene a casa da sola prima dell'alba era una cosa troppo terribile per prenderla in considerazione. Il bar era praticamente vuoto, Luke era completamente fatto, la sua parlantina cominciò a prendere il sopravvento in una caduta libera da cocaina e Carrie, piena di gratitudine, si mise comoda ad assistere allo spettacolo. Luke Godwin iniziò a raccontare farfugliando perché se n'era andato a quattordici anni e, a mano a mano che la storia diventava più piccante, Carrie si rese conto che alcune delle cose che stava ascoltando le suonavano familiari. L'impulso a liberarsi dalle grinfie della famiglia era nato quando sua madre, nel pieno della disperazione per essere stata lasciata dal marito dopo vent'anni di matrimonio, aveva rivelato che Luke non era veramente suo figlio. E nemmeno figlio di suo padre. Non importava cosa c'era scritto sul suo certificato di nascita. Luke andò subito a interrogare il padre, e il padre gli disse che quanto gli aveva raccontato la madre era vero, e che lui adesso intendeva mettere su una nuova famiglia con la giovane bionda che, al contrario della vecchia bionda, era effettivamente in grado di dargli un figlio. Non il migliore dei commiati possibili. Padre e figlio non si parlarono per cinque anni e poi si incontrarono solo una volta, una settimana prima che Luke compisse vent'anni. Luke fece coming out, suo padre lo piantò lì. Tutto ciò fu spiegato a Carrie in una lunga e sconnessa invettiva da ubriaco. Quello che non aveva spiegato, però, era perché padre e figlio fossero tornati a fare affari insieme - Carrie era molto più interessata agli inizi incasinati che al lieto fine. Dopo che Carrie le aveva spiegato cosa sapeva, Saz aveva acconsentito a uscire con lei. Sperava che, ora che padre e figlio si erano messi a fare affari insieme, Luke conoscesse nei dettagli le procedure della sua adozione

- e fosse disposto a divulgarle. Se Jonathan Godwin era collegato sia a Richard Leyton che a Gerald Freeman, allora non era troppo sperare che ci potesse essere un ulteriore collegamento con i genitori di Chris. Tuttavia, il semplice fatto di aver acconsentito a uscire non significava che ne avesse davvero voglia. Quattro anni passati felicemente in coppia con Molly le avevano tolto qualsiasi desiderio di sperimentare le gioie di tirare l'alba girando per locali. Di martedì sera. L'idea di rivisitare la landa delle angosce esistenziali dei vent'anni, popolata da una gioventù affamata di sesso, e di terminare la serata cercando di decifrare l'incoerenza delle proprie ciance da ubriaca, la riempiva di un orrore che puzzava di vomito, con la colonna sonora di un tedio pericolosamente nostalgico. Non le erano mai particolarmente piaciuti i piaceri equivoci di una sala male illuminata circondata da una fiera campionaria di carne sudaticcia. A Saz non piaceva andare per locali. Non le piacevano i pub. Non le piaceva bere alcolici scadenti venduti a prezzo maggiorato, e si era resa conto da un pezzo che sniffare la coca da uno specchietto lindo nell'intimità del proprio soggiorno era decisamente più attraente che tirarla dal serbatoio pieno di bruciature di cicca di un cesso intasato dove, da mezzanotte in poi, non c'era più carta igienica. Saz non voleva uscire. Voleva restare a casa ed esaminare con pazienza scatole piene di documenti fino allo sfinimento. Crollare sul pavimento accanto alla sua innamorata e guardare tv spazzatura, mangiare groviera caldo e squagliato sul pane nero di segale, con senape extraforte, e mezza barretta di appiccicosa cioccolata al caramello, bere una o due bottiglie di vino ghiacciato scelto con cura e poi farsi una bella dormita di otto ore. Carrie, tuttavia, aveva altre pretese. Il fatto che probabilmente le avesse a ragione non serviva certo a rendere Saz più malleabile. L'umore non migliorò durante il difficile viaggio per arrivare da Carrie, imbottigliata in Walworth Road nel traffico serale che procedeva a passo d'uomo, dieci minuti passati in un autobus dai finestrini appannati davanti alla vecchia sede del partito laburista, a interrogarsi per l'ennesima volta sulla politica dei trasporti pubblici. Passò la prima mezz'ora con la sua ex ragazza a lamentarsi di tutto ciò che era certa le avrebbe fatto schifo nelle ore tra mezzanotte e l'alba. Ed era certa che le avrebbero fatto schifo un sacco di cose. «Vuoi dire che questo locale fa pagare quindici sterline l'entrata?» «Venti.» «Cosa?»

«Dopo mezzanotte. Non importa, siamo sulla lista degli invitati.» «Con i buttafuori che ci squadrano da capo a piedi quando proviamo a entrare.» «Ti ho detto che siamo sulla lista degli invitati.» «Credevo lo conoscessi appena questo tizio.» «Non è che sia un amico intimo o niente del genere, ma ci siamo sbronzati insieme qualche volta, abbiamo parlato un po'. Glielo avevo già chiesto se potevo essere nella lista stasera. E intendiamoci, non lo conosco bene...» «Dopotutto, avete parlato soltanto quando eravate tutti e due sbronzi.» «Sì, ma può essere un'esperienza che lega molto, Saz.» «Lo so, Carrie. Non ero sobria quando ti ho conosciuta.» «In ogni modo, anche se non fossimo sulla lista, non avremmo problemi a entrare, siamo splendide.» Saz lanciò un'occhiata a Carrie nello specchio, e la verità di quell'affermazione si perse nell'espressione irritata del suo viso: «Che mi dici della musica?» «Cosa vuoi sapere?» «Non penso mi piaccia la musica che ascoltano i giovani.» «Cristo, Saz, non sei così vecchia.» «Non sono affatto vecchia.» «Allora falla finita una volta per tutte di comportarti da vecchia, accidenti. Probabilmente ti piacerà. Potresti persino divertirti. Non sarà come quei locali dove andavi da ragazzina e nemmeno come quei locali di merda dati in gestione a un pugno di lesbiche con poco gusto e ancor meno denaro, dove mettono su merdosissimi dischi di Tracy Chapman a palla per tutta la sera, che cavolo.» Saz si morse le guance per trattenere un sogghigno. Non succedeva spesso che riuscisse a provocare Carrie tanto da farla arrabbiare; accadeva molto più spesso il contrario. Il fatto che Carrie si fosse incazzata non poteva che rallegrarla un po'. «È solo un locale, Saz. Con la musica. Nessuno farà caso a come sei vestita, a loro non importa. Non è un locale di quel genere, è solo un posto dove andare. A ogni modo, tu ci stai andando per lavoro, non per divertimento. Non è poi così importante.» Saz si applicò ancora un po' di mascara sulle ciglia, delusa. Aveva sperato in un contrattacco migliore di questo. Mandò giù un'altra generosa sorsata di vino bianco scadente, che non era abbastanza buono e nemmeno

abbastanza freddo, ma con ogni probabilità era il migliore che ci si potesse aspettare dal frigo di Carrie. «Carrie, dubito tu sia capace di rimanere sobria abbastanza a lungo da notare se è importante o meno.» Carrie sorrise: «Be', comunque c'è sempre questa.» Porse a Saz lo specchio su cui aveva disposto quattro piccole righe di coca: «Sta' zitta adesso, tirati su di morale e vedi di pippartela.» Saz eseguì. Negli ultimi due anni Carrie aveva cambiato quattro ragazze diverse che, pur non essendo più teenager - Carrie aveva conosciuto Justine alla festa del suo ventunesimo compleanno -, certamente adoravano comportarsi come se lo fossero. Era quindi diventata una specie di esperta dei nuovi locali e club sorti negli ultimi anni sulle macerie di malgestiti pub di quartiere. E, anche senza una compagna al suo fianco, per Carrie era una goduria uscire. Adorava parlare con gli estranei. Ecco perché era utile a Saz: molto spesso lei conosceva qualcuno che conosceva qualcuno che poteva sapere qualcosa. In quel caso, il comproprietario dell'ennesimo pub per vecchiacci trasformato in covo di giovani bocconcini trasudanti sesso; un secolo di pomeriggi macchiati di nicotina ristrutturato al prezzo di otto latte di vernice viola brillante e di un paio di ragazzette australiane con le treccine rasta piazzate dietro il banco a servire. Secondo Carrie, Luke Godwin passava gran parte delle serate in uno dei tre bar del suo locale e, anche se da mezzanotte in poi ci dava dentro col bere, sembrava sempre abbastanza sobrio da controllare che le porte fossero chiuse a dovere quando lui e il suo manager se ne andavano alle cinque del mattino. Carrie sapeva che Saz avrebbe voluto parlare con Luke - se fossero davvero riuscite a entrare nel locale. Tuttavia per prima cosa bisognava ovviamente fiaccare un po' la sua resistenza. La cocaina avrebbe fatto miracoli abbastanza presto, ma Carrie capiva Saz a sufficienza da sapere che le serviva qualcosa di più della droga e dell'alcol per avere davvero voglia di uscire quella sera. Le serviva anche del cibo. Quel paio di righe erano riuscite a rallegrare Saz in modo considerevole, come anche la piacevole sensazione della calda notte londinese che le si appiccicava sulla pelle. Persino l'irritazione dovuta al fatto di dover andare a piedi da Camberwell a Stockwell per mangiare e poi passare la serata a Brixton restò a livello epidermico, e il percorso estremamente tortuoso per Saz si tradusse in una passeggiata piena di bei ricordi. Si fermarono di fronte a un piccolo bar spagnolo: «Ho pensato che, visto

che stasera sei così coraggiosa, potremmo anche fare uno sforzo economico e osare qualcosa di veramente temerario.» «Le tapas sono temerarie?» «Lo sono se tutti gli altri bar qui intorno sono portoghesi.» Saz, che da quando avevano attraversato Brixton Road aveva già l'acquolina in bocca pregustando una pastina alla crema e magari un bicchiere di vino ghiacciato, mise da parte le sue fantasie portoghesi ed entrò prima di Carrie. Un'ora più tardi e dopo che avevano spazzato via dal tavolo diversi piattini di chorizo, funghi piccanti e calamari senza aglio adattati al gusto degli avventori del locale, Carrie stava già per ordinare una seconda bottiglia di vino quando Saz le rammentò che non erano uscite per passare una serata fuori tra amiche, ma per lavoro. Carrie prese i soldi dal portafoglio di Saz per pagare la cameriera fin troppo attraente, lasciando una mancia generosa più per i lunghi riccioli della ragazza che per il servizio, efficiente ma piuttosto distaccato. Però la ragazza era carina. Molto carina. Saz si rifiutò di proseguire ancora a piedi. La sua resistenza era stata fiaccata dal cibo e dall'alcol, e nonostante non fosse riuscita a fare la sua corsa quel giorno, pensava che il trascinarsi da un locale all'altro non fosse certo il modo migliore per fare moto. Presero un autobus fino alla metropolitana di Brixton, saltando giù in strada mentre si riversava fuori dall'Academy una marea di corpi rumorosi e in rapido movimento, ma non abbastanza rumorosi da soffocare le urla familiari del predicatore che invocava Gesù, banditore cittadino del Giudizio universale di tarda serata, al sicuro sul suo solito trespolo di fronte all'ingresso della metropolitana. Carrie insistette per prendere qualcos'altro da bere prima di andare al locale, così si fermarono al Ritzy e bevvero un altro paio di bicchieri di vino e Saz guardò con invidia la gente che usciva dal cinema sfregandosi gli occhi per difenderli dalle luci eccessive e che si dirigeva verso casa. Carrie incontrò un paio di persone che conosceva e Saz si guardò intorno, pensando che lei e Molly, quando stavano insieme da poco, andavano sempre al cinema. Finché la vita non aveva preso il sopravvento e non era rimasto più tempo libero. Tempo libero a cui Saz sapeva di avere rinunciato spontaneamente, e lo voleva fare a maggior ragione adesso che il bambino stava per arrivare; ma, comunque, tempo perso su cui non era il caso di riflettere troppo. Ascoltò la conversazione di Carrie per un po' e poi le frugò nella borsa e tirò fuori il suo portafoglio: «Posso prenderlo?» Carrie distolse lo sguardo dal nuovo tatuaggio della sua amica Beth che stava ammirando e guardò Saz. «Certamente. Non occorre neanche che tu me lo chieda. Posso sapere

perché?» «Sì. Inizio a sentirmi una lagna e, visto che dobbiamo stare in giro ancora per un po', ho pensato di rimediare in qualche modo piuttosto che farti incazzare ancora di più. Se non hai niente in contrario...» Carrie le indicò con la mano il bagno delle signore. «Serviti pure. È fatta apposta.» «Solo perché sono stanca e abbiamo ancora una lunga notte davanti.» Carrie sorrise compiaciuta: «Naturalmente. Perché se no?» Saz andò in bagno, ne trovò uno libero e fu grata del fatto che il Ritzy avesse ritenuto opportuno ristrutturarlo così bene e montare dei coperchi così lisci sui serbatoi. Carrie le doveva ancora l'affitto del mese scorso, così Saz non si sentì troppo avida nel servirsi abbondantemente. E, mentre ne sniffava una seconda e lunga riga, ricordò a se stessa di non divertirsi troppo quella sera, non era proprio il caso che ci prendesse gusto a uscire. Non credeva che Molly avrebbe approvato i suoi festini notturni per motivi di lavoro, una volta arrivato il bambino. Dieci minuti dopo, Carrie guidava Saz in un labirinto di viuzze secondarie; svoltarono diversi angoli bui finché non giunsero davanti alla porta principale. Sorpassarono tutta la fila, ignorando gli sguardi sdegnosi della gente in attesa da mezz'ora o più, passarono accanto all'enorme buttafuori che baciò Carrie su entrambe le guance, e poi, attraverso porte d'argento scintillante, entrarono nella calda penombra. 18. Con i denti insensibili, la lingua che ronzava e fitte acute in fondo alla gola, e con in corpo quattro righe di coca e quasi una bottiglia di vino, Saz inaspettatamente non fu scioccata dal calore vociante che le sferzò il viso quando Carrie la prese per mano e la guidò tra una mischia di corpi fino al bancone del bar. La musica era forte, abbastanza rumorosa perché le poche persone che stavano ballando non si sentissero stupide, ma non in modo così terribile da rendere completamente vane le conversazioni urlate che si svolgevano tutt'intorno. Carrie ordinò due Sea Breeze con tanta vodka e accompagnò Saz in un angolo sicuro, tre tavoli sopra una pedana leggermente sollevata da cui si poteva osservare bene la sala. La disposizione era essenziale, con le porte laterali, le finestre tradizionalmente piccole ora sostituite da enormi vetrate che davano direttamente sulla strada sottolineando chiaramente il carattere particolare del nuovo

pub: non serviva per isolarsi da tutto per una mezz'ora di tranquillità, ma per entrare dentro tutto, qualsiasi cosa fosse. E nello stesso tempo, in teoria, per far sapere a tutto il mondo che si era lì. Se una volta c'era un bancone centrale, che serviva a rotazione due o tre porzioni diverse della sala, il nuovo bancone era stato spinto indietro e allungato sotto forma di barricata di acciaio inossidabile proprio a ridosso della parete più distante, lasciando uno spazio centrale per tavoli e sedie, alcune delle quali accatastate per fare più spazio a chi ballava. C'erano due lunghi tavoli di legno con alcuni gruppi numerosi di persone attorno, gli altri tavoli più piccoli erano occupati da coppiette e da aspiranti tali che speravano che questa potesse essere la loro sera fortunata. Una volta distolto lo sguardo dalla clientela, l'attenzione di Saz fu catturata dal sovraccarico di immagini tratte da cartoni animati e film che venivano proiettate direttamente sulle pareti argentate. Il colore non era l'ideale per vedere bene le immagini, ma con il martellante ritmo techno di sottofondo lo scopo non era certo quello di concentrare l'attenzione su silenziose figure di celluloide. Era arte in movimento, a volte oscurata dalla massa di gente che ballava muovendosi all'unisono, altre delineata in un rilievo perfetto, quando sembrava che l'immagine fosse fatta per uno schermo davvero argentato. Bette Davis che scendeva furtivamente le scale in Eva contro Eva era il perfetto ruolo da stronza in bianco e nero, che si contendeva lo spazio a gomitate con uno sbiadito capitano Scarlet; il fascino degli anni Cinquanta e il verde acqua degli anni Sessanta nuotavano sulle pareti dall'intonaco irregolare. Da un'altra parte Saz intravide Judy Garland profondamente addormentata in un campo di papaveri e Top Cat che faceva le smorfie dietro le spalle dell'agente Dibble, mentre sulla parete posteriore Steamboat Willie aspettava di diventare più piccolo e grasso nelle sue più celebri sembianze di Topolino. Sotto le immagini illusorie c'erano quelle della fantasia vera. C'erano persone vestite di tutto punto, ovviamente residenti in zona, che erano entrate tornando a casa dal lavoro e non riuscivano mai a trovare le scarpette rosse del mago di Oz in fondo alla loro pinta di birra. C'erano ragazzine col trucco pesante. Probabilmente troppo giovani per comprare gli alcolici pre-mix che stavano bevendo a litri, ma che per entrare si strusciavano addosso ai ragazzi sulla porta in un orribile misto di eyeliner e carne al vento. C'erano gruppi di persone che ridevano a squarciagola, un ampio assortimento di coppiette che bevevano e si baciavano senza però mettersi mai a conversare tra loro: vicinanza fisica al posto di un legame emotivo.

Carrie indicò a Saz una coppia di ragazze: «Laggiù, due etero del cazzo, che fingono di essere lesbiche e flirtano per fare colpo sui ragazzi al bancone.» Saz seguì il dito indice di Carrie fino a quelle due, una attraente, una molto carina, nessuna delle due abbastanza adulta da aver trasformato tutto ciò in vera bellezza, che ballavano in un modo in cui avrebbero potuto guadagnarsi un congruo stipendio nei seminterrati di Soho ancora da ritinteggiare di rosa. Dall'aspetto era difficile attribuirgli un orientamento sessuale specifico, e Saz pensò che si stavano sbaciucchiando decisamente un po' troppo per essere etero. «Come fai a dirlo?» «Ogni volta che la bionda tocca la sua amica, lancia un'occhiata al tizio alto e magro al bancone. Sta facendo scena per lui. Anche se non mi sorprenderebbe che alla sua compagna lei non piacesse. A occhio sembra solo un po' più interessata alla loro scenetta che non ai ragazzi.» Saz guardò la bionda alta che accarezzava lentamente il braccio e la spalla dell'amica più bassa e poi alzava lo sguardo da sotto la frangia verso il ragazzo al bancone, che rideva. Non riusciva a staccare gli occhi iniettati di sangue dalla bionda e la piccola brunetta sembrava tristemente ignara degli sguardi eloquenti che le giravano sopra la testa. Saz mormorò: «Vergogna» e Carrie scoppiò a ridere: «Sì, è proprio sfigata stasera. Poverina.» Saz riconobbe il tono della voce di Carrie e distogliendo lo sguardo dalla sventurata ragazzetta si voltò a guardarla. Infatti la sua ex aveva uno sguardo giulivo e malizioso. Saz cercò di ricordarsi che, malgrado le dosi obbligatorie di coca e alcol, in realtà erano lì per lavorare, e che avrebbe fatto meglio a tenere bene a freno le brame di Carrie. Anche se vedere donne eterosessuali che si fingevano lesbiche la faceva sempre incazzare di brutto, Saz non credeva che la brunetta piccola e graziosa meritasse una cosa pericolosa come Carrie a titolo di risarcimento per l'inganno subito. Saz riuscì a sviare l'attenzione di Carrie su cinque tizi che ballavano separati dal gruppo principale di membra in movimento. Sorridevano beati e si dimenavano di fronte alle grosse casse, ballando ognuno al proprio ritmo, nessuno dei quali corrispondeva a quello della musica. Il che, dato che la musica adesso era diventata un insistente suono monotono in quattro quarti, a Saz sarebbe sembrato quasi impossibile se non fosse stata lì e non l'avesse visto con i propri occhi. Tuttavia stava avvenendo e in qualche modo i cinque ragazzi stavano proponendo un antiritmo sincopato tutto loro. Ed erano certamente felici. Dopo un'ora passata a guardarsi in giro e altri due Sea Breeze a testa,

Carrie ritenne che Luke ormai fosse già entrato dalla porta secondaria per il suo turno serale come direttore e guidò Saz ai piani di sopra, nelle altre sale. Passarono davanti a un buttafuori, stranamente basso rispetto a quelli all'ingresso, ma con una serie di cicatrici sul viso che sottolineavano la sua cattiveria più che compensare la sua scarsa statura. Aprì loro la porta, facendo entrare dapprima Carrie con un piccolo inchino e un grande sorriso. Serbò il suo sguardo malevolo per Saz. «Che tipo allegro. Non gli piacciono i tuoi amici?» «A Victor - è il diminutivo di Victory - non piacciono le mie amiche. Mi vuole tutta per sé.» «Carrie, non l'avrai mica fatto, vero?» «No. Ma fargli credere che gliel'ho promesso è utile.» Saz scosse la testa e mandò giù controvoglia la ramanzina da sorella maggiore che si sentiva salire dal fondo della gola. Non che fosse contraria al fatto di scoparsi un maschio, e nemmeno all'idea di scopare per raggiungere un obiettivo. Nessuna di quelle due attività era particolarmente insolita per Carrie, ma una volta non lo era nemmeno per Saz, anche se la sua attività sessuale da tempo si concentrava su una sola donna. Principalmente. Pensava solo che non fosse troppo carino incoraggiare qualcuno che non aveva la minima speranza. Salirono per una rampa di scale e Carrie sporse la testa per sbirciare oltre una porta scarlatta; un'ondata di risate fragorose fece voltare la testa a Saz. «Che cos'è?» «Il cabaret.» «A quest'ora della notte?» «Cabaret a notte fonda. È l'ultimo grido. C'è Sharon alla porta, ci farà entrare.» «Mi sa che io non...» «Dice che anche Luke è li tra gli spettatori, così possiamo metterlo alle strette durante l'intervallo.» Saz brontolò: il cabaret era tra le forme di spettacolo che le piacevano meno, ma almeno sarebbe stata più vicina a quel Luke dal quale Carrie si aspettava così tanto. Alzò le spalle e seguì Carrie passando davanti alla donna alla porta e prendendo posto in fondo alla sala con uno sgarbato: «Va be', cazzo, sia quel che sia.» Venti minuti più tardi l'alta cabarettista dai capelli rossi scese con un balzo dal piccolo palcoscenico che era riuscito a contenere a stento la sua energia e Saz scoprì che ridere le faceva male: aveva i muscoli delle guan-

ce indolenziti per lo sforzo di non sghignazzare fragorosamente, e si beccò un «te l'avevo detto» accompagnato da un risolino malizioso da parte di Carrie - che non si era lasciata ingannare. «Te l'avevo detto che era brava, no?» Saz rifiutò di arrendersi: «No. Avevi detto che sarebbe stato bello. Se mi dicevi che quella donna faceva veramente ridere potevo essere più entusiasta. Forse.» Carrie sogghignò: «Ammettilo Saz, ti è piaciuta.» Saz si alzò in piedi: «Sì, ma non è per questo che siamo qui, vero? Sono quasi le tre del mattino, cazzo. Riusciremo mai a parlare con questo Luke Godwin, o cosa?» Il rumoroso chiacchierio del dopo spettacolo che accompagnava l'assalto al bar scelse proprio quel momento per scemare bruscamente e il tono di Saz, perfettamente giustificato in una sala piena di avventori chiassosi e mezzi ubriachi, si udì acuto sopra le loro teste, parole pronunciate ad alta voce che cadevano in un attimo improvviso di silenzio. Luke Godwin, seduto a due metri di distanza, a fianco del palcoscenico, in vivace conversazione con un paio di ragazze, distolse lo sguardo da loro per guardare Saz dritto negli occhi. «E chi cazzo lo desidera?» 19. Dopo scuse affrettate, lo sguardo duro di Luke si addolcì un pochino. Mandò un bacio a ognuna delle due graziose pollastrelle che nutrivano ancora vane speranze su di lui e condusse Carrie e Saz su per le scale nel terzo bar. Questa era ancora una sala pubblica, ma entrarci era ancora più difficile che nel resto dell'edificio: ufficiosamente era riservata a quelli che venivano classificati come decisamente più fighi della media, e non semplici aspiranti al ruolo. Le due donne a guardia della porta avevano rigorose istruzioni riguardo al tipo di abbigliamento da rispettare e alla sobrietà di quelli che facevano entrare. Tuttavia, il loro compito andava oltre, e gli si chiedeva di fare ricorso alla propria discrezione nelle questioni di stile più difficili. Non si trattava semplicemente di permettere l'ingresso solamente a chi era giovane o bello. Lì l'ingresso era riservato alle persone veramente interessanti. Nel piccolo bar c'erano diverse vecchie poltrone, due scomodi divani moderni e alcuni tavolini bassi stracarichi di una scelta stranamente eclettica di riviste. Saz cercò invano tracce d'ironia sul viso del ragazzo carino

che stava leggendo ad alta voce alla sua ragazza un brano tratto dalla posta del cuore del settimanale Woman's Realm. In realtà c'erano decisamente poche espressioni meravigliate in giro per la sala, nonostante il fatto che gran parte dell'arredamento consistesse in dodici enormi cuscini, l'illuminazione venisse da candele mezze consumate e la musica di sottofondo fosse un loop di Petula Clark che cantava Don't Sleep in the Subway. Quando Luke prese da un vassoio sul bancone del bar una mousse alle noci per ciascuna di loro, Saz pensò che, anche se non le avesse dato informazioni, dopotutto la serata non sarebbe trascorsa invano. Tutti quegli eccessi e anche cioccolata in omaggio. Luke assaggiò e rifiutò quattro vini diversi prima di decidersi per una bottiglia di Chenin bianco. Pilotò Saz e Carrie verso un divano molto basso e superimbottito, prese dei bicchieri dal bar e, dopo avere versato del vino a ciascuna di loro, prese posto su una sedia dallo schienale diritto posta ad angolo retto rispetto al divano, sedendosi trenta centimetri più in alto di entrambe. Saz non aveva alcun problema ad accordargli tutto il rispetto dovuto al proprietario del locale, ma non vedeva la ragione per cui lui trovasse necessario ricordare continuamente e in modo così palese la loro differenza di posizione. Dopo aver fatto le presentazioni, terminato il suo vino e spiegato che Saz conosceva Marc - fatto che provocò in Luke uno sguardo sorpreso e un «no comment» -, Carrie scese al piano di sotto a farsi un giro in cerca della piccola brunetta e lasciò Saz e Luke a parlare, cosa che in teoria era sembrata una buona idea quando Carrie li aveva presentati, ma in pratica sembrava funzionare poco, una volta che Saz spiegò cosa stava cercando. «Bene, dunque, vado al sodo. Sto cercando di aiutare un amico a trovare i suoi genitori naturali e ho buoni motivi per credere che l'avvocato che ha aiutato la tua famiglia ad adottarti potrebbe avere aiutato la sua famiglia ad adottare lui.» «Richard Leyton era l'avvocato di mio padre. È morto.» «Sì, lo so. Ho provato a parlare con sua figlia ma non ho ottenuto grande aiuto.» «Be', Georgina non può spiattellare informazioni private a chiunque, non credi?» «La conosci?» Luke sorrise: «Per lavoro.» «Bene. E mi rendo conto che aiutare il mio cliente potrebbe metterla in una posizione difficile. Ma, dato che lei non è stata in grado di aiutarmi,

devo arrivarci per vie traverse. E ho trovato una lettera di Leyton in cui consigliava a un altro suo cliente di contattare il tuo padre adottivo, quando i tuoi genitori stavano pensando di adottarti.» «A chi era indirizzata questa lettera?» Saz scosse la testa: «Mi spiace, non penso davvero di poterlo dire. Il mio cliente è una persona conosciuta, e preferirei...» «Vorresti che io ti dessi delle informazioni personali su me e i miei genitori, ma non hai intenzione di contraccambiare, è così? Veramente non sembra molto equo, no?» Purtroppo, anche se Luke era stato disposto a raccontare la storia della sua vita a Carrie dopo avere ingerito mezzo grammo di coca, non era altrettanto disposto a farlo ora che era quasi sobrio. Saz si era aspettata uno molto più disposto a parlare. Forse aveva un potenziale Marc che lo aspettava a casa; quale che fosse il motivo, era chiaro che Luke non aveva voglia di sprecare il suo lato affascinante e cordiale con Saz. Provò con una tattica conciliante: «Mi spiace, immagino che non sarei dovuta venire da te a parlarti di queste cose mentre eri al lavoro. Mi rendo conto che questa è una faccenda molto personale per te.» «No, non è così, tutti sanno che sono adottato. È uno dei miei cavalli di battaglia. La grande scoperta a quattordici anni. Poverino, col cuore straziato dalla famiglia. Ha sempre funzionato divinamente per farsi una scopata di compassione.» «Ah, bene. Così allora puoi capire come si è sentito il mio cliente quando ha scoperto di essere stato adottato.» «Sì, penso di sì, ma non è un mio problema in realtà, no?» Luke bevve un altro sorso di vino, si adagiò sulla sedia e sorrise a Saz: «Cioè, stai dicendo che Richard Leyton chiese al padre del tuo cliente di parlare con mio padre. O sbaglio? Non mi pare un gran legame, no? Perché non vai direttamente da mio padre?» «Potrei. Probabilmente lo farò. È solo che pensavo...» «Che iniziare da me sarebbe stato più conveniente? Che sarebbe stato più facile parlare con me? Un povero soldatino ferito che vuole confessare tutto, desideroso di aiutare un compagno di ricerca caduto nella trappola dei genitori?» «Ehm... sì, no... Non lo so, in realtà.» Saz non sapeva che dire, chiaramente qualcosa che aveva detto o fatto aveva irritato Luke, ma non riusciva a immaginare cosa. Lui aveva detto che non gli importava di parlare del fatto che era stato adottato ma nel contempo non stava dando alcun aiuto:

«In base a quanto mi ha raccontato Carrie, ho creduto semplicemente che forse avresti voluto aiutare qualcun altro che si è trovato nella tua situazione.» «Non è un pensiero cattivo, ma è sbagliato. Non mi interessa che la gente sappia che sono stato adottato, ma non desidero entrare nei particolari di tutti gli aspetti legali e tecnici. E comunque non con una perfetta estranea e non in piena notte. Così, se mi vuoi scusare...» Luke non stava chiedendo a Saz di scusarlo, le stava chiedendo di andarsene. E la combinazione dell'atteggiamento di lui e della propria stanchezza la fecero incazzare quel tanto che bastava a farla diventare un po' più determinata. «Okay, bene. Ho fatto una cazzata a venire qui stasera. Ma questo è il mio lavoro. Mi spiace di averti rotto le palle, ma non è che posso parlarti di nuovo? Magari domani?» Luke terminò il suo bicchiere di vino: «Sarò nel bar in giardino. Sto lì tutti i pomeriggi fino al tramonto. Puoi passare se vuoi. E se ne avrò voglia farò due chiacchiere con te. Okay?» Saz non aveva molta scelta, la sua magra offerta era meglio di niente. Si alzò per andarsene e Luke le prese la mano mentre gli passava davanti: «Oh, e riflettici su: non penso proprio che dovresti chiamare mio padre, quello adottivo. È un po' meno tollerante di me con i perfetti sconosciuti che ficcano il naso nella sua vita privata. In particolare se si tratta della triste storia di come il suo primo amore sterile portò all'adozione del frocio prodigo.» «Ma è il tuo socio in affari, vero? Da quanto mi ha detto Marc credevo che voi due ora foste in buoni rapporti.» Luke si versò un altro bicchiere: «Sì, lo siamo. E non voglio che tu mandi tutto a puttane ficcandoci il naso. Adesso vattene, ci vediamo domani. Magari. Forse sarò di umore migliore, più felice di condividere i miei tesori più oscuri.» Luke la congedò con la mano e Saz uscì dalla sala con un senso di incertezza e non poco disagio. Chiaramente aveva esaurito tutta la sua cordialità con Carrie e a lei era rimasto il lato sgradevole di cui aveva parlato Marc. Al piano di sotto nel bar principale la musica pulsava ancora in quell'assembramento di corpi, e a Saz ci volle un po' di tempo per separare Carrie e la brunetta, ma alla fine riuscì a farsi dare le chiavi di casa di Carrie. E a scoccare un sorriso compassionevole alla bionda alta che stava seduta da sola all'altro capo del tavolo, guardando con aria funerea Carrie che monopolizzava la sua amica. Saz uscì dall'edificio, contenta di essere nella quie-

te di una strada dove gli uccellini cinguettavano, e cercando di venire a capo di quello che aveva appena vissuto. Quando si ritirò nell'appartamento di Carrie alle quattro e mezza di un mattino già tiepido, una luce tenue rendeva Camberwell Green più carina, trasformandola in qualcosa di un po' più simile al cartone animato Camberwick Green, con Windy Miller svenuto sotto una coltre di fogli dell'Evening Standard. Saz crollò con gratitudine estrema sul divano. Il sonno arrivò facile e sorridente. Finché Carrie non arrivò a casa barcollando, un'ora più tardi, suonando il campanello tre minuti in più del necessario, tirandosi appresso la piccola brunetta che pendeva dalle sue labbra. 20. Alla fine Saz smise di cercare di ignorare Carrie e la sua nuova amica e uscì furtivamente dalla porta principale dell'appartamento. Due ore più tardi si trovava nella sua cucina, fresca di doccia e pronta per mettersi al lavoro. O pronta come poteva esserlo il suo corpo privo di sonno e dagli occhi pesti. Fu abbastanza semplice procurarsi il nome completo dell'accompagnatrice non ufficiale di Gerald Freeman all'inizio degli anni Settanta. La natura narcisistica della carta stampata fece sì che quelli che avrebbero dovuto custodire con attenzione i propri preziosi archivi si bevessero subito la sua scusa di una tesi di dottorato sull'evoluzione della cronaca mondana, e la accogliessero nei loro uffici. Saz setacciò circa ottanta vecchie riviste e altrettanti quotidiani, e la leziosità compiaciuta delle annotazioni del Jennifer's Diary corrispondeva, eufemismo per eufemismo, ai riferimenti più stringati dei giornali più autorevoli. La sostanza di ogni riferimento alla «cara amica», «affascinante assistente» e «deliziosa compagna» era condensata nell'osservazione molto più scarna del Private Eye secondo cui era chiaro che lo stimato Gerald Freeman - uomo d'affari, imprenditore, industriale, buon partito - aveva una relazione sentimentale con Sukie Planchet, una ragazzetta proveniente da qualche parte a nord di Sunderland, che a quel tempo alloggiava nelle lande selvagge di Notting Hill, molto prima che la zona assumesse la sua atmosfera di falso trash così popolare in seguito tra i rampolli pieni di soldi. Con in mano alcune foto e il nome completo, per Saz fu facile trovare nei registri elettorali l'indirizzo dell'unica Sukie Planchet residente a Lon-

dra. Aveva immaginato che ce ne potessero essere al massimo due o tre in tutto il paese, ma era sempre meglio cominciare da Londra. Contava sul fatto che chiunque avesse passato un bel periodo nella grande città difficilmente sarebbe ritornato nel nord-est quando gli anni Settanta improvvisamente si erano raffreddati, passando dall'estate dell'amore all'inverno del nostro scontento. Saz pensò che, se aveva fatto fiasco a Londra, il suo passo successivo sarebbe stato logicamente nelle contee intorno, che fungevano da casa di riposo per tutti gli ex festaioli, dove i dissoluti redenti scivolano silenziosamente in una notte buia fatta delle proprie sperimentazioni con il gin e tonic. Fortunatamente Saz, che non amava uscire dalle zone urbane della metropolitana, non dovette oltrepassare il punto di rottura: Sukie Planchet aveva colto l'occasione dell'età adulta per trasferirsi dall'altra parte di Londra, raggiungibile con la Central Line. Da Ladbroke Grove a Bethnal Green in dodici facili fermate. Saz questa volta scelse un approccio diretto e decise di andare a bussare alla sua porta. In parte perché proprio non le importava di mentire una seconda volta quel giorno, ma anche perché le informazioni contenute sul registro elettorale l'avevano un po' sconcertata. Da quanto aveva letto sulla "compagna" nei vecchi giornali e dalle lettere d'amore scritte da Sukie a Sir Gerald, si era aspettata che la giovane gaudente fosse diventata una felice casalinga piccolo-borghese con un paio di figli perfetti alla scuola privata e una graziosa casetta di campagna nel Norfolk dove passare i fine settimana durante la bella stagione, e magari una tenuta in Francia, se gli affari del marito andavano davvero bene. Tra le poche possibilità che aveva considerato, l'ipotesi più audace era che Sukie potesse avere utilizzato l'originale abbigliamento che sfoggiava nelle vecchie foto per diventare un'artista o una stilista di qualche tipo. O, se davvero le era piaciuta la vita dell'amante, Saz pensò che forse stava andando a intervistare un'emula di Cynthia Payne, magari la tenutaria di un bordello di lusso all'estremità più remota di Norwood. Non aveva preso in considerazione l'idea di trovarsi davanti a una casa popolare, e a una donna nubile, senza figli iscritti all'anagrafe tributaria municipale, che dichiarava di svolgere la professione di «educatrice religiosa disoccupata». Saz pensò che se si fosse messa male avrebbe potuto sempre sostenere di essere in missione per conto di Dio. Non dovette arrivare a tanto. In una scenetta da testimoni di Geova alla rovescia, Saz bussò alla porta e Sukie le aprì quasi immediatamente, una pesante Bibbia con fregi dorati in rilievo aperta in una mano scarna, e Gesù che stringeva saldamente l'altra. «Non so chi sia, non so perché è venu-

ta, non ho denaro per comprare quello che vende, ma ciò che le posso offrire vale più dei rubini. Prego, entri.» Saz trattenne un brivido involontario, una combinazione di un'innata paura di chi aveva smanie missionarie e della preoccupazione ancora maggiore che, se Sukie rispondeva sempre così alla porta, era davvero fortunata che finora non le fosse successo niente. Poi la seguì dentro casa. Prototipo di figlia ribelle, arrampicatrice sociale dal turpiloquio facile, adultera ubriacona, e ora ambasciatrice di Cristo con una vita irreprensibile e il foulard in testa, in seguito a una repentina conversione. Sukie aveva pensato di essere felice, si era persuasa che gli anni spensierati del libero amore fossero degni di essere vissuti, e poi un bel mattino si era svegliata e si era ravveduta. Tutto era avvenuto così, semplicemente. Il Signore misericordioso l'aveva raccolta, le aveva scrollato la polvere di dosso e l'aveva messa sul suo cammino con un gentile "va' e non peccare più". La solita conversione da puttana a suora, che Sukie fu felicissima di raccontare a Saz in tutti i minimi dettagli. Per esteso. Inserendo ampie citazioni bibliche a sostegno di quanto raccontava, anche se erano più del tipo "pioggia di fuoco e zolfo su Sodoma e Gomorra", che non ispirate al progressismo insulso di "ama il tuo prossimo come te stesso". Ovviamente Sukie trovava il vecchio testamento un po' più adatto al suo messaggio. Dopo la terza parabola citata con l'obiettivo di ribadire ancora una volta lo stesso principio, Saz era quasi disposta a concedere una chance a Gesù e compagnia bella, se solo fosse servito a tappare la bocca a Sukie abbastanza a lungo da permetterle di formulare una domanda. C'erano pochissimi modi per dire la stessa cosa e gli amichetti di Gesù sembravano averli trovati proprio tutti. La sostanza era questa: essere buoni, molto, molto buoni, non cedere alla tentazione, uscire dal limbo, andare dritti in paradiso. Il concetto della gobba del cammello e della cruna dell'ago non era completamente nuovo a Saz, perché nell'adolescenza sua sorella maggiore aveva attraversato una fase di conversione fortunatamente breve, proprio quando a Saz poteva servire una sorella comprensiva per discutere la propria conversione a probabile lesbica. La redenzione di Cassie durò quanto la sua verginità. Poi se ne andò di casa, si impegnò in una battaglia senza tregua con il Principe delle Tenebre, scoprì i piaceri della lussuria - a Gary bastarono circa due ore e quattro pinte di alcolici - e la sua fede ardente fu messa da parte insieme a tutte le sue cose di bambina. A Saz ci vollero meno di cinque minuti per capire che, benché Sukie fosse una vera figlia di Dio e perciò capace di condurre una conversazione

a tre - tra Saz, Sukie e Gesù -, disgraziatamente non era del tutto fuori di testa. Se la sua intenzione era quella di ottenere informazioni dalla donna minuscola ma molto energica che le stava di fronte, avrebbe dovuto farlo servendosi di sotterfugi terribilmente astuti e domande brillanti, svelando il passato in barlumi minuscoli di verità, altrimenti avrebbe dovuto optare per la sincerità più sfacciata e sperare in bene. Saz era esausta, anelava a una bella dormita di otto ore, e non si sentiva particolarmente brillante. Optò per la brevità e la verità. «Sono venuta per parlare di Sir Gerald Freeman.» Abituata all'inganno come mezzo migliore per ottenere una sincerità involontaria, Saz rimase non poco sorpresa quando Sukie si sedette proprio accanto a lei sul divano, schiacciando appena i vecchi e ruvidi cuscini con il corpicino minuscolo, afferrò la mano di Saz e le sibilò sul viso sputacchiando un po': «Un uomo cattivo. Un uomo molto cattivo. Preghiamo per lui, vuole?» E il torrente riprese. Sukie serrò tutte e due le mani di Saz nelle proprie così forte che Saz si chiese se i suoi anelli si fossero saldati assieme per la stretta. La donna chiuse gli occhi cerchiati di rosso e cominciò la litania dei peccati di Gerald. «Per la fornicazione e la corruzione morale cui mi costrinse e per molti altri peccati, caro Gesù, chiediamo il tuo perdono...» Ci fu una pausa, che divenne un imbarazzante silenzio finché Sukie non strizzò ancora più forte le mani di Saz e Saz si rese conto che ci si aspettava una risposta da lei. Rivangò gli anni da tempo dimenticati delle noiose lezioni di religione e borbottò un imbarazzato: «Perdonaci, o Signore.» Poi balbettò un «amen» nel caso anche quello fosse necessario. Sukie volse il suo sguardo ardente verso Saz, annuì e continuò. Saz fu sollevata quando Sukie chiuse gli occhi di un azzurro chiaro sconcertante, per entrare più in comunione con il suo Signore. La lista delle trasgressioni di Sir Gerald apparentemente era senza fine, anche se un po' più banale di quanto Saz avesse sperato. C'era sesso, certo, più sesso di quanto avrebbe pensato che Sukie fosse disposta ad ammettere, ma sembrava che non ci fosse niente che la zelante convertita non volesse condividere con il suo Signore, nemmeno la notte in cui era passata furtivamente dal letto dove Sir Gerald era profondamente addormentato a quello del suo migliore amico mentre era in vacanza coi due uomini a Ibiza. Come Sukie potesse incolpare per quel particolare atto indemoniato Sir Gerald, messo k.o. dal suo regime giornaliero di gin, whisky e poi ancora gin, a Saz non era molto chiaro. Ma non volle fermare la litania di Sukie

sul più bello e chiederglielo, mettendo così a repentaglio la possibilità di ascoltare un altro importante racconto sulla perversione del vecchio. O anche solo i pettegolezzi piccanti. Se Saz doveva farsi spezzare le dita da una donna che portava una maglietta con la scritta «Ringrazia il Signore per Gesù» - che era spuntata quando si era tolta il consunto cardigan rosa pallido per la seduta di preghiera -, allora tanto valeva considerare quell'esperienza alla stregua di un giornale scandalistico sonoro. Tutto il succo della faccenda, senza fronzoli. 21. Mezz'ora più tardi sembrava che Sukie stesse per concludere il suo festival della preghiera. A Saz era stata offerta una litania di collera diretta contro Sir Gerald, i suoi amici e in generale chiunque fosse entrato in contatto con Sukie nel periodo in cui era stata la sua amante. Saz ne aveva assimilato la maggior parte, di tanto in tanto azzardando un'interruzione che potesse riportare Sukie allo scopo della sua visita, ma venendo inevitabilmente sottomessa dalla veemenza delle esternazioni di Sukie. La donna era piccola ma spaventosamente forte - sia di voce che di fisico. Mentre Sukie declamava, Saz per lo meno aveva l'occasione di esaminare la stanza: le pareti erano completamente ricoperte di cartoline con tutte le rappresentazioni più famose di Cristo, o di pii martiri che si avviavano allegramente e con passo leggiadro verso la loro macabra fine. Chiaramente la sua ospite non aderiva ai dettami fondamentalisti per quanto riguardava gli idoli. Sukie, ovviamente, voleva trattenere con la forza Sir Gerald in purgatorio per un bel po' di anni ancora, ma dopo trentacinque minuti sembrò avere esaurito la carica. Persino lei non poteva essere tanto convinta che essere la moglie di un ex cancelliere dello scacchiere fosse poi così terribile. Dopotutto aveva una cartolina formato gigante che raffigurava san Paolo collocata tra le braccia di un angelo di gesso sul caminetto. Sebbene Sukie si fosse soffermata a lungo sulle mancanze di Sir Gerald, aveva solamente accennato a un paio delle proprie. Fece un'allusione fugace all'aver «reclamato ciò che non era strettamente mio» e un'altra al «giovanile rifiuto delle responsabilità adulte», tuttavia ammetteva le sue colpe solo dove erano state causate da quelli che chiamava «i disgustosi appetiti» di Freeman. Però non fece parola né di sua moglie né di suo figlio. Così, prima che fosse troppo tardi e il tentativo di conversione cominciasse sul serio, Saz sussurrò: «E che mi dice della famiglia, Sukie? Che

mi dice del figlio di Gerald? Conosceva Patrick?» La reazione fu immediata. Sukie le lasciò le mani, afferrò la Bibbia dallo sgabello accanto e ficcò una pagina sotto il naso di Saz. Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!» Saz guardò la pagina, poi guardò di nuovo Sukie: «Ehm... veramente non credo che la moglie di Sir Gerald avesse una sorella.» Sukie si sedette, esasperata: «No, stupida. Non va inteso in senso letterale.» Il che risultava comico pronunciato da una donna che nemmeno mezz'ora prima era intenta a riversare sulla testa degenerata del suo ex amante una dannazione eterna fin troppo reale. «Sir Gerald prese il bambino per sé, sua moglie voleva un figlio, lui voleva un figlio, non arrivò. A loro due, no. Non ricevettero il dono divino di una progenie.» «Così adottò un bambino e lo allevò come fosse suo?» «Come il trovatello Mosè.» Le conoscenze bibliche di Saz si stavano rapidamente esaurendo, ma sapeva anche che Patrick non era stato semplicemente trovato in una cesta di giunco. «Mi sa dire qualcosa di più riguardo al luogo di provenienza del bambino?» «C'era stato un accordo.» «Con chi? Sir Gerald conosceva la madre?» Sukie aveva lo sguardo fisso nel vuoto, evidentemente perso nel ricordo di un periodo risalente alla fine degli anni Sessanta. «Sukie?» Lei si scosse e guardò nuovamente Saz: «Le faccio le mie scuse. Io non... voglio dire, io cerco di non ricordare... queste cose. A volte è meglio non rivangare il passato.» Saz non sapeva quasi cosa dire, vista la quantità di cose riguardanti il passato di Gerald Freeman che Sukie aveva appena rivelato senza esitazione alcuna: «Sì, ma... con quello che mi ha appena detto riguardo a Freeman... be'...» Gli occhi azzurro chiaro di Sukie improvvisamente sembrarono limpidissimi: «Perché vuole sapere del figlio?» «Ehm, sono un'amica di Patrick.» «La sua ragazza?» «No. È sposato.» «Tale padre, tale figlio» intonò Sukie in tono fatalista.

