19 - Contro Il Materialismo Volgare

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Quaderni del Gruppo di Ur XIX CONTRO IL MATERIALISMO "VOLGARE" I Edizione: Maggio 2007

Il Kalki Avatara Ogni quaderno del Gruppo di Ur raccoglie, in forma organica e sintetica, quanto emerso nell'omonimo forum, in relazione ad un determinato argomento. In esso si trovano, perciò, sia citazioni degli autori studiati, sia commenti. I quaderni si devono considerare in continuo aggiornamento, dal momento che l'emergere di nuovo materiale sull' argomento trattato può rendere opportuna una nuova edizione.

Premessa Questo quaderno raccoglie i messaggi relativi al Materialismo. E' suddiviso in tre parti: La parte a) accenna alla differenza profonda esistente tra il materialismo volgare e il materialismo ermetico (di Kremmerz), termine che preferiamo attualmente non usare, per i motivi che verranno esposti. La parte b) si occupa del problema degli "indivisibili", cioè dell'atomismo (nel senso filosofico antico e non in quello chimico moderno), da un punto di vista empirico esteriore (scienza sperimentale) o interiore (ascesi) e dal punto di vista razionale. La parte c) affronta il problema "mente cervello", esaminando in dettaglio l'approccio dei pensatori materialisti dell'ultimo secolo.

a) Il "Materialismo" Ermetico di Kremmerz Deo Ame: Kremmerz, come molti altri Maestri, faceva uso, nel suo insegnamento, di quegli accorgimenti ad hoc (adatti a certi allievi di una certa epoca) che in Oriente son detti "abili mezzi" (scr. : upaya). Così, prevedendo egli il diffondersi del materialismo, tentò di trasformarlo, facendo sua questa parola, ma ben distinguendo tra materialismo ermetico (il suo, da intendersi - anche se un po' forzatamente - come unità di tutte le cose) e quello "volgare" dei comuni filosofi e scienziati, che non permette alcun ascenso iniziatico. Un suo allievo, Giacinto Muciaccia, si mosse, in analoga maniera, negli ambienti del marxismo, per tentare di trasformare (almeno nelle cerchie più evolute) il materialismo dialettico di Marx in quello ermetico di Kremmerz. Si tratta in fondo del vecchio trucco degli ermetisti, che fecero proprio il termine "alchimia", distinguendo però la loro da quella "volgare". Vi è anche relazione con i quattro significati delle scritture (letterale, allegorico, morale, anagogico) tutti "racchiusi", secondo Dante (Convivio), in quello letterale, proprio come i quattro corpi (saturnio, lunare, mercuriale, solare) son tutti "racchiusi" nel saturnio. Ma i risultati non son stati buoni, giacchè è stato, visti i tempi, proprio il materialismo inteso in senso "volgare" a prevalere nettamente. Si è che gli "abili mezzi" funzionano se diretti "ad personam", piuttosto che ad intere generazioni, formate inevitabilmente da individui assai diversi tra loro. Ma il tentativo andava fatto. Oggi questa specifica terminologia kremmerziana appare controproducente, così da indurre in errore ad es. uno studioso come Piero Di Vona (Giuliano Kremmerz, Edizione di AR, Padova, 2005), che critica a torto Kremmerz, perchè non lo capisce. Ma non lo capisce perchè, come abbiamo detto, questa terminologia è, in fondo, un po' forzata. EA: Il Buddhismo Vajrayana enumera cinque forme di "saggezza", che costituiscono una mente perfettamente illuminata. Esse sono: 1. la saggezza della realtà ultima 2. la saggezza simile a uno specchio 3. la saggezza dell'uguaglianza 4. la saggezza discriminante 5. la saggezza che tutto realizza. Bagliori soprattutto della III e della IV saggezza si possono trovare anche nei comuni filosofi. Se è prevalente la "saggezza dell'uguaglianza", il filosofo tenderà a professare una visione monistica della realtà. Al contrario, se è prevalente la "saggezza discriminante" egli tenderà a visioni dualiste o pluraliste. L'errore sta sempre nell'esagerazione. Se la saggezza discriminante manca quasi del tutto, allora il monismo diventerà la famosa "notte in cui tutte le vacche sono nere", che giustamente Hegel stigmatizzava. Se, al contrario, è la saggezza dell'uguaglianza a far difetto, allora il filosofo tenderà ad elevare

barriere così elevate tra le cose che discerne, da risultargli poi ostico o impossibile spiegare plausibilmente le relazioni tra loro esistenti. Volendo costruire un sistema monistico, si hanno sostanzialmente tre possibilità, corrispondenti ai tre aspetti del trimundio: il materialismo corrisponde alla terra, lo spiritualismo (ivi compreso l'idealismo) corrisponde al cielo, l'empirismo (ivi compreso il positivismo) all'uomo. Da un punto di vista materialista è veramente difficile comprendere il cielo. Da un punto di vista spiritualista è difficile tener conto adeguatamente della terra. Il monismo adeguato all'uomo (questo abitante del "luogo di mezzo") è dunque l'empirismo, giacchè anche materia e spirito non sono per lui che esperienze. Il mercurio amalgama tutti i metalli direbbero gli alchimisti. Kremmerz avrebbe perciò potuto chiamare la sua dottrina "empirismo filosofico", come fece Schelling, in un certo periodo della sua evoluzione filosofica, o "empirismo radicale" come propose W. James; dove l'aggettivo "radicale", lungi dall'indicare l'esclusione della ragione, indica invece che si tiene conto di tutta l'esperienza, compresa quella interiore e quella "sovrannaturale", e non solo di quella esteriore (atteggiamento quest'ultimo che prelude al materialismo volgare). Kremmerz, però, sapeva bene che alla fine di un ciclo, gli pseudo-filosofi ritengono superato lo stesso empirismo e si crogiolano, proprio come maiali in un porcile, nel materialismo volgare (che rimane tale anche quando lo si infioretta con paroloni e presunte formule matematiche). Dunque, come ha indicato Deo Ame, tentò la carta di proporre un "materialismo ermetico", che raddrizzasse quello volgare. Ma ben pochi materialisti si accostarono alla sua dottrina e, ovviamente, negli spiritualisti essa può suscitare qualche perplessità. Oggi, conviene combattere il materialismo volgare senza mezzi termini, essendo esso una fede inferiore e più pericolosa degli stessi monoteismi religiosi esclusivisti.

b) Il Problema degli "Indivisibili" di Ea

Da un punto di vista linguistico, il verbo esistere equivale al verbo essere, quando quest'ultimo viene utilizzato senza una parte nominale (ad es. "Io sono colui che è" = "Io sono colui che esiste") . Assumeremo, per ora, il termine esistere nel suo significato più generico, senza alcun pregiudizio realistico, idealistico o di qualsiasi altro tipo. Una prima specificazione dell'esistenza è il suo diversificarsi in esistenza dipendente ed esistenza autonoma. Una cosa esiste in modo dipendente, quando la sua esistenza dipende in maggiore o minore misura da altre cose. Si può invece chiamare esistenza autonoma quella di un ente che non dipende da nessun altro, eccetto sé stesso. Ad es. l'esistenza del corpo umano non è autonoma, giacchè dipende da svariati fattori: la fecondazione delle cellule germinali, la nutrizione, la respirazione, la buona salute, l'assenza di incidenti letali etc. Analogamente, l'esistenza di una immagine mentale dipende dalla mente che la crea, da eventuali stimoli sensoriali o ricordi etc. Un oggetto esistente autonomamente non deve essere disaggregabile, perchè, venendo meno la sua aggregazione, l'esistenza stessa dell'oggetto cesserebbe. Ora, nessun oggetto fisico si dimostra essere un tutto unitario, dal momento che tutti appaiono come aggregati scomponibili in parti e queste parti risultano a loro volta scomponibili in altre parti. Un carro, ad esempio, è formato da un cassone, dagli assi e dalle ruote e cessa di esistere quando tali parti vengono tra loro separate; a sua volta una ruota è formata dal mozzo, dai raggi e dal cerchione e cessa di

esistere quando tali parti vengono disassemblate. Per salvare , in qualche modo, l'autonomia del mondo fenomenico, alcuni filosofi, a cominciare dai greci Leucippo e Democrito e da taluni pensatori indù [in particolare alcuni della scuola cosmologica (vaisesika) e logica (naiyayika)], sostengono allora che esistono particelle ultime di materia non ulteriormente scomponibili. I tentativi di indagine relativi agli indivisibili sono sostanzialmente di due tipi: indagini sperimentali e indagini razionali. Cominciamo dalle prime, che possono essere ulteriormente suddivise in indagini esteriori (esperimenti scientifici) ed indagini interiori (introspezioni).

