Dispensa Chir Gen

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CHIRUGIA E PATOLOGIA CHIRURGICA Avviso: il presente materiale è prodotto sulla base delle dispense degli studenti, per cui non si può considerare niente di più che un ausilio paziale allo studio, in nessun caso sostitutivo delle lezioni e del libro di testo. Si invita a segnalare errori e inesattezze ai riferimenti email sopra citati. Hackmed non è in nessun caso responsabile delle conseguenze di qualsiasi utilizzo venga fatto del presente file da parte di chiunque. Quest'opera è stata rilasciata sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA.

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CAP 1. IL DOLORE ADDOMINALE Il dolore in generale è la composizione di due tipi di percezione: la componente neurologica, che è un circuito a tre neuroni, e la componente psichica, che è l’insieme di elaborazioni che la corteccia somestesica fa per valutare l’intensità, la provenienza, la causa, la qualità di dolore. E’ sulla base di questa elaborazione che è organizzata la risposta allo stimolo lesivo. Vie del dolore Le terminazioni nervose libere formano il primo neurone della via dolorifica. Esse vanno dalla periferia al ganglio sensitivo della sostanza grigia del midollo spinale. Il secondo neurone parte da questa zona, attraversa il midollo e sale con le fibre della via spinotalamica controlaterale alla zona di arrivo del primo neurone. Il terzo neurone va dal nucleo postero laterale del talamo (zona di arrivo della via spinotalamica) fino alla corteccia somestesica. Al livello del primo neurone c’è una importante distinzione fra due tipi di afferenze dolorifiche, che in periferia sono distinte, ma che convergono invece nella sinapsi sul secondo neurone, dando così origine a fenomeni di sovrapposizione. I neuroni della sensibilità dolorifica, infatti, sono di due tipi: Neuroni del dolore viscerale: si trovano nel ganglio posteriore, e le loro fibre periferiche si dirigono alla radice posteriore, dalla quale escono dal midollo spinale. Qui esiste, vicino all’uscita dal SNC, una struttura detta ramo comunicante bianco, che mette in comunicazione le fibre nervose sensitive periferiche con i gangli del simpatico. Le fibre del dolore viscerale imboccano questo ramo e si ritrovano quindi a raggiungere i visceri con le fibre del simpatico (nervi splacnici) e in misura minore anche con le fibre del vago. Superando quindi i plessi addominali e i gangli addominali, esse raggiungono il distretto viscerale da innervare. Neuroni del dolore somatico: si trovano anch’essi nel ganglio sensitivo, ma le fibre che ne escono non imboccano il ramo comunicante bianco, bensì raggiungono la periferia e i singoli organi attraverso i fasci vascolonervosi, nel contesto dei nervi spinali che emergono dai neuromeri. I neuroni del dolore viscerale si portano a tutti i visceri parenchimatosi e ai visceri cavi dell’apparato digerente, respiratorio, genitale e urinario. Questo percorso viene fatto: - con le fibre del vago fino circa a T7 (linea toracica del dolore), e riguarda esofago, trachea, e organi del collo; - con le fibre del simpatico da T7 a S2 (linea pelvica del dolore),e riguarda polmoni, stomaco, fegato, intestino (fino al sigma), rene, uretere, fondo della vescica, fondo dell’utero, ovaie; - con le fibre del plesso parasimpatico sacrale al di sotto di S2, e riguarda testicolo, trigono vescicale, corpo e cervice dell’utero, vagina superiore, retto, uretra Gli stimoli per provocare efficacemente un dolore di tipo viscerale sono: - iperdistensione del viscere - spasmi o contrazioni - ipossia - rottura del viscere - irritanti chimici - stimo meccanico, soprattutto edema dilatante, congestione, iperemia I neuroni del dolore somatico si portano alle strutture superficiali del tronco, del capo e delle estremità, soprattutto nella cute, dove esistono numerose strutture specializzate nella ricezione di vari tipi di dolore, e nelle capsule fibrose e nelle grandi sierose. Gli stimoli efficaci sono: - pressione, trazione, compressione, taglio, frizione, puntura, ustione

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- variazioni di ph - azione di enzimi - necrosi E’ possibile indicare alcune caratteristiche distintive del dolore somatico e di quello viscerale: Dolore somatico Fibre Nervi celebrospinali e frenici Sede Superficiale Localizzazione Ben localizzato con caratteri bidimensionali (linea, punto) Qualità Trafittivo, puntorio, perforante, fulminante Intensità Massima in caso di perforazione o nevralgia Postura Varia con il variare della posizione Distribuzione Corrisponde alla sede di insorgenza dello stimolo Riflessi Rigidità muscolare riflessa

Dolore viscerale Nervi simpatici (orto e para) Profonda Diffuso, mal localizzato, con carattere tridimensionale Ottuso, sordo, compressivo Variabile Desiderio di piegarsi in due

In genere lungo la linea mediana Riflessi viscero - viscerali, come la contrazione dell’intestino a valle o a monte di una zona infiammata Manifestazioni Pallore, sudorazione, Nausea, vomito, cardialgia, ipotensione, tachicardia, shock ipoglicemia, alt. dell’equilibrio vestibolare Palpazione Aumenta il dolore e la reazione Impossibile muscolare E’ possibile che si verifichi, in una situazione clinica, il passaggio da un dolore di tipo viscerale ad un dolore di tipo somatico. Infatti si considera il dolore viscerale puro come quello che deriva da un problema organico, ad esempio dall’ulcera peptica, e il dolore misto come derivato da un fenomeno che interessa il parenchima ma che si estende alla sierosa (peritonite da ulcera perforata). Talvolta le manifestazioni dell’interessamento sieroso possono essere predominanti, ad esempio la distensione della Glissoniana nel fegato congesto. Il dolore riferito Si definisce come una sensazione dolorosa che si manifesta a distanza dalla zona dove hanno origine gli impulsi algogeni, detta zona di Head, che è localizzabile meglio del dolore di origine e spesso si accompagna ad iperestesia. In genere si tratta di un riferimentoad una struttura dello stesso metamero embrionale della zona algogena, perché avendo la stessa origine embrionale le due aree condividono la stessa innervazione (cuore e braccio, testicolo e uretere, ovaio e uretere…). Ci sono tre teorie che spiegano la patogenesi del dolore riferito: Teoria metamerica: a livello corticale, le fibre del dolore riferito fannosinapsi in maniera “divergente”, formando delle aree di innervazione sovrapposta. Questo fa si che stimoli provenienti da zone relativamente vicine dal punto di vista dell’innervazione (e quindi dello stesso metamero)

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possano influenzare anche altri neuroni vicini a livello corticale (si ricordi che in corteccia esiste la somatotopia. Teoria della convergenza: a livello periferico, esistono meno neuroni secondari che neuroni primari. Questi ultimi, portando gli stimoli dolorosi dalla periferia, fanno sinapsi in modo convergente, più di uno sullo stesso neurone, dando quindi origine a questi fenomeni di sovrapposizione. Teoria della facilitazione: a livello periferico, le stimolazioni viscerali e quelle somatiche finiscono per convergere parzialmente sugli stessi neuroni: così esiste la possibilità che la stimolazione di una fibra viscerale abbassi la soglia di un neurone deputato a portare la sensibilità somatica. Dolore addominale: caratteri generali Nell’addome si possono distinguere tre gruppi viscerali: • Innervati dalle fibre somatiche: peritoneo parietale, peritoneo che ricopre il diaframma, mesocolon, piccolo omento (nervi spinali da T5 a L1, e nervi frenici da C3 a C5) • Innervati dalle fibre viscerali: stomaco, intestino, pancreas, rene, ureteri, utero, vescica (nervi splacnici con l’ortosimpatico, nervi vaghi) • Non innervati (e non dolorabili): milza, peritoneo viscerale, grande omento. I recettori addominali della famiglia del dolore viscerale sono terminazioni libere che si approfondano nel parenchima organico. Nell’intestino essi, assieme alle fibre motorie, formano i plessi mioenterici. Il dolore viscerale tipico degli organi cavi è la colica, un dolore accessuale caratterizzato da brusche acutizzazioni e fasi alternative di remissione, che sono provocate dalla incapacità del viscere di restare contratto a lungo. I plessi nervosi viscerali sono il plesso celiaco, plesso ipogastrico, plesso pelvico, che controllano i gangli viscerali. I tronchi nervosi più importanti sono: - grande splacnico (T6 - T9, stomaco, duodeno, tenue, pancreas, colecisti) - medio splacnico (T9 - T12, duodeno, tenue, colon ascendente e trasverso, appendice, rene) - piccolo splacnico (T12 - L2, rene, colon ascendente e trasverso, tenue, uretere) Si ricordi che si parla di nervi derivati dalla catena dell’ortosimpatico, che esiste solo fra C8 e L2 - nervi vaghi (parte posteriore dello stomaco, tenue. Funzione ricettiva del dolore dubbia) I recettori del dolore somatico sono strutture specializzate, come il corpuscolo di Pacini e di Meissner, e permettono una discriminazione efficace del dolore e degli stimoli diversi. Queste fibre hanno i recettori periferici in tutte le sierose, ad eccezione del grande omento, fino a circa 2 cm dalla superficie dell’organo contenuto nel meso. Questo significa che la parte più periferica del mesentere non è mai innervata. Essendo l’innervazione del diaframma portata dai nervi frenici, la sua dolorabilità si estende a C3 - C5, nell’area di entrata di questi nervi. Perciò il dolore diaframmatico può essere riferito alla spalla. Il rilevamento del dolore addominale Ci sono molti fattori che possono influenzare e rendere confusa la localizzazione di un dolore addominale. Essi sono: • Il fatto che un organo sia innervato bilateralmente o monolateralmente, ad esempio lo stomaco e i reni. • Il possibile coinvolgimento della componente capsulare, che ha l’innervazione somatica, nel

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danno che ha origine viscerale. A questo proposito è interessante l’appendice, che se si infiamma in posizione sottoepatica, può dare una grave manifestazione dolorosa, perché interessa la glissoniana che è innervata, mentre se è coperta dal grande omento, può anche giungere a peritonite senza che si abbia una sintomatologia dolorosa importante. Le numerose possibilità patogenetiche per uno stesso dolore Affezioni di organi che proiettano nell’area addominale ma che appartengono al torace, come ad esempio le pleuriti.

Comunque, quando il dolore addominale è viscerale puro, viene avvertito di solito nella zona mediana dell’addome a tre altezze diverse, e nella parte latero - posteriore per i due reni. Quindi, si possono definire tre zone che sono aspecificamente connesse con il dolore derivante da tre gruppi principali di organi: • • •

Zona aspecifica superiore: ernia iatale, distensione gastrica da aerofagia, gastriti, duodeniti, ulcera gastrica e duodenale, compressione delle anse intestinali su colecisti, stomaco e duodeno, fasi iniziali delle colecistiti, pancreatite, appendicite. Zona aspecifica mediale: enteriti, meteorismo del tenue, infiammazioni della valvola ileocecale, appendiciti, pancreatiti. Zona aspecifica inferiore: coliti fino al sigma e al retto, affezioni della vescica, affezioni dell’utero e delle ovaie.

Il dolore addominale che origina dalla lesione di un viscere ha un andamento che è praticamente sempre uguale, e che si articola in quattro fasi. Fase del dolore viscerale puro, in cui il dolore non è localizzabile, è sordo e ottuso, cupo e oppressivo. Fase del dolore riferito, che compare in una zona precisa, la quale può manifestare anche una iperalgesia, ed è un riferimento di Head per convergenza midollare degli stimoli dolorifici. Fase del dolore misto, che si ha quando si associa al danno viscerale anche un interessamento della capsula peritoneale. A questo punto il dolore si fa ben localizzabile, con un andamento detto a “colpo di pugnale”, per la sua insorgenza brusca e acuta. Compare la reazione muscolare addominale di difesa. Fase del dolore somatico puro, che si ha quando la sierosa è interessata estesamente; la reazione di difesa addominale è estesa, imponente (addome a tavola) e il dolore si fa meno localizzabile perché l’estensione dell’interessamento è grande. Punti dolorosi addominali e segni carattistici • Segno di Blumberg, dolorabilità “da rimbalzo” durante l’interessamento peritoneale. E’ evocato dalla pressione e dal brusco rilascio della mano esploratrice • Punto cistico: Inserzione del margine laterale del m. retto sull’arcata costale destra, oppure l’intersezione della bisettrice del quadrante inferiore destro dell’addome con l’arcata costale di destra. Comparsa di dolore e arresto dell’inspirazione profonda quando si premesu questo punto in corso di colecistite (segno di Murphyi). • Punto di McBurney, o punto appendicolare, situato a metà della linea che unisce la spina iliaca antero-superiore all’ombelico • Punto di Lanz • Punto di Morris • Punto di (quell’altro dell’appendicite) • Punto Ovarico

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Segno dell’Ileopsoas: compare quando si flette la coscia sul bacino mentre questa è trattenuta dall’esaminatore, segno di una flogosi peritoneale in fossa iliaca di destra Segno dell’otturatore: quando si imprime una rotazione interna alla cosciaflessa sul tronco, compare dolore in corso di peritonite endopelvica, ma in questa condizione è molto più importante l’esplorazione rettale..

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CAP 2 LE EMORRAGIE DEL TRATTO DIGESTIVO Le emorragie dell’apparato digerente sono in genere complicazioni di altre patologie (ulcere, diverticoli, erosioni...) e si distinguono dal punto di vista clinico in due gruppi: le emorragie della porzione superiore dell’apparato digerente, e le emorragie della porzione inferiore. Si tratta comunque di una condizione grave, che indipendentemente dalla quantità del sanguinamento e della sintomatologia va considerata con la massima attenzione per la possibilità che si sviluppino sanguinamenti massivi e per l’associazioni con malattie gravi di cui spesso costituiscono una complicazione. I sintomi generali dell’emorragia digestiva sono: • Ematemesi: indica, da sola, senza melena, un grave sanguinamento della porzione prossimale del gastroenterico, maggiore di 1000 ml, avvenuta inn un tempo relativamente breve. Di colore rosso vivo, indica una emorragia probabilmente gastro-esofagea, che a causa della sua entità non ha avuto modo di essere degradata dal pH gastrico e ha disteso lo stomaco. Deve essere distinta dal vomito di sangue deglutito, come avviene nell’epistassi e nell’emottisi. • Vomito caffeano: indica un sanguinamento superiore, abbondante ma sufficientemente lento da rendere possibile la degradazione della Hb da parte del pH gastrico, che viene convertita in emetina. • Melena: indica un sanguinamento superiore, o comunque non distale al Sigma, che non è di grandi dimensioni perché una parte consistente dell’Hb ha avuto il tempo di essere degradata e dal pH gastrico, e dagli enzimi batterici intestinali. Può essere naturalmente associata al vomito e all’ematemesi, in quanto una parte di sangue viene comunque degradata e passa nel tenue. Può non aversi, e manifestarsi l’emissione di sangue rosso vivo nell’intestino, se il transito intestinale è rapido e /o se la quantità di sangue è molta. Se il sanguinamento è abbondante, si può manifestare melena anche per 3-4 giorni di seguito, e il riassorbimento di cataboliti dell’emoglobina può dare ittero, rialzo febbrile e ipokalemia. • Enterorragia: sangue commisto a feci, rosso vivo. Sanguinamento distale all’ileo, e/o transito intestinale accelerato e/o quantità abbondanti. 2.1 EMORRAGIE DELL’APPARATO DIGERENTE SUPERIORE Sono considerate tali quelle lesioni che originano prossimalmente al Treitz, e sono complicanze frequenti di patologie come: • Ulcera duodenale peptica 28.6% • Ulcera gastrica peptica 15.8% • Gastroduodenite emorragica 10,5% • Varici esofagee 9,4% • Esofagite 4,8% • S. di Mallory-Weiss 3,6% (erosioni della zona cardiale) • Carcinoma gastrico 2% (il carcinoma ha scarsa tendenza al sanguinamento) • Ulcera esofagea 0.7%  Relazione con l’ulcera peptica: Il sanguinamento non è sintomo di gravità della malattia, ma di una irritazione dell’ulcera che si è verificata. Nella maggior parte dei casi il sanguinamento non è il sintomo di esordio, e in genere riguarda come complicazione il 20% dei pazienti con ulcera. La metà di quelli che hanno un sanguinamento vanno incontro ad emorragie ulcerose ricorrenti e recidivanti, con un rischio di recidiva che è massimo circa 2 giorni dopo la terapia ed è associato a fattori come età elevata, basso tasso di Hb, evidenza all’esame endoscopico di vasi beanti nel fondo

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dell’ulcera. Le ulcere gastriche e duodenali sanguinano più o meno con la stessa frequenza, ma le duodenali sono associate ad una maggiore tendenza alla recidiva, mentre le gastriche sono associate alla possibilità di perforazione. Nella maggior parte dei casi, si ha erosione di rami delle arterie gastriche o duodenali. Clinica Le manifestazioni cliniche dipendono dalla gravità del sanguinamento oltre che dalla porzione del gastroenterico interessata. • Per modeste quantità di sangue si ha una positività del sangue occulto nelle feci • Quantità intermedie di sangue  melena, associata ad anemizzazione acuta e ipotensione. Per avere melena sono necessari almeno 100 cc di sangue nelle 24h. In genere la melena si ha qualche ora dopo il sanguinamento, ma l’ematochezia¸ossia la scarica diarroica associata a sangue, si può avere anche subito se il sanguinamento ha aumentato la peristalsi intestinale. In genere questo avviene se il sanguinamento è abbondante, oppure se l’intestino si trova in una condizione di irritabilità. In questo caso, se il transito è accelerato o se il sanguinamento è troppo abbondante, i batteri intestinali non hanno il tempo di trasformare l’emoglobina a emetina e le feci possono non essere scure come nella melena classica. • Quantità elevate di sangue  ematemesi, se la quantità di sangue è così grande da distendere lo stomaco ed innescare il processo del vomito. Questo naturalmente si accompagna ai sintomi di anemia acuta. Per queste differenze cliniche, le emorragie possono essere distinte in: - Acute gravi - Acute non gravi - Croniche con un sanguinamento di intensità progressivamente inferiore Fattori di rischio • Fumo (ulcera peptica, ipersecrezione di HCl) • Helicobacter Pylori • Età >65 anni • Patologie gastroenteriche associate • Stato di shock al ricovero • Rilievo endoscopico di sanguinamento • Emotrasfusione superiore a 5-6 unità Diagnosi Elementi anamnestici di ematemesi, melena, ematochezia, utilizzo di farmaci come aspirina e Warfarina, Cortisone. Esame obiettivo (raramente indicativo in assenza di perforazione intestinale) Esami di laboratorio: essenzialmente analisi dell’ematocrito, che permettono di valutare la quantità della perdita ematica. In genere il valore di ematocrito non è indicativo subito dopo il sanguinamento, a causa dell’emodiluizione secondaria al riassorbimento dei liquidi extracellulari. Si deve fare quindi un monitoraggio dell’ematocrito ogni 1-6 ore. In condizioni di veridicità dei dati dell’ematocrito, si ha che una perdita di un punto % indica perdita di 100 ml di sangue. Si può avere: • Iperazotemia per riassorbimento dei cataboliti intestinali e per riduzione della PFG del rene, a seguito dell’ipotensione

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Iperammonemia per gli stessi motivi, specialmente in corso di malattia epatica. Importante perché molti sanguinamenti intestinali avvengono nei cirrotici (varici, ascite e coagulopatia) dove l’accumulo di ammoniaca può far precipitare l’EPS, e si somministra in questo caso lattulosio per accelerare il transito intestinale e di diminuire il riassorbimento di cataboliti.



Esame endoscopico: rivela la natura del sanguinamento e spesso permette di incominciare una terapia, identifica lesioni di pertinenza mucosa Esame radiografico: di efficacia limitata, se eseguito assieme al pasto di bario da informazioni sullo stato della mucosa senza procedure invasive Esame angiografico: raramente si usa, perchè richiede un sanguinamento maggiore di 0,5 ml/sec, condizione molto grave; ma è utile quando ci sia un paziente negativo all’endoscopia con quadro clinico di sanguinamento gastroenterico, e si sospetta che la causa del sanguinamento sia distale all’ansa del Treitz. Si può anche usare come provvedimento terapeutico in quei pazienti inoperabili (vedi oltre)

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Terapia La terapia del sanguinamento superiore ha lo scopo di arrestarlo rapidamente, e in maniera definitiva, e si basa essenzialmente su tre tipi di presidi.

Endoscopia

Emorragia superiore

POSITIVA Terapia specifica Paziente stabile:  radiologia Recidiva emorragica  chirurgia Dopo la chirurgica, si può effettuare una seconda endoscopia di controllo

Rianimazione NEGATIVA Diagnosi Angiografia: fornisce anche alcuni presidi terapeutici, con l’embolizzazione e l’infusione di vasopressina nei vasi afferenti all’ulcera

Terapia medica: • Sondino naso-gastrico: Durante l’emergenza è possibile intervenire dapprima con l’applicazione di un sondino naso-gastrico, allo scopo di verificare prima di tutto se il sanguinamento è tuttora in corso, con lavaggi con acqua a temperatura ambiente. Il lavaggio ha anche lo scopo di ripulire lo stomaco da coaguli, alleviare il senso di nausea che potrebbe portare al vomito e ad un ulteriore danno della mucosa. Il sondino va lasciato in situ almeno 12 ore dopo la cessazione dell’emorragia, al fine di poter instaurare un trattamento di emergenza. In genere, se il sondino riporta tracce di liquido caffeano in un paziente con melena ma non ematemesi, si sospetta un sanguinamento duodenale: si deve però tenere presente che il sangue nel duodeno può comportare spasmo del piloro e quindi si può avere liquido chiaro anche in presenza di sanguinamento intestinale. Allora si tiene il sondino finché non ritorna liquido biliare, che ci indica che viene dal duodeno. Se anche allora non si reperta sangue, il sanguinamento è cessato, oppure è di competenza del tratto distale al Treitz. • Farmaci antiacidi • Farmaci coagulanti • Antagonisti H2 a dosaggio pieno • Somatostatina: inibisce la secrezione acida dello stomaco (azione sulle cellule ECL), inibisce il rilascio di istamina e pepsina, stimola la mucosecrezione gastrica, riduce il flusso ematico allo stomaco (e a tutto il distretto splacnico), aumenta l’aggregazione piastrinica, stimola la secrezione di prostaglandine che proteggono la mucosa. • Rapida reidratazione e prevenzione dell’ipovolemia: sono misure terapeutiche che devono essere prese immediatamente, prima di ogni altra considerazione. Senza esagerare nell’infusione di liquidi, perché un aumento della pressione sistemica di riempimento finisce per peggiorare

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l’ipertensione portale. Nei pazienti cirrotici in cui coesiste coagulopatia è essenziale fornire fattori della coagulazione, allo scopo di facilitare l’arresto spontaneo dell’emorragia. Farmaci che cercano di bloccare il sanguinamento attraverso la riduzione dell’irrorazione delle mucose sono vasopressina per infusione endovenosa, e somatostatina che è più specifica per l’apparato gastroenterico. Questi farmaci si associano ad una alta frequenza di risanguinamento, e possono avere molte complicazioni a livello miocardico

Un altro scopo importante della terapia medica è l’instaurazione di presidi farmacologici atti a diminuire e prevenire le recidive. Le accortezze dietetiche, l’uso di antiacidi, inibitori della secrezione (anti H2, inibitori della pompa protonica, PGE), citoprotettori e procinetici prima dei pasti, hanno lo scopo di instaurare un presidio che duri abbastanza a lungo da impedire il riformarsi dell’ulcera. Nonostante questo, le recidive sono frequenti, e spesso associate alla persistenza dell’infezione di HP, che in genere si tratta con la triplice (tetraciclina, metronidazolo e bismuto colloidale). Terapia endoscopica La terapia endoscopica si esegue a cessato sanguinamento se è possibile, oppure quando questo diminuisce di intensità. In genere, a parte le gravi emergenze che sono pertinenza della terapia chirurgica, il caso più frequente è quello di un pazienti che arriva con sangue coagulato nello stomaco e modesta quantità di liquido caffeano, segno di un sanguinamento cessato. La maggior parte dei casi di sanguinamento richiede un trattamenodiretto dal punto di vista endoscopico, per la quale la fase medica della terapia è essenzialmente preparatoria. • Terapia Sclerosante: la sclerosi per via endoscopica rimane la terapia di elezione di questa patologia. Si scende fino al luogo del sanguinamento con l’endoscopio (è una terapia che si applica anche alle ulcere), e si inietta mediante un catetere a punta sottile una delle molte sostanze sclerosanti, in genere epinefrina (0,5-1mg) in ripetute somministrazioni attorno alla varice. Il procedimento controlla il sanguinamento nel 90-95% dei casi, ma deve essere considerato come un intervento da non effettuare se il sanguinamento non è importante, e in ogni caso come misura preventiva è preferibile la legatura. • Terapia topica: compressione e adrenalina • Terapia meccanica con sondino di Sengastaken-Blackmoore (o di Liston Nachles) è un sondino particolare che ha alla sua estremità due palloncini posti in successione l’uno all’altro. Questo sondino viene inserito nello stomaco, e successivamente viene gonfiato il palloncino distale. Tirando verso l’alto si raggiunge ben presto il blocco del LES. A questo punto, il sondino viene bloccato nella posizione con il gonfiaggio dell’altro palloncino. Questo trattamento permette la compressione dell’origine del sanguinamento ma non può essere mantenuto in loco per più di due – tre giorni, per evitare la necrosi ischemica della mucosa esofagea. Il suo ruolo perciò è di emergenza nell’impossibilità di effettuare subito una terapia endoscopica, e di prevenzione delle recidive dopo di essa. • Terapia termica: non si fa quasi più. Sclerosi con calore attraverso sondini elettrici monopolari e bipolari. • Legatura delle varici, attraverso uno strumento inseribile endoscopicamente nell’esofago, che spara alla base della varice un laccio elastico, chiudendone l’afflusso sanguigno. La varice così trattata si riassorbe pian piano andando in necrosi ischemica.Lo strumento contiene sette lacci e l’ultimo è bianco, diverso dagli altri.

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Terapia chirurgica Le indicazioni al trattamento chirurgico dell’ulcera e del sanguinamento superiore sono: • Inefficacia della terapia medica • Recidiva dopo terapia endoscopica • Sanguinamento imponente e emorragia persistente • Trasfusione superiore a 5-6 unità • Età avanzata La terapia chirurgica finisce per interessare circa il 20% dei pazienti con sanguinamento (la frequenza aumenta molto fra quelli con recidive). Nel caso la terapia endoscopica sia efficace ma si registrino numerose recidive, diviene necessario ricorrere al trattamento chirurgico programmato in condizioni che siano le migliori possibili. Dal momento in cui si pongono le indicazioni alla terapia chirurgica è importante intervenire con rapidità, in quanto ogni dilazione aumenta le possibilità di complicanze e mortalità. Insistere con la terapia medica è pericoloso: le continue trasfusioni portano ad una concentrazione plasmatica e può insorgere una CID difficilmente controllabile. La terapia si effettua con Interventi conservativi e interventi demolitivi. 2.2 EMORRAGIE DELL’APPARATO DIGERENTE INFERIORE Frequentemente sono causate da: • Emorroidi • RCU • Diverticoli • Polipi rettocolici • Crohn • Carcinomi del colon-retto • Angiomi • Ragadi anali • Emorragie post operatorie • Diatesi emorragiche • Tumori del tenue • Colopatia ischemia • Coliti infettive • Rottura di aneurisma aortico Clinica • Melena: quando il sanguinamento è dei tratti più vicini al Treitz e rimane a lungo nell’intestino • Ematochezia: il sanguinamento è delle porzioni più distali (o c’è iperperistalsi)à • Rettorragia: sangue rosso vivo dall’ano, si associa a lesioni anali o rettali (ragadi o K del retto, soprattutto se associato a tenesmo e alterazioni dell’alvo) • Sangue occulto delle feci: quando si abbia sanguinamento cronico di modesta entità, di solito accompagnato da esame emocromocitometrico che indica anemia microcitica ipocromica. Di solito il sanguinamento si arresta spontaneamente con una certa facilità, e di solito non è molto intenso e grave, quindi diventa facile instaurare presidi diagnostici accurati. Diagnosi

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In corso di ematochezia è necessario visitare il paziente, raccogliere dati anamnestici ed effettuare esame colonscopico e clisma opaco. In presenza di rettorragia, bisogna valutare attentamente la causa del sanguinamento perché accanto a patologie banali come le ragadi anali, le emorroidi interne e la proctite, possono essere implicate e non raramente malattie come il tumore del colon retto. In queste condizioni il primo esame è l’esplorazione rettale da eseguire appena accertata la stabilità del paziente, che da informazioni sulla sede del sanguinamento, individua masse rettali e permette di stabilire se la sede del sanguinamento è prossimale al retto (se si riscontra sangue melanico nell’ampolla) Indagini di laboratorio: - esame emocromocitometrico - funzione renale ed epatica - coprocoltura - profilo emato-biochimico Angiografia della mesenterica: identifica raramente il sanguinamento e viene eseguita poco Scintigrafia con emazie marcate: principale tecnica per diagnosticare il sanguinamento dell’ileo, e permette di capire se è ancora in atto. 2.3 SINDROME DI MALLORY-WEISS E DI BOERHAAVE Mallory – Weiss: Questa malattia è una lesione mucosa della giunzione gastro-esofagea, profonda fino alla muscolaris mucosa esclusa. Nella maggior parte dei casi questa lesione è limitata allo stomaco e non interessa la parte esofagea della mucosa. E’ una lesione tipicamente singola (in alcuni casi però anche doppia) che viene in seguito ad episodi di vomito acuti o ripetuti con forti conati. Tipicamente, riguarda gli alcolisti . Altre occasioni in cui si può verificare questa malattia sono tutti i casi di bruschi aumenti della pressione endoaddominale come il massaggio cardiaco esterno, forti colpi di tosse. Il danno non è indotto dal vomito alimentare, ma dai forti e bruschi conati che seguono dopo di esso, che lacerano la mucosa. Questa è la principale differenza con la Boerhaave. L’ernia iatale è considerata un fattore predisponente. Solitamente, la diagnosi di questa condizione viene fatta con l’anamnesi in cui il paziente riferisce episodi di forti conati o di tosse seguiti da vomito francamente emorragico, ed è confermata, appena possibile, dall’endoscopia. Nel 90% dei casi si arresta spontaneamente il sanguinamento con l’introduzione di acqua fredda, o di soluzione fisiologica ghiacciata. Se le terapie mediche ed endoscopiche non sono sufficienti, si fa il trattamento chirurgico d’urgenza che consiste in una ampia gastrotomia estesa verso il cardias e sutura della lesione. Boerhaave: rottura a tutto spessore dell’esofago, indotta dal passaggio di vomito alimentare, e non, a differenza della Mallory Weiss, dai conati che lo seguono. La sintomatologia dolorosa si accompagna infatti immediatamente al vomito. Mallory Weiss Boerhaave I conati seguono il vomito alimentare e a dal loro Il vomito alimentare è subito seguito volta vomitoematico alimentare è subito dolore e dalIlvomito sono seguiti dal vomito ematico e dal dolore

QUADRI ENDOSCOPICI DI ALCUNE PATOLOGIE DEL COLON

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Retto Colite Ulcerosa: • Fase acuta: mucosa diffusamente congesta, edematosa, con lesioni ulcerative ricoperte da fibrina, sanguinanti spontaneamente e al tocco • Fase cronica quiescente: alterazioni del disegno australe, fino alla completa scomparsa, comparsa degli pseudopolipi infiammatori, mucosa ad aspetto granuloso. Fase cronica attiva: emorragie + psuedopolipi

Colite ischemica: Aree edematose ed emorragiche, mucosa fragile ed ulcerata, non sono presenti pseudopolipi e lesioni granulomatose come nelle IBD. Diverticoli: Mucosa congesta con presenza di materiale siero-ematico all’interno di una struttura diverticolare.

Morbo di Crohn: Difficilmente causa di sanguinamento, si hanno lesioni necrotiche, ulcere aftose lineari, a decorso serpiginoso, che non interessano la mucosa che appare edematosa ma non sanguinante. Le austra sono rigide, con aspetto polipoide ma non aggettano nel lume. Appaiono lesioni granulomatose caratteristiche.

Neoplasie benigne: Polipi peduncolati e sessili, facilmente riconoscibili ed asportabili, con assenza di aspetto infiammatorio nella maggior parte dei casi. Importante la capacità di riconoscere al loro interno la presenza di grossi vasi.

Neoplasie maligne: Aspetto polipoide, a placca rilevata, escavata al centro e sanguinante, associato a stenosi del lume da lesione francamente infiltrativa.

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Ragadi anali ed emorroidi Si distinguono quelle false e quelle vere. Le seconde sono il prolasso di emorroidi varicose che si formano nell’interno della cavità anale e scendono in basso oltre lo sfintere anale.

2.4 COMPLICANZE DELL’ULCERA PEPTICA Come si è già detto, spesso l’ulcera peptica rappresenta la causa primaria delle emorragie digestive superiori (circa il 40% dei casi). Essendo però presenti altre complicazioni importanti a carico di questa malattia, riteniamo utile inserire qui di seguito alcune informazioni su tali complicanze oltre all’emorragia. Stenosi E’ un problema abbastanza frequente, soprattutto se l’ulcera si localizza in vicinanza del piloro. Una prima fase è un processo di stenosi funzionale, sensibile alla terapia anti spastica, che si ha quando la vicinanza dell’ulcera costituisce un ostacolo meccanico al rilasciamento del piloro, che però è normale. Successivamente, c’è una stenosi organica, che si ha quando la flogosi che accompagna la lesione raggiunge l’anello e ne provoca sclerosi. Se la stenosi è modesta, essa può essere sopportata dal paziente che riesce comunque a mangiare, nonostante i sintomi di dispepsia modesta (senso di pesantezzaepigastica e distensione addominale); i sintomi seguono i periodi di remissione e acutizzazione dell’ulcera e la ricomparsa del dolore ulceroso si accompagna a vomito alimentare acido, in conseguenza di uno spasmo riflesso del piloro. Stenosi più complete si accompagnano inizialmente ad uno stato di ipertrofia della mucosa, e della muscolatura gastrica, seguite però da uno stadio di atonia e gastrectasia. Il vomito si fa sempre più frequente, e in queste condizioni inizia a manifestarsi calo ponderale e cachessia, che sono aggravate, a causa del vomito, dallo squilibrio elettrolitico e dalla disidratazione. La terapia della stenosi serrata consiste nella gastroresezione distale con gastroentroanastomosi, oppure il bypass della lesione mediante gastroenterostomia a monte della lesione stessa. Evoluzione a neoplasia L’ulcera gastrica ha una tendenza alla neoplasia di circa l’1% (in passato si era considerata una incidenza più elevata). Si ritiene che le ulcere neoplastiche originino come tali, anche se endoscopicamente possono dare l’aspetto di una lesione benigna all’inizio. Fistole Fistola gastro-digiuno-colica: frequentemente, le ulcere recidivanti possono erodere la parete del digiuno, e aprire da qui la strada per il colon, che risulta adeso al digiuno per via di processi infiammatori circostanti. Oppure si possono avere fistole dirette gastro-coliche ma sono più rare. La sintomatologia di queste complicazioni è essenzialmente la diarrea acquosa grave (anche 8-10 scariche al giorno) oppure il vomito fecaloide per reflusso del contenuto intestinale nello stomaco. Gastrite da reflusso biliare

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Reflusso del contenuto del duodeno nello stomaco si può avere dopo interventi o per malattie che alterano la motilità del piloro. La malattia, che si manifesta con dolore post prandiale in sede epigastrica, può portare a turbe della nutrizione anche gravi; in questi casi è consigliato un intervento in cui si esegue una anastomosi gastroenterica ad Y di Roux, escludendo cioè il duodeno, cosa che protegge dal reflusso biliare. Notare che nell’anastomosi a Y c’è una confluenza fra il duodeno e un tratto che connette l’esofago distale (o il moncone gastrico) al digiuno, mentre viene interrotta la connessione lo stomaco (che finisce a fondo cieco) e il duodeno (che inizia poco sopra alla inserzione del coledoco. Così è conservata la secrezione biliare, ma sono impedite le possibilità di reflusso. Complicazioni a seguito di interventi chirurgici • Sindrome post-vagotomia: l’interruzione del vago non selettiva (tronculare) induce una complessa sindrome caratterizzata da discinesia biliare, reflusso gastro-esofageo, ristagno biliare per atonia del coledoco con formazione di sabbia biliare, diminuzione della secrezione pancreatica, diarrea. E’ soprattutto la diarrea la conseguenza più frequente, che nel 10% dei casi richiede un trattamento farmacologico. • Aumento della frequenza di carcinoma gastrico nel moncone residuo: infatti in questa zona possono esserci le condizioni predisponenti alla comparsa del tumore, essendoci uno stimolo elevato alla secrezione gastrica, e le condizioni che hanno portato alla primitiva genesi dell’ulcera peptica, oltre alla frequente metaplasia intestinale.

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CAP 3 L’ADDOME ACUTO E I QUADRI CORRELATI L’addome acuto è una condizione di dolore addominale ad insorgenza acuta, accompagnato da rigidità da difesa, dolore da rimbalzo e quadri semeiologici caratteristici. Le malattie che causano questo tipo di dolore sono molteplici, e il loro riconoscimento è difficile, anche per un chirurgo esperto. Sebbene a volte la risoluzione delle patologie sia spontanea o ottenibile con il trattamento medico, più spesso è necessario ricorrere all’intervento chirurgico. In queste condizioni la precocità dell’intervento diagnostico è essenziale per la riuscita della terapia. In questa sezione si valutano gli accorgimenti diagnostici essenziali al riconoscimento di un addome acuto e soprattutto alla diagnosi differenziale fra le varie condizioni che lo provocano. 3.1 ADDOME ACUTO: LA DIAGNOSI DIFFERENZIALE La sensazione dolorosa è una reazione ad un danno tissutale che serve a rendere il soggetto cosciente del danno stesso. Fondamentalmente, esistono due tipi di sensibilità dolorosa: • Sensibilità protopatica: di origine viscerale, portata da fibre non mielinizzate C attraverso la via paleospinotalamica multisinaptica dei cordoni laterali. Non consente l’individuazione del dolore e una precisa caratterizzazione della sensazione (sede,intensità e durata). I recettori di questo tipo sono attivati specialmente da stimoli meccanici e chimici • Sensibilità epicritica: di origine tegumentaria, portata da fibre di tipo Aδ, mielinizzate di grosso calibro a trasmissione veloce, lungo la via neospinotalamica oligosinaptica dei cordoni laterali. L’individuazione del dolore è precisa, acuta, pungente. Si tratta di recettori sensibili a stimoli meccanici, termici, chimici, puntori. Come già descritto, il dolore addominale attraversa in genere tre fasi: dolore viscerale puro, dolore misto con riferimento alla zona di Head, dolore parietale. Quest’ultimo è il dolore dell’interessamento del peritoneo, cheè molto intenso e almeno inizialmente molto ben localizzato. Si associa questo a: - Arresto della peristalsi intestinale  ileo paralitico - Contrattura della parete addominale (difesa)  addome a tavola - Ipertono dei muscoli addominali peresaltazione dell’arco riflesso - Iperalgesia e dolore da rimbalzo. Anamnesi • Presentazione del sintomo: improvviso (perforazione dell’ulcera), graduale (appendicite, colecistite) • Area di insorgenza: non sempre indicativa, perché nonostante esista una topografia del dolore addominale, c’è comunque una piccola varietà di quadri clinici per una grande quantità di malattie. • Andamento temporale: dolore continuo indica ischemia o infiammazione, dolore crampiforme indica colica o spasmo di un viscere cavo • Modificazioni del sintomo: può indicare variazioni importanti del dolore, in quanto la modificazione della manifestazione indica una evoluzione che può essere anche pericolosa, come ad esempio la trasformazione di un dolore colico in uno continuo può essere un segno di sofferenza ischemica del viscere contratto. All’anamnesi si raccolgono anche informazioni importanti sui vari sintomi associati alla patologia

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addominale. Il primo fra questi è il vomito, che si accompagna alle malattie addominali molto spesso. Ci sono tre tipi di vomito: • Vomito riflesso: neurovegetativo, si ha per via delle connessioni fra vie del dolore (soprattutto viscerali) e nucleo dorsale del vago. Non si accompagna a sollievo della sintomatologia, e a seconda delle condizioni del tubo digerente può essere chiaro, alimentare o biliare • Vomito da intossicazione: ha le stesse caratteristiche e non si accompagna a conati, ma deve essere attentamente distinto attraverso l’esame delle condizioni neurologiche e i parametri ematici del paziente, oltre che con le domante appropriate. • Vomito ostruttivo: dovuto ad un ostacolo al transito digestivo, e varia qualitativamente in rapporto alla sede dell’ostruzione (gastrico, biliare o fecaloide). Si associa in genere a sollievo. • Vomito ematico: non si associa in genere ad addome acuto Vanno indagate attentamente anche le funzioni intestinali del malato, tenendo presente che non subito l’occlusione si accompagna a cessazione dell’alvo, perché le parti distali dell’intestino non variano la loro attività. L’occlusione può essere meccanica, e si accompagna a spasmi, oppure paralitica, adinamica, in presenza di peritonite. Nelle donne in età fertile, è importante chiedere la frequenza e regolarità del ciclo mestruale, e la presenza e le caratteristiche di perdite vaginali anomale, per escludere una gravidanza ectopica o altre manifestazioni ginecologiche. La febbre è un sintomo importante, che però non è assolutamente specifico, e assume importanza diversa a seconda del paziente (il bambino ha subito febbri elevate, mentre nell’anziano o nel malato di AIDS non si ha mai febbre elevata). Analisi delle condizioni generali L’espressione del paziente è di visibile sofferenza, e l’atteggiamento e la posizione danno informazioni importanti. L’irrequietezza è caratteristica del dolore colico, che viene lenito attraverso continui cambi di posizione, mentre il decubito laterale con le ginocchia flesse in posizione antalgica è caratteristico della peritonite. • Polso: tachicardia spesso frequente nelle condizioni di versamento flogistico peritoneale, per compensare l’ipovolemia, o nell’emorragia. Il polso filiforme è tipico dello shock. • Pressione arteriosa: nelle condizioni avanzate di ipovolemia c’è importante ipotensione, ma non nelle fasi iniziali. In genere c’è ipotensione ortostatica che è il primo segno dell’ipovolemia. • Frequenza respiratoria: secondaria alla diminuzione dell’escursione diaframmatica in seguito alla peritonite o alla patologia toracica. • Temperatura corporea: anche se la temperatura ascellare e normale, la differenza fra questa e quella rettale è molto importante: quando tale differenza è maggiore di un grado, risulta un sicuro indice di malattia intestinale infiammatoria. Si esegue poi l’esame obiettivo dell’addome. Una cosa importante che si ricava dall’esame palpatorio dell’addome è la valutazione dell’ipertono e della contrattura: l’ipertono si ha volontariamente in soggetti ansiosi o se la mano è fredda, o se c’è una dolorabilità viscerale. Con delicatezza, questo può essere vinto con la punta delle dita. La contrattura invece, indice di un interessamento peritoneale, non può essere in alcun modo superata. L’esplorazione rettale e vaginale possono dare informazioni preziose. L’esame rettale deve comprendere l’esplorazione digitale dell’ampolla, della prostata e delle vescichette seminali, e la dolorabilità provocata dalle pressioni sulle pareti del retto. Al termine dell’esame il dito guantato va

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osservato per vedere se ci sono residui ematici o melanici. Esami strumentali Gli esami di laboratorio devono essere sempre mirati, per non perdere tempo prezioso, a confermare una ipotesi clinica. • Esame emocromocitometrico: valuta la componente emorragica o infiammatoria della malattia (o infettiva) attraverso le variazioni della crasi ematica e dei parametri biochimici. Bisogna inoltre valutare che la discesa dell’ematocrito si apprezza solo dopo che si è avuto il ritorno del liquido ematico nel letto vascolare, e che la disidratazione di una emorragia può mascherare la perdita di Hb. • Funzione renale: la disidratazione, che è proporzionale al processo emorragico o flogistico, induce una diminuzione della PFG e quindi si può valutare, attraverso l’analisi degli indici renali, l’entità della riduzione volemica • Elettroliti: più frequente riduzione di potassio, secondaria alla diarrea o all’iperaldosteronismo dell’ipovolemia acuta. • Emogas analisi: indice della funzione respiratoria,indica una eventuale acidosi metabolica che accompagna la sepsi. • Test di gravidanza • Altri esami: indici specifici di danno tissutale come: o Bilirubina, ALP, γGT: stasi biliare o Amilasemia, lipasemia e ipocalcemia: danno pancreatico o LDH e ALP: danno ischemico intestinale La diagnostica strumentale è un'altra importante branca. Nell’addome acuto, le tecniche di diagnosi più efficaci sono quelle rapide, e quindi si prescrivono soprattutto RX addome diretta senza mezzo di contrasto (diretta addome), ed ecografia. L’esecuzione dell’RX addome viene sempre accompagnata da una diretta e una laterale del torace, per escludere cause di addome acuto extra addominali come la polmonite delle basi o la dissezione aortica. •

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RX addome: si eseguono tre proiezioni antero posteriori, due con paziente supino e una in posizione eretta (se non è possibile: laterale sx), per comprendere tutto l’addome dalla sinfisi pubica al diaframma; quella in posizione eretta è indispensabile per avere l’idea di livelli idroaerei e di gas libero. Come si dirà dopo, il quadro occlusivo intestinale è ben facilmente caratterizzabile proprio con la diretta dell’addome. Nella perforazione, l’aria fuoriuscita dall’intestino forma una caratteristica falce sotto il diaframma, dove si raccoglie. Nelle perforazioni gastroduodenali si ha meno aria che nelle perforazioni coliche. Si osservano anche calcificazioni e litiasi, e si possono avere evidenze di infiammazioni retroperitoneali. RX con mezzo di contrasto: nell’emergenza si può usare il Bario per la dimostrazione di una perforazione superiore e per individuare rapidamente il livello di una occlusione. Ecografia: rapido, innocuo ed economico, è l’esame più adatto all’emergenza chirurgica addominale. Eccezionalmente diagnostica nei confronti delle patologie biliari e pancreatiche (spesso concomitanti), utile nella diagnosi differenziale dell’appendicite, importante per il trattamento delle raccolte ascessuali (prelievo eco-guidato) TAC: essendo laborioso e costoso, è riservata a quei casi in cui non si scioglie il quesito diagnostico e il paziente è stabile. Rimane però l’esame di elezione nelle pancreatiti acute, dove è l’unico in grado di valutare efficacemente l’estensione del danno al parenchima ed è l’unico strumento utile nel follow-up. Endoscopia: non è utile nell’addome acuto, a differenza delle emorragie superiori. Unica

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indicazione è la de-torsione del volvolo del colon, come alternativa alla terapia chirurgica. Laparoscopia: strumento recente, in evoluzione, è molto usato per interventi poco invasivi. Nella chirurgia di emergenza, si hanno due principali indicazioni: o Diagnosi e terapia di una terapia trattabile per via laparoscopica, come la colecistite acuta, l’occlusione intestinale da briglia e la perforazione gastroduodenale. o Diagnosi di condizioni non chiarite con metodiche non invasive in un paziente che non può aspettare. Paracentesi: l’esame del liquido peritoneale risulta altamente indicativo in corso di emoperitoneo, chiloperitoneo, perforazione intestinale e pancreatite. L’esame colturale è utile per sepsi batteriche. Il lavaggio peritoneale, con introduzione di 500 ml di fisiologica, può essere importante per la riduzione dei falsi negativi.