«Non in questo caso. Siamo solo buoni amici.» Saz pensò che quello non era il momento ideale per rivelare le sue vere inclinazioni sessuali e tornò al motivo della sua visita. «Quando Sir Gerald è morto...» «Era su tutti i giornali.» «Sì, be', Patrick ha esaminato le carte di suo padre e ha scoperto delle cose sulla sua adozione. Cose che non sapeva.» Sukie scosse la testa: «Le colpe dei padri...» Saz stava rapidamente perdendo la pazienza. «Proprio così. E quindi adesso vuole sapere chi è questo padre, chi sono i suoi genitori naturali.» «Non vedo cosa c'entri questo con me.» «Conosceva Sir Gerald.» «Ma ora è morto. Rivangare il passato? Non so. Gerald dovrà vedersela con i propri misfatti. Non sta a noi. Ho già i miei peccati da sopportare. A me la vendetta...» «Dice il Signore. Lo so. Ma sicuramente lei lo può capire, Patrick vuole sapere di suo padre.» Saz si rese conto di ciò che aveva detto e si grattò le vecchie cicatrici da ustione sulle dita mezze intorpidite che le prudevano. Riuscì a capire come funzionava la mente di Sukie, e la bloccò prima che potesse ricominciare. «Ovviamente intendo il suo padre terreno. Qui. In carne e ossa. Vuole solo sapere la verità. Riesce a capirlo, vero?» All'improvviso Sukie apparve molto stanca, era evidente che la sua declamazione pomeridiana l'aveva spossata: «Sì, cara, certo. La verità. È qualcosa che a quanto pare interessa molto alla vostra generazione, vero? Riportare alla luce tutti i segreti da tempo dimenticati. Mi spiace doverle dire che so molto poco. Quando ero la sgualdrinella di Gerald Freeman, mi tenevano ben lontana dalla sua famiglia, dalle persone per bene.» «Ma deve averne parlato con lui qualche volta...» «Sì, di tanto in tanto. E non con grande benevolenza, con mia gran vergogna. Sapevo del ragazzo, sapevo che non era di Gerald, come ha detto lei: il ragazzo era adottato. Era un grande segreto, certo. Gerald non voleva che lo sapesse nessuno.» «L'ha mai incontrato, Patrick? Quando era bambino?» «Solo una volta, era venuto in città per passare la giornata con suo padre. Un ragazzino abbastanza garbato.» «E perché Sir Gerald le raccontò di lui? Riesce a ricordarselo?» Sukie sorrise e Saz improvvisamente vide uno sprazzo della giovane donna che era stata prima che il tempo la facesse sfiorire.

«Le chiamavamo confidenze intime. A volte Sir Gerald sapeva essere veramente delizioso, sa. Molto aperto e affettuoso. Non che durasse mai molto. Gerald mi raccontò che avevano adottato Patrick presto, quando era piccolissimo, penso. Richard Leyton aveva avuto un ruolo in tutto ciò.» «L'avvocato?» «Sì. Non è mai stato molto tenero con me, quello lì. Sempre lì a insistere perché Gerald si liberasse di me. Rovinavo la sua immagine.» Si strinse di più alla Bibbia, che le faceva da borsa dell'acqua calda contro il freddo dei ricordi, e ogni traccia del suo fugace sorriso era sparita. «Non ero proprio roba di prima qualità. Richard Leyton pensava che Gerald potesse fare di meglio, persino con le amanti.» L'astio nella voce di Sukie sembrava un po' più di quanto meritasse un semplice conoscente che l'aveva disapprovata trent'anni prima. Saz si domandò se per caso Sukie non avesse conosciuto Leyton meglio di quanto ammetteva. Ma Sukie non voleva ulteriori domande. «Non vedevo quasi mai quell'uomo, cara. Tutto ciò che posso dirle è che quando lo incontravo mi faceva sentire davvero a disagio.» Sukie non aveva molto altro da dirle. Il bambino adottato, l'avvocato, il silenzio complice della moglie, tutte cose che Saz aveva intuito, tuttavia era utile averne ricevuto conferma. In particolare il coinvolgimento di Richard Leyton. «Gerald amava il ragazzo, sono sicura di questo. Ma voleva che il figlio fosse suo. Davvero suo. Sono certa che è stato per questo che hanno voluto tenerlo segreto: se non parlavano dell'adozione apertamente, poteva diventare vero, Patrick sarebbe stato loro. Ma queste cose non sono sempre facili come si può sperare. A Gerald seccava, penso. Per quanto amasse Patrick, a lui seccava che il figlio non fosse davvero suo. Sembrava che non riuscisse mai a dimenticarselo. Sa, le persone sono così bizzarre a volte.» Sulla soglia, Saz si ritrasse dal rumore e dal caldo della strada trafficata, diede a Sukie il suo biglietto da visita e le chiese di chiamarla se le fosse venuto in mente qualcos'altro. «Spero di no, cara. Non mi piace pensare troppo al mio periodo buio.» «Nel caso succedesse.» Sukie scosse la testa e Saz pensò che probabilmente non avrebbe più avuto sue notizie. «Be', grazie comunque. Apprezzo il suo aiuto.» «Non c'è di che, davvero. Che Dio la benedica.» Saz si voltò a sorridere alla donna stanca che teneva ancora stretta al petto la sua Bibbia. Sukie guardava in strada, osservava una madre preoccu-

pata che schivava autobus e taxi mentre cercava di attraversare la strada rumorosa con un paio di bambini, uno in carrozzina e l'altro che tentava di liberarsi dalla sua stretta e gridava perché voleva delle caramelle o un gelato, gridava perché voleva la sua attenzione. Sukie si accigliò mentre chiudeva la porta, dicendo tra sé e sé e nel contempo anche a Saz: «L'avrei fatto, sa. Gli avrei dato un figlio, avrei creato una famiglia per lui. Se mai me l'avesse chiesto.» 22. Sara lasciò l'ospedale dall'ingresso laterale. Non era entrata da lì. L'avevano portata su per le scale dell'ingresso principale, l'avevano trascinata dentro mentre urlava e tirava calci. Perché era pazza e così dovevano farla entrare dall'ingresso principale. Sara era una cattiva ragazza. Questo lo sapeva perché gliel'avevano detto, non perché se lo ricordava. L'avevano aiutata dentro. L'avevano resa migliore in quel posto. Sara adesso è tranquilla, e brava. Sara non fa capricci, ha imparato come comportarsi bene. Non era stato così difficile, davvero. Doveva solo adattarsi. E lì l'avevano aiutata ad adattarsi. Lì c'erano persone che parlavano con lei. Dopo che aveva imparato cosa dire, come parlare in modo affabile. Dopo che aveva imparato a essere una brava ragazza e fare ciò che ci si aspettava da lei, allora c'erano state un sacco di persone con cui parlare. Sara stava abbastanza bene da poter uscire dall'ingresso laterale, quello più tranquillo, rivolto a est. Potevano fidarsi di lei, che non avrebbe fatto una scenata, potevano fidarsi di lasciarla da sola. Sara non era più un pericolo: non per gli altri e, cosa più importante di tutte, non per se stessa. Adesso avrebbe vissuto un'esistenza tranquilla. Sara avrebbe dimenticato quei giorni più bui. Era tranquilla adesso. Era un sollievo per tutti. Avevano fatto un buon lavoro. Sara aveva fatto un buon lavoro. Ne era davvero valsa la pena. Camminava vicino al mare, e la sua andatura nel tornare a casa era lenta. Ma dopo Sara fu ancora più lenta. Avevano rallentato il mondo che di solito le sfrecciava accanto così velocemente. Nell'altra sua vita Sara correva sempre per stare al passo, accelerando per farcela, per arrivare, senza sapere esattamente dove si stava dirigendo, ma si buttava a capofitto comunque, si affrettava prima che fosse troppo tardi. Non aveva più bisogno di correre. Camminava piano e semplicemente, un piede dopo l'altro, con concentrazione, un passo che seguiva l'altro. Non lasciare che la mente va-

ghi, vagare col pensiero è pericoloso, pensa solo ai passi. E così fece. Sara ci riuscì. Riuscì a camminare dritta fino a casa. La sua borsa non era pesante, non possedeva molto. E anche se camminava sul lungomare, le onde non erano più burrascose. Non la schernivano più. Andavano e venivano, semplicemente, come il respiro. Non facevano altro. Erano solo onde e Sara adesso sapeva che non avevano potere. Sara comprendeva la natura del potere meglio della maggior parte delle persone. 23. Dall'appartamento di Sukie Saz andò direttamente a Brixton per il suo incontro con Luke. Non è che il locale fosse tanto più salubre alla luce del giorno. La combinazione di argento e viola era illuminata troppo bene dal sole pomeridiano e persino il duro lavoro di pulizia che si svolgeva ogni mattina non riusciva a camuffare un fondo di pavimenti irrimediabilmente appiccicosi e un odore acido residuo di alcol, anfetamine ed erba che prendeva alla gola. Ma il giardino sul retro, dove il suo ospite inaspettatamente cordiale le offrì una ciotola di patatine tagliate spesse e una birra fresca, era caldo e ombreggiato da viti fertili e da un albero di fichi. «Un fico? Fantastico.» «Fa anche dei buoni frutti. Non sono meravigliosamente gustosi, ma qui fuori è piuttosto ben riparato e ci batte abbastanza il sole, così alla vista e al gusto sembrano fichi.» «È splendido.» «Sì. La vecchia signora che gestiva il pub prima che lo rilevassimo passava tutto il tempo qui fuori. Il pub di per sé era una merda, ma questo giardino... be', diciamo solo che non era così stupida da permettere ai suoi clienti di avvicinarsi.» Saz diede un'occhiata al cortile lastricato, pieno zeppo di ragazzi carini, che mangiavano e bevevano e ridevano fin troppo forte. «Lo stai facendo fruttare.» «I miei clienti non sono dei vecchiacci che fumano sigarette arrotolate a mano e si bevono solo una pinta nel tardo pomeriggio. Questi qui, cazzo, credono di essere fantastici solo perché riescono a riconoscere un fico.» Uno scoppio di risate roche proveniente da tre bambolone seminude in un angolo confermò l'opinione di Luke, e Saz spostò la conversazione sui suoi genitori prima che la sua irritazione nei confronti della clientela degenerasse in cattivo umore.

In sostanza la loro chiacchierata confermò ciò che Saz ricordava dalla notte precedente, e basta. Luke era disposto a riconoscere che quello che aveva raccontato a Carrie era vero, ma non era particolarmente interessato a riparlarne con Saz. L'ospite amabile diventò annoiato e indifferente quando Saz cercò di cavargli fuori qualcosa di più. «E non hai voglia di farlo anche tu? Di sapere di più dei tuoi genitori naturali?» «No.» «Non hai nessuna curiosità?» Luke scosse la testa, finì la sua birra e fece un cenno col capo al cameriere che raccoglieva i bicchieri affinché gliene portasse un'altra. Non ne offrì a Saz: «Guarda. Ho solo detto che avrei parlato con te per dire davvero le cose come stanno. Se vuoi andare in giro a ficcare il naso in cerca di qualcosa sui genitori naturali del tuo amico, fai pure. Io sono in pace col mio passato. Sinceramente non mi interessa.» «Ma a quanto pare la donna che ho incontrato oggi pensa che Richard Leyton fosse davvero piuttosto subdolo e...» Luke la interruppe: «Chi hai visto?» «L'ex amante del padre del mio cliente. Sono solo andata a vedere se sapeva qualcosa sul fatto che era stato adottato.» «E ne sapeva qualcosa?» «Non molto. Ma non aveva molte cose belle da dire né sul padre del mio cliente né su Richard Leyton.» «Ha fatto vere e proprie accuse contro di loro?» «No, affatto, niente del genere. Semplicemente lui non le piaceva.» Saz si domandò per un attimo se fosse il caso di alludere alla compravendita di bambini, ma decise che non voleva alienarsi ulteriormente le simpatie di Luke. Forse la riconciliazione col padre adottivo era stata davvero positiva al punto che lui non voleva mettere a repentaglio il loro rapporto scavando nella verità del proprio passato. Comunque, c'era qualcosa nel modo in cui aveva sussultato sentendole raccontare la storia di Sukie che indusse Saz ad avere dei dubbi proprio su quanto voleva raccontargli. Luke afferrò il nuovo boccale di birra che gli era stato portato; i ringraziamenti educati ovviamente non erano il suo forte: «Be', so che mio padre non ha mai avuto problemi con Leyton. E per alcuni aiutare gli altri ad adottare bambini è un dono.» «Be', sì, senz'altro. Ma adesso, quando le persone lo fanno, è tutto alla luce del giorno, dichiarato. Nessuno mente al riguardo.»

«E così va bene?» «Non mi preoccupa la moralità dell'adozione, Luke, mi preoccupa il fatto che alla gente non venga detta la verità.» «Be', non alla gente, al tuo cliente. Io so già la verità sulla mia famiglia.» «Va bene, al mio cliente. Ma sembra che Leyton avesse un ruolo nella sua adozione, e in quella dell'altro mio amico.» «Allora perché lui o lei non chiede ai suoi genitori adottivi cosa è successo?» «Il mio amico non vuole ferire sua madre. La sua madre adottiva. Non vuole che pensi che lei non gli basta più. Non si era mai interessato alla cosa prima.» «Cos'è che gli ha fatto cambiare idea?» «Sta diventando padre anche lui.» Luke rise: «Ah, la meccanica molto prevedibile della mente tradizionale.» Saz decise di non esporre le circostanze assolutamente poco tradizionali che avevano suscitato il nuovo interesse di Chris: «Allora non sei per niente disposto ad aiutarmi?» «Davvero non vedo quanto la cosa mi possa riguardare. O comunque come possa aiutarti. Neanche io so granché, ho un buon rapporto di lavoro con mio padre e non voglio mandare tutto a puttane chiedendogli di raccontarmi cose che preferirebbe non divulgare. E preferirei che non lo facessi nemmeno tu. Dovrai trovare altre strade per ottenere informazioni per il tuo cliente. Ci sono delle persone adottate che non sentono la necessità di andare a cercare i loro consanguinei in capo al mondo. Io, semplicemente, questo desiderio non ce l'ho. A ogni modo, guarda, ne ho abbastanza di questa roba, è una giornata splendida, non sprechiamola parlando di questo. Penso che si imponga un cambio di argomento, no?» Saz non era d'accordo con lui, ma non sapeva come protestare. Luke indicò una nuova area in costruzione oltre il muro posteriore: «Li vedi quegli appartamenti laggiù?» «Sì.» «L'agente immobiliare è un mio amico, ho le chiavi. Il posto è meraviglioso... vuoi darci un'occhiata?» «Perché?» «Così... be', ho investito dei soldi nella ristrutturazione. Ti dispiacerebbe, se quello che vedi ti piace, di parlarne con qualche tuo amico?» «Ah, no. Grazie comunque. Non sono sicura che qualcuno dei miei ami-

ci possa permettersi case progettate da grandi architetti.» «O che le vogliano?» Saz sorrise: «Ne conosco un paio a cui interessa quel genere di cose. Ma nessuno con una montagna di contanti da parte. Mi spiace.» Saz terminò la sua birra e lasciò Luke. Anche se la loro conversazione si era conclusa abbastanza piacevolmente - sebbene alle condizioni di lui e non a quelle di lei -, il pensiero della tensione subentrata tra loro a metà della discussione la metteva a disagio. Si rese conto di non avere mai riflettuto seriamente sulla questione di come si sentono i figli adottivi, e che forse era stata un'insensibile ad aspettarsi che lui volesse sapere dei suoi genitori naturali tanto quanto Patrick e Chris. In realtà, si tormentava rendendosi conto che, siccome Luke si era dimostrato completamente disinteressato ad aiutarla, sembrava molto più probabile che avesse accettato di incontrarla quel giorno solamente per scoprire quanto sapeva. E, se le cose stavano così, avrebbe fatto meglio a dire a Carrie di tenere la bocca chiusa in futuro. Dopo esserselo detta a sua volta. Decise di rimandare la discussione con Chris sulla questione dell'acquisto di neonati finché non ne avesse saputo un po' di più. E finché non avesse saputo qualcosa di più sul coinvolgimento di Richard Leyton. Una seconda puntata all'ufficio di Georgina Leyton sembrava sempre più necessaria. Purtroppo. E poi casa, cena, conversazioni spicciole sulla giornata di Molly al lavoro, sul fatto che Luke avesse cercato di interessarla a un nuovo appartamento, sui pensieri riguardo al bambino, su questioni di carattere medico, su quando cenare con amici e parenti. Tutto perfettamente normale, solo con un pizzico di panico sotto la superficie. Saz iniziava a trovare terrificante la prospettiva dell'urgenza inderogabile, i cinque mesi e mezzo che la separavano dal diventare mamma. Dopo tutto il tempo trascorso a parlare della possibilità e poi a progettare il tutto perché si concretizzasse, la realtà in quanto tale era molto più terrificante di quanto si fosse aspettata. Però nascondeva le sue paure alla compagna. Saz pensava che Molly non avesse certo bisogno di sentire le sue preoccupazioni su quello che ora era il loro inevitabile futuro. Invece si scolò quasi una bottiglia di vino, chiacchierò del più e del meno, evitò di parlare della confusa faccenda dell'adozione e si scrollò di dosso la paura del futuro grazie al calore della loro reciproca sensazione di benessere. Molly riuscì a bere anche lei quasi mezzo bicchiere prima di cedere al terrore divulgato dai mass media e accontentarsi di acqua minerale, innocua per il feto.

Sedevano insieme mentre fuori la notte scendeva su Hampstead Heath. Le finestre erano aperte e anche così la stanza era ancora calda per il persistente calore della giornata. Molly tirò Saz per i capelli: «Togliti i vestiti.» «Perché?» «Non hai caldo?» «Sì.» «Allora togliti i vestiti. Così stai più fresca. E io posso accarezzarti il corpo. Ti voglio vedere nuda.» Saz soddisfece la richiesta della sua donna. Ma lo fece con esitazione. Dopo l'aborto spontaneo, e poi i primi tre mesi di quella gravidanza in cui si era sentita obbligata ad avvicinarsi a Molly con grande cautela nell'attesa di sapere se il feto ce l'avrebbe fatta, era ancora impegnata a imparare di nuovo come stare con il corpo di Molly, come essere solo carne e niente pensiero. Ma Molly non si era dimenticata quel concetto. «Saz, onestamente, non occorre che mi tocchi come se potessi rompermi da un momento all'altro. Sono piuttosto forte, lo sai. Sono solo incinta. È assolutamente normale. Il mondo è pieno di donne incinte che scopano come coniglie.» «Questo lo so.» Saz si accigliò e si allungò sul corpo della sua donna, con il peso distribuito in modo omogeneo sul corpo di Molly, molto più alta: «Voglio dire, nella mia testa lo so, so quanto sei in forma, so che ti stai prendendo cura di te. Ma è più forte di me, cerco di guardarti solamente in quanto Molly e basta, e a quanto pare non ci riesco. Ti guardo e vedo che sei incinta.» «Ti stai lamentando del mio pancione?» Saz scoppiò a ridere: «Quale pancione? Cristo, Moll, la maggior parte delle donne che conosciamo sarebbe disposta a uccidere per avere un corpo come il tuo.» «Allora va tutto bene.» «Lo sai che ti trovo splendida.» «Allora non ti sei stancata di me?» «Certo che no, sono solo terrorizzata all'idea di poterti fare del male. Di fare del male al bambino.» «Saz, non succederà. Perché dovrei essere diversa da tutte le altre donne del mondo?» «Perché tu sei mia.» Molly annuì e poi aggiunse con esitazione: «E perché questo bambino è

tuo?» «Nostro.» Molly si strinse nelle spalle, si sistemò meglio sotto Saz: «Sì, ma tuo in realtà. Tecnicamente. Geneticamente.» «Be', questo è discutibile, ma se la metti così, be', sì, è ancora più spaventoso. Mi sento ultraprotettiva nei confronti di entrambi. Ti guardo e penso a quanto voglio prendermi cura di te.» Molly sorrise. «Allora prenditi cura di me. Conosco i limiti di sopportazione del mio corpo e che cavolo, è in grado di sopportare molto più di questi bacini e coccole delicate. Sono sicura che non mi fa bene essere così frustrata.» «No, mi sa che il desiderio non ricambiato non è un toccasana per la pressione.» Molly piegò le ginocchia e le strinse attorno alla vita di Saz: «Non fa bene per niente. Fidati, Saz, sono un medico.» Saz si fidò di Molly. Mentre passavano dalle chiacchiere alla nudità ignorarono il suono insistente del telefono. Per due volte. La prima volta Saz aspettò solo che la segreteria telefonica prendesse la telefonata, la seconda volta abbandonò la pelle di Molly per il tempo necessario ad andare a spegnere la suoneria di entrambi i telefoni. Saz aveva fiducia nel medico, non nei messaggi che si accumulavano nella segreteria. Si fidò di Molly abbastanza da trovarsi con la schiena dolorante per il pavimento duro, e i polpacci tesi per la tensione rilasciata lentamente. Circa un'ora più tardi Saz aveva dimostrato talmente la sua fiducia da far arrabbiare sul serio il loro vicino di sopra. Durante gli ultimi due mesi era stato più che sollevato dal fatto che "le scopatrici rumorose del piano di sotto" avevano finalmente deciso di tacere e di trombare in silenzio come la gente normale. Il povero ragazzo era single da più di un anno. Da quattordici lunghi mesi. Dopo aver fatto addormentare Molly, strofinandole la schiena fino a sentire il suono familiare del suo respiro nel sonno, lento e regolare, Saz andò ad ascoltare i messaggi. Il primo era di Sukie, una voce flebile, un po' preoccupata: «Signorina Martin, sono solo un po' preoccupata... forse non avrei dovuto dirle tutte quelle cose su Gerald. O Richard Leyton. Forse adesso lui, Gerald, riposa in pace comunque. Be', tutti e due, forse. Penso... preferirei che lei non... Non desidero proprio essere coinvolta... forse mi vuole richiamare?» Anche la seconda telefonata era di Sukie, ma questa volta la cornetta era stata riagganciata. Era l'una di notte passata: secondo l'irreprensibile voce

femminile della British Telecom, la seconda telefonata di Sukie era stata fatta alle dieci e un quarto. Saz decise di chiamarla la mattina dopo. Probabilmente per Sukie la notte era roba diabolica, ma era abbastanza certa che si sarebbe alzata all'alba per cominciare un'altra giornata interamente dedicata alla preghiera. Tornò a letto e si sdraiò accanto al corpo caldo di Molly, interrogandosi per un po' riguardo a Sukie. Cosa mai era potuto succedere per allontanare un'ochetta modaiola dal suo cammino originale? Saz non era del tutto sicura che credesse semplicemente che Gesù l'aveva trovata: tutte le persone che conosceva e che si erano convertite a qualche forma estrema di fede dai cristiani rinati alle lesbiche separatiste rinate - l'avevano fatto dopo una crisi esistenziale di qualche tipo. A volte una crisi meravigliosa come l'innamoramento, ma comunque un importante punto di svolta. Si stava ancora domandando cosa avesse indotto Sukie a convertirsi, quando le due notti arretrate di sonno e l'avere ripreso a scopare energicamente ebbero finalmente la meglio su di lei. 24. Alle dieci meno un quarto del mattino seguente Saz era già andata a correre, si era fatta la doccia, vestita, e aveva sparecchiato i piatti della cena rimasti dalla sera prima, aveva preparato la colazione a Molly, aveva fatto la doccia insieme a lei per dimostrare ancora una volta la sua fiducia nelle conoscenze mediche di Molly, l'aveva accompagnata a piedi fino alla metropolitana e stava aspettando con impazienza le dieci, ora in cui Gary sarebbe stato al lavoro e avrebbe potuto chiedergli cosa avesse scoperto. Prima della gravidanza, Saz aveva l'abitudine di alzarsi molto presto la mattina per andare a correre, dormiva poi per il resto della mattinata e lavorava tutto il pomeriggio e gran parte della sera. Ora, tuttavia, stava cercando di adattare le sue abitudini a un orario più normale - inizialmente per fare piacere a Molly e aiutarla nei primi difficili mesi, e adesso perché la realtà del bambino che cresceva le faceva sentire davvero l'urgenza di fare al più presto qualche progresso riguardo alla verità su Chris. E su Patrick. E su Luke, se è per questo. Il fatto di guardare con desiderio il loro letto a qualsiasi ora tra le nove del mattino e mezzogiorno non le impediva di utilizzare il tempo nel modo più proficuo possibile. Le seccava da morire solo il fatto che gli altri sembravano un po' meno celeri di quanto sperava. Provò a chiamare Sukie un paio di volte ma non ci fu risposta, e nemmeno

una segreteria telefonica. Ovviamente si era liberata di tutta la tecnologia opera del demonio. Forse Gary aveva un orario di ufficio poco rigido, ma non la deluse. «Promettimi che ti muoverai con cautela.» «L'hai trovata? La madre?» «Ho trovato una Lillian Hope. In Cornovaglia, vicino a St. Ives, che è il posto da cui scriveva il tuo dottore, no? Probabilmente ha l'età giusta, potrebbe essere la donna che cerchi. Però, può darsi che la tua Lillian Hope abbia lasciato la Cornovaglia subito dopo aver ceduto il suo bambino e questa sia solo una che era lì per caso nello stesso periodo.» Saz era eccitata: «Sì, sicuro, tutto è possibile, però raccontami la storia e basta, Gary.» «Be', non riesco a trovare nessuna conferma che quella donna abbia registrato un bambino nel periodo in cui è nato Patrick.» «Forse non l'ha fatto. Forse l'hanno fatto i suoi genitori adottivi.» «Sì, forse. A ogni modo, presumendo che si tratti della stessa Lillian Hope - e dal momento che questa qui ha cambiato casa solo due volte dal 1963, direi che è quasi verosimile -, penso che potrei aver trovato la tua signora. Ci sono solamente altre quattro Lillian Hope registrate in Cornovaglia attualmente. Per due di loro questo è comunque il cognome da sposata, una è morta l'anno scorso all'età di novantasette anni - quindi dubito sia la madre di Patrick Freeman - e l'altra è un transessuale che ha cambiato nome dieci anni fa. Nemmeno lei mi sembra una scelta plausibile.» «E hai il suo numero di telefono e il suo indirizzo?» «Ah, sì, sono davvero eccezionale nel reperire dati totalmente illegali. Ti mando il malloppo via fax, va bene?» «Sì, per favore. Grazie. Gary, sei fantastico.» «Ehm... Saz?» «Sì?» «Sarai prudente, vero? Capisco che è un colpaccio per il tuo cliente, ma sarà un colpaccio notevole anche per questa Lillian. Vacci piano. Non è come se la stessi contattando attraverso una di quelle agenzie che si occupano di adozione. Hai detto che lui non ha ancora avuto nessuna notizia tramite loro, giusto?» «Si.» «Be', quella gente è allenata a fare questo genere di cose. Forse quella donna non desidera alcun contatto. Non è che abbia fatto il benché minimo sforzo per trovarlo, no? Ci hai pensato?»

«Gary, credo che Patrick o Chris non abbiano pensato ad altro fin dal primo momento in cui hanno deciso di iniziare a cercare. Agirò con cautela. Promesso.» «Bene. Lascio tutto nelle tue mani allora. Ora, se hai bisogno di qualcos'altro, faresti meglio a chiamarmi tra quindici giorni.» «Vai in vacanza?» «Finalmente e per sempre. Mi hanno offerto un lavoro alla televisione.» «No!» «Eh, sì. Un ruolo da protagonista romantico, una serie in sei parti. Ci sono tutte le possibilità che ne facciano una seconda. Ho la parte di un amante anni Settanta: troppo sexy, splendido, scopabilissimo.» «Porca miseria, è magnifico. Ma... Gary?» «Cosa?» Saz percepì della prudenza nella sua voce. Gary aveva passato così tanto tempo a parlare male della tv commerciale che Saz non riusciva a credere che non lo stessero criticando parecchio per quella decisione. «Che fine ha fatto la storia "affanculo il sistema, io credo nel teatro popolare"?» «Sì, be', chiamami voltagabbana, opportunista, laburista all'acqua di rose che svende la pubblica proprietà... ma voglio assolutamente riuscire a pagarmi il mutuo. Si chiama diventare adulti, Saz.» «Raccontami di questo lavoro.» «Guarda che faccio la parte di una checca.» «Oh, be', allora va bene.» «E sto ancora nuocendo al sistema, divulgando informazioni raccolte illegalmente.» «Vero.» «E non è abbastanza?» «Può darsi.» «Va bene. E faccio la parte del tipo con cui Alan Davies ha una storia.» «Basta così. Buon lavoro.» Saz riagganciò ridendo al pensiero dell'uomo che aveva indotto il corpo e lo spirito di sua sorella ai peccati della carne allontanandola da Gesù, che tentava di recitarne la versione per lo schermo. Con un uomo. Due uomini eterosessuali. Le ragazzette di tutto il paese che lo avrebbero visto se ne sarebbero di certo rallegrate. Certamente era un buon esempio di casting creativo. Pensò solo un attimo a cosa fare subito dopo, poi alzò la cornetta del telefono per chiamare Patrick. Secondo il suo ragionamento, anche se Pa-

trick poteva preferire che la notizia gli venisse comunicata con tatto e di persona, non gli sarebbe dispiaciuto sapere il prima possibile che c'era una probabilità di trovare sua madre. Non aveva nemmeno finito di comporre tutto il numero quando venne interrotta dal suono del campanello e dall'apparizione di due agenti della polizia che con grande sollecitudine la informarono che Sukie Planchet era stata trovata brutalmente malmenata nel suo appartamento. Era disposta a rispondere a qualche domanda? Sukie era stata ferita in modo così grave che adesso si trovava priva di conoscenza in rianimazione. E non solo pensavano che Saz fosse stata l'ultima ad averle fatto visita - «Aveva addosso il suo biglietto da visita, signorina Martin» -, ma sapevano anche che Sukie l'aveva chiamata la sera precedente a un'ora tarda. Apparentemente la giovane poliziotta riteneva che le dieci e un quarto di sera fossero un'ora tarda. Saz temeva che non avesse una vita sociale frenetica quando era fuori servizio. Le ci volle qualche minuto per capire esattamente perché le stessero chiedendo come faceva a conoscere Sukie. Ma quando lo capì, non ne fu colpita molto favorevolmente. «Cazzo! Pensate che io le abbia fatto del male?» La poliziotta iniziò a balbettare delle scuse ma il poliziotto più anziano che stava con lei era tutto calma professionalità: «Niente affatto, signorina Martin. Siamo solo interessati alle ragioni che la hanno spinta a farle visita. Lei ha detto che non eravate amiche intime?» «Non eravamo amiche per niente. Non l'avevo mai incontrata prima di ieri.» «Allora perché era lì?» Saz espose le proprie ragioni nel modo più parco possibile, un brevissimo riassunto della situazione di Patrick e niente di niente su Luke o sullo studio di avvocato di Leyton. D'altro canto, come alibi aveva Molly, sulla quale fornì ampi particolari. La poliziotta si annotò il numero di telefono del lavoro di Molly e fece del suo meglio per rassicurare Saz: «Non credo che nessuno abbia pensato nemmeno per un attimo che lei abbia qualcosa a che fare con questa faccenda, signorina Martin. Non credo che una donna farebbe male a qualcuno in quel modo.» Saz si domandò da quanto tempo fosse laureata la poliziotta per essere così ingenua, ma sorrise comunque con gratitudine. Il suo collega meno fiducioso continuò con la storia: «Attualmente, signorina Martin, il problema principale è che non riusciamo a trovare nessun parente prossimo.» «Nessuno?»

«No. Abbiamo provato nelle chiese: chiaramente è molto religiosa.» La donna più giovane intervenne: «Sa, l'appartamento, tutte quelle cartoline? Ma siamo stati nelle quattro congregazioni della sua zona e nessuno sapeva niente di lei.» Saz concentrò la sua attenzione sul poliziotto, sperando così di farli uscire dal suo appartamento il più presto possibile. «Da quello che mi ha detto, non ho avuto l'impressione che avesse molta fede nella religione organizzata. Penso che fosse per questo che era così felice di avere l'occasione di pregare con me.» Completamente ignara della crescente irritazione del suo collega, la giovane poliziotta continuò: «E la signorina Planchet non ha nemmeno un lavoro. Poi, quando abbiamo fatto un po' di domande in giro, i suoi vicini hanno detto anche loro di non conoscerla. Non bene, comunque. E sa, tutte le sue cose erano in un tale stato di disordine, l'appartamento è stato rivoltato da cima a fondo. Non ho mai visto niente del genere.» Fu solo dopo che la poliziotta aveva iniziato una minuziosa descrizione delle ferite di Sukie, inflitte molto probabilmente con l'angelo di gesso che Saz aveva notato il giorno precedente, che il poliziotto più anziano finalmente riuscì a zittirla e a ritornare alla vera ragione della loro visita. «Quindi speravamo che potesse venire all'ospedale per identificare la signorina Planchet.» «Ma voi lo sapete chi è, l'avete appena detto.» «Sappiamo che è stata trovata in quell'appartamento. Possiamo solo presumere che sia la signorina Planchet. Ma non è sicuro.» «Davvero non la conosco quella donna.» «Ma ha parlato con lei. L'ha fatta entrare in casa senza alcun problema.» «Così potete prendere due piccioni con una fava?» Appena le parole le uscirono di bocca, Saz si rammaricò di averle pronunciate: «Mi spiace, voglio dire, avete bisogno di me per identificarla e questo vi dà anche la possibilità di fare dei controlli su di me?» Il poliziotto si limitò a sorridere e le offrì un passaggio fino all'ospedale. Saz stava seduta sul sedile posteriore della macchina della polizia, incapace di scacciare dalla testa l'immagine di una donna pallida e minuta, con indosso un cardigan rosa sbiadito, che le porgeva la Bibbia e una mano tesa e la invitava a entrare. Che invitava a entrare chiunque bussasse alla sua porta. La poliziotta chiacchierò per tutta la durata del viaggio e, anche se Saz era felice di poter raccogliere ogni tipo di informazione, non avrebbe voluto essere nei panni della giovane donna più tardi, quando avrebbe do-

vuto fare i conti con la disapprovazione del collega di vecchia scuola. A quanto pareva, un vecchio che abitava nel caseggiato di Sukie li aveva chiamati alle cinque del mattino quando aveva portato il suo cane a passeggio e aveva notato che la porta di Sukie non era chiusa. La poliziotta pensava che Sukie fosse stata fortunata a essere stata trovata così presto. Saz pensò che la poliziotta aveva uno strano concetto di fortuna. Avevano esaminato i documenti di Sukie, guardato con attenzione le carte sparpagliate in disordine sul pavimento. Purtroppo quasi tutte erano di carattere religioso e nessuna offriva alcun riferimento a famiglia o amici. Quando avevano trovato il biglietto da visita di Saz dentro la Bibbia di Sukie, avevano deciso di contattarla. C'erano volute quattro ore buone per eliminare la possibilità che Sukie potesse essere identificata da qualcun altro. Ma Saz non riteneva certo che una mezz'ora di preghiera e un'altra ora di discussione facessero di lei la testimone ideale della vita di Sukie. Saz stava vicino al letto di Sukie. La poliziotta non aveva esagerato. Sukie era stata percossa a sangue. Nei due brevi minuti che le vennero concessi al suo capezzale, Saz sentì una fitta allo stomaco al pensiero dell'estrema violenza che aveva prodotto tutti quei lividi e quelle ferite sul corpo disteso davanti a lei. E si rese conto che la sua reazione dipendeva solamente da quello che si vedeva, dalla pelle chiazzata di macchie scure e lacerata. A giudicare dalla varietà di flebo e monitor a cui era attaccata, Sukie aveva riportato gravi danni anche internamente. Mentre distoglieva lo sguardo si consolò pensando che almeno quella donnina tenace aveva reagito con tutta la forza che aveva in corpo: le unghie delle mani spezzate e sanguinanti ne erano la triste prova. Dopo una breve sosta al bagno delle signore per vomitare - lo shock e un disgustoso senso di colpa si allearono contro il suo corpo -, confermò che la donna sul letto era davvero la Sukie Planchet che aveva incontrato il giorno prima. Diede alla polizia il suo numero di cellulare e, rifiutando la loro offerta di riportarla a casa, si avviò direttamente verso il ristorante di Patrick Freeman. Saz non aveva idea di quale fosse il giusto ordine in cui considerare i nuovi sviluppi. Avrebbe raccontato a Patrick di Lillian Hope, sicuramente nel corso delle ore successive, ma non prima di essere in grado di parlare in modo razionale. Stavano succedendo troppe cose troppo in fretta, e Saz sapeva di non essere in grado di affrontare la notizia, che forse era buona, finché non avesse almeno tentato di venire a capo in qualche modo della notizia veramente brutta. Sapeva anche che Sukie era stata pe-

stata dopo che lei aveva accennato a Luke di avere parlato con l'ex amante di Gerald Freeman. Anche se a Saz ripugnava l'idea che tutto ciò potesse avere a che fare con Luke, sembrava anche un po' troppo immediato per essere una semplice coincidenza. Non era ancora pronta a parlare di nuovo con lui - non finché non fosse stata più sicura dei suoi sospetti, comunque , ma pensò che forse era arrivato il momento di ritentare con Georgina Leyton. Con Patrick al suo fianco, stavolta. 25. Saz sedeva ingobbita nella metro, ignara dei turisti e degli acquirenti diretti in Oxford Street che non vedevano l'ora di passare un altro pomeriggio caldo nella capitale appiccicosa, poi si fece strada a spintoni attraverso una massa molesta di gente in pausa pranzo che camminava lenta, per arrivare al ristorante di Soho dove lavorava Patrick. Ignorando il maître sdegnato, entrò dritta in cucina attraversando la folla ammutolita di eleganti avventori e strappò Patrick dai fornelli, rovinando così una perfetta bistecca di cervo che aveva bisogno di un tempismo al secondo spaccato. Sapeva che quell'intrusione rischiava di provocare la sua famigerata ira ma, sbandierando la possibilità di arrabbiarsi ben più di lui, pretese che abbandonasse i venti coperti di cui doveva ancora occuparsi, si prendesse il resto della giornata e andasse con lei all'ufficio di Georgina Leyton. Si fermò un attimo a spiegargli chi era Sukie, conscia che Patrick aveva chiesto espressamente di non ricevere informazioni sull'amante di suo padre, ma di sicuro era una mancanza di delicatezza con cui l'uomo avrebbe dovuto fare i conti. Patrick, messo di fronte alla furia intensa che dimostrava Saz per l'orribile aggressione subita da Sukie, e d'accordo con lei sul fatto che quell'azione non sembrava per niente casuale, accettò di lasciare il ristorante. Però sarebbero dovuti uscire dalla porta sul retro: non intendeva assolutamente attraversare la sala del suo locale e sparire nel bel mezzo del pranzo quando almeno sei persone stavano aspettando il delizioso piatto a base di capesante eccessivamente lodato in tre recensioni diverse quello stesso fine settimana. E comunque, non certo quando stavano pagando trenta sacchi a cranio per godere di quel privilegio. Sukie aveva confermato l'affermazione di Patrick sul fatto che l'avvocato era stato una figura costante nella vita pubblica e privata di Sir Gerald. Aveva anche lasciato intendere che non era un modello di gentilezza. Patrick aveva trovato la lettera di Leyton a suo padre sull'adozione e ora ave-

vano scoperto l'altra lettera su Jonathan Godwin. Se loro due erano riusciti a trovare informazioni in mezzo al casino in cui Patrick aveva ridotto lo studio di suo padre, allora Saz stentava molto a credere che Georgina non si fosse mai imbattuta in qualcosa tra le carte di suo padre. Sperava che, con Patrick Freeman al fianco, sarebbe riuscita a ottenere un po' più di collaborazione dall'avvocato. Saz e Patrick arrivarono nell'ufficio dei Leyton nel tempo record di sei minuti e in un silenzio quasi assoluto. Dopo una conversazione telefonica sottovoce, l'assistente gli disse che potevano accomodarsi nell'ufficio dell'avvocato Leyton. Non erano attesi, naturalmente, quindi erano stati molto fortunati a trovare un buco nel suo programma fittissimo, ma naturalmente le avrebbe fatto un immenso piacere vedere Patrick e la sua amica. L'assistente, un gran bel ragazzo, usò la parola "amica" come un'arma. Stavolta Georgina Leyton portava un tailleur rosa pallido, un capo molto professionale e al tempo stesso trasparente. Li guardò entrambi con un sorrisino: «Che piacere rivederla, signora Martin. Non avevo capito che conosceva Patrick.» Patrick le rispose: «Sta sbrigando dei lavori per me.» Georgina accolse Patrick con un abbraccio caldo e affettuoso, poi strinse fiaccamente la mano a Saz. Gli indicò due posti diversi dove sedersi e loro eseguirono senza indugi. Georgina era evidentemente bravissima a dare ordini. Attirò Patrick dalla sua parte, sistemandolo nella sua perfetta sedia ergonomica, e si sedette sulla scrivania davanti a lui, offrendogli un panorama chiarissimo delle sue cosce perfette e lisce, senza calze per via del caldo estivo. Saz invece fu indirizzata verso un divanetto di fronte alla scrivania, nel punto dove di solito c'è una sedia per il cliente. Saz sarebbe stata in posizione svantaggiata, anche se Georgina non le avesse voltato le spalle. Così, appollaiata scomodamente su quella che sembrava una panca per asceti smaniosi di penitenza, era diventata improvvisamente la sorellina sgraziata che si intrometteva tra il fratello maggiore e la babysitter procace. Poi, ignorandola completamente, Georgina per cinque minuti chiacchierò fitto con Patrick, dopo un breve accenno a Saz sul fatto che si conoscevano da anni, dato che si erano spesso incontrati tramite i rispettivi padri. La conversazione comprendeva un bel po' di informazioni su quanto se la passava bene Georgina, su quanto alte erano le sue ambizioni e su quanto era fantastica e sfrenata la sua vita sessuale. Alla fine tornò a posare lo sguardo azzurro ghiaccio su Saz, che si sentì ancora più imbarazzata della

prima volta in cui si era avventurata in quell'ufficio. Naturalmente, per Georgina Leyton i clienti a disagio erano una manna. «Saz, vero? Che nome strano. Vediamo, cosa posso fare per voi? Naturalmente, per Patrick farei qualsiasi cosa...» Lasciò la frase sospesa mentre prendeva tra le sue la mano di Patrick e poi la baciava, e Saz avrebbe voluto che Patrick fosse seduto al suo fianco perché vedesse anche lui il ghigno di Georgina. Saz spiegò che, dopo la morte del padre di Patrick, voleva scoprire tutto quello che poteva sui suoi genitori naturali. E che aveva anche un altro cliente in una situazione analoga, e il legame tra i suoi due clienti era Richard Leyton. Poi rimase di stucco quando Georgina cominciò a piangere, con i lacrimoni che le scendevano lungo le guance perfette. Scuotendo la testa prese la mano a Patrick: «È terribile, vero, caro? Perdere il padre. Naturalmente sarai così triste. Mi dispiace per te, e adesso anche questa ricerca. Come puoi farcela?» Patrick borbottò che si doveva pur tirare avanti, e Saz riportò la conversazione alla ricerca d'informazioni importanti. Ma Georgina non sentiva ragioni. Scuoteva la testa e continuava a esprimere tutta la sua comprensione più profonda. Patrick le era grato; Saz cercò di chiederle del ruolo giocato da Richard Leyton nell'adozione; Georgina disse quanto doveva essere stato terribile. Ogni volta che Saz tentava di fare una domanda diretta sul ruolo di suo padre nelle adozioni, Georgina faceva la parte di quella commossa e sofferente. E per qualche motivo Patrick non diceva niente, si comportava come se avere attenzioni da Georgina, e la sua mano dalla manicure perfetta, e il suo cordoglio eccessivo fossero gli unici suoi bisogni e il solo motivo per cui aveva fatto una capatina nel suo ufficio. Quando Saz, irritata oltre ogni dire da Georgina ed esasperata per la mancanza di aiuto da parte di Patrick, finalmente domandò apertamente se potevano accedere alle carte di Richard Leyton, la sua richiesta fu accolta dall'incredulità più totale sul fatto che potesse essere tanto priva di tatto da chiedere a Georgina di infrangere tutti i giuramenti dell'ordine degli avvocati. Georgina si rifiutava anche solo di prendere in considerazione una cosa tanto distante dalla prassi comune. No, si sarebbe assunta il compito di esaminare di persona tutti i documenti e trasmettergli qualsiasi cosa fosse potenzialmente utile. Era il minimo che poteva fare per il suo vecchio amico. Anche se - aggiunse guardando Saz -, era improbabile che ci fosse molto, dato che suo padre era molto scrupoloso sulle questioni di sicurezza. A Georgina ci vollero altri quindici minuti buoni per esprimere in modo consono la vasta gamma del suo enorme cordoglio, usando ogni volta nuo-

vi scoppi di compassione per eludere le domande di Saz, e a quel punto sulla porta arrivò l'assistente che a momenti trascinava Georgina fuori dalla stanza. Era attesa da un taxi che doveva portarla al City Airport e poi a Ginevra, e non si poteva aspettare. Invece, a quanto pareva, Chris e Patrick avrebbero dovuto aspettare, eccome. Georgina abbracciò di nuovo Patrick, gli fece altre condoglianze e sarebbe uscita senza dire altro se Saz non le avesse letteralmente sbarrato la strada. «Senta, Georgina, mi spiace ma non può scappare così.» La donnina tenne duro e guardò calma Saz torcendo quelle labbra perfette, gli occhi ora privi di cordoglio: «Certo che no, signora Martin.» Si girò e sorrise a Patrick e gli strofinò la spalla con una mano troppo affettuosa che andò a finirgli sulla guancia. «Certo che non voglio andarmene così. Ma devo veramente arrivare a quella riunione e voi vi siete presentati senza appuntamento. Però, come ho già detto, prometto a entrambi che appena rientrerò da Ginevra sarà una mia priorità assoluta controllare tutto quello che mio padre ha lasciato.» Strinse di nuovo la mano a Patrick: «Te lo garantisco solennemente. Se c'è anche un minimo spiraglio di poter trovare qualcosa sull'argomento tra le mie carte, vi passerò anche l'informazione più piccola.» Con le dita fredde vagò di nuovo fino alla guancia di Patrick: «Torno lunedì e, credimi, appena mi libero questa sarà la mia unica occupazione.» La seguirono fuori fino all'ascensore. Saz vi entrò sempre più furiosa per il fatto che quella donna, che secondo lei sapeva molto di più di quanto lasciava trapelare, potesse andarsene senza avergli dato niente. Entrambi la guardarono salire sul taxi in silenzio, e Patrick le fece cenni cordiali mentre il taxi si immetteva nella corrente del traffico diretto a est. Loro tornarono indietro passando per Regent's Park, Saz zitta mentre cercava di trattenere la rabbia accumulata quel giorno, e Patrick che le camminava a fianco, perplesso su quanto gli era appena accaduto e ancora meno sicuro di come parlarne a Saz. Si diressero verso la prima panchina all'ombra e si sedettero. Saz, guardando dritta davanti a sé, dove si stavano raccogliendo le anatre e i piccioni, aspettò un poco finché non vide che Patrick era quasi a suo agio di fianco a lei e gli chiese: «Allora, per quanto tempo siete andati a letto insieme?» Patrick sbottò in un sospiro esausto: «Circa sei mesi. Cinque mesi e mezzo di troppo.» «Cristo.»