b1) Ricerca Scientifica degli Indivisibili Gli esperimenti scientifici sembrano dimostrare che la divisibilità di una particella dipende, in ultima analisi, solo dall'energia e dagli strumenti a nostra disposizione, che possono essere insufficienti in una certa epoca e sufficienti in una successiva. Se gli atomisti da Leucippo a Dalton poterono solo ipotizzare l'esistenza degli atomi, senza poter fisicamente indagare su di essi, a partire dalla fine del XIX sec. questo studio potè farsi e si sono scoperte le particelle subatomiche. Gli atomi chimici sono stati cioè scomposti in svariate particelle, tra cui le più importanti sono i nucleoni (protoni e neutroni) e gli elettroni. Il termine atomo è rimasto in chimica, ma è oggi usato, non più nel senso di "indivisibile", bensì nel senso di "individuo chimico", cioè di una particella che è sì scomponibile, ma che, se viene scomposta, perde le caratteristiche dell'elemento a cui appartiene. Oggi è praticamente accertato che i nucleoni siano formati da quark e, riguardo a quest'ultimi, già si ipotizza che siano formati da subquark. Gli elettroni risultano, invece, a tutt'oggi, troppo piccoli per indagarne la struttura. Ma domani? In conclusione gli esperimenti scientifici possono solo condurre ad affermazioni del tipo: "In base alle conoscenze e agli strumenti attuali, queste sono le particelle più piccole da noi conosciute. Non possiamo sapere se in futuro ne conosceremo di più piccole".

b2) Ricerca Cenestesica degli Indivisibili In Oriente, vi è chi ha cercato di studiare la natura particellare della materia nell'ambito dell'ascesi interiore. E' a tutti noto che gli esseri umani hanno un certo grado di percezione, detta tecnicamente cenestesi, dei fenomeni che si verificano all'interno del proprio corpo. La profondità della cenestesi è differente nei vari individui : alcuni ad es. non hanno praticamente coscienza del loro battito cardiaco, se non nell'insorgere di patologie, mentre altri percepiscono tale battito in qualsiasi zona corporea ripongano la loro attenzione. In generale , la cenestesi può essere sviluppata esercitando appropriatamente la capacità di attenzione e taluni asceti hanno cercato di svilupparla fino al punto di percepire i fenomeni microscopici , che si verificano nel nostro organismo. Descriveremo brevemente tale tecnica, una variante della quale è largamente usata in una attuale scuola buddhista birmana, fondata dal maestro Sayagyi U Ba Khin. La pratica si divide in due parti principali: la concentrazione dell'attenzione (samatha in lingua pali) e l'attenzione investigante (vipassana). Per concentrare l'attenzione, si può scegliere una zona circoscritta del corpo; una delle più usate è l'area in cui l'aria inspirata entra nell'organismo. Tale area comprende la punta del naso, l'interno delle narici e il labbro superiore. A seconda della conformazione del naso e del viso, ciascuno avverte maggiormente il contatto con l'aria in un punto diverso di tale area. Non bisogna modificare artificialmente la meccanica del respiro, nè seguire il percorso dell'aria, ma concentrarsi unicamente sul suo contatto con l'area suddetta. Nel caso di distrazioni, bisogna pazientemente riportare l'attenzione su di esso. Col procedere della pratica, il respiro tende a farsi più soave e richiede perciò un'attenzione maggiore per essere percepito. A questo punto si abbandona la concentrazione dell'attenzione , per passare alla fase dell'attenzione investigante (vipassana). Si comincerà con l'osservare la stessa ristretta area del labbro superiore , utilizzata per la concentrazione, notando qualsiasi tipo di sensazione fisica appaia. All'inizio si percepiranno le sensazioni più appariscenti, come prurito, dolore, pressione, vibrazione, o di

qualsiasi tipo esse siano. Occorre osservarle con chiarezza e con equanimità senza permettere alla mente di giudicare o speculare su di esse. Si osservino e basta. Ora il praticante è pronto a osservare metodicamente tutto il corpo. Muove la propria attenzione dall'area sotto le narici a una piccola area sulla cima della testa e a osservare qualsiasi sensazione si manifesti, sensazioni fisiche, naturali, quali pressione, prurito, formicolio, dolore, caldo, freddo,qualsiasi sensazione. Gradualmente poi il praticante comincerà a osservare ogni parte del corpo, dalla testa, alle braccia, al torace, al collo, alle gambe, continuando a considerare ogni sensazione osservata con la massima equanimità possibile, piacevole o spiacevole che sia. Si prosegue affinando e perfezionando la percezione dei fenomeni, così come appaiono, perseverando nell'osservazione del corpo. Il metodo di base consiste nell'esplorazione dettagliata di ogni parte del corpo, muovendo la propria attenzione in diverse maniere a seconda dell'intensità e della qualità delle sensazioni. Per questo scopo vengono praticate gradualmente differenti maniere per osservare il corpo sempre più completamente e profondamente, con una continuità di pratica. L'osservazione ininterrotta delle sensazioni corporee permette di fare l'esperienza diretta che l'organismo è un insieme di fenomeni in continuo mutamento, un succedersi di fenomeni energetici, che durano periodi di tempo molto brevi e che interagiscono a frequenze e velocità elevatissime. Al momento opportuno, il praticante focalizza tutta la sua attenzione dentro di sé, con spirito indagatore, per esaminare punto per punto e sentire la radiazione, la vibrazione e l'attrito provocati dal rapido movimento rotatorio di un numero infinito di particelle (dette kalapa). Il corpo umano, per così dire, è la somma di innumerevoli milioni di milioni di particelle che collassano e si riformano continuamente. Il corpo umano non è altro che energia, condizionata dalla forza dei nostri atti, parole o pensieri. Il fattore radiazione (tejo), predominante in una particella determina una sensazione di bruciore, propagantesi in ogni parte del corpo; l'incessante rinnovarsi delle particelle estinte, dovuto alla continua immissione di valori alimentari crea la vibrazione; il collassare e il rinnovarsi di queste particelle individualmente e collettivamente causa l'attrito. Sulla scorta di tali esperienze interiori, i buddhisti della scuola realista (vaibhasika) e una parte dei buddhisti seguaci delle scritture (sautrantika) conclusero che le particelle esperite erano le più piccole particelle di materia esistenti e che esse non fossero ulteriormente divisibili, da un punto di vista spaziale. Non furono invece di questo parere molti altri buddhisti e cioè l'altra metà degli studiosi delle scritture (sautrantika), gli idealisti (vijnavadin) e i seguaci della via di mezzo (madhyamika). Un esponente di quest'ultima scuola, Aryadeva, obietta, tra l'altro, che percepire un oggetto significa distinguere le sue parti le une dalle altre. Pertanto, un'ipotetica particella priva di parti non potrebbe essere percepita neppure da un asceta. Da parte nostra, non abbiamo nessuna difficoltà a credere ai risultati del training surriportato, del resto facilmente riproducibile. Tuttavia nulla garantisce all'asceta che non esistano particelle più elementari rispetto a quelle che egli riesce a percepire; infatti egli non può escludere che, approfondendo ulteriormente la cenestesi, non si possano percepire particelle ancora più piccole. Ci sembra molto probabile (per le loro caratteristiche) che i kalapa corrispondano alle molecole, piuttosto che a particelle indivisibili. Si può concludere che nessun metodo empirico, nè quello esteriore degli scienziati, nè quello interiore degli asceti può portare a qualcosa di conclusivo riguardo al problema dell'esistenza o meno di particelle ultime materiali, giacchè non si può mai essere certi che le particelle esperite siano necessariamente non ulteriormente divisibili. Non rimane che accertarsi, e lo faremo nel seguito, se il "foro competente" a dare un giudizio valido sulla questione non sia, per caso, il "tribunale della ragione". b3) L'Approccio Razionale al Problema delle "Partes Minimae" Affrontando il problema da un punto di vista logico, taluni dei filosofi induisti o buddhisti, appartenenti alle già citate scuole favorevoli all'atomismo, ritennero necessaria l'esistenza degli indivisibili per evitare un regressus (o progressus) ad infinitum nella scomposizione delle sostanze. Ciò equivale a ritenere che un regressus o progressus ad infinitum non sia, in generale, un