Diagnosi differenziale Nella analisi delle cause che portano all’addome acuto, si deve tener conto essenzialmente di due principi: • L’associazione fra localizzazione topografica del dolore e processi che provocano il dolore in quelle aree • Le cause di peritonite acuta. Queste possono essere molte, e si deve conoscere anche quella rara possibilità di una infiammazione spontanea del peritoneo, senza flogosi di organi vicini o contaminazione da parte di ferite penetranti. L’estensione della peritonite da un focolaio infiammatorio circostante si realizza gradualmente, mentre la perforazione di un viscere cavo di solito insorge bruscamente, a meno che si tratti di un processo che segue la formazione di aderenze, in grado di contenere, inizialmente, la fuoriuscita del liquido. Falso addome acuto: condizione in cui si ha un quadro addominale da emergenza chirurgica, ma che si risolve con il trattamento medico. Di solito non c’è una difesa addominale, un ileo paralitico, e i reperti obiettivi sono più sfumati. Sono cause come la pleurite, le coliti, le patologie urologiche, alcune nevralgie, il tabe dorsale, crisi di anemia falciforme, eccetra. Nelle tabelle in appendice ci sono le cause di peritonite e i criteri topografici per la classificazione del dolore. Terapia Si deve scegliere fra terapie chirurgiche e terapie conservative. In genere si aspetta, con il paziente sotto stretta osservazione, finché le condizioni cliniche sono indicative. In altri casi, l’urgenza è così ovvia che il paziente viene portato subito in sala operatoria (emoperitoneo, peritonite diffusa). L’attesa è giustificata dal fatto che i processi flogistici viscerali vengono poi a trasformarsi in processi parietali, di miglior definizione e di più facile comprensione. 3.2 L’OCCLUSIONE INTESTINALE L’arresto del transito intestinale per motivi fisici viene detto ileo. Quando questo è provocato dalla paralisi della muscolatura intestinale è detto paralitico o adinamico, quando viene causato da un ostacolo meccanico è detto appunto meccanico. La causa fisica di occlusione può essere intraintestinale, parietale o extra intestinale, e provocare una occlusione completa, o parziale (con alternanza di episodi acuti, condizione detta subocclusione ). Nella meccanica, si può avere la compromissione ischemica dell’ansa interessata (occlusione con strangolamento). In genere le occlusioni riguardano il tenue (70% dei casi) e sono dovute a briglie aderenziali post operatorie, oppure a ernie. Le occlusioni del colon si devono invece più spesso a neoplasie maligne, riguardano gli anziani e ovviamente hanno la massima mortalità.

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ILEO MECCANICO Durante l’occlusione, si alterano significativamente: - i gas intestinali - i liquidi e gli elettroliti - la flora microbica In condizioni normali il tubo digerente contiene 100 ml di gas, in gran parte CO2 prodotta dalla neutralizzazione dell’acido cloridrico ad opera del secreto pancreatico e biliare. Essa viene espulsa per via rettale come tutti sanno e in parte riassorbita per evitare una eccessiva distensione del lume intestinale. Circa 7-10 litri di liquidi transitano quotidianamente, e vengono riassorbiti fino a lasciare non più di 200 ml di liquidi nelle feci. Patogenesi In condizioni di occlusione, la quantità di gas nel tratto a monte aumenta fin dall’inizio, per l’accumulo dei gas ingeriti. Questo è aggravato successivamente, specie in alcune forme di occlusione, dall’aumento vertiginoso dei batteri e del gas da loro prodotto. Inoltre, la distensione del viscere è sostenuta da un enorme accumulo di liquidi, che può raggiungere anche la metà del comparto extravascolare (circa 20 litri) dovuto ad un arresto del riassorbimento vasale e ad un aumento della secrezione dai capillari. Questo siverifica perché la distensione della parete aumenta la trasudazione di liquidi, in un circolo vizioso. Una certa quantità di liquido diffonde dalla parete intestinale e si raccoglie libera nella cavità peritoneale. Anche la flora batterica aumenta enormemente, e subisce variazioni qualitative: nella zona a monte dell’occlusione la flora diventa di tipo fecale, con un grande aumento degli anaerobi, soprattutto nelle occlusioni coliche (cosa che rende ragione di una maggior mortalità di queste). Queste variazioni non sono pericolose né significative finché rimangono confinate entro una parete intestinale integra; quando però si verifica uno strangolamento dell’ansa, si ha un infarcimento emorragico, con perdita di sangue e stravaso di tossine batteriche e batteri stessi dal lume alla cavità peritoneale. L’emorragia infartuale porta a necrosi la mucosa e poi tutta la parete, e si ha, anche per via della pressione accumulata all’interno dell’ansa, una franca perforazione intestinale. Questo evento comporta la diffusione nella cavità peritoneale di un liquido tossico di colore fetido, con una peritonite settica gravissima. Oltre a questo, in condizioni in cui non si ha la rottura dell’ansa intestinale ma soltanto occlusione, si ha una traslocazione di batteri nei linfonodi mesenterici, e da qui si può sviluppare successivamente una sepsi, evento molto più comune nell’occlusione con traslocazione che nell’occlusione semplice. La traslocazione riguarda sia gram+ che gram-, questi ultimi in misura maggiore quanto più distale è l’occlusione. In corso di occlusione intestinale, si verificano inoltre molte alterazioni della perfusione ematica all’intestino. Verosimilmente come conseguenza dell’attività eccezionale alla quale è sottoposta, la muscolare riceve molto più sangue della mucosa. Inoltre il tratto prossimale all’occlusione riceve molto più sangue di quello distale. La motilità subisce anche delle alterazioni. Nelle primefasi la dilatazione a monte dell’occlusione porta ad un aumento della peristalsi, che si fa poi disordinata e afinalistica. Infine, essa cessa del tutto, e la paralisi che ne consegue può essere un elemento di difficoltà nella diagnosi differenziale fra ileo paralitico e ileo meccanico. Anche dopo la rimozione dell’ostruzione, il tratto a monte resta paralizzato per un certo periodo di

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tempo, proporzionale alla durata dell’ostruzione stessa Altre condizioni sono la riduzione dell’assorbimento della vitamina K che si realizza nelle occlusioni prossimali per l’interruzione del circolo enteroepatico dei sali biliari, nelle distali per la crescita batterica eccessiva, e le alterazioni cardiorespiratorie. Clinica I vari sintomi si manifestano a seconda del tipo di occlusione che si verifica, dando dei quadri clinici di sommazione anche molto differenti fra di loro. • Alvo chiuso: (a feci e a gas). Si manifesta nell’occlusione completa, specie se distale, perché in quella prossimale si può avere il transito di materiale distale all’occlusione. Nella stenosi non occlusiva invece può essere ancora possibile il passaggio di materiale semiliquido, e allora l’alvo sarà diarroico, tipicamente alternati a periodi di stipsi. • Vomito: tanto più precoce, costante e abbondante quanto l’occlusione è alta, comunque sopra all’ileo. Vomito tipicamente biliare, la sua emissione può essere efficacemente decompressiva. In genere non si ha mai nell’occlusione colica almeno fino a quando la pressione agisce in via retrograda sulla valvola rendendola incontinente. • Dolore: cambia caratteristiche a seconda della sede dell’occlusione: o Pilorica/duodenale: intermittente, non crampiforme, localizzato nella regione epigastrica o Tenue intermedio: crampiforme in crescendo fino all’acme, poi decrescente fino all’intervallo libero, con spazi di 5 minuti fra una colica e l’altra. o Colon: dolore sordo e diffuso, che se diventa intenso indica fortemente perforazione o strangolamento, specie se associato a difesa muscolare • Distensione addominale: assente o poco significativa nelle occlusioni alte, raggiunge i massimi livelli nelle forme ostruttive del colon distale, dove nel tratto che va dalla sede dell’ostruzione al cieco la pressione aumenta enormemente, finché la valvola ileocecale rimane continente. Qui si riversa infatti anche il materiale che proviene dal tenue. Questo tratto di ansa chiusa va facilmente incontro a perforazione perché la pressione ne provoca ischemia arteriosa. Se la valvola non contiene la pressione del materiale accumulato, si va incontro a fenomeni di dilatazione anche a carico del tenue. La pressione di rottura è di circa 70-100 mmHg, corrispondente a 9-12 cm di dilatazione, limiti che non devono essere superati nell’attesa prima di effettuare una decompressione. • Modificazioni dell’equilibrio idroelettrolitico: nell’occlusione prossimale si perde K+ per il vomito, e si va in acidosi metabolica, mentre nella distale si perde bicarbonato ma soprattutto ioni, e si rischia l’alcalosi metabolica. In pratica, nelle occlusioni prossimali viene compromesso l’equilibrio acido/base, in quelle distali quello elettrolitico. • Ipovolemia: per il sequestro di liquidi nel lume intestinale, nella cavità peritoneale, per l’aspirazione tramite sondino nasogastrico e per il vomito. • Febbre: se non è secondaria ad un processo infiammatorio che ha prodotto l’occlusione, è sospetta, perché significa che si sta passando ad una fase di insorgenza di strangolamento o perforazione. L’ipotermia è predittiva di shock. • Borborigmi con timbro metallico ed altri segni e sintomi specifici di patologie che possono interessare l’intestino. Complicazioni La principale e la più grave è lo strangolamento, associato ad una mortalità del 30%. Le situazioni che più frequentemente lo producono sono: • Briglie aderenziali, che sono tese fra due parti fisse e incarcerano un’ansa.

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• Ernia strozzata • Volvolo • Invaginazione • Torsione di diverticolo Il meccanismo dello strangolamento è che un’ansa si trova chiusa a monte e a valle da due ostruzioni; questo comporta un impedimento al deflusso venoso, che a causa della rete anastomotica dell’intestino potrebbe avvenire in due direzioni, Questo ristagno venoso provoca vasospasmo arterioso, ipoafflusso e quindi ischemia. L’infarto che ne segue porta alla perforazione, spesso seguita da peritonite shockante. L’ipovolemia può essere peggiorata anche dall’accumulo di liquidi nell’ansa stessa. Inoltre la trasudazione del liquido dall’ansa nel peritoneo è un evento che produce shock anche da sola. Maggiormente precoce è l’intervento, tanto migliori sono le speranze di salvezza per il paziente. Purtroppo gli unici segni suggestivi di strangolamento (difesa addominale, ipotensione, shock, ipotermia, sangue nelle feci) sono segni estremamente tardivi. Diagnosi • Esami ematochimici: leucocitosi da 10000 a 18000 è presente in un terzo dei pazienti. Sopra a 18000 indica compromissione vascolare dell’ansa ostruita. Si troveranno le alterazioni elettrolitiche descritte. Alti livelli di LDH e di ALP sono indicativi di ischemia e necrosi intestinale, soprattutto nello strangolamento. L’aumento della pCO2 può indicare difficoltà respiratoria da sollevamento del diaframma per grave distensione gassosa. • Esami radiologici: diretta addome prona e supina, consente di evidenziare la raccolta di liquidi e gas, che si dispongono secondo un “livello idroaereo”, dove la superficie di separazione fra aria e acqua risulta ben visibile e perpendicolare al suolo. Livelli idroaerei multipli sono indice di una occlusione del tenue. In genere la distribuzione del gas intestinale nelle diverse proiezioni della radiografia riesce ad essere abbastanza indicativa circa la posizione dell’ostruzione, ma non a differenziare fra ileo dinamico e ileo paralitico. Può essere utile il bario come mezzo di contrasto, che a differenza di altre sostanze che possono essere usate a questo scopo non è iper osmolare. In genere nelle occlusioni alte il bario non crea problemi perché si scioglie nel liquido, mentre nelle occlusioni coliche può addensarsi e trasformare una subocclusione in una acuta, e allora si preferisce l’infusione di bario per via retrograda, associando magari il contrasto aereo (clisma opaco a doppio mezzo di contrasto). • Endoscopia: da sopra o da sotto, a seconda della porzione di intestino interessata dall’occlusione, questi esami sono impiegati quando la radiologia risulta dubbia, oppure quando vi sia sospetto di malattia infiammatoria del colon, o sanguinamento, oppure sia nota una neoplasia. Inoltre attraverso l’endoscopia si può agire in maniera terapeutica, permettendo la derotazione di un volvolo, la decompressione intestinale, l’asportazione di corpi estranei che sono causa di ostruzione. Terapia • Monitoraggio: polso, pressione, ematocrito, temperatura cutanea e rettale, diuresi, pressione venosa centrale. Esame emocromocitometrico e determinazione del gruppo sanguigno. • Supporto: somministrazione di elettroliti e liquidi fino alla normalizzazione dei parametri ematici. Risulta utile anche nell’occlusione semplice la profilassi con antibiotici a largo spettro attivi contro gli anaerobi. La normalizzazione del profilo ematico,elettrolitico e coagulativo migliora notevolmente la prognosi, e se il paziente non presenta indicazioni per un intervento chirurgico immediato, è meglio effettuare un compenso completo.

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Decompressione: sondino nasogastrico da 18 Fr decomprime lo stomaco, il tenue e previene il vomito e la polmonite ab ingestis. Risultano poco utili i lunghi sondini naso intestinali, perché avanzano per effetto della peristalsi intestinale che risulta rallentata o assente di solito a monte dell’ostruzione. In quelle occlusioni o subocclusioni in cui sia presunta o sospetta una componente paralitica possono essere utili questi sondini come intervento terapeutico. Il sondino introdotto per via trans-rettale può comunque risolvere anche se temporaneamente un volvolo. • Occlusione del tenue, trattamento chirurgico: resezione delle briglie aderenziali, rimozione del tessuto e delle anse necrotiche o non vitali, interessati da neoplasie o da stenosi. I calcoli ostruenti vengono fatti progredire nel colon a mano, oppure rimossi con enterotomia. Meno frequentemente sono necessarie anastomosi fradue porzioni del tenue a monte e a valle dell’occlusione, con anastomosi latero-laterale. Bisogna poi operare una decompressione dell’intestino tenue, per poter riporre le anse nell’addome e suturare. A questo scopo si usa un ago collegato ad un delicato aspiratore, ma questo aumenta notevolmente la possibilità di complicazioni infettive. Si può invece spremere a monte, facendo risalire il materiale nel duodeno, e aspirarlo tramite sondino. • Occlusione del colon destro: sono situazioni spesso associate a neoplasia e quindi il trattamento di elezione è la rimozione più ampia possibile dell’emicolon di destra, con contemporanea anastomosi ileo-trasversale. Se il paziente versa in gravi condizioni e/o c’è rischio di perforazione, conviene annettere il segmento terminaledell’ileo con il tratto terminale del colon, e successivamente reintervenire per recuperare la parte trasversa del colon. La sola decompressione del colon non risulta praticabile e nemmeno utilizzata. • Occlusioni del colon sinistro: anche qui siamo spesso in presenza di una neoplasia, e il trattamento di queste condizioni deve essere effettuato con un approccio classicamente in tre tempi: o Colostomia con decompressione o Asportazione del tratto interessato da tumore o Chiusura della stomia. La stomia tanto più è distale tanto migliore risulta essere nella diversione delle feci verso l’esterno. Funzionano bene collegamenti alla cute addominale sia dal colon traverso che dal discendente. Lo stoma è sostenuto da una bacchetta che attraversa il mesocolon e viene collegato ad una apposita sacca. La cecostomia con tubo è meno complicata e consente di effettuare facilmente il successivo intervento di asportazione del colon, ma molto meno efficace. Questo modo di procedere in tre tempi è svantaggioso, perché il paziente spesso anziano deve subire tre interventi, e spesso ci mette diverso tempo a riprendersi dall’occlusione. Sono state perciò messe a punto altre tecniche: Lavaggio del colon : si basa sull’esecuzione intraoperatoria di un lavaggio tramite un tubo inserito nel cieco e un drenaggio del materiale con un tubo inserito in posizione distale. Colestomia con anastomosi ileo-rettale: offre un approccio immediato in un tempo unico e non necessita di lavaggi preoperatori. E’ la metodica più evoluta. Queste tecniche nuove richiedono però la presenza di un chirurgo preparato bene. INVAGINAZIONE INTESTINALE L’invaginazione detta anche intussuccezione, è una condizione che si ha quando un tratto di intestino si invagina dentro il successivo come un telescopio che si ripiega. Si ha fra due tratti del tenue (enterica) fra ileo e colon (ileo-colica) o nel colon (colica). 5% delle occlusioni intestinali è causato da una invaginazione, che è soprattutto una malattia pediatrica: nel bambino infatti le pareti sono più lasse, la peristalsi è maggiore (è facile che un tratto ne “ingoi” un altro) e i mesi sono più lunghi e lassi. Nell’adulto, queste patologie sono associate in genere ad un tumore benigno peduncolato.

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Clinica La malattia si presenta spesso come una serie di episodi di subocclusione ricorrenti, oppure come un singolo episodio occlusivo. I sintomi sono quelli dell’occlusione, con nausea, vomito, dolore addominale crampiforme e (nel bambino) muco e sangue nel retto e nelle feci. Distintiva è la presenza di una tumefazione addominale palpabile nella sede dell’occlusione: si indurisce con l’onda peristaltica e diventa più morbida dopo il transito di tale onda. Diagnosi Nella diagnosi, il clisma opaco è molto utile perché da l’immagine di una parete infilata dentro l’altra, immagine che è molto caratteristica, ma non offre informazioni sulle invaginazioni enteriche. Anche l’ecografia offre immagini caratteristiche, di due cerchi concentrici a bersaglio. Altre tecniche come la TAC e la scintigrafia sono molto meno utilizzate. Terapia La terapia è principalmente chirurgica, anche se si può manualmente ridurre l’invaginazione. Il problema è che se si fa questo si può non vedere un tratto necrotico dentro un’ansa invaginata oppure, se la causa è un tumore, permetterne o agevolarne lo spreeding. Nei pazienti superiori a 60 anni e nelle invaginazioni coliche, condizioni ad alto rischio di carcinoma, è raccomandata la resezione intestinale sempre, magari preceduta da una riduzione manuale. VOLVOLO

Torsione assiale di un segmento del colon o del tenuesu se stesso, o sul proprio mesentere, con il risultato di una occlusione del lume da entrambi i lati. Se il volvolo comprime i vasi, si crea una situazione di emergenza molto grave, a causa dell’ischemia acuta e dell’enorme dilatazione dell’ansa interessata. Rapidamente questa va in gangrena, e tende alla perforazione. Il volvolo riguarda spesso il colon distale e il sigma, con rotazioni in entrambi i sensi, da 180° a oltre 360. Alcuni substrati anatomici sono considerati patogenetici per questa affezione: • Ansa allungata con i punti di ancoraggio delle due estremitàvicini fra di loro e uniti da un tralcio fibroso • Accollamento incompleto del peritoneo parietale • Meso troppo lungo o al contrario assente Situazioni del genere non bastano da sole aformare un volvolo, ma concorrono altri fattori come la dieta a prevalenza di fibre (favorisce l’allungamento del colon), stipsi cronica, aderenze, meteorismo, eccetera. Clinica  Il volvolo del tenue ha un quadro perfettamente sovrapponibile a quello dell’occlusione con strangolamento, ed identici sono i mezzi diagnostici.  Il volvolo ileo-cecale produce dolore di tipo colico, specie in fossa iliaca destra, ed una massa addominale asimmetrica palpabile, con area di ipertimpanismo, per l’enorme distensione del colon. Se l’occlusione è completa, l’alvo è chiuso a feci e gas, e nell’esame radiologico si trova un cieco enormemente dilatato, rotato in alto a sinistra (confondibile con lo stomaco) con un grosso livello idroaereo, e livelli analoghi multipli nel tenue.  Il volvolo del sigma si manifesta con due quadri distinti nell’anziano già soggetto a simili patologie e nel giovane che ha la prima manifestazione di questa malattia. Nel primo caso, abbiamo una sintomatologia da subocclusione, con graduale distensione del sigma e

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una ischemia tardiva. Nel secondo, c’è una sintomatologia acuta ad evoluzione rapida verso lo shock. Tipicamente, la diretta addome mostra due livelli idroaerei nel sigma. Terapia - Derotazione dell’ansa - Prevenzione delle complicanze - Prevenzione della recidiva Se ci sono segni di strangolamento dell’ansa, nel 10% dei casi di volvolo, si deve immediatamente intervenire e se si ha gangrena, si procede alla rimozione dell’ansa interessata. Nel volvolo del tenue e del colon prossimale si toglie il tratto necrotico e si fa subito l’anastomosi, nel volvolo del sigma si procede in un secondo momento al ripristino della continuità intestinale, e si fa prima una colostomia. Se non esistono segni evidenti di strangolamento, si può effettuare una derotazione dell’ansa con l’endoscopio. Anche in caso di successo, si effettua un intervento chirurgico se la mucosa appare ischemica, e successivamente è comunque consigliata, a causa dell’alto tasso di recidive, l’asportazione del tratto interessato. ILEO PARALITICO E’ uno stato di ostruzione in assenza di ostacolo, causato dalla assenza della peristalsi con distensione di tutto il tratto intestinale, ma specialmente del colon e dello stomaco. Non si tratta di una sindrome pseudo-ostruttiva, perché in queste c’è un agente esterno che impedisce la progressione della peristalsi a livello nervoso, mentre qui si tratta di un aumento dei fattori inibitori della peristalsi intestinale. Questa condizione è probabilmente secondaria all’irritazione del peritoneo, da laparotomia, peritonite, corpi estranei o agenti chimici. La stimolazione peritoneale induce l’arresto della peristalsi intestinale da 4 ore per lo stomaco a 55 ore nel colon sinistro. Ma dopo un intervento la mobilità gastrica si arresta per 24 ore, a dimostrazione del fatto che altri meccanismi si inseriscono nella stasi gastrica. L’inibizione peristaltica deriva essenzialmente dalla stimolazione adrenergica nell’intestino in seguito alle stimolazioni dolorose. Le cause intraddominali, che agiscono per lo più sulla motilità del tenue, sono le più comuni e comprendono tutte le cause di irritazione peritoneale, di insufficienza vascolare nell’intestino, e di peritonite.+ Le cause extra addominali sono invece importanti per lo stomaco e per il colon, e sono broncopolmoniti, infarto del miocardio, emorragia, trombosi celebrale, alterazioni elettrolitiche alcalosi metabolica, farmaci bloccanti gangliari o anticolinergici. Clinica L’ileo paralitico si manifesta con nausea e vomito, distensione addominale e chiusura dell’alvo, e assenza di movimenti peristaltici. Sono presenti anse distese nel colon e nel tenue, ma non c’è evidenza di un ostacolo al passaggio del materiale fecale. E’ importante una diagnosi differenziale con la forma ostruttiva perché a differenza di questa, l’ileo paralitico si risolve senza trattamento chirurgico. Terapia Se la situazione causale viene trattata e risolta, questo fornisce già di per se un trattamento dell’ilo. Eventuali squilibri elettrolitici vanno trattati subito, ed è importante l’aspirazione nasogastrica per evitare rigurgito e aspirazione del contenuto gastrico.

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PSEUDOSTRUZIONE INTESTINALE ACUTA Le sindromi pseudostruttive si distinguono dall’ileo paralitico perché la loro patogenesi è legata ad una qualsiasi causa organica (nel 95% dei casi è presente una malattia ginecologica, traumi ossei, problemi respiratori o renali) che interferisce con la stimolazione parasimpatica del colon distale e del sigma. Questo provoca l’atonia di questi settori e la dilatazione a monte del colon ascendente edel cieco, il quale in particolare si trova a rischio di rottura dal momento in cui il suo diametro supera i 9 cm. Secondo la legge di Laplace, infatti, un viscere ha un rischio di rottura tanto maggiore quanto maggiore è il suo diametro. La malattia quindi tende a regredire da sola oppure a progredire verso perforazione, peritonite e shock. Clinica Molto simile all’ostruzione meccanica nella stesse sede, diagnosi differenziale difficile. Deve essere seguita con attenzione la dilatazione del colon con un esame RX ogni 12-24 ore per evitare di raggiungere una tensione parietale eccessiva. Spesso il clisma opaco, preceduto dalla rettoscopia per escludere un cancro del retto, indica l’assenza di ostruzione ed è risolutivo. Anche la colonscopia è molto indicativa, ma può essere pericolosa perché dilata ulteriormente il colon. Entrambi gli esami possono detenderlo ed evitare una laparotomia. Terapia Essenzialmente è la decompressione: dopo posizionamento di un sondino naso gastrico, si fa una colonscopia che nel 90% dei casi è già risolutiva. Anche l’uso di farmaci procinetici è possibile. Se c’è rischio di perforazione, la cecostomia in laparotomia è la cosa migliora, perché in assenza di ischemia o di gangrena non servono interventi demolitivi. PSEUDOSTRUZIONE CRONICA Condizione idiopatica di alterazione della motilità intestinale continua, caratterizzata da episodi subacuti di occlusione intestinale, con manifestazioni principali di nausea, vomito dolore e distensione addominale, con episodi spesso alternati di stipsi e di diarrea. Frequentemente è una condizione idiopatica, ma a volte può dipendere da malattie del sistema muscolare, del SNP e dall’abuso di farmaci neurolettici. In genere c’è nelle forme idiopatiche una degenerazione della componente muscolare o nervosa, che si manifesta in diversi tratti del tubo digerente simulando quadri disparati, dall’acalasia alla subocclusione intestinale. La clinica è variabile a seconda della localizzazione, e simula come si è detto molti quadri di ostruzione, subocclusione o problemi di transito e di assorbimento. In tutti in pazienti sono positivi segni di alterazioni manometriche, e si può dunque affermare che la positività alla manometria in assenza di occlusione ostruttiva sia segno di pseudostruzione cronica. La terapia si fa con procinetici, neostigmina e altre accortezza dietetiche alimentari.

3.3 PERITONITE La peritonite è una infiammazione diffusa del peritoneo caratterizzata dalla presenza di una lesione della sierosa che ne fornisce la causa scatenante. E’ possibile classificare la peritonite in almeno tre criteri: - eziopatogenesi - estensione

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evoluzione clinica

Classificazione Secondo l’eziopatogenesi le peritoniti possono essere distinte in primitive e secondarie. Le prime forme sono molto rare, mentre le seconde dipendono da diverse condizioni. • Peritonite secondaria o Da flogosi o perforazione viscerale: sono le cause più frequenti di peritonite. La flogosi dei visceri addominali è una condizione molto comune che segue a diverse malattie:  Appendicite  Diverticolite  Colecistite  Ulcera peptica  Ernia strozzata  Infarto mesenterico  Neoplasie  Occlusione  Ascessi o Da traumi penetranti: per la penetrazione di batteri dall’esterno o la perforazione dei visceri addominali o Da emoperitoneo: rottura di visceri, aorta e gravidanza extrauterina. Provoca una infiammazione acuta di natura chimica o Da cause iatrogene: complicanze perforative in corso di endoscopia dei visceri addominali, come:  Endoscopia  Trattamenti di biopsia con ago  Manovre invasive radio-guidate  Radiografie con bario o Peritonite postoperatoria: secondaria alle sequele di un intervento, è una forma di complicazione molto grave che può associarsi a situazioni come:  Rottura di anastomosi o sutura intestinale  Persistenza di raccolte settiche addominali  Emoperitoneo  Disseminazione di agenti infettivi •

Peritoniti settiche o Primitive: rare, generalmente causate da un solo ceppo batterico gram- piogeno, come E. coli, che in genere riguardano gli immunosoppressi. o Secondarie: in genere causate da una flora batterica poli microbica, con anaerobi e aerobi. Le condizioni a cui fanno seguito peritoniti settiche sono:  Diffusione per contiguità di un focolaio infettivo  Perforazione di visceri cavi ad alto contenuto batterico (colon)  Ischemia intestinale ed infarto mesenterico con perforazione della parete



Peritoniti chimiche: causate dal contatto del peritoneo con il sangue o con le secrezioni del tubo digerente, che inizialmente sono sterili, ma poi se nel liquido fuoriuscito è presente una popolazione batterica, rapidamente la peritonite chimica diviene settica. o Peritonite biliare (coleperitone): caratterizzata da una intensa reazione infiammatoria del

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peritoneo dovuta alla bile, soprattutto i sali biliari che sono la componente più irritante. Spesso la bile contiene batteri e la peritonite è settica fin dall’inizio. Si realizza con diversi meccanismi:  Iatrogena  Ostruzione biliare e filtrazione della bile dal coledoco  Puntura percutanea delle vie biliari o del fegato (ferite da punta)  Traumi o Peritonite da succo gastroenterico: solitamente secondaria a:  Perforazione di ulcera peptica o neoplasia gastrica  Trauma gastroduodenale  Rottura di sutura gastrica/duodenale: in questo caso il liquido che fuoriesce ha nel suo contesto particelle di cibo altamente irritanti e contenenti una grande carica batterica. o Peritonite da succo pancreatico: si sviluppa in corso di pancreatite acuta, nei traumi pancratici eccetera. E’ assai grave perché il succo pancreatico provoca un’azione destruente sul tessuto peritoneale, tende alla fistolizzazione e alla cronicizzazione dei focolai necrotico/emorragici. o Uroperitoneo: raccolta di urina nel peritoneo che si infiamma (vorrei vedere!). L’urina sterile provoca una modesta reazione infiammatoria, mentre se è infetta c’è subito una grave peritonite settica.  Traumi dell’uretere  Lesioni iatrogene con catetere  Rottura di anastomosi delle vie urinarie Emoperitoneo: associato a numerose cause: o Traumi  Lesioni viscerali di fegato, milza, mesocolon, mesentere e rene  Lesioni vascolari o Rottura di aneurisma o Rottura di epatoangioma o Rottura di milza o Pancreatite emorragica o Cause ginecologiche  Rottura di corpo luteo  Rottura di gravidanza extrauterina

A seconda dell’estensione del processo, le peritoniti sono distinguibili in localizzate e diffuse, oppure pelviche. Le forme diffuse sono di solito secondarie alla massiccia contaminazione (ad esempio la rottura del colon) o ad un deficit dei meccanismi di difesa addominale, come ad esempio il paziente immunodepresso. E’ assai grave, perché attraverso la sierosa vengono riassorbite così una vasta quantità di citochine e tossine, con gravi complicanze emodinamiche che portano allo shock. Se i meccanismi difensivi riescono ad arginare il processo, allora la peritonite rimane localizzata, e questo è essenzialmente merito di meccanismi come la reazione fibroblastica, la fagocitosi, la formazione di aderenze fibrose che intrappolano il materiale contaminante eccetera. La peritonite pelvica è una forma di peritonite localizzata al peritoneo che riveste l’utero e gli annessi, secondaria ad annessite ed endometrite. Queste forme vanno distinte dalle raccolte ascessuali dell’addome in sede pelvica. E’ importante perché la prima forma si tratta dal punto di vista medico,

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la seconda, l’ascesso, richiede sempre una terapia chirurgica. A seconda dell’evoluzione, si distinguono forme acute e croniche, fra cui le prime forme sono di gran lunga predominanti per la natura stessa del processo infiammatorio. Però alcune peritoniti acute non trattate invece che portare a morte il paziente per shock possono evolvere verso la formazione di ascessi peritoneali. Le forme croniche sono rare, e riguardano principalmente la patologia TBC, oggi rara, e alcune forma infettive disseminate che causano ascessi diffusi, con lenta tendenza alla risoluzione spontanea. Una forma particolare è la forma incapsulante, ossia una forma di peritonite che avvolge come in bozzolo fibroso le anse intestinali. Fisiopatologia Ci sono tre tipi di risposte peritoneali: Risposta infiammatoria locale Iperemia, congestione ed edema del peritoneo con formazione di essudato fibrinoso. Fin dalle prime ore dopo il trauma, si comincia a vedere che il peritoneo perde la sua lucentezza grigio-perla e diviene arrossato ed opaco. L’essudato è maggiore nelle forme infettive, e diviene fin da subito cremoso; la sierosa acquisisce permeabilità bidirezionale a proteine, molecole tossiche, batteri ed elementi figurati del sangue. L’essudato assume caratteristiche diverse a seconda dei processi, da emorragico a fibrinoso a purulento: la quantità di essudato non è correlata direttamente alla gravità delle manifestazioni, e varia da pochi dl a diversi litri. Le raccolte di essudato si formano in tutti i recessi peritoneali, specie nelle aree declivi: essendo ricco di fibrina, tende a formare delle aderenze fra gli organi e la parete o fra le anse intestinali, che sono un tentativo di arginare la risposta infiammatoria. Queste briglie poi possono essere fonte di ulteriori complicazioni in futuro. Contaminazione batterica La popolazione batterica contaminate cambia in caratteristiche e quantità a seconda del viscere da cui fuoriesce. Le infezioni derivate dal colon sono gravi, perché si hanno anche 1012 batteri per grammo di feci. Nel colon la flora batterica è prevalentemente anaerobia, nello stomaco aerobia gram+. Nel tenue mista. Grave è il passaggio peritoneale di LPS, capace di provocare lo shock settico. Ileo adinamico Provocato dall’irritazione peritoneale, questo processo diminuisce il riassorbimento di liquidi dal lume intestinale, e contribuisce enormemente a provocare ipovolemia. Risposta dell’organismo L’ipovolemia, la principale e più pericolosa conseguenza della peritonite, è causata dal sequestro intestinale di liquidi, dalla raccolta di liquidi nel cavo peritoneale, dalla vasodilatazione del distretto splacnico. Le conseguenze iniziali di questo sono tachicardia, diminuzione della PVC e della GC. A questo si aggiunge la produzione di mediatori dello shock settico che causano vasodilatazione e ipotensione. Lo shock che si crea è misto settico/ipovolemico, e produce una diminuzione della perfusione tissutale con precipitazione verso la vasoparalisi e l’ischemia periferica. A livello respiratorio, c’è tachipnea aggravata dalla compressione delle basi a causa della distensione

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polmonare, con atelettasia delle basi e diminuzione degli scambi gassosi. Inoltre c’è danneggiamento alveolare dovuto alla distruzione dell’epitelio da parte dell’endotossina e del complemento. Dal punto di vista clinico, si possono seguire due fasi: • Stato iperdinamico: condizione in cui si attua un tentativo di compenso della cattiva perfusione tissutale con tachicardia, ipertermia e aumento della GC, che può contribuire a superare la fase acuta e risolvere il processo infettivo. • Stato ipodinamico: associato a bassa pressione, segni di shock e ipotensione che indica una evoluzione infausta, con ipoperfusione tissutale. E’ detto anche shock settico Sintomi addominali: freddo e indica che il compenso dello Dolore, rigidità e distensione dell’addome shock è fallito. Ipomobilità dell’addome con gli atti del Nella prima fase si ha alcalosi metabolica da respiro iperventilazione, nella seconda c’è acidosi da Difesa addominale metabolismo anaerobio. Ileo paralitico Vomito Lo shock settico compare selettivamente Blumberg prima di quello emodinamico se la peritonite ha come causa primaria una contaminazione batterica. Viceversa, compare lo shock ipovolemico. Clinica Nei pazienti con peritonite, è importante l’anamnesi perchépuò aiutare a orientarsi nelle varie cause di peritonite. Sono presenti sintomi addominali e sintomi sistemici. Sintomi sistemici Il dolore addominale spontaneo compare Febbre con brividi continua sempre ed è di norma correlato alla gravità Tachicardia, tachipnea dell’infiammazione, oltre che aumentato dalla Sudorazione palpazione. Non sono molto indicative le Oliguria informazioni che si ottengono sulla zona di Stato di agitazione e confusione mentale dolorabilità perché i succhi digestivi liberati e Disidratazione visibile di cute e mucose la flogosi tendono a scendere per gravità. E poi nelle peritoniti generalizzate il dolore è diffuso a tutto l’addome. Dopo poche ore dalla comparsa dei primi segni di difesa addominale e di ileo paralitico (alvo chiuso a feci e gas, assenza di peristalsi, livelli idroaerei, distensione addominale) compare il vomito, che se c’è irritazione del diaframma è accompagnato da singhiozzo. La rottura di un viscere porta allo pneumoperitoneo e si manifesta con dimi nuzione dell’aia di ottusità epatica e falce sottodiaframmatica evidente alla radiografia. Compare poi il segno di Blumberg. Nel caso di versamento nel cavo di Douglas si ottiene dolore vivo alla palpazione rettale anteriore. I sintomi sistemici sono quelli dello stato settico associati alla disidratazione e allo shock ipovolemico. A causa della flogosi e della vasocostrizione periferica da ipovolemia la temperatura rettale risulta almeno 0,5°C maggiore di quella ascellare. Nel volto si ha la caratteristica facies ippocratica, ossia lividore del volto, sudorazione, movimento delle pinne nasali per dispnea, occhi infossati nelle orbite, secchezza delle labbra e della lingua.

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La comparsa di ipotermia < 36°C è un segno assai infausto. Diagnosi • Esame emocromocitometrico: risulta alterato l’ematocrito, e alterazioni del profilo coagulativo in condizioni di sepsi o di gravi emorragie. Presenta costantemente una neutrofilia anche >30.000, eccetto che nei pazienti anergici e nelle fasi terminali del processo settico. • Emogas analisi ed equilibrio acido base • Prove di funzionalità renale ed epatica: alterate nella fase finale di ipoperfusione d’organo • Elettroliti • Glicemia • Esami microbiologici colturali Di regola si esegue una RX addome in posizione laterale sinistra per evidenziare area libera sottodiaframmatica, ileo paralitico e perforazione intestinale. Ecografia ed esame TAC indicano di solito raccolte di liquido addominale La diagnosi differenziale è posta con alcune malattie che possono avere sovrapposizione soprattutto del quadro del dolore, quali infarto miocardico, polmonite delle basi, uremia. Inoltre deve essere differenziata dall’ascesso pelvico. La peritonite utero-annessiale deve essere distinta dalle altre perché è suscettibile di terapie e trattamenti diversi, e a tale scopo è utile l’esame dei genitali. Prognosi e terapia E’ una malattia grave. Le forme localizzate sono trattate efficacemente nel 90% dei casi, mentre le forme diffuse hanno una mortalità molto variabile a seconda delle condizioni e della malattia che le ha causate. In genere la morte sopravviene per shock o per insufficienza multiorganica (MOF). Alcuni fattori che influenzano la prognosi sono: • La contaminazione batterica (intestino crasso molto più grave di intestino tenue) • Lo stato di difesa dell’organismo (immunodepressi e peritoniti post-operatorie) • Tempestività della diagnosi chirurgica La terapia di elezione è chirurgica, alla quale si affianca un supporto medico e rianimatorio (antibiotici e riequilibrio elettrolitico). Le uniche forme di peritoniti che non necessitano di trattamento chirurgico sono le croniche (TBC e ad ascessi multipli) e la utero-annessite localizzata, che risponde bene agli antibiotici. Preoperatorio Si tende a riequilibrare il paziente, attraverso: • Correzione della volemia: 2-3 litri di soluzione elettrolitica eventualmente con plasma expander • Correzione delle alterazioni elettrolitiche • Correzione del metabolismo acido/base • Correzione di eventuale anemia • Antibiotici a dosaggio pieno per ritardare la crescita batterica (nel caso di grave contaminazione sono utili le γG ad alte dosi) Può essere necessario il trattamento con rianimazionenel caso di shock.

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Chirurgia • Rimozione del focolaio di infezione: si deve provvedere subito alla rimozione dell’area interessata dall’infezione attraverso la rimozionedel focolaio necrotico, la sutura di visceri perforati, il drenaggio di ascessi, la rimozione di anse necrotiche.La mancata rimozione del focolai è la prima causa di insuccesso nel trattamento di questa malattia. • Toilette peritoneale: si tratta del lavaggio e della depurazione della cavità dall’essudato e da ogni traccia di materiale infetto. Tali procedure diminuiscono significativamente la carica batterica e ripuliscono il cavo da coaguli e altro materiale, diminuendo la formazione di aderenze fibrose fra i visceri. Si eseguono: o Asportazione di materiale corpuscolato e aspirazione di essudato o Sbrigliamento e asportazione della fibrina o Drenaggio di ascessi o Lavaggio prolungato del peritoneo con soluzione fisiologica Possono essere necessari interventi successivi di toilette, quando non sia stato possibile asportare tutto il materiale oppure si abbia la produzione continua di altra necrosi (ad esempio nella pancreatite emorragica). Il lavaggio peritoneale deve essere locale nella peritonite non diffusa, per evitare il disseminamento dell’infezione. Al termine si posizionano tubi di drenaggio nelle aree di raccolta di successivo essudato, di solito il Douglas e lo spazio sottodiaframmatico. Esiste infine il lavaggio peritoneale continuo in cui si ha infusione di 3-6 litri al giorno e la raccolta per drenaggio del lavaggio. La sutura laparotomica viene chiusa in tempi differenti, prima la parete addominale con una medicazione nel sottocute, e poi successivamente avviene la chiusura della cute. Se sono programmati successivi interventi, si applica una cerniera laparotomica. In genere se la chiusura è ostacolata, si pratica una larostomia, cioè un trattamento dell’addome aperto. 3.4 TRATTAMENTO DEGLI ASCESSI ENDOADDOMINALI Sono raccolte circoscritte di pus all’interno della cavità addominale. Spesso batteriche, ma anche con funghi o protozoi, sono limitate dall’omento e dagli altri visceri e si raccolgono nei recessi peritoneali; ma il processo infiammatorio ricco di neutrofili, porta alla penetrazione in profondità nei visceri in diversi casi. Eziopatogenesi In genere la cause di ascesso sono la propagazione di infezioni che si trovano negli organi addominali: in genere sono importanti ulcere, diverticoli, colecistite, ascessi epatici, traumi penetranti, annessite e complicazioni settiche post-operatorie. Si possono formare ascessi da gram- aerobi e da anaerobi, e i meccanismi sono 3: • Per continuità di focolaio settico • Per contaminazione del peritoneo dall’esterno • Per via linfatica o ematica Le sedi più frequenti sono la loggia sottodiaframmatica, sottoepatica, le docce parieto-coliche, le fosse iliache di destra e sinistra, la pelvi e la borsa omentale. Fra quelli sottodiaframmatici sono di gran lunga più comuni quelli fra il fegato e il diaframma (ascessi sopraepatici) e nello spazio compreso fra diaframma stomaco e milza (loggia splenica). Tutti questi tendono a diffondersi per contiguità agli organi vicini; quello sopra epatico tende ad attraversare il diaframma e interessare le pleure, oppure a infiltrare il fegato andando verso il basso. Quelli della borsa omentale infiltrano i visceri cavi vicini o si aprono la strada verso l’esterno.

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A seconda della sede, sono più probabili alcune eziologie: • Ascessi subfrenici: complicazione della peritonite, il liquido infetto si raccoglie lì per il gradiente dovuto agli atti respiratori • Ascessi della parte destra: appendicite, colecistite suppurativa, ulcera peptica perforata • Ascessi della parte sinistra: pancreatite, perforazione del colon, raramente fegato o milza • Ascessi pelvici: peritonite pelvica, appendice in sede pelvica, annessite, perforazione di retto, sigma, vescica. Clinica e diagnosi Pregressi interventi chirurgici, flogosi dei visceri e peritonite sono evidenze anamnestiche che inducono il sospetto di ascesso pelvico. Il dolore degli ascessi non è costante e può essere presente o meno; gli ascessi del cavo di Douglas si esplorano attraverso il retto o la vagina come una massa duro-elastica fluttuante. Segni generali sono la febbre a dente di sega, spesso associata con brividi, tachicardia e tachipnea, e da anoressia ed astenia. Tali sintomi non sono però specifici e soprattutto nel paziente operato di recente sono mascherati dalla risposta al trauma chirurgico. Esami ematochimici: non sono specifici, ma una neutrofilia con diminuzione dell’albumina, iperglicemia e aumento della bilirubina possono confermare il sospetto. Esami radiologici: sono principalmente la diretta addome, che mette in evidenza livelli idroaerei extraviscerali segno di una raccolta ascessuale; esame radiologico del torace per ricercare compressione delle basi polmonari da parte di un ascesso sottodiaframmatico, esame ecografico dell’addome. La raccolta di leucociti marcati nelle aree di ascesso può essere una procedura importante. L’ecografia è l’esame di elezione che permette di seguire anche lo svolgimento del processo di drenaggio dell’ascesso. Nel caso siano presenti ingombranti strutture ossee e/o raccolte d’aria che non la rendono possibile, si ricorre alla TC. Terapia Consiste nel drenaggio e svuotamento delle raccolte e nel lavaggio delle cavità neoformate, e ovviamente nel trattamento del focolaio primitivo di infezione.  Drenaggio chirurgico: gli ascessi sottodiaframmatici, a contatto con la parete o in contiguità con il retto o la vagina consentono di eseguire un accesso extraperitoneale, senza indurre la contaminazione di altre strutture viscerali vicine. In altri casi si esegue una laparotomia. Il vantaggio di questa è una visione completa della cavità, e la possibilità di eseguire un lavaggio accurato con grandi quantità di soluzione fisiologica. Si preferisce questa via tutte le volte che non è chiarita la patogenesi dell’ascesso. Il trattamento chirurgico consente anche il trattamento dell’infezione primitiva e la eventuale rimozione di tessuti necrotici. Durante il drenaggio chirurgico si esegue un lavaggio peritoneale prolungato con 5-6 litri di soluzione fisiologica e il posizionamento di tubi di drenaggio peritoneale.  Drenaggio percutaneo: si preferisce quando è possibile raccogliere il liquido con efficacia da ascessi non multicavitari e contenenti essudato non eccessivamente viscoso. Associato ad antibiotici ha un’ottima probabilità di successo e il segno evidente è la scomparsa della febbre e degli altri segni di sepsi.