«Ero giovane.» «E stupido.» «Sì, anche quello.» «Quella donna è tremenda.» «Dai, non proprio. Solo un po'...» «Fredda? Calcolatrice? Manipolatrice?» «In realtà è un po' sclerata, Saz.» «Sì, proprio. Adoro quando gli uomini scusano le donne stronze dicendo che sono pazze.» «Per lei è vero.» «Ah, di sicuro. E perché non ti sei preso la briga di dirmi di voi?» «Non mi sembrava il caso.» «Cazzate.» «Pensavo che non fosse importante.» «Pensavi che non fosse importante prenderla alla sprovvista, spillarle delle informazioni, e ti sei accorto solo quando eravamo lì che lei era in grado di rigirarti come voleva?» «Be', neanche tu te la sei cavata molto bene.» «Grazie tante, ma almeno ci ho provato, che cazzo. Non capisco, Patrick, non mi sembra il tuo tipo.» «Infatti non lo è.» «Ma ha un corpo splendido?» «Ha anche una mente splendida.» «Naturale.» Restarono in silenzio per un altro minuto, poi Saz aggiunse: «Fa paura, cazzo.» «Perché è aristocratica o perché è troppo bella?» «Perché mente.» Patrick annuì vigorosamente: «Ah, sì. Questo è sicuro.» Restarono seduti un'altra decina di minuti nel tepore pomeridiano finché Saz, dopo aver smaltito la rabbia, non si accorse che non poteva più rimandare la seconda notizia-bomba. Proprio mentre quattro grosse oche canadesi battevano le anatre nella corsa ai pezzi di pane lanciati dai turisti giapponesi, Saz disse tranquilla a Patrick che Lillian Hope, la donna indicata come sua madre sul certificato di nascita, probabilmente era viva e vegeta e viveva a St. Ives. 26.

Quando Saz raccontò per la prima volta a Patrick di Lillian Hope, lui voleva mettersi subito in viaggio sulla M4. Poi lo shock e l'ansia iniziali cedettero il posto alla rabbia perché Saz aveva deciso di non dirglielo prima, anche se la sua furia si attenuò quando lei ripeté gli ottimi motivi che aveva. Dopotutto Georgina ora stava volando in prima classe verso Ginevra e non sarebbe tornata fino al lunedì. Naturalmente Saz non lo sapeva prima, ma Patrick alla fine concordò sul fatto che era meglio avere scoperto la doppiezza di Georgina subito piuttosto che dopo. Fece un po' più di fatica a convincerlo che quel momento preciso non era l'ideale per dirigersi a tutta velocità verso ovest. Erano le cinque del pomeriggio di un giovedì, prima di un lungo fine settimana estivo. Anche se le minimo dieci ore di viaggio gli avrebbero almeno lasciato tempo in abbondanza per escogitare il modo migliore di avvicinarsi a Lillian Hope, Saz rifletté con Patrick che forse era più saggio passare una serata con i rispettivi consorti, liberarsi di un po' delle arrabbiature della giornata e farsi una bella dormita, in modo da essere pronti per lo sforzo fisico ed emotivo del lungo viaggio fino in Cornovaglia a conoscere quella che forse era la madre di Patrick. Saz suggerì di affrontare il nuovo dilemma con la mente più fresca la mattina seguente. Alla fine Patrick capì che era un piano fantastico e lo accettò. Un piano fantastico e quindi condannato al fallimento fin da subito. Tanto per cominciare, Saz dovette occuparsi di Chris che si sentiva trascurato e piuttosto incazzato perché a quanto pareva lei aveva trovato la madre di Patrick e non la sua. Era consapevole della sua reazione irrazionale e del fatto che Saz stava facendo più fatica a trovare informazioni su lui che non su Patrick, non ultimo perché ora sua madre era tornata a casa e quindi Saz non poteva più accedere liberamente a tutti gli archivi di famiglia. «Chris, devi capire, questa è una pista anche per te, in un certo senso.» «Ma come?» «Be', è stato Lees a prendersi cura della donna. Potrebbe aver anche incontrato Leyton. Forse conosceva altre donne che gli avevano dato i loro figli.» Saz non pensava che quello fosse il momento di parlare della vendita di bambini. «Ci sono buone probabilità che ci possa dire qualcosa anche su tua madre.» «Penso che scoprirai che è una probabilità minima, Saz. Ho chiesto a mia madre se era mai stata da uno specialista prima che mi adottassero, hai presente, proprio come la madre di Patrick Freeman è andata da Lees.»

«E cosa ti ha detto?» «Sì, ci è andata. Ma il medico si chiamava Keane. Non Lees, e non era nemmeno in Cornovaglia.» «Oh, merda.» «Sì, proprio così. Senti, scusa. È solo che sono parecchio geloso, vorrei che fossimo io e te ad andare in Cornovaglia a conoscere mia madre.» Saz guardò Molly che era seduta dall'altra parte della stanza, con il gonfiore della pancia che si vedeva a malapena sotto la maglietta: «Lo so, Chris, anch'io. Mi dispiace che non andassero dallo stesso medico, però continuiamo a sapere che avevano lo stesso avvocato. Forse quella donna in Cornovaglia sa qualcosa di Leyton. È meglio di niente, no?» «Un pelino.» Molly non era in grado di offrire molte consolazioni, ma aggiunse Keane alla sua lista di ricerche mediche e poi preparò a Saz e Chris un risotto ai funghi eccezionalmente appiccicoso. Magra consolazione, ma non del tutto trascurabile. La serata di Patrick fu decisamente più piena. La sua figliastra più grande, Martha, era una studentessa quattordicenne che cercava disperatamente di farsi passare per qualsiasi cosa tranne una ragazzina di quell'età. Una ventunenne non sarebbe stato male. E, proprio come sua madre, le riusciva preoccupantemente bene. Ragion per cui si preoccuparono all'istante quando non tornò a casa. O almeno, non tornò alle nove, quando l'aspettavano. E nemmeno alle dieci, quando la sua amica tornò a casa dai genitori furenti. E nemmeno alle undici, quando chiamarono la polizia, che manifestò un totale disinteresse: l'agente di turno aveva anche lui delle figlie adolescenti ed era sorprendentemente ottimista su tutta la faccenda. E non era tornata nemmeno a mezzanotte, quando Katy richiamò lo stesso agente per dirgli che la cazzo di polizia era una banda di stronzi che sprecavano i soldi dei contribuenti. Per fortuna l'agente era ottimista anche sul malumore di Katy. Quando Martha tornò a casa barcollando alle due del mattino - in pessima forma per via delle combinazioni di gin, whisky e birra scadente che aveva sperimentato per tutta la sera a casa di un ignoto amico -, Katy passò quattro ore a dare la colpa a Patrick della maggior parte dei suoi guai. Si lamentò della sua indole stacanovista, lo sgridò per le settimane dedicate a riordinare la casa del padre, espresse tutto il suo disprezzo sull'ennesima serie televisiva di quell'autunno - che lo avrebbe tenuto ancora più lontano

dalla famiglia - e, dulcis in fundo, riservò le parole più caustiche per quella ridicola ricerca dei genitori. «Che cazzo, Patrick, non credi che se fosse tua madre ormai avrebbe già cercato di trovarti, se avesse voluto farlo? Cosa ti fa credere che ti accoglierà a braccia aperte? Perché cazzo non lasci in pace quella stronza?» Non era molto giusto e forse non era nemmeno vero e Katy mentre lo diceva non lo pensava sul serio, ma quando era arrabbiata era impossibile arrestare quel flusso di bile furibonda. Martha era stata spedita a letto dopo aver vomitato tre volte, quindi fu Patrick ad accollarsi l'urto della furia di Katy. E, dato che non aveva motivo di sentirsi in colpa quanto Saz del fatto che Katy aveva passato la serata in uno stato di ansia crescente trasformatosi silenziosamente in ira, e che il loro rapporto si era sempre basato tanto sui loro eccessi di passione - sia piacevoli che ferocemente crudeli quanto sulle gioie della famiglia, il loro litigio non finì solo con la porta di una camera sbattuta e delle scuse assonnate all'alba. Quando Patrick andò a prendere Saz la mattina dopo alle otto non aveva dormito nemmeno quelle due ore di sonno agitato che Saz era riuscita a ritagliarsi subito dopo l'alba. Katy si era svegliata con dei postumi di sbronza tremendi e una figlia bisbetica e maldisposta da gestire, e con l'amara consapevolezza di aver parlato a vanvera. E non era la prima volta; mascherò il tutto con una facciata di stronzaggine reiterata perché Patrick se ne andava prima che potessero affrontare Martha insieme. Molly si era svegliata di nuovo sottosopra e incazzata perché Saz se ne andava, lasciandola sola con la sua nausea. Entrambe le colazioni furono striminzite e carburate dalla caffeina, e i baci di saluto affrettati e di circostanza. Per fortuna le due donne rimaste a casa non sapevano che i loro compagni erano su un'autostrada assolata diretti a ovest sotto il cielo azzurro, con la capote abbassata, la musica fin troppo alta e un tacito legame di silenzioso e perfido piacere perché erano potuti scappare. Il traffico di auto in coda per immettersi nella M4 non gli era mai sembrato tanto bello. 27. Per gran parte degli ultimi venticinque anni Lillian Hope aveva abitato da sola. Non amava la vicinanza di altre persone, fisica o di altro genere. Aveva provato a intrattenere delle relazioni, ma non l'avevano mai resa felice. Gli altri non l'avevano mai resa felice. Aveva sperimentato l'intimità,

e aveva sperimentato che non valeva la pena. Lillian era magnanima, fedele e buona. Ma non le piaceva la vicinanza di altre persone. Era ritenuta attendibile e degna della massima fiducia, ma nessuno la conosceva bene. Gestiva un Bed & Breakfast, pulito e comodo, senza fronzoli. Il suo B&B non era presente in alcuna delle guide principali e non avrebbe preso quattro stelle. Nemmeno tre. C'erano copriletti e coperte di ciniglia, niente piumini, e sottili lenzuola di cotone. Le lenzuola erano di proposito non di nylon. Forse la casa di Lillian non era proprio moderna, ma non era nemmeno di un cattivo gusto stereotipato. Le piaceva prendersi cura dei suoi ospiti. Le piaceva darsi da fare. Preparava colazioni gustose anche ai clienti poco carini. Era raro che a Lillian capitassero ospiti poco carini. L'estate successiva non li avrebbe accolti di nuovo. C'erano molte cose che potevano far finire un ospite nella lista non scritta dei "poco carini". Tra le principali, il chiederle della sua famiglia. Lillian era felice di parlare delle loro famiglie finché non esaurivano tutti i parenti, ma non aveva nessuna voglia di parlare dei suoi. Lillian era la propria famiglia. Per lunghi anni si era fatta da madre e da figlia. All'inizio, dopo quasi quattro anni in clinica, aveva abitato in una casafamiglia con altre sette persone. Gente distrutta e matta come lei, gente maltrattata. Era un posto che non portava da nessuna parte, le persone non se ne andavano per fare un passo avanti, ma solo per tornare negli istituti da cui venivano. La loro era una casa che aspirava a essere una famiglia e stava per metà dentro la società, anche se nessuno vi era mai tornato del tutto. Rimbalzavano dalla casa-famiglia alla clinica con timidi tentativi di farcela fino in fondo. E poi tornavano indietro di corsa. Non c'erano casi di successo. Prima di Lillian, se non altro. Per dieci anni Lillian era stata in posizione inferiore rispetto allo stato, non ne faceva parte. Tre anni in casa di cura e molti altri in stato semicomatoso nella casa-famiglia. E poi un giorno arrivò il momento di uscire. Libertà o rifiuto, non riusciva a capire quale dei due, comunque l'aveva colpita come una sorpresa, uno shock. Non potevano più tenerla nella casa-famiglia, che stava per chiudere, sarebbe stata la comunità a prendersi cura di lei. Non successe, non c'erano più fondi, e la gente che aveva passato anni protetta dallo spauracchio degli spostamenti continui scivolò attraverso crepe spalancate nei marciapiedi e cadde in strade buie della Londra o della Glasgow o della Manchester notturne. Ma Lillian si salvò. L'angelo custode di Lillian fu una vecchietta che non riusciva più a fare quattro piani di scale. Un biglietto da visita ingiallito nella vetrina di un

giornalaio, ed ecco che Janet aveva preso il posto del leggendario assessorato ai servizi sociali. Lillian si trasferì nel B&B di Janet, come ragazza tuttofare un po' troppo vecchia per quell'appellativo, ma ancora non abbastanza esperta di vita per essere una donna. A Janet non interessava se era una ragazza o una donna, ma insegnò a Lillian a fare l'albergatrice. Janet non faceva domande, in tutta sincerità non le interessava. Aveva già abbastanza domande senza risposta per conto suo, non voleva certo aggiungerne altre alla lista. Quello che fece, invece, fu insegnare a Lillian a cucinare una colazione all'inglese completa per sedici persone in mezz'ora, preparando le uova strapazzate per dieci persone con quattro uova, usando le croste di pane secco per assorbire il grasso della pancetta e imburrando il filone di pane fresco prima di affettarlo. Lillian apprese da Janet tutte le abilità che purtroppo le mancavano. Imparò a cavarsela, a tirare avanti e a essere discreta. Non aveva mai avuto abbastanza discrezione e persino i tre anni passati in clinica non erano bastati a farle capire l'importanza di tenere la bocca chiusa. Sette anni di casa-famiglia le avevano insegnato solo a compilare moduli, quali trucchetti usare con quelli del ministero, e a chiudere bene a chiave la porta di notte. Ma Janet le insegnò a prendersi cura del suo cuore. Era una lezione di cui avrebbe avuto bisogno dieci anni prima, ma comunque non era troppo tardi per impararla. Dopo quattro anni Janet morì e lasciò la casa alla sua protetta. Ci fu una causa e la figlia naturale di Janet, quella che non degnava di uno sguardo sua madre da sei anni, cercò di rivendicare la casa di Lillian. Non ci riuscì. Come Lillian, anche Janet capiva il sistema. Aveva tenuto nascoste tantissime cose che Lillian non aveva mai saputo. Durante quella causa vennero dette più cose di quante Lillian avesse sentito direttamente dalla bocca dell'anziana. Più cose di quelle che le serviva sapere. Alla fine, però, i particolari legali erano in ordine e la casa diventò sua. La figlia si prese metà dei mobili e tutti i vecchi quadri, ma a Lillian non dispiacque. Avrebbe dovuto comunque ristrutturare un po'. Da molti anni servivano delle pulizie di primavera. L'inverno seguente Lillian aveva ritinteggiato in tempo per la prima parte della stagione e accolse i primi ospiti il giovedì santo, come aveva sempre fatto Janet, con molta acqua calda per lavarsi i piedi stanchi dalla lunga camminata in salita dalla stazione degli autobus, e poi con una cena fredda che li aspettava in tavola. Panini con uova sode farcite alla salsiccia e manzo in scatola, focaccine al formaggio già imburrate, tramezzini al for-

maggio cremoso e salmone comprati già fatti e ognuno avvolto nel proprio foglio di alluminio. Sapeva come far piacere ai suoi ospiti. Lillian ogni anno ospitava sempre le stesse famiglie. Ricordava le loro manie, gli amori e i disamori. Dava molta importanza alla regolarità, alla sicurezza di accogliere in casa sua le stesse persone un anno dopo l'altro. Sapeva chi si sarebbe adattato alla pioggia di fine estate, conosceva gli aspiranti pittori e il loro desiderio della pennellata di luce perfetta. Lillian guardava crescere i loro figli. Era felice di condividere il tè del pomeriggio con le madri e le nonne, tornate dalla spiaggia per mangiare un po' di biscotti e fare qualche pettegolezzo sulla nuova nuora o la vecchia cugina di secondo grado. I vacanzieri erano prodighi di notizie e ancora più prodighi di ciance, ed erano talmente felici di confidarsi che si accorgevano raramente che Lillian non faceva pettegolezzi, che Lillian non contraccambiava i loro racconti. E anche quelli che se ne accorgevano ci erano abituati. Immaginavano che forse non avesse notizie. Immaginavano di essere loro le sue notizie. Si consolavano al pensiero della propria munificenza ed erano a proprio agio nella cordiale abbondanza dell'accogliente serenità di Lillian. Sembrava uno scambio alla pari. Non avrebbero perturbato Lillian, erano soddisfatti dello status quo. E anche lei. O, se non proprio soddisfatta, piuttosto soddisfatta. Se lo sarebbe fatto bastare. Non serviva molto di più. E c'erano anche ospiti occasionali. Persino in altissima stagione Lillian aveva sempre cercato di tenere una stanza libera. Non una stanza meravigliosa, ma due letti gemelli e lenzuola pulite e un lavandino con l'acqua corrente. Nel caso qualcuno fosse venuto a supplicarla. Una coppia stanca arrivata dritta da Londra, magari una famiglia asiatica, che naturalmente era stata respinta da altri tre o quattro posti, e cominciava pian piano a capire perché gli avevano detto che la Cornovaglia era come l'Inghilterra degli anni Cinquanta. Non solo le spiagge sicure e pulite, quindi. Qualcuno che prendesse la stanza solo per una notte, mangiasse la colazione in fretta e se ne andasse per le nove. Lillian era sempre felice di dare una mano, di fornire sollievo inatteso. Sapeva come ci si sentiva ad avere bisogno di una stanza senza sapere dove andare. Era felice di poter fare qualcosa per Saz e Patrick quando li vide sulla soglia. Era chiaro che avevano bisogno di una pausa. Sembrava che quella ragazza non dormisse da una settimana; e lui aveva le spalle tese, il viso tirato. Certo che gli avrebbe dato la stanza. Non era niente di speciale, ma probabilmente non avrebbero trovato di meglio, in quella stagione. Ma lui

non l'aveva già visto da qualche parte? In tv? 28. Durante il viaggio per Carbis Bay, Patrick aveva deciso che se possibile avrebbe voluto stare nel B&B di Lillian. Saz pensava che fosse come minimo un'idea rischiosa, ma Patrick non si lasciò dissuadere. Si fecero strada a fatica in quella pletora di rotatorie, superando le famiglie che si riversavano in strada dai marciapiedi, tutti in marcia dalla spiaggia verso casa per la pausa del tè a base di pesce e patatine fritte, i bambini piccoli gravati di secchielli sporchi di sabbia e palette e bracciali per nuotare sporchi di salso, i genitori sfiniti gravati di bambini scottati, sporchi di sabbia e di salso. Saz ci provò un'ultima volta. «Patrick, forse la donna che gestisce quel posto non è tua madre. Non sappiamo niente di sicuro. E anche se Lillian Hope è tua madre, non c'è nessuna garanzia che ora sia qui. Forse è in vacanza anche lei.» «Siamo in piena alta stagione, Saz. Se non è qui adesso, come albergatrice è peggio ancora che come madre, cazzo.» «Sì, va be', forse... ma comunque non penso che dovremmo fare irruzione lì e affrontarla, per quello che ne sai magari non vuole...» Saz si interruppe di colpo mentre Patrick sterzava avvicinandosi pericolosamente alle macchine che procedevano in senso opposto, nel tentativo di non investire una bambina su una biciclettina, che pedalava dietro i genitori, ognuno con in braccio un bebè. «Porca troia! Ma che cavolo fanno? Dovrebbero impedirgli di riprodursi, accidenti! Razza di idioti! Cristo, se non riescono a tener d'occhio un bambino del cavolo, come cazzo gli è girato di farne altri due! Affanculo!» Mentre Patrick suonava furiosamente il clacson e gridava insulti ai genitori sconvolti, Saz decise che avrebbe fatto meglio a stare zitta. Non poteva fare niente per calmare i nervi scossi di Patrick e chiaramente qualsiasi altra discussione lo avrebbe irritato ancora di più. Restò seduta al suo fianco, con gli occhi incollati alla piantina che aveva davanti, indicandogli sommessa le svolte a destra e a sinistra e sperando che la calma che stava cercando disperatamente di simulare e di comunicare all'uomo al suo fianco riuscisse in qualche modo ad aiutarli entrambi a superare l'ora successiva. Mezz'ora dopo accostarono fuori dal B&B di Lillian Hope e Saz sospirò di sollievo vedendo il cartello «Tutto esaurito» alla finestra. Ma Patrick

decise di andare lo stesso a chiedere. Almeno, pensò, Lillian sarebbe venuta ad aprirgli e lui avrebbe avuto l'occasione di guardarla. Anche se le sembrava una pessima idea, Saz attraversò il praticello, orlato da una giungla di enormi gerani e begonie lussureggianti e, anche lei con il fiatone, sollevò la mano nervosamente per suonare il campanello. Qualche attimo dopo ebbe un tuffo al cuore sentendo il suono di passi strascicati che scendevano le scale, e la porta si aprì. Naturalmente la donna che aveva aperto poteva essere la domestica, la governante, un'aiutante di Lillian, la sua migliore amica o persino, anche se le apparenze suggerivano il contrario, la madre di Lillian. Ma se la signora alta e florida con i capelli grigi di fronte a Saz non era la madre di Patrick, allora la stava fissando con gli stessi occhi di Patrick per puro caso, e Saz aveva già esaurito la sua scorta settimanale di coincidenze fortunate. «Salve. So che sul cartello c'è scritto "Tutto esaurito", ma siamo disperati e mi sono chiesta se... magari forse...» Saz non sapeva cosa si era chiesta. Patrick aveva insistito perché andasse a suonare ma non aveva trovato nessun motivo furbo per chiedere una stanza in un B&B che indicava chiaramente di non averne nessuna libera. Dopo dieci secondi che sembrarono interminabili, Saz riprese possesso delle sue capacità elementari di menzogna e anche della sua abilità nel manipolare le persone. Neonati. Madre. Neonati adottati. Giovani madri. Saz mise insieme tutto quanto in una storia che toccava il cuore. Erano arrivati fin là e avevano trovato Lillian solo con l'inganno e il sotterfugio. Patrick aveva ragione, era un po' tardi perché lei si mettesse a comportarsi come un'assistente sociale con lui. «Sì, e poi... ehm... sto per avere un figlio.» Non era una bugia così enorme. «Sono poco oltre il terzo mese.» Saz si strofinò la pancia fin troppo piatta e sperò che la donna davanti a lei non fosse una di quelle che sembrano incinte di cinque mesi dal secondo mese in poi. «E sono stata poco bene, quindi abbiamo pensato... o meglio...» e qui Saz fece un cenno della testa verso la macchina dove Patrick era seduto e fissava la donna. «Lui ha pensato di portarmi a fare un giro questo fine settimana. Ma non ci sono posti dove stare. Proprio nessuno. E io sono sfinita.» Anche quello era vero. «E quindi... non è che per caso ha una stanza? Anche singola? O conosce un altro posto a cui possiamo chiedere? Per favore...» La donna confermò a Saz la loro fortuna sfacciata: «Tesoro, il caso vuo-

le che io tenga sempre una stanza vuota. Tu e il tuo uomo sembrate aver bisogno di un riposino. Non è niente di speciale, ma è una stanza, e poi è meglio di quello che vi darebbero gli altri. Parcheggiate la macchina sul retro e venite dentro.» Maria, Giuseppe e il finto Gesù erano fortunati. Saz vide Patrick sprofondare in un pericoloso silenzio mentre lasciavano la macchina nel cortile di ghiaia dietro la casa. All'inizio aveva temuto che lui spiattellasse quella che secondo loro era la verità nel momento stesso in cui aveva posato lo sguardo su Lillian. Ma la sua reazione fu l'esatto opposto, cosa preoccupante. Patrick aveva la bocca serrata intorno alle labbra torve e sottili, con i denti stretti che gli facevano risaltare ancor più del solito la mascella. Dopo le sfuriate che aveva fatto per tutta la durata del viaggio sulla A30, quella calma silenziosa era come minimo sconcertante. Patrick prese le loro valigie dal portabagagli e cominciò a girare intorno alla casa. «Patrick, posso portarmi la valigia, non è pesante.» «Col cavolo, sei incinta di tre mesi. Che idea si farebbe di me?» «Penserebbe che sono incinta di tre mesi come le ho detto, e non un'invalida, diavolo. Dammela qua.» Patrick scosse il capo. «Le porto io.» Saz non capiva quell'improvviso scoppio di cavalleria. Non fino al momento in cui entrarono nell'atrio della casa e lei lo sentì sussultare all'avvicinarsi di quella donna alta, che porgeva la mano per stringergliela. Le fece un cenno con la testa, si strinse nelle spalle e indicò i bagagli. Come se li avesse incollati alle mani. Evidentemente la donna era abituata a mariti taciturni, perché strizzò l'occhio a Saz con un sorrisino cospiratorio e fece strada a entrambi su per le scale che, con gran piacere di Saz, erano decorate da una passatoia di moquette blu scuro. In effetti, a quanto poteva vedere, l'arredo della casa sembrava piuttosto diverso dai soliti rosa e arancioni sgargianti tanto amati dalle albergatrici inglesi. Forse la madre di Patrick, oltre agli stessi occhi, aveva lo stesso buon gusto. Li condusse in una minuscola camera doppia nella soffitta, verniciata di un sereno azzurro freddo, in cui c'era spazio a malapena per due lettini stretti, un lavandino in miniatura e un armadio ad altezza vita con un vassoio da tè appollaiato sopra in modo precario. La donna indicò a Saz quale dei due letti aveva il materasso più duro e poi li invitò a dare un'occhiata dalla finestrella. «È la vista migliore di tutta la casa.» La finestra dava verso la costa, sopra i tetti di tegole di Carbis Bay, fino

a un'ampia striscia di sabbia dorata. Le onde agitate e la linea di costa verde alla sua destra ricordarono a Saz le spiagge che aveva visto un paio d'anni prima in Nuova Zelanda. Rabbrividì a quel pensiero e distolse lo sguardo. Il panorama era splendido, ma il ricordo no. La donna continuò spiegandogli tutto sulla colazione, i bagni al piano terra, i negozi più vicini, i ristoranti della zona. Saz sentiva che Patrick alle sue spalle era sempre più arrabbiato e sapeva che era il momento di allontanare da lui quella donna, se non voleva che esplodesse. Probabilmente un po' di trambusto era inevitabile, ma preferiva che avvenisse in un momento e in un luogo su cui aveva più controllo, se possibile. Dato che si sentiva a sua volta stanca e impaurita, sapeva che non era in grado di gestire un interrogatorio in quel momento. «Fantastico. Grazie. Senta, forse vorrei stendermi un pochino. Prima di uscire a cena. Per te ci sono problemi, caro?» Posò la mano fredda sul braccio di Patrick. Fredda e molto salda. «Sì, certo. Come vuoi.» La donna capì che le stavano suggerendo di andarsene. Vedeva che quella coppia di litiganti aveva bisogno di un po' di privacy. «Bene, allora avete le chiavi. Come vi ho detto, la porta d'ingresso viene chiusa alle dieci. Se rientrate dopo, controllate di averla chiusa con due giri di chiave. Se vi serve altro, datemi una voce. Se gridate abbastanza forte prima o poi vi sento. Non ci sono altre Lillian sotto il mio tetto.» Saz si sentì in dovere di chiedere: «E così lei si chiama Lillian?» «Lillian Hope. Sicuramente non Lily. Quindi non chiamatemi così, se no non rispondo. Bene. Vi lascio, allora.» Porse la mano a Patrick che la fissò un mezzo secondo di troppo, poi gliela strinse. «Fantastico. Grazie, Lillian.» Saz si chiese se Lillian si fosse accorta che gli tremava la mano. 29. Saz e Patrick decisero di seguire il consiglio della padrona di casa e andarono con la macchina fino a St. Ives in cerca di un posto dove cenare. Ma non fu così semplice. Si ritrovarono infatti a girare in tondo in una serie di sensi unici inseguendo un parcheggio inesistente. Con Patrick sempre più nervoso. La serie di sensi unici chiaramente era studiata apposta per essere impenetrabile ai forestieri, e inoltre era intasata da orde di ado-

lescenti seminudi che riempivano i marciapiedi e debordavano sulle strette stradine acciottolate. Saz aveva sperato che far uscire Patrick dalla minuscola stanza in soffitta, cenando magari sul lungomare, dividendo una bottiglia di vino mentre discutevano sulla loro mossa successiva, potesse placare la sua agitazione crescente. Non avrebbe mai pensato che la graziosa cittadina balneare in cui aveva passato vacanze felici con i genitori si sarebbe trasformata in un incrocio tra un parco a tema e una discoteca. Saz si sentiva vecchia solo a guardare i ragazzi accalcati li, e Patrick li avrebbe voluti abbattere. E purtroppo continuava a seguire frecce che li portavano in vicoli ripidi e tortuosi troppo stretti per quel macchinone nuovo, e doveva fare marcia indietro e riprovare. Patrick era tutt'altro che felice. Saz era nervosa. E aveva una fame del diavolo. I biscottini mangiati in camera non avevano fatto granché per calmarle i brontolii allo stomaco, anche se aveva mangiato entrambe le confezioni non appena Lillian aveva chiuso la porta. Un'ora dopo finalmente riuscirono a posteggiare e trovarono un ristorante con una splendida vista sul chiaro di luna di Porthmeor Beach. Due ore dopo avevano finito un pasto che, ammise lo stesso Patrick, era passabile. Saz pensava che fosse fantastico, diavolo. Patrick poteva storcere il naso finché voleva perché aveva ordinato purè e salsicce anche se erano a due centimetri dal mare, però era stato felice di scofanarsi metà del purè di patate. A fini di studio, naturalmente. Era un buon purè. Voleva capire quali patate avevano usato. Saz disse che doveva lasciare in pace la sua cena, che cavolo, e andare a chiedere in cucina. Patrick le disse di chiudere la cazzo di bocca, tanto offriva lui. Non era stato di ottimo umore, ma quantomeno usava la bocca per mangiare e per parlare, non per digrignare i denti fino a polverizzarne lo smalto. Si divisero anche una bottiglia di champagne. Come aveva detto Patrick: «Non capita tutti i giorni di stringere la mano a tua madre per la prima volta. Facciamo le cose in grande, che diavolo.» Parole festose, con una voce greve di ironia e amarezza. Patrick doveva guidare per tornare al B&B e Saz sapeva che le cose si sarebbero complicate molto prima che lui si fosse calmato di nuovo, quindi, anche se le sarebbe piaciuto tanto sbronzarsi come una capra usando quelle bollicine giallo paglierino per dimenticare il motivo che li aveva portati lì, insistette per prendere solo una bottiglia piccola. Non contribuì affatto a migliorare l'umore del suo cliente, ma almeno lo salvò dal dire cazzate in modo troppo maleducato quando lo chef uscì dalla cucina e venne a chiedergli un autografo. Sul grembiule. E sul tovagliolo. E sulla tovaglia. Saz pensò che, se

il tipo insisteva ancora un po', forse sarebbe riuscito ad avere la firma di Patrick in faccia, quindi spiegò nel modo più gentile possibile che il mattino dopo dovevano alzarsi presto e portò Patrick in fretta verso la macchina. Per tornare a Carbis Bay Patrick sbagliò solo quattro volte, finendo in vicoletti bui di campagna, e per strada fece il suo primo complimento a Saz. «Sei fantastica, sai?» Saz, aspettandosi del sarcasmo, chiese guardinga: «Perché?» «Il modo in cui mi hai fatto svicolare da quel ristorante.» «E con questo?» «Be', Katy mi avrebbe tenuto lì finché quel segaiolo lecchino non mi avesse mandato davvero affanculo. Mi spinge in tutti i modi verso le risse, non cerca di salvarmi.» «Patrick, non cercavo di salvarti da una scazzottata, cercavo di salvare il cuoco.» «Quello là era una testa di cazzo.» «Il purè era buono, però.» «Sì. Bastarda. Comunque, sei stata brava.» «Grazie. È sempre stato il mio desiderio recondito fare da bambinaia a qualcuno.» Se ne stettero seduti mezz'ora nella loro stanza cercando di decidere la mossa successiva. Le cose non erano più chiare di quanto fossero a cena. Se mai, la vicinanza di Lillian rendeva ancora più pressante il bisogno che Patrick aveva di parlarle. Alla fine Saz capì che non si poteva più rimandare. Patrick non avrebbe permesso a nessuno dei due di dormire se non si fossero occupati della cosa quella notte stessa. Almeno riuscì a convincerlo a lasciarla andare di sotto da sola. «Patrick, che cavolo, sei così su di giri che non mi fido di te. O mi fai fare questa cosa a modo mio o non facciamo proprio niente, cazzo. Me ne vado e ti lascio qui da solo. Poi puoi gridarle dietro finché vuoi, solo che non ci sarò più io a sistemare tutto. Dico sul serio. O si fa a modo mio, o niente.» Era mezzanotte, Saz era stanca, il confine tra convincere e minacciare era ancora più sfumato del solito. Sembravano davvero molto simili. Il problema era che il "modo mio" di Saz non esisteva. Non aveva la più pallida idea di cosa dire a Lillian. Scendere i quattro piani di scale non le fornì alcuna rivelazione sconvolgente e Saz bussò alla porta di Lillian con la mezza speranza che la sua ospite fosse sgattaiolata fuori a passare una not-

te brava con i ragazzi di St. Ives. Quando Lillian aprì la porta del suo appartamento privato era mezzanotte e un quarto. Sembrava più piccola e più dolce con la vestaglia azzurrina che si era messa addosso in fretta. Saz non si sentiva bene. Aveva i nervi a fior di pelle, era sfinita e arrabbiata con Patrick e preoccupata per quella donna. Preoccupata per entrambi. «Ehm, Lillian, so che è tardi e mi spiace davvero di averla disturbata...» «C'è qualcosa che non va nella stanza?» «No, niente del genere.» Lillian fece una smorfia. «Non preparo spuntini di mezzanotte, sai.» «No, non è quello. Senta, devo davvero parlarle. Posso entrare?» La risposta di Lillian fu spalancare la porta, girarsi e fare strada a Saz per un breve corridoio fino a un salottino. Era evidente che quelle camere non erano state riarredate quando Lillian aveva sistemato il resto della casa. Il suo regno era da albergatrice tradizionale. Carta da parati a fiorellini gialli, moquette a fiorellini rossi, un'esaltante collezione di ninnoli di porcellana ben spolverati e una stufetta elettrica accesa che imitava un caminetto, con i carboni accesi anche se il riscaldamento era spento. A mo' di spiegazione Lillian indicò la stanza col braccio: «Ho ereditato questa casa dalla vecchia padrona. Ho rifatto il resto meglio che potevo, ma non ho avuto cuore di cambiare la sua parte della casa. E ormai mi ci sono abbastanza abituata.» Saz si sedette sulla poltrona di velours dorato e nel farlo le saltò agli occhi l'unico grande assente di quella stanza ingombra di oggetti. C'erano soprammobili fragili e fiori secchi e centrini di pizzo su ogni superficie. Ma la mancanza di foto di famiglia saltava all'occhio. Non c'erano ritratti in posa, acconciature perfette degli anni Sessanta, non c'erano dolci bambini diventati adolescenti ribelli negli anni Settanta, nessuna madre fiera al matrimonio del primogenito, nessun ultimo nipotino, nessuna coppia felice il giorno delle nozze d'argento. Niente di niente su carta fotografica ingiallita in cornici dagli angoli dorati. Era possibilissimo che a Lillian non interessassero le foto di famiglia. O che non ne avesse. La notizia che Saz tratteneva nella bocca serrata la stava soffocando. L'avrebbe dovuta sputare fuori, prima che l'intestino le si annodasse a tal punto da mettere fine per sempre alle sue cene al ristorante. Lillian era lì seduta e aspettava calma che lei parlasse. Quasi troppo calma. Saz, anche nel suo stato di maggior tensione, si sorprese a pensare che il distacco di Lillian fosse un po' strano. Non riu-

sciva a immaginare se stessa aspettare con tanta pazienza dopo che una sconosciuta aveva fatto irruzione nel suo salotto pretendendo di fare una chiacchierata in piena notte. Ma d'altra parte non riusciva a immaginare nemmeno come potesse essere aprire la propria casa a dei completi sconosciuti per nove mesi all'anno. Forse gli ospiti di Lillian insistevano spesso per fare chiacchierate a mezzanotte. Forse Lillian sapeva in cosa era incappata. Forse era da quarant'anni che aspettava questo momento. Forse dopotutto sarebbe andata bene. Saz aprì la bocca e, com'era già successo molte volte, si sentì parlare prima ancora di aver deciso cosa dire. «Si tratta di suo figlio.» «Prego?» Saz aprì di nuovo la bocca e le uscirono le parole: «Le devo parlare di suo figlio.» «Quale figlio?» «Patrick Freeman. Sweeney. Il tipo della tv.» Lillian continuava a guardarla come se parlasse una lingua straniera molto esotica. «Il signore con cui sono arrivata. Patrick. È suo figlio.» Lillian scosse la testa: «Mi sa che mi scambiate per qualcun'altra.» «Ma lei è l'unica Lillian Hope.» «A parte la mia prozia Lily, che è morta da venticinque anni.» «Be', allora Patrick è suo figlio. O meglio, è suo figlio dato in adozione. Il suo figlio naturale, che è stato adottato.» Questa volta Lillian parlò molto piano, come se Saz fosse particolarmente stupida: «Ma io non ho figli.» Saz non sapeva cosa dire. Forse Gary aveva ragione e tutti gli elementi che sembravano dimostrare che era la donna giusta erano solo coincidenze. O forse Lillian era la donna giusta ma aveva rimosso il figlio dalla memoria, aveva passato tanto tempo a convincersi di non avere un figlio che ora era davvero convinta di non aver nemmeno mai partorito. Poi Saz si preoccupò di una cosa: e se Lillian non avesse desiderato il bambino? e se Patrick al piano di sopra si stesse aspettando un ricongiungimento in stile televisivo, con lacrime a effetto flou e abbracci di accoglienza, mentre la realtà era l'esatto opposto? Non credeva di essere in grado di gestire la reazione di Patrick se quella era la situazione. Però Lillian non sembrava certo una di cui fosse appena stato svelato il segreto più recondito. Aveva l'aria di una che voleva sinceramente essere d'aiuto. E non sapeva che cazzo