procedimento possibile o lecito. Ma è veramente così? Bertrand Russel, ne "I principi della matematica", ha dimostrato che un regresso infinito può essere di due generi: uno illecito ed uno perfettamente lecito. Il regresso illecito si ha comunemente nelle definizioni circolari. Il regresso lecito è invece abitualmente usato in matematica. Ce ne serviamo, ad es., per costruire la sequenza dei numeri interi, che si ottiene aggiungendo una unità al numero precedente, a partire da uno : 1 ; 1+1=2;2+1=3 ; 3+1=4; 4+1=5 e così via ad infinitum. Ce ne serviamo anche per dividere un qualsiasi numero in frazioni sempre più piccole : 1; 1:2=1/2; 1/2:2=1/4; 1/4:2=1/8; 1/8:2=1/16 e così via ad infinitum. E ammettiamo che anche gli enti geometrici estesi, ad es. una retta o un segmento, si possano suddividere all'infinito. Non esiste perciò motivo per cui le sostanze materiali, che sono dotate anch'esse di estensione, non possano essere suddivise all'infinito. I filosofi che si servirono di tale argomento filosofico per dimostrare l'esistenza di particelle indivisibili, caddero in un errore che in filosofia si chiama petizione di principio e consiste nell'assumere a priori come evidente proprio ciò che occorrerebbe invece dimostrare. Dovendo essi dimostrare che un oggetto non si poteva suddividere all'infinito, dissero che ciò non era possibile perchè tale procedimento era un regressus ad infinitum; il che è praticamente come dire : "un oggetto non, si può suddividere all'infinito, perchè ... un oggetto non si può suddividere all'infinito"! Le posizioni dei filosofi atomisti vennero confutate, in via definitiva, nel VIII sec. da Santaraksita e Kamalasila, appartenenti alla scuola buddhista della "Via di Mezzo" (Madyamika). Tali obiezioni, che sono assai simili a quelle del loro contemporaneo vedantino Shankara, si possono riassumere come segue. Tra i filosofi sostenitori dell'esistenza di particelle indivisibili, alcuni concepiscono tali particelle come spazialmente estese (ad es. i naiyayika più antichi), altri come inestese (ad es. i nayayika più recenti) ed è evidente che tertium non datur. Esaminiamo per prima l'ipotesi che siano spazialmente estese. Ciò è impossibile già per il fatto che una estensione, per quanto piccola, è sempre suscettibile di frazionamento: come può essere, ad es. che tali particelle non abbiano una parte centrale ed una periferica? e, rispetto ad un opportuno sistema di riferimento, una parte destra e una sinistra, una parte alta e una bassa, una parte anteriore ed una posteriore? Ma ammettiamo pure momentaneamente, per assurdo, che sia così e chiediamoci : "Come potrebbero combinarsi tra loro?". Non potrebbero combinarsi attraverso un contatto parziale, perchè ciò indicherebbe, contraddittoriamente, che sono formate da parti. Non potrebbero neppure combinarsi totalmente, perchè allora, per quante particelle fossero tra loro combinate, esse occuperebbero sempre lo spazio di una sola particella e non potrebbero mai dare luogo agli oggetti macroscopici. Esaminiamo poi l'ipotesi che siano spazialmente inestese. Innanzi tutto è ben difficile che qualcosa di inesteso possa considerarsi corporeo (materiale) e perciò si dovrebbe ammettere che ciò che è corporeo è formato da entità incorporee. Inoltre, una combinazione di elementi inestesi non può mai costituire un corpo esteso, proprio come una somma di zeri non può mai dare per risultato un numero diverso da zero. Se si obietta che eppure taluni ammettono che una sequenza di punti inestesi formino una retta, basterà rilevare, come fece anche Leibniz, che suddividendo una retta non si ottengono mai punti inestesi, bensì dei segmenti piccoli a piacere ma mai nulli, dei quali quelli che chiamiamo "punti" non sono che le estremità. Si deve concludere che non possono esistere particelle indivisibili e che pertanto tutti gli oggetti materiali e le loro parti, per quanto piccole, sono degli aggregati e come tali, in base a quanto già detto all'inizio, non sono entità esistenti autonomamente. Secoli più tardi, nella Critica della Ragion Pura, E. Kant classificò il problema degli indivisibili tra le "antinomie della ragione pura" e ne diede, pur con altra terminologia, una soluzione analoga a quella di Santaraksita, Kamalasila e Shankara. Non deve stupire che il problema in questione abbia una soluzione razionale e non abbia invece una soluzione sperimentale esteriore o interiore. La sperimentazione, infatti, non può che procedere ad infinitum, proprio come la scomposizione delle sostanze che studia. Poichè invece la credenza negli indivisibili è una fallacia puramente logica, essa ha una soluzione altrettanto logica.

b4) Dibattito Tullio Quasimodo: Ritengo che la confutazione della teoria degli indivisibili, che era ben nota soprattutto nella forma kantiana, sia stato spesso passata sotto silenzio nel secolo scorso, perchè minava dalle fondamenta le pretese del materialismo. Senza gli indivisibili viene infatti a mancare a tutta la materia quel che Ea ha chiamato "esistenza autonoma" e perciò essa va a dipendere inevitabilmente da qualcos'altro. EA: A volte Kant è stato semplicemente (ed involontariamente) equivocato. Ne è un esempio quanto ha scritto, qualche tempo fa, Piergiorgio Odifreddi, nel saggio "Il Teorema di Gödel e l'Intelligenza Artificiale" (http://www.vialattea.net/odifreddi/godelia.htm): "Egli [Kant] mostrò, mediante quattro antinomie, che le idee trascendentali sono contraddittorie, e ne dedusse la seguente conclusione: se si richiede completezza dalla ragione, permettendo la considerazione di idee 'al limite', si cade nell'inconsistenza. In particolare, le idee trascendentali sono le colonne d'Ercole dell'intelletto, e chi pretenda di oltrepassarle è destinato ad annegare nella contraddizione. La conclusione di Kant si può riformulare dicendo che se la ragione vuole essere consistente, non può essere completa (nel senso di poter decidere ogni problema che essa si ponga)". E' evidente che Odifreddi, leggendo la Critica della Ragion Pura, si è fermato alla I parte della Dialettica Trascendentale, dove Kant si limita a presentare le antinomie senza risolverle. Se avesse portato la sua attenzione anche sulle sezioni 6-9 del II capitolo, si sarebbe accorto che Kant, invece, prosegue nella sua argomentazione, fino ad una "Soluzione critica del conflitto cosmologico della ragione con sé stessa". Tullio Quasimodo: Autori come Nietzsche, Jaspers, Abbagnano ed Evola hanno fatto notare come spesso le teorie filosofiche abbiano delle basi irrazionali. Nel caso del materialismo del secolo scorso, i moventi irrazionali sono stati soprattutto il desiderio di combattere l'arroganza di preti e capitalisti. Una forma di atteggiamento sadomasochistico in cui si sminuiscono tutti gli uomini (e se stessi) per colpire alcune categorie. Un po' come fece Sansone quando sacrificò se stesso, pur di vendicarsi dei Filistei. Oltre all'ovvio difetto di sminuire gli uomini, il materialismo non è affatto riuscito nel suo intento: di preti arroganti ce ne sono ancora (e non solo nel cristianesimo) e i capitalisti hanno trovato nel materialismo una scusa ulteriore per il proprio egoismo. La cosa più buffa è che il materialismo ha dato luogo ad un mucchio di quelli che Evola definirebbe "filosofi da salotto". Immaginatevi un materialista che torna a casa e trova la moglie in amplesso con un altro uomo. Cosa fa? - "Come minimo si incazza" - direte voi. Proprio così, cioè si comporterà come se la moglie e l'altro uomo fossero dotati ... di libero arbitrio! Dovrebbe invece dire a se stesso: "Mia moglie e quell'uomo son fatti di materia, dunque il loro sistema nervoso è soggetto a leggi deterministiche o probabilistiche, contro le quali, in ogni caso, essi non possono nulla. Dunque son esenti da ogni colpa". E dovrebbe ... richiudere gentilmente la porta. Sadescan: Altrettanto buffa (o triste?) è la risposta che il materialista dovrebbe dare per giustificare la sua "incazzatura": "Anch'io ho un sistema nervoso soggetto a leggi deterministiche o probabilistiche che, in questa circostanza, a dispetto delle teorie filosofiche che esse inducono nella mia mente, mi hanno obbligato ... ad incazzarmi". G. Vatinno: Scusa, ma mi sa che anche lo spiritualista si incazza ma ammanterebbe la cosa di alti valori morali "traditi" non capendo, appunto, che il sesso ha una fortissima componente materialistica. Tullio Quasimodo: Forse non mi sono spiegato. Non erano in discussione le componenti del sesso (di qualunque natura esse siano) e gli eventuali valori morali connessi, ma il fatto che il materialista incazzandosi va implicitamente ad ammettere nei due fedifraghi il libero arbitrio, cosa che la sua dottrina non gli consente. Lo spiritualista, invece, ammette (di solito e in una misura variabile che qui non discuto) il libero arbitrio, perciò, ammesso che si incazzi come dici,

perlomeno non è in contraddizione con la sua dottrina. Per "filosofi da salotto" Evola intendeva infatti proprio coloro che espongono teoricamente dottrine, palesemente smentite quotidianamente dalla loro stessa vita pratica. Quello della coppia in amplesso non era che uno degli innumerevoli esempi possibili: ad es. il materialista può incazzarsi con il figlio che non ha fatto i compiti ed anche in questo caso contraddice la sua dottrina materialista (non possedendo, in base ad essa, il figlio libero arbitrio). Devo comunque confessare che mi stupisci: di evoliani ne ho conosciuti tanti, ma evoliani materialisti mai. G.Vatinno: Infatti io sono un fisico ma anche studioso di evola (sic). La cosa che non capisco e' la relazione tra materialismo e libero arbitrio. Ad esempio in meccanica quantistica esiste il "libero arbitrio" per le particelle ed in genere non e' vero che un materialista non creda nel libero arbitrio. A livello umano basta pensare alla teoria del caos. Piuttosto sono certe correnti spirituali a credere ad esempio al karma. EA: Credi dunque che per un fisico sia obbligatorio esser materialista? Tullio Quasimodo: Parlare di libero arbitrio, per le particelle, è un eufemismo semanticamente scorretto. Il principio di indeterminazione di Heisemberg costringe i fisici a parlare in termini di probabilità, anzichè di determinismo. Ma paragonare le probabilità che ha un elettrone (di trovarsi qui piuttosto che là, nel limitato spazio di un orbitale) ad una consapevole scelta umana non ha fondamento. Del resto ammesso (e non concesso!!!) che le singole particelle avessero veramente il libero arbitrio ... povero essere umano! Verrebbe a dipendere dal comportamento bizzarro di miliardi di queste particelle! Non basta che un materialista dica di credere nel libero arbitrio (nel caso dell'uomo), ma bisogna dimostrare che tale credenza è coerente con l'ipotesi materialista, tutta intrisa di leggi deterministiche o probabilistiche, anche per quanto riguarda il sistema nervoso. Nè basta mettersi in bocca parole come "caos" per risolvere la questione: infatti, le teorie del caos, come sai, sono anch'esse o deterministiche o probabilistiche. Cosa hanno a che fare con un consapevole libero arbitrio? La nozione di karma è una delle più facili a capirsi per l'uomo comune ed è perciò inevitabile che talune religioni se ne servano; tuttavia esse ammettono che il karma possa essere "sciolto" tramite l'ascesi. Dunque il karma non è affatto qualcosa di deterministico, ma è piuttosto una "abitudine dello spirito", superabile proprio con il libero arbitrio. Venvs Genitrix: In effetti, parlare di libero arbitrio, per le particelle non ha più fondamento dell'affermare che un elettrone energeticamente eccitato (come dicono abitualmente chimici e fisici) ha ... delle pulsioni sessuali! Sarebbe preferibile che gli scienziati coniassero termini nuovi, anzichè prelevare termini dal linguaggio comune ed utilizzarli con nuovo significato. Pur essendo i due significati di solito distinguibili, perchè usati in differente contesto, può infatti succedere, anche agli addetti al settore (come è capitato a Giuseppe), che si finisca ugualmente col confonderli.