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3.5 LE RACCOLTE DI MATERIALE NON SETTICO NEL PERITONEO Chiloperitoneo Raccolta di chilo nella cavità peritoneale, prodotta in base a diverse condizioni: • Idiopatica: eventualità comune nel bambino di età superiore ad un anno, causata da un mancato deflusso del chilo nella cisterna a seconda di una malformazione dei vasi addominali. Tale condizione non trattata è rapidamente mortale per la dispersione con le feci di grassi e proteine da malassorbimento. Queste condizioni provocano ascite, dolore, diarrea irrefrenabile e gravi alterazioni metaboliche. • Traumatica: rottura del dotto toracico o della cisterna del chilo. Si può manifestare dopo diversi giorni perché la raccolta rimane chiusa e limitata in sede retroperitoneale almeno all’inizio. • Secondaria: a malattie infiammatorie o neoplasie (linfomi) che comprimono le vie linfatiche maggiori La diagnosi si pone essenzialmente per via del dolore ai quadranti inferiori per la distensione addominale e la linfocitopenia con diminuzione delle proteine, ed è confermata dall’esame del liquido peritoneale. Si tratta con il drenaggio del liquido nel peritoneo, istituzione di una dieta povera di grassi e che abbia grassi a catena corta, che passano direttamente nel circolo portale. La forma traumatica ha una risoluzione spontanea nel giro di alcuni giorni. Pneumoperitoneo Presenza di gas libero nella cavità addominale,dovuta sempre alla rottura di un viscere cavo o ad un trauma penetrante. A seguito l’aria si raccoglie sotto il diaframma mono o bilateralmente. In genere basta l’evidenza della scomparsa dell’aia di ottusità epatica, anche se a volte il colon destro può essere interposto fra la parete e il fegato. La RX addome senza contrasto mette in evidenza la presenza di gas libero nella cavità addominale, in posizione antideclive (falce sottodiaframmatica se il paziente è in piedi). Associata alla peritonite, questa condizione indica sicuramente perforazione viscerale. Nella laparotomia si induce uno pneumoperitoneo ad arte, per avere una pressione di 10-15 mmHg e poter così separare i visceri fra di loro, ispezionare lo spazio peritoneale ed avere ascesso ai cavi. Il gas viene poi lascito defluire e riassorbito. Emoperitoneo Raccolta di sangue libero. E’ molto grave ed è accompagnato nei casi gravi da anemia acuta, che deve essere diagnosticata e corretta immediatamente. Se avviene rapidamente, il sanguinamento si accompagna a shock ipovolemico altrimenti a ipotensione. Il dolore non è sempre presente perché dipende dalla causa che ha provocato il sanguinamento. La rottura della milza è accompagnata da dolore all’ipocondrio di sx e alla spalla (segno di Kehr) per interessamento del nervo frenico distale. In questo caso si ha leucocitosi per la liberazione di essi da parte della milza. Un segno importante ma non costante è la dolorabilità in sede pelvica, provocata dalla raccolta di sangue, che è palpabile nel Douglas quando supera i 300 ml. Se non si può eseguire una TC o una ecografia, si può fare un lavaggio peritoneale diagnostico. Non sempre la rottura di viscere parenchimatoso addominale necessita di un trattamento chirurgico: la possibilità di monitorare i parametri vitali e di controllare ecograficamente il sanguinamento può permettere l’attesa e il trattamento medico per vedere se si ottiene un arresto spontaneo. Bisogna eseguire costantemente un esame emocromocitometrico per tenere sottocontrollo

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l’ematocrito, la pressione arteriosa, l’ECG e la diuresi. E’ necessario valutare i sintomi dell’insufficienza circolatoria e del compenso all’ipovolemia ed avere pronto un accesso venoso centrale pereseguire queste manovre con efficacia. La reintegrazione volemica si fa con soluzioni expander come il Ringer lattato se la perdita è stata contenuta, con sangue intero se c’è importante anemizzazione. L’uso di soluzioni expander deve essere fatto con infusione di liquidi maggiori delle perdite, a causa del fatto che queste soluzioni si equilibrano con i liquidi extraplasmatici. L’unico limite all’infusione di liquidi è la PVC, che deve essere monitorata per non sovraccaricare il cuore. Le indicazioni al trattamento chirurgico dell’emoperitoneo sono: • Impossibilità di reperire sangue da infondere • L’equilibrio emodinamico rimane instabile • Segni di anemia acuta progressiva • Segni di peritonite e volume dell’emoperitoneo > 1000 ml Se la perdita è maggiore di 1500-2000 ml si deve subito dare sangue perché le soluzioni elettrolitiche non sono sufficienti a garantire la perfusione.

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CAP 4 PATOLOGIA DELL’ESOFAGO 4.1 ANATOMIA E FISIOLOGIA DELL’ESOFAGO Distinto in tre porzioni e lungo dai 25 ai 30 cm, l’esofago presenta tre porzioni (cervicale, toracica e addominale) e due sfinteri (superiore ed inferiore). L’esofago ha la funzione di permettere il transito del bolo dalla cavità orale fino allo stomaco, e di prevenire il reflusso gastroesofageo durante gli intervalli fra le deglutizioni. Il primo compito è svolto dall’attività peristaltica, il secondo dalla attività degli sfinteri: Sostanze/eventi che provocano l’aumento della pressione del LES Agonisti M2 Alfa adrenergici Sostanza P

Sostanze/eventi che provocano la diminuzione della pressione del LES Distensione gastrica Eruttazione Pasti grassi Coca – Cola, tè, caffè Fumo di sigaretta Nicotina Beta adrenergici Dopamina Colecistochinina, secretina, VIP, adenosina,

UES: muscoli striati cricofaringeo e costrittore inferiore del faringe, innervazione volontaria. E’ chiuso dal tono neurogeno delle fibre che lo innervano, e si apre perché durante la deglutizione i muscoli sopraioidei spostano in avanti il laringe, che di conseguenza non offre più appoggio ai muscoli che costringono il UES.

LES: muscolatura liscia chiusa per tono miogeno intrinseco, modulato dalle fibre eccitatorie parasimpatiche eaperto per l’attività delle fibre inibitorie che si attivano con la deglutizione. Neurotrasmettitore inibitorio: VIP e No Neurotrasmettitore eccitatorio: ACH Oltre a questi due sfinteri, esiste la crura diaframmatica, cioè i pilastri muscolari esterni del diaframma che si affiancano al LES per prevenire il reflusso. L’esofago ha dei restringimenti che hanno una importanza chirurgica molto grande: Nel collo curva a sinistra e nel tratto addominale terminale si dirige nuovamente a sinistra per impegnarsi nello iato diaframmatico. Così l’esofago diventa più aggredibile da sinistra nel collo, da destra nel torace, di nuovo da sinistra nell’addome. La posizione intratoracica dell’esofago è controllata da una membrana, detta membrana frenoesofagea, che è costituita da due lembi, superiore ed inferiore, quest’ultimo che si inserisce nel cardias. E’ una fascia molto elastica, che permette l’escursione verticale del viscere con la respirazione ma non quella laterale, e inoltre nel cardias forma un importante meccanismo antireflusso. La vascolarizzazione arteriosa è provveduta da diverse strutture provenienti dal torace dal collo e dall’addome: principalmente si tratta di rami della tiroidea inferiore, carotidi comuni, arterie vertebrali del collo, costocervicali, arterie bronchiali, rami esofagei dell’aorta, rami della gastrica di sinistra, e dell’arteria frenica inferiore di sinistra, incluso il tratto addominale. Il deflusso venoso va alle azigigos, ed emiazigos, mentre il tratto terminale drena nella vena gastrica di sinistra. L’esofago distale costituisce il più importante distretto in cui c’è comunicazione porto-cavale, ed è il lugo preferenziale di sanguinamento di varici nell’ipertensione portale. Questo avviene anche perché le vene attorno al cardias non si trovano nella lamina propria della mucosa, ma nella sottomucosa. Il drenaggio linfatico avviene attraverso un esteso plesso sottomucoso che viene drenato da: • Linfonodi paraesofagei, lungo tutto il decorso del viscere

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• Linfonodi mediastinici • Linfonodi cervicali profondi, sovraclaveari, tracheobronchiali e celiaci. La porzione terminale dell’esofago, lo sfintere inferiore, non è uno sfintere muscolare, ma uno sfintere funzionale. Queste informazioni sono disegnate nella seconda pagina delle appendici.  A livello della giunzione esiste un ispessimento della muscolatura esofagea presente circa 1 cm al di sopra dell’angolo di HIS: questa zona coincide sempre con la zig zag line. L’esofago ha tre tonache muscolari: circolare interna, semicicircolare intermedia e longitudinale esterna. A livello di quest’area esiste un ispessimento della tonaca intermedia che si ancorano con le fibre dello stesso tipo nella giunzione (fibre a cravatta svizzera) e del fondo gastrico (fibre di Willis). Il ruolo di queste fibre è quello del mantenimento dell’angolo di HIS.  Il pilastro diaframmatico destro forma una pinza attorno alla porzione addominale dell’esofago, ed è detto laccio di Allison.  L’angolo acuto di HIS e la bolla gastrica formano una strozzatura e una compressione dal fondo verso il cardias che mantiene chiusa a valvola di Von Gubaroff, formata dalla protuberanza della mucosa esofagea,detta “rosette”.  La membrana freno-esofagea nella sua porzione inferiore forma un fascio che stringe il LES, e che agisce da sfintere.  La pressione positiva addominale agisce sul tratto addominale dell’esofago SEMEIOTICA E SINTOMI Le lesioni e le patologie dell’esofago hanno in genere dei segni clinici specifici, anche se non infrequentemente si può trovare una manifestazione atipica della malattia. Disfagia Sintomo definito come sensazione di “blocco” del passaggio del cibo attraverso la bocca, la faringe o l’esofago, che non riguarda l’atto deglutizione ma si manifesta dopo di essa. Può essere o no accompagnata da dolore, nel qual caso si chiama odinofagia. La deglutizione è un processo composto da una fase volontaria (orale) e da una fase involontaria (faringea ed esofagea). La contrazione della lingua all’indietro spinge il bolo nella faringe, e innesca la fase involontaria o riflesso della deglutizione. Nel momento in cui la lingua si spinge all’indietro, la laringe è spinta in avanti, e questo si è detto provoca la apertura del UES. Il costrittore superiore del faringe si contrae, contro la laringe già chiusa e il palato molle teso. L’unica via risulta l’esofago, e questo scatena un movimento peristaltico che spinge il cibo fino a valle: le onde peristaltiche sono precedute da onde di rilassamento che provocano l’apertura del LES. Queste onde inibitorie sono dette inibizione deglutitiva, mentre la contrazione della muscolatura esofagea dovuta alla deglutizione è detta peristalsi primaria. La peristalsi secondaria è di solito limitata al tratto toracico dell’esofago, ed è innescata da residui di cibo. La peristalsi terziaria, se esiste, è un fenomeno patologico. Si distinguono principalmente due tipi di disfagia;

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Disfagia meccanica: prodotta da un bolo di grosse dimensioni, da un restringimento o dalla compressione esterna del lume esofageo. Nel soggetto normale la muscolatura esofagea può sopportare distensioni fino a 4cm; disfagia per i solidi se non si dilata oltre i 2,5 cm sempre presente quando c’è una dilatazione < 1,3 cm. Le lesioni a tutta circonferenza sono quelle che più facilmente provocano disfagia, mentre quelle che interessano un solo tratto della circonferenza di meno. Carcinoma, stenosi peptiche(reflusso), ostacoli endoluminali (corpi estranei o tumori), tiroide ingrossata, adenopatia, lordosi cervicale. Disfagia motoria: difficoltà ad iniziare la deglutizione o anomalie della peristalsi prodotte da una alterazione della muscolatura dell’esofago. Laparte della muscolatura striata dell’esofago è presente nel tratto cervicale e la sua disfunzione è per lo più legata a disfunzioni dell’innervazione a livello centrale o periferico. Invece la muscolatura liscia della parte toracica e del tratto addominale ha delle alterazioni legate alla debolezza intrinseca della muscolatura, come nella sclerodermia, o ad alterazioni della componente vagale. Paralisi faringea, sclerodermia esofagea, acalasia, spasmo diffuso esofageo, miastenia gravis, tetano, distrofia muscolare, miopatie metaboliche, infiammazioni muscolari Disfagia lusoria: difetto congenito caratterizzato dal passaggio della succlavia davanti all’esofago che lo comprime e provoca ostacolo al cibo. Si può avere un quadro identico con l’ipertrofia aortica e le cardiomegalie. Le cause iatrogene più comuni di disfagia sono: • Chirurgia cervicale • Laringectomia • Tiroidectomia con asportazione delle paratiroidi • Tracheostomia • Chirurgia toracica • Radioterapia • Chirurgia polmonare o mediastinica con lesioni del nervo ricorrente. Possono essere presenti anche delle cause neurogene di disfagia: • Accidenti celebrovascolari • Trombosi della basilare • Aneurismi • Tumore bulbari e corticali • Traumi neurologiche Una disfagia solo per i liquidi è di solito indice di una patologia muscolare dell’esofago; in questo caso i liquidi sono ingeriti meglio se accompagnati da cibo solido, oppure da manovre che aiutano la deglutizione, come il Valsalva. Anamnesi e dati importanti: • Nella patologia meccanica si ha prima la disfagia per i solidi e poi anche per i liquidi; nella motoria subito per entrambi • Nella sclerodermia si ha disfagia per i solidi sempre, e disfagia per i liquidi solo nella posizione supina • La disfagia infiammatoria dura poche ore o settimane, mentre quella del carcinoma permane

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per mesi La aspirazione di cibo durante la deglutizione è segno di paralisi del faringe Un forte calo ponderale, sproporzionato alla disfagia, è segno di carcinoma

I pazienti riferiscono sollievo improvviso quando il peso della colonna di cibo vince l’ostacolo alla deglutizione, e un aggravamento a seguito di stress e ingestione di cibi molto caldi o molto freddi, bevande gassate. Una disfagia occlusiva può portare a calo ponderale, e complicanze polmonari per l’aspirazione del materiale non defluito. Dolore esofageo Essenzialmente come pirosi retrosternale che si propaga verso l’alto o verso il basso, e quando è grave si estende ai lati del collo e del torace. Di solito la pirosi è sintomi di un reflusso, e si accompagna alla sensazione di liquido caldo in gola o a rigurgito di acido. Si accentua con la flessione in avanti del tronco e dopo i pasti, diminuisce nella posizione eretta, dopo l’assunzione di acqua o di saliva, o antiacidi. Assomiglia molto a quello cardiaco e spesso può irradiarsi al braccio, ed essere addirittura alleviato dalla somministrazione di nitrato sublinguale. Accompagnato in genere ai pasti, può però insorgere a digiuno a seguito di emozione o di sforzo fisico. Per odinofagia si intende la comparsa di dolore durante l’ingestione del cibo, accompagnata da alterazioni del transito. E’ una condizione comune nelle esofagiti, da qualsiasi causa, ma non peptiche. Rigurgito Comparsa, senza conati, di materiale acido, gastrico o esofageo, in bocca. Non è preceduto da nausea. Se c’è una ostruzione dell’esofago distale, il cibo che torna in bocca è quello non digerito, associato a muco di sapore sgradevole. Se invece c’è una incontinenza di entrambi gli sfinteri esofagei, si ha un reflusso gastrico con acido e cibo non digerito amaro. Questo materiale se va nella laringe provoca tosse e senso di soffocamento che svegliano il paziente la notte. Raramente polmonite “ab ingestis”. Si può associare ai pasti. Scialorrea E’ secondaria o alla stimolazione vagale, oppure alla disfagia di grado elevato. Pirosi Provocato in genere dal reflusso, è aggravato dal fatto che l’esofagite produce un danno nella mucosa diminuendo la possibilità di espellere il cibo per paralisi della muscolatura. 4.2 PATOLOGIE MOTORIE DELL’ESOFAGO (DISCINESIE) Disturbo della normale attività motoria senza ostruzione del lume. Secondo la classificazione di Galliera, si distinguono in malattie dello sfintere esofageo superiore, del corpo esofageo, dello sfintere inferiore. Nella pagina 3 delle appendici si trovano alcune informazioni grafiche. • UES: la più comune è l’acalasia idiopatica dello sfintere superiore, stato conseguente ad un rilasciamento incompleto dello sfintere durante la deglutizione. Si manifesta episodicamente, è agravato da stati d’ansia, e può complicarsi con infiammazione delle vie aeree per via della aspirazione del materiale deglutito. Non c’è una ipertensione continua del UES mentre risulta una

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non contemporanea apertura di esso alla deglutizione. La contrazione faringea che cerca di ovviare all’ostacolo può portare a formazione di diverticoli nel triangolo di Killian. Le forme secondarie sono associate a reflusso, malattie neurologiche e metaboliche, lesioni dei laringei superiori durante interventi sulla tiroide. LES: sono alterazioni più rare, essenzialmente esistono solo tre entità nosologiche documentate. o Ipertonia del LES: lo sfintere si rilascia normalmente ma in maniera insufficiente o LES ipercontrattile: il LES si contrae in risposta alla deglutizione, mentre è normale a riposo. o Ipotonia del LES (calasia): causa molto frequente di reflusso, ha una sintomatologia simile all’ernia iatale.

DISCINESIE DEL CORPO ESOFAGEO

Le varie forme di discinesia sono di difficile interpretazione e possono esistere transizioni da una forma all’altra. In genere l’intervento chirurgico viene effettuato solo dopo una attenta valutazione diagnostica. Possono essere idiopatiche o secondarie a malattie sistemiche. Acalasia Mancato rilasciamento del LES durante la deglutizione Assenza di attività peristaltica nel terzo inferiore del corpo esofageo (o peristalsi scoordinata) Dilatazione esofagea. Di solito la pressione a riposo nel LES risulta aumentata. Dal momento che la parte superiore dell’esofago risulta conservare la sua funzionalità, il bolo viene inghiottito normalmente, ma rimane incastrato a monte della giunzione esofago-gastrica perché il LES non si apre e la muscolatura esofagea inferiore non è in grado di spingerlo contro la sua resistenza. L’ingresso del cibo nello stomaco avviene solo quando la colonna di cibo vince con il suo peso la resistenza del LES. La patogenesi è una degenerazione selettiva dei neuroni arginofili, deputati alla contrazione, del terzo inferiore dell’esofago, con riduzione quindi delle cellule gangliari in questi distretti, che si mantengono normali o subiscono meno alterazioni nel LES. Con il progredire della malattia, l’esofago si dilata ed assume nello stadio avanzato uno dei tre aspetti tipici: • A fiasco (dilatazione della porzione inferiore) • Fusiforme (dilatazione maggiore della porzione centrale) • Sigmoideo (dilatazione che accentua le curve esofagee, maggiore delle altre, detta anche dolicomegaesofago) I sintomi clinici sono quelli classici della malattia esofagea: • Disfagia: sia per i solidi che per i liquidi, il paziente assume i cibi aiutandosi con manovre come Valsalva, mangiando a busto eretto, eccetera. Inizialmente è occasionale, in concomitanza con spaventi o emozioni brusche, poi più frequente • Dolore: soprattutto all’inizio della malattia, quando la dilatazione esofagea è minima, ed è caratteristica l’odinofagia. In fase tardiva si sviluppa una dilatazione esofagea che è in grado di accogliere il cibo che non transita il LES. La disfagia e il dolore non sono presenti, e il sintomo più comune è l’alitosi e il rigurgito di materiale schiumoso, spontaneo o posturale. Nelle fasi avanzate, quando c’è dolicomegaesofago, ricompare disfragia e dolore, accompagnati da rigurgiti e gravi infiammazioni o ascessi polmonari secondari all’inspirazione di cibo non deglutito. Il

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tratto dilatato è a rischio dello sviluppo di carcinomi, soprattutto epitelioma squamoso che si sviluppa dall’epitelio normale dell’esofago nel segmento dilatato nel giro di circa 20 anni. La radiografia con bario, l’esofagoscopia, la manometria sono gli esami di elezione. In particolare la radiografia fornisce informazioni sullo stato della dilatazione esofagea e sulla presenza di livelli idroaerei (residui di cibo) e la presenza di complicazioni polmonari, mentre l’esofagoscopia permette la valutazione della presenza di complicazioni nella mucosa. A causa del passaggio selettivo di materiale liquido nel LES dalla parte inferiore dell’esofago e del ristagno di aria nella parte alta, si ha il caratteristico segno della mancanza della bolla gastrica. Il pasto baritato fornisce in genere tutte le indicazioni diagnostiche, la discesa del cibo per gravità, l’assenza di peristalsi, il ristagno, e un aspetto a coda di topo della giunzione gastroesofagea per il difficoltoso passaggio del bario nello stomaco. Nella mucosa si osservano esofagite da ristagno di cibo, spesso batterica e da candida. La diagnosi è infine confermata dalla possibilità del passaggio di dilatatori, anche larghi, nella giunzione esofago-gastrica, cosa che si ha sempre nell’acalasia e che non sarebbe possibile in un ostacolo meccanico. Anche la manometria con le caratteristiche assenze delle onde nel terzo inferiore è diagnostica. La terapia medica con nifedipina e nitroderivati a lenta azione è utile solo a breve termine, come gli accorgimenti dietetici e l’ingestione contemporanea di cibo e acqua. Ci sono due interventi invasivi: la miotomia attorno al LES e la dilatazione endoscopica. Il primo si sconsiglia come primo approccio perché favorisce il reflusso. La dilatazione si fa con un palloncino legato ad un catetere, che viene posizionato sotto guida fluoroscopica a livello della giunzione e quindi gonfiato fino a 300 mm di diametro per un minuto. Questo processo si può ripetere diverse volte, ma risulta sempre meno efficace perché porta alla fibrosi dell’anello attorno al LES. Nei pazienti pediatrici, o in quei casi di complicazioni come esofagite o diverticoli, si fa la miotomia, cioè l’incisione della tonaca muscolare fino alla mucosa, della lunghezza di 5 cm per comprendere tutto il LES ma non compromettere la funzionalità residua del terzo inferiore dell’esofago. Per evitare le complicazioni da reflusso, l’intervento viene associato ad una plastica iatale che agisce come meccanismo a valvola. Acalasia vigorosa Presenta le caratteristiche manometriche dell’acalasia classica e dello spasmo diffuso, ma è una malattia a se. Presenta comunque: • Contrazioni ripetitive, non propulsive, di grande ampiezza • Mancato rilasciamento del LES Dolore toracico, disfagia e rigurgito sono i sintomi essenziali. Non c’è dilatazione esofagea e alla manometria tutti i segmenti sono interessati da spasmi, ed è la mancata dilatazione del LES che lo differenzia dallo spasmo esofageo diffuso. La terapia medica e la dilatazione non sono efficaci, mentre si può effettuare una miotomia dall’arco aortico fino al LES.

Spasmo esofageo diffuso Dieci volte più raro dell’acalasia, non ci sono evidenze che si tratti di una evoluzione di questa. Si riscontra una ipertrofia di tutta la muscolatura dell’esofago e della muscolaris mucosae con degenerazione del vago e ipersensibilità a tutti gli stimoli colinergici.

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Le alterazioni caratteristichesono: • Comparsa di contrazioni simultanee, ripetitive in risposta alla deglutizione, non peristaltiche • Comparsa di contrazioni spontanee in assenza di deglutizione • Intervalli di normale peristalsi • LES normale Il dolore, l’odinofagia e la disfagia sono i sintomi principali. Riguardano per lo più soggetti instabili o emotivi; spesso il dolore del genere viene riferito ad un infarto e la diagnosi di spasmo esafageo si fa dopo valutazione della normalità delle coronarie. La diagnosi manometrica è spesso sufficiente, confermata dall’osservazione del transito del bario e dell’aspetto a “cavaturaccioli” dell’esofago per la presenza di onde terziarie che danno un aspetto pseudo diverticolare. In ogni caso è necessaria una endoscopia per escludere la possibilità di una malattia organica Si tratta con antispastici e tranquillanti, e solo nei casi non responsivi si fa una miotomia dall’arco aortico al LES non compreso. Esofago schiaccianoci Simile allo spasmo diffuso, è differente da questa per la grande variazione del comportamento alla manometria: infatti non c’è onde terziarie e peristalsi autonoma, ma in risposta all’atto deglutitivo si presenta una onda peristaltica primaria di ampiezza e durata maggiori del normale. Da saltuari episodi di dolore toracico ma non disfagia. Può essere associata ad un reflusso e migliorare con il trattamento di questo. Si cura con antispastici. Altre condizioni Altre malattie che provocano spasmo o disturbi della peristalsi sono la sclerodermia, le malattie neurologiche e la sindrome di Plummer Vinson. Quest’ultima è una condizione caratterizzata da anemia, glossite ed esofagite nei soggetti che mancano di ferro, ed è tipica delle donne dopo la menopausa. Nell’esofago altre all’atrofia della mucosa c’è anche la formazione di membrane fluttuanti dimostrabili alla RX con mezzo di contrasto, e vengono facilmente rotte senza essere osservate all’indagine endoscopica. Le membrane e le contrazioni spastiche diffuse sono la causa della disfagia. E’ una lesione precancerosa da monitorare con attenzione: il rischio di carcinoma nel terzo superiore aumenta e l’incidenza è del 10-30%. 4.3 DIVERTICOLI DELL’ESOFAGO Sono molto rare le forme acquisite, soprattutto sono forme di esofago doppio. Quelli acquisiti sono diverticoli da trazione e da pulsione, i primi secondari ad un processo cicatriziale con retrazione fibrosa e i secondi ad un indebolimento della parete con spinta eccessiva dall’interno. Si dividono in faringei, medio-toracici ed epifrenici. Diverticoli faringei (diverticolo di Zenker) Diverticolo da pulsione secondario alla incoordinazione faringo-esofagea, o più raramente ad un disordine di motilità dell’esofago. Si ha che quando c’è una non coordinazione fra la contrazione faringea e il UES (ritardo di apertura di questo o contrazione del cricofaringeo) nella pareteposteriore dell’esofago, fra le fibre del muscolo costrittore inferiore del faringe e il cricofaringeo, nell’area detta triangolo di Killian, dove sono assenti le fibre longitudinali dell’esofago, si forma una estroflessione della sottomucosa che è limitata

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dalla colonna. Crescendo, infatti, essa si sposta di lato, generalmente a sinistra, e lì si reperta. Le condizioni che favoriscono lo sviluppo del diverticolo sono il tutte le cause di mancato rilasciamento del muscolo cricofaringeo dopo la deglutizione (acalasia, discalasia eccetera), la contrazione del UES prima della fine della deglutizione, l’ipertono dello sfintere, e molti altri disordini della motilità esofagea. Con il passare del tempo questa tasca cresce fino ad andare ad allinearsi sotto al faringe perché sposta in avanti l’esofago, e il cibo ingerito entra più facilmente nel diverticolo che nell’esofago. Questo provoca disfagia, tosse e rigurgito, con possibilità di compressione del diverticolo e perforazione e di polmonite ab ingestis. Tre volte più frequente nell’uomo che nella donna, la malattia ha una serie di sintomi particolari: • Iniziale fase di disfagia a livello cervicale (formazione del diverticolo) • Disfagia, tosse, alitosi, rigurgito e anoressia • Compressione della catena laterale del simpatico (raro) miosi e enoftalmo • Compressione del ricorrente  disfonia • Compressione del vago e carotidi  sincopi Le difficoltà all’alimentazione sono grandi e spesso c’è denutrizione e calo ponderale. La diagnosi migliore è il pasto baritato con RX laterale sinistra. L’esofagoscopia è controindicata perché il rischio di perforazione del diverticolo è elevatissimo (l’endoscopio va diritto dentro esso). La terapia è l’intervento chirurgico, che può essere rivolto alla risoluzione della discinesia che provoca il diverticolo (miotomia del cricofaringeo), o al diverticolo stesso (diverticolectomia) spesso associata alla cricofaringectomia. Oppure c’è anche la diverticoloplessi, ossia lo spostamento del diverticolo in posizione anteriore, rendendolo meno accessibile al cibo. Diverticoli toracici 15% di tutti i diverticoli dell’esofago, spesso asintomatici. La maggior parte di essi riconosce come eziologia la trazione da parte di un linfonodo divenuto fibrotico a seguito di un processo tubercolare. Essendo dotati di parete muscolare, e non tendendo all’aumento di volume, sono in genere asintomatici, anche perché sono stirati verso l’alto o lateralmente, e quindi il cibo non tende all’ingresso dentro di essi. Invece i diverticoli da pulsione, sebbene rari sono pericolosi perché secondari ad una pressione interna da discinesia che provoca estroflessione della sottomucosa e mucosa attraverso una debolezza della parete muscolare. La loro sintomatologia è quella della discinesia che li ha provocati, ma possono avere importanti complicazioni come la diverticolite e la perforazione con conseguente mediastinite. La terapia di quelli sintomatici pericolosi è la asportazione chirurgica con eventuale miotomia del tratto interessato dalla discinesia. Diverticoli epifrenici Sono localizzati negli ultimi 10 cm dell’esofago, costituiti da mucosa e sottomucosa e considerati fra quelli da pulsione. Sono legati a patologie con spasmo esofageo o all’ernia iatale con reflusso. I sintomi iniziali sono digestione difficile, singhiozzo e pirosi, ma poi si ha anche rigurgito, dolore toracico e disfagia. Spesso interviene una ulcerazione della mucosa con sanguinamento cronico. Si trattano attraverso la risoluzione del problema motorio e se il diverticolo è piccolo tende a regredire. Il trattamento con la resezione del diverticolo è indicato se c’è infiammazione o non si riesce a svuotarlo bene. 4.4 ESOFAGITE E MALATTIA DA REFLUSSO

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Patologia esofagea più frequente è una serie di lesioni della mucosa provocate dal reflusso di materiale gastrico o duodenale attraverso il LES. Le cause di reflusso sono multifattoriali, e dipendono: • Dall’efficacia dei meccanismi antireflusso • Dal volume del contenuto gastrico • Dalle caratteristiche del materiale refluito • Dall’efficacia della clearence esofagea • Dalla capacità riparativa della mucosa esofagea (età e stato nutrizionale del paziente) E’ caratterizzata da lesioni della mucosa esofagea secondarie al reflusso in essa di materiale proveniente dallo stomaco (esofagite peptica), dal duodeno (esofagite biliare o alcalina). Epidemiologia La malattia interessa in maniera più o meno grave il 10% della popolazione, M/F = 2:1, V decade di vita. Incidenza 86/100000 mortalità 0.17/100000. Più frequente nei Paesi industrializzati. Patogenesi Il singolo episodio di reflusso si ottiene con la alterazione dei meccanismi antirefluesso dell’esofago e con la presenza di condizioni gastriche che lo facilitano. Esistono i seguenti meccanismi antireflusso: • Sfintere crurale, del diaframma, attorno allo iato esofageo • Angolo di Heis, fra fondo gastrico e cardias • LES La barriera anti – reflusso così costituita sopporta pressioni di 20 – 30 mm Hg; la pressione gastrica è normalmente superiore a quella esofagea e il reflusso si crea quando il LES ha un tono basale inferiore a 6-8 mm Hg. Le cause della malattia possono essere dipendenti quindi dalla inadeguata chiusura della barriera o dall’aumento della pressione gastrica. Le fibre del LES non sono né adrenergiche né colinergiche, ma rispondono al VIP e al NO Cause esofagee: • Ipotonia del LES (sclerodermia, fumo di sigaretta, beta adrenergici, esofagite, farmaci calcioagonisti e colinergici. • Inappropriato rilascio del LES (aumento del numero e della durata dei rilasciamenti) • Manovre chirurgiche ed endoscopiche • Diminuzione della clearence esofagea • Esofagite e diminuzione della resistenza della mucosa Cause gastriche: • Ritardo dello svuotamento • Reflusso duodeno – gastrico, da asincronismo della peristalsi dei due organi • Aumento del volume gastrico (pasti abbondanti) • Vicinanza del contenuto gastrico con la giunzione esofagea (clinostatismo) • Aumento della pressione gastrica (obesità, gravidanza, ascite, abiti stretti) • Ernia iatale da scivolamento (perdita della componente cruraledella barriera) Il 10% delle situazioni riconosce un carattere idiopatico. Clinica

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46 /278 Classificazione endoscopica di Savary Miller dell’esofagite

Sintomi tipici sono la pirosi e il rigurgito (risalita nella bocca di materiale gastrico) Sintomi invece definiti atipici sono: • il dolore toracico non cardiaco • l’eruttazione • la scialorrea • alterazioni del gusto

Grado I: edema con erosioni non confluenti Grado II: erosioni confluenti ma non di tutta la circonferenza esofagea Grado III: erosioni confluenti estese a tutta la circonferenza, emorragia Grado IV: ulcerazioni e/o stenosi peptica o altre complicanze

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singhiozzo odinofagia bolo isterico disfagia (indica l’evoluzione a stenosi peptica)

Se è presente nei primi anni di vita compaiono sintomi come arresto della crescita anemia sideropenica e problemi respiratori, associati ad un grave rigurgito. Complicazioni importanti della malattia da reflusso possono essere una modesta emorragia, lesioni dell’apparato respiratorio quando il reflusso è importante e c’è aspirazione del materiale refluito, la stenosi peptica e l’esofago di Barret. Una importante sequela di complicazioni sono i danni alla mucosa: • Esofagite lieve: infiltrato di cellule infiammatorie granulate, iperplasia delle cellule basali e allungamento delle papille dermiche, in assenza di lesioni endoscopiche di rilevante evidenza. • Esofagite erosiva: lesioni evidenti all’endoscopia, con iperemia molto evidente, friabilità e ulcerazioni che provocano sanguinamento ed emorragia digestiva • Stenosi peptica: danno della mucosa secondario alla fibrosi infiammatoria, produce disfagia ed è presente nel 10% dei soggetti con un reflusso. Le stenosi del reflusso sono lunghe pochi cm e distali (giunzione fra epitelio cilindrico cardiale e pavimentoso esofageo). La progressione è lenta e produce disfagia prima per i solidi e poi per i liquidi. • Esofago di Barrett: progressiva sostituzione dell’epitelio pavimentoso pluristratificato dell’esofago con epitelio metaplastico, di tipo gastrico o intestinale, comunque colonnare. Il Barrett è da considerarsi a tutti gli effetti una lesioni displastica precancerosa, che aumenta il rischio di insorgenza di un adenocarcinoma esofageo. La diagnosi di Barrett era un tempo distinta in due sottogruppi (short e long Barrett) a seconda della lunghezza della lesione (maggiore o minore di 3 cm). I criteri oggi necessari alla diagnosi si basano invece sulla vicinanza del reperto dalla ZZL e sul tipo di metaplasia: in anatomia patologica, una metaplasia di tipo fondo gastrico non è da considerarsi un Barrett. La metaplasia intestinale di Barrett è di tre tipi: 1. tipo gastrico 2. tipo cardiale 3. tipo intestinale: questa forma può evolvere in adenocarcinoma della giunzione esofagogastrica, che si manifesta con calo ponderale e disfagia rapidamente progressiva. L’esofago di Barrett si associa spesso alla stenosi peptica e quindi la disfagia in un paziente con reflusso deve essere osservata con molta attenzione. • Ulcera di Barrett: lesione ulcerativa nel contesto della metaplasia, che si può complicare con emorragia, perforazione o stenosi. • Problemi respiratori: per aspirazione del materiale refluito e per broncospasmo provocato per via indiretta dall’irritazione della mucosa esofagea.

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Diagnosi A volte basta l’anamnesi ma se non c’è regressione dopo un ciclo di terapia o se i sintomi sono gravi, è necessario ricorrere alla diagnostica strumentale. • Anamnesi con fattori di rischio e indicazione dei sintomi tipici • Evidenza di reflusso alla radiografia. Si ha solo nelle forme molto avanzate, ma diviene importate ricorrere all’RX quando ci sia una stenosi peptica o si valuta la possibilità di un’ernia iatale. • Registrazione del pH intramuraleesofageo, con un elettrodo ingerito dal paziente, e Phmetria dinamica nelle 24 ore. L’elettrodo viene fissato 5cm al di sopra del LES, e il test è positivo quando il pH non cambia fra questo livello e lo stomaco, e diminuisce in seguito a manovre di compressione gastrica. I fenomeni di reflusso sono ortostatici nel 10-33%, clinostatici 25-46%, biposizionali nel 65-75% dei casi. Cut-off fissato a pH 4. Fornisce informazioni sulla durata degli episodi, sul tempo di esposizione dello stomaco al pH acido, e sulle relazioni fra posizione e rflusso. • Esofagogramma con pasto bariato. Utile per identificare le erosioni e le stenosi peptiche, nonché l’evidenza di un adenocarcinoma. • EGDS con prelievi bioptici multipli: diagnosi del Barrett in assenza di alterazioni radiografiche. Evidenzia anche esofagite erosiva e stenosi peptica distale e permette la valutazione dell’esofagite. Inoltre è utile anche per differenziare l’origine peptica o neoplastica di lesioni ulcerative o delle stenosi • Manometria completa: fornisce informazioni sull’attività del LES e sulla funzione motoria dell’esofago. • Test di Bernstein: infusione nell’esofago di HCL 0,1 N. Questo crea pirosi retrosternale solo nei pazienti con esofagite. Il test è controprovato dalla ingestione di soluzione fisiologica, che non provoca bruciore nei soggetti normali. • Test di clearance acida dell’esofago: valutazione pHmetrica del numero di deglutizioni necessarie perché l’esofago si liberi di 10ml di soluzione di HCL 0,1 N. • Studi radioisotopici: ingestione di un isotopo non assorbibile, in genere Tc99, e valutazione della sua transizione a livello esofageo. E’ una metodica assolutamente non invasiva che può essere usata nel bambino. Terapia medica • Diminuzione del reflusso: diminuzione del volume gastrico, della pressione addominale, dei pasti grassi abbondanti e delle sostanze ipotonizzanti del LES (grassi, alcool, caffè e fumo). Utili farmaci procinetici come la metoclopramide, domperidone e cisapride. • Neutralizzazione del materiale refluito: farmaci antiacidi o H2 inibitori come la famotidina. Questi, ed in particolare l’omeprazolo e gli altri inibitori della pompa protonica hanno una grande efficacia nella risoluzione della malattia da reflusso. • Potenziamento della clearance esofagea: sollevare la testa del letto del paziente di circa 20-30 cm; da questo accorgimento si possono trarre grandi benifici. • Protezione della mucosa esofagea: utilizzo di farmaci citoprotettori (sucralfato, bismuto colloidale) La combinazione di questi presidi medici offre una risoluzione della sintomatologia nella maggioranza dei casi e la percentuale delle recidive non èelevata. La formazione di stenosi peptiche può essere corretta con la dilatazione in endoscopia, e risulta spesso una misura terapeutica risolutiva. La dilatazione deve comunque essere graduale, di non più di 6-8 mm alla volta in sedute separate da una o due settimane. Nel caso di dilatazioni lunghe o tortuose può esservi un pericolo di rottura. La dilatazione non è ovviamente una procedura risolutiva, e va comunque continuata la terapia medica; si prende però in considerazione per quei pazienti anziani o debilitati che non sono in grado

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di sottoporsi all’intervento chirurgico. In questi si devono praticare dilatazioni successive al bisogno, ed eventualmente prendere in considerazione la possibilità di una protesi endoscopica. Terapia chirurgica Indicazioni alla terapia chirurgica sono: • Età di minore di 40 anni • Intolleranza alla terapia medica prolungata • Recidiva sintomatica e clinica precoce • Complicanze (ulcera, stenosi, Barrett)

Alcool Fumo Esofago di Barrett Acalasia (ristagno di cibo) Diverticolo Ingestione di caustici Radiazioni S. di Plummer Wilson Aflatossina fungina Reflusso gastrico persistente Condizioni

Lo scopo di queste terapie è la ricostruzione di un segmento dell’esofago addominale e la creazione di un meccanismo a valvola nell’estremità inferiore dell’esofago stesso. La riparazione dello iato diaframmatico non è considerata essenziale per la riuscita dell’operazione. Esistono due tecniche principali: • Fundoplicatio secondo Nissen: avvolgimento dello stomaco (fondo) attorno all’esofago, con resezione dei vasi cardiali e delle aderenze fra stomaco e pancreas. Per evitare che questo meccanismo valvolare scivoli in basso si attacca il fondo alla parete gastrica anteriore. Una possibile complicazione è la eccessiva competenza del meccanismo a valvola e la impossibilità all’eruttazione. • Riparazione di Belsey Mark IV: Lo stomaco viene utilizzato per avvolgere i 2/3 anteriori dell’ultimo tratto esofageo, e il diaframma viene usato per avvolgere 1/3 inferiore. Non da origine alla sindrome da distensione gassosa. Essendo un approccio toracico èpossibile anche nei pazienti obesi o particolarmente tarchiati. 4.5 TUMORI DELL’ESOFAGO Sono principalmente neoplasie maligne, in quanto i tumori benigni sono limitati all’1% dei casi, e sono essenzialmente leiomioma, che si presenta con noduli della porzione distale aggettanti nel lume. Ha una componente fibrosa particolarmente sviluppata e provoca prima di tutto disfagia. La sua escissione è facile e spesso non è necessaria la resezione esofagea. Possono essere presenti anche polipi e papillomi, ma sono più rari. Epidemiologia Aree ad alta incidenza: Fascia asiatica del carcinoma esofageo, Finlandia, Irlanda, Africa sudorientale, Iran (dove le donne superano gli uomini), Normandia. Queste anomalie della distribuzione si spiegano male e ci sono teorie per i vari posti. Normandia: bevande ricavate artigianalmente dalla mele, fermentando producono nitrosamine cancerogene Iran: cibi speziati e bevande bollenti. In Italia la situazione è la seguente: incidenza 6/105 maschi, 1,5 femmine (più frequente al nord, 10-12 casi) Età media di insorgenza verso la 5°-6° decade. Eziopatogenesi I fattori eziologicamente correlati sono molti e di varia natura. Tutte queste cause finiscono, in vario modo, per provocare un danno infiammatorio della mucosa, che si evolve in una rigenerazione continua. In seguito si ha displasia, metaplasia e cancro. Ci sono diversi aspetti eziologici di carcinoma:

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Carcinoma in situ: considerato una entità istologica differente dal carcinoma spinocellulare, caratterizzato da polimorfismo e disordine cellulare in ogni strato dell’epitelio Carcinoma squamoso: 95%, origina dalle cellule dell’epitelio pavimentoso non cheratinizzato che hanno giunzioni fra una cellula e l’altra che assomigliano a spine, da cui il nome. Meno frequente nel tratto superiore, si estende longitudinalmente, e invade rapidamente la muscolare, i linfonodi e le altre strutture mediastiniche per contiguità. Diffonde a pleura, nervi frenici e ricorrenti, pericardio e aorta, e dalla porzione inferiore diffonde a linfonodi sottodiaframmatici. Per via ematogena si dissemina al fegato e alle ossa. E’ sensibile al trattamento radioterapico. Adenocarcinoma: origina in genere dall’epitelio di Barrett, meno frequentemente da un focolaio ectopico di mucosa gastrica o dalle ghiandole sottomucose. Trattato successivamente in un paragrafo a se. Sarcomi: Rari, più comune è il leiomiosarcoma. Rari i linfomi primitivi, per lo più NH. Il linfoma H invece può avere un interessamento secondario abbastanza frequente. Carcinoidi: rari ma ben documentati, secernonoACTH, calcitonina, paratormone e VIP.

Clinica • Esordio: bruciore urente, disfagia progressiva inizialmente per i solidi e quindi per i liquidi, e rapido calo ponderale. Molto spesso al momento della diagnosi la malattia si presenta in uno stadio già inguaribile, poiché si avverte disfagia quando la stenosi supera il 60% del lume. • Odinofagia, sensazione di corpo estraneo • Rigurgito • Calo ponderale • Polmonite “ab ingestis” In presenza di una disfagia insorta di recente, ipotizzare sempre la neoplasia, anche se spesso la causa è benigna. La disfagia tende ad aggravarsi rapidamente, si associa a scialorrea e a rigurgito, e assieme all’attività del tumore induce pian piano una cachessia. Dolore, singhiozzo e raucedine indicano l’infiltrazione alle strutture adiacenti del mediastino. Diagnosi RX con mezzo di contrasto, endoscopia con esame bioptico ed esame citologico sono gli esami di routine. Il carcinoma da segno di se quando occupa il 60% del lume, e in questo caso è regolarmente troppo tardi per un intervento chirurgico risolutivo. Ogni volta che si instaura una disfagia progressiva, si deve ipotizzare la possibilità di un carcinoma. •

L’esame di elezione è l’EGDS con biopsie multiple, che permette di evidenziare le lesioni della mucosa non ancora sintomatiche, che sono erosioni associate ad una profonda infiltrazione simili all’acalasia. Particolarmente importante è l’eco-EGDS, cioè l’associazione dell’endoscopio con un ecografo in posizione laterale: lo strumento indaga le erosioni della mucosa, e permette l’estemporanea analisi della sottomucosa e dei tessuti sottostanti alla lesione, per evidenziare la massa della lesione, la sua infiltrazione nell’esofago e la diffusione alle strutture circostanti. Anche perché in 1/3 dei casi le biopsie risultano negative. E’ necessaria l’osservazione del fondo gastrico tramite retrovisione con la torsione dell’endoscopio. • La radiografia con mezzo di contrasto mette in evidenza lesioni già sintomatiche. Altri esami utili per la stadiazione sono: - TAC - Broncoscopia (analisi di metastasi e perché gli stessi fattori di rischio per il carcinoma

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dell’esofago sono implicati nella genesi di tumori del bronco e del collo) - Ecografia - RMN - Laparoscopia (ricerca di metastasi) La stadiazione, visibile a pag. 3 dell’appendice, si basa sul sistema TNM e differenzia in base al grado di invasione della parete esofagea per i tumori dell’esofago, gastrica per i tumori della giunzione. Terapia La chirurgia dell’esofago è un intervento maggiore: spesso i pazienti sono in età avanzata, presentano concomitanti affezioni respiratorie, e la compromissione dello stato nutrizionale. Per molti di loro non si può fare altro che ricompensare le condizioni cliniche ed effettuare una palliazione medica con endoprotesi o al più una chemioterapia. Le condizioni per avere l’intervento chirurgico sono: • Estensione limitata ad un volume resecabile: in genere lo stadio I viene operato con successo, il due e tre vengono operati come palliazione e il 4 non viene operato. • Condizioni respiratorie buone • Condizioni nutrizionali buone In genere il 30-40% dei tumori sono suscettibili di interventi di resezione, anche se la presenza di strutture vicine delicate condiziona la possibilità di rimuovere linfonodi e di ristabilire a continuità del tratto enterico. Alcuni dei tumori risultano inoperabili dopo l’apertura, in altri casi si lascia materiale neoplastico. La resezione avviene a partire dalla giunzione esofago-gastrica o più in basso, a seconda della condizione del tumore, fino a livello toracico o cefalico. Poi si fa una anastomosi fra il tratto craniale dell’esofago e il tratto gastrico; l’anastomosi gastrica cervicale è più vantaggiosa perché se si rompe permette la diagnosi rapida e non è minacciosa per la vita del paziente. Alcuni paziente possono essere trattato con interventi di tipo bypass, anche se non molto frequentemente perché come alternativa alla palliazione endoscopica queste operazioni hanno un rischio troppo alto; comunque si deve eseguire in presenza di una fistola tracheo-esofagea ed ha un effetto maggiore della protesi. La palliazione inoltre consiste nell’inserimento endoscopico di protesi, nella terapia laser (distrugge il tessuto neoplastico. In gruppi di pazienti selezionati provoca la cessazione della disfagia nel 70% dei casi). Infine, la radio e la chemioterapia sono efficaci. La radio nel trattamento del carcinoma nello stadio 1 e 2 ha una efficacia paragonabile alla chirurgia ma con maggior tendenza alla recidiva, oltre il 70%. Comunque a radioterapia risulta limitata ai tumori epiteliali, non rispondono gli adenocarcinomi. La chemio, a differenza della terapia radiante, può essere usata con efficacia anche nel trattamento preoperatorio, migliorando la sopravvivenza. 4.6 ERNIE IATALI Con questo termine si intende la dislocazione intratoracica di una parte di stomaco attraverso lo iato diaframmatico. E’ formato da alcuni fasci del diaframma che partono dalla seconda e terza vertebra lombare, salgono e avvolgono da dietro l’esofago, e scendono connettendosi nuovamente alla spina dorsale, formando quindi una fionda diaframmatica.