stesse succedendo. «Mi dispiace tanto che tuo marito sia sconvolto per questo, cara...» «Non è mio marito. È un amico.» «Quello che è. Ma temo che abbiate fatto un errore. Il tuo amico non può essere mio figlio. Non è possibile. Io non ho figli. Sì, ho avuto un bambino. Anni fa. O almeno, ho partorito un bambino.» Il discorso di Lillian rallentò fino a un ritmo staccato. Parlava piano rivolta verso un punto poco distante. «Ma non ho fatto adottare il bambino. Non sarebbe stato possibile. Cioè, quella possibilità c'era, di darlo in adozione, prima che partorissi, ma non volevo comunque farlo adottare. Volevo tenerlo. Volevo tenermi il bambino. Ma non è andata così. Il mio bambino è nato morto. Io non ho un figlio.» 30. La nascita doveva essere un nuovo inizio per Lillian, una genesi casalinga, e lei aveva deciso da sola che era possibile. Gli avrebbe mostrato la sua freddezza, la sua sanità mentale e il suo contegno impeccabile. Lillian aveva in programma di essere un modello di comportamento eccezionale, come un accostamento tra corridoi bui e stanze bianche e luminose. Il figlio, dopo aver passato un paio di giorni con lei che avrebbe fatto la madre tranquilla, sarebbe andato da sua zia a Falmouth. Lillian li avrebbe lasciati portare via il bambino senza storie e senza lacrime. Era giusto così. Il trasferimento si sarebbe svolto proprio come aveva concordato con il dottor Lees. Lui si sarebbe sorpreso della sua calma accondiscendenza. Poi, nei lunghi giorni e settimane a seguire, Lillian avrebbe fatto la brava ragazza, così al suo riesame in dicembre la commissione non avrebbe avuto altra scelta se non dichiarare che era sana di mente. Avrebbe emanato una perfetta tranquillità e poi sarebbe stata libera e sana e pronta per tornare nel mondo. Allora sarebbe stato quasi Natale e il neonato sarebbe stato ancora abbastanza piccolo da perdonarla per quella breve separazione. Lillian avrebbe fatto la brava e con il mondo sarebbe andato tutto bene. Questi erano i suoi progetti per la nascita. Poi però arrivarono le doglie ed erano molto più dolorose di quanto si aspettasse. Ma non era solo il dolore del bambino che cominciava a separarsi dalla madre. Lillian sapeva che c'era qualcosa che non andava. Capiva che non le stavano parlando come avrebbero dovuto. Dov'erano le rassicurazioni che tutto sarebbe andato bene, le moine per spingerla a pensare

che quello era un dolore che valeva la pena di vincere? E da dentro il cerchio del suo terrore capì che non volevano lasciarle tenere quel bambino. Magari sua zia lo avrebbe preso, ma Lillian non sarebbe uscita in tempo né per questo Natale né per quello dopo, non avrebbero mai creduto che lei non fosse né pazza né cattiva, non ci sarebbe stata nessuna rinascita. Non si sarebbero convinti che lei aveva recuperato la ragione, perché cambiare idea non gli si addiceva. Lillian aveva capito tutto questo dai loro bisbigli e dai passi innaturali, dall'andatura imbarazzata delle infermiere silenziose, soprattutto di quelle che erano madri, quelle che avevano figli loro e che la guardavano con compassione e cronometravano le sue contrazioni di malavoglia, e a ogni nuova doglia la loro solidarietà con il neonato aumentava. E quindi quel tormento cronometrato non portava con sé solo lo strazio fisico, ma anche una lacerazione emotiva. Lillian non voleva lasciar uscire il bambino, non avrebbe percorso la lunga strada del travaglio, avrebbero dovuto aprirla per liberare quel bambino. L'avrebbe tenuto al sicuro nella sua carne. Se era quello l'unico modo per tenersi suo figlio, allora l'avrebbe fatto. Ma naturalmente non poteva. Il suo corpo la tradì piegandosi alla volontà del desiderio istituzionalizzato. Lillian si allargava a ogni contrazione, anestetizzandosi con l'intensità del suo desiderio di resistere e trattenere, non voleva che quello strappo risultasse doloroso. Non voleva che quello strappo ci fosse. Alla fine non riuscì più a reprimere il parto e il neonato nacque tra sangue e gemiti. Nella sala c'erano solo il dottor Lees e un'altra infermiera: era notte fonda, avevano mandato a casa le altre da un pezzo. Il bambino non pianse. Lillian pianse. Lillian non conosceva l'infermiera, una ragazza nuova, cooptata per il turno di notte. Lillian aveva creduto di conoscere il dottor Lees, ma quel camice bianco era una versione gelida dell'uomo gentile che negli ultimi cinque mesi le aveva tenuto la mano e aveva discusso con lei delle varie possibilità. Il bambino era nato e non glielo avevano mostrato, non avevano schiaffeggiato il neonato scivoloso per farlo piangere, perché i polmoni sani affermassero al mondo la sua presenza. Nella sala bianca si abbatté il silenzio, e sulla bocca di Lillian una pesante maschera. Quando si svegliò in piena notte era malata e dolorante. E non era più gravida. I seni le facevano male come il resto delle carni. Ma senza ragio-

ne. Non ci sarebbe stata alcuna ragione. All'inizio Lillian pensò che il suo ricordo fosse sbagliato. Che le parole del dottor Lees che le scorrevano nel cervello fossero bugie create dalla sua stessa sofferenza. Ma mentre un sole precoce fendeva la pioggia mattutina, Lillian sentì le sue parole molto chiare nella mente: «Tuo figlio è morto, Lillian. Tuo figlio è nato morto. Mi spiace infinitamente. Non c'è nessun neonato. Ora devi dormire. Dormi. Riposati.» E mentre prendeva fiato, respirando l'etere a piene boccate, lo sentì anche mormorare piano all'infermiera: «Forse è meglio così, alla fine.» Quando Lillian si svegliò la mattina dopo, all'inizio non credeva al sogno che il suo corpo le raccontava. Quelle cose non potevano essere successe. Quella lunga attesa, le ultime trentasei ore di travaglio faticosissimo, e tutto per niente. Dolore e attesa senza risultati. Per ricevere solo un'ennesima fine, un ritorno nelle tenebre. Lillian non vide mai il neonato morto, non tenne tra le braccia suo figlio. Non le offrirono di farlo. E comunque era sotto l'effetto dei farmaci e incapace di capire. Il cadaverino fu portato via, se ne occuparono tenendolo lontano dalla sua vista, e lo cremarono insieme a tutti gli altri rifiuti di una giornata di lavoro, tra sangue e budella. Non ci fu funerale, non ci fu addio, nessun bisogno di una minuscola bara bianca. Non ci fu niente. Non era un vero figlio, e allora perché Lillian avrebbe dovuto piangerlo? Il tempo e il silenzio avrebbero curato quella perdita. Lillian l'avrebbe superata. Non occorreva farlo sapere a nessuno. Comunque non era un figlio voluto. Dopotutto era quello il motivo per cui si trovava lì. Le motivazioni di Dio erano insondabili e chissà quando Lillian sarebbe stata in grado di prendersi cura di un neonato, ammesso che ci potesse mai riuscire. Non sarebbe stato giusto per il piccolo. Ora Lillian doveva concentrarsi per dimenticare tutto e cercare di rimettersi presto. Era un obiettivo molto migliore. Doveva fidarsi di loro, erano competenti, il dottor Lees capiva. Lillian non era una cattiva ragazza e, se si impegnava molto, poteva diventare una brava ragazza. Poi Lillian sarebbe potuta tornare nel mondo ponendo fine a quell'indecenza. Tutto il dolore sarebbe rimasto lontano, nel passato. Doveva davvero lasciarsi andare. Ma Lillian non riusciva proprio a lasciarsi andare. Perché sapeva che era colpa sua. Aveva ucciso il neonato con il suo desiderio di tenerlo. Aveva strangolato il bambino con la sua smania di trattenerlo in sé. Invece di lasciare che portassero via il neonato, Lillian l'aveva fatto morire. Solo il

giorno prima l'aveva sentito muoversi e scalciare, se l'era sentito dentro, pronto, pieno di vita. E Lillian aveva rovinato tutto. Si sbagliavano. Era proprio una cattiva ragazza. Ci vollero altri due anni perché Lillian riuscisse pian piano a superare le tenebre della sua malvagità immaginaria e fosse pronta a lasciare quel luogo di lacrime. Ma non lasciò mai i suoi sensi di colpa. 31. Poteva bastare che si guardassero negli occhi. Lo stesso verdino, la stessa forma arrotondata, gli stessi cerchi neri di stanchezza. Sarebbe bastato basarsi sull'istinto e sul "buon sangue non mente" e sull'assoluta bizzarria di quella situazione del cazzo. Avrebbero potuto basarsi sul fatto che, oltre a sentirsi attratti l'uno dall'altra, c'era anche una distanza terrificante, quasi un senso di ripulsa. Un'incertezza che, era evidente, non era il balletto di cortese circospezione di due sconosciuti. Avrebbero potuto concordare sul fatto che la cosa sembrava più che probabile, malgrado quella vecchia storia dicesse il contrario, e malgrado anche un minimo di fiducia residua nel sistema. E poi avrebbero potuto prendere tutto con molta calma, calandosi lentamente nel possibile, trovando pian piano un modo di essere provvisorio, attendista e cauto. Ma Patrick voleva correre giù in strada a sterminare le autorità. A condurre il suo personale massacro dei camici bianchi e degli operatori sociali che avevano preso decisioni per conto di chi era irreparabilmente incapace di decisioni. Avrebbero potuto credere a quello che comunque sembrava sapessero in ogni caso. Ma una semplice ipotesi a Patrick non bastava. Voleva anche le prove. Quindi era un caso fortunato che avesse anche molti soldi. La pausa fino al mattino era troppo lunga, ma attesero lo stesso. Caffè e niente sonno e formaggio grattugiato fuso su spesse fette di pane bianco, che solo Saz riuscì a mangiare, e poi conversazioni lasciate a metà che rimanevano sospese nell'aria perché, finché non sapevano la verità, non aveva senso rispondere bene alle domande, dando particolari dettagliati. Perché mai Lillian avrebbe dovuto interessarsi di come andava sua nipote a scuola? E che bisogno aveva Patrick di sapere che il padre di Lillian faceva il tabaccaio ed era morto quando lei aveva dodici anni? A chi interessava sapere la data di nascita di Lillian? Lei sapeva già quella di Patrick. Le conversazioni avreb-

bero atteso fino all'alba e fino all'analisi, non dell'esperienza passata ma delle circostanze attuali. Della carne e del sangue. Però Saz aveva molte domande che moriva dalla voglia di fare. Su Lees, su Richard Leyton. Voleva sapere della casa di cura in cui era stata rinchiusa Lillian, chiederle delle altre ricoverate. Indagare se poteva esserci una donna che aspettava un bambino mulatto, in tempi in cui il bambino sarebbe stato un mezzosangue, partorito con ancor meno amore degli altri neonati. Ma era troppo presto e Lillian era troppo traumatizzata e Patrick era troppo arrabbiato. I progressi nella ricerca per Chris avrebbero dovuto attendere finché la rivelazione di mezzanotte non fosse sembrata un po' più normale. Intasarono tutte le linee telefoniche dell'Inghilterra occidentale alla ricerca di una clinica privata disposta a fare gli esami del sangue e del dna con un preavviso così scarso. Era sabato mattina. La maggior parte delle cliniche private erano aperte solo per clienti privilegiati. O per unghie incarnite urgenti: una tagliatina a trecento sterline al colpo. Patrick telefonò a vari amici di Londra e poi di nuovo ad amici di amici in tutto il paese. Saz chiese a Molly di parlare con un paio di medici fidati. E, quando quello si rivelò inutile, pretese che la sua ragazza ne contattasse un paio di meno fidati. Molly pensava non fosse un'idea saggia. Li consigliò di essere veloci, non precipitosi. E poi accorti, non veloci. Spiegò che era impossibile, era folle chiedere una dimostrazione tanto importante con così poco preavviso. Molly disse a Saz che stava chiedendo l'impossibile. Saz passò il telefono a Patrick, e lui le fece notare che l'impossibile di Molly e il suo erano diversi: lui poteva metterci vagonate di soldi. Con la cifra giusta si poteva comprare qualsiasi cosa. Con la cifra giusta si potevano comprare persino i bambini. Non aveva altri argomenti. Lillian preparò dodici colazioni all'inglese complete e alla fine si ricordò di bere anche lei una tazza di tè. Ci aggiunse tre zollette di zucchero. E lo sputò dopo il primo sorso. Alle undici e mezza, dopo forse venti telefonate, il crescente disgusto di Patrick per la corruzione del sistema sanitario fu finalmente confermato. Sarebbero andati fino a Plymouth con la macchina. Gli avrebbero prelevato campioni di capelli, saliva e sangue. Naturalmente potevano ricorrere a metodi più estremi in seguito, se questi non fossero risultati inoppugnabili. Ma era improbabile, perché il sangue e la saliva secondo la maggior parte delle autorità si potevano considerare prove immediate di maternità sicura. Un tecnico avrebbe prelevato i campioni per farli analizzare immediata-

mente da una sua amica che lavorava nella polizia scientifica. Era il modo più rapido possibile per avere una risposta. Avrebbe implicato qualche sotterfugio, un po' di bugie e forse un furto di poco conto; e tutta l'operazione sarebbe costata solo duecento sterline in meno della prima fecondazione in vitro di Molly. Patrick e Lillian avrebbero ricevuto la risposta entro la fine della giornata. O la mattina dopo al più tardi. Sicuramente. Garantito. Lillian lasciò un bigliettino a ciascun ospite nella sua stanza e Saz accettò con riluttanza di restare nel B&B, se per caso la signora Dawkins fosse tornata dalla spiaggia con l'emicrania e avesse avuto bisogno di aiuto per tenere zitti gli altri ospiti. Salutò dall'ingresso, sventolando una mano e tenendo incrociate le dita dell'altra. Lillian era a disagio in quella macchina nuova con la sua corporatura massiccia, malgrado i sedili comodi, morbidi e accoglienti; o forse proprio per quello. Patrick teneva lo sguardo incollato alla strada e stringeva il volante così forte che gli si sbiancarono le nocche; non sapeva se sperare che la storia fosse vera o solo uno sbaglio. Non sapeva se era possibile che tutto questo potesse succedere in un tempo talmente breve. Saz gli chiuse dietro la porta e si sorprese di riuscire finalmente a esalare il respiro tanto a lungo trattenuto, rilassando le spalle contratte. Anche se all'inizio avrebbe voluto andare con loro per aiutarli in qualche modo a stemperare la tensione, pensando che un altro corpo a fare da cuscinetto potesse in qualche modo facilitare le cose, una parte di lei era sollevata per essere costretta ad aspettare. Molto probabilmente il loro viaggio non sarebbe stato il tipico picnic del sabato pomeriggio in un ristorantino tipico da turisti inglesi. Sperava che Lillian fosse abituata ai guidatori veloci, zitti e furiosi. Cinque minuti dopo Saz si riscosse dal suo torpore assonnato e andò in cucina. Dodici colazioni all'inglese complete sporcavano molti piatti. E nemmeno un panino di bacon freddo e salsiccia, abbondantemente cosparso di senape e besciamella servì a compensare il calo di energie. Ma l'arte di tagliare a fette spesse il pane bianco e sbricioloso e di mangiarne grossi morsi senza sporcarsi tutti i vestiti di unto, per ben tre minuti distolse la sua attenzione da Lillian e Patrick. Saz passò la maggior parte della serata seduta vicino al telefono. Molly chiamò due volte per sentire se c'erano novità. Saz si fece viva con l'ospedale per sapere di Sukie e le dissero che non c'erano cambiamenti, la prognosi era ancora grave. Né Patrick né Lillian chiamarono. Saz aspettò co-

munque vicino al telefono, con l'unica compagnia dell'insulsa tv di un sabato sera estivo, anche se persino la quarta replica di un giovane Schwarzenegger in Terminator era preferibile alle lagne stizzose della signora Dawkins. Tanto per dirne una, Linda Hamilton era molto più bella. Quando la brontolona, a cui era passata l'emicrania, bussò alla porta di Lillian per chiedere chiarimenti, trovò Saz ad accoglierla. Sì, Lillian sarebbe tornata la mattina. No, non c'era niente di cui preoccuparsi, solo piccoli affari di famiglia. Certo che Lillian avrebbe potuto preparare la colazione alla famiglia Dawkins. E naturalmente, anche se la signora Dawkins aveva capito che stava fronteggiando una crisi personale - no, Saz era sicura di non poter entrare nei dettagli -, Lillian avrebbe messo al primo posto i bisogni dei suoi ospiti. Dopotutto erano clienti paganti. Saz accompagnò la signora Dawkins fuori dall'appartamento di Lillian, zittendola e rispedendola nella sua stanza il prima possibile. Ancora una irritata lamentela camuffata da finto interesse, e Saz si sarebbe sentita in dovere di mollarle uno schiaffone su quel muso da avara sofferente di emicrania. Uno schiaffone forte, cazzo, con maniere che era sicura Lillian non usasse abitualmente, nemmeno con gli ospiti più molesti. A mezzanotte finalmente Saz smise di aspettare e decise che poteva anche provare a dormire. Il bisogno di riposo del suo corpo stava mettendo a tacere la sete di risposte del suo cervello iperattivo; quel cervello iperattivo che ora stava rallentando il ritmo a mano a mano che la combinazione di tensione e mancanza di sonno della settimana trascorsa le si abbatteva addosso in una stanza gialla e rossa al piano terra di una casa piena di inquilini addormentati. Si sdraiò sul divano di Lillian, mettendo la sveglia alle sei e mezza. Anche se Patrick e Lillian fossero tornati in piena notte, quale che fosse il risultato, probabilmente Lillian non sarebbe stata nella forma migliore per svolgere il ruolo della perfetta padrona di un B&B al mare. Era più che plausibile che alle otto del mattino sarebbe stata Saz a preparare dodici colazioni all'inglese complete, cinque delle quali per la famiglia Dawkins. Aveva davvero bisogno di riposare. 32. Lillian aveva immaginato il funerale tantissime volte. Il funerale che non aveva nemmeno provato a richiedere. Nemmeno le brave ragazze facevano il funerale ai bambini nati morti: erano feti che venivano portati via in tutta

fretta, senza che tu nemmeno te ne accorgessi. Per il tuo bene. Le madri mancate venivano riportate a letto per qualche giorno di riposo e poi avvolte in un cappotto caldo e rispedite a casa a continuare a vivere, A continuare a tirare avanti. E si sperava che una vicina gentile avesse fatto sparire i graziosi vestitini da neonato accumulati amorevolmente negli ultimi nove mesi, chiuso la porta della stanzetta dipinta in colori pastello, riordinato l'appartamento gelido. Lasciandolo ancora più gelido. Non che Lillian potesse sperare in quel tipo di attenzioni. Non pensava che fosse insolito. Aspettò in ospedale, galleggiando su ondate di medicinali e abbandono, fuori dalla portata di discorsi o analisi. Tirava avanti a clorpromazina, elettroshock e tempo. E ne passò molto prima che Lillian sapesse, dai documentari tv, dai supplementi dei giornali e dai programmi alla radio, che non era stata né cattiva né pazza. Solo una ragazza come tante. Lillian era stata affidata ai servizi sociali a dodici anni, sua madre non riusciva a sbarcare il lunario dopo la morte del padre. Inizialmente era stata data alcune volte in affido, e poi, quando il suo bisogno di una vera famiglia si fece più pressante, quando cominciò ad avanzare pretese su quelli che riteneva i suoi diritti, non ebbero altra alternativa che metterla in un istituto. Non potevano darle quello che lei voleva, quindi le avrebbero dato quello che volevano loro. Allora Lillian capì che essere buona e tranquilla non l'avrebbe portata da nessuna parte, quindi forse tanto valeva essere cattiva e chiassosa. Finalmente le fu dimostrato un po' di affetto da un insegnante, un supplente con cui aveva scoperto di poter parlare. Un po' d'affetto ricambiato con un facile dono: il suo corpo. Almeno lui le parlava come se fosse abbastanza intelligente da conversare, ascoltava le sue risposte, sembrava che gli interessasse davvero; forse era vero che gli interessava, persino. Ma poi notarono il suo interesse e lo trasferirono e Lillian non parlò, per proteggerlo dal bambino che cresceva. A loro non piacque il silenzio di Lillian. Se non voleva dirgli chi era stato, come avrebbero potuto aiutarla? Dal punto di vista di Lillian, non le aveva fatto niente di male. Per la prima volta dopo molto tempo non si era sentita una vittima, si era sentita aiutata da lui, le era stato amico. Quindi mantenne il silenzio e questa fu giudicata l'ennesima dimostrazione della sua malvagità. Da lì, la metamorfosi da cattiva a pazza non fu un passo difficile. Un nuovo istituto, una nuova lingua da imparare. Ma prima bisognava far nascere il bambino. Bisognava fare progetti, sua zia si sarebbe presa cura del piccolo. Lillian aveva il cuore davvero straziato, la sua era una

brutta gravidanza, nell'ospedale buio c'era un letto libero e il dottor Lees era così comprensivo. Lillian non sapeva perché pensavano che lei non stesse bene - semplicemente erano parole che lei non avrebbe usato -, ma capiva che di sicuro ne sapevano più di lei, avevano esplorato quei corridoi labirintici, portavano il camice bianco, sapevano come uscire di lì. A Lillian non interessava più uscire di lì, fuori il caldo stava aumentando, lei se ne stava al fresco dietro quei muri alti, firmò le carte che le presentarono e aspettò. Con calma crescente, e la pancia che cresceva calma. Lillian non era il tipo da piangere forte: ricordava bene cosa le aveva causato piangere forte. Non ne riparlò mai con gli amici o i famigliari perché quando fu pronta per uscire non ne aveva più. Ma per anni aveva pianificato tutto nei minimi dettagli. Aveva reso vero l'epilogo, finché con l'esposizione era arrivata anche l'accettazione e Lillian aveva cominciato a dimenticarsi del bambino. A cancellare dalla memoria il nulla, il nonricordo che le era rimasto. E ora erano passati quasi quarant'anni e Lillian non aveva più bisogno di immaginare il funerale. Il sogno si era avverato e superava persino le sue speranze. Non c'era alcun funerale. Sembrava insensato eppure era perfettamente comprensibile. Ben più comprensibile di quando avevano cercato di inculcarle nel cervello chiuso e freddo la perdita del bambino. Il bambino cresciuto era seduto al suo fianco, parlava a raffica, vomitando una sequela di insulti contro chi aveva permesso che tutto ciò accadesse, si interrompeva per fare a Lillian un'altra domanda su lei, sulla sua famiglia, su come era finita in quell'edificio gelido e poi continuava, un'altra invettiva furiosa contro tanta ingiustizia e malvagità. Lei stava seduta a fianco di Patrick, sempre più silenziosa. Sempre più Lillian. Una parte di lei aveva sempre fatto affidamento sul sogno della riunificazione. La possibilità che quel presunto neonato tornasse a coccolarla e ad amarla e a ricevere le sue cure materne. E ora eccolo lì. Una situazione assurda e perfettamente normale al tempo stesso. Lillian non era pazza. La sua sensazione che il bambino non poteva essere morto, la certezza mai verbalizzata che dovevano essersi sbagliati, aveva ricevuto conferma. Il neonato non era morto. Lillian non era pazza. E non per questo tutto il suo dolore non importava più, e non per questo le loro bugie non erano più corrotte e malvagie. Ma Lillian aveva ragione. Se ne stava lì ad ascoltare la rabbia di Patrick e, anche se prendeva atto dell'amarezza, il dolce calore del sollievo tamponava gran parte del dolore.

Forse sarebbe arrivato in seguito, quando avesse già avuto il tempo di adattarsi. Ma per il momento aveva suo figlio e la sua sanità mentale. Che era molto più di quanto si fosse mai aspettata. Lillian sedeva in silenzio, sussultando, a fianco di suo figlio che guidava piano e attentamente nella notte, e Patrick era contento della sua macchina nuova con il sedile comodo per sua madre in lacrime, e ancora più contento del cambio automatico che gli lasciava una mano libera per stringere quella di lei mentre guidava. Ma era anche furioso, cazzo. 33. Lillian e Patrick tornarono poco dopo le tre del mattino. Saz, mezza addormentata e mezza in ascolto di eventuali portiere sbattute, era già nell'ingresso quando Lillian infilò la chiave nella toppa. Due paia di occhi uguali e stanchi risposero affermativamente alla domanda che non pronunciò. Saz preparò il tè e rassicurò Lillian sul benessere dei suoi ospiti compresa la signora Dawkins e famiglia - e poi ascoltò la loro storia. Il traffico estivo aveva occupato le prime due ore, poi si erano incontrati con il tecnico che doveva aiutarli. La matrona coi capelli rossi tinti che li accolse non era proprio la ragazzina topo di laboratorio che si aspettava Patrick. E non aveva neanche i modi da ragazzina. Prelevò dei campioni di sangue, di capelli e del denaro di Patrick, cinquecento sterline in contanti: «Sì, va bene, sono disposta ad aspettare il resto dei soldi fino al pomeriggio. Potete andare a prenderli mentre aspettiamo i risultati dal laboratorio della polizia, ma non ho nessuna intenzione di cominciare niente senza prima avere visto i soldi. Va bene?» Patrick le passò cinquecento sterline e Shirley gli rise in faccia quando le offrì un assegno per il resto. Invece, gli diede le indicazioni per il bancomat più vicino. E poi, soddisfatta di poter avere il denaro al più presto, si infilò i guanti di lattice e si mise al lavoro. Gli prelevò un campione di capelli, sangue e saliva, poi gli disse di alzare il culo per il resto della giornata. «Audrey adesso sta sbrigando un lavoro urgente. L'ho chiamata mezz'ora fa per sentire che programmi aveva. Pensa che forse potrebbe riuscire a preparare questo blocco durante la pausa e poi a metterlo insieme a un po' di altra roba che devono analizzare nel suo laboratorio. Ma hanno un mucchio di lavoro, dev'esserci stato un omicidio o uno stupro o roba del genere. Cavolo, Audrey fa un lavoro molto più divertente del mio, a me tocca-

no solo...» Patrick sentì che Lillian al suo fianco si irrigidiva, e capì che doveva zittire Shirley prima che rivelasse altri particolari truculenti. E di sicuro l'avrebbe fatto, se gliene avessero dato anche solo la minima occasione: «Bene. Allora lei le porta la nostra roba e noi aspettiamo sue notizie, giusto?» «Giusto, tesoro. Posso indicarvi un paio di ristorantini carini. Cioè, mi sa che potrebbe volerci un bel po'. Spero che voi due abbiate qualcosa di cui parlare.» Patrick guardò quella donna bassa e grassa che gli parlava. Su un viso all'apparenza innocente si agitavano, in una crocchia raccolta sulla sommità del capo, dei capelli che Lillian in seguito avrebbe definito "rosso bagascia"; la bocca, invece, era sorridente, e aveva le fossette sulle guance, ma un cazzo di sguardo gelido. Era impossibile che non avesse capito perché si trovavano lì. Non poteva essere tanto stupida, e allora c'era un solo motivo per quella domanda. Si divertiva a metterli a disagio. Patrick, sempre più arrabbiato, strinse il pugno, piantandosi nel palmo le unghie corte e robuste. Quel lavoro gli serviva. Diede a Shirley il numero del suo cellulare, si fece dare il numero di Audrey nel caso in cui Shirley non riuscisse a contattarlo per qualche motivo, e si annotò i nomi di tre ristoranti che «un signore del suo calibro potrebbe trovare passabili.» Mentre uscivano dal laboratorio, Shirley gli gridò dietro: «Ah, e non dimenticate i miei soldi!» Patrick sorrise a Shirley e le fece un cenno col capo, poi si girò verso Lillian. Aveva il viso contorto e le braccia incrociate strette sul petto. «Tutto bene?» Lillian annuì. «Basta che usciamo di qui.» Solo quando furono al sicuro in macchina si rilassò un pochino. «Scusami, sapevo solo che avrei finito per prenderla a ceffoni se non l'avesse piantata. Proprio una rogna, non le basta spillarti tutti quei soldi, deve anche umiliarci in questo modo.» Patrick scoppiò a ridere e aprì le mani per mostrarle le stimmate della propria furia. La circondò col braccio mentre si curvava e scoppiava in lacrime, e si chiese come fosse possibile che fosse diventato un tipo talmente moderno da avere bisogno di sprecare tanti soldi per dimostrare una verità che era già evidente. Però, persino nella consolazione di quel momento, si rendeva conto che la prova era una componente vitale della vendetta. E di sicuro qualcuno doveva pagare per questo.

Patrick spiegò tutto ciò nei minimi particolari a Saz una volta tornati al B&B, mentre Lillian smaltiva dormendo la tensione accumulata nei giorni precedenti. «Lo uccido quel bastardo. Tu scopri dove abita e ti prometto che lo uccido.» «Patrick...» «No, dico sul serio. Quel Lees, davvero, lo voglio maciullare, quel bastardo.» «Lo so, ma...» «Quindi scopri dove cazzo è, così posso farlo.» «Preferisco contattarlo e ottenere più informazioni. Ci sono altre persone nella tua posizione, sai. Chris, per esempio, non è nemmeno arrivato a questo punto.» «Non me ne frega un cazzo, voglio solo incontrare quel bastardo.» «Per l'amor di dio, Patrick, sta' zitto. È ovvio che so dove trovare questo dottore. Se è ancora vivo.» «Be', se lo è non lo rimarrà per molto, cazzo.» Saz sospirò e ignorò le sue farneticazioni. «Eh, sì, proprio. Ci sarebbe di grande aiuto. Se per un qualche colpo di fortuna o per un caso incredibile di cattiva gestione il tipo non è stato ancora depennato dall'ordine dei medici, sarà facile trovarlo su un qualsiasi registro. Anche se è in pensione. Non è questo il problema.» «Allora qual è?» «Cristo, te la vuoi dare una calmata?» Patrick scosse la testa: «Scordatelo. Ho quarant'anni di incazzature arretrate. Questa non me la faccio passare tanto facilmente.» «Senti, Patrick. Non esiste che io ti lasci mano libera. Non adesso. E non finché hai idee di questo genere.» «E come vorresti che mi comportassi?» «In nessun modo. Sii te stesso, e basta. Non mi aspetto altro. Hai tutto il diritto di sentirti così.» «Sono felice che tu lo pensi.» «Ma in realtà non è d'aiuto a nessuno, sai. È una cosa troppo brutta e troppo personale, cavolo, e poi è chiaro che non è roba che possiamo gestire da soli, che cazzo. Dobbiamo andare subito alla polizia con Lillian domattina, e passare tutta la faccenda a loro. Compreso il ruolo che ha avuto quella fintona di Georgina, perché credimi, lei sa qualcosa.» «Non possiamo.» Saz parlò con i denti stretti per la rabbia e lo sfinimento: «Patrick, questa

non è una squadra di vigilantes. Siamo solo noi due. E Chris. E forse anche Luke. E per quanto ne sappiamo potrebbero essere coinvolti altri bambini, altre donne.» «Di sicuro.» «Non possiamo metterci a correre in giro per il paese a riunire madri con i figli che avevano creduto morti anni fa, è una follia, cazzo. Dev'esserci un modo più ordinato per occuparsene. Quell'uomo ha commesso un crimine, che cazzo. Ho fatto la mia parte, abbiamo trovato tua madre. Ora devo mettere le cose in chiaro con Chris: deve dire tutto alla madre adottiva al più presto, poi chiamiamo la polizia e lasciamo il resto a loro.» «L'ho promesso a Lillian.» «Le hai promesso cosa?» «Che non avrebbe dovuto parlare con la polizia.» «E perché?» «L'hai vista, Saz. È chiaro che al momento non è la persona più equilibrata...» Saz si trattenne dal dire che ormai era più che evidente da chi Patrick aveva preso le sue abbondanti scorte di sanità mentale. «Ha un controllo già molto debole sulla sua vita così come sta. E ha il terrore del sistema. Ha passato quasi quattro anni in quel manicomio. Non era matta, ma l'hanno convinta di esserlo. Non vuole parlarne con la polizia. Abbiamo passato quattordici ore insieme, noi due soli, tutte a guidare e aspettare, e non avevamo niente da fare se non parlare del futuro, e ti garantisco che c'è ancora un fottio di roba che lei non ha raccontato.» «Patrick, questo varrebbe per tutti, che diamine. Hai appena ritrovato tua madre, e in una situazione tutt'altro che ideale. Anche se il resto della vita di Lillian fosse stato una favola, sarebbe comunque piuttosto traumatizzante.» «E così farai quello che chiede.» «Dobbiamo fare la cosa giusta.» «Cosa? E passare tutto quanto a gente come la mia miniassistente sociale?» «Ne parli come se fosse il tuo Mini-Pony.» «Lo è. È ancora una bambina, per dio. Non ha la minima idea di come trattare casi del genere.» «Nemmeno tu.» Patrick si alzò, raddrizzò le spalle in direzione di Saz, con la mano sulla maniglia, e disse: «So solo che ho promesso a mia madre che non avrebbe

dovuto avere a che fare con la polizia o con gli assistenti sociali. Le ho promesso che me ne sarei occupato io. Che ce ne saremmo occupati noi due. Ora, se tu scopri delle altre madri, quella del tuo amico Chris, magari, o di quel Luke, e loro vogliono parlare con la polizia o con gli assistenti sociali, benone. Ma se Lillian non è in grado di farlo, allora non è costretta, e io non intendo costringerla. E tu nemmeno, capito?» Patrick sbatté la porta prima che Saz fosse in grado di aggiungere parola, e lei si alzò, si stirò, fece qualche giro per la stanzetta grattandosi nervosa le cicatrici sulle mani, poi si risedette, del tutto delusa. Capiva la posizione di Patrick, aveva intuito quanta paura aveva Lillian, ma questo era ridicolo. E pericoloso. Sapeva che le minacce violente di Patrick non erano parole al vento. Se fosse davvero riuscito a mettere le mani addosso a Lees, non si poteva sapere cosa avrebbe combinato. E Saz non credeva proprio che in tribunale si potessero giustificare un minimo di lesioni personali gravi, nemmeno con le scusanti che avrebbe potuto addurre Patrick. 34. Molly aspettava, ma aveva informazioni per Saz che si sentiva molto a disagio all'idea di comunicare. Sapeva del dottor Lees, non solo perché Saz le aveva chiesto di fare delle indagini sul suo stato attuale in quanto medico - anche se quella era stata la prima richiesta di Saz quando aveva telefonato per dire che stava tornando a casa -, ma anche perché aveva passato buona parte del sabato pomeriggio a esaminare le cartelle cliniche di Eva Freeman. E poi si era imbarcata in ricerche ulteriori. «È stato interessantissimo leggerle. È incredibile quanto abbiamo imparato sulla fertilità negli ultimi quarant'anni. La quantità incredibile di cose che sono cambiate in così poco tempo. Cioè, io ne sono la prova vivente, no?» «Sì, Molly, ma dimmi delle cartelle cliniche...» Purtroppo per la fretta che aveva Saz, a Molly l'argomento interessava davvero molto. Saz, che si era occupata di scienza della riproduzione solo per quanto concerneva il suo desiderio di procreare, non era particolarmente entusiasta di sentirne parlare in quel momento. Molly era riuscita ad arrivare alla gravidanza, le madri adottive di Chris e Patrick invece no. Il suo grado di coinvolgimento si fermava lì. Era molto più interessata al fatto che Eva Freeman era stata in contatto con il dottor Lees. «Ma Lees non era il suo medico, vero?»

«No. Le è stato consigliato molto più avanti.» Molly scorse gli appunti sul caso che aveva davanti. «Secondo questo incartamento, Gerald ed Eva hanno cercato di concepire un figlio subito dopo il matrimonio. La solita coppia etero normale, perfettamente felice. Non gli passava minimamente per la testa che per farlo poteva non bastare una tranquilla vita sessuale.» «Quindi non andava bene?» «Purtroppo per la tua natura schifosamente libidinosa, Saz, in questi appunti rigorosamente medici non si parla della loro vita sessuale.» «Parlavo dei tentativi di avere figli.» Molly lanciò un'occhiataccia alla fidanzata: «Lo so. Credevo che magari portare la conversazione su un tono più leggero potesse ricordarti che sono la tua compagna, non solo la tua aiutante in una ricerca.» Saz si era chiesta quando sarebbe arrivata quella reazione, anche se aveva sperato di poter affrontare la discussione su "quanto poco tempo passavano insieme" dopo aver ricevuto le informazioni che voleva da Molly. Cercò di prevenirla con un pentimento sincero. «Scusami.» Inutile. Era troppo tardi, e comunque non bastava. Qualsiasi cosa stesse succedendo, Molly non si sarebbe lasciata rabbonire tanto facilmente. «Cioè, quando sei entrata in casa è tanto se mi hai baciata; non mi hai neanche chiesto come sto.» Saz ci riprovò. Poche parole. Sentite. «Mi dispiace, Moll.» Ancora niente. «E la prima cosa che hai detto è che sei tanto stanca, e poi mi hai chiesto solo di dirti tutto di Lees.» Saz si morse il labbro, strinse i denti, si grattò le cicatrici sulla mano sinistra, sospirò, si sentì in colpa, sospirò di nuovo, si sentì ancora più in colpa e quindi, dato che il senso di colpa generava un malumore tutto suo, ancora più agitata. «Molly, mi dispiace. Mi dispiace davvero, cazzo. Lo so che come fidanzata faccio schifo.» «E anche come futura madre.» Saz ignorò il commento. Il fatto di essere una potenziale genitrice era un'altra fonte di discussione e, pur nella sua condizione di stress, Saz sapeva che era meglio evitare l'argomento. «Ma devo risolvere 'sta cosa. Patrick mi fa paura. Davvero. Ha inveito per tutto il viaggio di ritorno e gridava che avrebbe ucciso quel tipo. Non credo faccia sul serio, ma non so nemmeno quanto stia scherzando.»

«Davvero?» «E poi te l'ho chiesto, come stavi.» «Mi hai chiesto se stavo bene. Quello è chiedere del bambino, non di me.» Saz gemette in silenzio e annotò mentalmente di sbrigarsi a cercare un po' di padri con cui parlare. Era evidente che aveva molto da imparare su come si deve comportare il componente non gravido della coppia. E ci provò di nuovo con le scuse. Erano giuste. Ed erano anche un metodo più rapido del litigio. «Va bene, mi dispiace di non averti chiesto di te. Anch'io sto imparando da zero cosa vuol dire aspettare un bambino, proprio come te. Lo so che sono ossessionata da questo lavoro, ma in questo caso sento davvero che il tempo è essenziale. E anche se sono preoccupata per gli eccessi di Patrick, non si tratta solo di quello. So molto bene che ho fatto pochissimi progressi con Chris, e non ho la minima idea di come procedere, dato che ora sappiamo che la sua madre adottiva non aveva legami con Lees.» «Ne aveva, invece.» «Cosa?» «È una delle cose che ho scoperto. Keane era il socio di Lees. Hanno rotto a fine anni Sessanta, ma prima hanno lavorato insieme per anni.» «Fantastico! Riusciamo a rintracciarlo?» Molly scosse la testa: «Mi spiace, tesoro, è morto nel '78.» «Merda.» «Senti, Saz, tutta questa storia vi sta un po' sfuggendo di mano. Sei proprio sicura che non puoi parlarne alla polizia?» «Ne ho già discusso con Patrick. Era la mia prima idea.» Molly smise la sua smorfia incazzata abbastanza a lungo da alzare le sopracciglia in segno di stupore. «Questo non è da te.» «Be', insomma, anch'io imparo prima o poi. Solo che Patrick non me lo lascia fare. E ho chiamato Chris per sentire se era d'accordo, ma anche lui ha rifiutato. Non vuole dirlo alla sua madre adottiva, o non adesso, comunque.» «Come se in passato tu ti fossi mai fatta fermare dalla gente che ti diceva di no!» «Be', cosa posso fare? Entrambi non vogliono assolutamente che vada dai piedipiatti; Patrick non vuole nemmeno che lo dica a Helen o a Judith. Gli ho spiegato che sono amiche e quindi non contano, ma non sente ragioni. Ho le mani legate. È la loro storia, non la mia. Devo assolutamente

trovare un'altra di quelle donne, magari la madre di Luke era una di loro. Se Leyton era coinvolto nella sua adozione, ci sono buone possibilità che anche lei sia stata maltrattata da loro. Mi basterebbe trovarne anche solo un'altra, una che sia pronta a rivolgersi alle autorità per una cosa del genere. O, meglio ancora, potrei trovare le prove inconfutabili che Lees e Leyton vendevano quei bambini.» «Ma prima dovresti sapere come avvicinare quella donna.» «Lo so. E mi dispiace se per questo ti sto trattando come una ricercatrice non pagata, ma capisci bene che prima sistemo questa storia, prima posso tornare alla mia vita normale con te. E prima posso trattenere Patrick dal diventare un maniaco omicida.» Molly sorrise: «Eh sì, cazzo. Non è proprio il caso che succeda.» Saz prese la mano che Molly teneva appoggiata sugli appunti: «E voglio sapere come stai tu, come sta il bambino e non voglio continuare ad andare via e mi dispiace davvero di...» Molly le respinse la mano, chiaramente poco disposta a farsi rabbonire tanto facilmente. «Lo so. Le scuse me le fai dopo, okay?» Saz assentì all'istante, soppesando dentro di sé quale forma di risarcimento le sarebbe stata chiesta questa volta, se tempo o denaro. O entrambi. Anche se sapeva che era molto egoista a pensarlo, Saz sperò che si trattasse di soldi. Al momento aveva molto più denaro che tempo. Poi fissò lo sguardo in quello di Molly e le diede tutta la sua attenzione. Il minimo che potesse fare era mostrarle che si stava concentrando. Che si stava concentrando e al tempo stesso si sentiva in colpa. E sfinita. E delusa. Sembrava un'ottima pratica per la maternità. Saz riportò la sua attenzione alle parole di Molly. Parlava molto piano, come se raccontare quella storia le pesasse. Saz cominciò a sentirsi a disagio. Era chiaro che c'era qualcosa che non andava. Qualcosa di più di quello che si aspettava. «Comunque, dopo un paio d'anni i Freeman si accorsero che non succedeva niente. Lei andò dal suo medico - privato, naturalmente - che le consigliò uno specialista, poi un altro, poi un altro ancora. A quanto pare provò tutto.» «E non è servito a niente?» «Niente. Tre anni, nessun bambino, neanche l'ombra, nemmeno un aborto spontaneo che dimostrasse la possibilità di averne.» Saz era sorpresa dalla descrizione fredda di Molly, dal suo atteggiamen-

to in generale distaccato. «Cristo, Moll. È tutto qui, un aborto spontaneo? Solo un segno che dimostra la possibilità di avere un figlio?» «Per un medico? Sì. Mi stai chiedendo di fare il medico. Non di parlare per me stessa. Non ti sto dicendo come si sentiva. O come mi sentivo io, se è per questo. Mi hai chiesto delle informazioni. Te le sto dando. È davvero difficile e cerco di farlo meglio che posso, va bene?» Saz sorrise per la centesima volta quel giorno e Molly continuò. «Alla fine si sono rivolti a Lees. Non so chi glielo avesse consigliato, la cartella clinica non lo dice.» «Sì, ma secondo Lillian era un interno di quella clinica. Era un responsabile.» «Questo non significa che non potesse avere anche un ambulatorio privato a Londra, tesoro. Come credi che facciano tutti quei soldi? È gente che non si limita a fare un lavoro solo, come me.» «E allora come faccio a trovarlo? Lo sappiamo?» Molly distolse lo sguardo e sospirò troppo forte perché Saz non si sentisse a disagio: «Purtroppo, tesoro, lo sappiamo fin troppo bene.» «Perché purtroppo?» Molly fece un sorrisetto che poi si trasformò in un gemito, scosse la testa, aprì la bocca come per parlare e la richiuse. Poi, con grande sforzo, cominciò. «Non è facile da spiegare. Il tuo dottor Lees, quello che credi abbia venduto Patrick ai Freeman, be', pare che gli piaccia avere un socio con cui lavorare, qualcuno che lo aiuti a sviluppare le sue idee. Quando lui e Keane hanno smesso di lavorare insieme, è diventato socio di Barbara Richard.» Saz sbatté gli occhi, come se quel gesto rendesse più facile la comprensione. Non servì. Aveva la nausea. Era sconvolta e aveva una forte nausea. «Cosa?» «Un socio non operativo. Ha aperto lo studio vent'anni fa, anche se ha smesso di praticare dopo i primi due anni. Ma è ancora citato come uno dei direttori dello studio.» Saz finalmente riuscì a balbettare: «La nostra Barbara?» «Credevi davvero che fossi di quell'umore merdoso solo perché tu non c'eri? Che cazzo, Saz, tu non ci sei mai. Non è una grande novità. È mezza giornata che penso a come dirtelo. Mi è toccato starmene qui seduta da sola con questa roba per dodici ore.» «No, senti, Molly, non può essere. È ridicolo. È una coincidenza troppo inquietante. È troppo improbabile, cavolo.»