C) Il problema mente-cervello Premessa di Tullio Quasimodo Inutile dire che chi segue un forum come "Gruppo di Ur" distingue ovviamente tra mente e cervello e per lui non esiste alcun problema in merito. Tuttavia, è altrettanto evidente che uno dei "cavalli di battaglia" dell'anti-tradizione e della contro-iniziazione è la pretesa di ridurre tutta l'attività mentale a quella cerebrale. Così che, probabilmente, si dà una mano alla Tradizione, esaminando le principali teorie materialistiche della mente e dimostrandone l'insufficienza.

c1) Il comportamentismo di Sadescan

Ritengo che un'analisi delle ipotesi materialiste contemporanee, relative al problema mente-cervello, sia senz'altro importante, perchè manca uno studio di tal genere, dal punto di vista del pensiero tradizionale. Possiamo iniziare dalla prima di queste ipotesi, in ordine di tempo, cioè dal cosiddetto Comportamentismo, una dottrina antitradizionale, che ha avuto un certo periodo di successo in psicologia. Tale concezione si è manifestata in due correnti: -Il comportamentismo metodologico (Watson 1925) che accetta come dati per la rielaborazione teorica i comportamenti osservabili, escludendo ogni riferimento all’introspezione e quindi a eventi interni, inosservabili esteriormente. Questa corrente professa perciò più una strategia di ricerca, che una dottrina vera e propria. -Il comportamentismo logico (Hempel 1949, Ryle 1949) il quale, facendo un passo oltre, sostiene che le asserzioni psicologiche significano (cioè stanno per) comportamenti o disposizioni al comportamento. Dire che "Giovanni ritiene che stia per piovere", per i comportamentisti logici, significa affermare che Giovanni è, ad es., "disposto" a chiudere le finestre, portare al riparo i suoi oggetti che si trovano allo scoperto e prendere con sé un ombrello nel caso decida di uscire. Rispetto al comportamentismo metodologico, quello logico ha maggiormente il carattere di "dottrina" ed è perciò quello su cui si soffermerà più a lungo la nostra analisi La prima delle obiezioni, che si possono muovere al comportamentismo, proviene ovviamente dal fatto che nega la nostra comune esperienza soggetiva quotidiana. Incredibilmente, i

comportamentisti logici pretendono di ridurre tutta la nostra vita mentale unicamente a schemi di comportamento oggettivamente osservabili, non lasciando spazio alcuno a esperienze soggettive come il sentire o il pensare. Se non conoscessimo bene il fascino maligno, pressochè ipnotico, che il materialismo esercita sui suoi accoliti, sembrerebbe incredibile che un uomo, per quanto folle, possa negare la propria esperienza introspettiva. I comportamentisti, proprio a causa della evidente assurdità delle loro teorie sono diventati i protagonisti di certe barzellette. Famosa è quella che parla di un lui e di una lei, entrambi comportamentisti, che fanno l'amore. Terminato il quale, lui dice: "Per te è stato stupendo! E per me?" Il comportamentista maschio ha infatti potuto osservare nella partner quei comportamenti ritenuti caratteristici di un atto sessuale "stupendo". Non avendo invece potuto osservare il proprio comportamento (ad es. le espressioni del suo viso) e non potendo fare appello alle proprie sensazioni introspettive, rigorosamente nulle per un comportamentista, è costretto a chiedere alla partner il risultato dell'osservazione, fatta da lei su di lui. Inutile dire che, per una persona "normale", è vero invece il contrario: le sue sensazioni gli dicono se per lui l'atto è stato stupendo e semmai il dubbio può sorgere in merito a ciò che ha provato la partner, non potendo direttamente avvertire le sensazioni interiori di lei. Il comportamentismo è un vero e proprio capovolgimento della verità. E' dunque una delle dottrine antitradizionali più grossolane, cioè più facilmente smascherabili, anche se, servendosi di personalità più o meno accreditate in certi ambienti accademici, ha avuto una non trascurabile diffusione. Oltre alla fondamentale obiezione appena vista, enunciabile da chiunque disponga anche soltanto del "senso comune", vi sono altre obiezioni più "tecniche", formulate dagli "addetti ai lavori". Le riassumo brevemente: -Nell'analisi comportamentista emerge un problema di "circolarità" (Chisholm 1957): per analizzare in termini di comportamento le "credenze" si fa riferimento ai desideri e per analizzare i desideri si fa riferimento alle credenze. Perciò non si spiega in realtà nessuno dei due. - Secondo il comportamentismo logico, è possibile (come nell'esempio visto sopra su Giovanni) tradurre gli enunciati sulla mente in enunciati sul comportamento. Molti degli enunciati risultanti da questa traduzione hanno forma ipotetica, poichè i fenomeni mentali a cui si riferiscono sono più frequentemente disposizioni al comportamento che effettivi comportamenti. I comportamentisti non sono mai stati capaci di chiarire la nozione di "disposizione", specificando in modo inequivoco quali antecedenti siano necessari, negli enunciati ipotetici, per produrre una adeguata analisi disposizionale dei termini mentali (Hampshire 1950, Geach 1957). - Il comportamentismo trascura le relazioni causali che intercorrono tra stati mentali e comportamento (Lewis 1966). Identificando ad es. il piacere con un insieme di comportamenti che manifestano gioia, il comportamentismo finisce col trascurare il fatto che il piacere è anche "causa" di certi comportamenti. Il comportamentismo metodologico può sembrare meno pericoloso di quello logico. E' vero invece il contrario: fingendo di non voler assurgere ad una vera e propria dottrina, offre il fianco a minori obiezioni. Ciò rende la sua azione più subdola, perchè è del tutto evidente, ad es., che una psicologia che, metodologicamente, decide di non tener conto dell'introspezione, taglia fuori, "ipso facto", qualsiasi considerazione delle varie forme dell'ascesi interiore, che hanno per cardine proprio la presenza mentale ai fenomeni interiori.

c2) L'identità dei tipi di Leo Dopo che Sadescan ha esaminato il comportamentismo, possiamo rivolgere la nostra attenzione a quelle successive dottrine materialiste, conosciute come "teorie dell'identità". Le principali sono due, dette rispettivamente "identità dei tipi" (type-type identity) e "identità delle occorenze" (token-token identity). Cominceremo con l'esaminare la prima in ordine temporale e

cioè l'identità dei tipi. Secondo questa teoria, sostenuta tra gli anni Cinquanta e Sessanta da Herbert Feigl e dai filosofi della cosiddetta “scuola australiana” (U. T. Place, J. J. C. Smart, D. M. Armstrong), gli stati mentali sono stati fisici del cervello. Ad es. un pensiero è un particolare stato del cervello. Ogni volta che si realizza questo stato del cervello si avrà necessariamente quel pensiero. Tutti gli stati fisici di un particolare tipo sono anche stati mentali di un particolare tipo. «La coscienza è soltanto un ulteriore stato cerebrale (…) che può essere identificato contingentemente con uno stato del cervello, [esso sarà quindi] un processo in cui una parte del cervello analizza [scans] un'altra parte del cervello. Nella percezione il cervello analizza l'ambiente. Nella consapevolezza della percezione un altro processo nel cervello analizza l'attività di analisi.» (D.M. Armstrong, A Materialist Theory of the Mind, 1968, p. 94). A differenza del comportamentismo, l'identità dei tipi ammette che possano esistere stati interni al cervello, non necessariamente correlati al comportamento. La prima smentita dell'identità dei tipi si ha già a livello sperimentale: tale identità dovrebbe infatti comportare una concomitanza temporale tra determinati tipi di eventi mentali e determinati tipi di eventi cerebrali, concomitanza che però non è mai stata rilevata. Nessun genere di ricerca neurobiologica ha mai mostrato, per esempio, un tipo specifico di processi cerebrali verificarsi costantemente in concomitanza al “credere qualcosa”, oppure allo “sperare qualcosa”, etc. Si può semmai osservare una relazione di causalità tra date alterazioni cerebrali e determinati deficit psicologici e comportamentali nel soggetto. Così, ad esempio, alla distruzione dei nuclei del rafe, della formazione reticolare alla base del cervello, corrisponde la scomparsa nel soggetto del sogno (Jouvet, 1965). Perciò Armstrong ha proposto una variante "causale" della teoria dell'identità, secondo la quale uno stato mentale ha una connessione di causa con uno stato fisico dal quale è provocato. Inutile dire che una teoria dell'identità, basata sulla causalità, è una contraddizione in termini. Infatti, dire che A causa B non implica affatto che A sia uguale a B, anzi è normalmente vero il contrario: ad es. un sasso lanciato nello stagno provoca dei cerchi concentrici nell'acqua, ma nessuno penserebbe di affermare una identità tra il lancio del sasso (la causa) e i cerchi (l'effetto). Il venir meno dell'esplicazione di certe funzioni mentali, quando viene alterata una certa parte del cervello, è del tutto simile al caso in cui, ad una persona che sta scrivendo, si rompe la punta della matita: è ovvio che egli (a meno di non prendere un'altra matita) non potrà più scrivere. Nessuno, sulla base di questa impossibilità, si sognerebbe però di identificare il soggetto (l'uomo che scrive) con il mezzo materiale (la matita), eppure è proprio ciò che fanno i seguaci dell'identità dei tipi, e i materialisti in genere, quando identificano la mente (il soggetto) con il cervello (il mezzo materiale).