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L’esofago è mantenuto in posizione anche dalla membrana frenoesafagea, come già detto, che si associa alla fascia diaframmatica addominale a formare una fascia stretta attorno all’esofago. Si distinguono l’ernia da scivolamento e l’ernia da rotazione (o para esofagea). Ernia da scivolamento (tipo 1 di Ackerlund) A seguito dell’allargamento dello iato, una parte della porzione cardiale e del fondo gastrico scivolano nel torace, per via della pressione addominale che è maggiore di quella toracica. Questo meccanismo è alla base del 90-95 % delle ernie iatali. Si tratta in genere di una situazione intermittente, l’ernia è in parte o del tutto riducibile con manovre adeguate e viene evocata da manovre compressive dell’addome o dalla variazione di decubito. In genere è una affezione asintomatica dell’età medio-alta, e in alcuni casi raggiunge una notevole dimensione. Ernia paraesofagea (tipo 2 di Ackerlund) Difetto di una parte della membrana freno-esofagea, provoca il mantenimento in posizione del cardias, ma l’inserimento parallelo ad esso di una parte di stomaco nel torace, di solito il fondo. Questa condizione può portare alla formazione di una sacca erniaria grande, dove si impegnano colon, milza o le anse intestinali, con gravi conseguenze. Patogenesi Queste condizioni sono spesso associate a situazioni idiopatiche, a traumi o a eventi iatrogeni. Sicuramente si può verificare dopo eventi in cui si è danneggiato chirurgicamente lo iato esofageo. Si associa spesso a due malattie, la diverticolosi del colon e la litiasi biliare, nella triade di Saint. Questo fa pensare ad una origine dietetica comune alle tre malattie, tipica del mondo occidentale. Clinica • Ernia da scivolamento: asintomatica per lo più, o presenza di disturbi al transito digestivo aspecifici, come pesantezza o dolore al passaggio del cibo. Esistendo una certa correlazione fra ernia iatale e reflusso, la sintomatologia è di solito associata a quest’altra condizione. • Ernia paraesofagea: anche questa di solito asintomatica, ma alcuni pazienti dopo i pasti riferiscono una brusca e lancinante dolorabilità addominale, forse provocata dalla torsione dello stomaco Complicanze Di solito le ernie da scivolamento piccole non sono complicate se non da reflusso, mentre appaiono più problematiche quelle grandi, per la possibilità della compressione ischemica della mucosa e quindi la formazione di ulcere ed emorragie. La peggiore complicazione è il volvolo dello stomaco, o delle anse dell’intestino impegnate in un sacco paraesofageo. Diagnosi Anche piccole ernie intermittenti si diagnosticano con il pasto baritato, mettendo in evidenza la classica presenza di ernie sopra il diaframma piene di materiale ingerito. Meglio il bario che la RX in bianco e nero perché grosse ernie mediastiniche possono essere scambiate per cisti o tumori del polmone. L’endoscopia appare migliore per l’osservazione di complicazioni come ulcere e stenosi Importante sapere che l’ernia iatale da scivolamento rimane stabile nel tempo e può al max sopravvenire una esofagite da reflusso, l’ernia paraesofagea invece va incontro ad un progressivo

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ingrandimento e finisce per contenere tutto lo stomaco, e qui la minaccia di torsione è elevatissima. Terapia L’ernia iatale da scivolamento si può trattare con la fundoplicatio come si fa per il reflusso, ma di solito si preferisce la riduzione manuale dell’ernia e la riparazione dello iato con una sutura. Se si ha una strozzatura dello stomaco viene fatta una toracotomia d’urgenza e viene resecato (o derotato e messo in sede, se ancora vitale) lo stomaco necrotico. Successivamente viene riparato lo iato.

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CAP 5 PATOLOGIA CHIRURGICA DELLE VIE BILIARI Il dotto biliare primitivo epatico (comune) decorre insieme ad arteria epatica e vena porta a partire dal peduncolo, dopo la congiunzione dei due tronconi epatici biliari, nel margine libero del legamento epato-duodenale. Ha un rapporto stretto con l’arteria epatica diramazione destra, che di solito è laterale ad esso, e passa al di sotto della confluenza fra il dotto epatico e il dotto cistico, ancora più laterale. La struttura compresa fra il cistico e l’epatico, che contiene l’arteria epatica destra, è detta Triangolo di Calot. Dalla confluenza in poi, il dotto epatico e il cistico formano il coledoco, e decorre con gli altri elementi dell’ilo epatico fino alla faccia mediale posteriore del duodeno, mentre l’arteria e la vena del peduncolo si portano medialmente e raggiungono il limite del legamento epatoduodenale. Dopo aver raggiunto il duodeno, decorre per 15 mm nel suo spessore assieme al dotto di Wirsung, che si trova dietro ad esso. I due dotti ancora distinti attraversano lo sfintere di Oddi, e sboccano parallelamente nel fondo della papilla di Vater. Lo sfintere di Oddi è fatto da fibrocellule muscolari lisce circolari, disposte attorno ai due dotti vicino al loro sbocco, indistinguibile dalla muscolatura circostante ma embriologicamente e funzionalmente distinto. I due dotti possono sboccare nella papilla uniti, distinti nel fondo, oppure separati pertutta la papilla da un setto. Particolarmente raro è lo sbocco dei due dotti uno dentro l’altro. Fra l’infundibolo della colecisti e il dotto cistico si trovano una serie di pieghe che funzionano da valvola (valvola di Heister) e una struttura sfinterica chiamata sfintere di Lutkens. L’albero biliare riceve la vascolarizzazione in tre aree funzionali: una regione sopraduodenale, una ilare e una retro-pancreatica. Nella porzione sopraduodenale c’è un piccolo plesso arterioso di vasi derivati dalla arteria retro duodenale e gastroduodenale. Anche all’ilo c’è un plesso, ma molto più ricco, che nasce da tutti i rami dell’ilo. La porzione di coledoco dietro al pancreas è ovviamente vascolarizzata dai rami nella retro duodenale. La colecisti è irrorata dall’arteria cistica. Sono tutti questi rami dell’arteria epatica. Tutti questi rami e queste informazioni sono visibili nella quarta pagina delle appendici. La bile epatica è un liquidi isotonico pigmentato con composizione simile a quella del plasma, mentre quella colecistica è più povera di anioni organici, cloro e bicarbonato, che vengono riassorbiti a livello della membrana basale della colecisti. Componenti della bile: acqua (82%) acidi biliari (12%) lecitina e altri lisofosfolipidi (4%) colesterolo non esterificato (0.7%) bilirubina coniugata, IgA, cataboliti ormonali, farmaci metabolizzati, muco ed elettroliti. La secrezione giornaliera di bile ammonta a 500 – 600 ml. I principali meccanismi che regolano il flusso biliare sono: 1. trasporto attivo di acidi biliari dagli epatociti ai canalicoli biliari 2. trasporto di Na da parte di un’ATPasi dipendente dagli acidi biliari. 3. secrezione duttulare (processo secretina – dipendente cAMP mediato che risulta dal trasporto attivo di Na e bicarbonati seguito dal flusso passivo di acqua) Acidi biliari: si dividono in primari (colico e chenodesossicolico) e secondari (desossicolico e litocolico). I primi sono sintetizzati a partire dal colesterolo e coniugati con glicina o taurina, i secondi

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derivano dalla trasformazionedei primi da parte dei batteri del colon. Altri acidi biliari atipici o aberranti come l’UDCA (UrsoDesossiColic Acid), oppure acidi coniugati solforici e/o glucuronici sono prodotti in quantità apprezzabile nei pazienti con sindromi colestatiche croniche. Circolo enteroepatico: in condizioni normali gli acidi biliari vengono riassorbiti efficientemente (a parte l’acido litocolico) per diffusione passiva lungo l’intestino ma soprattutto per trasporto attivo a livello dell’ileo distale. Il pool normale di acidi biliari è 2 – 4 g: durante un pasto entrano nel circolo almenouna volta e nell’arco del giorno almeno 5 – 10 volte. L’efficienza del riassorbimento intestinale è del 95%  perdite fecali: 0,3 – 0,6 g/die compensata da una pari sintesi epatica che può arrivare fino a un max di 5g/die. Funzione della colecisti e dello sfintere coledocico: a digiuno lo sfintere di Oddi mantiene una contrazione tonica che serve a: prevenire il reflusso del contenuto duodenale nel coledoco e nel dotto di Wirsung favorire il riempimento della colecisti con la bile. Lo svuotamento della colecisti è stimolato dalla CCK, rilasciata dal duodeno in risposta a grassi e amminoacidi. La CCK determina: 1. contrazione della colecisti 2. riduzione della resistenza dello sfintere di Oddi 3. aumento secrezione epatica di bile 4. aumento del flusso biliare nel duodeno Durante la notte quasi tutto il pool organico di bile può essere sequestrato nella colecisti la cui capacità ammonta a 30 – 75 ml. La bile ha prima di tutto una funzione emuntoria, che assicura la secrezione di bilirubina, colesterolo, metaboliti di ormoni steroidei e di sostanze endogene ed esogene. Sono in genere le sostanze ad alto peso molecolare ad essere escrete con la bile (maggiore di 500 D) perché quelle piccole vengono filtrate nel glomerulo. Inoltre ha una funzione di emulsione dei grassi intestinali e di attivazione degli enzimi pancreatici. ANOMALIE CONGENITE

Circa il 10-20% della popolazione presenta anomalie del genere, che possono essere distinte in : • Agenesia della colecisti • Duplicazione • Diverticoli della colecisti • Colecisti gigante • Colecisti a “berretto frigio”, in cui il corpo viene separato dal fondo dauna piega completa o no, ma comunque clinicamente irrilevante • Alterazione di posizione e di sospensione, che possono predisporre alla calcolosi, alla torsione e al volvolo 5.1 L’ITTERO E LA SUA DIAGNOSI DIFFERENZIALE Condizione di colorazione giallastra della cute e delle mucose provocata dall’accumulo di bilirubina. La bilirubina indiretta (non coniugata) viene legata dall’albumina (max teorico: 60-80 mg/dl) e viene portata al fegato, dove subisce la coniugazione con acido glucuronico e viene escreta nel duodeno con

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la bile. Una volta lì, una parte viene espulsa con le feci (a cui da il colore) e l’altra viene riassorbita nel circolo enterico degli acidi biliari. Questa quota riassorbita però ha subito il metabolismo dei batteri ed è diventata urobilinogeno: si chiama così perché non legandosi più alle proteine plasmatiche viene filtrato nel glomerulo e si trova nelle urine. Il riscontro di dosi sopra liminari di urobilinogeno nelle urine si ha quando c’è massiccia emolisi o ci sono problemi di ricaptazione epatica di questo composto (insufficienza epatica) La classificazione dell’ittero mette in luce i processi che lo causano. •

Ittero a bilirubina indiretta o Da aumentata produzione  IPEREMOLISI  ERITROPOIESI INEFFICACE o Da difetto di captazione  FARMACI  DIGIUNO PROLUNGATO  SEPSI o Da difetto di glucuronazione  GILBERT  CRIGLER NAIJAN (I E II)  ITTERO NEONATALE FISIOLOGICO  FARMACI  SEPSI  EPATOPATIA



Ittero a bilirubina diretta o Deficit di secrezione epatica  DUBIN JOHNSON  ROTOR  COLESTASI INTRAEPATICA  GRAVIDANZA  EPATOPATIA  COLANGITE SCELORASANTE  FARMACI  SEPSI o Ostruzione biliare extraepatica  COLELITIASI  TUMORI DEL PANCREAS O DEL COLEDOCO  CIRROSI BILIARE PRIMITIVA

Si deve tener conto che spesso coesistono più forme di ittero: ad esempio nella patologia alcolica o nell’ipertensione portale da qualsiasi causa, esiste un difetto misto di ricaptazione, coniugazione ed escrezione che fa avere un ittero misto. In genere esiste la dicotomia fra ittero di tipo ostruttivo, a bilirubina diretta, di competenza chirurgica, e ittero non ostruttivo, a competenza medica, con bilirubina indiretta. Non è sempre possibile fare questa distinzione: anzitutto esistono difetti epatici di secrezione come il Dubin Johnson che non sono ostruttivi ma sono a bilirubina diretta, e viceversa, l’ostruzione tende a

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creare alterazioni dell’epatocita e a virare verso un ittero misto. Clinica L’ittero inizia a livello subclinico con valori di bilirubina compresi fra 1 e 3 mg/dl, con colorazione giallastra delle sclere (subittero). Con valori maggiori, si evidenzia anche una colorazione cutanea e mucosa. I danni che si hanno nell’organismo adulto sono soprattutto epatici, legati al perdurare di una colestasi cronica fino ad un quadro di insufficienza epatica conclamata. La relativa impermeabilità della BBB nell’adulto impedisce il manifestarsi di danni encefalici, cosa che invece è molto pericolosa nel bambino alla prima settimana di vita. Se la bilirubina sale al di sopra di 20 mg/dl si ha degenerazione irreversibile dei nuclei della base (kernittero). L’ostruzione delle vie biliari inoltre si associa all’infezione della bile da parte dei batteri intestinali, motivo per cui spesso l’ittero è complicato da colangite acuta. Diagnosi La diagnosi di ittero è clinicamente facile, e si fa con la semplice semeiotica. Invece quello che è importante è la diagnosi differenziale fra le differenti condizioni e tipi di ittero che si possono avere. Questo si può fare ad “occhio nudo” soltanto in caso di ittero molto intenso, in quanto: • Nell’ittero diretto si verifica una ritenzione di sali biliari con prurito e accumulo di bilirubina coniugata con colorazione verdastra della cute. • Nell’ittero indiretto si ha una colorazione rossastra della cute. A parte che queste differenze di colore vengono fuori solo per valori molto alti di bilirubinemia, non sempre è valida l’associazione ittero diretto = ittero ostruttivo, e quindi è necessaria una diagnostica clinica e strumentale più approfondita. Alcune condizioni cliniche come la cirrosi o l’epatopatia grave che si accompagnano ad ittero possono invece essere già di per se diagnostiche anche nei confronti dell’alterazione che conduce all’ittero, che scompare trattando e compensando la malattia stessa. Non è però possibile escludere matematicamente che un cirrotico abbia un calcolo! Esami di laboratorio Particolare importanza ce l’hanno gli indici di stasi: •

Bilirubina diretta (ma anche indiretta nelle fasi avanzate), γGT, ALP indicano comunemente un quadro aspecifico di ostruzione al flusso della bile nel duodeno. Se oltre a questi esistono: o Segni infiammatori (VES, proteina C, α2 globuline, leucociti)  patologia infiammatoria biliare

o Markers neoplastici (CA 19.9, GICA, αFP)  Neoplasia pancreatica o delle vie biliari. o Segni di malnutrizione  neoplasia • •

Bilirubina indiretta, segni di emolisi (anemia, tachicardia, dispenea, febbre, dolori crampiformi addominali, sideremia elevata)  anemia emolitica acuta Bilirubina indiretta, segni di elevata eritropoiesi (reticolocitosi marcata)  anemia emolitica cronica

Diagnostica strumentale • Ecografia addominale: rappresenta lo strumento più immediato e più diretto per la diagnosi delle patologie dell’albero biliare. Fornisce informazioni dettagliate sullo stato della parete, sul flusso dinamico, sul contenuto della colecisti e delle vie biliari. Utilissima per diagnosticare stenosi,

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malformazioni, calcoli, alterazioni funzionali del flusso e masse ostruttive, lesioni della parete. Identifica anche calcoli piccoli, di 2mm. La mancata visualizzazione della colecisti in un paziente a digiuno è indice abbastanza sicuro di una malattia di essa.Permette inoltre di differenziare la sabbia dai calcoli, in quanto la prima non produce ombre acustiche e si muove con il cambio di posizione. E’ l’esame più indicato per definire le situazioni di competenza chirurgica. RX addome: identifica praticamente solo i calcoli calcifici (quelli che hanno più del 20% di calcio). Purtroppo il 75 % dei calcoli della colecisti e più del 90% dei calcoli del coledoco sono radio trasparenti essendo formati particolarmente da colesterolo. Invece risulta molto importante nella diagnosi di complicazioni della litiasi, come la calcificazione della parete, la presenza di bollicine d’aria nella parete, espressione della colecistite enfisematosa, o l’evidenza di una fistola bilo-enterica o fra la colecisti e qualche altro organo. Colecistografia orale: Ampiamente superata dall’ecografia, si tratta di una terapia basata sull’assunzione di un mezzo radiopaco con elevata clearence biliare, che viene osservato in fase contrastografica dopo alcune ore, per valutare il tracciato biliare e la funzionalità di clearence. E’ limitato dalla presenza di ittero (il fegato non assorbe o non riesce ad escretare il mezzo di contrasto) e dalla gravidanza. Colangiografia endovenosa: stesso principio della orale, viene iniettato un mezzo di contrasto con clearence biliare. L’esame ha una sensibilità e specificità non superiori al 60%, e non ha alcuna utilità in presenza di colestasi anche lieve Scintigrafia epatica sequenziale: esame con HIDA (Himmino Diacetic Acid) marcato, che viene metabolizzato nel fegato ed escreto nella bile. Non ha una risoluzione elevata ma è utile in quei pazienti con idiosincrasia ai mezzi di contrasto. Colangiografia diretta: è l’esame di elezione per diagnosticare il livello e l’estensione di una ostruzione delle vie biliari. Si fa in due forme. o PTC (colangiografia transepatica percutanea): questa procedura prevede un accesso percutaneo attraverso il parenchima epatico fino ad incannulare un ramo del dotto biliare e vi si inietta un mezzo di contrasto. Permette di applicare anche un drenaggio del ramo biliare a monte dell’ostruzione, o di applicare un bypass, procedure necessarie quando la pressione delle vie biliari è elevata. Però si può fare solo se i dotti intraepatici sono dilatati, cosa che non si verifica con la colangite sclerosante. Disordini emocoagulativi, colangite non trattata o versamento ascitico non lo rendono possibile o ERCO (coledoco pacreatografia retrograda endoscopica): incannulazione della papilla del Vater e iniezione del mezzo di contrasto, che permette una valutazione accurata dell’albero biliare ma non delle vie epatiche, ed inoltra ha il grosso vantaggio di permettere la visione diretta della papilla e di procedere ad alcune manovre endoscopiche, come:  Papillosfinterotomia e rimozione di calcoli  Dilatazione di stenosi benigne  Posizionamento di stents autoespansibili Si possono avere complicazioni come la pancreatite acuta, che però si verifica nell’1% dei casi. Colangiografia peroperatoria: opacizzazione del cistico durante l’intervento chirurgico e lettura delle immagini con un fluoroscopio. Permette di ridurre notevolmente gli eventi di recidiva di calcoli. TC e RMN: trovano applicazione nel sospetto di una neoplasia delle vie biliari, e nella diagnosi differenziale dell’ittero ostruttivo da una neoplasia della testa del pancreas Colangio RMN: molto moderna e costosa, è una forma evoluta di RMN che permette la visualizzazione dei fluidi stazionari, e da informazioni simili alla colangiografia senza iniezione di

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mezzo di contrasto. Individua stenosi, dilatazioni, ectasie eccetera, ma non è in grado di riconoscere la causa dell’ostruzione. Si può usare quando l’ecografia non è praticabile per via del meteorismo interposto. L’ITTERO POSTOPERATORIO Dopo un intervento di chirurgia addominale può comparireun ittero a carattere precoce o tardivo a seconda delle condizioni che intervengono. In genere si distinguono due classi di eventi, precoce e tardiva appunto: • Ittero precoce: si manifesta dopo 24-48 ore e può essere: o Diretto:  Ostruzione iatrogena delle vie biliari  Calcolosi residua  Pancreatite della testa per reazione postoperatoria. o Misto: legato alla sofferenza epatocellulare  Anestetici  Insufficienza epatica  Legatura dell’arteria epatica o Indiretto  Trasfusioni multiple (con aumento dell’emocateresi)  Riassorbimento delle raccolte ematiche • Ittero tardivo: si ha dopo mesi o addirittura anni, ed è per lo più secondario a stenosi cicatriziale delle vie biliari oppure a calcolosi residua, e quindi è in genere diretto. 5.2 CALCOLOSI DELLA COLECISTI E DEL COLEDOCO Circa il 10-20% dei soggetti ha un calcolo delle vie biliari o della colecisti. I fattori di rischio e l’epidemiologia sono molto studiati, ed esista una predisposizione razziale e una distribuzione geografica. Alcuni fattori di rischio accertati sono: • Razza e luogo di residenza: Centro America, Messico, Cecoslovacchia e Svezia alta prevalenza, bassa in Africa, Cina e India • Età: in età adulta aumenta la produzione di colesterolo • Sesso: più frequente nella donna • Obesità e dieta • Diabete e iperlipidemia • Terapia con fibrati: induttori della lipoproteinlipasi, questi farmaci riducono il pool di colesterolo circolante, ma causano un aumento della produzione epatica di colesterolo rendendo la bile più litogenica. • Cirrosi epatica: la prevalenza di colelitiasi nel cirrotico è maggiore di due-tre volte che nel soggetto normale, a causa della cronica emolisi, e infatti si hanno calcoli di pigmento anziché di colesterolo • Emolisi • Malattie del tenue: riducono il riassorbimento dei sali biliari, rendendo la bile più satura in colesterolo. Il rischio aumenta di quattro volte. • Fibrosi cistica: la diminuzione del riassorbimento qui si somma anche all’aumento della viscosità delle secrezioni che possono saturare la bile. • Chirurgia gastrica: provoca la diminuzione della motilità della colecisti. Patogenesi (calcoli di colesterolo)

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Il colesterolo è una sostanza relativamente insolubile in acqua che ha bisogno di una sostanza lipidica per essere solubilizzato, la lecitina, e sostanze anfipatiche che sono in grado di formare con esse delle micelle, i sali biliari. I meccanismi che provocano la litiasi di colesterolo sono quindi principalmente di tre tipi: • Aumento della produzione di colesterolo: o Obesità o Dieta ipercalorica o Assunzione di farmaci come il clofibrato. o Aumento dell’attività dell’HMG-CoA, enzima collo di bottiglia della sintesi del colesterolo o Riduzione della conversione del colesterolo in acidi biliari • Diminuzione della produzione di acidi biliari o Diminuzione della capacità sintetica del fegato da difetti metabolici congeniti o Riduzione della circolazione enteroepatica di sali biliari o Riduzione della attività della 7alfaidrossilasi, enzima collo di bottiglia della sintesi epatica di acidi biliari. • Formazione di vescicole difettive: normalmente le vescicole di colesterolo sono fatte in modo da essere convertite in formazioni più stabili di fosfolipidi e colesterolo. Durante la loro formazione, le vescicole possono acquistare troppo colesterolo, divenire instabile e favorire l’aggregazione di cristalli di colesterolo. Una volta che si sono verificati questi eventi si devono avere altri fattori che facilitano la nucleazione, ossia l’addensamento delle micelle di colesterolo non disciolte si condensi in nuclei di accrescimento che portino alla formazione del cristallo. Di solito infatti il tempo di permanenza della bile nella colecisti non è sufficiente perché vi sia un addensamento consistente. La bile litogena, infatti, non si contraddistingue tanto dall’eccesso di colesterolo o dal difetto di micelle, quanto dalla capacità di accelerare la nucleazione dei cristalli. Questo processo dipende dall’eccesso di fattori acceleranti e/o dal difetto di fattori inibenti.Questo dipende dalla composizione della bile e riguarda fattori che non sono ancora ben caratterizzati. Un ulteriore processo importante è la formazione della sabbia biliare. Essa è costituita da uno spesso materiale di consistenza mucosa, a forma di semiluna che si accumula nel fondo della colecisti. Essa è costituita da cristalli di colesterolo, colesterolo e lecitina, bilirubinato di calcio e filamenti di gel e muco. Essa si forma quando alla nucleazione di colesterolo e sali biliari si aggiunge una riduzione della clearence di muco dalla colecisti. Studi indicano che la principale condizione precedente la calcolosi è appunto la sabbia biliare. Altre condizioni che si associano a calcolosi sono la gravidanza, l’assunzione di diete ipocaloriche, il calo ponderale, ormoni sessuali femminili, resezione ileale, invecchiamento, ipomotilità della colecisti. I calcoli più comuni sono quelli misti di colesterolo, sali di calcio, pigmenti e sali biliari, proteine, acidi grassi e fosfolipidi. Patogenesi (calcoli di bilirubinato) Sono notevolmente più diffusi in oriente, e derivano dall’accumulo e dalla precipitazione di bilirubina

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non coniugata (diretta). Può essere associata ad anemie emolitiche croniche, oppure ad infezioni della colecisti, che si associano alla presenza nella bile di enzimi batterici che sono in grado di deconiugare la bilirubina e favorirne la precipitazione (essendo insolubile). Dolore biliare Che sia derivato dalla colecisti o dal coledoco, il dolore biliare ha al suo esordio un carattere sordo, profondo, non puntualmente localizzabile, riferito dal paziente in sede epigastrica, e solo successivamente acquisisce un carattere somatico, irradiato alla spalla destra (interessamento del n. frenico e al fianco destro, fino in regione sottoscapolare). Si distinguono invece il dolore delle vie biliari per il suo carattere a colica, e il dolore della colecisti per il suo carattere costante, con modeste oscillazioni in intensità. CALCOLOSI DELLA COLECISTI Nell’80% dei calcoli della colecisti il paziente rimane del tutto asintomatico mentre il 15% dei soggetti tende a sviluppare brevi episodi di dolore biliare a partenza colecistica non colico, costante. Di questi pazienti, quelli asintomatici sono in genere privi di complicazioni, e il rischio diminuisce con l’età. I pazienti con calcoli della colecisti sintomatici invece hanno una buona probabilità di sviluppare complicazioni. Nei pazienti sintomatici il test diagnostico per eccellenza è l’ecografia, che permette di identificare il numero e la mobilità dei calcoli, lo spessore della parete, il calibro delle vie biliari, e di fornire indicazioni sulle condizioni degli organi ipocondriaci. Le complicanze della calcolosi della colecisti sono la colecistite acuta e cronica, trattate dopo, l’empiema e la gangrena, trattate qui di seguito. Empiema L’empiema, cioè la suppurazione in una cavità preesistente, è una complicazione che occorre nella colecistite quando si verifica l’ostruzione del dotto cistico e l’infezione della colecisti da parte di batteri piogeni. Lo stesso quadro si può avere a partenza litiasica. Il quadro clinico è febbre, dolore e leucocitosi, spesso con apprezzabile tumefazione dell’ipocondrio di destra; essendo però tipica del paziente anziano, può aversi con manifestazioni cliniche più subdole e sfumate. Quindi è necessario procedere rapidamente all’evacuazione chirurgica sotto copertura antibiotica. Gangrena e perforazione Vasculite, pressione eccessiva, torsione, diabete o empiema possono provocare una occlusione completa della colecisti, con conseguenza di ischemia. La gangrena predispone alla perforazione, che se avviene in maniera localizzata, viene contenuta dalle aderenza peritoneali infiammatorie che si formano attorno alla colecisti perforata. Di solito provoca peritonite, raramente si verifica una perforazione in un viscere vicino come nel duodeno La presenza di una soprainfezione batterica della colecisti ostruita che si accompagna alla perforazione porta ad un ascesso nei dintorni. La perforazione libera, sebbene più rara, è associata ad una mortalità del 30%; i sintomi sono una iniziale diminuzione del dolore, provocata dalla decompressione, seguita dai segni della peritonite. Anche questa complicanza si tratta con la rimozione chirurgica. Una complicanza a lungo termine della colelitiasi appare essere la formazione di fistole con organi vicini, frequentemente il duodeno. Qualora si verifichi questo, un calcolo di grosse dimensioni può

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impegnarsi nella fistola, raggiungere la valvola ileocecale e produrre ostruzione intestinale. Terapia In genere il trattamento della colelitiasi asintomatica non si fa, oppure si fa solo in quei casi di grossi calcoli unici voluminosi, o di litiasi multipla delle donne in età fertile. Per gli altri pazienti è possibile applicare una serie di protocolli medici e dietetici per lungo tempo, come l’assunzione di acidi biliari in posologia di 7 mg/Kg per via orale. La terapia chirurgica della sintomatica avviene con una vasta modalità di tempi aseconda dell’urgenza con cui si presenta la malattia, dall’intervento in video laparoscopia in elezione, alla laparotomia nel caso del paziente che ha una emergenza data da una complicazione. La videolaparoscopia è una tecnica molto poco invasiva che permette un minor tempo di degenza, minor complicazioni come l’ileo paralitico post operatorio, una incisione limitata e minor dolore. In genere però è associata a maggior rischio di complicazioni come la perforazione del dotto cistico comune, danneggiamento del coledoco edissezione dell’arteria epatica destra nel triangolo di Charot . In effetti le principali limitazioni solo la capacità di manovrare gli strumenti chirurgici e di effettuare le riprese in 3D in modo che siano visibili facilmente. L’intervento video deve essere senza esitazioni trasformato in una laparotomia convenzionale qual’ora si presentino difficoltà di tipo anatomico o ci siano complicanze. Unica complicanza non necessaria di conversione del tipo di intervento è la perforazione della colecisti in corso di intervento, che può essere trattata in video con allungamento del tempo di intervento di circa 10 min, necessari ad asportare il materiale e a lavare il campo operatorio. La terapia delle complicanze della colelitiasi si basa su quattro capisaldi: • Digiuno con applicazione di sondino nasogastrico nei pazienti in shock o con pancreatite acuta • Infusione endovenosa idrosalina, per correggere la volemia e lo scompenso elettrolitico. • Antibiotici a largo spettro • Terapia antalgica Il riscontro di un quadro di peritonite o di colecistite acuta enfisematosa deve far subito propendere per l’intervento chirurgico. E’ necessario intervenire nelle complicanze entro i primi 5 giorni di presenza della sintomatologia, a causa del fatto che in questo lasso di tempo si ha una fase di edema che aiuta ad identificare gli organi interessati e che poi questo viene sostituito da una fase di iperemia che può essere responsabile del sanguinamento intraoperatorio. Nel caso un paziente non possa essere operato in urgenza viene fatta una colecistostomia che permette di decomprimere la colecisti e deferire l’intervento di 6-7 giorni. CALCOLOSI DEL COLEDOCO In genere i calcoli del coledoco migrano dalla colecisti, anche se in essa possono non repertarsi altri calcoli. D’altra parte, possono anche formarsi in loco calcoli di pigmento, generalmente secondari a stasi biliare o a infezione delle vie biliari. I calcoli pigmentati sono in genere responsabili della calcolosi delle vie biliari intraepatiche, patologia rara alle nostre latitudini ma molto comune in estremo oriente. Questa può derivare anche dall’impilamento di calcoli dopo una ostruzione del coledoco, oppure viceversa provocare la migrazione di calcoli nelle aree più a valle. Soltanto il 15% dei soggetti con calcolosi delle vie biliari sono asintomatici. Nella maggior parte di essi prima o poi il calcolo ostruisce il flusso biliare, dando luogo ad una sintomatologia acuta. Clinica A questo punto si verifica il classico episodio di contrazioni ripetute che provocano la colica

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biliare, con un dolore intenso, costante, avvertito come una pressione epigastrica o nell’ipocondrio destro, frequentemente irradiata all’area interscapolare o alla spalla destra. La colica inizia all’improvviso e dura anche 3-4 ore con notevole intensità. Può seguire una dolorabilità e un dolore sordo che dura per diverse ore. Spesso c’è vomito e un leggero rialzo della bilirubina, ma non superiore a 5 mg/dl. Anche se modesto, tale rialzo è sufficiente a dar luogo ad un ittero ostruttivo, che con il passare del tempo subisce delle fluttuazioni a seconda dello spostamento dei calcoli nella via biliare ostruita. In genere, ovviamente, la colica è scatenata dai pasti, non necessariamente abbondanti. Il passaggio di calcoli nel dotto biliare si verifica nel 10-15% dei pazienti con colelitiasi, e aumenta in relazione all’età. In genere questi sono calcoli di colesterolo. Nella calcolosi primitiva del coledoco, invece, sono costituiti da pigmento, e si sviluppano in pazienti con malattie emolitiche croniche, parassitosi epatobiliare, anomalie congenite dei dotti biliari (malattia di Caroli), dilatazione, sclerosi o stenosi dei dotti. Le principali complicazioni sono: • Colangite acuta: fin da subito in 3/4 dei casi si ha sovrapposizione di infezione batterica. Il quadro clinico tipico è rappresentato da febbre con brividi, ittero e colica biliare (triade di Charcot). La forma + comune è non suppurativa, che risponde al trattamento con antibiotico. Invece la forma suppurativa si associa alla presenza di nausea, vomito e possibilità di shock con batteriemia. Queste complicazioni si trattano con intervento endoscopico in maniera estremamente efficace. • Ittero ostruttivo: si può avere quando si abbia una progressiva ostruzione del coledoco nell’arco di settimane o mesi. Di solito si associa alla fine a dolore, e se non lo fa è più indicativo di un carcinoma comprimente delle strutture circostanti. Inoltre, secondo il principio di Courvoisier, la colecisti non è palpabile (se lo è, indica carcinoma). La bilirubina, non più escreta nelle feci, si riversa nelle urine, formando bilirubinuria e feci acoliche. La bilirubinemia non sale mai tanto, non sopra a 5. • Pancreatite: circa il 30% dei pazienti con calcolosi sviluppa pancreatite. Si diagnostica per il dolore, a sbarra, il vomito protratto con ileo paralitico, e la presenza di versamento pleurico sinistro. In genere l’interessamento pancreatico si risolve con la risoluzione della malattia litiasica. Diagnosi Esecuzione dell’esame ecografico dell’addome e analisi di alcuni parametri di stasi biliare (bilirubina diretta, γGT, ALP). L’ecografia ha la limitazione di essere poco diagnostica nei confronti di quei calcoli che si inseriscono nella porzione retro-duodenale del coledoco, per via del meteorismo interposto; questa sede è tipica per i calcoli recidivi che si hanno in soggetti operati. Invece risulta molto diagnostica per la ricerca di aria nella colecisti, che è un segno di fistola colecistica-enterica.

Terapia Il trattamento della coledocolitiasi è molteplice. Il metodo meno invasivo è la retrograda, con incannulamento della papilla di Vater, papillosfinterotomia ed estrazione dei calcoli con il cestello di Dormia (basket), con successo superiore al 95%. Però non è una tecnica priva di rischi (mortalità 1%) e ha un certo grado di insuccesso nell’identificare tutti i calcoli, quindi non sempre è possibile usarla in sostituzione dell’intervento chirurgico, che poi va comunque fatto, e induce a volte solo un rischio addizionale. L’approccio chirurgico tradizionale ha il vantaggio di non presentare recidive, di non correre il

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rischio di incannulare il Wirsung per sbaglio con conseguente pancreatite, e di identificare tutti i calcoli presenti. 5.3 COLECISTITE ACUTA E CRONICA Con il termine di colecistite cronica tecnicamente si intende una infiammazione cronica della parete, con caratteristiche di istoflogosi e di fibrosi. In realtà si intende una sindrome piuttosto vaga che presenta una colelitiasi paucisintomatica con moderata sindrome dispeptica, con vaga e diffusa dolenzia alternata a dolori acuti dell’ipocondrio destro. Il 95% di queste affezioni si associano a calcoli, e nel 20% di questi soggetti si svilupperà una complicanza. La colecistite acuta invece è una forma di infiammazione della colecisti riferibile o meno alla presenza di calcoli, ma nel 90% dei casi associata con essi. La stasi biliare acuta che si verifica per il calcolo o per qualsiasi altra causa produce una infiammazione chimica e infettiva secondo lo schema riportato, che si conclude con l’ischemia del viscere che viene a favorire ulteriormente l’infezione da anaerobi, la gangrena e la perforazione. Dolore, febbre, contrattura addominale e segni di shock dominano il quadro clinico, che se si associa a calcolosi presenterà anche l’ittero ostruttivo. La febbre non si ha nei pazienti defedati o immunodepressi, ma se presente di solito è caratterizzata da una differenza ascellare rettale di almeno1°C. Il dolore è tipicamente viscerale, mal localizzato all’ipocondrio di destra, che tende ad evolversi a dolore parietale decisamente localizzato al fianco destro e alla spalla per interessamento della capsula epatica e dei nervi interlombari. In seguito all’estensione della flogosi, alla peritonite e alla perforazione, si può avere dolorabilità in tutti i quadranti, specialmente l’estensione a sinistra è segno dell’interessamento del pancreas che viene raggiunto dal processo flogistico S t a s i d e lla  b ile addominale. e n d o c o le c is t ic a L’ittero è presente nel 20-30% dei pazienti con colecistite acuta, ma solo nel 12% di essi c’è un calcolo: questo perché l’edema e lo spasmo dello S o p r a in f e z io n e sfintere di Oddi provocati Le c it in a  ­ ­ >  lis o le c it in a b a t t e r ic a dall’infiammazione possono portare allo sviluppo di un ittero acuto ostruttivo. F lo g o s i d e lla  p a r e t e   Oltre a questo, si presenta una c o le c is t ic a positività di Murphy e infine anche un Blumberg positivo. A u m e n t o  d e lla  t e n s io n e In 1/4 dei pazienti coesiste una massa d e lla  p a r e t e palpabile a destra, mentre nel 10% si ha ileo paralitico. In genere l’esame di elezione per la diagnosi è la ecografia, e i dati di C o n g e s t io n e  lin f o v e n o s a laboratorio fanno rilevare aumento e d  is c h e m ia della bilirubina, della ALP e delle γGT, oltre alla possibilità di avere G a n g r en a amilasemia per interessamento pancreatico. L’ecografia permette anche di valutare la possibilità di una P e r f o r a z io n e neoplasia della colecisti, che spesso

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esordisce attraverso una complicazionedi tipo suppurativo o perforativo. La colecistite alitiasica in genere è una forma che si ha solo nell’8% dei casi di colecistite, soprattutto casi di pazienti anziani ma anche bambini, nei quali è associata ad importanti traumi e a grave disidratazione. In corso di shock settico, gravi ustioni e pazienti sottoposti ad interventi chirurgici maggiori può essere una complicazione. Le condizioni di ipovolemia e di adinamismo intestinale che si verificano in associazione con queste patologie provocano la stasi della colecisti e la distensione della parete, che riflette quindi il quadro della colecistite litiasica. Un’altra forma particolarmente grave è la colecistite enfisematosa, una malattia legata all’accumulo di gas nella colecisti secondaria all’infezione da parte di batteri anaerobi. Ha una tendenza alla veloce perforazione e può essere particolarmente rapida.

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CAP 6 LE ERNIE ADDOMINALI E IL LAPAROCELE 6.1 LE ERNIE DELLA PARETE ADDOMINALE Si definisce ernia la fuoriuscita di un viscere o di una parte di esso, insieme ai suoi tegumento e alle strutture delle quali è normalmente rivestito, dalla sua sede abituale, attraverso un canale naturale oppure una zona di debolezza della parete. Le ernie addominali sono molto frequenti e si manifestano nel 5% della popolazione. Patogenesi Le ernie della parete si distinguono in due gruppi: le ernie acquisite e quelle congenite. Le prime sono circoscritte ad aree di debolezza della parete addominale, e si manifestano in seguito ad un intenso sforzo. Le seconde sono derivate dall’arresto di sviluppo di una porzione della parete, ma si possono manifestare anche in tarda età. Nella parete addominale ci sono delle aree dette zone erniarie in cui si ha con maggior frequenza la presenza di ernie. Questo perché si tratta di aree che hanno una maggior debolezza nella parete, oppure ospitano canali naturali o ancora hanno una maggior tendenza a presentare difetti di chiusura. Esse sono: • Regione inguinale • Regione crurale • Regione ombelicale e linea alba • Linea semilunare interna • Regione lombare • Regione otturatoria Fra queste, la regione inguinale rappresenta l’area in cui si manifestano più ernie in assoluto è quella inguinale, seguita dalla crurale e da tutta la zona epigastrica. La patogenesi è duplice: da una parte ci sono cause predisponenti, che sono insufficienti da sole a produrre un’ernia ma lo fanno in associazione con altri fattori determinanti, che provocano il manifestarsi del problema. Sono cause predisponenti: • La gravidanza, per l’aumento di pressione della parete e l’assottigliamento di essa • Le malformazioni della parete, come la pervietà del canale vaginale, o la mancata chiusura della parete addominale anteriore • I fattori ereditari di debolezza di muscoli e aponeurosi • La debolezza della parete dell’anziano Le cause determinanti sono invece gli sforzi che aumentano la pressione e altre condizioni come una voluminosa ascite; anche i traumi della parete addominale possono produrre uno spostamento delle fasce aponeurotiche e provocare ernia. A seconda dell’età si hanno diverse manifestazioni: nel bambino predominano leernie congenite, nell’adulto quelle acquisite da sforzo. Struttura In genere un’ernia si trova ad essere composta da tre elementi: Porta: la porta è la parte di parete indebolita o l’orifizio attraverso cui il viscere erniato fuoriesce. Si tratta di un anello, i cui pilastri sono composti da muscoli o aponeurosi. Sacco: è il rivestimento del viscere. Si trova ad essere formato però non dal solo peritoneo, ma anche da tutte le strutture che il viscere fuoriuscendo ha spinto con se, quindi muscoli, grasso e tegumenti.

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Si divide in colletto, corpo e fondo. Nel caso di un organo extraperitoneale, o solo parzialmente rivestito dal peritoneo, questo può non essere nel sacco o in una parte di esso. Allora si parla di ernia da scivolamento, come succede alla porzione cardiale dello stomaco, non rivestita da peritoneo, impegnandosi nello iato esofageo. A livello del colletto il sacco subisce il massimo stress, e si trova spesso ad avere delle lesioni cicatriziali ad anello, dette stigmate di Cloquet, che possono formare una stenosi cicatriziale e produrre strozzamento del sacco stesso. Contenuto: Quello che c’è all’interno del sacco, ovvero il viscere erniato. Praticamente tutti i visceri possono erniare, ad eccezione del pancreas e dell’ovaio che sono in retroperitoneali, e più frequentemente lo fanno le anse del piccolo intestino, che sono molto mobili. L’ernia può essere riducibile se è possibile sospingere il contenuto e il sacco nella posizione originaria. L’ernia diventa irriducibile se il contenuto è enorme , se si ha incarceramento (ossia adesioni fibrose fra il sacco e la parete addominale) oppure se c’è strozzamento. Un’ernia è incontenibile se dopo essere stata ridotta torna a fuoriuscir alla minima pressione o spontaneamente. Complicanze Si possono avere 5 tipi principali di complicazioni: • Incarceramento è la irriducibilità che si manifesta in seguito alla formazione di aderenze fra il contenuto, il sacco e la porta erniaria • Infiammazione: acuta o cronica, si può determinare per via di un trauma o di una infezione batterica. In genere si hanno infiammazioni croniche da piccoli traumi, specie in pazienti portatori di cinto erniario • Intasamento: è l’accumulo di sostanze intestinali nel lume delle anse che sono contenute nel sacco, e che non possono progredire. Frequente nel caso del colon, se non si può ridurre l’ernia intasata bisogna provvedere al trattamento chirurgico della occlusione intestinale che ne segue. • Strozzamento: grave complicazione che si verifica in genere in seguito ad uno sforzo, ma spesso anche in assenza di una causa precisa. Le ernie crurali, ombelicali e della linea alba sono più facilmente strozzabili perché hanno una porta rigida. Si tratta di una contrazione della porta con ischemia del tessuto erniato e gangrena in poche ore, se non si interviene con la chelotomia (dilatazione chirurgica della porta ). La conseguenza dello strozzamento può essere la gangrena, la perforazione ed una grave peritonite. • Rottura: rara, in seguito a grave trauma dell’ernia stessa, che può far scoppiare un’ansa o rompere il peduncolo erniario. 6.2 LE ERNIE INGUINALI Nella regione inguinale è presente un canale che attraversa la parete addominale a tutto spessore. Questo canale è limitato anteriormente dalla fascia del muscolo obliquo esterno, posteriormente dalla fascia trasversalis, che riveste dall’interno i tre obliqui subito superficialmente al peritoneo, superiormente dal muscolo obliquo interno e trasverso, inferiormente dal ligamento inguinale. Nell’uomo questo canale ospita il funicolo spermatico, ed è quindi ampio. Nella donna contiene il ligamento rotondo dell’utero che termina nel contesto delle grandi labbra. Il funicolo spermatico passa da una posizione retroperitoneale (è infatti composto da vasi e nervi, che stanno più superficialmente del peritoneo) aduna posizione sottocutanea prima di entrare nello scroto. Questo canale si forma per la migrazione del testicolo nella borsa scrotale. Esso scende al di sotto del peritoneo, e si porta dietro, sospingendole, la fascia trasversalis e la aponeurosi del muscolo obliquo interno, e difatti il funicolo spermatico si trova avvolto da due fasce, la fascia spermatica interna, derivata dalla fascia trasversalis, e la fascia cremasterica, derivata dalla suddetta aponeurosi.