Molly scosse la testa: «Non proprio. In realtà non ci sono poi tanti posti dove andare per i problemi di infertilità. Sì, stanno nascendo parecchie cliniche; è un settore molto redditizio, specialmente per le percentuali di fallimento. E tutti quei desideri ormonali. Ma non ci sono molti posti che abbiano una buona reputazione, e nemmeno molti che vengano consigliati da altri medici. Sì, è una coincidenza che siamo finite a rivolgerci a una clinica con cui lui ha avuto a che fare, ma non è una coincidenza enorme. Non è così improbabile. Le sue cliniche sono famose perché non fanno nessuna discriminazione circa le persone che aiutano a procreare. Lees ha contribuito a fondare altre quattro cliniche a Londra e un paio in altre parti del paese. Era probabile, dato che molti si rifiutano di aiutare le coppie "non convenzionali", che finissimo in una delle sue. È di questo che si occupa, in fondo.» «Di cosa si occupa?» «Si preoccupa che la gente abbia un bambino.» «Si preoccupa?» «Saz, per piacere. Stai facendo il pappagallo e non è di grande aiuto.» Saz alzò la testa che teneva tra le mani: «Be', sai com'è, Moll, il quadro che mi sono fatta di lui non è esattamente quello di un brav'uomo.» «No, lo so.» Molly alzò le spalle. «Forse quarant'anni fa vendeva bambini, forse all'epoca era l'unico modo che aveva trovato, ma gli sono sempre interessati i problemi di fertilità. Anche all'università ci aveva fatto la tesi di specializzazione: "La procreazione per chi è considerato tradizionalmente infertile". È il suo campo.» Saz continuava a non capire. O non voleva capire. «Come diavolo fai a sapere tante cose su di lui?» «Quando ho capito chi era, sono stata sveglia tutta la notte a lavorarci. Per fortuna il suo sito internet non fa orario d'ufficio.» «Mi viene il voltastomaco.» «Neanch'io sono entusiasta. Volevo dirtelo di persona. Volevo averti qui mentre te lo dicevo, così potevo sentirmi un po' meno peggio.» Saz sapeva che era proprio quello che avrebbe dovuto fare. Delle due era Molly quella incinta, dopotutto, ma non aveva idea di come fare perché una delle due si sentisse meno sconvolta, meno turbata. Molly porse a Saz un foglio di carta scritto a macchina: «Ecco il tuo uomo, tesoro. Samuel Lees ha settantanove anni. Abita a Maida Vale e ha una casa di campagna nel Dorset. È ufficialmente in pensione da nove anni, sebbene spesso venga chiamato a parlare a conferenze di embriologia e

fertilità. Anche se molti lo ritengono un individualista, è ancora molto rispettato nella sua professione. È stato sposato due volte ed è solo dalla metà degli anni Settanta. Ha tre figli adulti, tutti nati in maniera tradizionale e, cosa più importante di tutte, è un feroce sostenitore della scuola della fertilità su richiesta. Il che significa che... be'...» Molly esitò e Saz finì la frase per lei: «Significa che è grazie a Samuel Lees che tu puoi far nascere nostro figlio.» «Sì, indirettamente è così.» 35. Sdraiate a letto, Saz e Molly parlarono per un po' di Chris e decisero che forse era meglio non comunicargli quella notizia inquietante. Non ancora, almeno. C'era la tacita consapevolezza che non volevano discutere dell'influenza di Lees, che forse riconoscere il suo coinvolgimento nella loro gravidanza avrebbe reso più tangibile la spiacevole sensazione della sua presenza. Però dovevano decidere cosa dire a Patrick. Saz aveva raccontato a Molly del suo sfogo feroce contro Lees e concordarono entrambe: l'ultima cosa che Saz poteva auspicare adesso era che Patrick partisse in quarta e andasse ad affrontarlo in prima persona. «Moll, vuole ucciderlo, e forse non sarebbe troppo male.» «Non dirai mica sul serio?» «Certo che no. Ma è una cosa che mi indispone, e mi indispone che minacci il nostro bambino.» «Non lo minaccia, Saz. Niente può toccare il bambino. Dobbiamo proteggere Chris da questa storia, per ora, e proteggere Patrick da se stesso riguardo al tuo dottor Lees.» «Non è mio, scusa tanto. Ma hai ragione. Non possiamo permettere che Patrick faccia qualche pazzia. Cioè, sarebbe un inferno accompagnare Lillian al carcere di Wandsworth tutti i sabati.» «Il traffico è terribile in quella direzione.» «Terribile.» «Allora è meglio che non glielo dici, tesoro.» «Eh, già. Meglio di no.» Per la maggior parte della settimana trascorsa Saz aveva agognato di trascorrere un po' di tempo con la sua compagna. Nel suo stato di stanchezza permanente, non voleva altro. Ore rilassate, una serata qualunque passata insieme, un po' di tempo senza pretese: una cena e una bottiglia di vino,

una serata fuori, o persino in casa, a guardare la tv o un video. Stare a casa insieme, solo loro due e il pancione. Ore in cui potersi semplicemente tenere per mano, in quello stato di naturale vicinanza fisica che poi poteva portare a vicinanze ulteriori. Ma la rivelazione di Molly non permetteva niente del genere. Tra loro sul divano morbido sedeva l'immagine di Lees, che allontanava le loro spalle desiderose di calore. Il pensiero di Lees come il loro vero progenitore impedì alle loro gambe di allacciarsi come al solito anche mentre Molly dormiva un sonno intermittente sul bordo del letto, e Saz passava la notte in bianco, scomoda e agitata. Alle sei e mezza del lunedì mattina era già sfinita. Di nuovo. Era sfinita quando si era sdraiata per cercare di dormire, e sfinita quando si era trascinata fuori dal letto un'ora prima. Era la prima notte negli ultimi sei giorni che passava a casa, e non era riuscita a riposarsi. Lo spiritello della preoccupazione si era risvegliato quando Molly aveva associato il loro bambino al nome di Lees e ora Saz non sarebbe riuscita a dimenticarlo finché non avesse svolto altre indagini. Anche se Molly aveva preparato la cena e avevano diviso una bottiglia di vino - Molly ne aveva bevuto un bicchiere e Saz gli altri quattro -, non era riuscita a rilassarsi per niente. Quando lavorava a casi che riguardavano qualcun altro, per quanto si lasciasse coinvolgere - e di solito Saz si spingeva troppo oltre -, poteva sempre nascondersi a casa, e correre da Molly in cerca d'aiuto e di conforto. Casa sua era la sicurezza. Ma non ora. Senza la clinica che Samuel Lees aveva fondato quindici anni prima, Molly e Saz non sarebbero state in attesa del loro bambino. C'era voluta una lunga ricerca per trovare un posto che gli permettesse di realizzare il loro progetto. Non solo che Chris donasse il seme per il bambino di Molly - quello era facile, probabilmente avrebbero potuto farlo da soli, in casa -, ma che Molly portasse effettivamente in grembo il figlio di Saz e Chris. Una cosa che, lo sapevano, i tradizionalisti avrebbero trovato orribile, una cosa che loro stesse avevano soltanto immaginato e discusso, sperato. Era tutto troppo vicino. E la corsa non l'aiutò. Spesso lo faceva, le dava dei benefici emotivi oltre a quelli, prevedibili, fisici. Almeno, quei cinque chilometri mattutini di solito le sgombravano la mente dalle macerie della paura, dalle congetture infondate, ma non quel giorno. Correre non le era d'aiuto, ma Saz non riusciva comunque a smettere. Aveva cominciato con il solito percorso e poi aveva aggiunto un altro giro al conto alla rovescia e ora ne stava affrontan-

do un altro ancora. Più piano, naturalmente, ma sempre di corsa, aveva guardato la pista che serpeggiava tra gli alberi fino al sentiero che riportava a casa loro e, prima ancora di avere il tempo di capire chiaramente quello che stava per fare, ricominciò di nuovo, tornando verso la pista principale della spianata. Il fiato andava e veniva a fiotti bruschi, l'aria tiepida del primo mattino le sferzava la gola, irritata per lo sforzo della respirazione innaturale. L'ossigeno le veniva risucchiato nei polmoni da un diaframma famelico, che tornava al suo posto dopo ogni respiro, deciso a far sì che quello fosse l'ultimo a comportargli tanti sforzi, e deluso ogni volta che Saz continuasse. Continuasse a correre, comunque. Nonostante l'urlo del battito del suo cuore, costretto a pulsare molto oltre la soglia di allenamento ottimale, quelle settanta pulsazioni che di solito Saz si sentiva dentro, senza prendersi la briga di contarle. Sembravano molto più vicine a ottantacinque-novanta quella mattina. Continuò a correre. Ignorando il crampo al polpaccio sinistro, prendendo atto del dolore e poi correndo senza curarsi della cicatrice sul fianco destro, sfiancandosi il corpo in una sottomissione che non avrebbe mai ottenuto per intero dal suo cervello. Non era una Saz felice, quella. Sapeva che avrebbe dovuto cavarsela da sola. E comunque non poteva contare su Patrick. Ora avevano tutte le informazioni utili che ci si poteva aspettare dagli archivi dei suoi genitori. In effetti, aveva portato a termine il suo lavoro per Patrick. E, dato che Lillian si rifiutava di rivolgersi alle autorità con le informazioni sul loro dna, la cosa non riguardava più direttamente né la madre né il figlio. O comunque, non per il momento. Saz doveva fare una visitina a Georgina Leyton da sola e vedere se riusciva ad avvicinarsi un po' alla verità. Non è che morisse dalla voglia di recarsi un'altra volta nell'antro di quell'arpia firmata dalla testa ai piedi, ma tant'è. Forse poteva portarsi dietro Carrie come diversivo contro quell'opulenza insincera, se non altro. Saz era costretta ad ammettere che l'uomo che aveva identificato come il cattivo non era soltanto cattivo. Non era facile. Lees, seppure indirettamente, aveva anche reso possibile a lei e a Molly di formare la famiglia a cui anelavano. Saz poteva anche accettare che aveva trovato la madre di Patrick, e quindi ormai era libera di lasciare l'incarico. Dire a Chris che non sapeva cos'altro fare, e che avrebbe dovuto parlarne con la sua madre adottiva. Ma non era così facile. La linea di demarcazione tra giusto e sbagliato era ancora meno chiara del solito. Saz, per quanto una parte di lei volesse

solo fuggire, andare a casa a giocare alla famigliola felice e rifiutarsi di vedere tutto questo, non aveva scelta. Le vennero in mente immagini di elefanti e negozi di cristalleria. Ma anche un'altra immagine. Il processo inarrestabile della nascita. Non si poteva fare altro che andare avanti. E a casa. Per fare una lunga doccia e far riposare un po' il corpo spossato. Nel pomeriggio i muscoli delle gambe le avrebbero fatto un male furioso e non voleva inciampare nei tacchi alti quando avrebbe portato Carrie da Georgina. Almeno una delle due doveva avere un aspetto presentabile, e se Carrie aveva passato l'ultima settimana a letto con la sua nuova brunetta, era probabile che sarebbe toccato a lei. 36. Entrare negli uffici di Georgina Leyton con Carrie al fianco diede a Saz una strana sensazione di potere. Se lei stessa non era in grado di scardinare quelle difese ben alzate, era sicura che l'arma aggiuntiva del sensibilissimo rilevatore di cazzate di Carrie sarebbe stata un accessorio valido per il suo piano di attacco. Anche se non aveva ancora elaborato niente di completo, un piano, qualcosa del genere. Ma c'era l'inquietante sensazione che ormai non poteva più limitarsi ad aspettare che le cose seguissero il loro corso. Avrebbe dovuto essere intraprendente, se non altro perché riuscire a esercitare una minima influenza su quello che succedeva alla sua famiglia poteva darle un po' di pace. Era conscia che si trattava solo di una parvenza di controllo, ma avrebbe dovuto accontentarsi. Non poteva passare le notti in bianco per un'altra settimana. Saz pensava di presentare Carrie a Georgina come un'altra persona di cui Richard Leyton aveva combinato l'adozione. Sperava che Georgina sapesse abbastanza dei rapporti di suo padre con Lees da farsi confondere dalla storia di Carrie. O avrebbe capito che Carrie non poteva essere uno dei bambini venduti da Lees, oppure si sarebbe sorpresa nel trovarsene di fronte una di cui non conosceva ancora l'esistenza. In un modo o nell'altro, sperava che per la confusione si lasciasse sfuggire qualcosa. Saz poi aveva in programma di esigere che le dicesse tutto quello che aveva scoperto su Lees e sui suoi rapporti con il padre. Già dal loro incontro la settimana precedente si era convinta che Georgina sapeva molto di più degli affari di suo padre di quanto fosse disposta a rivelare. Saz sperava di riuscire a sconvolgerla, magari provocando una o due rivelazioni. Ma era anche abbastanza sicura che tutti quegli anni di buone maniere e di addestramento alla

fredda presunzione sarebbero entrati in gioco piuttosto presto, e la bocca perfetta di Georgina si sarebbe chiusa prima di qualsiasi rivelazione ulteriore; e lì entravano in gioco le altre doti di Carrie. Saz immaginava che, se c'era una persona in grado di circuire lo zelante impiegato alla reception, quella era Carrie, con la sua collaudatissima capacità di lusingare le persone. Il piano era di lasciarla da sola con lui il più a lungo possibile - Saz comunque si aspettava che Georgina volesse parlarle a quattr'occhi - e qualsiasi informazione Carrie fosse riuscita a estorcergli si sarebbe rivelata utile quando avrebbe dovuto analizzare quello che aveva appreso e decidere il passo successivo. Carrie, nella cui vita adulta non si era insinuato alcun concetto di carriera, negli ultimi due anni era diventata la regina degli interinali. Ammesso che si prendesse la briga di lavorare, magari nelle occasioni in cui le richieste di Saz per la quota dell'affitto diventavano pressanti, o non riusciva a ottenere qualche soldo in più da suo padre che l'aveva trascurata da bambina e quindi era pieno di sensi di colpa. La gente adorava avere Carrie in ufficio: a un'interinale non chiedevano altro che di portare avanti il lavoro e, se non aveva la più pallida idea di cosa fare, almeno di fingere. La finta competenza rendeva felici i dirigenti dell'ufficio e rabboniva i capi. E la finta competenza era la specialità di Carrie. La sua ampia esperienza in una vasta gamma di uffici significava che un'occhiata alla zona della reception sarebbe stata sufficiente a farle sapere tutto quello che le serviva sul sistema di computer che usava lo studio. E forse, se erano molto fortunate, poteva anche fornirle delle informazioni sul sistema di allarme. Era difficile trattenere Carrie dal sognare a occhi aperti storie poliziesche, il racconto di Saz sul comportamento di Georgina l'aveva fatta infuriare ben prima di conoscere quella donna, ed era proprio quello che Saz aveva sperato. Mentre non pensava affatto che il loro lavoro di quel giorno si sarebbe spinto fino all'effrazione, Saz sapeva che Carrie non le avrebbe mai rifiutato il suo aiuto dopo aver ascoltato la descrizione di Georgina, e quello che Saz sospettava sapesse. C'erano poche cose che Carrie odiava quanto una ragazza "bene" sempre in tiro, soprattutto perché sapeva che con quei vestiti, quali che fossero, sarebbe stata sempre meglio di loro, che avesse o no la predisposizione genetica per andare a fare shopping a Knightsbridge. Quindi Carrie era determinata a servirsi del tempo passato negli uffici nel modo più efficiente possibile. Che per lei significava almeno estorcere la combinazione dell'allarme all'untuoso assistente. Saz non era certa che Carrie fosse in grado di portare a compimento un tale capolavoro di inganno, ma d'altra parte non aveva

intenzione di trascurare niente che potesse risultare utile. Quando Saz chiamò l'ufficio di Georgina per fissare un appuntamento, rimase sorpresa che gliela passassero senza esitazione. Si era aspettata come minimo una cortese indifferenza. Georgina le disse che aveva scartabellato un po' degli incartamenti di suo padre e che, anche se non aveva trovato niente di direttamente collegato all'adozione di Patrick, pensava dovessero avere un chiarimento sull'argomento. Il tono di minaccia nella sua voce era assai poco velato, ma Saz lo ignorò, fece molti respiri profondi, strinse i pugni e poi si attribuì una fila di medaglie scintillanti per non aver abboccato. Accettò l'offerta di un incontro nel modo più gentile possibile. Non fu facile, lo fece a denti stretti, ma almeno riuscì a rispondere sempre in modo educato. Saz era d'accordo per incontrarsi con Carrie fuori dal palazzo dello studio alle due e mezza. Alle due e venticinque dovette guardare due volte la donna che stava attraversando la strada diretta verso di lei prima di essere certa che fosse Carrie. La donna era Carrie, ma in una versione inedita. Anche Saz si era sforzata di vestirsi un po' elegante, dato che non aveva la minima intenzione di replicare gli ultimi due incontri disastrosi, in cui Georgina aveva conquistato facilmente una posizione di vantaggio facendo la parte della donna glaciale. Ma, mentre Saz portava un completo estivo di lino molto rispettabile, Carrie aveva strafatto. La donna che attraversava la strada diretta verso Saz era vestita di bianco: tutto bianco, tutta seta. Pantaloni lunghi morbidi, una camicetta così sottile da essere quasi trasparente e un giubbotto liscio e bianco che si allacciava con un solo bottone coprendole il seno e i tre tatuaggi sul braccio sinistro. Aveva i capelli raccolti in uno chignon regolare, portava solo un orecchino a ciascun orecchio, si era tolta i piercing al naso e al sopracciglio, il trucco era minimo e innocente, giocato sui toni del rosa, aveva persino lasciato a casa gli occhiali viola con gli Strass che erano il suo marchio di fabbrica. Al loro posto, sulla testa erano appoggiati dei classici Ray-Ban. «Porca miseria, ma che cazzo ti è successo?» «Grazie, Saz, anche tu sei in gran forma.» «Ma... Cristo... ti ho detto di metterti elegante, non di conciarti come una che è appena scesa da uno yacht a Monaco.» «La gente "bene" si veste sempre di bianco, no? Tanto per dimostrare che per loro non è un problema lavare tutto quanto dopo averlo portato solo mezz'ora. O farlo lavare a qualcun altro. Ho esagerato?» «Cazzo, no, sei uno schianto. È solo che... be', dove diavolo hai preso

questa roba? Non avrei mai creduto che avessi tanti soldi.» Carrie rise: «Saz, sei così candida certe volte. È a questo che serve M&S.» «Vuoi dire che questo completo viene da Marks & Spencer?» «Ultimamente hanno roba quasi interessante, tesoro.» «Sì, ma comunque dev'esserti costata un casino.» «Saz, tu non mi ascolti. Ho preso tutto da Marks. Quindi, se il tuo bastardo di un assistente non mi rovescia addosso una caffettiera oggi pomeriggio, stasera alle sei questa roba è tutta nel reparto rese a Marble Arch. È un po' come noleggiare un costume, davvero.» «Senza pagare, però.» «Proprio così.» 37. Anche se Saz si aspettava l'ostruzionismo di Georgina, non aveva mai conosciuto nessuno che fosse tanto bravo in materia. E riuscisse a farlo sorridendo. Offrendo caffè. E torta di Fortnum & Mason's. Facendo i complimenti a Saz per il completo, il colorito sano, le belle scarpe nuove. Dimostrandosi maledettamente carina, bella, affascinante e fin troppo furba, accidenti. Saz si disse ancora convinta del coinvolgimento di Richard Leyton nell'adozione di Patrick da parte dei Freeman. Georgina ribadì che aveva esaminato tutti gli incartamenti del padre senza trovare niente. Saz le mostrò una copia della lettera di Leyton che confermava l'adozione. Georgina ammise che erano sicuramente la carta da lettere e la firma di suo padre: «Quell'asola sulla R, è papà, di sicuro.» Ma no, naturalmente lei non aveva trovato l'originale della lettera, anzi, non aveva trovato proprio niente sull'argomento. «È ovvio che mio padre e Gerald Freeman volevano tenere segreta questa storia di Patrick. Immagino, signora Martin, che mio padre avesse varie cose che voleva tenere segrete. Anche a me. È stata una delusione, lasci che glielo dica. Ero così certa di essere la cocca di papà. Ma temo che tutti ci sbagliamo ogni tanto, no?» Il sorriso falso era talmente ovvio. Saz scartò la possibilità di lasciar cadere nella conversazione le rivelazioni di Lillian, perché sentiva che far capire a Georgina quante cose sapeva, anche se poteva servire a scuoterla un po' dal suo autocompiacimento, avrebbe implicato tradire troppi particolari troppo presto. A Saz, dalla sua posizione di quasi ignoranza, serviva tutto il potere che aveva. Anche il fatto che Lillian e Patrick pretendessero

da lei il segreto faceva parte del suo ragionamento, ma non era certo il punto più importante. Se l'avesse creduto utile avrebbe rotto quella promessa senza esitazione, specialmente ora che sentiva il caso come cosa sua, oltre che di Patrick. Un fine che giustificava ancora di più i mezzi. Messa di fronte a un vicolo cieco, Saz provò con il secondo ramo del suo attacco. Disse a Georgina di avere portato con sé Carrie perché era convinta che fosse uno dei bambini fatti adottare da Leyton. L'ipotesi fu accolta con incredulità totale. Georgina aveva guardato solo un attimo la ragazza ben vestita che aveva accompagnato Saz nell'edificio. L'aveva guardata e poi l'aveva liquidata come insignificante quando aveva chiesto a Saz, e solo a Saz, di seguirla in ufficio, per motivi di riservatezza, naturalmente. Non era chiaro per quale motivo Georgina pensasse che Saz si fosse portata qualcuno con sé, anche se si era più volte riferita a Carrie come all'"amica" di Saz. Amica in tono enfatizzato. Amica detto in un modo che lasciava intendere che aveva svolto qualche indagine sulla vita privata di Saz. Saz lo trovava inquietante, ma pensò che era meglio non disilludere Georgina sulla sua erronea convinzione. Più a lungo lasciava Carrie da sola all'ingresso, più era probabile che facesse scoperte interessanti. E poi voleva parlare a Georgina di Carrie, non con Carrie. Dalle informazioni di Molly, Saz sapeva che Lees aveva lasciato la clinica dove era nato Patrick alla fine degli anni Sessanta, quando il suo interesse per l'embriologia e i problemi di fertilità cominciava a venire accettato dalla medicina tradizionale. Quindi immaginò che la sua attività di vendita di neonati si fosse ridotta, mentre lui investiva tutte le sue energie nel nuovo campo di ricerca; almeno questo si poteva svolgere alla luce del sole e con l'approvazione della società. Se Georgina sapeva qualcosa del coinvolgimento di suo padre con Lees, doveva sapere che il suo incarico in Cornovaglia era finito nel 1968 e che da allora la sua altra occupazione aveva preso tutto il suo tempo. Carrie era sui ventisette anni, ma ne dimostrava tre o quattro di meno. A prima vista passava per una nata negli anni Settanta, per cui quando Saz affermò di ritenere che anche l'adozione di Carrie fosse stata organizzata da Leyton, Georgina manifestò quella che secondo Saz era la sua prima emozione sincera della giornata. Aveva un'aria sollevata, si capiva anche dalle sue parole. Le spalle, che prima erano elegantemente erette, ma tese, si rilassarono a partire dal colletto largo che le cingeva il collo grazioso, e il vago cipiglio sulla fronte altrimenti sgombra sparì, e scoppiò in quella che sembrava quasi una risata genuina. «No, non ci credo, è troppo giovane! È impossibile che mio padre abbia avuto a

che fare con lei.» Poi si trattenne, anche se un filino troppo tardi, e fece marcia indietro spiegando che tutti i clienti di suo padre erano vecchissimi, che non lavorava mai con gente giovane, che le poche adozioni di cui sapeva che si era occupato - e si affrettò ad aggiungere che si erano svolte tutte con la collaborazione delle autorità, e non con quel dottor Lees che a Saz interessava tanto - risalivano agli anni Cinquanta, e una o due agli anni Sessanta. All'epoca in cui c'erano molti più neonati disponibili per l'adozione. Naturalmente era cambiato tutto negli anni Settanta, con la facilità di procurarsi la pillola o di abortire. Saz non smaniava per ascoltare quella tiritera sul cambiamento dei metodi di procreazione nella società moderna, ma la divertì molto osservare Georgina che si tradiva. Se la frase iniziale di Georgina non rientrava al cento per cento nei dati empirici, Saz la archiviò felicemente come «molto probabile». Quantomeno l'eloquente espressione di sollievo di Georgina confermava i suoi sospetti che sapesse ben di più di quanto ammetteva. E per Saz era una sensazione fantastica. Avvicinarsi un po' alla verità era, naturalmente, lo scopo preciso per cui si trovava in quell'edificio. E pareva proprio che lo stesse realizzando. Riuscire a far sudare Georgina era solo un succulento optional. Ma poi fu il turno di Saz di sudare, perché Georgina le chiese se non era il caso che ci parlasse lei, Georgina, con la ragazza. Anche se Saz conosceva la grande abilità di Carrie nel mentire, non voleva lasciarla tra le grinfie di Georgina. Non ultimo perché non era sicura che Carrie riuscisse a mantenere la calma se Georgina si fosse spinta troppo oltre. Rifilò all'avvocato una storiella su quanto sarebbe rimasta delusa Carrie nello scoprire che Leyton non aveva niente a che fare con la sua adozione, e sul fatto che era meglio che lo sapesse da lei, e non nell'ambiente freddo di un ufficio sconosciuto. Anche se non era la risposta migliore, quantomeno Georgina l'accettò: di sicuro era impaziente quanto Saz di porre fine a quel colloquio. Saz uscì dall'ufficio ancora più certa del fatto che la donna sapeva del coinvolgimento di Lees e Leyton, forse proprio perché la prima visita di Saz l'aveva spinta a esaminare le cartelle di suo padre. Era un po' preoccupata perché Georgina sembrava al corrente di troppe cose su di lei, un po' di più di quanto sarebbe stato l'ideale, anche se Saz era felice di aver infastidito Georgina abbastanza da dissuaderla dal fare una qualsiasi domanda. Lasciò l'edificio con Carrie. Carrie uscì visibilmente molto soddisfatta di sé. Saz non sapeva ancora cosa avevano in mano, ma dal ghigno sul viso meraviglioso della sua ex ragazza fu certa che, qualunque cosa sapesse ora

Carrie, era valsa la pena di entrare per scoprirla. Arrivarono a piedi in Regent's Park, pieno ovunque di corpi seminudi, che esponevano il pallore mortale della loro carnagione londinese a dosi massicce di gradite radiazioni solari, e Carrie spiegò: «All'inizio ci ho fatto due chiacchiere.» «Su cosa?» «Sui centralini.» «Come?» «Il loro è un modello svedese, insidiosissimo. Uno dei più complicati, a dire il vero. E lo hanno installato solo da un mese. Però io ne ho già usati un paio e gli ho dato qualche dritta.» «E te lo sei rigirato come un calzino? Non pensavo che bastasse così poco per fargli piacere.» «No. Sono stati i biglietti per Wimbledon che l'hanno fatto partire.» «Quali biglietti per Wimbledon?» «Buona domanda. Gli ho detto che la tua ragazza lavora per la federazione del tennis. E che ogni anno ci danno i biglietti gratis.» «E ti ha creduto?» «Perché no? Lavora in un mondo in cui la gente sale sul Concorde per fare shopping nel fine settimana - o almeno, Georgina lo fa -, non penso gli fosse troppo difficile credere che tu gli avresti procurato i biglietti.» «Per la settimana prossima?» «Questi sono solo particolari, Saz.» «I particolari contano.» «Gli ho detto che avrei mandato un corriere in mattinata. Ti va bene come particolare?» «Niente male. E quindi cos'altro gli hai cavato fuori, oltre a uno smodato amore per il tennis?» «Saz, il tennis non piace solo alle lesbiche, sai com'è.» «A me non piace. E neanche a te. E nemmeno a Molly, a proposito.» «Sì, ma non volevo contraddire la sua visione dei soliti cazzo di stereotipi. Non quando andavamo così d'accordo.» «Hai ottenuto tutto questo in mezz'ora?» «Tu sei stata dentro quasi tre quarti d'ora e questo gliel'ho tirato fuori in dieci minuti. E c'è di meglio. Non ti sei accorta di quant'era più gentile quando ce ne siamo andate?» «A me sembrava solo un cadavere ambulante.» «Sì, be', quello è perché si è sentito un po' male finché ero lì. Anzi, è an-

dato in bagno a vomitare, a dire la verità. Deve essere stato via... tutto sommato un quarto d'ora, venti minuti, credo.» Carrie aprì la borsa e, ignorando la gente che si abbronzava intorno a loro, cominciò a estrarne oggetti mentre Saz guardava a bocca aperta. «Ecco le tre combinazioni dell'allarme necessarie per entrare e uscire dall'edificio senza rischi, la password di Adam per entrare nel sistema di archiviazione dello studio e» a quel punto Carrie sventolò un bel mazzo di chiavi tintinnanti, «sia le chiavi di riserva dell'edificio, che la copia di riserva del passepartout che apre tutti gli uffici sul piano della Leyton. Tra tutti, anche quello di Georgina. Notevole, no?» Saz afferrò il braccio di Carrie, cercò una panchina e vi si diresse a grandi passi. Controllò approssimativamente che fosse pulita, per non rovinare i vestiti della festa, poi si sedette, tirando Carrie giù al suo fianco. «Attenta, il vestito deve rientrare per le sei, non dimenticartelo!» «Carrie, non mi importa del vestito...» «Io la penso diversamente...» «Zitta! Benissimo, è notevole. È tutto notevole: il completo, i capelli e soprattutto il tuo rocambolesco furto. Sono stupita. Sono sbalordita, cazzo. Adesso abbassa la voce, che cavolo, e spiegami come hai fatto a mettere a segno un'azione di una tale malvagità.» Carrie cominciò a parlare e Saz la interruppe: «E, per piacere, raccontamelo in modo che non mi tocchi telefonare a Claire da un commissariato per chiederle di pagarci la cauzione stasera prima di andare a letto.» Carrie sorrise e si chinò verso Saz: «Ti ricordi della brunetta?» «Cosa c'entra?» «Eccome se c'entra. Fa la naturopata.» «E?» «Hai presente che Adam ti sembrava pallido come un cadavere?» Saz disse cauta: «Sì.» «Gli ho fatto venire il vomito.» «Carrie, mi fai venire il vomito metà delle volte che ti vedo. Cosa c'entra con la brunetta?» «Oltre a scopare da dio, sa anche molte cose sulle erbe. Di tutti i tipi. Sa quali usare per...» «Il mal di testa, i dolori mestruali e la menopausa. Ovvio, si comprano in qualsiasi erboristeria. Io preferisco di gran lunga le medicine tradizionali. Sono molto più veloci, tanto per dirne una.» «Be', a dire la verità io parlavo soprattutto delle erbe che si possono as-

sumere per aumentare il desiderio sessuale.» «Credevo tu fossi l'ultima persona ad avere bisogno di una cosa del genere.» «Nah. Sono sempre pronta a provare le novità. E comunque è esperta anche di erbe emetiche.» «Cos'è un'erba emetica?» «Fa vomitare.» «Gli hai dato qualcosa per farlo vomitare?» «Sì, abbiamo avuto il gran culo che lui stimasse le erbe molto più di te: gli ho offerto una bella tazza di tè rinfrancante. Se l'è tracannato, ha detto che era molto buono e dieci minuti dopo è filato in bagno per entrare in comunione con la tazza del cesso.» «Carrie, è terribile.» «Però ha funzionato.» «Sì, ma... lui tornerà a posto?» «Guarirà perfettamente. Se si fosse trovato a un'orgia nell'antica Roma, sarebbe stato perfettamente accettabile.» «Okay. Basta così. Mi sembra roba troppo rischiosa.» «Ah, sì, Saz» e le tirò le chiavi in grembo, «ma pensa a quanto è più magro e attraente per gli altri ragazzi stasera quando esce.» «Quindi è gay?» «Saz, quanti ragazzi etero conosci che vanno a ballare durante la settimana?» 38. Come aveva detto Carrie quando si erano introdotte nell'ufficio, non stavano commettendo una vera e propria effrazione. Non stavano forzando proprio niente per entrare. Quindi in realtà era solo un reato a metà. La nonchalance di Carrie non si era trasmessa a Saz. In effetti, era proprio la sua disinvoltura a snervarla tanto. Tornando all'edificio dell'ufficio di Georgina, Saz aveva cercato in tutti i modi di instillare un po' di senso del pericolo nei piani di Carrie per quella sera. Invano, o quasi. «Ma ci saranno le telecamere della sicurezza, no?» «Non c'è il videoregistratore. Costa troppo. Metà dei palazzi di Londra ce l'hanno solo per sport.» «Non si direbbe che facessero i tirchi con una cosa come la sicurezza quando hanno speso così tanto per l'edificio.»

«Nah, hanno molta fiducia nel sistema di allarme. È molto appariscente, ha detto Adam.» «Ti ha spifferato un sacco di informazioni.» «Gliele ho chieste gentilmente. Come se mi interessassero. Non l'ho trattato come un assistente decerebrato, al contrario di qualcuno che so io.» «Non l'ho trattato male!» Carrie sorrise: «No, ma forse non ti sei sforzata un granché. So come sei quando ti fissi con qualcosa.» «La prima volta che l'ho visto avevo altre cose per la testa, e la seconda volta anche di più. Quella fissa di cui parlavi con tanta leggerezza, guarda caso, era il fatto che una donna con cui avevo passato il pomeriggio era appena stata tramortita di botte da un testa di cazzo ancora ignoto. Senza dubbio qualcuno che ha molto a che fare con Georgina Leyton.» «Non lo sai.» «No. Ma so che Georgina in qualche modo è coinvolta e quindi non ho molto tempo da perdere a scambiarmi carinerie con i suoi dipendenti.» «Naturale. Ma quel poveretto si annoia a morte. Mi sa che gli faceva piacere anche solo avere qualcuno con cui parlare.» «Di sicuro hai trovato il suo lato buono.» Carrie ammiccò, e nella penombra il suo viso aveva un ghigno quasi inquietante: «Dammi retta, Saz, hanno tutti un lato buono: forse basta rigirarli un paio di volte per trovarlo.» Carrie aprì ed entrarono nell'edificio; Saz si sforzò di convincersi che avesse ragione sulla videocamera, che automaticamente le seguì mentre attraversavano in fretta l'atrio. Dopo che Carrie ebbe disattivato l'allarme principale dell'edificio, imboccarono le scale dirette allo studio Leyton, dato che Saz non aveva alcuna intenzione di trovarsi bloccata in un ascensore, nel caso in cui qualcuno avesse deciso all'improvviso di fare un salto in ufficio alle tre del mattino. Almeno potevano sempre scappare per le scale. Di nuovo, Carrie usò due chiavi diverse e una password per disattivare l'allarme ed entrare nell'area dell'accettazione; era un sistema davvero molto complesso, praticamente a prova di errore - ma non più dopo che Carrie ebbe stabilito di aver già lavorato con quel sistema e rubato le chiavi e la password. Si diressero subito nell'ufficio di Georgina, dove Saz aprì gli schedari con un metodo ben più tradizionale: un banale passepartout. Poi passò i venti minuti successivi a esaminare le pratiche, compito meno facile di quanto si aspettasse. Per una donna vestita in modo così impeccabile, gli schedari di Georgina Leyton erano un casino. D'altra parte la recente

presenza di Saz nella sua vita poteva avere qualcosa a che fare con il caos: probabilmente era stata stimolata a dare una scorsa a qualsiasi documento avesse su Patrick, per assicurarsi di sapere tutto quello che doveva. Tutto quello che le serviva per mantenere un vantaggio su Saz. Nel frattempo Carrie si attaccò al computer. Saz non intendeva avvicinarvisi. Almeno non mentre Carrie provava diverse password per accedervi. E poi altre tre. E un'altra. Sperando ogni volta di non essere buttata del tutto fuori dal sistema. La trovò al decimo tentativo. E si mangiò le mani per non averci pensato prima. «Porco cane Saz, l'hai fatta proprio preoccupare questa ragazza.» «Perché?» «La sua password è Lees.» «Fantastico. Speriamo che continui a essere preoccupata.» «Okay. Cominciamo.» Le due donne si misero al lavoro, cercando il più possibile di mantenere un silenzio concentrato e il buio nella stanza. I grandi finestroni non avevano tende né imposte e la mancanza di una vera notte a Londra forniva un bagliore arancione smorto con cui lavorare. Saz integrava l'illuminazione della strada con una torcia minuscola e Carrie fece del suo meglio per girare il monitor il più lontano possibile dalla finestra, facendo scudo a ulteriori fuoriuscite di luce sedendosi proprio davanti allo schermo, con gli occhi incollati ai puntini colorati mentre scorreva velocemente la corrispondenza di Georgina dell'ultima settimana. «Qui non c'è niente. Se ha scritto a qualcuno riguardo alle tue domande l'ha fatto a mano.» Saz non alzò gli occhi dalla cartella che stava esaminando. «O via e-mail.» Carrie sorrise: «Per essere una che odia quelle cose, a volte hai un pensiero incredibilmente logico. Prima o poi faremo di te una tecnofila.» «Non le odio. Semplicemente non le capisco. Ma non vuol dire che non so che esistono. Vivo nel mondo reale, sai. Molly ha l'e-mail al lavoro.» «Hampstead non è il mondo reale.» «Carrie, tappati quella boccaccia e continua il lavoro. Non voglio essere ancora qui quando arrivano quelli delle pulizie.» Carrie obbedì agli ordini: seguì un sentiero labirintico passando per l'incubo di qualsiasi tecnofobo e, riuscendo a stento a contenere la fierezza per la sua abilità, richiamò tutte le e-mail di Georgina degli ultimi quindici giorni. I messaggi spediti e ricevuti che Georgina credeva di aver cancella-

to in tutta sicurezza. Carrie li scorse, varie lettere su testamenti ed eredità, promemoria su accordi di divorzio e pagamenti di alimenti. Un paio di messaggi personali a quello che doveva essere il fidanzato di Georgina; o, se non era il suo partner, allora diceva porcherie a un perfetto sconosciuto. «Dio, amo Internet, c'è tutta 'sta roba e uno crede di essersene liberato, di averla cancellata, buttata nel cestino, o quello che è. Ma in realtà è solo nascosta nell'etere e aspetta qualcuno che la richiami alla vita.» «Se la metti così sembra una magia.» «Lo è. Se sai come usarla. E, che mi prenda un colpo, io so usarla!» Carrie fece un salto indietro e la luce dello schermo si diffuse nella stanza. «Saz! Vieni e da' un'occhiata qui.» "Qui" era una serie di e-mail in stile forbito tra Georgina e Lees, con Georgina sempre più preoccupata e lui che la calmava, insistendo sul fatto che nulla era stato registrato, che non si poteva dimostrare niente e che stava reagendo in modo eccessivo. L'entusiasmo iniziale di Carrie si smorzò un po' quando capì che non c'era niente che potesse incriminarli con sicurezza. «Scusa, credevo di aver trovato roba un po' più esaltante.» «Ma è esaltante.» «Non ci dice niente di certo.» «Ci dice che è preoccupata, che cavolo. Ci conferma l'indirizzo di Lees che aveva trovato Molly. Ma soprattutto ci dice che lui non prende sul serio Georgina.» «E perché dovrebbe essere una cosa buona?» «Vuol dire che lui non è preoccupato. Lei sì, quindi sa che deve stare attenta. Lui non lo sa ancora. Quindi è molto più probabile che commetta qualche errore. Immagino che la mia prossima meta sarà Lees.» Carrie entrò nell'ultima e-mail, da Georgina a Lees. «Cazzo, guarda. Sukie.» Saz guardò e quello che lesse la disgustò. «Posso confermarti che la signora Planchet al momento si trova in condizione di non nuocerti.» Saz scosse la testa e non disse niente. «Cosa c'è, è una cosa bella, no? Non credevi che potesse avere a che fare col pestaggio di Sukie?» «Lo pensavo, ma in realtà speravo di no. E non è che dimostri niente di certo. È gergo legale, potrebbe significare qualsiasi cosa.» «Ma è quello che sospettavi.» «Sì. Che stronza. Forse è per quello che Sukie mi ha lasciato un messag-

gio. Voleva dirmi che si era vista con Lees.» Saz sospirò, si passò le mani tra i capelli: «Continua, tesoro, è un bene che abbiamo confermato la mia ipotesi, ma per beccarla abbiamo bisogno di qualcosa di più.» Saz trovò quel qualcosa venti minuti dopo. Lasciando perdere gli schedari in disordine, decise di provare negli armadi. Nel retro del secondo trovò diverse scatole di cartone con una data: gli appunti di Richard Leyton. E fece centro alla prima scatola con cui provò. A metà della pila c'era una cartellina sottile. Dentro c'erano solo sei fogli di carta. Quello in alto era la copia di un modulo di certificato di adozione. Per Patrick Freeman. Dichiarava che era in perfetta salute, forniva data e ora di nascita - il 30 agosto, la data che gli avevano sempre detto i suoi genitori adottivi -, il nome di Lillian e infine un breve profilo delle difficoltà emotive che al momento stava affrontando la madre naturale, e della sua felicità perché il figlio era destinato a una buona famiglia. Saz lesse l'ultima dichiarazione con enorme sollievo. Fino ad allora non aveva davvero capito quanto fosse preoccupata che anche i Freeman fossero pienamente al corrente della doppiezza di Lees. Anche se il solo fatto di aver comprato il bambino di per sé era abbastanza brutto, quello che la infastidiva davvero era la possibilità che i genitori di Patrick potessero sapere anche che Lees aveva detto a Lillian che suo figlio era morto. Che fossero complici di tutta quella bugia. Quantomeno la cosa non era così brutta come sia lei che Patrick, senza dirlo, temevano. In fondo alla pagina c'era un promemoria sul fatto che «la richiesta per il corrispettivo per la procedura di adozione» sarebbe seguita con una fattura a parte, dopo un intervallo di tempo congruo. Le pagine seguenti erano su altri bambini, in ordine cronologico. Alcuni con certificato di nascita completo, altri con un sunto brevissimo. Saz non si sorprese nel vedere che uno dei neonati era Luke. Risultava il nome della madre ma non quello del padre. Una correzione a matita dichiarava che la madre si era rifiutata di fornire quell'informazione; Saz pensò per un attimo quanto difficile doveva essere stato per lei mantenerla riservata. Specialmente con Lees e Leyton che insistevano. La quarta pagina elencava il neonato adottato da Margaret e Peter Marquand. Saz vide il cognome ed emise un suono di sorpresa. «L'ho trovato.» «Chi?» «Chris. Questi sono certificati di adozione. Più o meno. Di Leyton. Ce n'è una pila. Questo è Chris.»

Saz porse la pagina a Carrie, con mano tremante. Carrie fece una smorfia. «Dai. Dimmi cosa dice.» Saz abbassò lo sguardo, terrorizzata da quello che stava per leggere. Sperando di poter finalmente dare un nome alla nonna di suo figlio. O ai nonni. Pregando che nemmeno loro sapessero della vendita del bambino. Spaventata da quello che rischiava di dover dire a Chris. Il padre non era citato. La madre veniva chiamata Sara Fisher. Il bambino era nato in buona salute. La madre era in buone condizioni fisiche. Solo su questo certificato non si faceva cenno a tariffe pagate per l'adozione. Saz rilesse la pagina tre volte, poi la diede a Carrie che era ugualmente perplessa: «Non capisco, Saz, se Lees e Leyton guadagnavano soldi ogni volta che davano via un bambino, cos'ha di speciale Chris? Perché lui no? Stavano facendo un favore ai Marquand, o cosa?» Saz alzò le spalle, poi un'intuizione la nauseò ed emise una risatina che si trasformò in un gemito quando si coprì la bocca. «Oh cazzo.» «Cosa?» «Mi sa che ho capito.» «Cosa?» Saz sospirò e porse la mano per prendere le carte: «L'hai appena detto: cos'ha di tanto speciale Chris? dei bambini che conosciamo? È l'unico nero. Mulatto. Per loro era un "mezzosangue".» «Davvero?» «Be', che ti credi? Parliamo di quarant'anni fa! E sapendo quello che sappiamo su questa gente, e su come hanno trattato Lillian! L'hanno bollata come pazza per anni. Non è che siano proprio dei tipi di larghe vedute.» «Merda.» «Eh sì, merda. Per fortuna non sapevano che da grande sarebbe anche diventato finocchio.» Per un attimo le due donne tacquero, e Saz si chiese se esistesse una spiegazione alternativa che non ferisse ancora di più Chris. E siccome non le veniva in mente, decise per il momento di ignorare le ipotesi più spiacevoli e concentrarsi sulla buona notizia che almeno aveva scoperto il nome di sua madre. Saz fotocopiò le lettere e poi rimise le scatole nell'armadio. Carrie stampò alcune delle e-mail: «Alcuni dei messaggi supplicanti a Lees e poi solo quelli a sfondo sessuale, non si sa mai che tu abbia bisogno di ricattarla: mi sa che quel tipo di Ginevra con cui si scrive è sposato, lo contatta sempre e solo in ufficio.»