c3) L'identità delle occorrenze di Leo Il "monismo anomalo", presentato da Davidson nel suo saggio “Mental Events” (1970), è una delle versioni dell’identità mente-cervello, nella forma che viene chiamata “identità delle occorrenze". Essa sostiene che tutti i pensieri sono identici a stati cerebrali, ma prevede che pensieri dello stesso tipo possano non essere stati cerebrali dello stesso tipo. Questa teoria si basa sulla distinzione tra tipo (specie) e occorrenza (esemplificazione individuale della specie): secondo Davidson, una proprietà mentale (p. es., il dolore in generale) ammette diverse realizzazioni fisiche e perciò non è identica ad una proprietà fisica determinata, ma il dolore particolare che qualcuno prova in un dato istante (l’evento psicologico o occorrenza psicologica) è identico all’evento fisico corrispondente (occorrenza fisica), ad es. l'avere Giovanni mal di denti all'istante t, è in relazione di identità con il trovarsi il cervello di Giovanni in un certo stato fisico nel medesimo istante t. Venendo meno l'identità dei tipi, non vi sono leggi di correlazione psico-fisiche rigorose (anomalìa): non c'e nessuna severa legge deterministica

per cui eventi mentali possano essere predetti e spiegati e non c’è neppure modo di ridurre il vocabolario mentale a quello fisico (anti-riduzionismo linguistico). In conclusione, il regno mentale non può essere oggetto di investigazione scientifica. Il criterio di identità proposto da Davidson è che “due eventi sono identici se hanno le stesse cause e gli stessi effetti". Come Quine ha dimostrato in "Events and Reification, "[1985] si tratta di un criterio irrimediabilmente circolare, giacchè per dire se “l’occorrenza dell’evento fisico A” ha gli stessi effetti (o cause) della “occorrenza dell’evento mentale B” (vista la non investigabilità scientifica di quest'ultimo) non vi sarebbe altro modo che sapere a priori... se le due occorrenze sono o meno identiche! In altri termini tutta l'ipotesi di Davidson non è che una petizione di principio, giacchè quell'identità tra occorrenza e occorrenza che dovrebbe venire dimostrata, non può esserlo nè empiricamente, nè logicamente. In "Reply to Quine on Events" [1985] Davidson abbandona il suo criterio di identità a favore di quello di Quine, secondo il quale due eventi sono identici se e solo se essi occupano esattamente la stessa localizzazione spazio-temporale. Ma anche in tal caso si ha una petizione di principio, perchè bisognerebbe dimostrare e non semplicemente asserire che le occorrenze mentali hanno: 1) una qualsivoglia localizzazione spazio-temporale; 2) che essa si trovi del medesimo spazio-tempo del corpo fisico; 3) e che infine tale localizzazione sia identica a quella delle corrispondenti occorrenze fisiche. Tutto ciò è ovviamente impossibile, vista la non investigabilità scientifica del mondo mentale, asserita da Davidson.

c4) Funzionalismo della Scatola Nera di Tullio Quasimodo Come già sappiamo, Watson e i comportamentisti sostengono che l’unica possibilità di rendere scientifica la psicologia sia lo studio del comportamento manifesto e che la mente non sia altro che una scatola nera (black box), non analizzabile con parametri scientifici. Per evitare l'accusa di trascurare le relazioni di causa tra stati mentali, Lewis (1) e Grice (2), hanno introdotto una variante "funzionalista" della psicologia della scatola nera. Essa asserisce che due diversi stati cerebrali sono occorrenze dello stesso tipo di stato mentale, se svolgono nella vita di un organismo la medesima funzione, cioè se e solo se hanno le stesse relazioni causali con gli stimoli che l'organismo riceve (input), con il comportamento esteriore dell'organismo stesso (output), e con gli altri stati mentali. Questa teoria cerca di evitare anche la circolarità, insita nel comportamentismo, di analizzare le credenze in termini di desideri e i desideri in termini di credenze. Essa sostiene ad es. che la mia credenza secondo cui la pioggia è imminente è uno stato causato in me dalla percezione del progressivo addensarsi delle nubi e del brusco aumento dell'intensità del tuono; essa sommata al mio desiderio di evitare che la casa si allaghi, fa sì che io chiuda le finestre. Poichè si possono definire le credenze nei termini delle loro relazioni causali, tali relazioni possono sostituire il termine credenza. Ad es. anziché dire "la credenza che sta per piovere, sommata al mio desiderio di evitare che la casa si allaghi, fa sì che io chiuda le finestre", posso sostituire "la credenza che sta per piovere", introducendo un quantificatore esistenziale del tipo "vi è un x tale che" e ottenendo l'enunciato: "vi è un x tale che la percezione del progressivo addensarsi delle nubi e del brusco aumento dell'intensità del tuono causa x e x, insieme al desiderio di evitare che la casa si allaghi, causa il comportamento di chiudere le finestre". In modo analogo, secondo i funzionalisti della scatola nera, si potrebbero eliminare termini come "desiderio" e "percezione", cioè ogni termine psicologico residuo, dimostrando così che gli stati mentali altro non sono che insiemi neutrali di relazioni causali e che perciò non esiste nulla di specificamente mentale. Essi ritengono così, con espedienti linguistici, di poter provare il materialismo, quasi fosse vero

che basta cambiare parole indicatrici di nostre indubitabili esperienze mentali come credenza, desiderio, percezione etc. con termini inespressivi come x, y, z, etc. per eliminare quelle esperienze mentali stesse. In realtà, nè Lewis, nè Grice, nè altri sono mai andati al di là di una semplice enunciazione di possibilità. Infatti anch'essi sanno benissimo che se adoperassero frasi infarcite di incomprensibili lettere incognite al posto di termini descriventi stati mentali, diventerebbe per loro impossibile qualsiasi attività teoretica e pratica e, molto probabilmente...verrebbero chiusi in manicomio! (1) Lewis, D. 1972: ‘Psychophysical and Theoretical Identifications’, Australasian Journal of Philosophy, 50, 249-258. Lewis, D. 1994: ‘Reduction of Mind’. In Guttenplan, S. (ed.) A Companion to the Philosophy of Mind, Oxford, Blackwell. (2) H. Paul Grice, 1975. Logic and Conversation, pages 41–58. Syntax and Semantics, Vol. 3: Speech Acts (P. Cole and J. L. Morgan, eds.). Academic Press, USA–New York (NY).

c5) La Teoria Computazionale della Mente di Leo Continuando nell'analisi del problema mente-cervello passiamo ad esaminare la cosiddetta ipotesi computazionale della mente. Secondo il "funzionalismo computazionale", la mente è un programma (un software) e il cervello è il suo hardware, e l'esecuzione di quel programma in quel hardware ha come risultato il comportamento esteriore dell'organismo. In base al cosiddetto "test di Turing", ideato dal matematico inglese Alan Mathison Turing, nello scritto Computing Machinery and Intelligence (1950), "un computer è paragonabile a un essere umano, quanto a intelligenza, se gli esseri umani non possono distinguere le prestazioni della macchina da quelle di un essere umano". Supponiamo che un esaminatore umano sia di fronte a due porte chiuse. Dietro una delle due porte c'è un uomo e dietro l'altra un computer. L'esaminatore può comunicare con ciascuno dei due attraverso una telescrivente, cioè può rivolgere una domanda attraverso la tastiera della telescrivente e ricevere la risposta allo stesso modo. All'uomo è stato detto di rispondere in modo da aiutare l'esaminatore a riconoscerlo e Turing ritiene che la strategia migliore, a questo scopo, sarebbe quella di dire in ogni caso la verità. Il computer, al contrario, è stato programmato a imitare l'essere umano, e costruirà le sue risposte con questo fine, senza preoccuparsi della loro verità. Ad es., se l'esaminatore chiedesse di operare un lungo calcolo, il computer, che potrebbe fornire la risposta in breve tempo, la differirebbe deliberatamente, per simulare tempi di calcolo umani, e introdurrebbe eventualmente qualche piccolo errore. Inoltre di fronte a una domanda del tipo "Ti piacciono le fragole alla panna?", il computer darebbe risposte false del tipo: "Sì, molto. Le mangio spesso come dolce in estate". Il problema dell'esaminatore è di decidere, sulla base delle risposte ricevute, in quale stanza sia il computer e in quale l'uomo; se non riesce a distinguere, dopo una serie di prove, il computer dall'uomo, con una certa sicurezza e continuità, allora, secondo Turing, il calcolatore è paragonabile a una mente umana. Il termine intelligenza artificiale venne coniato pochi anni dopo, nel 1956, dallo statunitense John McCarty. Circa la portata dell'I.A., si svilupparono due interpretazioni diverse: l'interpretazione forte dell'I.A. e l'interpretazione debole. Secondo l'interpretazione forte, sostenuta ad es. da Allen Newell e Herbert A. Simon, un calcolatore che superi il test di Turing, sarebbe a sua volta dotato di mente. Si tratterebbe a tutti gli effetti di una macchina pensante, esattamente come quella umana. L'interpretazione debole (sostenuta ad es. da John Searle e Hubert Dreyfus), al contrario, ritiene che un tale calcolatore sarebbe soltanto un ottimo strumento per controllare i nostri ragionamenti (per stabilire rapidamente se sono giusti o sbagliati), ma non una mente che pensa. I teorici dell'I.A. forte credono che si possano creare macchine che siano menti pensanti, in