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Mentre scende verso lo scroto il testicolo è accompagnato da una estroflessione del peritoneo che si accompagna lateralmente ad esso, e che forma il canale vaginale che poi si richiude nei soggetti normali, e se rimane pervio è un fattore di rischio per ernie inguinali scrotali congenite. Se solo una parte del canale resta pervio, si possono avere ernie del funicolo. Nella donna esiste un dotto analogo, anche questo destinato alla chiusura, la cui mancata obliterazione produce un’ernia congenita obliqua esterna. Le aree attraverso le quali un’ernia addominale può accedere al canale inguinale interno sono tre, e si hanno in corrispondenza delle fossette addominali interne alla parete anteriore che sono provocate dalla presenza di due residui embrionali e dei vasi epigastrici, rispettivamente vasi epigastrici  fossetta esterna, arteria ombelicale  fossetta media, uraco  fossetta interna • Fossetta inguinale esterna: laterale, corrispondente all’anello inguinale interno, orifizio situato nel contesto della fascia trasversalis attraverso il quale passano gli elementi del funicolo spermatico e il ligamento rotondo. Le ernie che si impegnano qui sono dette oblique esterne • Fossetta inguinale media: corrispondente al triangolo di Hasselback, fra i vasi epigastrici e l’arteria ombelicale obliterata. Le ernie di questa zona sono dette dirette • Fossetta inguinale interna: fra il residuo dell’uraco e dell’arteria ombelicale, le ernie di questa regione prendono il nome di ernie inguinali oblique interne. Il nome delle ernie deriva dalla posizione che assumono penetrando nel canale inguinale. In base all’estensione dell’ernia, è possibile distinguere le diverse gradazioni: -Punta d’ernia (appena impegnato l’anello interno) -Ernia interstiziale (sacco discende fino al canale inguinale) -Bubbonoclele (sacco sporge nel sottocutaneo) -Oschiocele (ernia inguinale-scrotale) Ernia obliqua esterna E’ la forma più comune, e può anche essere congenita. Il sacco può impegnare o meno tutta la lunghezza dal canale e giungere fino allo scroto. La patogenesi è una debolezza della parete interna in corrispondenza delle fasce dell’anello inguinale interno. Raggiunge anche grandi dimensioni perché quello è l’unico punto della parete addominale dove non c’è la fascia trasversalis, e che può essere facilmente attraversato dalle ernie. Il meccanismo di protezione di questo anello è infatti dato dalla discesa delle fibre del muscolo obliquo interno dell’addome. Ernia inguinale diretta Si forma nel triangolo di Hasselback, dove l’unica protezione è data dalla fascia trasversalis. Essa però è molto robusta e raramente questo tipo di ernia raggiunge una dimensione notevole. Cresce quindi lentamente, anche per la presenza dell’aponeurosi dell’obliquo esterno, poco estensibile. Può associarsi ad una obliqua esterna ed essere duplice (ernia a pantalone). Raramente si strozza perché la porta di entrata è ampia. Ernia inguinale obliqua interna Poco frequente, con raro strozzamento perché la porta è ampia; di solito contiene tessuto adiposo, oppure la vescica o un diverticolo vescicale. Le ernie congenite inguinali sono provocate dalla pervietà del dotto vaginale che fornisce un percorso facilitato in cui si impegna un viscere. Non sono in genere presenti alla nascita, perché la stazione eretta fornisce un fattore determinante. Sono molto rare nella donna, dove il canale si chiama

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canale di Nuck, ed in casi eccezionali possono contenere un ovaio o una tuba. Sintomatologia e diagnosi Se non ci sono complicazioni, in genere la tumefazione erniaria non è dolente alla palpazione, e il paziente riferisce senso di peso e di fastidio ma non dolore. Talvolta è del tutto asintomatica, restando in forma ridotta nel cavo addominale, dal quale fuoriesce solo per sforzi notevoli. Per la diagnosi è sufficiente l’anamnesi e l’esame obiettivo, raramente è necessaria l’ecografia. Nei bambini e nei pazienti che hanno portato a lungo il cinto erniario si può trovare difficoltà a mettere in evidenza l’ernia. Si valuta con il paziente in piedi e in seguito in decubito supino, nelle zone crurali e inguinali. Possono essere opportune manovre di aumento della pressione addominale, come il colpo di tosse. Una manovra importante per la diagnosi differenziale con l’idrocele consiste nella transilluminazione della tumefazione, che risulta trasparente nel caso dell’idrocele e opaca nell’ernia. La diagnosi differenziale delle ernie ha due aspetti: distinguere fra le ernie diretta, interna ed esterna e differenziare le ernie dalle tumefazioni di altra naturache si possono presentare nella regione inguinale. Il primo problema si risolve abbastanza facilmente con la percezione della direzione da cui si sente protrudere l’ernia durante un impulso del paziente, con il dito dentro il canale inguinale. Il secondo problema riguarda in particolare il varicocele, l’idrocele e le neoplasie del testicolo. L’ernia si riconosce da queste condizioni a causa del fatto che non può essere ruotata in avanti verso l’alto e che non ha un limite superiore, perché continua nella parete addominale. Lasciata a se, l’ernia tende a crescere di volume e può dare alcune delle complicazioni descritte. Il trattamento chirurgico di solito la risolve senza problemi. Terapia La terapia di elezione radicale è chirurgica, ed ha di solito un’ottima prognosi. In alcuni pazienti però può essere necessaria una terapia palliativa per l’impossibilità di eseguire l’intervento, e questa si fa con un cinto erniario che sostiene il sacco, provocando però un trauma cronico del contenuto. L’intervento chirurgico radicale prevede l’apertura del sacco, la riduzione del contenuto nella cavità addominale, l’asportazione del sacco con legatura alta e successiva exeresi, e la chiusura della porta erniaria con una sutura plastica della parete addominale inguinale. L’intervento deve essere praticato con urgenza se si presenta una qualsiasi complicazione, e in particolare in caso di strozzamento deve essere preceduto dalla chelotomia, ossia la resezione del pilastro della porta che provoca strozzamento. In tali casi, non si può procedere alla riduzione del contenuto senza prima aver esaminato con una laparotomia esplorativa la loro vitalità e aver resecato la porzione necrotica. Sebbene la tecnica sia condivisa da tutti, ci sono delle differenze nella modalità di ricostruire la parete una volta resecata l’ernia. 6.3 L’ERNIA CRURALE Il canale crurale, o canale femorale, è una struttura presente nella regione latero-inguinale della parete anteriore dell’addome che da passaggio ai vasi femorali, ai linfatici e ai nervi dell’arto inferiore. La porta di accesso è costituita da strutture rigide (legamento inguinale, muscolo pettineo, legamento lacunare e vena femorale, l’unica struttura deformabile) e questo favorisce lo strozzamento di questo tipo di ernia. La zona erniaria è coperta dalla fascia trasversale e dal grasso peritoneale. All’uscita dal canale, il sacco sospinge la fascia lata e appare come una tumefazione nella zona della fossa ovale dell’inguine, al di sotto del legamento inguinale, a lato del tubercolo pubico.

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Si tratta sempre di un’ernia acquisita per debolezza, più spesso nella donna che ha il bacino più largo e una lacuna dei vasi femorali più ampia. E’ tipica dell’età adulta, con dolori che si manifestano in piedi o in seguito a sforzi, e si palpa in concomitanza con questi eventi, mentre si riduce con la flessione della coscia o con la stazione supina. Il contenuto è di solito l’omento o un tratto intestinale, a volte può contenere diverticoli vescicali: a volte, siccome la porta è stretta e rigida, si può impegnare in questo tratto una porzione della parete soltanto, con la possibilità di creare facilmente un’ernia strozzata-zza. Il ragno, la mosca, il ragno la mosca l’ammazza-zza, la piglia pel collo e la strozza-zza, ed con il coltello la sgozza-zza, e poi nel suo sangue ci sguazza-zza, e sadicamente sghignazza-zza. Più raramente il segmento interessato è la lacuna vasorum o la sola lacuna muscolare, dando ernie differenti dal punto di vista chirurgico soltanto. La diagnosi differenziale si pone con altre tumefazioni della regione; in particolare è molto difficile distinguere la linfadenite acuta della regione dall’ernia strozzata. La terapia, esclusivamente chirurgica, prevede due tecniche, un avvicinamento dall’esterno, previa incisione del sacco erniario, attraverso il canale femorale, e una incisione dall’interno, attraverso il canale inguinale. Quest’ultima tecnica permette di evidenziare anche una massa inguinale concomitante. 6.4 ERNIE OMBELICALI Sono distinte in 4 tipi: embrionale, fetale, neonatale, dell’adulto. •







Ernia embrionale: onfalocele, ernia dovuta ad aplasia della parete addominale. E’ legata alla mancanza del rientramento del contenuto del cordone ombelicale, e attraverso la breccia muscolare protrudono i visceri rivestiti dall’amnios, in quanto in questa regione non si forma il peritoneo parietale. In alcuni casi è una malformazione molto grave perché la lesione è estesa e non è possibile ridurre i visceri nella parete addominale ed effettuarne la chiusura. Ernia fetale: sempre congenita, è presente come una apertura imbutiforme al centro dell’addome: il rivestimento dei visceri erniati è costituito però dal peritoneo, che si è formato. La terapia prevede la riparazione in due tempi, prima con la riduzione, dopo con la plastica della parete addominale. Ernia ombelicale neonatale: affezione lieve congenita, provocata dalla mancata adesione dei lembi del moncone ombelicale: è una protrusione modesta, incostante, che si palpa con la defecazione, la tosse o la compressione dell’addome. Guarisce spontaneamente oppure con l’applicazione di un tampone per alcune settimane o mesi. Ernia ombelicale dell’adulo: ernia ricoperta dalla cute della parte superiore dell’anello ombelicale, che può essere asintomatica ma tende ad aumentare di volume progressivamente. La cute al di sopra spesso appare violacea per la compressione e la sofferenza ischemica, e tende ad infettarsi. Hanno la tendenza ad incarcerarsi e a strozzarsi. Solo in questo caso richiedono la chirurgia d’urgenza, altrimenti va bene la chirurgia di elezione.

6.5 ERNIE DELLA LINEA ALBA Iniziano come una lieve protrusione di grasso preperitoneale lungo una smagliatura della linea alba, in corrispondenza spesso della zona di fuoriuscita di un vaso venoso. Successivamente possono entrare nell’ernia l’omento e le anse intestinali (spesso colon o ileo). Ha una notevole tendenza a incarcerarsi, e per questo la protuberanza può essere spesso non riducibile; di solito è dolente alla palpazione, e in caso di strozzamento diventa acutamente dolente con quadri di addome acuto e di occlusione intestinale.

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La terapia chirurgia è convenzionale, con l’apertura, riduzione, escissione e sutura. Una particolare ernia, detta ernia di Spigelio o della linea semilunare, è una rara forma acquisita che si crea nella zona in cui i vasi epigastrici inferiori si incontrano con la linea semilunare, nella zona di inserzione dei muscoli larghi dell’addome nella loro aponeurosi. Insomma a lato e poco sotto l’ombelico. E’ difficile palparla perché rimane sotto all’aponeurosi dell’obliquo esterno. 6.6 ERNIA OTTURATORIA Rara forma delle donne anziane. Il peritoneo protrude attraverso il canaleotturatorio sospinto da un viscere pelvico, o da un’ansa intestinale e arriva fino alla regione medialesuperiore della coscia. Il foro di ingresso al canale è coperto dalla fascia pelvica, al di fuori del peritoneo parietale. Essendo ricoperta dal pettineo, in genere passa inosservata fino allo sviluppo di una complicazione acuta, nel qual caso si ha dolore improvviso e quadro di occlusione intestinale. La terapia chirurgica è convenzionale per accesso crurale, ma se c’è strozzamento può essere necessaria una laparotomia sotto addominale per osservare lo stato dei visceri pelvici. 6.7 LAPAROCELE Si tratta di una fuoriuscita dei visceri addominali attraverso una debolezza muscolare-aponeurotica della parete dopo e in corrispondenza di una incisione chirurgica. E’ particolarmente frequente dopo infezione della ferita chirurgica. Infatti questa condizione permette la chiusura cicatriziale dei piani della cute ma non dei piani muscolari sottostanti. Dopo la guarigione della ferita superficiale, rimane quindi una debolezza muscolare sottostante. Altre condizioni predisponenti sono la dispnea e gli accessi di tosse forte, patologie dismetaboliche o del connettivo, soprattutto il diabete, oltre naturalmente agli errori del chirurgo. Più frequente nella linea mediana, il laparocele può assumere anche dimensioni enormi ed arrivare a contenere buona parte dei visceri addominali. Infatti le incisioni chirurgiche longitudinali sono ortogonali alle linee di forza della contrazione addominale, che servono a contenere i visceri, e vengono facilmente messe in tensione da queste contrazioni. La debolezza della linea mediana comporta una diminuzione della pressione addominale (normalmente +10 cm H2O rispetto a quella toracica) perché i muscoli retti e larghi anteriori non sono in grado di contrarsi efficacemente. Questo comporta una diminuzione del ritorno diaframmatico e una difficoltà espiratoria, con modificazioni della dinamica respiratoria. La dinamica del laparocele ha delle importanti conseguenze: • Insufficienza respiratoria cronica con aumento del lavoro espiratorio • Insufficienza venosa per deficit della pompa per l’aumento del lavoro respiratorio, sia alla diminuzione del RV • Tendenza alla distensione dei visceri cavi addominali e alterazione della peristalsi, soprattutto a livello colico • Ipotrofia della muscolatura addominale Nel laparocele inoltre si formano molte aderenze fra i visceri e con il peritoneo che possono facilmente condurre ad incarceramento e strozzamento. E’ per questo che si classificano i laparoceli come riducibili o mobili e irriducibili o fissi, i secondi con maggior rischio di complicazioni. La diagnosi è molto semplice ed è sufficiente un accurato controllo postoperatorio delle cicatrici chirurgiche. In genere la terapia chirurgica è convenzionale con i tempi dell’ernia, ma si deve anche recidere spesso porzioni dell’omento perché sono tenacemente adese al peritoneo, e asportare una parte della cute al di sopra della cicatrice, perché diviene esuberante. In particolare, la chiusura della porta erniariapresenta delle difficoltà notevoli in quanto spesso i

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lembi muscolari che l’hanno creata sono molto distanti, e spesso vanno ricostruititi con materiali polipropilenici.

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CAP 7 PATOLOGIA CHIRURGICA DEL COLON E DEL PANCREAS 7.1 DIVERTICOLOSI DEL COLON Il colon è la porzione del tratto digerente più sottoposta alla formazione di diverticoli. La presenza di un diverticolo viene detta diverticolosi del colon, mentre l’espressione di malattia diverticolare si riferisce al complesso di segni e sintomi correlati al diverticolo. La diverticolite è l’infiammazione del diverticolo. La prevelenza nella popolazione è alta, aumenta con l’età e raggiunge anche il 50% dopo la sesta decade. La reale causa sembra il passaggio, nell’ultimo secolo, ad una dieta raffinata povera di fibre. Eziopatogenesi Di solito sono diverticoli acquisiti, che si formano quindi per pulsione e sono costituiti da due strati (sottomucosa e mucosa) ma non dalla tonaca muscolare. Massima incidenza nel sigma e minima nel retto e nel cieco. Il diverticolo si forma nelle regioni comprese fra il mesentere e il margine libero: Le tenie coliche sono tre, una mesenterica, cioè dal lato del meso, una antimesenterica, ossia nel lato libero, e una intermedia. Nello spazio fra la tenia mesenterica e quella antimesenterica, ossia nella porzione di colon a lato del legame mesenterico, i vasi provenienti dall’arteria marginale entrano nella parrete colica per nutrirla, e rendono la parete più debole. In questa zona si formano i diverticoli, nel lato del colon, e sono spesso coperti dalle appendici epiploiche che qui sono presenti. Alcuni fattori eziologici sono coinvolti nella genesi dei diverticoli del colon: • Alterazione della motilità: anche se non sempre presente, può essere un fattore predisponente la presenza di una pressione endoluminale più alta che nei soggetti normali. • Segmentazione: in soggetti con diverticoli spesso i movimenti di segmentazione sono maggiori del normale e più intensi. In particolare la dieta povera di fibre aumenta la resistenza del materiale fecale alla progressione, producendo una segmentazione più intensa del dovuto. Inoltre, questo spiega anche perché ci sono più diverticoli nel sigma e nel discendente, che hanno un diametro minore e quindi sviluppano una maggior pressione. • Riduzione della forza della parete colica: fenomeni secondari all’invecchiamento, come la riduzione della componente delle fibre elastiche a scapito del collagene. La diverticolite invece riconosce come causa una microperforazione su base ischemica della parete, che provoca una fuoriuscita di materiale e infiammazione dei tessuti pericolici; questo processo determina una flogosi che viene limitata dai meccanismi di difesa addominale se è circoscritta, mentre produce una peritonite o un ascesso se è maggiore. Un tempo si pensava che la diverticolite nascesse quando il materiale fecale ostruiva il diverticolo provocando stasi. Clinica  La diverticolosi in genere non è sintomatica, se non modesto dolore vago addominale, lievi alterazioni dell’alvo e flautulenza, facilmente confondibili con la sindrome del colon irritabile.  La diverticolite è manifestata da dolore costante, non a colica, in regione della fossa iliaca sinistra o soprapubica, che dura alcuni giorni e poi scompare fino ad una successiva esacerbazione della malattia. Frequente la diarrea alternata con la stipsi: quest’ultima diventa predominante se si ha una ostruzione o una stenosi cicatriziale. Di solito c’è anche modesto rialzo termico, che diventa elevato se si forma peritonite o ascesso, e la compressione del colon infiammatoproduce disturbi urinari anche importanti, da attribuire alla compressione esercitata dal colon infiammato sulla parete della vescica o al coinvolgimento di questa nel processo infettivo. L’esame obiettivo dimostra una

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dolorabilità in fossa iliaca sinistra che va dal senso di fastidio fino al peritonismo. Diagnosi Il clisma opaco consente di differenziare la diverticolosi da disturbi di motilità intestinale, che possono ovviamente predisporre alladiverticolosi stessa. La flogosi del diverticolo è legata specialmente a segni clinici ed anamnestici, e si può anche fare il clisma opaco ma con rischi di perforazione. La RCU e il morbo di Crohn possono dare quadri simili alla diverticolite ma si differenziano per la clinica. Il problema maggiore è la diagnosi differenziale con il carcinoma, che viene sciolta bene con l’endoscopia, ma non è trascurabile il rischio di perforazione del diverticolo. Complicanze • Perforazione: infrequente ma grave, insorge spontaneamente oppure viene provocata da una manovra endoscopica. Dolore acuto inizialmente localizzato, in seguito diffuso a tutti i quadranti addominali, con segni di peritonite. L’esame radiologico rivela spesso pneumoperitoneo. • Ascesso: complicanza più frequente, legata ad una perforazione anche molto piccola che si raccoglie nel mesentere oppure in associazione a preesistenti aderenze peritoneali che limitano la flogosi. Spesso la massa è palpabile finché non intervengono i segni di flogosi addominale. Sono presenti febbre e leucocitosi, non raramente nausea e vomito. • Fistolizzazione: drenaggio di un ascesso in un viscere circostante, oppure all’esterno attraverso la parete addominale. Le più frequenti sono quelle colico vescicali che si manifestano con pneumatoria e fecaluria preceduti da un quadro di diverticolite. Meno comuni le fistole colovaginali che si manifestano con perdite di sangue pus emateriale fecale dalla vagina. Ancor più rare le fistole fra colon e altri tratti dell’intestino, identificabili da clisma opaco. • Occlusione intestinale: conseguente alla stenosi infiammatoria del segmento interessato o a fenomeni di aderenza. • Emorragia: comune, per via del rapporto stretto che esiste fra arteria penetrante e diverticolo, e si manifesta con sangue rosso vivo dal retto. Problemi di diagnosi differenziale con altre cause di sanguinamento basso intestinale. Difficilmente richiede intervento chirurgico, è autolimitante anche se non raramente è associata alle recidive. La terapia chirurgica, che si pratica con l’escissione del segmento interessato, trova indicazione con sanguinamenti massivi o persistenti per più di 72 ore, o con la presenza di una nuova emorragia nell’arco di 7 giorni. Terapia • Diverticolosi: un po’ come nella sindrome dell’intestino irritabile, una dieta ricca di fibre aiuta particolarmente a mobilitare il colon e a ridurre la pressione al suo interno. Utili anche gli antispastici; a volte vengono somministrati antibiotici non assorbibili per ridurre la carica batterica nel colon e limitare complicazioni, ma c’è il rischio di alterazioni della flora batterica intestinale. • Diveriticolite: trattamento medico con digiuno e antibiotici spesso risolve i quadri lievi, ma alto rischio di recidive e con queste di complicazioni. Molti propongono l’escissione in elezione, durante un intervallo di silenzio clinico dopo un episodio di sintomatologia infiammatoria. Quando il quadro si complica con ascesso o peritonite, diventa essenziale l’intervento chirurgico in urgenza. Di solito si fa almeno due tempi chirurgici, la colostomia con drenaggio insieme all’escissione del tratto diverticolare, e l’anastomosi fra i due monconi colici in un secondo momento, per evitare di porre una anastomosi in un momento di flogosi acuta. 7.2 PANCREATITE ACUTA Si tratta di una condizione di flogosi acuta, con fuoriuscita di enzimi pancreatici dal sistema duttale

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della ghiandola con elevazione degli enzimi pancreatici nel siero e nelle urine e con distruzione più o meno diffusa della ghiandola. Classificazione In genere si distinguono le pancreatiti acute, che hanno una ripercussione temporanee sulla funzionalità del pancreas e sono quindi reversibili, dalla pancreatiti croniche, che possono o no manifestare episodi sintomatici acuti ma sono sempre accompagnate dalla diminuzione della funzionalità del pancreas esocrino. Le forme acute e quelle croniche possono essere singole o ricorrenti, ma mantengono questa distinzione nell’effetto sulla funzionalità. In base alla gravità, poi, le forme acute sono distinguibili in: • Edematose: sintomatologia modesta autolimitantesi • Persistenti: gravi con possibile sviluppo di complicazioni • Necrotico emorragiche: ad evoluzione fulminanti Eziologia I fattori eziologici che portano alla pancreatite sono moltissimi. I principali fattori con il loro meccanismo patogenetico sono indicati qui di seguito. Alcolismo In Europa è la seconda causa di pancreatite, in Usa e in Australia la prima. L’alcool provoca diverse cose, che contribuiscono tutte contemporaneamente alla patogenesi della malattia. • Aumento della secrezione di gastrina  stimolo alla secrezione di colecistochinina per tamponare il pH acido  stimolo alla secrezione • Aumento della concentrazione proteica nel secreto pancreatico  genesi di piccoli calcoli nel dotto  ostruzione delle vie escretrici  pancreatite da autodigestione per attivazione intraduttale degli enzimi • Aumento della sensibilità del pancreas alla secretina • Effetto citotossico diretto • Stimolo diretto alla secrezione  ipertrofia duttale • Stimolo vagale & stimolo diretto alla contrazione dello sfintere di Oddi  ostacolo alla secrezione e ristagno di enzimi litici nel dotto. Calcolosi biliare Circa il 60% delle pancreatiti sono secondarie alla calcolosi biliare che a sua volta ha due meccanismi patogenetici: • Calcolo proveniente dal coledoco ostruisce il dotto di Wirsung nel suo sbocco nella papilla • Un calcolo della papilla ostruisce il coledoco, il quale fa refluire la bile in eccesso nel Wirsung (teoria del dotto comune). Si obbietta a questa teoria la difficoltà anatomica di creare un reflusso del genere e la presenza di un gradiente pressorio dal W al coledoco e non viceversa. Inoltre la bile in vitro non danneggia le cellule pancreatiche.Si pensa quindi più che altro ad una infezione del secreto batterico con successiva estensione del danno alle cellule parenchimali del pancreas. Si pensa che nelle prime fasi dell’ostruzione la secrezione pancreatica continui, i dotti continuino a riempirsi di secreto con la conseguenza di una ipertensione endoluminare, che porta a rottura i dotti e alla diffusione del secreto pancreatico lungo il parenchima. Successivamente, le cellule non possono più secernere i loro enzimi che rimangono dentro di essere,distruggendole (teoria della secrezione ostruzione)

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Ipercalcemia Il calcio in eccesso provoca da un lato precipitazione dei calcoli nel dotto, dall’altro attivazione dei proenzimi in precocemente rispetto alla norma Iperlipoproteinemia Una concentrazione elevata di acidi grassi liberi, provocata dall’idrolisi dei trigliceridi, induce un danno vascolare del microcircolo, con danneggiamento ischemico del pancreas Anche gli interventi vicini al pancreas hanno la pancreatite come complicazioni, qual’ora si generi un edema circostante che comprima il tessuto. Malattie vascolari, trattamento con cortisone, ed altri farmaci sono agenti eziologici meno frequenti. Inoltre una certa percentuale di pancreatiti ha un carattere idiopatico. Patogenesi Nella maggior parte delle situazioni che porteranno alla pancreatite acuta,il danno primario è il danneggiamento del parenchima funzionale da parte degli enzimi che normalmente sono inattivi (secreti come zimogeni) e compartimentalizzati. Il ristagno nel dotto per qualsiasi causa di ostruzione provoca l’autodigestione del tessuto ghiandolare e di conseguenza la lisi della ghiandola e del suo tessuto, con le conseguenze che ne derivano. Normalmente gli enzimi si attivano per l’attività dell’enteropeptidasi intestinale che si produce in risposta agli stimoli secretori e che converte il tripsinogeno a tripsina, la quale attiva tutti gli altri zimogeni (amilasi, lipasi, proteasi). La fosfolipasi A e la lipasi riescono a danneggiare la parete cellulare e sono responsabili della maggior parte del danno cellulare mentre la elastasi è la responsabile del danno al connettivo. Inoltre si attiva il sistema del complemento, con le PG e le chinine, sotto lo stimolo della chinina. Tutti questi meccanismi di attivazione si hanno anche in condizioni normali, ma sono prevenuti dalla presenza degli inibitori della proteasi, α1 antitripsina e α2 macroglobulina. Altri meccanismi patogenetici, oltre alla teoria del dotto comune, e della secrezione ostruzione, che portano all’auto-attivazione degli enzimi pancreatici,sono quelli alla base della teoria del reflusso duodenale, ossia la possibilità che l’incontinenza dell’Oddi possa permettere il reflusso del contenuto duodenale nel pancreas In corso di pancreatite acuta il processo digestivo si estende molto nello spazio retroperitoneale, e inoltre, per motivi non chiari, si osserva una diffusione dei liquidi negli spazi extracellulari in tessuti anche molto distanti dal pancreas, come l’interstizio polmonare o il sottocute. Si sviluppa quindi ipotensione, sia per la difficoltà del cuore a far fronte alle esigenze di vascolarizzazione del tessuto periferico per la vasodilatazione e l’ipovolemia, con conseguente venomozione, sia per la liberazione delle sostanza vasoattive. Un altro effetto importante è la diminuzione della concentrazione di calcio, dovuta a diversi meccanismi: -diminuzione dell’albumina per effetto della produzione di essudato infiammatorio -precipitazione dei sali di calcio nelle arie di liponecrosi -diminuzione dell’attività delle paratiroidi -aumentata liberazione di calcitonina L’ipotensione si ripercuote soprattutto a livello di rene e polmone, dove si aggiunge anche il danno da essudato. Gli effetti di questo sono una sindrome polmonare simile all’ARDS e una sindrome

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uremica renale. Anatomia patologica Nella forma edematosa c’è edema diffuso che aumenta lo spessore della ghiandola, che diventa pallida, con evidenza di infiltrati di PMN, senza danno cellulare. Questo processo corrisponde alle fasi iniziali della malattia, e se si presenta da solo non è associato a danno cellulare e regredisce nell’arco di pochi giorni. La forma emorragica si presenta con diffuse aree di emorragia, che hanno due destini: l’ascesso se si sovrappone una infezione batterica, la cisti se si ha il riassorbimento del sangue da parte dei macrofagi. La forma necrotica comincia con la necrosi parenchimale della ghiandola, e in seguito il processo si estende a anche al grasso retroperitoneale e si ha la steatonecrosi diffusa. Tale processo, che si associa ad un’alta mortalità, può portare alla distruzione completa della ghiandola. Ogni focolaio necrotico rappresenta la situazione ideale per la proliferazione batterica, che si associa spesso alla necrosi con la formazione di un focolaio suppurativo. Queste lesioni, che sono le più comuni, danno il nome ai tipi più diffusi di pancreatite, classificate così in base al tipo di lesione che si presenta maggiormente. In realtà sono spessissimo forme miste e la classificazione anatomo-patologica non è molto in uso. Clinica La sintomatologia della pancreatite acuta è complessa, e offre numerose difficoltà di diagnosi differenziale, anche perché le forme lievi edematose sono di solito limitate ad una dolorabilità simile all’ulcera con un dolore che si presenta per 2-3 giorni e poi scompare, le forme gravi con interessamento del grasso peritoneale e flogosi estesa provocano un dolore lancinante che simula un quadro di infarto mesentericoo di occlusione intestinale. La diagnosi differenziale risulta molto importante perché la pancreatite a differenza di altre situazioni di addome acuto non si tratta precocemente in maniera chirurgica, ma riconosce prima di tutto un trattamento medico. Dolore: il dolore pancreatico è presente praticamente sempre, ed ha caratteristica continua e diffusa, sordo e ottenebrante. E’ uno dei dolori più intensi che esistono, non è trafittivo, ed ha come paragone l’infarto miocardico, perché come questo si associa al panico della morte imminente. Non viene lenito dalla morfina (che aumenta il tono dello sfintere di Oddi ed aumenta il danno), ma meglio dai salicilati. Tipicamente è localizzato nell’ipogastrio, esteso ai lati e a sbarra nel terzo inferiore della schiena. Il paziente tende ad assumere la posizione antalgica a canna di fucile. Per la localizzazione del pancreas, raramente si osserva reazione peritoneale di difesa. Insorge bruscamente, raggiunge l’apice in pochi minuti, ed è insopportabile tale da richiedere la somministrazione continua di oppioidi a distanze brevi. Non varia nel tempo e rimane sempre stabile, per molte ore o addirittura molti giorni. Nausea e vomito compaiono spesso come sintomatologia riflessa. Il vomito non è a getto, come il vomito centrale, e continua molto a lungo. Finito il vomito alimentare il paziente continua ad emettere succhi gastrici e bile. Segni di ecchimosi addominali ai fianchi (Gray-Turner) o nell’area periombelicale (Cullen) indicativi di uno stravaso ematico proveniente dal retroperitoneo Ileo paralitico Ittero per la compressione del coledoco da parte della testa del pancreas

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Alcuni importanti segni sistemici sono: • Disidratazione, ipotensione e shock, depressione della funzionalità miocardica • Danno polmonare con ARDS • Anuria e sindrome uremico emolitica • Comparsa di versamento pleurico basilare, frequentemente a sx per il rapporto della base del polmone con la base del pancreas. La valutazione clinica della gravità della pancreatite acuta è importante, perché un trattamento medico delle forme aggressive risulta efficace, mentre quelle blande possono risolvere spontaneamente anche in 24-48 h. I parametri clinici che si associano alla gravità della pancreatite sono quindi importante. Un modo semplice per valutare la gravità è la ricerca addominale di un liquido nerastro simili ad olio per motore, che deriva dalla steatonecrosi, attraverso una paracentesi esplorativa. Inoltre esistono i criteri predittivi di Ramson per valutare la mortalità. Sono undici parametri, che a seconda di quanti sono positivi nel paziente indicano la mortalità: 0-3 criteri, 0.9%; 3-4 18%, 5-6 40%, >6 90% Sono distinti in criteri al momento del ricovero e in criteri dopo 48 ore di osservazione. 1. Età > 55 anni 2. Leucociti >16000 3. Glicemia > 200 4. LDH > 350 5. SGOT >250 Dopo le 48 h: 1. Riduzione dell’Ht > 10% 2. Azotemia > 50 3. Calcemia < 8 4. PO2 < 60 5. Deficit di basi fino a 4 mEq 6. Sequestro di liquidi > 600ml Complicanze Sono l’ascesso e la pseudocisti le complicanze più importanti, associate ad altre complicanze minori, meno frequenti. Pseudocisti Raccolta di materiale necrotico, sangue e succo pancreatico in una cavità costituita da aderenza fibrose post infiammatorie, ma prima di un rivestimento epiteliale proprio. L’infezione di questa raccolta, che si sviluppa nel pancreas, nelle sue vicinanze ma anche nella pelvi, porta alla formazione dell’ascesso. La pseudocisti, che raramente si forma per ostruzione del dotto in assenza di pancreatite acuta,alla sua origine ha sempre una comunicazione con il sistema duttale, ma la può perdere in seguito. Non si risolvono spontaneamente e sono caratterizzate dalla presenza di una dolorabilità alla palpazione della sede interessata, dove compare anche una dolorabilità diffusa. Non è rara la compressione dell’intestino a livello duodenale e la complicazione ostruttiva pilorica, con nausea e vomito. Si diagnosticano molto bene con le tecniche di imaging e con l’ecografia. La diagnosi differenziale con la neoplasia cistica del pancreas è però impossibile prima dell’intervento chirurgico. Le pseudocisti possono essere fonte di altre complicazioni, come : • Suppurazione

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Rottura nella parete addominale o nel mediastino (peritonite o ascesso mediastinico) Fistolizzazione: nel duodeno seguono 10-15 scariche di diarrea con risoluzione spontanea. La fistola con il colon deve essere chiusa per evitare l’infezione retrograda del pancreas Fissurazione che porta all’ascite pancreatica con liquido ricco di amilasi e lipasi Emorragia che porta a melena o ematemesi, per via della comunicazione della fistola con il sistema duttale. L’emorragia che ne consegue è cospicua e a volte può mandare il paziente in shock.

La terapia di questa complicazione è essenzialmente il drenaggio interno (creazione di una comunicazione fra la fistola e il duodeno), oppure la resezione, o l’asportazione della parte di pancreas che la contiene (possibile se questa è la coda). Il mezzo di elezione è però il drenaggio esterno percutaneo ecoguidato. Ascesso pancreatico Non raramente le raccolte di materiale necrotico si infettano e vanno incontro a suppurazione chiusa; iniziano cioè come una pseudocisti, ma sono complicate da infezioni, e sono comuni dopo ripetuti episodi di pancreatite lieve o al primo episodio di pancreatite acuta grave. Possono essere vicini al pancreas ma anche diffusi nella cavità addominale, in caso di ascessi multipli possono fondersi fra loro formando una serie di cisterne comunicanti. In massima parte si sviluppano davanti al pancreas nello spazio retroperitoneale fra questo e la cavità degli epiploon, e poi a volte discendono lungo le docce coliche dando un ascesso a ferro di cavallo. I batteri arrivano con tutta probabilità per diffusione linfatica partendo dal colon e dall’ileo. Dopo una pancreatite acuta regredita, l’ascesso pancreatico deve essere sospettato in presenza della triade sintomatologica febbre, dolore addominale e tensione epigastrica. La diagnosi viene fatta con Rx, TAC ed ecografia. La terapia dell’ascesso è il drenaggio in laparotomia, perché la diffusione dell’ascesso crea peritonite settica molto spesso fatale. • • • • • • • •

Tetania: molto spesso legata al quadro di ipocalcemia Diabete mellito: danneggiamento della porzione insulare Emorragie gastrointestinali: dalle pseudocisti, dall’ischemia intestinale provocata dall’estensione del processo di flogosi, dall’erosione dei vasi da parte degli enzimi pancreatici Insufficienza renale acuta: ischemia ed azione tossica degli enzimi pancreatici a livello del tubulo Encefalopatia pancreatica: insufficienza epatica da ipotensione ed effetti diretti sulla mielina da parte delle lipasi ARDS: a livello polmonare il versamento pleurico e l’edema si sommano all’azione litica degli enzimi lipatici sul surfactante Tromboflebiti migranti Fistole e perforazioni intestinali

Diagnosi Il quadro labolatoristico è abbastanza esteso: • Amilasemia: aumenta in quantità variabili ma costantemente, da valori normali di 150-200 a punte di anche 8000. Il picco si ha rapidamente nei primi 2-3 giorni della sintomatologia ma altrettanto rapidamente scompare, anche in quei casi in cui si è determinata la distruzione completa della ghiandola. Infatti l’entità dell’aumento non è indice di gravità. Infatti, a parte

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che l’amilasi non è specifica per la ghiandola pancreatica (anche se solo in corso di pancreatite si raggiungono valori molto alti), il test non è molto sensibile. Inoltre, bisogna discriminare se l’aumento dell’amilasi dipende dalla distruzione della ghiandola stessa o dalla regressione della malattia. Amilasuria: nei pazienti con pancreatite acuta e normale funzionalità renale, la clearence dell’amilasi può essere rapida e si avrà amilasuria anche in assenza di amilasemia. Questo rimane persistente anche diversi giorni dopo la pancreatite cronica. Clearence renale: dopo una pancreatite acuta la clearence dell’amilasi è maggiore. Allora esiste un indice per valutare il rapporto fra amilasuria e clearence renale, cioè: Amilasuria creatinemia × × 100 . Se questo valore è < 3, non si tratta di patologia pancreatica, fra amilasemia creatinuria 3 e 5 è incerto, oltre a 5 è sicuramente pancreas. Lipasemia: aumento tardivo ma persistente nel tempo. Calcemia: come si è detto diminuisce, ed è un criterio prognostico negativo Valori elevati di enzimi cellulari: LDH, GOT, GPT Attivazione del complemento Criteri metabolici di Ramson Bilirubina, ALP e γGT se c’è ostruzione al flusso biliare

La diagnosi con le tecniche di imaging si avvale di: • Radiografia diretta addome: si evita il mezzo di contrasto nella fase acuta, e si hanno soltanto segni indiretti come la presenza di dilatazione intestinale e livelli idroaerei. L’ansa sentinella è un segno di livello idroaereo a livello della prima ansa del digiuno, segno di flogosi pancreatica. Il segno del colon escluso è invece quando la distensione gassosa del colon appare dall’ascendente al trasverso, ma il discendente rimane escluso. • RX torace: Aree di atelettasia delle basi, edema interstiziale del polmone, flogosi della pleura. • Ecografia: poco diagnostica per via della presenza di strutture piene di gas prima del pancreas, evidenzia però le successive evoluzioni della malattia, lo stato degli organi vicini, calcoli e complicazioni come gli ascessi o le pseudocisti. • Tac: esame migliore, l’unico che permette la stadiazione del processo pancreatico valutando l’estensione agli organi vicini. • Laparotomia esplorativa Diagnostica differenziale • Ulcera gastrica o duodenale perforata: si differenzia con una RX diretta addome che evidenzia la falce d’aria sottodiaframmatica nella perforazione del viscere cavo. Inoltre il dolore dell’ulcera ha una insorgenza trafittiva, a colpo di pugnale, mentre la pancreatite è si veloce, ma richiede alcuni minuti per raggiungere l’apice del dolore. Infine, nella pancreatite l’addome a tavola non compare se non in fase avanzate, nell’ulcera molto precocemente. • Occlusione intestinale: dolore crampiforme, non ci sono segni di difesa muscolare se non interviene perforazione, e c’è distensione addominale. L’RX diretta mostra livelli idroaerei specifici. • Infarto intestinale: paziente cardiopatico o con insufficienza vascolare, presenza di diarrea sanguinolenta, segno di peritonismo • Aneurisma aorta addominale: massa pulsante addominale, si differenza con la TAC e l’ecografia • Colica biliare: dolore ipocondrio dx, a colica (a differenza di quello pancreatico), che regredisce

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con l’uso di antispastici e di analgesici. Murphy positivo, evidenza di calcoli all’ecografia (che possono anche essere patogenetici di una pancreatite) Terapia La terapia medica è la terapia che viene utilizzata inizialmente nel trattamento della pancreatite acuta. Ha come scopo la correzione dello squilibrio elettrolitico, la sedazione del dolore e la copertura antibiotica. Si deve inoltre mettere a riposo il pancreas con alimentazione parenteraletotale. Importante il posizionamento di un sondino per l’aspirazione delle secrezioni pancreatiche e la riduzione della pressione esercitata dallo stomaco sul pancreas. Il paziente deve rimanere a digiuno per circa 7 giorni. Importante anche il monitoraggio della pressione di O2 e dell’equilibrio acido base, eventualmente subito corretti. Solo nei casi gravi con ARDS è necessaria l’intubazione. Anche il lavaggio peritoneale può essere indicato. La terapia medica specifica per la messa a riposo della ghiandola è il trattamento con ranitidina (anti H2) somatostatina e sostanze inibitrici degli enzimi pancreatici, come il trasidol. Il trattamento chirurgico si fa quando c’è: - fallimento della terapia medica - necrosi pancreatica estesa - segni di peritonismo - diagnosi dubbia In questi casi si esegue un intervento di chirurgia pancreatica precoce e si esegue una necrosectocia, una sequestrectomia (drenaggio dei liquidi e del materiale sequestrato dalla ghiandola) ed eventualmente una exeresi della ghiandola, che però è un evento abbastanza raro. L’intervento permette anche la decompressione biliare, il posizionamento di tubi di drenaggio, la colangiografia intraoperatoria e la toeletta di raccolte extrapancreatiche.

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CAP 1 PATOLOGIA VASCOLARE DELL’ARTO INFERIORE Sono situazioni di insufficienza arteriosa che possono essere distinte sulla base delle loro caratteristiche cliniche in forme acute e forme croniche, le prime che si associano ad ischemia grave con un rischio di necrosi dei tessuti, le seconde che sono secondarie a sforzi e che sono una insufficienza funzionale dell’arto. Fra queste due forme c’è lo stesso rapporto che passa fra angina ed infarto. O ISCHEMIA CRONICA DELL’ARTO INFERIORE L’incidenza cresce con l’età, andando da un minino dell’1% dopo i 40 anni ad un massimo di oltre il 10% nelle decadi comprese fra i 60 e gli 80 anni. Anche se non tutte le lesioni esitano in sintomatologia, il decorso della malattia non di rado si evolve rapidamente verso le forme più gravi di ischemia, sempre nei più anziani.

Eziologia e patogenesi  Le lesioni derivano nella stragrande maggioranza dei paziente da una precedente condizione di aterosclerosi, per quel che riguarda sia il circolo iliaco che il distretto femoro-popliteo-tibiale. I due circoli sono diversamente interessati da malattie come il diabete, che colpiscono di più i vasi periferici che quelli centrali. In molti pazienti invece sono coinvolti ugualmente tutti e due i distretti con conseguenze più gravi. Nel distretto aortico esistono tre tipi di ostruzione che portano all’ischemia dell’arto inferiore: • Tipo 1 (segmentario): un segmento dell’aorta o delle arterie iliache • Tipo 2 (della biforcazione): la biforcazione è ostruita, con contemporanea stenosi di una o entrambe le iliache nel tratto prossimale • Tipo 3 (trombosi aortica): a seguito di una occlusione di tipo 2, con sovrapposizione di un quadro trombotico. La trombosi si estende fino alle arterierenali. Quando c’è una ischemia di questi distretti, esiste la possibilità di attivazione di numerosi circoli collaterali, la pervietà di questi assicura la possibilità di vascolarizzazione per l’arto. Tali circoli sono: -Anastomosi fra femorale, ipogastrica, epigastrica inferiore ed epigastrica superiore -Anastomosi fra la femorale, la circonflessa iliaca profonda e le arterie lombari -Anastomosi fra la femorale, iliaca esterna, iliaca interna, emorroidaria inferiore, plesso emorroidario, emorroidarie media e superiore, mesenterica superiore e inferiore. -Anastomosi fra la glutea e l’otturatoria e le circonflesse femorali -Rami dell’iliaca interna destra con rami della interna sinistra (plesso uterino, vescicale, prostatico, emorroidario, eccetera) Nel distretto femorale superficiale si possono avere principalmente occlusioni segmentarie della superficiale prima della genesi della profonda, nel canale di Hunter, e occlusioni estese di tutta la superficiale con estensione anche alla profonda e alla poplitea Nella femorale profonda in genere non ci sono gravi manifestazioni di aterosclerosi; quando la superficiale è ostruita, a causa dei molti circoli collaterali che la profonda riceve, si possono avere numerose possibilità di anastomosi, e quindi può essere un valido circolo alternativo. L’estensione della malattia ai vasi poplitei e tibiali è accompagnato da una grande varietà di lesioni differenti, che caso per caso devono essere valutate.

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 Morbo di Burger (tromboangioite obliterante) seconda causa di ischemia cronica degli arti inferiori, ma molto inferiore all’aterosclerosi  Sindrome dell’aorta corta: rara situazione di ipoplasia dell’aorta addominale sopra e a volte anche al livello della biforcazione, che risulta molto alta, con vasi di diametro ridotto. Colpisce le donne forti fumatrici, ed ha anche un minor sviluppo dei circoli collaterali.  Sindrome da intrappolamento della poplitea: poco frequente, si tratta degli effetti della compressione delle arterie poplitee da parte delle strutture circostanti. Queste condizioni di arteropatia obliterante cronica sono caratterizzate da una lentezza di insorgenza, a meno che il quadro si complichi con una trombosi arteriosa, nel qual caso si parla di ischemia acuta. Nella forma cronica quindi di solito lo sviluppo di sistemi collaterali permette di conservare una certa funzionalità. Inoltre si mettono in atto dei meccanismi che cercano di compensare le lesioni che si sviluppano in queste malattie. Inizialmente, la vasodilatazione delle arteriole a valle dell’ostruzione riesce a mantenere il flusso sufficiente a rendere l’arto vitale almeno in condizioni di riposo, ma con il passare del tempo e l’aggravarsi della malattia il flusso scende e la pressione nell’arto si trova a livelli inferiori a 20-30 mmHg, una condizione di insufficienza anche a riposo. In questi pazienti il flusso è mantenuto dall’atteggiamento posturale di tenere l’arto di posizione declive rispetto al corpo. In corso di esercizio fisico la pressione di vascolarizzazione dell’arto inferiore cala ancor di più, sia perché aumenta il letto vascolare muscolare, sia perché la relazione fra flusso e pressione è inversa. Si manifesta quindi claudicatio intermittens, più grave se entrambi i circoli di accesso alla gamba (la femorale superficiale e l’iliaca esterna) sono ostruite (ostruzione multisegmentarie), rispetto alla condizione di ostruzione monosegmentaria dell’uno o dell’altro circolo. Clinica e diagnosi semeiologica Le condizioni cliniche di un arto ischemico sono riassunte in: • Riduzione o assenza dei polsi arteriosi • Pallore del piede, che diventa blu-cianotico in posizione verticale • Cute fredda, lucida, sottile, a volte disidratata, con lesioni gangrenose • Assenza o rarefazione degli annessi piliferi, lesioni distrofiche delle unghie. Alcuni test possono mettere in evidenza la difficoltà di irrorazione del piede: sollevando l’arto con il ginocchio diritto di 45° si osserva un marcato pallore del piede che si manifesta in pochi secondi, invece che dopo alcuni minuti, e un solco lasciato dalle vene dorsali del piede che si svuotano (test di Burger). Queste vene svuotate, una volta messo il piede in posizione normale, si riempiono in un tempo molto più lungo del normale. Alla palpazione i polsi sono assenti o ridotti, e la cute è fredda. La distribuzione delle alterazioni dei polsi permette di valutare approssimativamente il luogo dell’occlusione (assenza di entrambi i polsi femorali  occlusione arteriosa aortica, un solo polso femorale assente  occlusione iliaca monolaterale) Con l’auscultazione si rilevano soffi da stenosi che possono essere variamente significativi e che sono proporzionali al livello dell’occlusione ematica. Dal punto di vista clinico possono esserci vari stadi di classificazione della malattia: • Stadio I: lesioni non sintomatiche perché non significative o per la capacità di compenso del

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circolo collaterale. Occasionale riscontro di alterazioni in paziente asintomatico. Stadio II: claudicatio intermittens durante la deambulazione; dolore crampiforme generalmente al polpaccio, ma anche alla coscia o al gluteo. Talora si sviluppano parestesie per la sottrazione di sangue al distretto cutaneo. Si definisce intervallo libero la distanza percorsa a passo normale senza manifestazione di claudicatio, che varia da centinaia a pochi metri: all’inizio della malattia la distanza diminuisce, poi si stabilizza e infine aumenta di nuovo per lo sviluppo dei circoli collaterali. Stadio III: dolore anche a riposo, spesso impedisce il sonno, e il paziente cerca sollievo dormendo con l’arto fuori da letto, in basso. Il dolore è manifestato a livello del piede, in genere alla testa dei metatarsi. Stadio IV: fenomeni necrotici

I fenomeni necrotici che si manifestano sono l’ulcera ischemica e la gangrena secca. La prima è una lesione rotonda, a fondo torpido, spesso infetto, profonda spesso fino a tendini od ossa, molto dolorosa e localizzata in genere alla punta delle dita e nelle aree sottoposte a pressione. Spesso, soprattutto nei diabetici, il sistema nervoso periferico è compromesso e l’ulcera non si accompagna a dolore. Il grado più avanzato, la gangrena, si accompagna allo sfascio tissutale con odore di decomposizione. In genere nei diabetici può insorgere la complicazione di infezione da anaerobi con formazione di gangrena gassosa. Nelle lesioni del distretto aorto-iliaco le lesioni necrotiche sono rare, a meno che ci sia una occlusione acuta, oppure si tratti di un quadro di sovrapposizione di occlusione alla poplitea e alla femorale. Il 20% dei pazienti accusa disfunzioni erettili. Più raramente si possono avere fenomeni di furto mesenterico. L’associazione di claudicatio intermittens, furto mesenterico ed impotentia coeundi costituiscono nel loro insieme la Sindrome di Leriche. Diagnosi strumentale • Velocimetria doppler: è la metodica più utilizzata. Le modificazioni del segnale di ritorno eco possono essere molto specifiche, e permettere di valutare con efficacia le ostruzioni e le stenosi dal punto di vista quantitativo. Nelle condizioni cliniche avanzate può dimostrare l’assenza di flusso nelle tibiali . • Indice di Winsor: il rapporto fra la pressione misurata alla caviglia e quella al braccio si chiama indice di Winsor, ed è indicativo delle condizioni del flusso. Normalmente è 1, ed è indicativo quando è fra 0,8 e 0,5 (stadio I e II), o inferiore a 0,5 (III e IV). Inferiore a 0,3 è un criterio prognostico sfavorevole. L’indice si misura anche alla coscia e caviglia, e non è molto attendibile quando si hanno lesioni arteriosa calcifiche, come nel diabete, perché è difficile comprimere i vasi con il manicotto. • Indice alluce/braccio e pletismografia: tecniche per studiare le lesioni periferiche delle dita; l’indice alluce/braccio è di solito 0,8. Valori inferiori a 0,6 sono indicativi. • Test di Strandness: si misura la pressione arteriosa nella caviglia dopo uno sforzo: nel soggetto normale non si modifica, perché aumenta il flusso e diminuiscono le RVP. Nel malato, invece, diminuisce, perché aumenta il flusso ma le RVP non diminuiscono perché sono già state diminuite al massimo per permettere la nutrizione di tessuti a riposo. • Angiografia: nonostante l’evoluzione delle tecniche non invasive, rimane ancora l’esame migliore. Utile soprattutto nel preoperatorio per valutare la posizione dell’occlusione e programmare il tipo di intervento da fare.