Lasciarono gli originali delle chiavi sul tavolo dell'assistente dove li aveva presi Carrie, chiudendosi di nuovo fuori con una miriade di password e con il mazzo di chiavi che Carrie aveva duplicato quel pomeriggio. Giusto prima di restituire il bel completo alla signora gentile di Marks & Spencer. Corsero giù per le scale in silenzio e Carrie riaccese l'allarme e chiuse a chiave la porta. Saz non riusciva a credere che fosse andato tutto liscio, che l'avessero fatta franca: soprattutto non con Carrie al fianco, che, anche se era meravigliosamente utile, era anche incline ad almeno una crisi personale per sera. Ma non quella volta. Quella volta era andato tutto bene. Provava un sollievo un po' strano. Le due donne corsero fino a imboccare Oxford Street e poi presero un taxi al volo. Mentre finalmente si rilassavano sul sedile posteriore, Carrie abbracciò Saz: «Siamo una squadra fantastica, noi due. Perché diavolo ci siamo lasciate?» Saz, non ancora pronta a farsi distogliere dal suo sogno a occhi aperti sulle ingiustizie della disparità sociale, non era proprio dell'umore per fare giochetti con la sua ex: «Perché tu mi hai scaricata, mi hai calpestato il cuore, l'hai ridotto in pezzettini e poi ti sei rifiutata di parlarmi per un anno. Brutta stronza.» «È vero, scusami.» «Va be', lascia perdere. Mi sa che è stato meglio così.» Il taxi accostò sotto l'appartamento di Saz e Molly proprio quando il primo sole toccava le finestre sul lato anteriore della casa. Saz pagò velocemente l'autista ed entrò con Carrie che era mezza addormentata. Sistemò l'amica sul divano, la coprì con una coperta leggera e poi andò nella sua camera a svegliare Molly prima del solito per il suo turno del mattino. 39. Molly non fu molto colpita. Né dal dolce bacio del buongiorno che Saz le diede sul labbro superiore, un bacio pieno su labbra ancora più piene. E nemmeno dalla carezza del buongiorno di Saz, molto meno dolce, sul corpo nudo per la notte estiva. Era mattina, aveva dormito male e non le sarebbe dispiaciuto approfittare anche della mezz'ora di sonno in più che le consentiva la sveglia. La cosa che la colpì meno di tutte fu il racconto delle prodezze della notte da parte di Saz. Non che Molly se la fosse presa particolarmente per aver dormito da sola un'ennesima volta. Lunghi turni di lavoro e qualche anno - solo pochi di meno - di turni di sonno con Saz im-

plicavano che era perfettamente capace di andare a letto tutta sola con un piumino. Quello che le scocciava davvero, però, quello che la fece precipitare fuori dalla doccia per sporgersi sgocciolante su una Saz in stato semicomatoso, era la loro stupidità nell'essersi introdotte in piena notte in un edificio ben sorvegliato. «Che cazzo, Saz, quand'è che te lo metterai in testa? Qui c'è il nostro bambino! Le cose sono cambiate, abbiamo un futuro a cui pensare.» «C'è sempre stato il nostro futuro a cui pensare.» «Non siamo sempre stati in tre. E se ti beccavano? Non ho nessuna intenzione di sobbarcarmi tutto questo da genitore single.» «Non ci hanno beccate.» «O peggio ancora, se quella donna è davvero così stronza, chi sa cosa avrebbe potuto farvi se vi incontrava?» «Moll, non credo proprio che Georgina sia una criminale che va in giro armata.» «Comunque sospetti che abbia a che fare col pestaggio di Sukie Planchet.» «Sì, però non ho prove dirette.» «Ma non ti fidi di lei, giusto?» «Be', non ci metterei la mano sul fuoco.» «Proprio come pensavo.» «Va bene, okay, non mi fido di Georgina. Ma non è lo stesso di dire che può essere stata lei a fare del male a Sukie. Georgina è molto più subdola. E comunque, se qualcosa fosse andato storto mi avrebbero incastrata per effrazione. Tutto lì.» «Mi sembra abbastanza.» «Naturale, però almeno se ci avessero prese avrei dovuto spiegare perché ero lì. Avrei potuto raccontare alla pula di Lees e di quanto penso che Georgina sia coinvolta. Non sarebbe importato se avessi rotto la promessa fatta a Lillian e Patrick.» Molly scosse i lunghi capelli scuri, spruzzando Saz con gocce d'acqua furibonde. «Da come parli sembra che volessi farti beccare.» «Certo che no. Ma a dire il vero non pensavo che sarebbe stata la cosa peggiore.» Molly smise di pettinarsi e si girò: «Che invece è?» «Il fatto che tu aspetti nostro figlio.» «Grazie tante, pensavo lo desiderassi quanto me.» «Certo che sì, Moll. Però non volevo provare questa strana sensazione.

Sentirmi tanto compromessa. Non sappiamo niente di quello che ha fatto Lees negli anni dopo che ha smesso di vendere neonati alla gente.» «Certo che lo sappiamo, Saz. Ha venduto neonati alla gente come noi.» «Intendo dire proprio questo. I suoi progressi nella carriera non mi riempiono di fiducia nei riguardi di quell'uomo.» Molly si sedette sul bordo del letto. «Neanche me. Non sono meno a disagio di te per questa faccenda. Il fatto di aver scoperto cose orribili su quell'uomo mi inquieta. Ma sono successe tanti anni fa. Abbiamo controllato la clinica, ci siamo imbarcate in questa storia a occhi aperti. Lees non ci ha mai lavorato sul serio, l'ha solo fondata. È troppo importante per lavorarci, è nel consiglio di amministrazione ma a quanto pare non va mai alle riunioni...» «Come fai a saperlo?» «Credi che non abbia fatto altre ricerche per conto mio? È ovvio che me ne preoccupo anch'io, è una coincidenza orribile, piuttosto schifosa. Ma è solo una coincidenza. L'uomo che ha fondato la nostra clinica, a quanto pare, in un certo periodo della sua vita era un cattivo. Ma chi non lo è stato?» «Dai, Moll...» «No, dammi retta. Non lo sto giustificando. Naturalmente è tremendo, criminale e imperdonabile quello che ha fatto a Lillian. E alla madre di Chris. Ma sai, ha fatto anche quello che desideravano quei genitori adottivi. Gli ha dato il loro bambino.» «I Freeman l'hanno pagato, il loro.» «Anche noi.» «Noi siamo diverse.» «Crediamo di esserlo, ma sai bene quanto me che c'è un sacco di gente convinta che quello che facciamo è sbagliato. E irresponsabile.» «Non stiamo mentendo e non è illegale. È diverso.» «Non lo so, tesoro. Alla fine, per quanto legali possiamo essere, lo stiamo facendo per la stessa ragione egoista per cui lo fanno tutti. Stiamo avendo un figlio perché lo vogliamo. Perché possiamo. Proprio come i Freeman, solo che loro non avevano le stesse risorse che abbiamo noi adesso. Non li voglio giustificare, ma al contrario di te non penso che la cosa sia tutta bianca o nera. Quello che Lees faceva allora è brutto, ma quello che ha creato da allora in poi ci ha aiutate.» «È questo il mio problema. Le informazioni che ho adesso gettano un'ombra su tutto il resto.» Molly rientrò nel letto a fianco di Saz, con i capelli lunghi e bagnati che

ricadevano sulla sua ragazza. «No, tesoro. Il nostro bambino non viene toccato da nessuna di quelle robacce. Sei tu che ti fai toccare. Hai proprio sclerato su questa faccenda.» «Non la sopporto. Non sopporto che ci tocchi.» «Lo so, ma abbiamo sempre saputo che sarebbe stato complicato. Hai trovato la madre di Patrick. Hai il nome di quella di Chris. Scopri chi è e hai finito il lavoro. Tutto qui. Lascia correre.» «Non posso. So troppo delle storie delle altre persone. Adesso so il nome della madre di Luke, come faccio a non dirgli niente?» Molly si alzò di nuovo e raccolse gli asciugamani per riportarli in bagno. «Non so, tesoro, ma non capisco perché dovresti voler avere a che fare di nuovo con lui dopo quello che credi abbia fatto a Sukie. Non è solo la vita di qualcun altro in cui stai andando a scavare, è la nostra. E mi preoccupa. Non hai il quadro della situazione, o ce l'hai meno chiaro del solito. Ho paura che ti spingerai troppo oltre.» Saz guardò Molly che usciva dalla stanza, incapace di rassicurarla. Come aveva detto, ora sapeva troppo. E anche troppo poco. Quando si svegliò, quattro ore dopo, sentì il profumo intenso della colazione. Si infilò una maglietta, scese dal letto barcollando assonnata e andò in cucina, dove trovò Carrie che le sorrideva davanti a un caffè appena fatto, uova e pancetta, funghi e pomodori grigliati. «Buongiorno, cara. Cavoli, sei attraente. Mi ero dimenticata quanto sei deliziosa appena sveglia.» «Secondo me non te ne sei mai accorta. Questo cos'è?» «Una colazione. Cosa ti sembra, se no?» «Mi sembra che tu mi abbia invaso la casa, ecco cosa mi sembra» disse Saz, prendendo il caffè con la mano tremante. «Hai visto Molly stamattina?» «No, ma l'ho sentita. Sono solo gli ormoni o è sempre così scontrosa?» «Nessuna delle due cose. È preoccupata per me.» «Che dolce.» «Molto. Quindi dacci un taglio e passami quella roba, che voglio fare colazione.» Per qualche minuto Saz mangiò in silenzio, poi, arrivata al secondo uovo e alla quarta fetta di pancetta, alzò lo sguardo: «Ma è fantastica. Dove hai imparato a cucinare?» Carrie scosse la testa: «Saz, questo non è cucinare, è una colazione. Non

serve un ricettario per imparare a friggere un uovo.» Saz alzò le spalle, con la bocca piena, e prese una fetta di pane per ripulire il piatto: «Che non ti senta l'autore del ricettario.» Finita la colazione, Saz fece una chiamata molto breve a Gary, passandogli il nome di Sara Fisher, e nient'altro oltre a un discorsetto sulla fiducia che nutriva nelle sue abilità investigative. Riagganciò il telefono, ben consapevole che gli stava chiedendo molto in cambio di molto poco. Ma Gary aveva trovato Lillian, forse avrebbe fatto centro anche in questo caso. Poi lei e Carrie andarono in salotto, dove disposero le carte rubate sul tavolo. Decisero che Saz si sarebbe occupata di Sukie. Poi avrebbe ricontattato Chris appena Gary si fosse fatto vivo, e poi entrambe avrebbero parlato con Luke, anche se nessuna delle due se la sentiva di parlargli dei suoi genitori nella sala all'ultimo piano del Bar Rage. Saz pensava fosse molto meglio farlo a casa o in terreno neutro, idealmente con un Luke il più sobrio possibile, magari non fatto di coca. Carrie era più preoccupata del fatto che una reazione negativa poteva rovinarle un'uscita serale potenzialmente interessante. Decisero di lasciar perdere gli altri adottati sconosciuti finché non avessero scoperto qualcosa di più su Lees. A nessuna delle due donne piaceva l'idea di contattare degli estranei di punto in bianco e rivoltargli la vita come un calzino. Quello semmai era compito della miniassistente sociale di Patrick. Però Saz voleva occuparsi di Lees il più presto possibile. «Voglio conoscerlo. Voglio davvero scoprire con chi ho a che fare.» «Come farai?» «Non lo so. Molly dice che adesso lavora a casa, quindi credo che potrei semplicemente andare a trovarlo. Presentarmi lì, dirgli che sto facendo delle ricerche sul lavoro alla clinica, adularlo.» «Forse sarà un pochino più guardingo, Saz.» «È un vecchio, sarà felice di parlare dei successi della sua vita. Dubito che gli facciano molta pubblicità: per ovvi motivi si è sempre dovuto tenere abbastanza dietro le quinte. Eppure, con tutto quel giocare a fare Dio con le vite degli altri, dev'esserci una parte di lui che non vede l'ora di vantarsene ai quattro venti. Comunque non credo proprio che gli chiederò di raccontarmi di tutti i bambini che ha venduto. Lo farò partire dalla clinica e vedrò cosa viene fuori.» Carrie alzò le spalle: «Okay, se proprio devi. Sai, Saz, non voglio sembrare Molly, ma devo dirti che questo ormai non è più compito tuo. Cioè, potresti limitarti a passare tutte le informazioni agli adottati e lasciarli de-

cidere da soli...» Saz guardò storto Carrie: «Hai ragione. Non vuoi sembrare Molly. Ora, c'è altro o possiamo continuare?» «Be', a dire la verità sì.» Carrie guardò Saz con esitazione. «E allora?» Carrie tirò fuori dalla borsa due fogli di carta. «Non ti piacerà quando ti dirò cosa ho fatto, ma ti piacerà quello che ti do.» «Taglia corto, Carrie.» «Va bene. Ho trovato queste mentre tu eri andata a fotocopiare l'altra roba.» «Dove?» «In una delle altre scatole. Di fianco a quella su cui stavi lavorando, a dire la verità.» «Perché non me l'hai detto finché eravamo lì?» «Eri già incazzata per la storia di Chris e dei soldi, avevo paura che perdessi la testa.» «Fantastico.» «Sì, be'...» Carrie si tirò indietro, prevedendo la reazione di Saz, «sapevo che non avresti voluto che trafugassi degli originali...» «Oh, vacca boia!» «Vedi? Ma penso che per noi valgano di più gli originali delle copie. Sapevo che non me li avresti lasciati portare via.» «E così hai aspettato adesso per dirmelo. Cristo, Carrie, sei subdola.» «Sì, ma credo che mi ringrazierai.» «Be', di che si tratta?» Carrie le porse i due fogli. Quello in cima era un modulo che confermava un'adozione, proprio come gli altri che Saz era stata così felice di trovare la sera prima. La bambina adottata era Georgina. Adottata da Leyton per crescerla come se fosse sua. Sul modulo non erano nominati i genitori naturali, quindi Saz immaginò che Leyton avesse disposto che i loro nomi restassero segreti. Per la prima volta, a momenti provò un briciolo di comprensione per quella donna. Sperava davvero che Georgina conoscesse già la sua situazione prima che loro intavolassero l'argomento e la costringessero a frugare tra le carte di suo padre. Altrimenti non sarebbe stato un bel modo per ricordarsi di quel tesoro di papà. Il secondo foglio di carta invecchiato era il certificato di nascita di Georgina. Di sicuro pareva l'originale. E su questo comparivano sia il nome della madre che quello del padre. Samuel Lees e Sukie Planchet.

40. Il dicembre 1967 era stato un mese freddo e a Londra la neve invernale era arrivata presto, sorprendendo la ragazza che credeva che il sud fosse caldo e piacevole. Sukie Planchet era arrivata dal nord da soli tre mesi. Era arrivata a Londra per trovare la città in movimento, la terra dei party che duravano tutta la notte, l'equivalente di Peyton Place. Invece aveva trovato un miniappartamento a Kilburn: una stanzetta due piani sopra una rivendita di liquori in cui poteva mangiare e dormire, e il bagno con il tassametro a monetine, e un cucinino in comune tra cinque miniappartamenti. In tre vivevano giovani coppie, nell'altro un vecchio che ogni settimana faceva un bagno di tre ore e si mangiava un'unica coscia di pollo ogni sera. Godeva di tutto ciò, e di un magnifico panorama della Kilburn High Road, per la somma principesca di sei sterline alla settimana. Il secondo giorno trovò un lavoro come impiegata all'ospedale St. Mary's a Paddington, dieci sterline alla settimana per archiviare particolari scabrosi della vita interiore della gente. E dopo solo un'altra settimana trovò quello che credeva fosse l'amore tra le braccia di Samuel Lees. Sukie aveva diciassette anni, apparentemente era troppo giovane per fare sesso, ma lo desiderava lo stesso. Voleva bere e divertirsi e scherzare e scopare ed era disposta a prendere qualsiasi cosa arrivasse. Era in città per assaporare la pura e semplice esperienza di vivere. A casa non c'era niente per lei, era partita con un biglietto da dieci sterline e si era diretta verso sud perché immaginava che Londra fosse il luogo dove si poteva trovare qualsiasi dono del cielo. E Samuel Lees fu il suo primo dono. Vicino ai cinquanta, sposato infelicemente per la seconda volta, con una figlia che aveva solo sei anni più di Sukie, Samuel fu il suo primo e più grande amore. Samuel era la dimostrazione del fatto che il vero amore esisteva. Sukie aveva ascoltato tutte le canzoni, letto i libri, guardato il telefilm Emergency Ward 10 quindi sapeva che l'essenza dell'amore era la smania non ricambiata. Samuel gliela forniva in dose tripla. Non poteva chiamarlo a casa e nemmeno al lavoro. Lui viveva in Cornovaglia, ma veniva al St. Mary's due giorni alla settimana, e lavorava anche privatamente con le coppie sterili. La sua ambizione era che un giorno chiunque volesse un figlio avesse la possibilità di concepire. Era ispirato e passionale e gli interessava poco altro che non fosse il suo lavoro. Sukie

non aveva mai conosciuto qualcuno tanto sicuro di sé: era un misto di John Lennon e Bob Dylan e, meglio ancora, era un adulto. Figura paterna e prima scopata: una combinazione letale. Nel marzo 1968 Sukie era incinta di due settimane. Lo seppe subito, anche se il suo medico ci mise un altro mese per confermarglielo. Il metodo di conferma di Samuel fu ugualmente clinico. Mentre le metteva una mano dentro, spiegò che non aveva alcuna intenzione di farsi intrappolare da una bugia - o da una bugiarda - e che avrebbe verificato lui stesso se era davvero incinta. Lo era. Sukie si era aspettata quella rabbia, ma aveva anche dato per scontato che lui avrebbe sistemato tutto. Le avrebbe indicato un bravo abortista, avrebbe eliminato il bambino e risolto la situazione. Il che le sarebbe andato bene. Non benissimo, ma piuttosto bene, o almeno in modo sopportabile. Di sicuro più sopportabile di essere una ragazza madre, cosa che l'avrebbe ricacciata a Sunderland nella vergogna, per mettere in imbarazzo i suoi genitori e sconvolgere la città. Però, senza la gravidanza, Sukie immaginava che avrebbero potuto continuare come prima. Aveva appena compiuto diciotto anni, era un'aberrazione ma sarebbe passata. Sukie era innamorata di Samuel Lees, ma per quanto accecata fosse sapeva che non avrebbe mai lasciato la moglie per lei. Era consapevole che probabilmente avrebbero continuato la loro relazione finché lei non avesse chiesto troppo: di sapere quando sarebbe passato a trovarla, o di prendere un appuntamento in anticipo, o di metterle una fede al dito. Forse Sukie era giovane, ma non era del tutto ingenua: la natura della passione di Samuel si fermava al suo corpo. Non si aspettava che a lui interessasse anche la sua mente. Sukie era a Londra per sviluppare la propria mente e Samuel era uno dei modi in cui lo stava facendo. A lui piaceva parlarle e a lei piaceva ascoltarlo. Sukie pensava che lui fosse l'epitome di tutto ciò che era moderno e progressista, e per questo rimase tanto sconvolta quando lui rifiutò persino l'idea che lei abortisse. E ancora più sconvolta quando la schiaffeggiò per il solo fatto di averlo proposto. Samuel Lees non aveva mai mandato una donna da un abortista e non aveva la minima intenzione di cominciare allora. Quello che non aveva fatto con le sconosciute, men che meno intendeva farlo con la propria fidanzata. Ma lei non capiva proprio niente del suo lavoro? Si occupava di dare la vita, non di toglierla. Era quella l'unica cosa che gli interessava, rendere possibili nuove vite, avverare i sogni della gente di avere una famiglia. E poi quello era suo figlio, come poteva pensare che lui avrebbe approvato l'omicidio di suo figlio? Messa in quel modo, Sukie convenne che aveva ragione. Ne convenne

perché sapeva anche che, se non concordava con lui, non avrebbe perso solo la nuova vita che si era programmata, ma anche Samuel. E Sukie non lo avrebbe sopportato. Portò avanti la gravidanza e lasciò il lavoro al sesto mese, quando i vestiti sempre più larghi non riuscivano più a nascondere quella che, alle sue spalle - e un giorno anche in faccia -, veniva chiamata la sua "vergogna". E poi resistette per gli ultimi tre mesi tutta sola nel miniappartamento. Arrivò l'autunno e poi l'inverno. Vedeva Samuel una volta alla settimana quando veniva a pagarle l'affitto e a darle cinque sterline per lei e le bottiglie di latte e le enormi sporte di costosa verdura fresca che insisteva per farle mangiare. Suo figlio non poteva venire su a un boccale di birra scura al giorno. Samuel Lees era un uomo molto in anticipo sui tempi. Al momento del parto, Lees trasferì Sukie in un cottage in Cornovaglia. Era la prima volta che stava in un posto con il telefono in camera. O nell'atrio, se è per questo. Doveva chiamare Lees nel momento esatto in cui iniziavano le contrazioni. Avrebbe fatto nascere lui stesso il bambino, e poi l'avrebbe portato alla coppia che doveva adottarlo. Alle tre di una notte gelida Sukie iniziò il travaglio. Da sola. Il bambino che non voleva tenere arrivò presto ma non facilmente, e alla fine del parto Lees sudava e gridava tanto quanto lei. Nonostante ciò che lui le aveva consigliato, Sukie tenne in braccio la piccola per un attimo, baciò la testolina di capelli scuri e poi guardò Lees che la portava fuori dalla stanza. Due ore dopo tornò da Sukie. La neonata era stata consegnata senza intoppi ai suoi nuovi genitori e Sukie poteva continuare la sua vita come prima. Ma la loro storia finiva lì. Lui l'avrebbe visitata nei giorni seguenti e poi di nuovo dopo un mese, non voleva che andasse in ospedale o dal suo medico, non voleva che qualcuno sapesse che era stata incinta. Ora era tutto finito, la bambina era con qualcuno che la voleva e Sukie non avrebbe mai più dovuto nominarla davanti a Lees. Lui l'avrebbe lasciata nel cottage, c'era cibo in abbondanza, coperte calde, una radio. Dopo due giorni sarebbe arrivato un taxi per portarla alla stazione. Sul tavolino da toilette le lasciò il biglietto e cinquecento sterline. Quando se ne andò non le diede un bacio d'addio. Sukie pianse per due giorni. Dopo quattro mesi Sukie conobbe Gerald Freeman andando a lavorare come assistente nel suo ufficio di Londra. Si era rimessa a nuovo. I soldi le avevano permesso un appartamento fantastico, dei bei vestiti e l'accesso a un lavoro molto migliore, dove avrebbe potuto incontrare un uomo di una

classe più alta che avrebbe apprezzato tutto ciò che Samuel Lees le aveva insegnato. Era diventata una ragazzina molto più saggia. Una ragazzina saggia consapevole che, se c'era da approfittare di qualcosa, era lei che intendeva approfittarne. Lees l'aveva istruita bene. A volte, nei suoi successivi viaggi con Gerald Freeman, Sukie incontrò Samuel Lees, che fu sempre gentile con lei, proprio come lei con lui. Si comportavano bene come due sconosciuti appena presentati a una festa, e se Lees aveva mai desiderato che lei prendesse i suoi soldi e se ne tornasse a Sunderland, non lo fece mai trasparire. Però Gerald notò che Lees, l'amico medico di Richard Leyton, era molto più amichevole con lui prima che cominciasse a portarsi dietro Sukie nelle loro uscite. Pensò che, mentre l'uomo non aveva alcuna remora nel vendere bambini, evidentemente non approvava le relazioni extraconiugali. Il che era strano, ma non insolito: nemmeno Richard approvava Sukie. Se Sukie avesse saputo dove era finita la sua bambina, avrebbe potuto pensare che Richard Leyton la disprezzasse per paura che fosse svelata l'identità della figlia. Ma né lei né Gerald Freeman scoprirono mai il vero motivo del cambio di atteggiamento di Leyton. E per Gerald era una vergogna che non riuscisse a tenere quel naso da impiccione fuori dagli affari della gente, che cavolo, e ordinava un'altra bottiglia di vino per sé e la ragazza. 41. L'infermiera che la lasciò entrare non lo fece perché provasse pena per Saz. Era Sukie che si era guadagnata la sua compassione. Non aveva ricevuto altre visite, a parte quella della giovane poliziotta che era tornata due volte al giorno nella speranza di ottenere informazioni, un'informazione qualsiasi. Ma la donnina a pezzi in quella branda non parlava. O lo faceva raramente. Oscillava tra sogno e veglia, si svegliava per poco tempo, disorientata, si svegliava per pregare e poi ricadeva nel sonno. Era ancora in pericolo di vita e in teoria, ufficialmente, Saz non poteva entrare nella stanza. Ma l'infermiera sussurrò: «È un miracolo che sia riuscita a resistere tanto a lungo, in realtà, tesoro. E non vedo perché non dovrebbe vedere la sua unica amica.» Se ne andò borbottando «burocrazia del cavolo» e Saz pensò che forse alla donna sarebbe piaciuto trovarsi con Molly per una delle sue regolari

lamentele sul fatto che «sono pazienti, non sono numeri». Poi vide Sukie e si dimenticò di Molly. Aveva una cera peggiore dell'ultima volta che l'aveva incontrata. I lividi sul viso, intorno alla mascella fissata con punti metallici, erano in pieno sfogo, ed era un disastro di viola scuro con sfumature gialline. La pelle sembrava un iris. Saz sentì lo stomaco vacillare mentre si avvicinava all'unità di terapia intensiva, silenziosa e a luci basse, fatta eccezione per i tracciati elettrici dei monitor. Si sedette a fianco del letto e aspettò. Dieci minuti, un quarto d'ora. L'infermiera non tornava e Saz passò quel tempo rubato a chiedersi quale parte delle sue indagini potesse aver portato a quel fagotto di carne maciullata che ora si vedeva davanti. Non c'era alcun legame chiaro, nessun motivo certo perché si sentisse responsabile, ma il pestaggio a Sukie era troppo vicino alla sua visita: una coincidenza spiacevole, e Saz si sentiva troppo responsabile per riuscire ad aspettare come se niente fosse. Poi Sukie aprì l'occhio sinistro; il destro era evidentemente troppo gonfio per muoversi. Saz aspettò un attimo, senza sapere se Sukie si stesse svegliando o solo muovendo nel suo sonno irrequieto. Dalle labbra gonfie uscì un sussurro spezzato: «Signorina Martin?» Saz si sporse verso il letto: «Sì, sono io. Volevo... Sono venuta a vedere come sta. Quanto mi dispiace!» Saz non era tanto sicura di cosa si stesse scusando; si chiese se Sukie ne sapesse più di lei. L'anziana sbatté le palpebre e Saz credette che si fosse addormentata di nuovo, ma poi si rianimò e, con evidente dolore, stavolta aprì entrambi gli occhi azzurro ghiaccio. Saz si chiese se Georgina sapesse quanto assomigliava a sua madre. E, con in mente i tratti della figlia, decise di aprire bocca. Si era chiesta se doveva dire a Sukie di Georgina, o no. Alla fine era d'accordo con l'infermiera: se Sukie stava così male, cos'altro poteva ferirla? E dopotutto era la verità. Saz pensò che Sukie probabilmente aveva il diritto di sapere chi era sua figlia. Probabilmente, forse, non era sicura, pensava Saz, sperando di fare la cosa giusta, e poi la fece comunque. «Sukie? Ho conosciuto sua figlia. Quella che ha avuto da Samuel Lees.» Sukie respirava a fatica e parlava ancor più a fatica: «Georgina?» A Saz, in tutte le sue riflessioni, non era mai venuto in mente che Sukie potesse saperlo già. «Eh sì, Georgina. Non avevo capito che vi conosceste. Non credevo...» «Non la conosco» sospirò Sukie, Saz non sapeva se per il dolore fisico o quello emotivo, «Richard le ha detto di me quando aveva diciotto anni. È

venuta a conoscermi, ma non se ne è fatto niente. Non ero ciò che cercava. Allora avevo già trovato Gesù, volevo aiutare anche lei a raggiungere la verità. Ma non gliene fregava niente.» Sukie si fermò a prendere fiato e Saz si chiese se lei stessa, a diciotto anni, avrebbe accettato facilmente una madre fanatica religiosa. Non doveva essere stato il ricongiungimento più facile del mondo, né per la madre né per la figlia. Sukie riprese a parlare: «Poi è tornata a trovarmi, non molto tempo fa, quando suo padre, Richard, è morto. Credevo volesse tornare da me.» Saz aspettò, Sukie sobbalzò, con un movimento del capo appena percettibile: «Ma Georgina voleva solo... vedermi. Per vedere se ero cambiata dall'ultima volta.» «E lo era?» «Non nel modo che sperava lei, non credo. Comunque era troppo tardi, non mi vedeva come sua madre.» «Ma conosce il dottor Lees?» «Samuel è sempre stato un uomo molto affascinante. L'ho amato molto, posso capire che lei volesse conoscerlo. Io non ne valevo la pena.» «Ma siete stati tutti e due a farla adottare, no? Non può dare la colpa solo a lei.» Sukie fece una smorfia, per due volte inspirò in modo roco e affrettato e rispose: «Le ragazze perdonano sempre i padri molto prima delle madri, no? E comunque il peccato è stato mio, e mia la sofferenza. I peccati delle madri, si potrebbe dire...» Ma Saz non voleva dirlo. Soprattutto perché credeva che Georgina fosse in parte responsabile per il dolore della donna che aveva davanti. Georgina, e chiunque altro avesse reclutato per aiutarla a fare del male a Sukie. Non voleva che si autoaccusasse per il dolore che ora provava. Voleva aiutare a trovare il colpevole. «La polizia vuole sapere se ha una minima idea di chi le ha fatto questo. Pensano che lei abbia fatto entrare in casa qualcuno. Si ricorda chi era? Chi è entrato a picchiarla?» «Come la tua spada ha privato di figli le donne, così tra le donne sarà privata di figli tua madre. E Samuele trafisse Agag davanti al Signore in Galgala.» «Sukie, non è stato Samuel, è un vecchio. Non può essere stato lui a farle questo.» Sukie annuì a fatica. «Certo che no. Ho aperto la porta, era un uomo.

Non era vecchio. Abbiamo parlato, mi ha raccontato di sé.» «Cosa le ha raccontato?» Sukie scosse la testa: «Non lo so. Lei mi aveva chiesto dei bambini e allora ho pensato che forse era uno di loro. Dei bambini. Ma forse l'ho pensato solo perché lei me lo aveva ricordato. Non lo so.» «Come si chiama, Sukie, si ricorda il nome di quell'uomo?» Ma Sukie ormai stava farneticando, riportata improvvisamente indietro tra il momento in cui aveva fatto entrare lo sconosciuto e quello in cui si era svegliata in preda al dolore all'ospedale. «Poi mi ha seguita dentro in casa e gridava, e io non capivo. Poi mi ha colpita. Ho provato a fermarlo ma non ci sono riuscita, era così arrabbiato, gridava tanto. E poi ho pensato che forse era giusto, pagare il mio debito.» «Cosa?» «Tutto ciò che ha speso per la sua gloria e il suo lusso, restituiteglielo in tanto tormento e afflizione. Poiché diceva in cuor suo: "Io seggo regina, vedova non sono e lutto non vedrò." Per questo, in un solo giorno, verranno su di lei questi flagelli: morte, lutto e fame; sarà bruciata dal fuoco, poiché potente signore è Dio che l'ha condannata.» «Sukie, nessuno si merita che gli si faccia del male. Deve cercare di ricordarsi chi è stato, che aspetto aveva. Non può permettere che la faccia franca così.» «Ma non la farà franca. Anche lui sarà condannato. Al momento giusto» e Sukie rabbrividì. «Scusa, non posso farlo. Non adesso. Sono stanca. Scusami.» Saz si alzò: «No, mi scusi lei. L'ho forzata troppo, non avrei dovuto. Mi perdoni. Devo andare.» Sukie cercò di alzare la mano verso Saz: «Aspetta. Hai ancora tempo, sai? Anche tu puoi pentirti.» «No, guardi, è meglio che vada. È meglio che la lasci riposare, non volevo turbarla.» «Ascolta: Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me.» Saz annuì: «Sì, guardi Sukie, va tutto bene, mi dispiace di averla turbata. Torno presto a trovarla. E se si ricorda qualsiasi cosa lo dica alla poliziotta, mi raccomando.» Sukie era già addormentata prima ancora che Saz uscisse dalla stanza. Saz uscì dall'ospedale e si diresse da Patrick, dove aveva appuntamento

con lui e Lillian. Doveva spiegare tutto dell'effrazione e confermare quello che ormai già sapevano. Sperava anche che Lillian fosse più calma e magari in grado di fornire qualche informazione su Chris. Da quello che Patrick le aveva detto, Lillian aveva dei racconti allucinanti sul periodo passato nella clinica psichiatrica dove lo aveva dato alla luce, e ci era rimasta abbastanza a lungo da poter essere entrata in contatto con donne che avevano partorito dopo di lei. Chris aveva tre anni meno di Patrick. Forse Lillian si ricordava di sua madre. Si sedette nella metropolitana e cercò di ricordarsi le farneticazioni bibliche di Sukie, chiedendosi se avevano un qualche significato. Io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Se non avesse saputo che non c'entrava, avrebbe potuto scambiarlo per un confuso riferimento a Patrick. Ma, anche se aveva un carattere orribile ed era capace di scoppi estremi di rabbia, forse più ancora di quello che aveva già visto, Saz immaginò che la sua violenza tendesse più al lato emotivo e verbale, che non a quello fisico che aveva provocato simili lesioni a Sukie. Non riusciva a scrollarsi di dosso il ricordo del delirio sottovoce di Sukie, disturbata dall'ipotesi assurda che Patrick potesse averci qualcosa a che fare. Ma una volta che aveva cominciato a vedere un significato in quelle parole, non fu più capace di togliersi dalla testa quel pensiero ridicolo. Finché non si ricordò che anche Luke era gestore di un esercizio di ristorazione. E allora si sentì peggio che mai. 42. Saz si sedette a un tavolo d'angolo con Lillian ed entrambe piluccarono il pane fresco alle olive. Nessuna delle due aveva una gran fame. Saz comunicò a Lillian solo i particolari essenziali. Patrick poteva sentire il resto quando finiva con il pranzo, ma la donna stanca che aveva di fronte, era evidente, riusciva a malapena ad affrontare i notevoli cambiamenti dell'ultima settimana. Non era il caso che sapesse anche delle sofferenze di Sukie. Saz le spiegò un po' di Chris e poi le chiese se pensava di averne mai incontrato la madre. Lillian fece una smorfia: «Ho già parlato con Patrick del tempo che ho passato lì dentro.» «Lo so, e mi dispiace che questo le riporti alla mente brutti ricordi; è solo che non abbiamo molto altro su cui basarci. Crediamo si chiamasse Sara Fisher, o almeno quello è il nome che le ha dato Leyton. E Chris è nero, ma non scurissimo, quindi possiamo ipotizzare che uno solo dei genitori,

Sara Fisher o il padre del bambino, fosse nero. Chris non vuole chiederlo alla sua madre adottiva: non vuole che pensi di essere stata inadeguata per lui.» «È carino da parte sua.» «Sì, ma mi rende le cose difficili.» Lillian si sporse verso il centro del tavolo, giocherellando con un pezzo di pane, e lo immerse nel piattino di olio d'oliva sul tavolo. «Mi chiedo se dovrei servire anch'io roba del genere...» Poi sorrise: «Nel giro dei B&B non c'è molta richiesta di pane speciale.» «No, ma è interessante che anche suo figlio si occupi di ristorazione, no?» «Sì, credo di sì.» Lillian sospirò e si portò alla bocca una mano tremante: «Senti, c'era una ragazza. Un paio d'anni dopo che Patrick... era nato.» Lillian scosse la testa e ci riprovò: «È solo che... vedi, io desideravo tutto questo, volevo mio figlio. Volevo riaverlo indietro. Ma ormai pensavo che fosse perduto per sempre. Capisci? E non sono infelice, credimi, me ne guardo bene, ma... mi ricordo ogni momento della sua nascita. Ogni momento. Non l'ho mai scordato. E nemmeno il dolore di averlo perso. Ed è molto difficile adattarsi, anche se è quello che ho sempre creduto di desiderare. Quindi non sono sicura...» «Di fare la cosa giusta raccontandomi di lei?» Lillian strinse le mani tremanti e annuì. «Ma Lillian, conosco già il nome di quella donna. Non ti sto chiedendo di rivelare i segreti di nessuno. E, come dici, può essere dura, ma almeno tu hai riavuto Patrick. Per quella donna, potrebbe essere l'occasione per sapere di Chris. E se le hanno mentito come a te, allora penso che abbia il diritto di sapere la verità. Non trovi?» «Sì... no. Non sono sicura. La verità non risolve tutto, sai.» «Forse no, ma credo che abbia il diritto di deciderlo da sola.» Lillian restò seduta per un po' a fissare la tovaglia di lino. Quando cominciò a parlare lo fece talmente piano che Saz non era sicura che volesse farsi sentire. Ma la ascoltò ugualmente. «Sara era più vecchia di me. Arrivò in clinica un paio d'anni dopo di me. Era già molto avanti quando arrivò, forse già di otto mesi. Era sulla ventina, credo, e comunque non una ragazzina come me. Ma era fortissima, sapeva molto bene cosa voleva. Naturalmente la cosa non durò a lungo. Aveva avuto una storia con un tipo di colore, voleva avere il bambino, non le importava quello che diceva la gente. Io pensavo che fosse incredibile,

coraggiosissima. Voleva tenerlo. Lo voleva davvero. So che adesso sembra strano, ma allora era diverso, e non eravamo a Londra, sai com'è. La sua famiglia non voleva lasciarglielo tenere. Era già abbastanza brutto che non fosse sposata, era tanto che sopportassero quello, che la lasciassero tornare a casa da loro. Ma poi lei pensò che glielo doveva dire, doveva prepararli per l'arrivo di quel bambino. E quella è stata l'ultima goccia. Suo padre l'ha rinchiusa in clinica il giorno dopo.» «L'ha fatta internare? Perché era incinta di un bambino nero?» «Di un figlio illegittimo, di un bambino nero, nel 1962, e il padre del bambino non era nemmeno in Inghilterra. Eh, sì. Bastavano solo il padre della ragazza e due dottori a firmare i moduli.» «Lees e Keane?» Lillian annuì: «Probabilmente quei due, immagino di sì. Cerca di capire, allora era molto diverso. Le cose sono cambiate così in fretta: sono riusciti a definirmi pazza solo perché ero giovane, ero scappata ed ero incinta. Quindi, naturalmente, per loro è stato ancora più facile dire lo stesso di lei. Ma Sara non era come me, lei ha resistito, ha tirato giù la clinica a forza di gridare.» Lillian sorrise a quel pensiero. «Era eccezionale. Gli faceva minacce di ogni tipo. Credo che l'avrebbe anche fatto, li avrebbe trascinati in tribunale e avrebbe piantato un casino, se ne avesse avuto l'occasione.» «Che le è successo?» Lillian scosse la testa: «Lo stesso che a me, tesoro. Le hanno detto che aveva perso il bambino. Che era colpa sua, perché aveva lottato così tanto. Allora smise di lottare. Imparò a stare tranquilla. I suoi se la portarono a casa non molto dopo che tutto era finito. Mi spiace, non so dirti cosa le sia successo poi.» Saz lasciò Lillian ai suoi pensieri, ben conscia di aver scavato a fondo nel dolore di un'altra persona, e al tempo stesso sicura di essere nel giusto. Quasi sicura. Andò in cucina a parlare con Patrick. Non sarebbe stato molto felice del fatto che aveva turbato Lillian di nuovo, e lo sarebbe stato ancora meno quando avesse capito che Saz voleva tentare per l'ennesima volta di convincerlo ad andare alla polizia. Ma, dopo aver visto Sukie quella mattina e aver sentito l'ultima storia di Lillian, era ancora più sicura che Lees e Georgina e chiunque altro fosse coinvolto dovessero essere assicurati a una qualche forma di giustizia, e che ci sarebbe voluto ben più della sua parola per farlo. Patrick fece del suo meglio per continuare con gli ultimi coperti del pranzo, senza interessarsi particolarmente a Saz, nonostante le nuove prove

che aveva trovato a carico di Lees. «No, non mi importa, puoi portare i certificati di adozione di quella gente, o quello che è, alla polizia, fai quello che vuoi. Tutti, ma non il mio. Lillian è già abbastanza scossa. E sembra che oggi tu non sia stata di grande aiuto.» La spinse via e gridò dietro a qualcuno dei suoi dipendenti per sottolineare la sua rabbia, e praticamente la ignorò finché Saz, riluttante, non si decise a gridare, sopra il ronzio dei frullini e i coltelli che affettavano e l'acciottolio dei piatti, che credeva di avere il nome della madre di Chris un'altra donna a cui Lees aveva sottratto un figlio con l'inganno, secondo Lillian - e per di più aveva la dimostrazione che Georgina Leyton era figlia di Lees. L'aveva avuta dalla sua storia con Sukie Planchet. Il grido «ha venduto sua figlia? porca puttana!» risuonò dall'entrata rovente della cucina affollata fino all'atmosfera calma della sala da pranzo. Tutt'a un tratto, il sugo meravigliosamente ristretto di Patrick Sweeney era l'ultima cosa che interessava ai suoi clienti del secondo turno del pranzo. Saz sapeva che non c'era modo di scoprire se Lees avesse davvero venduto Georgina ai Leyton o gliel'avesse solo ceduta, forse come gesto di amicizia. Però fu sollevata che la natura estremamente poco paterna della sua azione le avesse dato l'occasione per risvegliare Patrick dalla trance della sua creatività culinaria. Nessun sugo poteva competere con notizie di quel tipo. Patrick porse la preziosa sostanza a un subalterno terrorizzato, che sembrava sul punto di farsela addosso per il peso della responsabilità che gli era stata affibbiata. Poi Patrick fece strada a Saz, in fretta, verso il bugigattolo di vetro incasinato che era il suo ufficio. Seguì quasi un'ora di discussioni. Saz voleva andare alla polizia con Patrick, portare i particolari su Lees, i documenti rubati - era persino disposta ad ammettere l'effrazione pur di farsi accompagnare lì da lui e cedere tutto il caso. Patrick rifiutava recisamente anche solo l'idea di un ulteriore coinvolgimento di Lillian. Negli ultimi giorni aveva passato ogni momento libero con la madre naturale. Quando non riusciva a stare con lei si parlavano al telefono. Lillian aveva passato del tempo con Katy e i bambini. E, a quanto vedeva la stessa Saz, era ancora molto fragile. Il cambiamento si stava rivelando enorme, evidentemente molto più difficile di quanto avessero immaginato nei primi giorni in Cornovaglia. Patrick era riuscito a stento a convincerla ad assumere una governante per il B&B e a fermarsi con loro a Londra un paio di settimane. Lillian voleva fortemente conosce-

re Patrick, eppure era chiaramente terrorizzata, piena di sensi di colpa, addolorata e anche felice, tutto insieme. E Patrick stava cominciando a scoprire che lei sapeva essere ostinata quanto lui, che sotto quella disinvoltura e quella calma costruite ad arte c'era qualcuno di altrettanto forte. Saz cercò di dire che dovevano accollarsi quell'impresa per fare giustizia per Lillian. Patrick controbatté che Lillian non voleva giustizia, voleva pace. Una pace che non le era stata concessa sin da quando aveva scoperto di essere incinta. E non desiderava altro. Dopo la sua ultima conversazione con Lillian, Saz non poteva dargli torto. Patrick continuò dicendo che intendeva salvaguardare quel rapporto a ogni costo. E quindi non andava bene nessun poliziotto come alternativa, nemmeno le sue amiche lesbicone in divisa. Se Lillian voleva mantenere il segreto, per il momento o per sempre, lui avrebbe rispettato la sua decisione. «Saz, questa storia mi fa incazzare quanto te. Ma niente di quello che è successo è colpa di Lillian, e non intendo permetterti di farle ancora del male.» Però propose un'altra cosa che era più che preparato a fare: «Vengo con te a trovare Lees.» «Perché?» «Perché così lo ammazzo di botte.» Non era certo l'offerta in cui sperava Saz. «Senti, Patrick, capisco che tu sia furioso con lui.» «Furioso è poco rispetto a come mi sento.» Patrick girò di scatto la testa per osservare i lavori in cucina. Aprì la porta con uno strattone. «William!» Il secondo chef si girò, terrorizzato: «Se non dedichi un'attenzione costante al mio sugo con quel tuo cervellino minuscolo, bacato e fuso dalle pasticche ti caccio nel giro di due minuti, hai capito? E che cazzo.» Il ragazzo annuì, con le lunghe treccine rasta dorate che tremavano sotto la luce cruda dei neon. Patrick sbatté di nuovo la porta. Saz stirò le braccia all'indietro, cercando di sciogliere un po' la schiena e il collo stanchi. L'ultima scenata di Patrick le aveva fornito la decisione già pronta: «No, Patrick, non voglio che tu venga da Lees. Voglio che tu faccia le cose come si deve, per una volta. Molly ha ragione: di solito mi butto a pesce nelle cose, senza l'aiuto di nessuno. Ma stavolta è diverso. Non ho bisogno di rischiare niente, abbiamo tutte le prove che ci servono. O almeno, tutte le prove di cui abbiamo bisogno per aprire un'inchiesta come si deve. È solo che...» «Cosa?» Patrick non aveva certo il tono di uno che sta per lasciarsi con-

vincere. «Vorrei tanto che tu fossi d'accordo con me.» «Be', non ne ho nessuna intenzione. Non ho intenzione di mettere a rischio la salute mentale di mia madre che è così precaria. Non ci sono cazzi.» «Va bene. Allora alla polizia ci vado io. Non voglio continuare da sola.» «Non occorre. Te l'ho detto. Lo ammazzo con le mie mani, quello stronzo.» «Non fare lo stupido. Hai tutti i diritti di essere addolorato e arrabbiato e dio sa cosa. Ma non ha senso. Certo, puoi fargli male, ma a che serve?» «Mi farebbe sentire molto meglio, cazzo.» «Sì, e poi? Lui spezza il cuore a tua madre...» «Le rovina la vita, cazzo.» «Sì, e tu pesti a sangue un vecchietto. Fantastico. Ha settantanove anni, per l'amor di dio, svegliati. Onestamente, mi sa che, se te lo vedessi davanti, neanche il tuo rancore riuscirebbe a farti picchiare un uomo che potrebbe essere tuo padre.» Patrick rimase in silenzio per un attimo e scosse la testa. Quando rialzò lo sguardo, Saz aveva paura di quello che vide. «Ti sbagli, Saz. E la storia che "potrebbe essere mio padre" con me non regge. Non più. Non credevo fosse possibile sentirsi così. Credevo non mi sarebbe più successo dopo che è morta Marina.» Abbandonò le braccia lungo i fianchi, senza parole per l'intensità di quell'emozione. «Sentirsi come se tutto fosse troppo, cazzo. Allora, fai pure. Corri a raccontare la mia storia alle tue amiche. Va' a raccontare tutto alla pula. Fai quello che vuoi. Perché sono io che in queste ultime due notti ho tenuto tra le braccia Lillian in lacrime, l'ho stretta forte quando si svegliava dopo l'incubo ricorrente in cui seppellisce il bambino che non è morto e lo sente gridare da dentro la bara sepolta troppo in profondità perché riesca a scavare e tirarla su. Vai a sistemare tutto, Saz. Perché credimi, se non lo fai tu lo faccio io.» Patrick girò sui tacchi e tornò in cucina, scuotendo braccia e spalle come a scrollarsi via l'immagine del dolore di sua madre. Saz rimase lì per un paio di minuti, lo osservò abbaiare ordini irosi, tagliando con consumata abilità la carcassa sanguinolenta di un agnello, poi se ne andò. Dall'ingresso posteriore. Non voleva nemmeno vedere Lillian che piangeva. A casa Saz trovò un messaggio che diceva di richiamare Gary. Sperava in qualche bella notizia sulla madre di Chris, qualsiasi cosa che le facesse sembrare meno sprecata la sua giornata. Ma niente. Gary aveva trovato una