quanto considerano il pensiero esclusivamente come una manipolazione di simboli. Invece, i teorici dell'I.A. debole ritengono che le macchine non pensino, perché il computer non è in grado di dare un significato ai simboli che connette: è un ente sintattico (cioè capace di eseguire regole formali), ma non un ente semantico (cioè in grado di comprendere il significato degli atti che compie). Secondo Searle, perciò, il computer può simulare il pensiero umano, ma non replicarlo effettivamente, in quanto è privo di coscienza e di reale capacità di comprensione. Searle, per confutare le tesi dell'I.A. forte, ha ideato anch'egli un singolare esperimento mentale: il cosiddetto "test della stanza cinese". Searle suppone che un individuo, che non sa il cinese, sia chiuso in una stanza. Alcune persone, esterne alla stanza, passano a quest'uomo dei simboli in cinese e delle regole - nella sua lingua (ad es. l'inglese) - che fanno corrispondere a certi insiemi di simboli altri insiemi di simboli. In base a queste regole, l'uomo restituisce dei nuovi ideogrammi agli individui che stanno fuori. L'uomo chiuso nella stanza ignora che i primi segni sono delle frasi in cinese e che i secondi che lui fornisce sono delle risposte appropriate a quelle frasi. Tuttavia, se segue le regole, il suo comportamento linguistico è esteriormente indistinguibile da quello di un normale parlante in cinese. Ora, nel caso descritto, non si può sostenere che l'uomo chiuso nella stanza, pur fornendo le stesse risposte che fornirebbe un cinese, conosca davvero la lingua cinese. Infatti, l'uomo in questione si limita ad eseguire delle prescrizioni che non capisce. In modo analogo, non si può dire che conosca davvero il cinese una macchina che disponga di programmi simili alle regole che l'uomo segue nella stanza del suddetto esperimento. Non è vero, perciò, come pensano i seguaci dell'I.A. forte, che "se un computer si comporta come se capisse il cinese, allora il sistema capisce davvero il cinese" (J. R. Searle, Menti cervelli e programmi. Un dibattito sull'intelligenza artificiale, CLUP-CLUEB, Milano 1984). Alle conclusioni di Searle è stato obiettato che, nell'esperimento della stanza cinese è l'intero sistema - comprendente la stanza più il suo contenuto - e non l'individuo a comprendere il cinese. A tale obiezione, Searle ha replicato che non c'è nessun modo grazie al quale il sistema nel suo complesso possa giungere alla reale comprensione degli ideogrammi cinesi. Infatti, se l'individuo che è nella stanza cinese non ha nessuna maniera di comprendere il significato dei simboli, non ce l'ha nemmeno l'intero sistema. Da parte sua, Hubert Dreyfus ha affermato, nel 1972, che alla base della I.A. forte è posto un concetto di mente del tutto erroneo, quello cioè di una mente che, come un dispositivo calcolatore, utilizza dati discreti e atomici, applicando regole precise in passi distinti. Questa mente non coincide con quella umana che è olistica, perchè coglie le parti nella totalità, e situazionale, perchè "una data situazione di un essere umano dipende dai suoi obiettivi, i quali, a loro volta, sono in funzione del corpo e dei suoi vari bisogni ... questi bisogni non vengono stabiliti una volta per sempre, ma vengono interpretati e determinati attraverso l'acculturazione". Inoltre l'intelligenza umana implica un senso comune che guida l'interpretazione del mondo. Non è perciò possibile dire che un computer dispone di un' intelligenza umana, perché tale macchina è una entità senza corpo e quindi non è in situazione, e perché è impossibile includere in essa il senso comune, che è formato da credenze non oggettivabili (H. Dreyfus, Che cosa non possono fare i computer, Armando, Roma 1998). Le difficoltà riscontrate, utilizzando una definizione forte dell'I.A., hanno in pratica determinato il crollo del funzionalismo computazionale, non essendo la mente, per i motivi visti, assimilabile ad un software.

c6) Materialismo eliminativo di Tullio Quasimodo Il punto di partenza dell’eliminativismo è la constatazione che le neuroscienze non sono in grado di dimostrare alcuna corrispondenza tra mente e cervello, del genere di quelle previste ad es dalla teoria dell' "identità dei tipi" (vedi sopra). Se non vi è identità, sostengono i materialisti eliminativi, allora "cose" come i fenomeni mentali "debbono" essere inesistenti. Verrebbe voglia

di chiudere il discorso con loro, semplicemente osservando che, dalla premessa "C non è identico a M", non si può certo inferire che "M non esiste". Ma proseguiamo ugualmente. E' possibile far propria l'ipotesi eliminativista da due punti di vista differenti, che non si escludono a vicenda, giacchè spesso uno stesso autore assume entrambi i punti di vista. L'atteggiamento più radicale dell'eliminativismo viene assunto quando si nega l'esistenza della mente e quello, apparentemente meno radicale, quando si nega la veridicità del linguaggio che ne parla (la cosiddetta "psicologia del senso comune"). Queste due prospettive, che vengono chiamate, rispettivamente, "eliminativismo verso la mente" ed "eliminativismo verso la psicologia del senso comune", possono, a loro volta, differenziarsi ciascuna in una forma più "forte" e in una più "debole". L'eliminativismo verso la mente comprende infatti la posizione "hard" di chi è eliminativista nei confronti della mente comunque concepita e quella, più "soft", di chi è eliminativista nei confronti della mente in quanto sostanza. Analogamente, l'eliminativismo verso la psicologia del senso comune comprende sia la posizione più netta di chi ritiene falsa, e destinata ad essere soppiantata, la psicologia del senso comune e quella, più debole, di chi la ritiene falsa, ma eliminabile solo in teoria e non in pratica. Analizziamo più da vicino queste varie accezioni del materialismo eliminativo: - Eliminativismo "forte" verso la mente. Questa forma del materialismo eliminativo, la più radicale fra tutte, sostiene che non esiste alcunché (né sostanze, né proprietà, né eventi) di ciò a cui ci si riferisce, quando si parla di fenomeni mentali. Questa teoria è stata in pratica ereditata dai comportamentisti radicali come John B. Watson (la posizione dei quali è già stata confutata in questo forum), i quali supposero che il comportamento non avesse cause mentali e trattarono idee e immagini mentali come ingannevoli abitudini verbali. Cadendo questa prima forma sotto le stesse crtiche rivolte al comportamentismo, oggi è più frequente la versione "debole", ma non meno problematica, che passiamo ad esaminare. - Eliminativismo "debole" verso la mente. Negare l'esistenza di una sostanza mentale non significa essere necessariamente materialisti. Anche idealisti come Fichte hanno concepito il pensare come un atto e non come una sostanza. Tali scelte filosofiche sono spesso legate al linguaggio della propria epoca. Ai tempi di Aristotele, il termine sostanza non aveva ancora quel significato di passività che aveva acquisito ai tempi di Fichte, quando era ormai, nel linguaggio abituale, identificata con la materia. Dunque Aristotele non sentì come necessario quel "distinguo", che apparve invece indispensabile a Fichte. Anche i materialisti, che aderiscono all'eliminativismo debole verso la mente, ammettono l'esistenza di processi mentali (cogitatio) ma non l'esistenza di "cose" come i fenomeni mentali (res cogitans). Avendo però un punto di vista diametralmente opposto a quello di Fichte, essi si danno praticamente la "zappa sui piedi", perchè in un ambito materialista esistono solo materia ed energia (materiale). Avendo negato (come gli eliminativisti fanno, perchè giustamente le ritengono insostenibili) le teorie dell'identità tra processi cerebrali (materiali ed energetici) e quelli mentali, questi ultimi cosa mai potrebbero essere? - Eliminativismo "forte" verso la psicologia del senso comune. La terza forma del materialismo eliminativo è stata formulata, nei primi anni Sessanta, dagli epistemologi Paul K. Feyerabend e Richard Rorty (che ha successivamente abbandonato tale posizione, a differenza di Feyerabend). Il maggior sostenitore di questa posizione, Paul M. Churchland, così la descrive: "Il materialismo eliminativo è la tesi secondo la quale la concezione che comunemente abbiamo dei fenomeni psicologici costituisce una teoria radicalmente falsa - una teoria così manchevole che sia i suoi princìpi sia la sua ontologia finiranno per essere soppiantati, invece di essere progressivamente ridotti, una volta che le neuroscienze saranno state completamente sviluppate. La nostra reciproca comprensione e perfino la nostra introspezione potranno allora esser ricostituite all'interno della cornice concettuale delle neuroscienze, ovvero di una teoria che, secondo quanto possiamo attenderci, sarà di gran lunga più potente della psicologia del senso comune che verrà a sostituire e, in generale, più sostanzialmente integrata con la scienza fisica". [Churchland, Paul.1981. "Eliminative Materialism and the propositional Attitudes", Journal of Philosophy 78). Il nucleo della psicologia del senso comune, così come viene pensata e attaccata da