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Terapia • Stadio I: intervento sui fattori di rischio, terapia antiaggregante • Stadio II: terapia medica di solo efficace, anche se nel 20% dei casi è necessario ricorrere alla fine ad un intervento chirurgico. Soprattutto i diabetici possono progredire, andando a finire all’amputazione. Anche il tipo di lesione (lesioni aortiche suscettibili di complicazioni sono trattate subito con ricanalizzazione diretta) el’età del soggetto indicano se intervenire chirurgicamente • Stadio III e IV: sempre indicato l’intervento chirurgico, considerato il rischio della perdita dell’arto. Gli interventi chirurgici sono essenzialmente la tromboendoarteriectomia (TEA), il bypass e le procedure angioradiologiche. Il TEA è la procedura più complessa, lunga e difficile, richiede un intervento di un chirurgo esperto ma è estremamente efficace soprattutto nei soggetti a più lunga aspettativa di vita. A seconda delle arterie ostruite ci sono diverse tecniche. Il bypass con sostituzione di protesi vascolare è generalmente più semplice, ad eccezione del bypass femoro-popliteo, e va usato per quei soggetti anziani o nei quali il rischio operatorio è aumentato proprio dalla presenza di patologie aortiche. Il materiale protesico può avere complicazioni di infezioni o rottura, anche se rare. Anche i bypass sono ovviamente suddivisi in base al distrtto arterioso. Le procedure angioradiologiche sono tecniche non molto invasive in cui si utilizza un solo punto di ingresso per introdurre nell’albero arterioso stent, protesi o sonde effettrici. La PTA (angioplastica percutanea transluminale) è l’introduzione di un catetere con pallongino, guidato fino al luogo della lesione e la ricanalizzazione per distensione del palloncino. La laser-angioplastica è una procedura di fusione del materiale ateromatoso con un cappuccio metallico scaldato dal laser fino a 400 °C. L’aterectomia meccanica è una procedura che attraverso varie tecniche produce una asportazione meccanica della placca per raschiamento. Infine, gli stent sono cilindri di acciaio a maglie larghe che aderiscono alla superficie interna del lume dell’arteria e la mantengono pervia. Si applicano dopo una delle procedure descritte per diminuire le recidive. Queste tecniche sono molto utili sia nei soggetti giovani con sintomi lievi per non sottoporli ad interventi inutilmente invasivi, sia in soggetti anziani che non possono affrontare interventi rischiosi. La simpatectomia lombare trova applicazione come terapia di supporto per facilitare la distensione del circolo collaterale o quando non è possibile la chirurgia diretta per lesioni estremamente periferiche. O

ISCHEMIA ACUTA PERIFERICA

Si tratta di condizioni di improvvisa e irreversibile mancanza di ossigeno ad un distretto periferico. Classicamente queste condizioni di ischemia acuta periferica hanno come patogenesi due condizioni: embolia e trombosi. Patogenesi  Le embolie sono massimamente frequenti negli arti inferiori (66% dei casi) e in assoluto la sede più frequente è la biforcazione femorale, seguita dalla poplitea. Nell’80% dei casi questi emboli hanno una genesi intracardiaca, secondaria a fibrillazione atriale o ischemia, oppure per malattia reumatica endocarditica, che però attualmente è molto meno importante dell’ischemia cardiaca (in

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passato era l’opposto). La mobilitazione dell’embolo è dovuta a cause cardiache, come improvvise variazioni del ritmo, a terapie con digitale, o ad improvvisi sforzi fisici, oppure interventi di cardiochirurgia. In un 10% dei casi, l’origine dell’embolo è extracardiaca, legata alla placca di una lesione aterosclerotica ulcerata, oppure da una dilatazione aneurismatica. Questi emboli in genere sono piccoli, e provocano di solito la stenosi di una arteria periferica, con conseguente sindrome del dito blu, ossia una improvvisa colorazione blu di un dito in periferia, con dolore ischemico, che spesso rappresenta il primo segno di una complicazione arteriosaseria come una placca o un aneurisma a monte.  Le trombosi invece possono essere dovute a varie cause: 4. Su arterie sane, in genere sono legate a disordini della coagulazione, difetti emopoietici, shock, neoplasie, compressione estrinseca, abuso di droghe, eccesso di estrogeni eccetera. 5. Su arterie patologiche, in genere si tratta di complicazioni femoro-poplitee dell’aterosclerosi, più raramente nelle arterie periferiche 6. Su arterie traumatizzate, colpiti da traumi diretti sull’arteria (penetranti, che dissezionano le superfici esternedel vaso, o non penetranti, che danneggiano l’arteria per spostamento o per trazione, e scollano le superfici interne, o da traumi indiretti, che provocano lesioni dei tessuti che a loro volta si ripercuotono sui vasi. Questi traumi sono in genere traumi chiusi, che provocano contusione o compressione dei segmenti vasali. L’ischemia acuta in questi casi è dovuta in genere ad un distacco di un lembo intimale, che può agire come tappo embolico o lasciar crescere un trombo. Nell’ischemia dell’arto, i risultati e le conseguenze dipendono essenzialmente dalla condizione del metabolismo muscolare. Le alterazioni biochimiche dello stato di ipossia ischemica sono lo switch del metabolismo verso la fermentazione lattacida, l’abbassamento del pH, la deplezione delle riserve di glicogeno e la riduzione dell’ATP, nonché un aumento dell’estrazione di glucosio. A livello cellulare cessa di funzionare la Na/K ATPasi e si ha rigonfiamento e lisi cellulare, con uscita degli enzimi lisosomiali. L’effetto della miolisi estesa possono avere conseguenze renali da accumulo di mioglobina simili a quelle della sindrome da schiacciamento. Le lesioni al tessuto muscolare sono reversibili entro 6 ore, quelle della cuta anche fino a 48h, ma il limite sono gli assoni nervosi, che già dopo 3 ore perdono la guaina mielinica, difficilmente recuperabile. La gravità dell’episodio ischemico è condizionata dalla comparsa di una lesione trombotica secondaria, a monte e a valle, dovuta alla stasi. Questa lesione è legata anche alle condizioni del circolo generale, al quadro coagulativo, e la capacità dei circoli collaterali di impedire la stasi. Qualsiasi malattia che influisce negativamente su questi fattori rappresenta un fattore aggravante dell’ischemia acuta. Clinica La sintomatologia della fase acuta non è diversa dalle situazioni di “crisi” nelle ischemie croniche, e si manifesta con dolore, pallore, ipotermia, parestesia, assenza dei polsi, paralisi. La progressione della malattia si manifesta con marcata rigidità muscolare simile al rigor mortis, edema di consistenza lignea, accompagnata da segni di tossicità sistemica e di insufficienza renale per la presenza di tossine metaboliche in circolo. E’ importante valutare la funzione cardiaca, polmonare e renale in previsione dell’intervento chirurgico. Diagnosi Semeiologicamente e con l’anamnesi è possibile fare una buona distinzione fra le condizioni di

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ischemia da embolo o da trombo. E’ possibile identificare anche la regione della lesione con l’analisi dei polsi periferici e delle condizioni della cute. Soprattutto nell’arto inferiore, si trovano aree ipotermiche ad altezza diversa a seconda dei vasi interessati dal processo ischemico. L’esecuzione di ECG da informazioni sulla funzionalità cardiaca, mentre la RX addome e degli arti mette in evidenza stenosi calcifiche e lesioni aterosclerotiche. L’ecografia diagnostica efficacemente gli aneurismi trombizzati, gli esami di laboratorio indicano la funzione renale e l’entità della compromissione muscolare, e l’angiografia non serve a niente in caso di embolia, ma è utile per la diagnosi delle trombosi.

elemento di diagnosi differenziale Esordio Colorito Mobilità Sensibilità Temperatura Polsi Cardiopatie associate Doppler Angiografia

EMBOLIA

TROMBOSI

Improvviso

Graudale

Pallido

Pallido

Molto compromessa Ipoestesia

Molto compromessa Ipoestesia

Ipotermica

Ipotermica

Assenti distalmente alla lesione Fibrillazione atriale

Assenti distalmente alla lesione Nessuna

Segnale assente

Segnale ridotto

Stop netto

Ostruzione ed

Terapia evidenza di lesioni aterosclerotiche La tempestività è fondamentale: bisogna Assente Spesso presente Claudicatio infondere eparina (5000 UI per endovena), somministrare antalgici, ricorrere alla protezione dell’arto dall’ipotermia e dai traumi. La terapia medica si avvale della trombolisi con la streptokinasi e la urokinasi, e si fa in alternativa alla chirurgia nei casi di ischemia parziale o quando le condizioni del paziente non la permettono. Inoltre si da eparina, e si può fare il blocco anestetico del vago a scopo antalgico o vasoattivo. La terapia chirurgica, invece, prevede l’embolectomia con catetere di Fogarty, utilizzando il triangolo di Scarpa come via d’accesso sia all’arto inferiore che alla biforcazione aortica. Nella trombosi spesso si rende necessaria una rivascolarizzazione completadell’arto. Sindrome da rivascolarizzazione Si tratta di una serie di modificazioni emodinamiche e metaboliche che incorrono dopo il recupero della funzionalità vascolare di un arto ischemico. Queste modifiche dipendono in massima parte dal fatto che la diminuzione del rapporto ATP/ADP nell’arto ischemico produce un accumulo di ipoxantine, prodotto di degradazione dell’adenosina. Questo è dovuto anche all’attivazione della proteasi che trasforma la xantinadeidrogenasi in xantinaossidasi. Questo accumolo di ipoxantina provoca la formazione di radicali liberi quando l’arto viene di nuovo a contenere una quantità normale di ossigeno, capaci di provocare una reazione di distruzione tissutale notevole. Questo può produrre una distruzione dell’endotelio capillare, che porta alla permeabilità del circolo capillare, che produce edema delle fasce muscolari con impedimento meccanico alla rivascolarizzazione. A livello sistemico, si hanno due altre possibili complicazioni: o Danno renale per l’accumulo di mioglobina o Danno cardiaco per l’accumulo di potassio. Queste complicazioni si trattano con la terapia specifica, ma può essere molto utile la somministrazione di composti scavenger di radicali liberi, diuretici e plasma expanders. Il composto che racchiude queste caratteristiche è il mannitolo.

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INSUFFICIENZA VENOSA DEGLI ARTI INFERIORI L’insufficienza venosa cronica è uno stato in cui i meccanismi di propulsione venosa non sono sufficienti mantenere il flusso sanguigno contro il gradiente pressorio che esiste nell’arto inferiore in posizione ortostatica.Questo gradiente, che è di 90 cmH2O dal piede al cuore, viene di solito vinto grazie alla presenza di alcuni meccanismi, che permettono la “spremitura” delle vene superficiali e profonde, le quali sono provviste di sistemi valvolari a coda di rondine, che fanno sì che quando la vena viene spremuta, il sangue defluisce in senso centripeto e basta. Questi sistemi di “spremitura” sono: 5. Vis a tergo: forza residua della spinta arteriosa 6. Vis a fronte: g. Depressione toracica in inspirazione h. Forza del cuore con depressione atriale 9. Compressione muscolare e della pianta del piede 10. Compressione da parte delle arterie che decorrono vicino Il motore essenziale per la compressione venosa e la propulsione del sangue nelle vene lo danno i muscoli, che sono posti in modo da lasciare delle logge dove scorrono i sistemi venosi dell’arto. Le fasce muscolare fanno da supporto ai muscoli, che attaccandosi ad esse le tirano, comprimendo di conseguenza i vasi venosi, che sono in stretto rapporto. A livello dell’arto inferiore i principali sistemi di pompa sono quelli del polpaccio, della pianta del piede, del quadricipite. O

Il 90% del sangue refluo dell’arto inferiore transita nel sistema venoso profondo: i vasi comunicanti fra la superficiale e la profonda infatti sono provvisti di valvole a senso unico che permettono il passaggio di sangue solo in una direzione. In caso di traumi o di occlusione delle vene profonde, però, questo sistema si può anche invertire. Durante lo sforzo fisico, però, una parte del sangue venoso passa anche dalla rete superficiale. Eziologia L’insufficienza venosa produce una stasi del sangue a monte del distretto insufficiente, e questo porta ad una congestione (edema) dei tessuti, e ad alterazioni di permeabilità e scambio osmotico a livello capillare (microangiopatia), con conseguente ischemia dei tessuti. Clinicamente, si manifesta insufficienza venosa quando la pressione differenziale fra cuore e arto inferiore si mantiene maggiore di 30 cmH2O anche durante la deambulazione, quando la pressione scende a 20-30. L’edema che si crea è molle, ma può con il passare del tempo indurare. Inoltre è maggiore se la compressione o la causa che ha portato ad insufficienza venosa interessa anche i linfatici. L’edema all’inizio si manifesta solo alla sera, mentre poi tende ad essere stabile tutto il giorno. La presenza di proteine nel tessuto è responsabile della proliferazione fibrosa di esso e del suo induramento. La manifestazione di una insufficienza vascolare venosa dell’arto inferiore sono le varici, ossia dilatazioni sacculari delle vene, che spesso assumono un andamento tortuoso. Sono una patologia frequente, spesso ben sopportata, che riconosce come eziologia un carattere primario con associazione a determinati fattori di rischio, oppure un carattere secondario a diverse patologie, quali la flebite. Le varici, a seconda del tratto interessato e delle caratteristiche morfologiche, si distinguono in tronculari, reticolari, telangectasie, che interessano rispettivamente safena, afferenti alle safene, venule post capillari.

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Pur essendo una malattia epidemiologicamente molto diffusa, (35% della popolazione), soltanto l’12% delle persone si ricovera per interventi sulle vene. In Europa è dieci volte maggiore che in Africa e Asia. I vari fattori di rischio sono: • Età: picco massimo fra 50 e 60 anni. Il rischio aumenta 3 volte in età adulta, e 15 volte in età geriatrica • Sesso: netta preponderanza del sesso femminile, da 2 a 4 volte • Gravidanze: proporzionale al numero di parti • Familiarità • Eccesso di peso: particolarmente nel sesso femminile • Attività lavorativa: aumenta il rischio la stazione in posizione eretta in ambiente caldo • Stipsi cronica: aumento continuo della pressione addominale Patogenesi Il meccanismo di base non è perfettamente noto: sembra non implicata la degenerazione valvolare, perché si possono avere varicosità anche in vene con valvole continenti, e viceversa il trapianto di safene senza valvole per essere usate come arterie non si associa a dilatazioni varicose. Il momento patogenetico quindi deve stare nella parete della vena, che viene ad essere dilatata da processi degenerativi, dato che ci sono evidenze che nelle vene varicose sono presenti meno elastina e collageno del normale. In altri momenti patogenetici come la vecchiaia sono importanti la meioplagia, un processo che porta ad alterazione fibrosa della parete che si sfianca sotto la pressione del sangue, e naturalmente l’indebolimento dei tessuti connettivali che è legato all’invecchiamento. Le importanti modificazioni che si verificano durante la gravidanza alterano l'equilibrio fisiologico tra coagulazione e fibrinolisi. La gravidanza e le prime 6 settimane dopo il parto possono essere considerate uno stato di ipercoagulabilita' acquisita, che aumenta il rischio di trombosi venosa. L'incidenza totale di trombosi venosa profonda ed e.p. obiettivamente provate e' di 0.7:1000 partorienti. La gravidanza rappresenta uno dei fattori piu' importanti nella genesi della malattia varicosa; circa il 25% delle primipare ed oltre il 50% delle pluripare e' affetto da varici ed oltre il 60% delle gravide affette da varici ha una anamnesi familiare positiva per malattia varicosa. Le prime manifestazioni della gravidanza sono sempre molto precoci; cio' confermerebbe la importanza del fattore ormonale nel determinismo della malattia varicosa in gravidanza rispetto al fattore meccanico che, invece, assume un ruolo di maggiore rilievo solo con il progredire dell' eta' gestazionale; molteplici sono i fattori responsabili delle modificazioni morfologiche ed emodinamiche del sistema venoso durante la gravidanza: - azione miorilassante del progesterone con ipotonia delle fibrocellule muscolari lisce e conseguente dilatazione venosa ed incontinenza valvolare, • diminuzione del tono vasale e rammollimento del collagene parietale determinato dagli estrogeni, • aumento della massa ematica circolante e del flusso ematico refluo dalle vene uterine con conseguente ipertensione delle vene degli arti inferiori. L'aumento della massa ematica circolante viene compensato dalla aumentata distensibilita' del sistema venoso ad opera dei fattori ormonali (estrogeni e progesterone). La venodilatazione ha il ruolo di accogliere e smaltire l'aumentata massa ematica circolante accresciuta anche dalla apertura di numerose anastomosi artero- venose. Ma l'aumento del raggio venoso, in base alla legge di Leonardo, determina una riduzione della velocita' del flusso e quindi una stasi venosa responsabile della ipertensione venosa conseguente. L'ipertensione venosa, inoltre,viene accentuata dalla " precedenza " funzionale dello svuotamento

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delle vene uterine in vena cava rispetto agli arti inferiori e dalla diminuzione della attivita' della pompa muscolo venosa (del soleo e gastrocnemio) la cui funzionalita' decresce dalla sedicesima settimana di gestazione parallelamente all'incremento del tasso estrogenico. L'ipertensione venosa e' sopratutto evidente nel II trimestre di gravidanza, epoca in cui e' piu' frequente la comparsa di varici. Anche l'aumento del volumeplasmatico e' notevole tra la ventunesima e la ventiquattresima settimana gestazionale raggiungendo valori pari o superiori al 30% della norma. Intorno alla trentaseiesima settimana il volume plasmatico risulta notevolmente aumentato, ma solo del 10% rispetto ai valori precedenti. Cio' concorderebbe con l'incremento meno spiccato della pressione venosa nell'ultimo trimestre di gestazione, riconducibile unicamente al fattore meccanico dell'accresciuto volume dell'utero gravido.(3) Altra cosa sono le così dette varici d’atleta, dilatazioni omogenee e rettilinee, non complicate, che si accompagnano ad integrità valvolare. Clinica Si distinguono tre stadi del processo di varicosi: Stadio uno: corona di telangectasia ed edema serotino non complicato; il paziente riferisce un edema perimalleolare, e in corrispondenza delle varici c’è una zona di dilatazione iperemica, talvolta accompagnata da prurito. Localmente si può manifestare una zona di sclerosi ed iniziali lesioni di tipo distrofico o eczematoso. Stadio due: una situazione di alterazione del microcircolodel derma, che viene definitivamente sostituito da tessuto sclerotico, e la possibilità di avere una trombosi superficiale come complicazione (vedi oltre) Stadio tre: sviluppo di un’ulcera venosa, legata a diversi momenti patogenetici: la stasi venosa provoca la produzione di edema, che successivamente si indura e comprime i capillari attorno alla cute. L’impilamento dei leucociti provoca occlusione del capillare e infine i leucociti stessi rilasciano fattori che impediscono la rigenerazione. La sintomatologia delle varici non è molto ampia, in quanto non si accompagnano a dolore, se non nelle complicazioni che possono incorrere. Il problema è molto spesso estetico per la gibbosità delle varici e per la loro evidenza nel segnare le gambe delle pazienti. Complicazioni • Emorragie: sono eventi che spaventano il paziente ma sono facilmente controllabili con l’applicazione di un laccio in periferia, ma anche semplicemente con il sollevamento dell’arto. • Flebiti che possono decorrere per la compressione e il ristagno del sangue, e trasformarsi anche in tromboflebiti • Ulcere varicose: Un'ulcera è una lesione della pelle paragonabile ad una piaga più o meno profonda; le ulcere venose si localizzano generalmente nella parte interna della caviglia, ma possono interessare anche la zona posteriore o laterale. Nella maggior parte dei casi non sono molto dolorose ma certamente la loro presenza rende spesso inaccettabile la qualità di vita del paziente per il pericolo di infezioni e per la necessità di continue medicazioni. Se non vengono adeguatamente trattate la loro tendenza è verso la cronicizzazione. Il trattamento migliore e risolutivo è quasi sempre la correzione chirurgica dell'insufficienza venosa, accompagnata o seguita dai trapianti cutanei nei casi più gravi • Insufficienza venosa cronica: E' una malattia più complessa causata dalla contemporanea disfunzione delle vene profonde (interne), di quelle superficiali (esterne) e delle perforanti. La malattia viene spesso confusa con semplici varici chene rappresentano in effetti la più frequente manifestazione, ma può in alcuni casi presentarsi senza vene varicose o capillari evidenti. Essa è

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comunque in grado di evolversi nel tempo e portare le gambe dei pazienti fino ai gradi estremi della malattia con le ulcere venose croniche ribelli a qualunque trattamento medico e fisico. Questi pazienti sono comunemente definiti "inguaribili" per la difficoltà di affrontare la dignosi e cura di casi così complessi. Esistono invece centri specialistici capaci di interpretare e trattare adeguatamente queste malattie e molti pazienti possono essere guariti o restituiti ad una normale qualità di vita. Diagnosi Il paziente viene visitato in piedi, e tutto l’arto inferiore viene esaminato, davanti e dietro e nell’addome, alla ricerca di varici fin nell’addome, in regione soprapubica. Particolare attenzione alla regione perimalleolare, valutando il trofismo della cute e la presenza di teleangectasie. La vena varicosa si palpa facilmentein tutta la sua estensione, ed offre una consistenza elastica e una resistenza minima. L’insufficienza valvolare si osserva all’esame obbiettivo attraverso manovre di aumento della pressione addominale che si riportano lungo la vena con un fremito palpabile. In genere però il test più sensibile è la manovra di Trendelenburg: si solleva l’arto, si provoca lo svuotamento manuale del circolo superficiale, e si applica un laccio alla radice della coscia o al ginocchio. Se il circolo venoso profondo è pervio, rimettendo in piedi il paziente le varici rimangono collassate per almeno 30 secondi, altrimenti si riempiono subito. Altri elementi di diagnostica strumentale sono: • Pletismografia: registrazione delle onde di variazione di volume che si verificano a carico di un arto ad ogni ciclo cardiaco. Può essere fatta con un rilevatore fotodinamico, in reografia a luce riflessa, oppure con la tecnica Strain – Gauge, ossia l’applicazione a livello del dito o altrove nell’arto di un tubicino contenente mercurio che ha la capacità di valutare le variazioni di volume che si manifestano nel corso di un battito cardiaco. • Velocità di flusso valutata con Doppler: viene fatta con l’analisi della riflessione di una scarica di ultrasuoni da 1 a 10 MHz, che viene riflessa dal flusso sanguigno in movimento, e permette di valutare la velocità di flusso. Può essere associata all’ecografia (ecodoppler) • Fleboscopia Terapia Il trattamento delle varici dal punto di vista farmacologico o medico con compressione elastica non riesce in nessun caso a far regredire le varici e non sembra adatto per la prevenzione. I principi della terapia sono la scleroterapia e il trattamento chirurgico. La scleroterapia trova indicazione nelle varici telangectasiche e in quelle tronculari. La scleroterapia (iniezioni nella vena di farmaci ad azione cicatrizzante eseguite con microaghi) rimane ancora il metodo di elezione per il trattamento delle telangectasie. Quelle scure devono essere necessariamente sclerosate con molta delicatezza per non causare lesioni della pelle o macchie Le telangectasie rosse, che sono le più sottili e resistenti, sono le più difficili da trattare ed è possibile ottimizzare i risultati con terapie complementari come la laser-terapia e l'ozono-terapia. In molti casi gli effetti di una scleroterapia possono essere duraturi negli anni; a volte possono invece essere necessari nuovi interventi. L’introduzione del fattore sclerosante nella vena sviluppa una duplice reazione, da una parte la fibrosi della parete e il rinforzo della dilatazione varicosa, dall’altra la formazione spesso e volentieri di un trombo. In genere questa scleroterapia non è efficace nell’occlusione delle grosse varici della safena, e deve essere usata come alternativa all’intervento chirurgico solo nel paziente debilitato. Varici grandi, a rischio di complicazioni come ulcere, emorragie e varicoflebiti sono trattate chirurgicamente con la

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safenectomia. La terapia chirurgica ha come obbiettivo quello di sopprimere i punti di accesso dal circolo profondo a quello superficiale, e quindi si fa una safenectomia totale mediante stripping lungo (piccole incisioni sottocutanee che permettono di estrarre la vena senza grandi cicatrici), e la rimozione dei rami comunicanti, oppure con la rimozione degli osti venosi.

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CAP 2 ALTRE PATOLOGIE DA INSUFFICIENZA VASCOLARE 2.1 SINDROME DELLO STRETTO TORACICO Si tratta di una condizione che raccoglie sotto una denominazione unica tutte le sindromi da compressione del fascioneurovascolare del braccio, da parte delle strutture muscolari, legamentose ed ossee che attraversa. Dal punto di vista anatomico, lo stretto toracico è costituito da tre strettoie successive che il fascioneurovascolare attraversa a partire da subito dopo la sua costituzione: • • •

Triangolo interscalenico: formato dalle strutture della prima costa, che ne forma la base, del muscolo scaleno anteriore e del muscolo scaleno medio.L’arteria e il nervo brachiali decorrono dentro a questo triangolo, la succlavia decorre davanti allo scaleno anteriore. Pinza costo-clavicolare: il fascio passa poi fra la clavicola e la prima costa, proprio al di sopra dell’inserzione del piccolo muscolo sottoclavicolare Passaggio sotto il processo coracoideo della scapola: qui il fascio si impegna fra questo e il muscolo pettorale minore su di esso inserito.

Eziologia La compressione del fascio vascolare si verifica durante particolari atteggiamenti posturali del capo e del collo, che determinano compressione e chiusura delle strutture. E’ perciò di regola intermittente. Atteggiamenti come l’abduzione forzata dell’arto, l’abbassamento della spalla e lo spostamento indietro della scapola provocano la compressione del fascio. In pratica si possono distinguere due gruppi di muscoli implicati nella patologia della compressione dello stretto toracico; un gruppo, che è rilasciante nei confronti dello stretto, è composto da trapezio, elevatore della scapola, grande dorsale e romboide: allargano il cinto scapolare e quindi lo stretto. L’altro gruppo è quello dello scaleno, succlavio, piccolo pettorale¸che all’opposto stringono. La sindrome si verifica solo in concomitanza di differenze nel trofismo e nell’azione di questi due comparti. In altre circostanze invece la malattia è riconducibile ad un substrato anatomico preciso, come nel caso della presenza di: • Costa cervicale • Apofisi trasversa della VII vertebra cervicale molto più grande delnormale • Anomalie della clavicola • Anomalie della I costa • Muscolo scaleno accessorio • Malformazioni tendinee o legamentose Queste condizioni sono predisponenti. Un altro possibile fattore causale è uno stato di contrattura dei muscoli cervicali causato daun improvviso colpo di frusta. Nella popolazione, questa malattia è legata ad atteggiamenti posturali scorretti, in massima parte donne longilinee con spalle cadenti, o al contrario uomini brachitipi con muscolatura molto sviluppata, spesso dediti a lavori pesanti. Le malformazioni predisponenti sono soltanto in parte sintomatiche. Clinica La patologia della compressione del nervo, dell’arteria e della vena provoca tre tipi di sintomatologia:

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Sintomi neurologici: I componenti superiori (da C5 a C7) provocano la manifestazione di emicrania, dolore cervicale e alla spalla, mentre le parti inferiori, da C8 a T1, interessano le parestesie estese fino alla mano, con più frequenza riferite al lato ulnare (esterno). Stasi venosa: intermittenti, oppure, nel caso in cui sia sopraggiunta una complicazione trombotica, si manifestano anche tumefazioni della mano,ectasia venosa della spalla con evidenza di reticoli collaterali e visioni di reticoli nel braccio. Insufficienza arteriosa: ancor più raramente si ha difficoltà della esecuzione di movimenti con il braccio sollevato, e in una minoranza di pazienti si osservano alterazioni del trofismo delle dita

Non raramente può essere associata una sindrome di Raynaud intermittente, che dipende però dalla compressione del plesso che porta ad irritazione. Complicazioni maggiori si hanno quando la stenosi della succlavia porta alla formazione di un aneurisma dopo la stenosi, generato dalle turbolenze del flusso, che a sua volta può essere causa di complicazioni trombo-emboliche. Diagnosi Alcune manovre semeiologiche, peraltro non prive di falsi negativi, sono : 7. Adson: estensione e rotazione omolaterale del capo in corso di ispirazione profonda  scomparsa del polso radiale (ipertrofia degli scaleni) 8. Wright: abduzione dell’arto a 90° (a statua della libertà)  scomparsa del polso radiale (compressione da pinza costo-claveare) 9. Eden: abduzione degli arti e retropulsione della scapola (posizione dell’attenti)  scomparsa del polso radiale (compressione della pinza claveare) 10. Stress test: apertura e chiusura della mani con le braccia sollevate:  affaticamento precoce e comparsa di parestesie dal lato interessato I test diagnostici strumentali sono la velocimetria doppler, che valuta molto bene il carattere dinamico della insufficienza arteriosa in relazione alle varie posizioni assunte, va non valuta con molta efficacia la situazione delle vene. L’elettromiografia valuta la situazione della sofferenza muscolare, e della anormale stimolazione a riposo prodotta dalla compressione del fascio neurovascolare. L’analisi della aree dove si manifestano queste alterazioni permette di capire quale tronco è interessato. L’elettroneurografia permette di identificare ostacoli alla trasmissione degli impulsi nervosi, mentre la registrazione dei potenziali evocati sensoriamente hanno una funzione analoga. Infine, tutti i soggetti che hanno il sospetto di questa sindrome devono essere sottoposti all’indagine radiografica della colonna cervicale. L’angiografia risulta superflua in situazioni normali, importante per valutare le complicazioni di carattere tromboembolico. Terapia Beneficiano molto delle soluzioni conservative (terapia miorilassante, analgesici e massaggi) i soggetti sottoposti al colpo di frusta, o che hanno segnalato un trauma pregresso. Anche la rieducazione dei gruppi muscolari ela ginnastica possono far cessare la sintomatologia in molti soggetti. La terapia chirurgica si impone nei casi complicati da embolia e trombosi, e nelle malformazioni scheletriche. Si ricordi che un trombo della succlavia può far partire con molta efficienza un embolo al cuore senza gravi problemi. La rimozione della prima costa funziona bene, anche se deve essere eseguita a fondo e rimovendo

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anche il periostio, altrimenti rigenera in parte. Anche l’asportazione di una eventuale costa claveare e la resezione dello scaleno sono presidi validi. 2.2 L’OSTRUZIONE DEI TRONCHI SOPRAORTICI: L’ICTUS ISCHEMICO Fisiologia del circolo celebrale L’insufficienza acuta di circolo encefalico, o colpo apoplettico, è una patologia tipica dell’età avanzata che si rende responsabile di numerose morti ma anche di invalidità gravi e permanenti, associato ad una mortalità elevata e alla possibilità notevole di recidive. 2/3 degli ictus sono derivati dalle carotidi, 1/3 dalla basilare. La patologia ateromasica è responsabile principalmente di fenomeni occlusivi a carico della biforcazione carotidea, per motivi di flusso non laminare. Il circolo celebrale risulta normalmente capace di fornire flussi maggiori di 25-30 ml/min/kg di tessuto celebrale. Al di sotto di questi valori, inizia la sofferenza ischemica, che a seconda della ristrettezza del flusso conduce a danni irreversibili più o meno in fretta. La cosa interessante è che ogni stenosi, oltre un certo grado, si associa a diminuzione brusca del flusso ematico tanto più marcata quanto piccolo è il diametro a valle della stenosi. Ciò che subisce di più della caduta di pressione, quindi, è proprio il circolo celebrale dedito alla distribuzione di ossigeno alle cellule. Al di sotto di 15-20 ml/min/kg, il cervello perde il controllo sul tono vascolare, e si ha vasoparalisi. Viene quindi perduta la capacità di controllare il flusso aumentando la pressione: normalmente infatti le arteriole celebrali hanno la capacità di controllare la pressione arteriosa attraverso la contrazione/dilatazione spontanea in presenza di variazioni pressorie. Questo controllo è grandemente compromesso dalla ipossia. Non si dimentichi che il cervello riceve sangue dal sistema basilare oltre che da quello carotideo; fra questi due circoli esistono delle importanti interazioni: • L’occlusione di una carotide comune fa raddoppiare il flusso nella vertebrale • I movimenti del capo influenzano il flusso basilare riducendolo anche di 2-3 volte, con nessuna conseguenza se non ci sono stenosi • Nella basilare la pressione è del 10% inferiore a quella della succlavia: una caduta pressoria nella succlavia per una stenosi a monte della biforcazione fra le due arterie può far invertire il flusso dal circolo anastomotico basilare alla succlavia. Questa condizione è nota come sindrome del furto della succlavia, e si associa a lipotimia per ipossia della parte omolaterale del cervello durante l’uso dell’arto interessato. • Il circolo posteriore è molto più sensibile ai sistemi di regolazione del flusso arterioso pressorio di quello anteriore. L’ATEROSCLEROSI E L’ICV L’aterosclerosi è nella maggioranza dei casi la responsabile dell’occlusione dei TSA (tronchi sopra aortici), e predilige essenzialmente la biforcazione carotidea, l’arteria vertebrale e le arterie succlavie e anonima. Le altre cause possono essere malattie delle arterie, traumi, vasculiti reumatiche ed aneurismi acquisiti o congeniti. La placca arteriosa viene riccamente vascolarizzata e sono comuni gli eventi di ulcerazione e trombosi della placca, con occlusione dell’arteria e complicanze emboliche a valle. La cosa interessante è che epidemiologicamente non è importante tanto il grado di stenosi che la placca produce, quanto il fatto se sia ulcerata o meno. Infatti l’ulcerazione espone il tessuto sottostante che è

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altamente trombogenico. Lesione tromboembolica La rottura dello strato intimale che riveste la placca, secondaria a traumi, stress meccanico o a lesioni emorragiche sottostanti della placca profonda (evento questo comune nella patogenesi del TIA), produce essenzialmente materiale embolico che va poi a incastrarsi a valle. Spesso il TIA è transitorio, proprio perché l’embolo può essere frammentato in una biforcazione, oppure liso dal plasma. Se invece l’embolo si incastra e diventa un trombo, si può avere l’attivazione efficace dei circoli collaterali. Altra evenienza è la emorragia intramurale di una placca, che provoca una ostruzione completa del vaso dove essa si trova. L’eterogenicità della sintomatologia trova spiegazione nel fatto che anche il trombo può essere di molti tipi e originare in maniera molto diversa, dal materiale della placca, dal rivestimento fibroso di essa, dal colesterolo cristallizzato, da aggregati piastrinici formatisi sulla placca stessa. Il meccanismo tromboembolico resta il principale per quello che riguarda il settore carotideo; invece nella basilare è raro, anche perché in genere le occlusioni intracraniche che ne derivano sono compensate dal circolo controlaterale. Infine circa il 20% degli eventi embolici sono imputati ad una situazione di embolia cardiaca. Meccanismo emodinamico Aumento progressivo di volume della placca fino alla stenosi serrata (>80%) oppure alla trombosi arteriosa. Nella carotide è un meccanismo poco frequente, mentre invece nella basilare lo è molto di più. Qui però perché una stenosi sia significativa, è necessario che riguardi contemporaneamente le due vertebrali, oppure che sia accompagnata da una lesione analoga della vertebrale controlaterale o aplasia di essa, oppure che per lesioni acquisite o congenite del poligono di Willis, il sistema posteriore sia isolato da quello anteriore. Clinica La malattia da insufficienza vascolare celebrale si manifesta in modi assai vari, dalla asintomaticità a deficit neurologici gravissimi, a seconda del vaso colpito e del perdurare dell’ischemia. In genere il deficit sintomatico raggiunge un apice e poi regredisce, con il recupero della funzione in tutto o in parte. Questi eventi di acme e di recupero possono essere rapidi, durare alcuni giorni oppure anche variare nel corso di mesi o anni, in seguito al recupero della funzionalità progressivo. In genere si classificano le seguenti forme cliniche: • TIA: attacco ischemico transitorio, con deficit neurologici focali di durata inferiore alle 24h, che regrediscono completamente • RIND: deficit neurologico ischemico reversibile. Si risolve in 2-3 settimane e i sintomi durano oltre 24 ore. • Stroke: colpo apoplettico, con sintomi che durano oltre tre settimane e si distingue nella forma in evoluzione, con sintomi che peggiorano progressivamente nell’arco delle ore o giorni successivi, dalla forma completa, in cui la sintomatologia rimane stabile e non reversibile. I sintomi del TIA variano a seconda che sia colpito il circolo basilare o quello carotideo: • Distretto carotideo: emiparesi transitoria controlaterale alla lesione, con intensità variabile; disturbi della sensibilità controlaterali o omolaterali. Nell’emisfero dominante, afasia, disartria, sospensione del linguaggio e disturbi di comprensione, turbe del visus come la cecità brusca e improvvisa. • Distretto vertebrale: tipico disturbo è la perdita del controllo sulla deambulazione: il soggetto,

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senza aver sperimentato vertigini o altro, cade per terra all’inizio della deambulazione e poi si rialza immediatamente. Alterazioni motorie di uno o più arti, paralisi della sensibilità. Fondamentale la bilateralità, o l’interessamento prima di un lato e poi dell’altro, per la diagnosi differenziale con le forme carotidee. Molto comuni i disturbi del visus. Se si realizza una occlusione completa, la porzione anteriore del circolo celebrale produce segni neurologici essenzialmente di tipo paresi e anestesia, ma soprattutto si realizza uno stato di coma celebrale che si instaura anche lentamente per via dell’edema celebrale che si forma pian piano. Invece, nel circolo posteriore bisogna distinguere l’infarto del tronco, condeficit cerebellari (atassia, aprasia, anomalie della motilità del tipo da nervi cranici, tetraplegia ma sempre bilaterali, per via della compromissione del tronco encefalico) dall’infarto della posteriore, con compromissione delle aree associative e quindi afasia, agrafia, acalculia, agnosia e se compromessa la scissura calcarina emianopsia bitemporale. Diagnosi Si cerca di documentare la presenza di lesioni ostruttive del circolo celebrale, e di escludere come patogenesi la presenza di lesioni extracraniche. Importante è correlare i reperti vascolari con il quadro clinico (non si ha afasia per una lesione della carotide interna), e tener presente che una stenosi diventa significativa oltre il 70% del lume, ma che in condizioni di aumentata richiesta di flusso possono bastare anche occlusioni del 50%. • Doppler: molto efficace per valutare stenosi significative della carotide, ma meno efficace nelle vertebrali, meno accessibili e meno repertabili. Da importanti informazioni nelle variazioni di flusso legate alla posizione, come nella compressione intrinseca della vertebrale da parte di una cervicoartosi e nel furto della succlavia. • Ecografia: oltre all’osservazione del flusso, permette l’analisi delle caratteristiche della placca, come la presenza dell’emorragia e di ulcerazioni della superficie. • Duplex-scanning: oggi in particolare sostituito dall’eco-color-doppler che fornisce informazioni sulla colorimetria del flusso, risulta dalla fusione dell’ecografia con il doppler, ed è la metodica migliore per lo studio del flusso arterioso. • Doppler transcranico: permette di valutare le alterazioni del flusso a livello del poligono di Willis o di altre regioni specifiche. Le alterazioni del flusso intracranico sono legate a specifiche lesioni a carico delle arterie extracraniche. • Oculopletismografia: valuta l’onda sfigmica dell’arteria oftalmica, ma è difficile valutare l’efficacia e interpretare i risultati. Le procedure invasive sono fondamentali per valutare correttamente le ostruzioni che provocano una ischemia intracranica. • Angiografia tradizionale: pur consentendo una adeguata rappresentazione del circolo endocranico, ha limitazioni a causa della necessità di infondere grandi quantità di mezzo di contrasto e della difficoltà di valutare ulcere piccole nelle placche. Migliore è la forma a sottrazione di immagine che permette un utilizzo di mezzo di contrasto in minor quantità. Diagnostica per immagini • •

TAC: Rivela segni di edema, di emorragie recenti e di zone infartuali, anche se è negativa nelle prime ore di un infarto, mentre successivamente diventa positiva. E va ripetuta nelle prime 24 ore. Nei pazienti sintomatici si impone per valutare il danno del parenchima. RMN: Migliore della TAC, non serve mezzo di contrasto, è più precoce e differenzia meglio il cervello malato dalla parte sana.

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PET: la tomografia ad emissione di positroni ha una risoluzione molto bassa e permette l’analisi, con l’uso di isotopi traccianti, l’analisi del metabolismo celebrale.

Terapia Nell’occlusione carotidea l’endoarteriectomia con conservazione della struttura propria del vaso e rimozione della placca è l’intervento di elezione. Nei casi di ostruzione estesa si effettua il bypass succlavio carotideo. Oggi l’indicazione chirurgica è estesa a tutti i pazienti asintomatici, mentre le lesioni carotidee non sintomatiche possono in casi selezionati venir trattate con la chirurgia. Nell’occlusione della vertebrale l’indicazione all’intervento di rivascolarizzazione è bassa, di solito si applica invece un bypass o la dilatazione dell’ostio vertebrale. LA SINDROME DA FURTO SUCCLAVIO NELL’ICV Quando le due vertebrali sono pervie, la presenza di una sindrome da furto difficilmente produce ischemia perché il sangue del lato interessato si riequilibra con il lato sano. In questo caso si hanno sintomi nell’arto durante il suo utilizzo (parestesie, ipotermia, sensazioni di freddo e raramente ischemia digitale) e disturbi neurologici transitori, sempre durante l’uso dell’arto (vertigini, cefalea, instabilità, disturbi visivi). La succlavia sinistra è coinvolta tre volte di più della destra, e raramente si dimostra un flusso retrogrado nella vertebrale; la stenosi della succlavia destra è più grave perché può interessare l’anonima e quindi produrre alterazioni del flusso carotideo. La diagnosi è per lo più casuale per la presenza di alterazioni della pressione dei polsi arteriosi da un lato all’altro, e la causa della malattia è una lesione, spesso aterosclerotica ma anche causata dalla presenza di traumi o di coste sovranumerarie. Le lesioni dell’anonima sono rara, ma ovviamente molto più gravi delle lesioni della semplice succlavia. L’intervento principale è il bypass della succlavia ostruita. LA DISPLASIA FIBROMUSCOLARE E L’ICV E’ questa una malattia della parete della carotide, nei 2/3 superiori per tratti di 2-3 cm. Si accompagna in genere a lesioni di altre arterie del corpo, in ogni età compresa l’infanzia ed è più comune nel sesso femminile. Riguarda soprattutto la media, che proliferano oltre misura, dando origine a stenosi. Quando sono coinvolte anche l’intima e l’elastica, possono aversi anche dilatazioni aneurismatiche. L’attacco ischemico viene determinato da un embolo, oppure da meccanismi emodinamici. Di solito è benigna, asintomatica in 2/3 dei pazienti, e si diagnostica con l’arteriografia. Si fa una terapia chirurgica con la rimozione del tratto leso, oppure con la sostituzione di un tratto con frammenti della vena safena. Inoltre si può anche fare una dilatazione intraluminare mediante cateteri a palloncino. TUMORI DEL GLOMO CAROTIDEO

I famosi paragangliomi, così chiamati perché derivano dalle cellule gangliari e neuronali, sono neoplasie rare, tipiche della quarta decade, nel 10% dei casi ai trasmissione familiare. Bassa la percentuale di malignità. Nelle forme piccole il paziente riferisce da solo la presenza di una masserella elastica dura e palpabile, pulsante, sotto l’angolo della mandibola. Questi elementi li differenziano da aneurismi o metastasi linfonodali, mentre nelle forme di maggiori dimensioni, la sintomatologia è legata alla compressione delle strutture circostanti, con disfagia, sindrome di Horner e disfonia. Si diagnosticano con le tecniche di imaging comuni ocon l’angiografia, che è molto caratteristica per la dilatazione a sella della biforcazione carotidea. La terapia di scelta è l’exeresi chirurgica.