Sara Fisher. Era riuscito anche a scovare un riferimento al fatto che era stata nella clinica di Lillian nello stesso periodo, e che avrebbe avuto l'età giusta per essere la donna che Lillian diceva di ricordare. Supponendo che il certificato trovato da Saz nell'ufficio di Georgina fosse autentico - e non c'erano motivi per pensare il contrario -, c'erano tutte le probabilità che la Sara Fisher su cui Gary aveva scoperto quei particolari fosse la madre di Chris. La ragazza si era impiccata un mese dopo il suo ritorno a casa dei genitori. 43. C'era stato un momento in cui Sara era stata vivace e divertente. Quando la gente aveva tantissime aspettative su di lei. Quella intelligente, energica, sempre tanto geniale. Ma alla fine, naturalmente, era stata troppo intelligente. All'inizio avevano tollerato la sua profondità, il suo eccesso di fascino, credevano facesse parte di lei. Come facevano ad avere una figlia così ammirevole, senza il minimo difetto? E davvero, un eccesso di energia intellettuale non era qualcosa di cui lamentarsi, specialmente quando gli altri dovevano fare i conti con cose di gran lunga peggiori. E Sara era facile da sopportare: anche quando si spingeva troppo oltre, era sempre più carina e più geniale e più intelligente degli altri, riusciva sempre a rientrare nelle loro grazie con il suo fascino, sapeva benissimo come comportarsi per reclamare il ruolo della ragazza perfetta. Era figlia unica, nata dopo anni di delusioni da genitori disperati. In seguito il padre avrebbe dato la colpa alla madre, per averla amata troppo. Aveva detto che la lunga attesa di un figlio le aveva fatto desiderare quel bambino al di là di quello che era normale persino per una madre, che aveva permesso alla bambina di farla sempre franca su tutto. In seguito, la madre avrebbe dato la colpa al padre, dicendo che era sempre stato troppo duro con Sara, si aspettava fin troppo dalla ragazza, pretendeva da lei sia il vigore e l'intelligenza di un maschietto che la dolcezza e l'arrendevolezza di una femminuccia. Pretendere e ricevere. Avevano ragione entrambi. Si sbagliavano entrambi. Sara era la figlia troppo desiderata di genitori ansiosi, la figlia principessa che non poteva fare niente di male. Sua madre e suo padre erano gente buona e timorata di Dio, e lei condivideva con loro quel timore. Erano onesti e operosi e, dato che da lei si aspettavano almeno altrettanto, lei era ancora più operosa. Erano persone intelligenti che avrebbero potuto fare

cose entusiasmanti, se ne avessero avuto l'occasione. Offrirono a Sara le loro occasioni mancate e, come si aspettavano, lei raggiunse obiettivi più alti. Il rapporto tra i genitori di Sara era forte e appassionato, anche nell'età matura, molto dopo che la maggior parte delle coppie si adagiano in un tenero affetto e in quieti convenevoli. E da loro Sara imparò il desiderio. Lavorava sodo, studiava ancora più sodo e giocava più sodo che mai. Quando lasciò la casa dei suoi per trasferirsi a Londra, parti con la loro benedizione ma priva di tutte le loro paure assennate. Semplicemente, era incapace di provare paura: l'avevano educata alla forza e lei credeva ciecamente nel sentiero che le avevano tracciato. L'obbedienza che premiava l'affetto. Il duro lavoro che portava al successo. L'anima aperta, che capiva che il desiderio faceva parte dell'amore. E felice di accettare le ripercussioni del desiderio. Non le venne in mente che i genitori, che le avevano insegnato a protendersi verso il mondo, avrebbero poi potuto disapprovare quello che il mondo le dava. Non era stato un rapporto tradizionale. Solo una scappatella, un flirt, un periodo breve ma molto divertente, per entrambi. Lei non voleva niente da lui, né si aspettava niente: non il matrimonio, né la responsabilità. I suoi genitori avevano cresciuto una figlia meravigliosa, non una figlia tradizionale. Quando, dopo un po', la passione si era spenta per entrambi, lei accettò di buon grado la sua decisione di passare oltre. Un mese dopo Sara scoprì di essere incinta e capì che, dopotutto, non era un uomo che desiderava veramente. Era stata addestrata a essere una donna del mondo nuovo, ma ancor più a realizzare i destini del vecchio. Era la figlia dei suoi genitori. Gli anni delle loro brame deluse, tutto quel periodo in cui l'unico scopo del loro desiderio era stato un figlio perfetto, finalmente avevano trovato il culmine in lei. Anche se non l'aveva capito fino al giorno in cui aveva scoperto di essere incinta, da quel momento in poi Sara comprese che era il bambino che voleva. E non voleva altro. Sara non era stata abbandonata o tradita o ingannata. Era stata amata - e poi lasciata - in totale comprensione e accordo reciproco. E lui in fin dei conti le aveva dato tutto ciò che voleva, senza che dovesse nemmeno chiederglielo. Quindi non lo cercò per dirgli del bambino, non desiderava intrappolarlo e non aveva bisogno di adescarlo perché tornasse. Da sua madre e suo padre aveva ereditato il desiderio di procreare, ma insieme a quello non le era arrivato il desiderio di far parte di una coppia. E, dato che non riusciva a vedere al di là della propria felicità, era naturale che si aspettasse che i genitori fossero felici per lei, e all'inizio lo erano. Un po' de-

lusi, ma disposti ad accettare tutto. Ma dato che erano disposti ad accettare la prima notizia, lei rivelò anche il secondo segreto e attese il loro appoggio. Sara raccontò la sua storia e aspettò la loro reazione. Aspettò a lungo. E quando la risposta finalmente arrivò sotto forma di un silenzio risentito lei non sapeva come reagire. Non capiva la loro rabbia. Non capiva come le persone che erano state dei genitori perfetti potessero essere anche insensibili e incapaci di capire. Prima avevano sempre e solo desiderato il suo meglio, e lei sapeva che quel bambino lo era. Credere che avrebbero messo in atto la loro minaccia andava al di là della sua comprensione. E quindi restò con loro un giorno di troppo, e fu troppo tardi. Dopo la nascita del bambino, dopo che le dissero che era morto, Sara finalmente cedette. Diventò una brava ragazza, dopo mesi di lotte e di scortesie. I suoi genitori erano delusi, ma anche sollevati: se Sara non era più la ragazza intelligente e divertente, la stella luminosa che avevano tanto amato, non era più nemmeno la figlia che non riconoscevano più, la ribelle che non voleva sentire ragioni. Sara stava facendo la brava. Sara stava aspettando il momento opportuno. E quando la dimisero tornò a casa dei suoi amorevoli genitori e passò qualche settimana tranquilla. Un tedioso martedì pomeriggio Sara scrisse una lettera al padre del bambino nato morto. La spedì a Samuel Lees chiedendogli di farla pervenire all'uomo: dopotutto, Lees era l'unico che l'aveva ascoltata in tutto quel periodo doloroso, l'unico che le aveva dato il permesso di soffrire per il bambino perduto. Lo vedeva come un alleato, a suo modo, si fidava di lui. Sara imbucò la lettera nella cassetta postale in fondo alla strada e tornò nella casa vuota dei suoi genitori. Erano fuori a fare la spesa, a comprare le pesche sciroppate con la panna montata apposta per rincuorare la ragazza infelice che avevano a casa. Mentre la madre e il padre salivano sull'autobus del ritorno in High Street, Sara si impiccò nella graziosa cameretta rosa in cui tanto a lungo e tanto volentieri aveva recitato la parte della figlia deferente. I genitori seppellirono la figlia e ognuno dei due la pianse per proprio conto, dando la colpa a se stesso e all'altro. In quel dolore, nessuno dei due riuscì più a ritrovare l'altro. Lees aveva letto la lettera d'accompagnamento e si era sentito autorizzato a mandare il bambino in una famiglia migliore - evidentemente Sara era davvero psicolabile -, poi aveva preso la lettera che doveva andare al padre

del bambino e l'aveva archiviata. Non c'era bisogno di spedirgliela, l'uomo non sapeva neanche dell'esistenza del bambino, gli avrebbe solo causato dolore. Ma naturalmente andava conservata, perché Lees era uno scienziato: era necessario avere archivi completi e dettagliati. E Chris crescendo amò la sua famiglia e non si chiese mai niente sulle sue origini. Finché non decise di avere un figlio suo. 44. Chris restò incredibilmente calmo e Saz non sapeva che altro dire. Sedevano in silenzio nella cucina di Chris e Marc. Aveva telefonato prima di passare a casa loro, e aveva trovato Marc. Chris sarebbe rientrato nel giro di un'ora e Marc si era offerto di dargli lui la cattiva notizia. Saz avrebbe voluto cogliere al volo l'occasione: avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non dover dire a Chris che avevano trovato sua madre, ma era troppo tardi. E poi sapeva che quello era il suo lavoro. Marc la fece entrare e aspettarono. Appena Chris la vide capì che c'era qualcosa di storto, e all'inizio forse pensò che si trattasse del bambino. Saz lo rassicurò che sia Molly sia il bambino stavano benissimo, e spiegò che era venuta a parlargli di un'altra coppia di madre e figlio. Chris ascoltò molto attentamente, poi disse piano: «E sei sicura che fosse mia madre?» «Non al cento per cento, forse c'era un'altra Sara Fisher, anche se Gary non ne ha trovate, non di quell'età in quel periodo. E questa era nella stessa clinica di Lillian, che se la ricordava, si ricordava di una Sara.» «Che aspettava un bambino nero?» «La frase che ha usato lei è "un povero soldo di cacio moretto", comunque sì. E Sara Fisher è il nome sul certificato di adozione che ho trovato nell'ufficio di Georgina.» «Ma niente sul padre?» «Non che io sappia, non c'è nessun nome.» «Va bene.» Chris rimase in silenzio per qualche minuto e poi aggiunse: «Comunque, almeno sappiamo che i miei genitori non mi hanno comprato. Immagino si debba essere grati anche per i piccoli doni del cielo.» «Mi dispiace tanto, Chris.» «Per cosa? Perché viviamo in un mondo del cazzo? Perché Leyton non è riuscito a vendermi dato che sono tutti una manica di stronzi razzisti?»

«Mmm, vero.» «Be', è un po' il contrario rispetto alla vecchia storia dello schiavismo.» «Già, ma mi dispiace comunque, perché è una situazione di merda.» «Okay, te lo concedo. Sono un bambino che è stato molto bistrattato.» Chris scosse la testa: «Cristo, Saz, non facciamo troppo quelli politicamente corretti. Il mondo è pieno di stronzi, non è una novità, per nessuno di noi. Non c'è nessuna legge antidiscriminazione per le lesbiche, ricordatelo. E comunque mi sembra che le leggi antidiscriminazione non abbiano molto successo.» «Sì, lo so, ma tu sei nero e gay. E adottato.» «E la mia madre naturale si è suicidata.» «Eh sì.» «Cazzo, mi sa che ho vinto io, allora, no?» «Eh sì, tesoro, mi sa proprio di sì.» Restarono lì seduti per una mezz'ora, con Chris che fissava il vuoto e Saz che aspettava al suo fianco. Aveva sulla punta della lingua la cosa più sensata da dire, ma non sapeva come l'avrebbe presa lui. Alla fine non riuscì più a trattenersi: «Senti, Chris, credo proprio che...» «Che dovrei parlare con mia madre?» «Sì.» «Sì, lo farò. Presto. Appena metabolizzo questa storia, comunque.» «Bene.» «Non è che c'è una qualche organizzazione che rintraccia i padri?» «Ci dev'essere. Scoprirò dov'è. Okay?» «Sì, mi farebbe piacere. Grazie.» «Non ringraziarmi, mi sento una merda per questa storia.» Chris alzò lo sguardo, confuso: «Perché?» «Be', ho cominciato a cercare tua madre e invece ho trovato quella di Patrick. Tu non hai avuto niente.» Chris scosse il capo: «No, non è vero. L'hai trovata. Non c'era nessuna garanzia che fosse viva, lo sapevo. Non è il fatto che sia morta, in realtà. Sono le circostanze della sua morte, il fatto che è stata spinta al suicidio. Ed è anche per quello che devo parlare con mia madre. Spero proprio che non sapesse cosa combinavano per procurarsi i bambini, cazzo.» «Be', hai detto che i tuoi si sono sempre offerti di dirti quello che sapevano dell'adozione. Se è così, vuol dire che non sapevano tutto.» «È quello che spero anch'io.» Ci fu un'altra pausa, poi Chris chiese: «Il tuo amico Gary sa dov'è sepol-

ta?» «L'ho scoperto prima di venire qui. È in Cornovaglia. Ho l'indirizzo del cimitero.» «Bene. Grazie. Ci andiamo nel fine settimana. Potremo stare da Lillian, immagino.» Poi Chris si guardò in giro, come se si accorgesse in quel momento di essere nella stanza: «Dov'è Marc?» «Fuori in giardino, a fare il sensibile.» «Che dolce.» «Molto.» Saz se ne andò mezz'ora dopo. Decisero di aspettare che Chris parlasse con la madre prima di fare qualsiasi altro tentativo di rintracciare suo padre o altri membri della famiglia della madre naturale. Chris non era poi così sicuro di volersi spingere tanto in là: era al padre che era interessato più di ogni altra cosa. Sulla porta Chris salutò Saz con un bacio. «Mi dispiace, Chris.» «Lo so. Ma ho una famiglia, forse avrei dovuto parlare subito con mia madre.» «Sei stato protettivo nei suoi riguardi, va bene così.» «E poi c'è anche la mia nuova famiglia, giusto?» Saz annuì: «Eh sì, tesoro, che cavolo. Siamo una sacra famiglia nuova di zecca, noi quattro. Gesù, Maria e Maria e Giuseppe e Giuseppe.» «Io e Marc ci accontentiamo anche di essere due dei Re Magi.» «Tutto qui? State invecchiando, ragazzi.» Saz se ne andò, sempre più arrabbiata con Samuel Lees e incerta sulla prossima mossa da fare, ma sicura che non sarebbe tornata dritta a casa. Per strada fece due telefonate. La prima per chiedere di Sukie; e l'infermiera gentile del primo giorno, con cui aveva parlato tutti i giorni, le spiegò molto gentilmente che Sukie era morta quella mattina presto. Aveva cercato di contattare Saz, ma non voleva lasciarle cattive notizie nella segreteria. La seconda a casa sua. Lasciò a Molly un messaggio breve e stremato: «Molly, ho detto a Chris di sua madre, sta bene, più o meno, con lui c'è Marc ma magari potresti telefonargli più tardi. Ascolta, tesoro, ho appena saputo che Sukie è morta stamattina. Non riesco a crederci, cazzo. Quindi sarai entusiasta di sapere che ne ho abbastanza. Ho deciso di parlare con Helen e Jude stasera, sentire cosa dicono e poi andare alla polizia domatti-

na a raccontargli tutto. Preferisco rischiare un'accusa di effrazione che continuare con questa storia. Non riesco a dirti quanto mi stia schifando. Raccontare a Chris di sua madre è la cosa più orribile che mi sia mai capitato di fare, cazzo. Ti richiamo dopo. Ti amo.» Saz salì al volo sul primo taxi che le capitò. Le costò meno di dieci sterline arrivare a casa di Lees. 45. Saz suonò il campanello, si assicurò che Lees non ci fosse e poi aspettò un quarto d'ora fuori da quella casa elegante ricavata da una scuderia, prima di fare qualsiasi mossa. Era pomeriggio tardi, il cortiletto era tranquillo e caldo. Le case basse e tozze erano ampie per essere edifici ricavati da una scuderia; ognuna era dipinta in diversi colori pastello e sovraccarica di cassette per i fiori e cesti pensili in colori intonati a quelli della casa. Una fonte di guadagno facile per i giardinieri scadenti, e senza dubbio almeno cinquecento sterline di spese di manutenzione per ogni edificio. Posto carinissimo comunque. E molto riservato. La casa opposta a quella di Lees in diagonale era chiaramente vuota per le vacanze estive. Il sole del tardo pomeriggio illuminava il cortile, eppure tutte le tende della facciata erano ermeticamente chiuse: o gli occupanti possedevano i mobili più delicati del mondo, o credevano che tenere le tende chiuse per un paio di settimane bastasse a dissuadere gli scassinatori. Saz scartò la possibilità che potessero essere vampiri e si piazzò nell'angolo più remoto della loro soglia, al sole, parzialmente nascosta a chi entrava nel complesso da un abbeveratoio pieno di gerani viola. Lì si mise ad aspettare, con un giornale aperto sulle ginocchia nel caso qualcuno la notasse. Dieci minuti dopo, una ragazza con un completo elegantissimo appena spiegazzato dal viaggio in metropolitana tornò a casa dal lavoro dondolando una ventiquattrore chiaramente vuota, ed entrò nella casa a fianco di quella di Lees. Saz la sentì salutare ad alta voce mentre si chiudeva la porta alle spalle. Non udì risposte. Cinque minuti dopo arrivò la versione maschile, altrettanto elegante, con una ventiquattrore uguale ma un po' più grande, da uomo. Anche lui salutò ad alta voce quando entrò in casa, e stavolta lei gli rispose allegra. Saz era ancora lì quando tre quarti d'ora dopo uscirono mano nella mano, abbandonati i completi e le ventiquattrore da City e vestiti alla buona per l'uscita serale. Sentì tintinnare decine di braccialetti su entrambi i polsi della donna, e le monete e le chiavi nelle tasche di lui. Quello che non sentì, né quando la

donna era arrivata a casa, e nemmeno quando i due erano usciti insieme, fu il fischio acuto di un sistema d'allarme che entrasse in azione. Aspettò altri dieci minuti nel caso in cui uno dei due fosse tornato a prendere qualcosa che aveva dimenticato, poi si mise in azione. Le case erano state ristrutturate da poco. E, anche se le vecchie finestre ora erano nuove, le avevano sostituite con telai di legno, non con l'alluminio che sarebbe stato fuori posto. I telai delle finestre in legno sono molto più attraenti e autentici di quelli moderni, e anche più costosi. E meno sicuri. Saz si appoggiò alla finestra del soggiorno, infilò la spalla buona sotto il pannello più basso e spinse verso l'alto con tutta la sua forza. Vide che il gancio chiuso scivolava verso l'alto, afferrò l'altra metà e la tenne salda. Spinse di nuovo e notò con soddisfazione che era di poco più forte dell'intelaiatura di pino, dato che il chiavistello cominciava a staccarsi dal legno. Allora infilò le dita nello spazio minuscolo tra la parte superiore della cornice della finestra e il telaio. Stavolta si appese alla finestra, rimbalzò su e giù alcune volte e spinse in basso il chiavistello con tutto il suo peso. Dopo quattro tentativi verso l'alto, altri tre verso il basso e due unghie rotte, il gancio chiuso si staccò dal pannello superiore e rimase attaccato alla metà inferiore solo con una vite di rame piegata. Saz sollevò la finestra e si buttò dentro, tirandosela dietro proprio nel momento in cui un taxi entrava nel cortile delle scuderie. Dal suo posto un po' defilato dietro le finestre con le tende di mussola, vide che si fermava fuori della casa di Lees, e senti una scarica di delusione vedendo un vecchio che usciva a stento dal taxi e pagava l'autista. Il taxi se ne andò e, dopo che l'uomo ebbe armeggiato con le chiavi per un'eternità, Saz sentì attraverso il muro a fianco il rituale di porta aperta, segnale d'allarme, porta sbattuta e allarme spento. Aveva ragione a presumere che Lees potesse sentire il bisogno di una sicurezza più accurata di quella dei suoi vicini. Era altrettanto chiaro che era arrivata con un'ora di ritardo. Usò i cinque minuti successivi per attraversare rapida la casa della giovane coppia controllandone la disposizione, nell'ipotesi che quella di Lees ne fosse l'immagine speculare. Anche adesso che lui si trovava a casa c'era la possibilità che Saz riuscisse a entrare in qualche modo, magari senza che lui se ne accorgesse, e anche se strisciare in giro per la dimora di qualcuno con lui in casa non era il suo passatempo preferito, almeno non le toccava avere a che fare con un allarme. Saz non aveva ancora ben chiaro cosa sperasse di trovare a casa di Lees, e se entrare potesse fare la differenza in qualche modo. Sapeva anche che, dopo la morte di Sukie, non era più di-

sposta ad aspettare. Quel giorno erano andate storte molte cose, ma ciò che vide dalla finestra della camera da letto posteriore dei vicini la riempì di gioia. Era Lees nel suo giardino, che buttava le briciole agli uccelli. Lees che rientrava in casa attraverso quella che sembrava una porta-finestra che dava sulla cucina, esattamente uguale a quella dei suoi giovani vicini. E Lees che lasciava la porta aperta per far entrare in casa la morbida luce serale e l'aria fresca. Per far entrare in casa Saz. Lei aspettò nel curatissimo giardino dei vicini per quella che le sembrò un'eternità, ma in realtà era solo mezz'ora. Per un po' Lees trafficò in cucina, mise sul fuoco il bollitore, pescò un po' di biscotti da una scatola di latta. Poi Saz lo guardò mentre prendeva il tè ed entrava nel salottino anteriore dal corridoio. Ritornò a prendere i biscotti. Cinque minuti dopo tornò di nuovo: evidentemente si era dimenticato che aveva già portato il latte, trasportò il cartone dal frigo al salottino e di nuovo in cucina, lo lasciò sul tavolo della cucina e la porta del frigo restò spalancata. Faceva ogni passo con la lenta ponderazione della vecchiaia. Saz pensò che si stesse spingendo un po' troppo oltre con il giochino del professore distratto. Poi ci fu silenzio: niente tv, niente radio, niente sbattere di tazze sui piattini, niente fruscio del giornale della sera. Saz immaginò che Lees, ora che lavorava a casa, avesse uno studio lì dentro, molto più probabilmente al piano di sopra che non a quello di sotto. Immaginò che dovesse essere possibile passare davanti alla porta del salottino e salire le scale foderate di moquette abbastanza in silenzio, ma le toccava sperare vivamente che la poltrona preferita di Lees non fosse piazzata subito di fronte alla porta. Per fortuna non lo era. Scivolò oltre la porta del salottino che comunque era semichiusa, trattenendo il fiato e pregando che le ristrutturazioni avessero eliminato tutti i gradini scricchiolanti. Purtroppo il silenzio perfetto di Saz non fu premiato: il piano di sopra fu una grossa delusione. Due stanze da letto completamente vuote, fatta eccezione per un letto singolo e un tavolino da toilette in ciascuna. Evidentemente Lees non teneva sempre la casa pronta per gli ospiti. E inoltre non lavorava e non dormiva al piano di sopra. Saz era furiosa con se stessa per non aver pensato che le scale potevano essere un po' troppo per un vecchio di quell'età e con una lentezza impressionante scese di nuovo. Aspettò per un attimo fuori del salottino. Ancora nessun rumore. Quasi nessuno, se non l'alzarsi e abbassarsi, sordo e regolare, di un respiro debole e roco. Samuel Lees stava facendo un sonnellino. Dopo un paio di minuti Saz aprì la porta con una spinta. La stanza era

inondata dal sole serale, e aveva delle finestre con zanzariera che davano sul giardino principale. Avrebbe potuto essere uno spazio carino, bene arredato con mobili nuovi in sfumature poco vistose, non fosse stato che quella stanza, era evidente, faceva da studio e da stanza da letto al tempo stesso. Tutti i muri erano ricoperti di schedari, sul pavimento erano seminate pile di carte e il resto della stanza era occupato da un assortimento di attrezzature mediche. La luce del sole filtrava attraverso le tende di plastica e tre flebo diverse, e una bombola d'ossigeno ricadeva con un'ombra intricata sul vecchio che dormiva. Lees era stravaccato su una poltrona di legno levigato e la sua sagoma incartapecorita contrastava con le linee eleganti dei mobili moderni e con i cuscini alti e foderati a colori vivaci. Si era coperto con un plaid che era caduto, mostrando le gambe magre chiuse in vecchi pantaloni di velluto. Si era addormentato, con una tazza di tè freddo sul tavolino accanto, e un sottile filo di bava gli colava dalla bocca giù per il mento non rasato, con la saliva che restava intrappolata nella barba di tre giorni. Saz rimase sconvolta da quanto sembrava vecchio. Anche se aveva avuto difficoltà a scendere dal taxi, non lo aveva ancora visto bene in faccia, e si accorse che in un certo senso non aveva ancora associato il suo viso al corpo. Si era aspettata l'uomo forte di mezza età descritto da Lillian o forse un tipo alla Marcus Welby come le aveva raccontato Molly: qualcuno di più giovane e coraggioso di quanto suggeriva la sua età. E forse era stato così fino a poco tempo prima. L'ultimo suo articolo che aveva visto Molly era stato pubblicato qualche anno prima. Saz ricordava la velocità orribile con cui la vecchiaia alla fine si era impossessata di sua nonna: pareva che fosse rimasta per anni ferma a sessant'anni fino al giorno in cui improvvisamente ne ebbe ottantacinque, e finì lì. Quell'uomo aveva lavorato a tempo pieno fino a cinque anni prima e allora ne aveva già settantaquattro. Forse stava cominciando a pagare care le nottate e i fine settimana passati a fare ricerche. Il problema era che Saz cominciava a provare una certa compassione, il che non era certo utile. Cominciò a muoversi in giro per la stanza, guardando carte in silenzio, aprendo i cassetti degli schedari. Anche se lui si mosse un paio di volte, e una mormorò persino qualcosa facendo balzare il cuore in gola a Saz, non si svegliò mai sul serio. Nell'ora successiva Saz passò da una pila all'altra, sempre più delusa. Non solo la maggior parte dei documenti non aveva niente a che vedere con il suo caso - trattavano di borse di ricerca governative, di casi di sterilità da manuale, di progressi nella ricerca sugli embrioni

-, ma erano anche in uno stato molto peggiore di quello in cui si trovava lo studio del padre di Patrick la prima volta che ci era entrata. Carte del 1978 erano infilate in cartelline della tesi di dottorato del 1953. Appunti che Lees aveva scritto a mano in tempi recentissimi erano dentro una cartellina contrassegnata con «Riservato 1959». Anche se trovò un paio di lettere provenienti dall'ufficio di Georgina, erano solo moduli che si riferivano a conti e questioni in sospeso, niente di succoso. Dopo un po' l'inutilità della sua ricerca era palese e Saz era sempre più disattenta. Rimettendo l'ennesima inutile cartellina su uno degli armadietti, si girò appena in tempo per vederla scivolare dalla cima della pila e guardare la forza di gravità che, come al rallentatore, la trascinava dallo schedario al suolo, facendole urtare la tazza piena di tè freddo a fianco di Lees che dormiva. Lo schianto delle stoviglie rotte e del liquido che schizzava echeggiarono nella testa di Saz per dieci secondi eterni, mentre il vecchio che aveva davanti alla fine si svegliò. «Ma che diavolo...? Che cosa vuole?» Non sapeva da dove cominciare. «Lei è il dottor Lees, vero?» Il vecchio la guardò storto, stringendo con la destra un bastone di legno dall'aria pericolosa. Ma non parlò. Saz ci riprovò: «Dottor Lees?» Allora scosse il capo, fece una smorfia e gli occhi velati pian piano cominciarono a mettere a fuoco. Appena Lees fu sicuro di non conoscerla, si spostò con qualche difficoltà, si mise più eretto nella poltrona e, con tutta l'energia che poteva, le chiese come si chiamava. «Saz Martin.» Non aveva l'aria temibile. Saz non sentì il bisogno di un alibi, seccata com'era per aver sprecato un pomeriggio, e nemmeno di escogitare un altro inganno. «Sono qui per Gerald Freeman. Per suo figlio. Il neonato che gli ha venduto. E per Sukie Planchet. Anche per sua figlia. E Chris Marquand. Luke Godwin. Voglio che lei mi racconti tutto quello che sa su loro. Su tutti quanti. Hanno il diritto di saperlo.» All'inizio sembrò capire, cominciò a parlare. Ma se Saz sperava in un'ammissione di colpa o in ulteriori informazioni che lo condannassero, rimase amaramente delusa. Lees mormorò qualche parola, ripeté i nomi che Saz gli aveva detto, si inceppò a metà della frase e poi la guardò, alzando il bastone verso il suo viso. Le chiese come si chiamava. E quando lei gli rispose, glielo chiese di nuovo. E poi di nuovo. E poi ancora.

46. Saz stava per mettersi a ridere tra sé di tutti gli sforzi fatti per entrare lì dentro che ora si stavano rivelando assolutamente inutili, quando capì che la situazione era eccellente. Bastava ignorare il vecchio. Era chiaramente sconvolto e infastidito dalla sua presenza, ma nulla più. Lo stato confusionale di cui era preda doveva essere temporaneo, se era sembrato perfettamente in grado di uscire dal taxi, anche se malfermo. Saz approfittò del suo disorientamento per esaminare con più attenzione la stanza. Lasciò Lees nella sua poltrona e cominciò a controllare le cartelle nel modo più metodico possibile. All'inizio i gemiti di angoscia del vecchio la infastidivano, poi si mise a pensare all'angoscia di Lillian quando le aveva detto che Patrick era vivo, e a come si era sentita quando aveva dovuto dire a Chris che sua madre si era suicidata, e non si preoccupò più molto dell'infelicità del vecchio. E comunque, dopo una decina di minuti, Lees si riaddormentò. Venti minuti dopo, Saz trovò una cartella col nome di Jonathan Godwin in copertina. Il sistema di archiviazione di Lees era talmente caotico che Saz non osava sperare contenesse informazioni pertinenti su Luke, ma l'aprì ugualmente. In cima c'era un appunto di Leyton: diceva che aveva inoltrato una copia di una lettera per l'archivio di Lees. La lettera era di Gerald Freeman, indirizzata a Jonathan Godwin, presso Leyton. Nella lettera Freeman esprimeva la sua felicità per quella che definiva la sua famiglia «ora completa», e aggiungeva che l'anno prima aveva avuto il piacere di partecipare al battesimo di un altro bambino, adottato da un vecchio compagno di scuola, che aveva indirizzato lui stesso a Leyton. Fece i suoi migliori auguri a Godwin per quella felice impresa. Per fortuna nessuno vide la smorfia di disprezzo sul viso di Saz quando fece il collegamento tra i vecchi compagni di scuola. Si annotò mentalmente di chiedere a Chris dove aveva studiato suo padre, e mise da parte la lettera. Poi trovò una foto di Chris da neonato, quasi identica a quelle che teneva sua madre in soffitta, insieme a una serie di moduli di dimissione per Sara Fisher. C'era anche una busta chiusa indirizzata a un uomo residente a St. Kitt's. Lees cominciava ad agitarsi. Saz sapeva che avrebbe potuto svegliarsi più lucido di prima, quindi prese la borsa e ci infilò tutta la cartella. Poi senti delle chiavi nella porta d'entrata. Il salotto dava direttamente sull'ingresso e proprio in quel momento la porta si aprì. Nella stanza non c'era alcun nascondiglio e comunque, concluse Saz rallentando il respiro per

calmare il cuore che le sbatteva contro le costole in preda allo stress, non c'era molto da nascondersi con un vecchio che le puntava contro il bastone e gridava: «Martin! Martin!» Saz restò dov'era e sperò di passarla liscia. Entrò Georgina Leyton, chiaramente preoccupata per l'agitazione del padre. Quando vide Saz, fece un passo indietro. «E lei che cazzo ci fa qui?» Il linguaggio non si intonava molto con il completino di sartoria inappuntabile, ma Saz immaginò che non avesse tutti i torti. Prima che facesse in tempo a rispondere, Georgina attraversò la stanza dirigendosi verso Lees. Il vecchio gridava ancora il cognome di Saz. «Va tutto bene, Sam, adesso ci sono io.» Georgina gli sistemò la coperta, gli offrì l'ossigeno che lui rifiutò e pian piano riuscì a zittirlo. La sua presenza sembrò ricordargli dove si trovava e ritornò calmo e apparentemente più consapevole di quello che gli succedeva intorno. Georgina tornò a rivolgersi a Saz: «Allora?» Saz cercò di mettere insieme una frase coerente, e borbottò: «Sì, la porta sul retro, io... ehm...» Georgina annuì: «Sì, ha ragione. Qui la sicurezza è andata completamente affanculo. Posso offrirle da bere?» Saz fece una smorfia: «No, grazie. Senta, ehm... So che Lees è suo padre.» «Be', per il momento lo sappiamo solo noi due. Dubito che lui ne sia consapevole. Non nello stato in cui è stasera, comunque. Immagino sia stata la sua presenza a disturbarlo tanto, vero?» «Temo di sì, ma che cosa...?» Georgina si versò un whisky: «Ma questo cosa c'entra con lei? Niente. Comunque, il dottor Lees ha la demenza senile, signora Martin. Non è Alzheimer. È un po' meno alla moda, purtroppo. Riceve meno attenzioni dalla stampa, e non esiste quasi nessuna associazione di beneficenza roboante. Ma sono due cose molto simili. A volte dice cose sensate, molte altre no. È abbastanza fastidioso, anche se credo lo sia di più per lui. Nelle rare occasioni in cui dice cose sensate, tuttavia, il dottor Lees è un uomo molto intelligente. Però, come può vedere, non è granché in salute. Troppo lavoro, e una vita passata a bere e a fumare. Dev'essere molto deprimente sapere così tanto ed essere così stupidi. Mio padre è una bella lezione per tutti, credo.» «Pensa a lui come a un padre?» «Lo è.»

«Sì, ma Sukie?» «La bigotta? Non è abbastanza sana di mente per essere presa in considerazione come genitore, temo. L'adozione per me ha sempre avuto senso. Se qualcuno non vuole un figlio, o come nel suo caso non lo può allevare, perché non darlo a qualcuno che può? Non fa male a nessuno, a me non l'ha certo fatto.» «No, però...» «E dev'essere più piacevole che crescere in un orfanotrofio, no? Non è che io sia stata allevata da persone cattive. Credo di essere stata molto fortunata.» Saz rimase al centro della stanza, spostando lo sguardo da Lees a Georgina. «Ma non capisco, se lei è stata contenta di sapere la verità, perché non è stata sincera con gli altri quando suo padre, Richard Leyton, intendo, le ha raccontato cos'era veramente successo?» «Non mi ha raccontato tutta la storia. Mi ha solo detto che ero stata adottata. Ho fatto qualche indagine per conto mio, ma ho scoperto l'intera verità troppo tardi, come tutti. Richard Leyton sapeva di essere malato, il cancro ai polmoni di solito manda qualche avvertimento, ma non si aspettava che se lo sarebbe portato via tanto in fretta. C'erano ancora vari progetti che voleva riordinare. E questa piccola serie di segreti era uno.» «Ma una volta che ha scoperto la storia dei neonati, quando ha saputo cosa era stato detto alle madri, perché non è stata sincera?» «Qualche anno fa ho parlato con Luke, gli ho detto il nome di sua madre e poco altro. Da quello che ho capito, l'incontro con la madre non è stato molto fruttuoso, anche se so che ha utilizzato meglio le informazioni sul fatto che suo padre aveva comprato un figlio. Ha parlato anche lei con Luke, no? Gli ho detto che era stato poco prudente a parlare di faccende personali con una perfetta sconosciuta, ma che ci posso fare? Beve troppo, si droga troppo. Non è sempre saggio come dovrebbe. Anzi, a volte è troppo irruento.» Poi aggiunse, come un ripensamento: «E violento, anche.» Georgina tornò da Lees e gli mise la mano tremante sotto la coperta, gli riordinò i capelli scomposti, lo guardò in faccia. «Lo guardi. È lui che ha bisogno di protezione. È da una vita che conosco quest'uomo. Era il più vecchio amico di mio padre. Forse avevo il dovere di dire la verità agli altri adottati, ma credo che dovessi più lealtà a lui. Samuel Lees è stato una delle persone più incredibili, ispirate, appassionate che ho conosciuto. Le cose che ha fatto negli ultimi dieci, vent'anni... tutte le nuove vite che ha reso possibili a persone che pensavano di doversi rassegnare...»