Churchland, è costituito da quelli che Bertrand Russell chiamava "atteggiamenti proposizionali". Ne sono esempi: "credere che x", "sperare che y", "sapere che z", ecc., dove x, y, z rappresentano una proposizione. Dalla possibilità che la psicologia del senso comune sia radicalmente falsa, i materialisti eliminativi credono, di solito, di poter inferire la correttezza dell'atteggiamento eliminativo verso la mente in senso "forte" o "debole". L'assurdità di questa inferenza è stata messa in evidenza da Searle (Searle J. R., The Rediscovery of the Mind, Mit Press, Cambridge Mass. 1992). Dire che credenze, desideri, speranze, paure ecc. non esistono perchè la descrizione della realtà, fornita da un'ipotetica perfetta neurobiologia futura, potrebbe soppiantare quella della psicologia del senso comune è più o meno come dire che non esistono case alberi e montagne, sol perchè la descrizione della realtà, fornita dall'attuale fisica quantistica, ha soppiantato quella della fisica antica. Inutile dire poi che quel che Churchland psicologia del senso comune è perlomeno basata sull'innegabile esperienza diretta di milioni di persone di ogni epoca e non sulle personali fantasie di qualche studioso materialista. Al contrario, i seguaci della psicologia popolare potrebbero ribattere a Churchland e compari che uno che nega credenze, desideri, afflizioni ecc. non può che essere pazzo e chiedere (anche in Italia) l'immediata riapertura dei manicomi. - Eliminativismo "debole" verso la psicologia del senso comune. La quarta versione del materialismo eliminativista è una versione attenuata di quella di Churchland. Si tratta della tesi, anch'essa implausibile per Searle, secondo cui: "espressioni come «credenza», «desiderio», «paura», «speranza», ecc. andrebbero intese come semplici espedienti verbali, privi di qualunque riferimento a fenomeni mentali intrinseci. Una terminologia siffatta può essere utile per spiegare il comportamento e formulare delle previsioni sul medesimo, ma non va presa alla lettera come se ci si riferisse a fenomeni mentali reali, intrinseci e soggettivi. Coloro che aderiscono a questo punto di vista ritengono che la scelta di utilizzare la terminologia del senso comune dipenda dall'«atteggiamento intenzionale» che si assume nei confronti di un certo sistema" (Searle, cit.1992). Daniel Dennett, che chiama "atteggiamento intenzionale" l'atteggiamento di chiunque usi la psicologia del senso comune per prevedere il comportamento di qualcosa (persona, animale, computer etc), è il rappresentante di una versione "molto debole" di questa posizione. Egli infatti precisa: la "decisione di adottare questa strategia è pragmatica, non è intrinsecamente giusta o sbagliata" (Dennett D., "Intentional Systems", in Brainstorms, MIT Press, Cambridge MA, 1971). A chi dà per scontato che una descrizione in termini neurobiologici dell'attività mentale sia più vera di una basata sull'introspezione, sono da ricordare le profetiche parole di Leibniz: "Inoltre, dobbiamo confessare che la percezione e ciò che da essa dipende non è spiegabile in termini di ragioni meccaniche, vale a dire attraverso forme e movimenti. Immaginiamo che esista una macchina le cui strutture consentano ad essa di pensare, sentire e avere percezioni; potremmo pensare di ingrandirla, mantenendone le proporzioni, in modo da poterci entrare dentro, come si entra in un mulino. Così, se ne ispezioniamo l'interno, troveremo solo parti che spingono l'una l'altra, e non troveremo mai qualcosa che possa chiarire una percezione. E così noi cercheremo la percezione nella sostanza pura, e non nella composta, o in principi meccanici" (G.W. Leibniz, Monadologia, 1714).

c7) Il connessionismo di Leo Ritornando a Churchland, del quale ha parlato Tullio, egli rifiuta il modello computazionale della mente, caratterizzato dal funzionamento seriale che abbiamo evidenziato nello scorso mesaggio e propone invece un paradigma basato sul connessionismo (reti neurali), che rappresenterebbe secondo lui più adeguatamente il modo di operare del cervello (esecuzione di

più compiti in parallelo). Crollato infatti il paradigma dell'I.A. "forte", legato al funzionalismo computazionale, un gruppo di studiosi, tra i quali D.E. Rumelhart e Mc Clelland (1986), rilevarono che è troppo profonda la differenza tra le architetture cognitive del cervello umano e quelle del calcolatore classico e sentirono l'esigenza di ideare sistemi nuovi, detti "connessionisti", che mirano a ricreare l'intelligenza attraverso le reti neurali. Queste sono un complesso di "nodi" collegati tra loro da connessioni, che trasmettono attivazione o inibizione da un nodo a un altro. Si cerca, cioè, di ricostruire, con strumenti informatici, la fitta rete di sinapsi che legano fra loro i neuroni cerebrali. Un aspetto caratterizzante delle reti neurali è che in esse la conoscenza necessaria a svolgere un dato compito non è rappresentata da simboli distinti che vengono trasformati in base a regole, ma è diffusa tra tutti i nodi della rete che concorrono ad elaborala. Per questo motivo, la conoscenza insita in una rete neurale e la sua elaborazione sono dette "subsimboliche". Secondo i connessionisti, i processi cognitivi, fra i quali il pensiero, non sarebbero il prodotto di processi computazionali simbolici, ma emergerebbero dal comportamento complessivo di moltissime unità subsimboliche che, prese singolarmente, non potrebbero generarli. Nonostante gli iniziali entusiasmi, quando si è tentato di applicare le reti neurali alla riproduzione artificiale delle facoltà cognitive superiori, i sistemi connessionisti hanno rivelato non pochi limiti e finora nessuno è stato in grado di dimostrare come dal concorrere di moltissimi processi di elaborazione paralleli e subsimbolici possa effettivamente emergere ad es. la competenza linguistica o la capacità di ragionare in modo deduttivo. Inoltre connessionismo e computazionalismo, benché opposti nella procedura di analisi della mente, hanno tuttavia alcuni limiti in comune: in particolare l'idea di una mente limitata ad un'attività essenzialmente teoretica e di calcolo (come quella ipotetica di un giocatore di scacchi che riuscisse ad isolarsi dal suo ambiente) e perciò ben diversa dalla mente reale, che interagisce costantemente con un corpo ed è influenzata da emozioni, sensazioni e necessità di adattamento istantaneo ad un ambiente dinamico. E' propria questa l'obiezione più comune che viene rivolta al connessionismo, sin quasi dal suo primo apparire. Non si può poi non notare come, a dispetto della pretesa di Churchland di sostituire interamente la psicologia del senso comune, i connessionisti non possano, invece, minimamente far a meno di essa, essendo l'unico termine effettivo di confronto con cui validare i loro risultati, che rimarrebbero altrimenti campati per aria.

c8) Il Materialismo Camuffato di Tullio Quasimodo Il caso di John Searle è assai singolare. Egli, proprio come noi, è critico nei confronti delle varie forme che ha assunto il materialismo contemporaneo. Tuttavia la "pars costruens" della sua teoria non è meno incredibile delle teorie che egli critica. Searle (1), ritiene che l’apparato dottrinale filosofico di matrice cartesiana, con attaccamento a categorie e terminologie classiche, sia responsabile della postulata opposizione tra fisico e mentale, tra corpo e mente. Ed ha perciò effettuato un tentativo per trovare una sorta di "compromesso" tra il dualismo in senso forte ed il riduzionismo materialistico. Secondo Searle la coscienza è un aspetto biologico del cervello: è prodotta dai processi cerebrali ma non può essere ridotta a questi processi perché è un "fenomeno in prima persona" mentre i processi cerebrali sono "fenomeni in terza persona". Paragona il problema mente-corpo al modo in cui l'elettricità scaturisce dagli elettroni, ma - precisa - mentre i fisici possono spiegare come le caratteristiche dell'elettricità corrispondano alle caratteristiche degli elettroni, noi non possiamo spiegare come le caratteristiche della coscienza emergano dalle caratteristiche dei neuroni. La relazione fra gli stati mentali e gli stati cerebrali sarebbe, secondo Searle, causale in entrambe le direzioni; egli chiama questa relazione fra cervello e coscienza "non-event causation". E’ evidente che questo tipo di posizione ripropone gli stessi problemi delle teorie classiche del materialismo, perché assume comunque l’esistenza di una coscienza materiale dalle proprietà