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2.3 L’INSUFFICIENZA CELIACO-MESENTERICA Si definisce così una sindrome variegata legata alla presenza di un disturbo acuto o cronico della circolazione mesenterica, provocata da diverse cause, che possono essere lo shock, aneurismi, cause trombotiche, vasculiti, aterosclerosi, o da alterazioni funzionali vasocclusive del circolo mesenterico. La lesione ischemica acuta in sede mesenterica è molto difficilmente valutabile, ed è frequente una danno intestinale irreversibile prima che si possa capire di che si tratta. In genere le forma acute hanno una frequenza molto maggiore delle forme croniche. Il circolo intestinale che deriva dal tripode celiaco, della mesenterica superiore e dalla inferiore possiede connessioni interne: • fra il tripode e la mesenterica superiore: arcata pancreatica • fra la superiore e l’inferiore: arcata di Riolano • fra la inferiore e la ipogastrica: plesso emorroidario Questo spiega anche come mai la patologia cronica è così poco frequente, perché quando la stenosi si instaura progressivamente, si attivano con efficacia i numerosi circoli collaterali. Nelle forme croniche infatti la sintomatologia intestinale si presenta praticamente solo quando c’è un aumento della richiesta di sangue, come dopo un pasto abbondante. Questo provoca quella che viene definita la “claudicatio intestinalis”. Anche nella patologia acuta queste arterie hanno molta importanza, se non altro a fini diagnostici, perché la loro perfusione maggiore del normale indica una ostruzione. La mesenterica inferiore può essere bypassata con una certa efficace dall’arcata di Riolano, mentre la mesenterica superiore pur ricevendo sangue dalle collaterali della epatica e dalla inferiore, non ha possibilità di recupero e l’occlusione di essa si accompagna sempre a lesioni ischemiche molto gravi. Nella mesenterica superiore è presente un segmento, detto segmento critico di Reiner, che presenta il massimo rischio di conseguenze ischemiche in seguito ad una ostruzione, mentre l’occlusione a monte o a valle è molto meno rischiosa. Anche nel colon corrispondenza delle flessure edi altre deviazioni, esistono dei punti critici dove l’occlusione ha conseguenze molto più gravi. Eziologia I fattori eziologici principalmente coinvolti sono: 4. Embolia della mesenterica superiore e. Da cardiopatie ed endocarditi f. Da aneurismi/placche dell’aorta addominale 7. Trombosi su placca delle mesenterica superiore 8. Trombosi venosa mesenterica i. Emopatie j. Congestione venosa locale k. Parassitosi l. Traumi addominali m. Cause iatrogene 14. Ischemia mesenterica non occlusioca o. Shock con vasocostrizione (fase iniziale) p. Ipotensione In queste forme acute l’attività del circolo di compenso è irrilevante e si verifica sempre un infarto. Dal punto di vista patogenetico, la malattia comprende due diverse situazioni, la trombosi arteriosa, e la trombosi venosa. La prima provoca danno per ipoafflusso di sangue, la seconda per stasi venosa. Clinica

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I sintomi tipici dell’infarto intestinale sono: • Paralisi della peristalsi, non sempre presente, in quanto l’alvo può chiudersi dopo abbondanti scariche diarroiche: raramente diarrea ematica, peraltro utile nella diagnosi. La paralisi intestinale è segno di sopraggiunta necrosi ischemica del tratto interessato. • Dolore addominale acuto, che tranne in pochissimi casi insorge bruscamente, in un punto qualsiasi dell’addome ed è fortissimo. • Segni di sofferenza con cute cianotica e facies ippocratica • Ipotermia All’esame obiettivo l’addome non presenta segni di difesa, talvolta è palpabile una tumefazione molliccia in corrispondenza della zona di massimo dolore, mentre se c’è trombosi venosa si sviluppa quasi sempre ascite. Abbastanza specifico è l’innalzamento di parametri di laboratorio come i fosfati organici, che sono contenuti in grande quantità nell’intestino, e una spiccata leucocitosi neutrofila (40-50 mila). Diagnosi Spesso dopo l’insorgenza della gangrena e quindi con poche speranze di salvare il tratto interessato. Importante l’anamnesi: si tratta spesso di pazienti oltre i 50 anni, con storia di cardiopatia e/o aterosclerosi che presentano vivo dolore addominale da oltre 3 ore. Gli esami di elezione, oltre i parametri ematici prima descritti. • •

Radiografia addominale: segni caratteristici delle anse infarcite e di meteorismo nel tratto a monte Angiografia: in più posizioni estesa all’aorta e all’origine delle mesenteriche

Terapia Prima ancora della diagnosi, eventuali cause extraintestinali di ipotensione, fibrillazione atriale o trombosi dell’aorta devono essere trattate e risolte (soprattutto lo shock). Successivamente, stabilizzato il paziente, si procede alla laparotomia esplorativa per l’osservazione delle anse intestinali, e dei vasi. Se le anse non sono compromesse, si procede alla ricanalizzazionedel vaso ostruito, con catetere di Fogarty sotto guida ecografica. Di solito queste procedure non sono risolutive e nella maggior parte dei casi si deve procedere alla resezione intestinale. Ben diverso il caso delle ischemie funzionali da vasospasmo, trattabili con l’instillazione di vasodilatatori nella sede della lesione, e della trombosi venosa che si tratta con eparina. Ancora diversa la situazione della colite ischemica, dove in genere la conservazione del colon è possibile con procedure mediche, come l’intubazione, la decompressione, il trattamento con antibiotici, la perfusione di liquidi o sangue. ISCHEMIA CRONICA Le lesioni stenosanti che insorgono progressivamente sono di solito ben controllate dalla presenza di circoli collaterali e non sono sintomatiche. Perché si crei una angina addominalis si deve quindi presupporre la presenza di una stenosi significativa estesa a più tratti delle mesenteriche e al tripode celiaco. Sintomatologia tipica è un dolore post-prandiale, crampiforme, ad insorgenza progressiva, che scompare dopo qualche ora e che insorge da 15 minuti ad 1 ora dopo il pasto. Inizialmente compare con i pasti pesanti, dopo anche con quelli leggeri, e la riduzione dell’alimentazione si accompagna a

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dimagrimento. Possono essere presenti alterazioni dell’alvo, calo ponderale. La diagnosi viene fatta spesso con l’esecuzione di un doppler addominale che evidenzia un soffio diastolico epigastrico e di una angiografia, che è l’esame di elezione. Prima di fare questo però risulta necessaria una esclusione di altre patologie addominali, soprattutto a carattere neoplastico. Importante è l’esame delle feci La terapia viene effettuata chirurgicamente, con rivascolarizzazione o bypass, solo quando il quadro radiologico e clinico è severo, per la presenza di diverse possibilità di attivazione dei circoli collaterali. Dal punto di vista medico farmaci come la dopamina possono aumentare il flusso ematico all’intestino.

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CAP 3 GLI ANEURISMI 3.1 LE CARATTERISTICHE GENERALI DEGLI ANEURISMI Dilatazione patologica, localizzata e permanente, della parete di una arteria, con parziale interruzione della sua componente muscolare ed elastica. Gli aneurismi veri sono condizioni in cui la dilatazione della parete è costituita dall’intima, dalla media e dall’avventizia, sebbene la media sia più o meno compromessa, mentre gli aneurismi falsi sono dilatazioni della sola avventizia, definiti anche come ematomi pulsanti. Un caso a se, trattato in seguito, sono gli aneurismi dissecanti. Possono essere congeniti e acquisiti, ed hanno delle caratteristiche di morfologia e di posizione: •





Morfologia: o Sacciformi: sviluppo in una parte limitata della parete del vaso, con un colletto di comunicazione fra la parte dilatata e quella normale o Fusiformi: dilatazione circonferenziale uniformemente estesa a tutta la porzione del vaso Sede: o Centrale (Aorta: addominale, iliache comuni, toracica discendente, arco aortico, aorta soprarenale in ordine di frequenza) o Periferico (collo, arti) o Viscerale (delle arterie dei visceri principali) o Celebrale Dimensioni o Macroaneurismi o Microaneurismi

Nel SNC gli aneurismi più frequenti sono le dilatazioni congenite del poligono di Willis. Qui infatti le arterie sono particolari, ed hanno una lamina media più sottile, per offrire una minor resistenza al flusso. Eziologia Sebbene sia considerata multifattoriale la genesi degli aneurismi viene classicamente suddivisa in tre gruppi causali: • Aneurismi congeniti: come si diceva tipicamente endocranici, dipendono da una debolezza della parete presente alla nascita. Esistono due varianti. Il tipo “mesenchimale” deriva dalla deposizione di cellule angioblastiche anormali al momento della genesi del vaso, mentre il tipo “vestigiale” deriva dal mancato riassorbimento di componenti embriologici. Altra causa di aneurismi congeniti sono le malattie del connettivo, come la S. di Marfan e di Ehlers-Danlos, e malattie come la S. di Turner e la sclerosi tuberosa. • Aneurismi degenerativi: o Aterosclerotici o Secondari a necrosi della media o Secondari alla fibrodisplasia • Infiammatori: quasi sempre presenti in sede sottorenale, con parete fibrosa e biancastra, e fibrosi parietale fortemente adesa agli organi vicini • Luetici: con caratteristico tropismo verso la porzione discendente dell’arco aortico, sono legati alla infezione della tonaca avventizia dei vasa vasorum: da lì il processo si estende lungo la media e si forma un aneurisma dissecante.

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Aneurismi micotici: salmonella, streptococco D e stafilococco, sono responsabili della distruzione della parete arteriosa quando vengono portati ad essa da un embolo settico. Secondari a trauma: anche se il danno non viene a creare la rottura del vaso, può produrre una zona di minor resistenza con la creazione di un successivo aneurisma.

Patogenesi Le lesioni a carico della media si accompagnano ad un notevole indebolimento della parete dell’aneurisma, che sottostà ad un importante circolo vizioso: infatti per la legge di La Place la tensione che agisce su una parete vascolare T = P * r dove r è il raggio del vaso, P la pressione luminare. Quindi più il vaso si allarga (e più è importante l’arteria) maggiore è la tensione alla quale è sottoposta la parete. Si capisce quindi come man mano che un aneurisma cresca aumentino le possibilità di rottura di esso. Inoltre, la forza di rottura è data dal rapporto fra la tensione T e lo spessore s della parete: il danno della media riduce lo spessore e aumenta la probabilità della rottura. Una importante conseguenza invece dell’aumento pressorio che si verifica dentro l’aneurisma è la possibilità che con facilità si realizzi una complicazione trombotica: infatti per il teorema di Bernoulli, maggiore è la pressione minore è la velocità di flusso, con rapido raggiungimento della stasi. Gli aneurismi sono una patologia di soggetti fra 50 e 60 anni, e quelli aortici colpiscono prevalentemente i maschi, essendo 8 volte più frequenti nei fumatori. L’aneurisma si espande costantemente fino alla sua rottura, fino a raggiungere la probabilità di rottura del 75% annuo negli aneurismi di oltre 7 cm di diametro. L’ipertensione agevola enormemente la possibilità di rottura, mentre quelli sacciformi sono più stabili di quelli fusiformi; questo perché il sacco, avendo un collo ristretto, è protetto dal regime pressorio che vige in aorta. Altre complicazioni importanti sono la trombosi, l’embolia e la fistolizzazione. Queste ultime complicanze sono più frequenti negli aneurismi periferici. L’aneurisma attraversa tre fasi nel suo sviluppo: Asintomaticità, fissurazione, rottura. Prima della fase di rottura, quando l’aneurisma attraversa la fase di fissurizzazione, si verificano moderate perdite ematiche nel contesto della parete arteriosa, con dissezioni localizzate. Diagnosi Più della metà dei paziente non riporta disturbi; in genere i sintomi sono correlati alla dimensione dell’aneurisma e al suo rapporto con le strutture vicine. Il sintomo più frequente è una massa pulsatile fonte di dolore localizzato. Quando questo è evidente il paziente si reca dal medico, ma altrimenti la diagnosi avviene per caso durante il controllo di altre patologie con le tecniche di imaging. La fase di asintomaticità può però non essere affatto seguita dalla fissurazione, ma subito dalla rottura. In fase iniziale, un aneurisma da un modesto dolore, spontaneo ma più intenso alla palpazione, che deriva dalla compressione della paretedel vaso per la dilatazione. In fase di fissurazione la tendenza alla rapida espansione è avvertibile palpatoriamente e dovrebbe portare alla giusta diagnosi. In fase di rottura, la diagnosi è prevalentemente clinica, e si basa sul dolore, a comparsa improvvisa, e alla presenza di cianosi ed ematomi negli organi vicini. Lo stato di shock è variamente presente a seconda della situazione. •

Radiologia: la presenza di calcificazioni nella parete rende visibile l’aneurisma come un cerchietto o un segmento di circonferenza in proiezione laterale. Diagnostica fino al 70-80% degli

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104 /278 Sintomi da compressione •

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Sui nervi: dolore intercostale, disfonia, singhiozzo,

aneurismi. Sebbene ci siano tecniche sindrome di Horner migliori, questa è l’unica che permette • Sulle vene: reticoli venosi e turgore della cava e della la diagnosi dell’aneurisma toracico giugulare dell’aorta mediastinica. • Sull’esofago: disfagia • Sulle vie respiratorie: tosse, dispnea, asma Urografia: modeste applicazioni della • Sull’osso: erosione di coste e sterno diagnosi di aneurismi retroperitoneali Sintomi da rottura Ecografia: attualmente l’esame di • Pericardio: tamponamento e morte improvvisa elezione che da molte informazioni: la • Mediastino: sindrome mediastinica acuta forma, le dimensioni, lo stato e lo • Cavo pleurico: emotorace massivo  morte improvvisa spessore della parete, il contenuto, la • Vaso mediastinico: insufficienza cardiaca ad alta portata presenza di ematomi e la presenza di dissecazione. Non sempre però è possibile vedere bene gli aneurismi di alcuni distretti, e sempre male quelli viscerali. Inoltre non evidenzia con successo le fistole TAC: da le stesse informazioni dell’ecografia e diagnostica le fistole RMN: migliore ancora perché non necessita di mezzo di contrasto.

3.2 CARATTERISTICHE DEI VARI TIPI DI ANEURISMI GLI ANEURISMI DELL’AORTA TORACICA Non sono molti in termini di frequenza, ma la patologia di tipo dissecante si trova quasi esclusivamente in questa regione. In genere si tratta di aneurismi degenerativi della media con necrosi cistica, fusiformi, meno frequentemente aneurismi dissecanti luetici, sacciformi, e aneurismi aterosclerotici, anch’essi fusiformi. Nell’aorta ascendente rimangono alungo asintomatici, ma raggiunti certi limiti si manifestano chiaramente con la compressione delle strutture circostanti. Un tipo speciale sono quelli toracoaddominali, che si estendono attraverso lo iato aortico. In tutti i casi la diagnosi è posta occasionalmente durante l’esameradiologico del torace, e solo raramente si osservano sintomi da parte di questi aneurismi. Una volta individuati, sono differenziati da neoplasie e cisti con le tecniche dette prima. Qui nel torace l’ecografia risulta in genere poco utile. Nel torace invece la sintomatologia degli aneurismi di grandi dimensioni e delle loro complicazioni è decisamente ampia. DISSEZIONI DELL’AORTA Una dissezione è un distacco dei piani della parete arteriosa, che si trova ad avere al suo interno un secondo lume, scavato nel contesto della parete, che si verifica soprattutto nei primi sementi dell’aorta discendente e nell’arco, per via della presenza di fattori di stress emodinamici. Distalmente, il secondo lume può trovare sbocco nel lume oppure finire a fondo cieco. Prevalente nei maschi, nel 90% dei casi la dissezione è legata alla presenza di ipertensione. La classificazione di De Bakey divide gli aneurismi in tre gruppi: • Originati nell’aorta ascendente che si estendono oltre l’arco aortico • Limitato alla sola ascendente • Originante distalmente alla succlavia, ma la dissezione può estendersi in avanti o indietro L’università di Stanford ha classificato invece in due categorie, quelli prossimali alla succlavia e quelli distali. Se non sono trattati, questi aneurismi portano a morte il 20% dei pazienti in 24 ore, e il 90% entro un anno. In genere si manifestano con dolori tipo infarto, e quadri particolari di insufficienza aortica con

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sofferenza ischemica degli arti. Un elemento importante è la comparsa di anisosfigmia o asfigmia del polso periferico. ANEURISMI DELL’AORTA ADDOMINALE E DELLE ILIACHE Nel 90% dei casi sono aterosclerotici, e sono la maggioranza. Sono caratterizzati da una massa facilmente palpabile, pulsante, che di solito è duro-elastica e non suscita dolore. In genere si riesce a palpare sia l’estremità superiore che quella inferiore. Spesso si apprezza un soffio sistolico in sede para ombelicale, per le turbolenze trombotiche interne all’aneurisma. La possibilità di falsi negativi alla palpazione è elevata nei soggetti obesi o con muscolatura addominale sviluppata, e i falsi positivi nelle donne secche con spiccata lordosi lombare (si palpa l’aorta). I sintomi possono essere parecchi, ma spesso si giunge all’osservazione dell’aneurisma in seguito alla sua rottura. La rottura dell’aneurisma addominale si può avere in quattro modi: • Rottura posteriore: con erosione dei corpi vertebrali, avviene versola colonna nello spazio retroperitoneale, ed è la più frequente. In genere i sintomi sono limitati al dolore di una grave sciatalgia. • Rottura anteriore: con versamento libero nel peritoneo, è meno frequente ma si associa ad una peritonite con shock. • Rottura nei segmenti venosi: specialmente la vena cava, si manifesta con soffio sistolico/diastolico continuo, edema e cianosi alle gambe (monolaterale se la rottura avviene in una iliaca) e progressivi segni di insufficienza cardiaca. • Rottura negli organi cavi: progressivi e imponenti episodi di ematemesi e melena, che portano il paziente ad un rapido shock. Ogni volta che in un paziente con aneurisma si presenta sanguinamento anche modesto dall’intestino si deve subito indagare l’aneurisma. ANEURISMI VISCERALI A differenza di quelli dell’aorta, sono piuttosto rari, frequentemente asintomatici per parecchio tempo, e non di rado vengono diagnosticati solo dopo la rottura. Sono più frequenti in corso di ipertensione e in gravidanza, a causa del rilascio di una proteina detta relaxina, che diminuisce la componente elastica tissutale. I più frequenti sono quelli splenici, quelli epatici, della mesenterica superiore, e delle arterie renali. ANEURISMI PERIFERICI Spesso sono poplitei e femorali. In genere sono difficili da diagnosticare, sono frequentemente asintomatici fino allo sviluppo di complicazioni tromboemboliche, peraltro frequenti. La loro Sintomi compressivi patogenesi è spesso di origine aterosclerotica. • Nervi: dolore cupo e modesto, spontaneo ed Molto più rari gli aneurismi dell’arteria tibiale e aumentabile alla palpazione delle arterie del braccio o della mano. • Tubo digerente: peso e dolore post prandiale, fino a ANEURISMI CERVICALI Molto rari quelli della carotide extracranica, seguiti da quelli della succlavia, della vertebrale e della arteria temporale



quadri di subocclusione Vie urinarie: infezioni, disuria, ematuria, fino all’idronefrosi e all’uremia.

FALSI ANEURISMI Sono alterazioni che insorgono prevalentemente al livello degli arti, perché in genere sono legati a traumi dello strato esterno della tonaca avventizia, che si solleva e forma una tasca dove il sangue si

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raccoglie. Questi traumi possono essere di natura iatrogena o no, e agiscono in due modi: attraverso traumatismo diretto (lesioni, ferite, aghi, cateteri, sonde introdotte) che non lacera la parete ma la indebolisce, oppure attraverso forme di deiscenza di protesi e suture di anastomosi. Una certa percentuale di falsi aneurismi sono micotici. 3.3 TERAPIA DEGLI ANEURISMI La terapia di elezione è il trattamento chirurgico, che fra l’altro è gravato da una ridottissima mortalità operatoria in quelli addominali, un po’ meno favorevole in quelli toracici e soprattutto dell’arco aortico; questi in particolari hanno un insuccesso del 20%, ma una mortalità se lasciati a se praticamente completa. La terapia ha come scopo quello di impedire la genesi delle complicazioni e di permettere e mantenere un adeguato flusso a valle. In genere si clampano i vasi a monte e a valle, si apre la sacca, asportando il materiale trombotico presente, si chiudono i vasi minori che originano nel contesto nell’aneurisma, e si applica una protesi che ristabilisce la continuità vascolare. Oggi si riesce anche ad applicare tale protesi con interventi di angioradiologia interventistica mediante un accesso periferico.

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CAP 4 LA TROMBOSI Oggi la distinzione fra tromboflebiti e flebotrombosi è superata, e si intende in genere un quadro clinico di trombosi delle vene profonde con scarso quadro infiammatorioe formazione di un trombo friabile, facilmente frammentabile in emboli come una trombosi profonda, e un quadro di infiammazione superficiale del circolo sottocutaneo spesso già alterato da varici o altro in cui precede la formazione del trombo un quadro di infiammazione della parete venosa e delle strutture perivenose come trombosi superficiali. Nelle superficiali, l’embolo risulta saldamente adeso alla parete del vaso, e non da quasi mai origine a frammentazioni. Hanno un decorso benigno e quasi mai fatale. Eziologia E’ rappresentata dalla triade di Wirchow, nella quale le tre componenti (stasi, coagulopatia e danno endoteliale) possono intervenire separatamente o in associazione. In genere i trombi sono secondari a compressione del vaso che provoca stasi, e questo sembra essere il momento patogenetico della maggior parte delle trombosi venose. Le altre due componenti, tranne per quel che riguarda la sepsi e le malattie degenerative del collagene, hanno in genere una funzione accessoria. Per questa ragione la maggior parte delle trombosi non presentano alterazioni infiammatorie e sono asintomatiche almeno nella fase iniziale. La stasi venosa può essere primaria, se la trombosi insorge in aree del circolo con stenosi fisiologica, come la femorale nel canale degli adduttori, le vene profonde del polpaccio, oppuresecondaria alla compressione da parte di moltissimi fattori, fra cui sono dominanti le neoplasie gli aneurismi e le cisti. Eventi che possono facilitare la genesi di un trombo sono: • Età avanzata • Immobilizzazione • Interventi chirurgici • Tumori maligni • Gravidanza • Contraccettivi • Patologie cardiovascolari • Obesità • Diabete mellito • Sindrome nefrosica • Disordini mieloproliferativi • Trombofilia, varici • Malattie autoimmuni I trombi superficiali avendo una componente solitamente infiammatoria (tromboflebiti) sono costituiti prevalentemente di fibrina ed hanno aspetto biancastro, mentre quelli profondi hanno il classico aspetto bianco della testa, variegato del corpo e rosso della coda. Clinica Varia molto a seconda che si tratti di una formazione superficiale o profonda: il 50% delle trombosi venose profonde è asintomatico, mente quelle superficiali si associano a reazioni infiammatorie ben visibili. Inoltre, tanto più il trombo è prossimale e maggiore è il numero delle collaterali ostruite, tanto imponenti saranno i segni di stasi venosa a valle.

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Trombosi venosa profonda Nelle forme femorali e iliache, tutto l’arto appare edematoso, dalla coscia fino ai piedi, cianotico e dolente. C’è insufficienza funzionale, e se il processo interessa anche le vene superficiali, occludendo tutto il ritorno venoso dall’arto, si ha la scomparsa dei polsi e l’evoluzione verso la gangrena. Questa condizione si chiama plhegmasia coerula dolens. Nelle forme che interessano il polpaccio, si ha spesso la asintomaticità, o modesto gonfiore e dolenza della caviglia, che di solito è ipertermica. In genere però un quadro sintomatologico di questa affezione non c’è e quindi nel 20% dei casi si ha che il primo segno di una trombosi venosa profonda è l’embolia polmonare. Il dolore, che spesso è l’unica manifestazione di malattia, si esacerba durante la deambulazione, è evocato dalla dorsoflessione del piede a ginocchio esteso (manovra di Homans) e dalla palpazione della masse muscolari in corrispondenza del trombo. La compressione delle masse muscolari del soleo contro la membrana interossea provoca intenso dolore. L’edema e la cianosi, come già detto, sono segni caratteristici molto chiari. Se il flusso viene deviato verso il circolo superficiale, si ha una visione netta dei reticoli superficiali, e la cute allora appare calda, tesa e lucida (segno di Pratt) in sede pretibiale. I segni generali sono di solito rari, eccetto che se si ha una tromboflebite settica, di solito rara. Tromboflebiti Si distinguono qui due casi di trombosi delle vene superficiali: su vena sana, e su vena danneggiata (varicoflebiti). • Varicoflebiti: in genere cominciano con dolori urenti o senso di tensione in corrispondenza delle varici più vistose. Successivamente, quando si ha l’evento acuto, si manifestano edema, dolore e arrossamento esteso tutto intorno alla varice. L’edema in questo caso non è legato alla stasi venosa, ma alla flogosi. Se trattata con farmaci idonei e si evita l’immobilizzazione a letto del paziente, il trombo si stabilizza e la vena spesso si ricanalizza. Se invece viene lasciata a se stessa, la varicoflebite può estendersi fino alla femorale e necessitare di un intervento chirurgico. • Tromboflebiti su vena sana: secondarie ad ernia iatale, iniezioni, cannule, traumi, neoplasie maligne, arteriti, collagenopatie, diabete, infezioni e neoplasie primitive delle vene. Alcune di queste affezioni, caratterizzate dallo stesso quadro infiammatorio di quelle di prima, tendono a ricomparire in sedi distanti da quella di origine che appare normale, e sono dette tromboflebiti migranti. • Tromboflebiti suppurative: secondarie all’infezione batterica di una vena, ovviamente da cannula infetta. Sono asintomatiche spesso ma pericolose, perché possono dare emboli settici. Per questo, ogni tipo di trombosi si tratta anche con antibiotici. • Tromboflebiti iatrogene: da terapia sclerosante delle varici, da valvuloplastica e da catetere. Diagnosi • Doppler: assenza o inversione del flusso venoso • Ecografia: riconosce le code flottanti che possono partire come emboli • Eco-doppler: somma dei due precedenti • Pletismografia: impiego complementaree non determinante • Termografia • Flebografia scintigrafica: esame di prima scelta nel sospetto di embolo polmonare, per localizzarlo. Diventano importanti queste tecniche, nonostante l’irritazione che il mezzo di contrasto provoca e la possibilità che esso stesso sia causa di trombi, nel valutare la presenza di trombi isoecogeni nell’addome o in altri distretti scarsamente accessibili

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Terapia  La terapia medica si avvale di: • Eparina: non è un anticoagulante, ma un attivatore della antitrombina III, che inattiva lei molti fattori della coagulazione. Ha un ottimo effetto preventivo, stabilizza il trombo e la somministrazione deve cominciare subito al sospetto di trombosi, eventualmente poi affiancandola con fibrinolitici • Fibrinolitici: urokinasi e streptokinasi hanno attività ottime nella lisi del trombo, ma soltanto nelle prime 24-48h della trombosi, e non sono attive sui trombi vecchi. Oltre che alle complicazioni emocoagulative, questo tipo di farmaco può dare reazioni anafilattiche nei soggetti già sottoposti alle infezioni streptococciche. • Dicumarolo: i suoi derivati sono gli anticoagulanti più impiegati, e si usano prevalentemente dopo il trattamento medico e chirurgico della trombosi acuta. Tempo di latenza lungo, somministrazione orale, non sono adatti per l’emergenza ma per il mantenimento. Il loro impiego può durare anche alcuni mesi. La terapia medica è condizionata nel suo successo alla precocità della verificata trombosi, e non può essere efficace nel ricanalizzare trombi vecchi, i quali, se si associano alla presenza di una coda lunga e instabile o alla presenza di microembolie polmonari, devono essere trattati chirurgicamente. Elastocompressione: una volta si curava la flebite cercando di stabilizzare il trombo e rendendolo fibroso. Oggi si cerca tutto il contrario, quindi la calza non si usa più tanto, anche perché essa permette la mobilizzazione in tempi precoci, ma anche l’eparina ottiene lo stesso risultato. Invece ha una importante funzione nella prevenzione dei soggetti a rischio, e nel post-trattamento.  La prevenzione, soprattutto dopo interventi chirurgici, o nell’ingessatura, viene fatta con: • Eparina calcica e a basso peso molecolare • Eparansolfato: inattiva l’adesione piastrinica • Dicumarolo • Destrano: plasma expander che riduce la viscosità del sangue • Aspirina • Elastocompressione e compressione pneumatica intermittente.  La terapia chirurgica, si attua quando il complesso trombotico non regredisce con la terapia medica, ha una tendenza evolutiva oppure si manifestano complicazioni maggiori come l’embolia. Le trombosi superficiali non vanno sottovalutate perché sebbene siano in genere tranquille, in un 10% dei casi possono migrare nei vasi profondi, e dare embolia anche se molto raramente (1%). Le tecniche chirurgiche utilizzabili sono: • Trombectomia locale: incisione della varice e spremitura manuale del trombo • Legatura: si chiude l’accesso del trombo al circolo profondo, nelle giunzioni safeno-femorali • Safenectomia: risulta l’ideale per il trattamento delle trombosi venose superficiali diffuse, che hanno la tendenza ad infiltrarsi nelle profonde e danno embolia polmonare nel 15% dei casi. Inoltre si fa in corso di tromboflebite suppurativa. Si leva la safena e si legano i rami penetranti Le trombosi profonde sono spesso indicate alla terapia chirurgica perché si tratta frequentementedi situazioni che arrivano in ospedale per evento embolico polmonare non fatale. In questo caso però si deve comunque pensare che la terapia medica con attento monitoraggio dei trombi non immediatamente a rischio delle complicazioni è migliore. In genere si operano i trombi profondi

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prossimali, mentre quelli distali si curano con farmaci. Quando si effettua l’intervento su una vena chiusa da un trombo, si deve in genere prevenire la sua diffusione lungo la vena. Il procedimento preventivo intraoperatorio più utilizzato è la legatura, che di solito è meglio tollerata nei trombi di vecchia data perché si sono sviluppati dei circoli collaterali. Oggi esistono anche filtri che possono essere inseriti con catetere e che si ancorano alla parete della vena. 4.1 LE COMPLICANZE MAGGIORI DELLA TROMBOSI: SINDROME POST FLEBITICA Edema, varici e lesioni distrofiche da stasi venosa dell’arto inferiore, correlato all’insufficienza venosa che si crea in seguito alla ricanalizzazione di un vaso ostruito da un trombo. In genere si presenta dopo parecchio tempo dall’evento trombotico, ed ha andamento cronico, con fasi di progressione e di temporanea regressione dei sintomi. Predilige il sesso femminile. La patogenesi di questa malattia è strettamente correlata alla mancata ricostruzione della componente valvolare del vaso dopo la sua ricanalizzazione, per questo si chiama post flebitica. Il danneggiamento della componente valvolare è essenzialmente determinato dalla compressione ma può anche intervenire per fibrosi della parete venosa o addirittura nei circoli collaterali ad una vena ostruita, per l’alta tensione alla quale sono sottoposti. La incontinenza delle valvole provoca il reflusso di sangue verso la periferia. Le conseguenze di questo sono prima di tutto l’alterazione della permeabilità capillare e quindi l’edema, che con il passaggio di grosse molecole come il fibrinogeno diventa duro . In questa fase gli scambi del connettivo risultano alterati e avvengono con difficoltà, e vengono a crearsi situazioni di alterato trofismo della cute. Alla fine anche la rete linfatica viene compromessa dall’azione irritante delle sostanze stravasate, e questo aggrava ulteriormente i sintomi. Clinica Tanto più grave quanto è prossimale, e peggio ancora se interessa le vene attorno all’inguine, dove si ha la compromissione dei circoli collaterali. Fase 1: Inizialmente è frequente una tensione dolorosa al polpaccio, che si riduce con il sollevamento dell’arto e aumenta con la deambulazione e con il caldo. Questa modesta sintomatologia può essere accompagnata da claudicatio venosa quando l’accumulo di sangue nel muscolo costringe il soggetto a fermarsi per far defluire il sangue. Fase 2: La fase di scompenso emodinamico è dominata dall’edema, che si riduce e scompare con il riposo e si accentua la sera, specie dopo lunghi periodi in fase eretta o seduta. Alla compromissione linfatica fa seguito un edema duro, non reversibile alla sera, e comparsa di dolore. Compaiono quindi le varici, che non seguono il corso delle safene ma si mettono in sedi atipiche, in rapporto con il decorso delle vene perforanti divenute insufficienti. Fase 3: E’ la fase delle lesioni trofiche della cute, iniziano con iperpigmentazione da accumulo di prodotti ematici stravasati, e poi seguono le lesioni ulcerative della cute. Sono frequenti le infezioni da parte dei batteri commensali della cute. L’ulcera, seguendo le caratteristiche delle ulcere venose, è di solito grande, a bordo rilevato, irregolare, con fondo grigiastro, scarsa tendenza alla granulazione. Può essere molto dolorosa e tende a recidivare. Diagnosi • Anamnesi ed esame obiettivo • Manovre semeiologiche per valutare la competenza delle valvole • Fotopletismografia a luce riflessa per valutare il tempo di riempimento e di svuotamento dell’arto. Se il tempo di riempimento venoso dopo aver tolto il laccio alla radice della coscia è

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minore di 20-25 secondi, siamo di fronte ad una incontinenza delle vene. Doppler Flebografia: esame di elezione, fornisce informazioni sulla pervietà delle vene profonde, e sulle condizioni delle vene perforanti.

Terapia Norme comportamentali come ginnastica flessoria, massaggi, elastocompressione e lunghe passeggiate. Il bendaggio compressivo aiuta a rimuovere e prevenire gli edemi, ed è molto importante nella terapia preventiva. La terapia chirurgica nel circolo superficiale si propone di eliminare i reflussi, lunghi e brevi, nel primo caso con la safenectomia, nel secondo con la legatura dei tronchi penetranti. Funziona bene e se ci sono recidive può essere ripetuta. La terapia dei tronchi venosi profondi si può fare per derivazione del circolo, indicata nella patologia ostruttiva, oppure sostituendo uno o più tratti provvisti di valvole a quei tratti che sono invece stati danneggiati.

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CAP 1 NEOPLASIE DELLA TIROIDE Comunque sia classificato, il tumore della tiroide si manifesta sempre con un nodulo, sul quale si deve rivolgere tutta l’attenzione diagnostica nei confronti della malattia. Il nodulo tiroideo si distingue in due gruppi: • Nodulo asintomatico: piccolo, ma sempre indice di una neoplasia, benigna o maligna, e pertanto necessita di indagini immediate ed approfondite. • Nodulo sintomatico: più grande, ed è indice di una malattia tiroidea diffusa (gozzo, ipertiroidismo eccetera) oppure di una malattia neoplastica midollare. Importante la modalità di crescita: un nodulo che cresce improvvisamente senza essersi notato prima è di solito una cisti tiroidea che ha subito una emorragia, mentre la neoplasia maligna cresce rapidamente ma dopo un periodo di stasi (quindi è più probabile che sia maligno un nodulo che cresce rapidamente essendo stato presente già da tempo nella tiroide del malato). Anche l’anamnesi è importante, in quanto alcune condizioni riguardanti la tiroide si associano ad un maggior rischio di neoplasie e alla possibilità che il nodulo in questione sia maligno. Tali malattie sono: • Pregresse affezioni tiroidee • Trattamento con estratto di tiroide per gozzo adenomatoso • Terapia radiante del collo Inoltre si deve tener presente, alla patologica prossima, che: • Alterazioni della funzionalità tiroidea non sono da porsi in relazione con neoplasia, anche se non è una regola assoluta • Di solito le neoplasie non sono dolenti • La raucedine invece può indicare una compressione neoplastica del nervo vago • La disfagia, se è correlata alla neoplasia, indica una fase avanzata di infiltrazione • Un gozzo plurinodulare è molto poco probabilmente neoplastico, a differenza di un nodulo isolato. • Alla scintigrafia il nodulo tumorale solitamente appare incapace di captare il tracciante radioattivo (nodulo freddo) • All’ecografia le lesioni cistiche di diametro < 4 cm non sono di solito maligne • La diagnosi definitiva si fa con l’agobiopsia. O

TUMORI BENIGNI

Adenoma follicolare Sono per la maggior parte di tipo epiteliale, a carattere follicolare (quindi adenomi follicolari), sono racchiusi da una capsula e hanno dimensioni variabili, ma sempre forma ovoidale. Spesso nel contesto dell’adenoma si sviluppa emorragia o infarto, e allora il paziente rileva un brusco aumento di dimensioni, oppure si hanno fibrosi e calcificazione. Internamente ci sono molti follicoli, spesso di piccole dimensioni e vuoti, intorno ad una zona centrale fibrosa e necrotica. Va differenziato da un carcinoma in fase iniziale, e questo si fa essenzialmente osservando la capsula, che nel caso del carcinoma presenta infiltrazioni. Di solito non da disfunzione tiroidea, ma molti pazienti hanno elevati livelli di ormoni tiroidei. Possono essere sia caldi che freddi a seconda della loro popolazione, cellulare o fibrosa. Difficile la transizione a carcinoma Adenoma a cellule di Hurthle

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Tumore con cellule di grosse dimensioni, ricche in mitocondri, plurinucleate con nucleoli evidenti. Le cellule, che si ammassano fra di loro costruendo strutture lineari simili a colonne, sono atipiche ma non necessariamente maligni. Tuttavia sono considerati forme intermedie, a basso grado di malignità, e sovente danno luogo a recidive dopo l’asportazione chirurgica. I tumori benigni della tiroide sono normalmente trattati per escissione della emitiroide corrispondente. Durante l’intervento si provvede ad una analisi istologica, e se si trovano gravi atipie si asporta tutta la tiroide. TUMORI MALIGNI Il cancro della tiroide corrisponde all’1-2% delle neoplasie oggi diagnosticate con una incidenza che sembra aumentare in relazione probabilmente a fenomeni come le fughe radioattive (si sviluppano tipi istologici ad aggressività crescente). In aree come il Giappone e le Hawaii raggiunge incidenza del 20%. Aumenta con l’aumentare dell’età e colpisce meno frequentemente i maschi che le femmine (rapporto 1:3). I fattori di rischio non sono chiari, specie l’associazione con stati di iperstimolazione della ghiandola. Unico fattore accertato è il rapporto lineare che c’è fra esposizione a radiazione nell’infanzia o nell’adolescenza e carcinoma. La classificazione di questi tumori li divide in tre forme principali, più altre neoplasia meno frequenti: O

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Forme differenziate: O ADENOCARCINOMA PAPILLIFERO O ADENOCARCINOMA FOLLICOLARE Forme indifferenziate: O CARCINOMA ANAPLASTICO Forme midollari: O ADENOCARCINOMA MIDOLLARE

Inoltre, l’1-2 % dei tumori maligni della tiroide sono rappresentate dai linfomi e sarcomi e dalle forme metastatiche provenienti dal polmone e dal rene. Adenocarcinoma papillifero Tumore più frequente, rappresenta l’85% delle neoplasie maligne della tiroide. Rimane spesso localizzato nella ghiandola, ma quando metastatizza lo fa generalmente attraverso le vie linfatiche del collo e del mediastino superiore. I linfonodi interessati sono palpabili, e presentano una neoplasia spesso più grande di quella originaria, che può essere frequentemente non palpabile. Raramente si estende fino ad invadere le strutture adiacenti oltre la capsula tiroidea, segno prognostico, questo, estremamente grave. Si realizza nel contesto di un nodulo, spesso piccolo, bianco-grigiastro, dalla consistenza variabile, solida o cistica. Le cellule che lo formano, di tipo colonnare e con scarse atipie, crescono attorno ad un asse fibrovascolare, che può pendere in una cavità cistica all’interno del nodulo, oppure essere circondato da tessuto. Nella metà di queste formazioni, si trovano delle aree di calcificazione all’interno dei rami fibrovascolari, che sono detti corpi psammomatosi. La loro presenza è patognomonica e sta ad indicare che ci si trova davanti ad un tumore di vecchia data. Cresce molto lentamente ed ha una prognosi molto favorevole con sopravvivenza a 5 anni del 90%, a dieci dell’80%. La maggior parte rimane stabile, ma una certa percentuale, dopo una latenza di 20-30

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anni, assume caratteristiche di marcata anaplasia. Adenocarcinoma follicolare 10% di tutte le neoplasie maligne, anch’esso a lenta crescita, appartenendo comunque alla classe dei tumori differenziati, ma con prognosi lievemente peggiore del papillifero. Soprattutto sono frequenti e caratteristiche le metastasi ossee, alla scapola allo sterno e al cranio, che compaiono anche a 20-30 anni dalla rimozione del tumoreprimitivo. Sia le metastasi che il tumore sono caldi e captano lo iodio. Microscopicamente assomiglia molto agli adenomi follicolari, con le strutture cellulari organizzati in follicoli piccoli, ma differisce da questi, come detto, per la presenza di un infiltrato della capsula che può essere anche molto evidente e aggressivo. La diagnosi deve essere fatta essenzialmente nel contesto della lesione primitiva, ma non al centro, dove ci sono cellule dall’aspetto praticamente normali, bensì al margine della lesione, per valutare la possibilità di infiltrazione della capsula. Spesso viene fatta come trattamento una tiroidectomia totale, giustificata sia dalla malignità della neoplasia, sia dalla frequente necessità di trattare le metastasi con derivati dello iodio radioattivo: infatti se venisse conservata la tiroide, assorbirebbe lei tutto il medicamento, e sarebbe difficile anche, per lo stesso motivo, diagnosticare le metastasi con la scintigrafia. Adenocarcinoma midollare Rappresenta il 5% dei tumori della tiroide, e colpisce in genere gli adulti oltre i 50 anni. Si tratta di un APUD-oma, un tumore delle cellule secernenti in grado di captaree decarbossilare le amine biogene (APUD sta per Amine Precursors Uptake & Decarbossilation), che origina dalle cellule C della tiroide, e che secerne prevalentemente calcitonina, che si trova in concentrazione elevata nei sieri dei pazienti, ma anche serotonina, ACTH, MSH, PG e somatostatina, nonché antigeni oncofetali come il CEA. Il tumore è generalmente un nodulo freddo, ma per le sue caratteristiche dette capta efficacemente traccianti come quelli usati per il feocromocitoma, ed altri tumori di derivazione neuro-ectodermica. Si presenta a volte da se, nella forma così detta sporadica, oppure associato ad una complessa sindrome che comprende altre neoplasie in grado di secernere sostanze biologicamente attive, come la MEN II, caratterizzata da Feocromocitoma, carcinoma midollare e adenoma paratoroideo, con marcate caratteristiche di familiarità. La manifestazione primaria del tumore, indipendentemente dalla forma, può essere varia: • Nodulo tiroideo + adenoma latero-cervicale omolaterale • Adenoma latero-cervicale in assenza di nodulo palpabile • Metastasi • Compressione e/o infiltrazione delle strutture adiacenti La presenza di linfonodi laterocervicali ingrossati e della infiltrazione del tumore non è necessariamente un segno prognostico sfavorevole o di maggiore malignità, ma indica comunque uno stadio avanzato di carcinoma. L’aspetto della neoplasia è quello di un nodulo biancastro, spesso ben delimitato, localizzato frequentemente nella parte alta della ghiandola, dove abbondano le cellule C. In questo nodulo sono presenti delle strutture di raggruppamenti di cellule piccole, rotonde o poligonali, con parecchi nuclei disposti in modo eccentrico. Assomiglia molto al carcinoide. Le metastasi sono prevalentemente dirette ai linfonodi regionali, ma l’aggressione delle strutture limitrofe può anche essere intensa, e si rivolge soprattutto all’esofago cervicale (disfagia) eal ricorrente (disfonia).

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Possono anche esserci metastasi a: -Polmone -Ossa -Mammella -Trachea (indice di grande aggressività) Si tratta con la tiroidectomia totale, soprattutto se non fa parte della MEN II, nel qual caso è possibile un trattamento più conservativo Carcinoma anaplastico Tumore più maligno e più aggressivo, la maggior parte dei pazienti muore nell’arco di qualche settimana o mese, perché si manifesta spesso che ha già dato metastasi diffuse e anch’esse aggressive. Si definisce anaplastico perché nel suo contesto non si trovano strutture tissutali come follicoli o cisti, e le cellule che lo compongono possono essere giganti o piccole: gli elementi giganti sono associate ad una malignità ancora più elevata. A volta può derivare dalla crescita maligna di altre neoplasie già discusse. L’invasività tissutale è impressionante e sono molto frequenti i danni a carico di altri organi e tessuti vicini, come l’infiltrazione della trachea e dell’esofago, e anche delle strutture vascolari. Nella maggior parte dei casi non è operabile, e si tratta soltanto in modo palliativo per ridurre i disturbi provocati dalla compressione. DIAGNOSI DEI TUMORI MALIGNI La diagnosi clinica dei noduli non riesce mai a differenziare in fase precoce un adenoma da un carcinoma: può semmai ricercare i segni di interessamento linfonodale o della compressione delle strutture vicine, oppure cercare le evidenza di una sindrome da carcinoide (flushing, diarrea e miocardiopatie). L’analisi degli enzimi sierici di provenienza tiroidea e degli ormoni tiroidei non offre alcun aiuto nella diagnosi differenziale fra malattie neoplastiche benigne o maligne e malattie tiroidee. Invece può essere importante come follow-up nel post operatorio. Marker tumorali: • Tireoglobulina: nei tumori differenziati per seguire il post operatorio e monitorare recidive e metastasi non osservate durante l’intervento • Calcitonina: importante nei Cr. Midollari, specialmente se in associazione con sindrome da carcinoide e aumento del CEA. Ecografia: permette di osservare la morfologia e la distribuzione dei noduli, lo stato della capsula e soprattutto le caratteristiche della vascolarizzazione nodulare: se essa è interna al nodulo, in un modo caratteristico definito pattern di tipo III, allora si è con buona probabilità davanti ad un nodulo neoplastico. Scintigrafia: differenziazione fra noduli caldi e freddi, e la presenza di immagini di captazione attiva al di fuori della tiroide è indice di metastasi. Si tenga presente che la tiroide può assorbire tutto il tracciante e mascherare la presenza di metastasi attive. Tracheoscopia ed esofagoscopia: valutazione della infiltrazione di queste strutture RX torace: valutazione dell’infiltrazione toracica e delle eventuali metastasi polmonari

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TC e RMN: fondamentale per l’analisi di masse che interessano le strutture mediastiniche e i polmoni. TERAPIA Da sempre quando è possibile si ricorre alla tiroidectomia totale, anche se la neoplasia è benigna; si toglie la tiroide, e si da in sostituzione eutirox (T4) che è del tutto efficace. Il carcinoma papillare è spesso multifocale, quindi suscettibile di recidive controlaterali nell’emitiroidectomia. L’intervento consente una migliore scintigrafia con iodio corporea totale e non è gravato dal rischio operatorio maggiore della forma parziale. Inoltre il paziente che ha un residuo di tiroide deve avere un dosaggio ormonale maggiore che agisca da inibitore alla proliferazione tiroidea, e quindi può sviluppare un ipertiroidismo iatrogeno che può anche essere grave. Dopo la tiroidectomia è sempre necessario eseguire una radioterapia con iodio radioattivo diffusa a tutto il corpo per eliminare le metastasi captanti. La rimozione del tessuto linfatico, che si fa per necessità (ossia se c’è riscontro di metastasi) nel carcinoma differenziato, deve essere fatta di principio per il carcinoma midollare, che frequentemente si diffonde anche ai linfonodi. La linfectomia deve essere bilaterali giugulo-carotidea, e centromediastinica. Si può anche effettuare una linfectomia funzionale non radicale,con asportazione dei giugulari, degli SMC e delle ghiandole sottomandibolari. In genere si lascia il 20% di tessuto linfatico, ma si tratta poi con la terapia radiante. Un altro importante presidio terapeutico in corso di infiltrazione della trachea è la resezione e l’endoprotesi, eventualmente accompagnata dalla laser terapia. In questi pazienti non c’è speranza di guarigione se l’infiltrazione riguarda più di metà della lunghezza della trachea. L’uso dell’endoprotesi è essenzialmente palliativo, non aumenta la quantità di vita, ma migliora la qualità. Il carcinoma anaplastico, essendo inoperabile, viene come detto trattato palliativamente. In genere il cancro della tiroide è a lenta crescita e radiosensibile, quindi la principale attività terapeutica è andare dietro alle metastasi. Le metastasi polmonari bilaterali non vanno asportate ma trattate, mentre le metastasi ossee circoscritte possono al contrario essere asportate efficacemente. Le complicanze chirurgiche possono essere l’asportazione delle paratiroidi con ipercalcemia, e neurologiche (lesione del nervo ricorrente).