«Lo so.» «Il lavoro di quest'uomo è stato importante per molta gente. Anche se non fosse cambiato negli ultimi due anni, anche se non si fosse ammalato, anche se non avessi dovuto fargli io da genitore, è comunque lo stesso uomo. Perché avrei dovuto tradirlo?» «Ma si tratta della vita di altre persone.» «Ha l'aria di credere di potersi immischiare nei segreti degli altri.» «Per dirgli la verità.» «E la verità è la cosa più importante, no?» «Lo è per me.» «Allora è molto ingenua. Molta gente non saprà mai nemmeno la metà delle verità della propria famiglia, indipendentemente da chi li ha fatti nascere e da dove provengono. La verità non è tutta quella gran meraviglia che dicono.» «Suo padre ha venduto sette neonati.» «Cinque. Io ero un regalo. Il suo amico Christopher era gratis.» «Oh, che cazzo.» Saz riusciva a malapena a contenere la rabbia, e non poteva lasciar perdere. Voleva che Georgina capisse. Ma soprattutto voleva portarla a essere d'accordo con lei. «Suo padre, quello naturale, ha usato il suo padre adottivo per vendere i figli neonati di altre persone. Per rubare e poi vendere i figli di altre persone. I soldi con cui è stata allevata venivano da quelle vendite.» «Non credo. Leyton avrebbe avuto un sacco di soldi comunque. La quota era solo un extra. In un certo senso credo aiutasse i genitori adottivi a fingere che fosse vero. Per molta gente le cose non sono autentiche se non le devono pagare.» Saz ritentò: «I suoi padri hanno privato quelle madri dei bambini a cui avevano dato la luce. Gli hanno mentito e hanno portato via i bambini che loro desideravano.» «Mia madre no. Voleva che Dio ci castigasse, anche se credo che alla fine sia riuscita a trovare il perdono per i suoi peccati. Molto comoda, quella conversione al cristianesimo.» «Sua madre è stata pestata a sangue da qualcuno che era coinvolto in tutto questo ed è morta stamattina in ospedale.» «Sukie Planchet è morta stamattina, lo so. Comunque, grazie per avermelo detto con tanta delicatezza.» «Cazzo, mi dispiace, io...» «Non importa. Davvero. Mia madre era Andrea Leyton. La donna che

mi ha messa al mondo non mi ha mai voluta. Ha chiesto al mio padre naturale di aiutarla ad abortire.» «Anche se glielo ha chiesto, alla fine l'ha partorita.» Georgina sorrise: «Per l'amor del cielo, lei è molto emotiva su questa faccenda, vero?» «Cosa vuol dire?» «Non l'ho mai conosciuta. Non sul serio. Non importava. Non per tutti il quadro ideale è un delizioso ricongiungimento con la madre naturale.» «No, però...» Georgina si mise a vagare per la stanza, spostando un soprammobile qua e uno là, con la mente concentrata a spiegare la sua posizione a Saz. «Senta, mia madre non mi voleva, e non si è messa a lutto e non le si è spezzato il cuore quando mio padre mi ha portata via. Nessuna parte di lei mi ha mai fatto da madre.» «Non ha mai potuto.» «Non voleva.» Saz non sapeva come fare a parlarle. Era come se Georgina avesse semplicemente deciso di staccarsi da qualsiasi legame, vero o immaginato, che poteva avere con Sukie. «È per quello che l'ha fatta pestare da qualcuno?» Georgina rise: «Ah, no, io non ho "fatto" fare niente a nessuno. Niente di così disgustoso. Quella donna era pazza. Dopo che lei è andata a trovarla, ha telefonato qui. Il numero di Samuel è sull'elenco, non è difficile trovarlo. L'ha trovato anche lei, no? Ha cominciato a minacciarlo. Fuoco e fiamme dell'inferno, soprattutto. L'aveva già fatto saltuariamente nel corso degli anni, ma prima Sam non si era mai preoccupato. Sapeva che non ci stava molto con la testa. Il problema è che adesso anche lui è piuttosto confuso.» «Cosa voleva?» «Prometteva la dannazione eterna. Che per lui non è una cosa nuova: è da quando ha cominciato a occuparsi di fertilità che gliela danno per garantita.» Sorrise a Saz. «Soprattutto da quando è entrato nel campo pericoloso del promettere una famiglia a chi non la può avere con mezzi naturali.» Saz non aveva la minima intenzione di sentire quel discorso. Non sapeva quanto Georgina sapesse di lei e Molly, ma di sicuro non avrebbe fatto trapelare più del necessario. «E lei pensava che le minacce di una fanatica religiosa potessero nuo-

cergli?» «La settimana scorsa, dopo la sua visita, Sukie ha minacciato di danneggiare mio padre, di denunciarlo. Ora, per la maggior parte della gente gli sfoghi di una fanatica religiosa lasciano il tempo che trovano. Però, per gli estremisti di destra e i fanatici religiosi che aborrono da tempo le idee di mio padre, uno scandalo del suo passato sarebbe proprio quello che ci vorrebbe per danneggiare il lavoro che ora è in corso, il lavoro che ha iniziato.» «Ma la cosa non la riguarda direttamente.» «Non è vero. Dato che a quanto pare ho rilevato sia il lavoro del mio padre adottivo che i segreti del mio padre naturale, se quella pazza apriva bocca avrebbe danneggiato anche me. E non solo me, ma anche Luke.» Saz ebbe una fitta allo stomaco quando capì che Georgina stava confermando i suoi sospetti. «Luke?» Georgina annuì. «Ha le sue ragioni per volere che non si sappia della storia di Samuel. Al contrario di lei, a me non interessa divulgare la verità sulla vita degli altri. Comunque non conosco benissimo Luke, abbiamo solo fatto qualche affare insieme. Ma ha un caratteraccio, no?» Saz indietreggiò verso la porta: «Gli ha detto di Sukie in modo che lui le tappasse la bocca?» «No. Lei gli ha detto di Sukie.» Saz aveva la gola secca e si sorprese a protestare: «Io non ho fatto il suo nome. Ho detto che avevo parlato con l'ex amante del padre del mio cliente.» «Giusto. E io gli ho detto chi era il cliente. Poi, appena lei ha cominciato a telefonare a Sam, ho solo detto a Luke che Sam aveva ricevuto un paio di telefonate minatorie da quella donna. Poi, come Luke ha usato quell'informazione sono affari suoi.» Lees ricominciò a borbottare e Georgina si girò verso il tavolino. «Forse vuole un po' di whisky. Gli piace bere un bicchierino a quest'ora della sera. Spesso si rianima, a volte dice persino cose sensate. Lei è sicura di non volerne un goccio?» 47. Saz rimase impalata, con la porta aperta dietro di sé. Nelle due settimane da quando Molly le aveva detto del bambino, forse era riuscita a farsi una sola dormita degna di tale nome. Aveva il cervello in fibrillazione e il cuo-

re che batteva forte per la stanchezza e la rabbia amplificata dall'adrenalina. E la calma di Georgina era davvero sgradevole. Evidentemente credeva che Saz non avesse in mano niente che la potesse riguardare. Purtroppo, pensò Saz, forse aveva ragione. Guardò quella donna elegantissima che preparava un altro drink per sé e per il padre, e la corporatura sottile e gli occhi azzurri penetranti le ricordarono prepotentemente la donna straziata che ora giaceva morta all'obitorio dell'ospedale. Nonostante la vasta gamma di crudeltà a cui Saz era stata esposta in passato, l'idea che forse Georgina sapesse che Luke aveva assalito la sua madre naturale l'aveva spiazzata. Anche se non l'aveva sorpresa tanto quanto il pesante bicchiere di cristallo che Lees le lanciò dalla sua poltrona, colpendola di striscio alla tempia destra: «Brutta ragazzina impicciona!» Evidentemente non era fragile quanto sembrava. E nemmeno tanto confuso. Evidentemente sua figlia aveva ragione a dire che di sera era più lucido. Georgina si intromise per cercare di impedirgli di colpirla, ma Saz voleva sentirlo parlare. «Cosa ne sa lei di cosa si prova quando si desidera così tanto un figlio da fare di tutto per averlo?» «Cosa?» «Ho fatto degli studi: la nostra società valuta gli uomini a seconda della completezza della loro famiglia.» «Anche le donne, a dire la verità.» «Viviamo in un mondo che giudica il merito a partire dalla capacità elementare di portare a termine una semplice funzione primordiale.» «Sì, lo so bene. Ma il fatto che la nostra società abbia dei valori iniqui non giustifica il suo comportamento.» «E lei che ne sa?» Saz voleva spiegare che capiva benissimo e simpatizzava in tutto e per tutto con i genitori che avevano adottato un figlio da lui. Ma, anche se sapeva di cosa parlava il medico, non credeva proprio che rubare i figli agli altri fosse una soluzione geniale, cazzo. Avrebbe detto volentieri quello, ma era chiaro che aveva già detto troppo. Evidentemente Lees non era abituato a venire contraddetto. Con uno strattone si alzò dalla poltrona e, prima che Saz avesse il tempo di accorgersene, il suo pesante bastone si abbatté verso la sua faccia. Si chinò per schivare il colpo e riuscì a evitare che la forza di quell'enorme pezzo di ebano intagliato la centrasse in pieno sui denti davanti. Poi qualcosa di più grande e più forte la colpì violente-

mente da dietro. Qualcuno era entrato dalla porta alle sue spalle, quella che ovviamente Georgina aveva lasciato aperta apposta. Saz rimase senza fiato per quello che sembrava il calcio di uno scarpone sulle reni. Si trascinò via dalla fonte di quel dolore, quasi accecata dalle lacrime, in preda a conati per la forza del colpo. Georgina gridava contro Lees e contro chiunque stesse picchiando Saz da dietro. Lees si era quasi alzato dalla poltrona e gridava contro Saz che strisciava sul pavimento, cercando di riprendere fiato. Se quando si era introdotta nell'appartamento Lees non era del tutto cosciente, in quel momento invece stava dimostrando di essere ben presente a se stesso. «Quelle ragazze non avrebbero mai potuto prendersi cura dei bambini che avevano generato. Erano sollevate. I bambini erano morti, per quanto le riguardava. Non dovevano nemmeno sentirsi in colpa per aver rinunciato ai figli. Gli ho facilitato le cose.» Saz cercò di obiettare. Voleva davvero dire a Lees che si sbagliava, spiegare che forse quelle ragazze avrebbero preferito scegliere, che comunque non era un suo diritto prendere simili decisioni per loro. Si inginocchiò meglio che poté, con le lombari che pulsavano per lo sforzo. Alzò la testa dolorante per parlare, ma prima di riuscire a spiccicare tre parole ricevette un altro calcio da dietro, e stavolta la sua testa venne colpita con tutta la forza del corpo massiccio attaccato allo scarpone. Poi da quella forza arrivò una mano che la tirò verso l'alto tenendola per i capelli. Mentre Saz si girava, gridando contro chiunque le stesse strappando i capelli, l'altra mano che stava per piombare sul suo corpo si trasformò in un pugno serrato che la prese in pieno stomaco. Aprì gli occhi quanto bastava per vedere la faccia furiosa di Luke Godwin. Capì chi stava cercando di farle del male, e seppe che Sukie si era trovata in una posizione analoga circa una settimana prima. Il pensiero delle sofferenze di Sukie, invece di spaventarla, la rese furibonda. Anche se era più bassa di Luke di tutta la testa, gli fece fare una giravolta, trascinandoselo dietro con la mano che le stringeva i capelli. Quella forza inattesa mandò Luke a gambe all'aria sul pavimento, facendolo sbattere contro uno dei pesanti schedari. Saz strappò il bastone dalla mano agitata di Lees e si lanciò verso Luke brandendolo. Riuscì ad assestargli un paio di colpi violenti sul viso, con l'ebano che si abbatteva sulla cartilagine e sull'osso, e uno produsse uno scrocchio molto soddisfacente e un urlo nasale dalla bocca insanguinata, ma Saz non era abbastanza forte da tenere a bada un uomo così robusto, e nemmeno da difendersi contro la furia cieca che lo alimentava. Riuscì a tirarsi in piedi, ma

diede a Luke il tempo di sferrarle un calcio sul ginocchio sinistro, che la scaraventò addosso ai tre serbatoi di ossigeno appoggiati al muro. Da lì, mezza bloccata dal pesante serbatoio che le era caduto sul busto, Saz avrebbe visto l'orrore dipinto sul viso di Georgina, l'avrebbe sentita gridare, se tutti i suoi sensi non fossero stati occupati dall'immagine e dal suono al rallentatore di Luke che si alzava a tentoni, attraversava rumorosamente la stanza per attaccarla, e la colpiva con tutta la forza dello scarpone destro a lato della testa, sull'occhio sinistro, sul naso. Anche se lei cercava di respingerlo con le mani sempre più martoriate, il piede non si fermava. Lo schiocco meccanico e ripetuto del suo pesante scarpone sulla testa, il collo, il busto di Saz. Le grida da vecchio di Lees, e le urla orripilate di Georgina, che facevano da contrappunto all'altro rumore amplificato nella sua testa: il suono della pelle che si lacerava, delle ossa che si rompevano. Alla fine Saz si ritirò nel proprio buio, senza più forze per resistere, raggomitolata come un animaletto a difendersi dal successivo attacco di violenza, e ovunque riuscisse a trascinarsi in giro per la stanza la seguiva un altro colpo. Le cicatrici delle sue ustioni erano tese oltre il punto di rottura, il tonfo pesante dei muscoli pieni di lividi, il ruggito del sangue versato nelle orecchie e il rumore della fragile carne strappata, quasi più forte del suo respiro ansante. Quasi. Le percosse si susseguivano in un torrente inarrestabile ed era ancora dolorosamente lontana dal raggiungere una beata incoscienza, quindi non cessava neanche il dolore, nemmeno quando Luke si interrompeva un secondo per riprendere fiato. Il dolore le si riversava dentro a ondate nauseanti, dalla testa sfondata fino alle dita dei piedi rotte e ritorno, era ancora cosciente. In lontananza sentiva frammenti delle farneticazioni di Lees, con lo stesso argomento in bocca e la stessa vecchia battaglia nella testa confusa. E Georgina che gridava a entrambi gli uomini di smetterla con quel rumore, con quella violenza. Come se la cosa fosse stata rapidissima, e al tempo stesso non dovesse mai fermarsi. Come se il dolore e il rumore e le percosse non dovessero mai fermarsi. 48. Luke aveva aspettato all'ingresso mentre Georgina entrava nel salottino di Lees. Avevano udito entrambi la voce di Saz nella stanza e cercato di capire cosa le stava dicendo Lees. Georgina aveva indovinato: Saz era andata a trovare suo padre appena appreso della morte di Sukie. Luke dall'in-

gresso origliò il litigio di Saz con Georgina, e secondo lui Saz aveva ragione. Sapeva che la verità andava detta molto tempo prima, che avrebbe tanto voluto non trarre vantaggio dalle menzogne di suo padre. Che se c'era qualcuno che doveva pagare, quello era Lees. Purtroppo sapeva anche che Georgina era del tutto al sicuro. Ecco perché riusciva a stare tanto calma. Le adozioni erano state condotte da Richard Leyton e, anche se ora lei sapeva la verità, poteva sempre appellarsi al segreto professionale. Odiava Leyton per quello. Per aver protetto la sua bambina anche dopo la morte, mentre loro dovevano sopportare quella roba. Luke non era razionale. Non c'è niente di razionale nel pestare a sangue qualcuno. O peggio ancora. In realtà voleva pestare a morte Lees, il pugno e i piedi morivano dalla voglia di abbattersi sulle viscere dell'uomo mitico di cui Georgina gli aveva raccontato tutto. Ma Lees non era un grande genio. Il tipo che vide Luke quando si infilò dietro a Saz nella stanza era un vecchio che diceva cazzate, farneticava, nient'altro. Voleva pestare Georgina, ma era così controllata e autorevole. Sapeva troppe cose su di lui. E quindi restava solo Saz. E tutto questo casino l'aveva scatenato lei, naturalmente, quindi per molti versi era colpa sua. Violenza insensata. Naturalmente, solo dopo Luke rimise ordine nella sua rabbia. Al momento della rissa importava solo il suono del pugno che si abbatteva sulla carne. Saz giaceva accartocciata in fondo al letto. Era un lettino singolo molto stretto e la stanza era buia, perché non c'erano finestre. Quando avevano ristrutturato l'edificio, quella stanza era servita solo a rendere più vendibile la casa. Niente soffitta, niente cantina, ma una stanzetta minuscola in fondo al corridoio, perfetta per essere trasformata in uno studio in miniatura, ideale come stanza dei giochi di un bambino piccolo, o come ripostiglio. Ripostiglio di esseri umani. Saz restò dove l'aveva messa Luke. Non si muoveva da quattro ore. Quando riprese un barlume di conoscenza, sulle prime Saz credeva fosse un sogno. Un incubo. Le faceva male ovunque. Male era una parola troppo piccola. Non strideva - come le unghie su una lavagna, come i freni in ritardo -, non gridava chiedendo attenzione o aiuto. E presto si accorse che non c'era modo di spostarsi per ridurre l'intensità del dolore. Non c'era alcuna posizione comoda. Saz era in dormiveglia e ne usciva a volte per qualche secondo, a volte più a lungo. Più a lungo di quanto credeva di poter resistere alla propria sofferenza. In quei momenti sapeva che doveva cercare di restare sveglia, che non doveva permettere a quella che, senza dubbio, era una commozione cerebrale fortissima di trasformarsi in qual-

cosa di peggio, cazzo, capiva le motivazioni mediche per restare coscienti nonostante il dolore. Ma non voleva, le fitte erano troppo intense. E comunque Saz non aveva alcun controllo sullo stato vigile o meno della sua mente. E quest'ultima preferiva di gran lunga lasciarsi scivolare nel luogo dove c'era meno dolore, piuttosto che restare sveglia e permetterle di ricordare ancora il pestaggio furioso che aveva subito. Saz non aveva idea di come era finita lì. Anche se aveva la sensazione che forse era già successo a Sukie, e ora era il suo turno. Ricordò un litigio con Georgina, e di avere insistito sull'importanza di dire tutta la verità. Mentre i polmoni contusi di Saz annaspavano tra le emorragie in cerca di aria viziata, il valore della sincerità assoluta sembrava quantomeno discutibile. Ma non a Luke. Una parte di lui desiderava comprensione. Spiegò quello che era successo. Lo spiegò anche se Saz riusciva a sentire solo metà di quel che diceva e avrebbe voluto sentirne ancora meno. Luke sapeva che il suo carattere era un problema da tempo. Qualcosa che aveva ereditato dalla sua nonmadre, qualcosa che coltivava con quantità industriali di whisky e cocaina, ed era acuito da una vita di poco sonno e preoccupazioni finanziarie. Quando era arrivato a casa di Lees era un po' fatto. Georgina gli aveva detto di Sukie e la cosa l'aveva sconvolto oltre ogni dire. Non avrebbe mai voluto farle tanto male, aveva solo creduto a Georgina quando gli aveva detto che Sukie era pronta a spiattellare tutto. E aveva troppo da perdere se gliel'avesse permesso. Non voleva spingersi tanto oltre quando era andato da Sukie, voleva solo spaventarla un po'. Ma lei continuava a porgere l'altra guancia. Saz era in un dormiveglia di dolore, momenti di straziante coscienza ornati dal racconto interminabile di Luke. Era stata Georgina a dire a Luke della sua adozione per la prima volta, l'aveva cercato quando Richard Leyton le aveva confessato la verità sulla sua vita, l'aveva trovato esaminando le carte di Leyton e cercando lei stessa i nomi dei bambini adottati. Conosceva già Patrick, e con lui non valeva la pena di provare. Sapeva dell'amico di Saz, Chris, e immaginava che lì non ci fosse molto potenziale. Ma a quanto pareva Luke era l'ideale. Allora si trovava in una situazione infelice. Non era molto vicino al padre adottivo, era un ragazzo ribelle facile da persuadere circa la causa della sua infelicità. Chiaramente l'unica cosa che lo tratteneva era la mancanza di soldi e, secondo Georgina, la mancanza di soldi era la cosa più facile del mondo da correggere. Naturalmente Jonathan Godwin non voleva investire i suoi soldi nei locali e nei bar del figlio gay: la cosa non si adattava per niente alla sua immagine. Pe-

rò Luke, la prima volta che aveva chiesto aiuto al padre, non aveva niente con cui negoziare. Adesso aveva il sostegno di Georgina, e le informazioni. Che per un potenziale ricattatore erano potere. Improvvisamente Jonathan Godwin fu felicissimo di investire nelle imprese del figlio. A Saz sarebbe dovuto interessare il suo racconto, ma stava succedendo qualcos'altro, qualcosa che esigeva la sua attenzione immediata più del racconto della vita infelice di Luke. C'era qualcosa che non andava nel suo corpo. Qualcosa in più della lacerazione nei muscoli della spalla strappati di nuovo, e delle cicatrici delle ustioni tese allo spasimo. C'era il naso rotto, le costole che dovevano essere fratturate, gli occhi da cui sapeva che non sarebbe riuscita a vedere nemmeno se la stanza fosse stata illuminata. Ma Saz sentiva che c'era anche qualcos'altro. Qualcosa che non riusciva ad afferrare, qualcosa che non andava dentro, qualcosa di interno, di organico. Il respiro entrava e usciva, doloroso e gorgogliante in entrambe le direzioni, però non andava da nessuna parte. Come se l'ossigeno non arrivasse dove doveva. Cercò di sollevarsi su un gomito per respirare meglio, ma il braccio non reagiva, o era il cervello che non sapeva come dirgli di muoversi. Il cervello non sapeva più come dire qualcosa al resto del corpo. L'aria restava sospesa, inutile, negli apici dei polmoni. Saz scivolò dalla stanza buia a un sonno ancora più buio. Quando si svegliò, Luke era uscito ed era tornato con acqua e cibo. Lui mangiò un hamburger e gliene offrì un po'. Non che Saz non avesse fame: l'odore del cibo le fece salire la bile nella gola gonfia e rischiò di soffocare. Cercò di parlargli, ma la mascella non si muoveva e anche aprire gli occhi per un attimo era troppo doloroso. Benedisse l'acqua che lui le accostò alla bocca, la lasciò cadere sulla pelle scorticata, sperando che reidratarsi potesse svegliarla, la aiutasse a riscuotersi. L'acqua di per sé non riuscì a tanto, ma la tenne abbastanza sveglia da farle nuovamente sentire fitte lancinanti nella parte alta dello stomaco e nelle lombari. E il dolore le impediva di dormire, abbastanza a lungo da sentire il resto del racconto di Luke. Ora lui stava bevendo di nuovo, whisky stavolta, roba economica del negozio della zona. Saz avrebbe voluto bere quel liquido scuro, trovare la beatitudine insensibile del torpore alcolico. Ma non riusciva nemmeno a muovere la mano, figuriamoci a chiedere da bere. Era come il famoso pubblico inchiodato alla sedia. Luke parlava e Saz non aveva scelta se non lasciare che il rumore delle

sue parole le irrompesse dentro. «A mia madre non interessava. Non è rimasta sconvolta o agghiacciata come la madre del tuo Patrick. Le ho detto quello che mi aveva raccontato Georgina, che Lees aveva preso i bambini, e lei ha risposto di avergli creduto quando le aveva detto che il bambino era nato morto. Desiderava crederci. Non voleva quel bambino.» Luke finì la bottiglia da mezzo e tornò ad abbandonarsi contro il muro: «Ha detto che, se era vero che Lees aveva mentito, allora la bugia aveva fruttato bene. Per tutti noi. Lees aveva fatto i soldi, lei si era liberata di un figlio indesiderato e io avevo una famiglia che mi aveva dato tutto. E che cazzo, mi sono accorto che aveva ragione.» Luke capì che era proprio suo figlio. La sua smania di successo nella vita e negli affari, erano le stesse passioni di lei. A quattordici anni l'avevano scacciata di casa dopo che la prima scopata maldestra e noiosa con il vicino aveva portato a un pasticcio fatto di dolore e gravidanza. Una famiglia religiosissima, esterrefatta per quello che considerava un tradimento. Lei non sapeva dove andare, ma se ne andò lo stesso. Non voleva che la sua anima sudicia insozzasse oltre quella casa pura. Passò una settimana per strada, sperando che il freddo e la fame le causassero un aborto spontaneo, poi andò dalle autorità, si piazzò all'ospedale, convinta che fossero obbligati a prendersi cura di lei. E in effetti lo erano. Se ne occupò Lees. Lei disse a Luke che se lo ricordava come l'uomo gentile che le aveva promesso che sarebbe andato tutto bene. E in effetti fu così. Le diedero da mangiare, la vestirono e le assegnarono un letto. Non era casa sua, ma d'altra parte nemmeno casa sua era mai stata molto comoda o agiata. Era un posto tranquillo e la lasciavano in pace. Ogni volta che Lees veniva a trovarla la rassicurava, sarebbe andato tutto bene. Non avrebbe dovuto pensare a come cavarsela con il bambino, se ne sarebbero occupati loro. Era una bambina anche lei, aveva bisogno di mangiare, dormire e riposare. E così fece. Tre mesi dopo ci fu il travaglio, lungo e arduo. Il corpo di una ragazza che faceva un lavoro da donna. Poi comunque si dovette ricorrere al cesareo e il bambino venne estratto in fretta, troppo piccolo, malaticcio, e lei si sentì sprofondare nel sonno dell'anestesia, abbandonandosi al bacio gradito dell'etere. Il giorno dopo l'infermiera spiegò che Lees sarebbe passato a parlarle, quella mattina era particolarmente gentile. Lees si sedette vicino al suo letto e le tenne la mano e le disse che il piccolo era morto. E lei non sapeva se ridere o piangere. Sapeva che era malvagio provare sollievo, ma lo provò lo stesso. Tornò a casa per qualche anno e passò il tempo lavo-

rando per la famiglia, che pretendeva un risarcimento per la sua trasgressione. Finalmente ebbe l'età per trasferirsi a Londra e trovò lavoro nella City. Qualche anno dopo andò a New York. Diventò una donna in carriera, di quelle per cui i figli e la famiglia non erano una priorità: il lavoro era tutto. Aveva avuto amanti e conviventi e due mariti, ma niente figli. Era quello che voleva. Poi era arrivato Luke. Lui non la conosceva, lei non lo conosceva. Fino a quel momento non aveva nemmeno saputo della sua esistenza. Non sapeva come fare la madre, non era nella sua natura. In verità, probabilmente non lo era mai stato. Non riusciva a essere spiacente, era solo se stessa. Quando Luke se ne andò, si strinsero la mano. Non si rividero mai più. Quella sera Luke bevve quasi una bottiglia di vodka, finì mezzo grammo di coca e fumò alcune canne. Anche se si era sdraiato a letto pensando che avrebbe pianto, non fu così. Almeno non prima di dormire. Il giorno dopo si svegliò più rilassato e più calmo che mai. Aveva ragione, la sua nonmadre. Aveva proprio ragione, cazzo. Spiegò a Saz: «Non avevamo bisogno l'uno dell'altra. Ed è stato un po' un sollievo. Dato che non mi voleva, mi ha lasciato libero. Ha semplificato tutto quanto. Le ero davvero grato, sinceramente. Mi sono abituato all'idea che la mia madre naturale non era interessata a me, e alla mia decisione di non interessarmi a lei. Poi ho parlato con Georgina e lei mi ha spiegato come fare a chiedere i soldi per il locale a mio padre. Quindi alla fine ho avuto tutto quello che volevo. Finché non sei arrivata tu.» Secondo Luke, l'arrivo di Saz era stato proprio un peccato, cazzo. Saz sentì una parte del racconto, forse gran parte, non avrebbe saputo quantificarlo e di sicuro non le interessava. Non era certo in grado di preoccuparsi per l'animuccia ferita di Luke. Alla fine si addormentò e, al suo risveglio, lui non c'era. Avrebbe pianto, se avesse potuto, per la disperazione di essere sola in mezzo a tanto dolore, ma gli occhi gonfi e il sale delle lacrime lo rendevano impossibile. Col passare delle ore le riusciva sempre più difficile respirare. Come cercare di nuotare sott'acqua senza sapere come si risale a prendere fiato, nuotare in acque scure senza capire dov'è il fondo e dove la superficie. E poi c'era quell'altra cosa, quella che non andava, quella cosa profonda, sotto la pelle e i muscoli e la carne, che non voleva smettere, anzi, peggiorava. Saz non sentiva niente, e poi sentiva tutto. Sapeva di non essere mai stata così vicina al limite, e poi per un'altra ora non sapeva più niente. Entrava e usciva dal dormiveglia e a volte Luke era lì, altre volte era sola nel buio. Ora il tempo era meno importante delle sue unghie strap-

pate, anche se non aveva la minima idea di come si fossero ridotte in quel modo, due unghie rotte che ora si erano moltiplicate fino a diventare tutte e dieci. Nessuna comprensione, solo un unico momento di lucidità in cui si ricordò di essersi grattata, in sogno, perché credeva che se fosse riuscita a raggiungere i polmoni che si stavano riempiendo, a far uscire il proprio sangue, allora forse sarebbe potuta risalire a prendere fiato. Una parte di Saz sapeva come fare, un atto animale tramandato dalla preistoria e da generazioni di nonne guaritrici e da settimane passate a guardare ER e Casualty. Saz sapeva che, se solo fosse riuscita a entrare e a tirarlo fuori, a tirare fuori la se stessa in cui stava annegando, allora sarebbe riuscita a respirare di nuovo. Ma non riusciva a entrare, le sue mani non riuscivano a farsi largo nella sua stessa carne, non volevano, non eseguivano gli ordini. E poi Luke se ne andò per un pezzo e Saz non riuscì nemmeno a restare sveglia abbastanza da ricordare cosa aveva pensato l'ultima volta che la coscienza le aveva elargito il dono del dolore e della conoscenza. Saz si chiese se Molly era incazzata. Molly odiava i suoi ritardi. Molly doveva essere preoccupata. Doveva essere davvero scocciatissima. Saz doveva smetterla di vedere Carrie, andava a finire sempre male. D'ora in poi avrebbe fatto la brava fidanzata, che rimane a casa e va a letto presto. Non avrebbe più fatto preoccupare Molly. Sarebbe stata una brava madre. Due bravissime madri. Saz baciò Molly, la strinse a sé, nuda, e sentì il profumo della pelle della sua ragazza, quel caldo nonsoché tra il dolce e l'amaro che era l'odore tipico di Molly. Prima del profumo e del trucco e dei vestiti puliti. Saz strinse Molly, si abbracciarono, una di fronte all'altra: non era comodo, non veniva naturale, ma Molly insisteva comunque. Saz apriva la bocca per accogliere la lingua di Molly, i baci sul viso, sui seni, sulla schiena, sulle cosce. Saz che scopava Molly, piano per via del bambino, forte per la sua amante. Le braccia di Saz che soffrivano di dover aspettare altri cinque mesi. Poi il corpo di Saz si svegliò e ricominciò a gridare. L'ultimo grido era un grido vero - era la prima volta che dalla bocca le usciva un rumore autentico dopo tante ore - e crudo, rabbioso, primordiale, feroce, e non c'era Molly a consolarla e allora Saz capì che doveva cavarsela da sola e che Luke se n'era andato da un pezzo e non aveva più storie da raccontare e poi, dato che era così sola e tutto le faceva un male cane, Saz fu felice di ricadere nell'oscurità. 49.

Molly quella sera aspettò fino alle dieci prima di chiamare Chris. Lui rimase con lei e aspettarono altre due ore prima di chiamare Carrie. Un'attesa che non c'entrava con il diritto di Carrie a farsi il primo sonno in santa pace, ma piuttosto con il fatto che coinvolgere un'altra persona significava accettare che c'era davvero qualcosa che non andava. Finché non parlavano con Carrie, restava sempre la possibilità che Carrie fosse fuori con lei. Improbabile, insolito, ma non del tutto impossibile. Molly fece il numero poco dopo l'una di notte. All'inizio nessuno rispose, ma lasciò suonare per sicurezza. Richiamò almeno tre volte. Tre volte, fino a sentirsi rispondere dalla gentile signorina della British Telecom che non rispondeva nessuno. Molly lo sapeva che non stava rispondendo nessuno. Ma non sapeva chi altro chiamare. Sapeva che era possibile che Carrie si stesse semplicemente rifiutando di rispondere al telefono. E non si sbagliava. Carrie non aveva idea di dove fosse Saz. E all'inizio tutto quello che provò fu una forte irritazione perché Molly era la solita paranoica, cazzo. Finché non si ricordò che Saz aveva accennato all'idea di fare visita a Lees per conto proprio. Disse a Molly di non preoccuparsi, che sarebbe andato tutto bene. Ma appena riagganciò, telefonò sia a Helen che a Judith. Le due donne erano fin troppo perbenino perché Carrie gli dedicasse troppo tempo, ma sapeva che Saz si rivolgeva a loro nei momenti di crisi, e questo purtroppo lo sembrava. Carrie pensò che, se anche Saz fosse tornata dopo solo mezz'ora, la preoccupazione di Molly fosse una scusa sufficiente. Però Helen e Judith, oltre a essere lesbiche, erano anche poliziotte; un po' troppo poliziotte per i gusti di Carrie. Furono telefonate veloci, in tono preoccupato e formale, ma non troppo amichevole. Appena riagganciò dopo la seconda telefonata, a Judith, Carrie chiamò Molly per dire che si stava dirigendo verso nord. Finalmente. Liberò la brunetta, si vestirono il più presto possibile - ben più veloci del solito - e si precipitarono al Bar Rage. Luke non c'era e Sharon, incazzatissima, riferì che non si era visto per tutta la sera. Alle tre di notte erano tutti riuniti nell'appartamento di Molly. Marc aveva raggiunto Chris, Patrick era arrivato dopo mezz'ora dalla chiamata di Molly, lasciando Lillian a casa con Katy e i bambini. Helen e Judith misero da parte le loro divergenze e si trovarono nella stessa stanza per la prima volta dopo sei mesi. Carrie lasciò la brunetta con la sua amica etero al Bar Rage e si diresse a nord appena Sharon smise di vomitare ingiurie sul suo

capo inadempiente. Molly percorreva la stanza a larghi passi, bevendo ogni tanto un sorso di vino dal suo secondo bicchiere, e azzannava, mandandoli affanculo, chiunque le dicesse di sedersi e pensare al bambino. Helen era furiosa con Molly perché non l'aveva chiamata prima. Judith era ancora più furiosa con Helen perché non mascherava la sua rabbia. Anche lei era incazzata, ma si sforzava di stare calma per rassicurare Molly. Patrick voleva fare irruzione nell'ufficio di Georgina, in casa di Lees, in casa di Georgina, in casa di Luke. Fare irruzione dappertutto, cazzo, pur di andare avanti. Andare avanti con qualcosa, invece di stare lì seduti a casa delle ragazze a parlare, con le mani in mano. Marc gli disse di smetterla di comportarsi come un bambino e di sedersi, che cazzo. Molly vomitò, pianse, bevve mezza tazza di tè zuccherato, vomitò di nuovo, smise di piangere e disse che non le importava se Patrick si comportava come un bambino, se il suo atteggiamento serviva a fare davvero qualcosa per trovare Saz, allora era molto meglio che starsene lì seduti ad aspettare, e qualcuno doveva fare qualcosa, accidenti, perché se non lo facevano loro, lei di sicuro non era disposta a starsene lì seduta senza fare niente, cazzo, qualcuno aveva un'idea? Carrie alzò lo sguardo dal pacchettino pieno di coca che stava tirando fuori dal portafoglio - era tardi, erano tutti stanchi ed era evidente che di dormire non se ne parlava - e chiese se qualcuno aveva una carta di credito a portata di mano. Sul tavolo arrivarono tre carte di credito; né Helen né Judith finsero di guardare da un'altra parte. Carrie, rapida, tagliò delle righe corpose. Vennero aspirate ancora più in fretta. Molly rinunciò al tè, finì il bicchiere di vino bianco che aveva scaldato con la mano nell'ultima ora, ci aggiunse troppo caffè troppo in fretta e, dopo che gli altri se ne furono andati, Chris e Marc restarono a tenerle la mano. Mentre Helen e Judith facevano telefonate di lavoro dalle rispettive auto, in modo da non preoccupare Molly descrivendo in termini tecnici quello che secondo loro stava succedendo, Carrie e Patrick decisero di prendere in mano la situazione: Patrick attraversò la città a nord-ovest e arrivò a casa di Lees venti minuti prima della polizia. Aveva tutto il tempo per spaccare la finestra sul davanti e aiutare Carrie a entrare dopo di lui. Anche al buio sapevano che c'era qualcosa di storto. Quando Patrick trovò finalmente l'interruttore sulla parete opposta, scoprirono di avere vagato per una stanza messa a soqquadro, dove c'erano vari litri di sangue. Alcuni provenienti dal naso rotto di Luke, ma la maggior parte, anche se non lo sapevano ancora, di Saz.

Perlustrarono la casetta in cinque minuti, con Carrie che gridava cercando Saz e Patrick che sbatteva le porte e spaccava tutto quello che aveva davanti. Ci misero un attimo a capire che Saz non si trovava al piano terra, e fu solo la prontezza di riflessi di Carrie che impedì a Patrick di uscire di senno quando aprì la porta della camera in fondo al corridoio di sopra. In una stanza in penombra, con una temperatura fresca e costante e uno ionizzatore che forniva aria fresca e pulita, Samuel Lees stava al sicuro dal casino al piano di sotto, tranquillo, in un letto singolo appoggiato al muro, con le coperte ben rimboccate e sorvegliato da macchinari medici a tutti e quattro gli angoli, che lo vegliavano mentre dormiva come un bambino. «Cristo, è lui!» Carrie lo prese per un braccio e gli sibilò in piena faccia: «Non sognarti di toccarlo, Patrick, cazzo. Lascialo in pace!» «Perché? Perché è vecchio e non bisogna fargli del male?» «No, coglione, perché è nel suo letto a casa sua, dove ti sei appena introdotto senza nessun motivo...» «Come?» «Che cazzo, stammi a sentire: nessun motivo a cui i poliziotti crederebbero. Almeno non prima che tu spieghi la storia del sangue dieci volte, a tre diversi poliziotti deficienti... e intanto hai già incasinato la scena del delitto al piano di sotto, andando alla carica come un idiota per tutta la casa. Pestarlo non sarebbe proprio d'aiuto.» Patrick esitò, fece marcia indietro: «Be', almeno mi farebbe sentire meglio.» «Non siamo qui per farti sentire meglio. Siamo qui per trovare Saz. Non sei sempre tu al centro dell'attenzione, ragazzino ricco e viziato.» Carrie per un attimo si chiese se non avesse calcato troppo la mano, vide al suo fianco la mano di Patrick che si tirava indietro e si sentì sollevata quando lui si limitò a guardarla storto nella penombra: «E allora cosa dovrei fare?» «Dovresti smetterla di comportarti da coglione e vedere di farci uscire di qui prima che arrivino i poliziotti e ci tocchi spiegare perché siamo entrati. È ovvio che Saz non è qui, abbiamo guardato in tutta la casa e, non so tu, ma io preferirei continuare a cercarla che non sprecare metà della notte a spiegare tutta la storia alla polizia.» «Okay. Come vuoi. Allora dove siamo diretti?» «Non ne ho idea, cazzo. Me lo faccio venire in mente in macchina. Vieni, adesso!»

Carrie si precipitò giù per le scale, e Patrick la seguì, dando un ultimo sguardo riluttante al vecchio, che dormiva nel suo bel lettino, ignaro del rancore di Patrick. Carrie e Patrick se ne andarono da casa di Lees e si diressero verso sud lungo la Edgware Road, mentre tre auto della polizia arrivavano verso di loro in senso opposto. Patrick accelerò e borbottò sottovoce: «Arrivano sempre in ritardo, cazzo.» Carrie non si prese la briga di commentare: non le sembrava saggio ricordare a Patrick che era lui una delle cause principali per cui Saz non aveva ancora parlato con i poliziotti. Un quarto d'ora dopo erano già stati fotografati da tre telelaser e si trovavano a casa di Luke. Dato che era un loft riconvertito era più difficile entrare di nascosto. Patrick dovette svegliare parecchi vicini prima che finalmente uno li facesse entrare, pensando che fosse un marito geloso, e scarsamente interessato a proteggere il matrimonio finito di qualche idiota alle quattro del mattino. Patrick sfondò la porta dell'appartamento di Luke e, quando non trovarono Saz nemmeno lì, spaccò tutto quello che poté. Stavolta Carrie non si prese la briga di fermarlo. Molly stava seduta sul divano, con la testa sulla spalla di Chris e lo sguardo fisso sul telefono, sperando che suonasse. Un'ora dopo guardò il sole sorgere sul parco di Hampstead Heath. Marc preparò dell'altro caffè leggero e Molly si accarezzò il piccolo gonfiore della pancia, chiedendosi a quanti anni si può spiegare a un bambino il concetto di "scomparsa", e poi detestandosi per averlo anche solo pensato. Subito dopo le sette, quando prima Patrick e Carrie, e poi sia Judith che Helen richiamarono senza alcuna novità - né buona né cattiva -, Molly pregò. Anche se non sapeva chi. Alla fine Molly capì che doveva sdraiarsi. Voleva sottrarsi al luogo dove c'era più tensione, al telefono che suonava costantemente senza dare buone notizie. Andò in camera, pensando di stendersi sul loro letto, dove almeno aveva una sensazione di vicinanza a Saz. Si era appisolata da cinque minuti quando si tirò su di soprassalto, sconvolta, perché si era ricordata dove poteva essere Saz. Si ricordò quella conversazione dopo che Saz aveva incontrato Luke nel giardino dietro il suo bar. Molly non era particolarmente interessata, quella sera era più preoccupata di rinvigorire la loro vita sessu-

ale. Ma aveva ascoltato la descrizione fatta da Saz del giardino dietro il bar; sembrava carino. E anche gli appartamenti alla moda che Luke aveva indicato dietro l'alto muro posteriore, con i più alti che guardavano sullo spazio verde. E aveva detto a Saz che poteva dare un'occhiata se voleva. L'agente immobiliare era un suo amico. Aveva una copia della chiave. Ormai Londra si era svegliata sul serio e il viaggio all'ora di punta fu di una lentezza straziante per Molly e Chris. Avevano lasciato Marc a fare tutte le telefonate del caso, per mandare qualcuno agli appartamenti il più presto possibile. Ma Molly non riusciva più a stare a casa ad aspettare. Sapeva che se Saz era lì dentro, e se era ferita, l'avrebbero comunque portata all'ospedale più vicino, quindi tanto valeva attraversare il ponte. Arrivarono nel momento esatto in cui Saz veniva portata fuori dall'edificio in barella. Molly cercò invano di costringere il suo cervello a pensare da medico e non da fidanzata: non riusciva a guardare il disastro sanguinolento a cui era ridotta la sua ragazza e a tradurlo in termini medici che potessero permetterle di sopportarlo. A Molly non sarebbe stata offerta l'occasione di sopportarlo. 50. Lees era vecchio e malato e sopravvisse. Proprio come gli adottati e le cliniche per la fertilità che aveva fondato. Ci furono alcuni ricongiungimenti felici tra madri e figli, e altri no. Nelle cliniche alcune gravidanze assistite riuscirono, e altre no. Il nome di Lees fu cancellato dall'insegna della clinica dove Molly, Saz e Chris avevano concepito. La casa di Georgina fu trovata silenziosa, ordinata e vuota. Una ricerca accurata nella cassaforte, nei cassetti e negli armadi rivelò che non teneva effetti personali importanti - chiavi, denaro, carte, passaporto - in casa. E nemmeno in ufficio, scoprirono in seguito. Forse le piaceva tenerseli sempre addosso. Forse si sentiva più sicura in quel modo. A Georgina piaceva Ginevra. Non le piaceva molto giocare a fare la mogliettina, soprattutto la seconda mogliettina, e la Svizzera era un po' troppo terrestre per i suoi gusti di amante degli oceani, ma era meglio di niente. Forse Luke le aveva creduto quando gli aveva detto che godeva dell'immunità per via del segreto professionale, ma lei stessa non ne era del tutto sicura. Pensò che tanto valeva starsene un po' fuori dai piedi finché le ac-

que non si calmavano. Luke fu trovato la sera seguente, tardi, in un pub di Margate, mentre pestava a sangue un barista che si era rifiutato di servirlo: era troppo ubriaco, prima ancora di entrare. Tre ore dopo, quando erano riusciti a farlo tornare abbastanza sobrio da dare un senso alle sue parole confuse, spiegò che non aveva lasciato Saz nell'appartamento per nasconderla, ma solo perché non sapeva cos'altro fare e, quando era tornato in sé, Georgina era già partita e lui non sapeva a chi chiedere consiglio. Per molto tempo, in seguito, continuò a sentire la voce di Saz che gli gridava di smettere. Le voci di Saz e Sukie che gli gridavano di smettere. La polizia, frugando nella borsa di Saz in cerca di prove, trovò la lettera per il padre di Chris. Lasciarono che Chris se ne facesse una copia. Ma lui aspettò a svolgere ricerche sulla sua famiglia naturale, prima voleva sapere come stava la sua. Per due giorni Molly e Chris si fermarono al capezzale di Saz; Patrick e Carrie camminavano su e giù per il corridoio e la madre e la sorella di Saz stavano sedute in silenzio vicino alla finestra. E la madre di Saz non riusciva nemmeno a cominciare a piangere. Quando Saz aprì gli occhi nella prima mattina di venerdì, Molly dormiva con la testa sulle ginocchia di Chris, e tutti gli altri dormivano o sonnecchiavano nella sala d'aspetto. Chris si alzò in un attimo: «Svelta, Molly, si è svegliata!» Molly prese la mano a Saz, con le palpebre che sbattevano furiosamente: «Tesoro? Saz?» Carrie corse a chiamare un medico. Chris aspettò che Saz si concentrasse su Molly e poi uscì a dirlo agli altri: «Vado a chiamare sua madre, okay? Sono qui fuori, va bene? Non mi muovo, se hai bisogno di me chiama.» Molly annuì, con tutta l'attenzione concentrata su Saz: «Tesoro, mi senti?» Saz aprì un poco la bocca gonfia, con la gola secca, irritata e rauca: «Sì... Cristo... che cazzo è successo...?» «Non importa, tesoro. Va tutto bene, ora, è tutto a posto. Adesso guarirai.» Molly stava mentendo, ma d'altra parte era un medico. Era autorizzata a farlo. Saz fece una smorfia, cercando di fissare lo sguardo sulla fidanzata.

«Ahia.» «Eh sì, ahia.» «Il bambino sta bene?» Molly sorrise: «Il bambino sta benone. Sei tu la cretina che è finita qui.» «Scusa.» «Lo so. Senti, Saz, ce l'hai fatta. Hanno trovato la lettera di Chris nella tua borsa. Quella per suo padre. Ora magari avrà dei nuovi parenti, zie e zii per il bambino.» Saz cercò di parlare, ma trattenne il fiato quando fu attraversata da un'improvvisa fitta di dolore: «Bene... il bambino avrà bisogno di una famiglia.» Molly annuì, le strinse la mano più dolcemente, le accarezzò la fronte contusa. «Non parlare, non occorre. Devi riposare. Devi stare attenta, sei tutta rotta.» Dal punto di vista di Molly - dato che la sua professione le faceva capire fin troppo chiaramente le condizioni di Saz - era minimizzare per gentilezza. Ma la sua richiesta successiva fu di tutt'altro tenore. Stringendo Saz quanto possibile, disse: «Non puoi più fare queste cose, Saz. Dico sul serio. Non puoi più. Hai capito?» Saz avrebbe annuito, ma le vertebre slogate e la clavicola fratturata glielo rendevano impossibile; cercò di assentire ma non riusciva a trovare il fiato per rispondere. Molly sentì Chris che tornava con altri medici e la famiglia di Saz. Ripeté di nuovo, più pressante stavolta: «Mi hai sentita, Saz? Non le fai più queste cose.» Saz socchiuse la bocca, respirò con dolore, e in un brivido rauco sussurrò: «Okay, mai più.» Molly prese la mano magra di Saz, stando attenta alla flebo, e se la posò sulla pancia. Anche se sapeva che era troppo presto perché si sentisse qualcosa, Molly pensò che forse poteva immaginare qualche piccolo movimento del bambino che si sistemava tra le sue due madri. Quando guardò di nuovo la sua fidanzata, Saz aveva gli occhi chiusi. FINE

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