"misteriose", "emergente" dall'attività cerebrale, ma non deducibile dallo studio del sistema nervoso: troppo comodo attribuire alla materia attività spirituali e poi, ben sapendo di non poterle spiegare, cavarsela dicendo appunto che sono, per loro natura, inspiegabili! (1) Searle J.R.: La riscoperta della mente (The rediscovery of the mmd, MIT, 1992) Bollati Boringhieri, Torino, 1994.

c9) Dibattito Venvs Genitrix: In pratica John Searle non ha fatto che riproporre una teoria già enunciata, circa un decennio prima, dal neurofisiologo Roger Sperry, secondo il quale: "la coscienza è collegata con la materia cerebrale ma non è ad essa riducibile". (1) Sperry ha anche introdotto il concetto di causalità top-down ("dall'alto verso il basso"), cioè una causalità del tutto sulle parti, che egli riteneva intervenisse nelle interrelazioni causali che intercorrono tra mente e cervello. L’idea della causalità top-down è stata successivamente adottata da un certo numero di altri autori, tra cui lo stesso Searle, che però ammette contemporaneamente anche una causalità inversa down-top. Che, nonostante certe premesse, anche la posizione di Sperry non sia che una forma di materialismo è confermato da quanto egli dice sul libero arbitrio, tentando addirittura di convincere il lettore che è meglio non averlo: "... forse, dopotutto, è meglio essere inglobati fermamente nel flusso causale delle forze cosmiche, ed esserne parte integrante piuttosto che essere fluttuanti e liberi da ogni contatto. Tutte le nostre capacità decisionali sono probabilmente predeterminate, non dipendenti da un libero arbitrio". Tarquinio Prisco: Un testo interessante, in relazione al problema mente-cervello, è "Intelligenza umana e intelligenza artificiale" (Rubbettino ed., 2002), scritto da Francesco Lerda, per molti anni professore di Teoria delle Macchine Calcolatrici, presso l'Università di Torino. Egli critica le pretese della cosiddetta Intelligenza Artificiale Forte, ma anche posizioni ambigue come quelle di Searle, Penrose e Sperry. Il suo saggio esamina il comportamento umano in vari campi: Matematica Logica, Fisica, Arte, Letteratura, Musica, Teatro, Arti figurative ecc. e, in tutti, mette a fuoco la complessità del pensiero creativo, che rende assai problematica la sua delimitazione in schemi rigidi. Da qui la sua affermazione che: "è certamente vero che diverse attività mentali umane, anche al di fuori dei calcoli numerici, sono di tipo algoritmico: ma non esiste alcun serio argomento scientifico che renda sia pur soltanto plausibile supporre che la stessa cosa valga per tutta l'attività della mente umana". Lerda si dice d'accordo con il logico russo Yuri I. Manin, secondo il quale l'algoritmo non è in grado di giustificare l'intelligenza più di quanto la biologia sia in grado di giustificare la vita. E tuttavia assurdamente "si continua a rifiutare di prendere in considerazione una realtà 'spirituale' distinta da quella materiale, in particolare una mente distinta dal cervello". E' proprio la prospettiva interazionista di una mente distinta dal cervello che Lerda fa sua, come già prima di lui Popper ed Eccles che, ne "L'io e il suo cervello" (The Self and Its Brain,1977), affermano: "l'intero mondo di eventi mentali ha una esistenza altrettanto autonoma quanto il mondo materia-energia". Tullio Quasimodo: In effetti la teoria di Roger Penrose, uno dei leaders in "General Relavitiy" , è ingannevole quanto e forse più di quelle di Searle e Sperry. Da un lato egli può sembrare quasi un platonico, perchè non solo accetta, come Eccles e Popper, la distinzione dei tre mondi degli oggetti, delle sensazioni e delle idee ma, a differenza loro, afferma che la vera realtà è il mondo delle idee, di cui gli altri due sono soltanto riflessi: una posizione invero sorprendente per chi, come vedremo è in realtà un riduzionista materialista. Penrose dice ad es.: «Quanto sono "reali" gli oggetti del mondo matematico? Da un certo punto di vista pare che in essi non possa esserci niente di reale. Gli oggetti matematici sono solo concetti; essi sono le idealizzazioni naturali dei matematici, spesso prodotte sotto lo stimolo dell'ordine apparente di certi aspetti del mondo che ci circonda, ma sono nondimeno idealizzazioni mentali. Possono essere altro che mere costruzioni arbitrarie della mente umana? Al tempo stesso, questi concetti matematici sembrano avere non di rado una profonda realtà,

del tutto sottratta alla volontà di un qualsiasi matematico. È come se il pensiero umano fosse guidato verso una qualche verità esterna eterna: una verità dotata di una realtà propria, e che è rivelata solo in parte a ciascuno di noi. [...] La matematica è invenzione o scoperta? Quando un matematico ottiene i suoi risultati sta solo producendo complesse costruzioni mentali che non hanno alcuna realtà di fatto, ma la cui potenza ed eleganza sono semplicemente sufficienti a ingannare persino i loro inventori, inducendoli a credere che queste mere costruzioni mentali siano "reali"? Oppure i matematici scoprono davvero verità già "esistenti": verità la cui esistenza è del tutto indipendente dalle attività del matematico? Io penso che a questo punto dovrebbe essere chiaro al lettore che io aderisco alla seconda concezione, almeno per quanto riguarda strutture come i numeri complessi e l'insieme di Mandelbrot» (R. Penrose, La mente nuova dell'imperatore, Milano 1998, pp. 133-136). Dunque Penrose aderisce all'assunto che esista un mondo di stati di coscienza e che la mente possa accedere a tale mondo. Ma il suo mondo delle idee, a differenza di quello platonico, è un mondo meramente fisico: le informazioni pre-coscienti (protoconscious) sarebbero codificate nella geometria spazio-temporale all'interno della scala di Planck (1), e la nostra mente avrebbe accesso ad esse (cioè diverrebbe cosciente) quando un particolare processo quantistico, che ora discuteremo, avviene nel nostro cervello. (1) In fisica, la scala di Planck è la scala di riferimento che definisce il limite di applicabilità delle leggi fisiche attuali (Meccanica quantistica e relatività). A differenza di Searle, il cui modello è causale-deterministico, quello di Penrose è probabilistico, perchè tenta di rifarsi alla Meccanica Quantistica. Il fisico inglese è particolarmente colpito dal fenomeno della "coerenza quantistica", cioè da quel processo fisico in cui un gran numero di particelle agisce coralmente, assumendo le caratteristiche e le qualità di una unica macro-entità e consentendo il verificarsi di fenomeni come l'emissione Laser o la Superconduttività. Un fenomeno simile - ipotizza Penrose - potrebbe avvenire anche a livello dei tubuli che formano i neuroni. L'evento cosciente nell'uomo, il passaggio cioè dallo stato di pre-coscienza allo stato di coscienza, avverrebbe al raggiungimento da parte dei tubuli dello stato di massima "eccitazione coerente". Il tempo di transizione dalla fase pre-cosciente alla fase cosciente, con la conseguente attivazione del segnale motore che consente, ad es., di muovere un arto, durerebbe circa mezzo secondo. Il susseguirsi delle transizioni dal livello minimo al livello massimo di coerenza dei tubuli, costituirebbe il "corso della coscienza", lo scorrere del tempo (Penrose Roger: Ombre della mente. Alla ricerca della coscienza, Milano, 1996). Ignazio Licata (2) ha messo in evidenza che così com'è, quella di Penrose è una teoria che non regge, proprio per la questione della coerenza quantistica, che non può conservarsi nel "rumore termico" del cervello e infatti non vi è alcuna evidenza sperimentale di quanto egli afferma. (2) Full Professor of Theoretical Physics presso l' Institute for Basic Research , Palm Harbor, Florida, USA. ed autore di "Osservando la Sfinge - La Realtà Virtuale della Fisica Quantistica", Roma, 2003 Secondo Penrose, "Perché la fisica sia in grado di contenere qualcosa di così estraneo al presente quadro scientifico come il fenomeno della coscienza, ci dobbiamo attendere un mutamento profondo - che alteri le fondamenta stesse delle nostre opinioni filosofiche sulla natura della realtà". Il candidato più probabile per produrre il cambiamento auspicato - egli afferma - sembrerebbe essere una teoria quantistica della gravità, ancora da scoprire, che potrebbe gettare nuova luce su fenomeni come la coerenza quantistica o la non località. Dunque Penrose propone una teoria priva della benchè minima evidenza sperimentale, sperando che una - tutta da venire - teoria quantistica della gravità possa supportarla. Ma che bell'esempio di metodo scientifico! Tarquinio Prisco: In effetti il materialismo è, in tutto è per tutto, una fede in un dio chiamato materia, che crea fantocci viventi, per poi divertirsi, come un bimbo capriccioso, a smembrarli dopo qualche tempo. Quel che duole è che questa fede sia attualmente una delle

più finanziate, con la scusa delle ricadute tecnologiche di certe ricerche. Ora, si può benissimo migliorare la tecnologia, senza doversi sorbire certi deliri ideologici. Preghiamo perciò i governi (tutti i governi!) di non finanziare, d'ora in avanti, i progetti di ricerca apertamente o velatamente materialisti, in misura maggiore delle altre fedi.

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