CAP 2 NEOPLASIE POLMONARI 2.1 TUMORI BENIGNI La maggior parte dei tumori del polmone sono maligni e non lasciano particolari speranze. I tumori benigni sono quindi pochi, e si presentano in massima parte come noduli solitari, scoperti in genere in seguito ad un altro esame del torace per cause qualsiasi. Si noti che di tutti i noduli rilevati, per i quali è necessaria fare la diagnosi, solo il 15% risulteranno poi positivi, mentre tutti gli altri hanno un andamento maligno. In genere i tumori benigni più diffusi sono: • Adenoma: insorge nei grossi bronchi, e ha nel suo contesto tessuto epiteliale con interposizione di tessuto mixoide e condroide. Esiste in forma pleiomorfa o monomorfa. • Amartomi: i tumori benigni più frequenti, 80% dei benigni e 5% dei tumori assoluti; sono costituiti da misture di tessuto cartilagineo, connettivale, adipociti e formazioni ghiandolari. Di

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solito sono asintomatici, noduli periferici di 1-5 cm di diametro. Hanno una crescita lenta. • Tumori infiammatori • Papillomi: lesione endobronchiale tipica dell’adulto, non ha carattere infiammatorio e si associa spesso alla bronchite cronica. La diagnosi differenziale con i polipi infiammatori è istologica: questi hanno epitelio squamoso, quelli infiammatori un epitelio cilindrico mucosecernente. In genere i tumori benigni possono essere distinti dal punto di vista clinico-sintomatologico in due categorie: quelli periferici, che si sviluppano lontano dai bronchi e quelli endobronchiali, che comprimono o aggettano nel lume. La sintomatologia di questi ultimi è data dalla triade atelettasia, bronchiettasia e infezioni ricorrenti. Il sanguinamento massivo da emoftoe è generalmente poco frequente, perché si tratta per lo più di una complicazione grave che riguarda le formazioni tumorali maligne ad alto grado di invasività. La diagnosi di questi noduli prevede la biopsia, ma si esegue sempre anche la broncoscopia a fibre ottiche, che permette anche di osservare la presenza di eventuali masse aggettanti nel bronco, le quali possono essere asportate per la biopsia direttamente durante la broncoscopia. Per quelle masse, invece che risultano periferiche, si compie una biopsia con agoaspirato percutaneo oppure in video laparoscopia per quelle masse profonde. Il trattamento di questi tumori benigni è di norma l’escissione: per quelli superficiali la rimozione a cuneo del parenchima polmonare e la soluzione migliore. Quelli sintomatici possono richiedere la lobectomia, oppure, se interessano un bronco principale, la resezione bronchiale a manicotto. Per i tumori vegetanti endobronchiali a volte può essere necessario eseguire l’escissione endoscopica. 2.2 TUMORI A BASSO GRADO DI MALIGNITÀ Sono essenzialmente quattro tipi di tumore che hanno un fenotipo maligno, ma una progressione molto lenta e che solo tardivamente danno origine ad una formazione metastatica. Questi tumori sono il carcinoide, il tumore mucoepidermoide, il carcinoma adenocistico e il tumore pleiomorfo. Carcinoide I carcinoidi sono particolari tumori APUD che derivano dalle cellule del sistema neuroendocrino. Fra i tumori a basso grado di malignità è senza dubbio il più comune (80%) e ha una crescita molto lenta, aumentando di 1-2 cm in molti anni. Si distinguono in tipici e atipici, e poi ci si non i meno comuni melanocitici, a cellule chiare e oncocitici. I tipici sono localizzati nel 20% nei bronchi primari, nel 60% nei lobari o nei segmetari, per il 20% sono periferici. Gli atipici per metà segmentari e per metà periferici, ed hanno prognosi peggiore per la tendenza a metastatizzare. Come per i tumori benigni, quelli centrali danno tosse, atelettasie, bronchiettasie, processi infettivi ricorrenti ed eventualmente emottisi, mentre quelli periferici sono asintomatici nel polmone e il loro riscontro è occasionale. Come metastasi, il carcinoide non è molto attivo: le metastasi a distanza, soprattutto al fegato, si riscontrano solo nel 20% dei casi, quelle ai linfonodi vicini soltanto nel 50% dei casi. 1/5 dei casi di carcinoide è associato alla relativa sindrome, che si manifesta con uno o più dei seguenti sintomi: • Flush cutaneo e cianosi al volto e al tronco • Coliche addominali e diarrea • Dispnea asmatiforme • Insufficienza valvolare cardiaca

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Alterazioni del sensorio

La diagnosi di carcinoide richiede la biopsia e la TC del torace per la ricerca di eventuali metastasi agli organi e ai linfonodi, e lo stesso per il fegato. Marker da controllare per la ricomparsa di recidive, e per la diagnosi di efficacia della terapia sono: o enolasi neurone specifica (NSE) o acido 5idrossi-indolacetico (5HIAA) • Radiografia: opacità periferiche se sussistono ostruzioni bronchiali e processi disventilatori del parenchima a valle • TAC: calcificazioni (30% dei casi) e controllo di metastasi e linfonodi, al torace e al fegato. • Broncoscopia: tipici positiva nel 4-11%, di solito allo stadio 1, atipici positiva nel 30-70% dei casi, con ritrovamenti allo stadio II e III. Si cura con diverse tecniche e la sopravvivenza a 5 anni è molto elevata: 90% nei pazienti normali, 50% in quelli con metastasi alla diagnosi: le principali tecnologie sono: • Exeresi semplice della neoformazione • Broncotomia • Steeve resection (resezione bronchiale amanicotto) • Wedge resection (resezione a cuneo) • Segmentectomia • Lobectomia • Pneumectomia La radioterapia può essere utile per quei pazienti inoperabili o con coinvolgimento metastatico alla diagnosi. Carcinoma adenocistico (cilindroma) Sviluppo prevalentemente endobronchiale, con frequente tendenza ad occludere il lume anche completamente. Ha un basso grado di malignità, ma nonostante questo la tendenza all’invasività è notevole. Frequente la localizzazione tracheale. Esiste nella forma cribriforme, tubulare e solida, l’ultima con maggiore malignità delle altre. Insorge praticamente a tutte le età eccetto l’infanzia; nel 40% dei casi ha una disseminazione evidente con metastasi per via ematogena. La diagnosi si fa con la RX torace, la RMN (che è più sensibile della TAC nello svelare l’invasione della sottomucosa, frequente in questo tipo di tumore, che infatti si diffonde molto localmente) e la broncoscopia. La terapia è la resezione endoscopica con invio dei margini per l’analisi a fresco, la linfadenectomia e la lobectomia se interessa il bronco lobare. La radioterapia e la chemioterapia non hanno grandeimpiego se non marginale o come palliativo. La prognosi è abbastanza buona, la sopravvivenza a 10 anni è del 69% nei casi di resezionecompleta e del 39% nella resezione incompleta. Carcinoma mucoepidermoide Raro, deriva dalle cellule della mucosa del bronco, ed è caratterizzato dall’avere come componente cellule squamose, mucosecernenti ed intermedie.Ci sono varie forme e la più aggressiva presenta una malignità decisamente elevata con metastasi nel 30% dei casi. Nell’80% dei casi è centrale, periferico nel 20%. Quindi è spesso sintomatico con tosse, dispnea, asma ed emottisi.

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Comprende tre forme ad alto, medio e basso grado di differenziazione. Si diagnostica con la TAC, la broncoscopia (massa polipoide con piccola base di impianto) ela radiografia. La terapia è la rimozione chirurgica con linfadenectomia nelle forme ad alto grado. La prognosi a 10 anni nelle forme a basso grado è positiva nell’80% dei casi. Tumore pleiomorfo Raro, associato con le atelettasie, a localizzazione centrale o periferica. 2.2 TUMORI MALIGNI DEL POLMONE Il cancro al polmone è la prima causa di morte per tumore nel maschio e la quarta nella femmina. Attualmente l’incidenza in Italia è di 70 nuovi casi all’anno per 100000 abitanti. Fra i fattori di rischio il principale in assoluto è il fumo di sigaretta, positivo nell’80-90% dei casi. Altri fattori sono il cromo, l’etilene, le polveri radioattive, (lavoratori nelle miniere di uranio) e soprattutto l’asbesto. Importante anche l’inquinamento atmosferico e gli altri inquinanti ambientali. L’associazione fra asbesto e fumo di sigaretta è una pericolosa sinergia e il rischio rispetto al soggetto negativo per questi fattori aumenta di circa 200-300 volte. La presenza di una cicatrice polmonare da TBC è un altro importante fattore di rischio. Questa compare alla periferia, ed ha retrazione dovuta a precedenti processi infiammatori: in questa sede si sviluppa prevalentemente un carcinoma epidermoide perché si ha metaplasia squamosa. Il quadro del carcinoma polmonare si manifesta a seguito di una metaplasia squamosa nel contesto di un bronco per l’effetto della stimolazione da parte del cancerogeno o di altri stimoli lesivi. Il quadro del carcinoma in situ, che insorge in questo contesto, è legato alla displasia grave dell’epitelio a tutto spessore, che non supera la membrana basale. Circa l’80% dei pazienti che sviluppano un carcinoma polmonare sono inoperabili al momento della diagnosi, e non possono essere curati che con la terapia palliativa. A parte la classificazione anatomopatologica WHO che è quella ufficiale che viene seguita, si possono distinguere due gruppi di neoplasie polmonari: quelle che interessano i bronchi (oltre il 90%) e che hanno come sintomatologia l’emottisi, l’atelettasia, l’asma e l’aumento di frequenza delle infezioni polmonari, e quelli che si sviluppano in periferia, meno frequenti, che si manifestano soprattutto con necrosi intratumorale e formazione di ascessi che frequentemente sono la partenza per una broncopolmonite. STAGING La stadiazione del sistema TNM viene fatta per tutti i tipi di tumore polmonare e viene in genere effettuata una distinzione in quattro stradi, che non si applica però al microcitoma: questi stadi permettono poi di effettuare una diversificazione della terapia. • Stadio 1: T1-2 ; N0 ; M0 • Stadio 2: T1-2; N1 ; M0 • Stadio 3a: T1-3 ; N2; M0 • Stadio 3b: ogni T con N3, oppure ogni N con T4; M0 • Stadio 4: ogni T ed ogni N con M1 La stazione si applica anche in maniera più specifica alle diverse forme del tumore a seconda della loro localizzazione: infatti soprattutto per quanto riguarda la T, è difficile definire con precisione un T1 da un T2 eccetera.

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Staging T Si distinguono quindi tre tipi di tumore, per ognuno dei quali ci sono dei criteri T specifici, per ogni stadio. Essi sono i tumori ilari, i tumori intraperenchimale, e i tumori periferici. Stadio

ILARE

INTRAPARENCHIMALE

PERIFERICO

1

Occupa un bronco segmentario o Minore di 3 cm Lontana dalla pleura viscerale lobare 2 Bronco lobare o principale ma Maggiore di 3 cm Infiltrazione di cellule almeno 2 cm distale alla carena neoplastiche nella pleura dello sterno viscerale, fattore negativo. 3 Bronco principale a meno di 2 cm Invasione della pleura Invasione della parete toracica dalla carena dello sterno mediastinica e del pericardio e del diaframma 4 Invasione strutture mediastiniche, vertebre, grossi vasi, carena La succlavia, essendo in stretto rapporto con l’apice polmonare, subisce da esso una compressione notevole quando vi sia una neoplasia del lobo superiore. La compressione sul plesso brachiale che ne deriva prende il nome di sindrome di Sindorme di Ciuffini Pancot.

Staging M (diffusione ai linfonodi, ML) • Micrometastasi: prognosi favorevole e linfonodi di volume normale • Metastasi massiva: nell’adenocarcinoma i linfonodi interessati sono di volume normale, nell’anaplastico sono maggiori di 1,5 cm • Con diffusione extracapsulare • Skip metastasi: trasmissione nella catena linfonodale a salti da un linfonodo all’altro. Il concetto di linfonodo sentinella, il primo che viene colonizzato di solito in un particolare tipo di neoplasia, è un concetto teorico che si applica perché non ci sono altri mezzi più certi, ma in realtà la diffusione linfatica è un concetto estremamente variabile che dipende da moltissimi fattori, fra cui la variazione anatomica e l’eventuale calcificazione secondariaalla TBC. Staging N Mentre il T preoperatorio è abbastanza affidabile, l’N non lo è per niente, a causa della possibilità di avere micro metastasi che sono difficilmente visibili. • N0: assenza di metastasi • N1: linfonodi delle regioni peribronchiali e ilari omolaterali • N2: lingonodi mediastinici omolaterali e intertracheobronchiali • N3: linfonodi mediastinici e ilari controlaterali I tumori che si sviluppano a sinistra sono più a rischio, tendono a metastatizzare ai linfonodi controlaterali con più facilità di quanto avvenga fra destra e sinistra. Tecnica di indagine Sensibilità Esame clinico N3 (sovraclaveari) RX torace N2 TAC N2 Ecografia N2 Mediastinoscopia N2-N3 Toracoscopia N2 Biopsia prescalenica N3

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CLASSIFICAZIONE DEI TUMORI AD ALTO GRADO DI MALIGNITÀ • •



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Carcinoma a cellule squamose (carcinoma epidermoide) Carcinoma indifferenziato a piccole cellule (microcitoma) o A chicchi d’avena o A cellule intermedie o Composito Adenocarcinoma o Acinoso o Papillare o Solido o Bronchiolo/alveolare Carcinoma anaplastico (carcinoma indifferenziato a grandi cellule) Linfomi Sarcomi Mesotelioma Blastoma

SINTOMATOLOGIA DEI TUMORI POLMONARI Oltre a quelle informazioni riportate nella tabella, assumono molta importanza altre alterazioni riscontrabili nel paziente: • Cambiamento della tosse in un paziente bronchitico cronico • Febbre (ascesso e polmonite, citochine) • Episodi broncopneumonici recidivanti localizzati alla stessa sede • Indici antropometrici per valutare lo stato di cachessia (indice di Karmofsky) --> indicano se il paziente è in grado di tollerare l’intervento chirurgico. Sintomi delle neoplasie polmonari in relazione • Fiato corto con incapacità ad effettuare alla loro crescita: un respiro profondo per la presenza di una massa • Sibilo inspiratorio • Ilare: tosse, emoftoe, dispnea, polmoniti ricorrenti • Retrazione delle fosse sovraclaveari con • Periferica: dolore pleurico o della parete, tosse, evidenza dei muscoli respiratori dispnea da patologia restrittiva, ascesso polmonare La sindrome mediastinica è una patologia multiorganica legata alla compressione / infiltrazione del tumore negli organi del mediastino, ed è essenzialmente costituita dalla tetrade: • Sintomatologia digestiva (disfagia) • Sintomatologia respiratoria (dispnea, emottisi, tirage) • Sintomatologia neurologica (paralisi ricorrente, dolore) • Sintomatologia vascolare (compressione della cava superiore)



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per necrosi del tumore Toracica: tirage tracheale, disfagia, sindrome della vena cava superiore, sindrome di Horner, infiltrazione del pericardio, raucedine per danneggiamento del vago, paralisi del diaframma per infiltrazione del frenico, versamento pleurico Sindromi paraneoplastiche: Endocrine Neuromuscolari Coagulopatie, Alterazioni cutanee Renali Scheletirche Anoressia nausea e febbre

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La compressione della parete toracica e delle strutture vicine comporta invece una sintomatologia da dolore come nella sindrome di Ciuffini-Pancot da compressione neurovascolare delbraccio, e la S. di Horner per la compressione della catena laterale del simpatico, in particolare il ganglio stellato, che si manifesta con la paralisi della palpebra. Le sindromi paraneoplastiche sono spesso legate alla presenza del tumore primitivo e regrediscono alla sua asportazione. Le principali sono legate alla produzione delle sostanze altrove menzionate. Le forma più rare invece sono: • Sindrome di Pierre-Marie: osteoartropatia • Sindrome di Eaton-Lamert: miopatia • Neuropatie periferiche da demielinizzazione, polimiositi, degenerazione cerebellare e corticale. • Sindromi emocoagulative, renali e alterazioni della crasi ematica sono ancor meno frequenti. Carcinoma a cellule squamose (epitelioma) Abbastanza frequente anche se la sua incidenza è in calo, questo tipo di tumore ha una prognosi lievemente migliore degli altri, anche se comunque molto grave. Origina dall’epitelio bronchiale, come del resto tutti i tipi di carcinoma. Caratteristicamente si localizza a livello dei grossi bronchi ed ha una tendenza quindi alla diffusione ilare, con la relativa sintomatologia. Più raramente si trova diffuso alla periferia, con formazione di ascessi di tipo necrotico, distinguibili con difficoltà dagli ascessi polmonitici. Accertato e principale fattore eziologico è il fumo di sigaretta: esso provoca l’iperplasia basale dell’epitelio polmonare, a cui segue una metaplasia squamosa, il carcinoma in situ e infine il cancro invasivo. Per questo motivo questo tumore prende il nome di carcinoma epidermoide. La struttura della massa tumorale ricorda quella di un epitelio, caratterizzata dalla disposizione in più strati di cellule neoplastiche, che hanno a seconda del grado di differenziazione, una certa presenza di cheratina e di altre strutture di connessione fibrosa: • Carcinoma ben differenziato: evidente cheratinizzazione, perle cornee e ponti intercellulari • Carcinoma moderatamente differenziato: modesta cheratinizzazione e rare perle cornee • Carcinoma scarsamente differenziato (anaplastico): non sono evidenti ponti cellulari e perle cornee. Le metastasi di questo tipo di tumore sono essenzialmente per via ematica e per via linfatica. • Linfatiche: i linfonodi più frequentemente interessati sono quelli polmonari, poi ilari e infine mediastinici dello stesso lato, e successivamente si estende anche ai linfonodi controlaterali. Soltanto infine si raggiungono le sedi linfatiche fuori dal torace. Quando si riscontra una tumefazione palpabile a livello sopraclaveare, siamo di fronte alla inoperabilità della malattia. • Ematiche: ossa, cervello, surreni e fegato in ordine di frequenza. La sintomatologia più frequente, per la sua caratteristica di interessare prevalentemente le aree ilari, è una tosse stizzosa con emoftoe non molto frequente. In genere i sintomi così blandi sono anche tardivi, e spesso alla diagnosi c’è già evidenza di metastasi ai linfonodi vicini. Microcitoma E’ il tipo più maligno per la sua capacità di dare metastasi a distanza in modo molto rapido: queste sue caratteristiche lo rendono praticamente sempre incurabile al momento della diagnosi. Spesso l’esordio clinico è caratterizzato dalla comparsa delle fratture patologiche alle ossa, frutto delle metastasi, perché anche se si sviluppa in genere all’ilo, non da molto una sintomatologia diretta.

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Invece assume importanza in questo tumore in modo particolare la produzione di ormoni e di sostanze endocrine, tanto da produrre con buona frequenza delle sindromi paraneoplastiche. La principale produzione ormonale riguarda ACTH, ADH e paratormone, ma anche serotonina, calcitonina, MSH ed EPO. La morfologia delle cellule è di cellule appunto piccole, omogenee con nucleo tondo o fusiforme e nucleolo scarsamente visibile. Si possono distinguere tre varietà: o A chicchi d’avena o A cellule intermedie o Composto Adenocarcinoma Rappresenta circa il 45% delle neoplasie polmonari, e può originare sia dall’epitelio bronchiale (specie dei bronchioli terminali) che dalle ghiandole della sottomucosa, ma in ogni caso contiene delle strutture di tipo ghiandolare con la tendenza alla produzione di mucine, e talvolta si trovano nel suo contesto delle cellule con castone. Questo pone dei problemi di diagnosi differenziale con i tumori mucosi dello stomaco. Una variante di questo tumore è il carcinoma bronchiolo alveolare, che è caratterizzato dalla iperproduzione di muco e si manifesta spesso con la ipersecrezione esterna (broncorrea). In genere questo tumore ha un aspetto di cellule neoplastiche sommerse in un mare di muco. Da metastasi per via ematica e per via linfatica, e ha una prognosi grave, perché spesso compaiono prima i segni delle metastasi (che sono rapide) e poi quelli del tumore stesso. Carcinoma anaplastico a grandi cellule Considerato a volte come una variante anaplastica dell’adenocarcinoma, questo tumore ha una popolazione cellulare che lo distingue in due gruppi, entrambi però con cellule grandi: la variante anaplastica a cellule multinucleate e pleiomorfe, e la variante a cellule chiare con scarso nucleo e abbondante glicogeno. Ma la distinzione in gruppi non è importante, perché comunque è molto aggressivo, e le metastasi avvengono sia per via linfatica che ematica e molto rapidamente. Quelle linfatiche sono più comuni a livello ilare. Tumori metastatici & metastasi polmonari Il polmone è molto frequentemente sede di metastasi. Il trattamento chirurgico di queste è indicato quando si sia accertato: • unicità della metastasi polmonare • lento accrescimento • assenza di altre metastasi extratoraciche • non c’è recidiva della neoplasia primitiva da almeno un anno • rischio chirurgico accettabile • non vi sono indicazioni alla chemio definitive Il trattamento di queste metastasi miraa eradicare la neoplasia risparmiando il parenchimasano, e quindi è effettuato con resezioni a cuneo, se si può, piuttosto che la lobectomia. Da parte sua, il polmone metastatizza frequentemente a: • Fegato 45% • SNC 45% • Surrene 35%

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Ossa Pleura Polmone controlaterale

125 /278 30% 20% 15%

DIAGNOSI Si compone di due fasi: la prima mira a scoprire la presenza di una neoplasia in relazione ad una sintomatologia che insospettisce, la seconda alla risoluzione con le metodiche migliori della diffusione del tumore agli organi vicini. Fase 1 • RX torace • TAC: in presenza di addensamenti all’esame radiologico o di forte sospetto clinico • Esame citologico dell’espettorato: elevata accuratezza diagnostica per quei tumori che sono localizzati all’ilo o nei grossi bronchi • Markers: CEA, NSE, CYFRA, ma nessuno ha una specificità assoluta, anche se sembra che ci sia una associazione abbastanza forte fra NSE e microcitoma e CYFRA e carcinoma spinocellulare. Sia questi marker che gli ormoni nelle sindromi endocrine non hanno un ruolo diagnostico, ma sono importanti nel follow up. • Broncoscopia: lo strumento a fibre flessibili la diagnosi è molto accurata perché permette la visione diretta dei bronchi fino alla quarta generazione. Permette anche di eseguire la biopsia di alcune formazioni che sono presenti nel canale bronchiale come esame citologico. Non funziona molto bene la biopsia di lesioni profonde, partendo dall’endoscopio con una sonda laterale sotto guida fluoroscopica, perché l’accuratezza è del 75% solo se la lesione periferica supera i 2 cm. • Esame con agoaspirato sottile per via transcutanea: in genere funziona abbastanza bene ma c’è rischio di emoftoe o di pneumotorace. • Biopsia con toracotomia • Biopsia sopraclaveare dei linfonodi palpabili in tale regione Fase 2 • •

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Ecografia addominale: esame di prima scelta nelle metastasi epatiche TAC: esame di elezione nelle metastasi del SNC, e per la stadiazione della diffusione delle neoplasie toraco/mediastiniche diffuse ai linfonodi (ma non è abbastanza precisa per pleura, altri visceri del mediastino e parete toracica). I linfonodi per essere positivi alla TAC devono essere più grandi di 1-1,5 cm e avere delle disomogeneità al loro interno. Scintigrafia: esame principale nelle metastasi ossee Mediastinoscopia: esame di elezione per lo studio delle metastasi mediastiniche. Anestesia totale, esame con accesso attraverso il giugulo, che permette il prelievo dai linfonodi paravertebrali destri ( a sinistra c’è l’aorta).

TERAPIA Unica risolutiva per il carcinoma non a piccole cellule è la resezione chirurgica, e la radio e la chemio offrono un presidio collaterale. Invece nel microcitoma appare più funzionale un approccio polichemioterapico, perché data la loro grande aggressività risulta inutile la terapia chirurgica (ultimamente si tende a dare un approccio chirurgico anche a questi tumori con stadio I.

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Come già detto prima, per il carcinoma broncogeno è importante il drenaggio linfatico. Le controindicazioni assolute al trattamento chirurgico sono: • Metastasi extratoraciche • Versamento pleurico con cellule maligne • Metastasi mediastiniche Altre indicazioni al ruolo della chirurgia vengono dalla stadiazione del tumore. Gli stadi I e II sono suscettibili di exeresi estesa, e la radioterapia solo come complemento in alcuni casi selezionati. Lo stadio IIIA si può operare solo in casi selezionati, il IIIB e il IV non si riesce ad operare mai. Il tumore di Pancoast (quello nel solco superiore con retrazione della cute sopraclaveare) si tratta sempre con exeresi associata alla radioterapia pre o post operatoria. La radioterapia può essere presa in considerazione come trattamento alternativo in quei tumori allo stadio I e II in paziente non suscettibile di intervento maggiore. Può essere usata nel postoperatorio per ridurre le recidive (uso discusso) oppure a scopo palliativo nelle metastasi ossee per ridurre il dolore e limitare le fratture patologiche. La chemio si usa nel trattamento delle forme inoperabili, ottenendo un ritardo nella progressione della malattia, mentre in associazione con le forme I e II ottiene dei risultati migliori. Questo si fa molto con il microcitoma, operabile e non, in associazione con la chemio. IL laser e la fototerapia trovano indicazioni come palliazione in un tumore allo stadio terminale che occlude un bronco. Prima di eseguire la terapia chirurgica di un paziente, bisogna valutare attentamente le sue condizioni. Importanti a questo scopo sono alcuni indici come l’indice di Karnofsky, che valuta con un punteggio da 1 a 100 la capacità funzionale del paziente: • A: normale capacità lavorativa ed attività vitali normali (80-100) • B: inabile al lavoro e autonomia limitata (50-70) • C: necessità di assistenza e/o malattia in progressione rapida (0-60) La valutazione funzionale deve riguardare i seguenti parametri: • Condizioni generali • Situazione respiratoria (CV e FEV1) • Situazione cardiaca (cardiopatia ipertensiva, ipertensione polmonare) • Epatopatie • Insufficienza renale Prognosi Complessivamente la sopravvivenza a 5 anni del tumore al polmone è minore del 5%, ma varia moltissimo a seconda dello stadio al momento della diagnosi: • Stadio I: 60-65% • Stadio II: 25% • Stadio III/a: 10% • Stadio III/b: 5% • Stadio IV: 0 I pazienti che decedono allo stadio I sono in genere morti per metastasi a distanza che non si evidenziavano (micrometastasi N). Questo giustifica l’estensione della chemioterapia perioperatoria

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CAP 3 PATOLOGIA DELLA PLEURA La pleura che è formata dai due foglietti separati da uno spazio virtuale che contiene pochi ml di liquido, è drenata dai linfonodi intercostali interni, dagli ascellari, dai parasternali, dai mediastinici posteriori e anteriori. La parte mediastinica e diaframmatica è innervata dal frenico, e quella costale dagli intercostali. La pressione pleurica a riposo varia da –2 a –5 cm H2O rispetto a quella atmosferica, raggiunge i –6/12 durante l’inspirazione e +4/+8 durante l’espirazione ma può andare a +40 nella manovra di Valsalva, e a –40 nell’inspirazione forzata. I meccanismi che permettono al polmone di aderire alla pleura e quindi di conservare la sua capacità di ritorno elastico senza effettivamente collassare all’ilo, sono quelli che rimuovono continuamente l’aria e il liquido che possono eventualmente accumularsi nel suo spazio. Mentre il liquido viene drenato dai linfatici (normalmente circa 600-1000 ml di liquidi al giorno) l’aria segue un riassorbimento passivo, fino a 50-100 ml di aria al giorno (cosa che permette il riassorbimento spontaneo di uno pneumotorace non rifornito). 3.1 VERSAMENTI PLEURICI Il versamento pleurico è una condizione dove del materiale liquido o trasudatizio si accumula fra i foglietti. Questa condizione può dipendere da una infiammazione primitiva della pleura (pleurite) oppure da altre condizioni esterne. In generale, la malattia pleurica da versamento si accompagna ad una sintomatologia generale così composta: 11. Dolore (segno di pleurite): se interessa la pleura parietale o diaframmatica (quella viscerale non è innervata), si osserva irradiazione alla spalla, inibizione degli atti respiratori e dolore alla palpazione del torace (nella flogosi acuta) 12. Dispnea antalgica 13. Ipomobilità del torace 14. FTV diminuito (in corso di versamento o pneumotorace) 15. Ottusità alla percussione (versamento) / Iperfonesi timpanica (pneumotorace) 16. Suono ipofonetico 17. Sfregamenti 18. Murmore vescicolare diminuito La prima cosa da fare è la distinzione fra un essudato o un trasudato (idrotorace), e questo spesso si fa se il paziente presenta un quadro da compressione abbastanza intenso da compromettere gli scambi respiratori, e allora si deve fare una toracocentesi. Spesso l’idrotorace deriva proprio da un quadro di scompenso cardiaco congestizio: in questo caso l’applicazione della procedura della toracocentesi risolve l’uno e l’altro caso. La distinzione viene fatta con esami come la prova di Rivalta, il rapporto liquido pleurico/proteine sieriche > 0,5, lo stesso rapporto per LDH (> 0,6). La diagnosi di trasudato è confermata dalla possibilità di avere una sintomatologia clinica sovrapponibile, come segni di pleurite e sfregamenti I versamenti pleurici essudatizi sono secondari a: • Polmonite • Tumori maligni • Patologia gastroenterica (trauma/infiammazione di esofago e pancreas) • Interventi chirurgici

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Embolia polmonare Reazioni ai farmaci Asbestosi Uremia

Quelli trasudatizi di solito dipendono da: • Scompenso cardiaco • Embolia polmonare • Polmonite Alcuni esami come il tasso di glucosio l’amilasi, l’LDH e il CEA nel liquido pleurico possono indicare specifici versamenti. L’aspetto del versamento (lattescente, ematico o torbido) può dare indicazioni importanti per la diagnosi del chilotorace, emotorace o empiema pleurico). La diagnosi distintiva si fa con la pleuroscopia tramite endoscopio ad accesso transcostale, che prevede anche al prelievo e alla biopsia. Il 20% dei versamenti pleurici si risolve spontaneamente senza lasciare residui significativi. EMOTORACE Solitamente in seguito a traumi, questa complicazione si ha quando c’è rottura dei vasi epigastrici, delle intercostali o del parenchima polmonare. Le neoplasie pleuriche o polmonari e l’infarto polmonare sono un’altra possibile causa. La rottura dei vasi maggiori del mediastino è rara ma provoca un emotorace massivo. La presenza di un grave sanguinamento è drammatica perché oltre allo shock ipovolemico e all’anemizzazione acuta, si assiste anche alla insufficienza respiratoria da impossibilità di espansione polmonare. Radiologicamente visibile, si diagnostica con certezza con TAC e ecografia, e solo raramente si deve arrivare alla toracocentesi esplorativa. L’opacamento di un campo polmonare intero indica una perdita ematica di almeno due litri, mentre la opacità di un seno costo-diaframmatico indica 500 ml. Se c’è anche aria (emo/pneumotorace) si hanno dei livelli idroaerei. A seconda della gravità della perdita e del sanguinamento in atto, si ricorre a diverse metodiche: il sanguinamento si tratta con drenaggio se è superiore a 500 ml, e con toracotomia di urgenza se la perdita si mantiene per oltre 200 ml/h. Il sangue nella pleura si coagula molto lentamente, e con adeguati trattamenti dopo essere stato raccolto può venir reinfuso. 100-200 ml si riassorbono benissimo da se. CHILOTORACE Raccolta di linfa nello spazio pleurico, che denuncia sempre una patologia ostruttiva (di solito neoplastica) dei dotti linfatici del torace, oppure un trauma che però raramente riguarda il dotto toracico maggiore. Di solito quello traumatico dipende da cause esterne nell’80% dei casi, nel 20 è iatrogeno. Esistono rare forme secondarie a malattie congenite del sistema linfatico. La patologia riduce la concentrazione di proteine nel sangue da una parte, dall’altra, anche se in fase avanzata, diminuisce e infine compromette gli scambi respiratori. La lacerazione del dotto toracico al di sotto di T6 esita in un chilotorace a dx, al di sopra il liquido tende a raccogliersi a sinistra. La diagnosi viene fatta con l’esame del liquido pleurico ed eventualmente con linfografia per evidenziare le rotture del sistema linfatico. Si pone la diagnosi differenziale con versamenti della TBC o della pleurite reumatoide che sono composti da un liquido lattescente simile alla linfa, ma che contiene cristalli di colesterolo.

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Digiuno, drenaggio e profilassi antibiotica costituiscono il trattamento medico della malattia, mentre se il chilo permane oltre 3 4 settimane c’è indicazione al trattamento chirurgico, che si fa anche in caso di documentata lacerazione al dotto toracico. EMPIEMA Può avere varie eziologie: • Metapneumonico: da contiguità ad un processo di polmonite • Sovrinfezione di altro versamento sterile • Infezione da lacerazione polmonare (rottura di bolla subpleurica) • Propagazione di una infezione per via linfatica o ematica • Perforazione esofagea • Propagazione di infezione peritoneale attraverso il diaframma Se è circoscritto si trova di solito nelle porzioni declivi per motivi idrostatici, mentre altrimenti è generalizzato. Morfologicamente, può essere essudativo o fibrinoso. In quest’ultimo caso si verifica la deposizione di fibrina attorno alla pleura coinvolta, in forma di un anello che unisce la pleuraparietale con quella viscerale, delimitando così l’empiema in una cavità chiusa (cronicizzazione), che contiene pus nella parte inferiore, con un livello idroaereo al suo interno. L’empiema cronico ha la capacità di far restare la pleura rigida e di impedirne la distensione anche dopo la soluzione del quadro settico. LA diagnosi è fatta attraverso l’esame radiografico e la toracentesi esplorativa, cui segue il prelievo e tutti gli esami microbiologici necessari nel campione. La terapia medica è con antibiotici, e di supporto a seconda della presenza e della gravità di uno stato settico. Se non si riesce a far tornare a posto le cose, si fa un intervento di evacuazione del contenuto dell’empiema con drenaggio pleurico. A volte capita che negli empiemi cronici si formi quella membrana fibrinosa (fibrotorace) che impedisce la riespansione del polmone. Allora si deve effettuare l’intervento di decorticazazione pleurica, ossia la raschiatura della pleura visceralefibrosa dalla superficie del polmone sano. 3.2 PNEUMOTORACE Eziologia L’accumulo di aria nel cavo pleurico può avvenire attraverso una soluzione di continuo della parete toracica oppure attraverso la rottura delle vie aeree comunicanti con la pleura (bronchi e superficie polmonare). La malattia è più spesso spontaneo, ossia viene fuori da solo (spontaneo primitivo) oppure in seguito ad una malattia polmonare o comunque endogena (spontaneo secondario, colpisce per lo più gli anziani, e deriva da rottura di bolle pleuriche, fibrosi cistica, infezioni da pneumocistis (AIDS), tumori, polmoniti con ascesso). In altre occasioni è acquisito, ossia origina per cause iatrogene (cateterismo sbagliato, agobiopsie, toracentesi ecc.) o da traumi, di tipo meccanico o pressorio. In genere la forma spontanea primitiva viene fuori nei soggetti maschi, fumatori, che attorno ai 30-40 anni riferiscono una improvvisa rottura di bolla pleurica (blebs) di 1-1,5 cm, che sono raccolte subpleuriche di aria derivate dalla rottura di bronchioli dell’interstizio. Queste bolle sono ricoperte soltanto dalla pleura viscerale. Nel neonato si può avere una forma spontanea primitiva dovuta all’aspirazione di sangue o muco che danneggia il tessuto polmonare immaturo. Fattori predisponenti sono:

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• Fumo di tabacco • Patologie polmonari e tosse cronica • Habitus del paziente (longilineo e microsplacnico) Fattori scatenanti possono essere considerati: • Sport • Sforzo fisico intenso • Tosse e starnuti Esiste un sistema di stadiazione del rischio di sviluppare uno pneumotorace, che si può classificare in questo modo: • Parenchima normale, non ci sono cause predisponenti allo pneumotorace • Aderenze plero-pneumoniche esito di pregressi episodi di PNX • Blebs < 3 cm • Blebs > 3 cm Patogenesi A seconda del meccanismo patogenetico, si riconoscono tre tipi di pneumotorace: • Pneumotorace aperto: l’aria entra nel polmone durante l’inspirazione, ma entra anche nel cavo pleurico, che è in libera comunicazione con una fonte di aria che entra nella pleura ad ogni inspirazione. Quest’aria impedisce l’espansione del polmone malato che risulta collassato all’ilo, ma ad ogni inspirazione il cavo pleurico si espande, e il mediastino devia dal lato del polmone sano, il quale risulta quindi limitato nella sua possibilità di espansione. Il meccanismo pendolare del mediastino inoltre comprime anche il cuore e le cave, diminuendo il RV. Il risultato è la insufficienza respiratoria associata a compressione e insufficienza cardiaca, che possono essere minacciose per la vita del paziente. • Pneumotorace chiuso completo: meno grave, perché in questo caso l’aria nella cavità pleurica è stabile e non c’è comunicazione con l’esterno. Siha quando un trama penetrante porta con se un lembo che all’aumentare della pressione pleurica forma un tappo che impedisce il rifornimento dello pneumotorace. Se la quantità d’aria entrata è piccola, il polmone non collassa del tutto. In questo caso si parla di pneumotorace chiuso parziale, quando la breccia si chiude prima del collasso del polmone. • Pneumotorace iperteso: La forma ipertesa si realizza quando si ha una lesione che mette in comunicazione la pleura con l’esterno attraverso un meccanismo a valvola, che rende impossibile il ritorno all’esterno dell’aria, ma continua ad assorbirla ad ogni inspirazione. Questo provoca lo stesso effetto dello pneumotorace aperto, ma più marcato perché si raggiungono pressioni maggiori. Va trattato con la puntura toracica per permettere il deflusso dell’aria sottopressione, e poi trattare la lesione della parete toracica e mettere un drenaggio aspirante. Come intensità, uno pneumotorace parziale è il più lieve (frequente al primo episodio) mentre quello totale e quello iperteso sono imponenti, così come quello aperto se la lesione è consistente. Clinica I sintomi dipendono dal grado di collassamento e di compressione che si attua sul polmone e sul cuore. Le forme lievi e piccole, parziali, possono anche essere asintomatiche. I sintomi più comuni sono: • Dispnea • Dolore acuto all’emitorace interessato (irritazione e distensione della pleura parietale)

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Tachicardia e cianosi, fino allo shock, nel tamponamento cardiaco Asimmetria del torace: quello colpito è ipomobile e espanso Fremito vocale tattile ridotto Suono plessico iperfonetico Murmure ridotto o assente

Le recidive aumentano di probabilità dopo il primo episodio, nel quale sono presenti solo in 1/3 dei pazienti: per questo dopo il primo episodio non si esegue un trattamento di emergenza chirurgica ma si attua una terapia conservativa. Diagnosi RX in ortostatismo, che evidenza una zona di totale trasparenza in corrispondenza di una espansione dell’emitorace corrispondente. La TAC, in caso di dubbio, è diagnostica nel 100% dei casi, ma si tende a non usarla nei pazienti giovani perché non risulta in genere necessaria l’analisi del parenchima polmonare (che raramente è compromesso). Complicazioni • PNX bilaterale: assai grave, mette in pericolo la vita del paziente. Quando si verifica, il soggetto giunge in genere asfitico o in coma (se giunge), ed è indicato l’intervento di drenaggio pleurico di emergenza • Pneumomediastino: rara condizione in cui l’aria si espande anche nel mediastino attraverso le guaine bronchiali. Può essere associato ad enfisema. • Emotorace: conseguenza di una lacerazione di briglie aderenziali o rottura di vasi durante il collassamento del polmone • Mancata risepansione del polmone: per la presenza di grosse bolle pleuriche che non si richiudono, oppure per l’accumulo di secreto o sangue. • Infezione (pio-PNX): aumenta il rischio quando c’è una perdita d’aria molto intensa dal polmone o rimane per lungo tempo un drenaggio pleurico. Terapia La finalità è la riespansione del polmone, l’eliminazione delle cause, la profilassi delle recidive. Se la raccolta d’aria è di 2 dita all’RX si prescrive un trattamento conservativo con riposo a letto e ossigenoterapia, che diminuendo la PN2 nell’aria alveolare, facilita il riassorbimento dell’azoto dalla pleura. Il drenaggio pleurico si fa dal secondo spazio intercostale lungo la linea emiclaveare, al margine superiore della costa per non toccare il fascio vascolonervoso. Si inserisce anche un secondo catetere alla 5° costa per facilitare il drenaggio di raccolte ematiche. Questi cateteri si collegano con una pompa aspirante. Eventuali bolle pleuriche vanno recise, anche se questo non è sufficiente a scongiurare le recidive. Nei soggetti che hanno avuto più episodi o in quelli a rischio, si creano delle aderenze pleuriche (pleurodesi) tramite l’iniezione di colla di fibrina , oppure si fa raschiatura pleurica o pleurectomia parietale. Questo fa si che se interviene un altro episodio, il polmone non collassa.

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CAP 4 TRAUMI DEL TORACE I traumi toracici sono tutte quelle ferite che si hanno a carico della parete o dei visceri conseguenti a sollecitazioni interne ed esterne. Si dividono questi traumi in aperti o chiusi, a seconda che producano o meno una comunicazione con l’esterno. Possono essere prodotti per via diretta o per via indiretta (ad esempio un colpo al torace o la trasmissione di una forza che agisce altrove sul corpo,ad esempio nell’addome). Il meccanismo di danno è detto a percussione quando si trova a colpire rapidamente il soggetto e poi lascia libero il torace, oppure a compressione, quando il contatto è prolungato e il torace rimane preso fra la forza vulnerante ed una resistenza. In un soggetto con un trauma importante del torace si devono sempre cercare i seguenti segni: • Emorragia: o Interstiziale ( non manifesta, raccolte di sangue nei parenchimipolmonari, possono anche essere abbondanti) o Cavitaria (emotorace ed emopericardio) o Esteriorizzabile (trachea ed esofago) • Ipossia • Polmone umido (presenza e persistenza di materiale umido nel polmone e nelle vie aeree, che proviene dallo stomaco o dal mediastino) e si manifesta con i sintomi di ostruzione bronchiale • Enfisema sottocutaneo e mediastinico (che spesso derivano da uno pneumotorace) 4.1 TRAUMI CHIUSI Si dividono in contusioni e schiacciamenti, fratture dello sterno, fratture delle coste e lesioni chiuse viscerali. Le lesioni ossee sono più frequenti. Contusioni e schiacciamenti del torace Lo schiacciamento del torace si manifesta con turgore giugulare, con molte ecchimosi facciali, tumefazione cianotica delle palpebre e del volto, con uno stato di eccitazione psichica che tende però alla perdita di coscienza. In genere queste ecchimosi che sono derivate dalla spremitura di sangue dal torace compresso, devono essere trattate con salasso giugulare di almeno 500 cc, associato ad ossigenoterapia e somministrazione di sedativi. Fratture dello sterno Sono di solito uniche complete e trasversali. Passano spesso sotto silenzio perché non è facile dimostrarle radiograficamente. In caso di spostamento dei frammenti, quello superiore passa sotto a quello inferiore. In genere sono conseguenza di traumi diretti, guariscono in 30-40 giorni senza lasciare complicazioni. Fratture delle coste Sono il danno traumatico più frequente e la perdita di elasticità della parete toracica ne giustifica la maggior incidenza nell’età adulta. Le fratture delle coste, che siano complete o incomplete, possono verificarsi per due meccanismi: • Raddrizzamento della costa: la compressione provoca unariduzione della normale curvatura costale, si tratta di urti diretti che provocano la rottura della costa da stiramento, nel punto in cui viene applicata a compressione. La frattura avviene verso l’interno. • Incurvamento della costa: si tratta di un compressione che tende ad accrescere la normale curvatura costale. Sono urti indiretti che provocano l’aumento della pressione endotoracica, e la

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rottura, che avviene a distanza del punto di compressione, si espande verso l’esterno. Le coste possono essere interessate da lesioni singole (solitamente si spezza la parte centrale), oppure essere interessate da lesioni doppie o multiple, evento più importante clinicamente perché si associa alla presenza di pneumotorace o emotorace da lesioni al parenchima. Le lesioni della prima costa sono rare perché è ben protetta, e lo stesso per le fratture delle ultime due, ma perché sono fluttuanti. Nei bambini e negli anziani la prognosi è molto più grave perché si associa rispettivamente alle lesioni organiche in un torace elastico e deformabile e alla possibilità di far precipitare una insufficienza respiratoria che spesso nell’anziano è presente. A seconda della zona di coste fratturate si distinguono diversi effetti di compromissione della funzionalità respiratoria.. • Lembo sternocostale: prime 5 coste e corpo sternale, compromette il movimento respiratorio in senso laterale e anteroposteriore, con coinvolgimento importante della dinamica respiratoria • Tra la 6° e la 9° costa c’è coinvolgimento del torace costodiaframmatico, e quindi del fegato, della milza e del diaframma, cosa questa che influisce di nuovo con la respirazione • Traumi della prima costa sono associati a lesioni viscerali di organi come la trachea, perché si tratta di traumi di notevole violenza per poter danneggiare queste strutture così robuste. Quando si rompono una o più coste in punti diversi si crea quello che viene detto un lembo mobile, che ha sempre delle conseguenze sulla funzione respiratoria Il lembo costale mediano si ha quando c’è una frattura della 3°-5° costa più un coinvolgimento sternale, mentre quello laterale si ha quando c’è una frattura sempre alla stessa altezza, ma lungo la linea ascellare media. Il lembo è una porzione di torace non più solidale con il resto, che quando si inspira si spinge verso l’interno e si provoca una significativa variazione delle pressione e della funzionalità respiratoria; infatti esso si spinge all’interno con l’inspirazione e si spinge all’esterno con la espirazione, nel primo caso provocando una insufficiente espansione polmonare, nel secondo caso provocando una riduzione della pressione che permette la spremitura degli alveoli. La conseguenza di questo è quello che viene detta “respirazione paradossa”, in cui si ha diminuzione della PO2 per insufficiente espansione polmonare, e aumento della CO2 per insufficiente spremitura alveolare. Inoltre questa condizione si associa ad una diminuzione del RV per aumento della P pleurica in inspirazione, che porta alla riduzione della GC e insufficienza cardiaca. Non sempre naturalmente la presenza di un lembo ha tutte queste conseguenze: infatti i margini delle fratture possono restare adesi fra di loro e provocare la tenuta del lembo (lembo compensato). La sintomatologia è di solito dolore modesto, se le fratture sono semplici, più intenso in corso di fratture multiple, che si esacerba con la respirazione, e che viene evitato con la respirazione superficiale, compensata con la tachipnea. Si diagnostica di solito con l’indagine radiologica, che permette anche di avere informazioni sulla lesione delle strutture polmonari sottostanti. La terapia è: Immobilizzazione dell’emitorace leso con cerotti e bende Analgesici Stabilizzazione pneumatica interna: trattamento di elezione del lembo libero, si tratta di intubare il paziente e mantenere con una ventilazione dell’esterno una pressione pleurica che mantenga distesi gli alveoli e si opponga alla mobilità del lembo.

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Stabilizzazione chirurgica Trattamento con FANS. Il rischio maggiore per l’uso dei FANS in corso di acidosi respiratoria è la possibilità di indurre gravi lesioni alla mucosa (gastrite emorragica) AGRAFT: sono graffette che sostengono le coste immobilizzate, e sono radiopache. Lesioni viscerali chiuse Nelle lesioni al torace non è raro un danno al parenchima polmonare, sia da parte delle coste rotte che direttamente per l’improvviso aumento della pressione che fa scoppiare il parenchima stesso. Oppure anche le ferite da corpo estraneo, da ferita da arma bianca o da proiettile possono provocare delle lesioni al parenchima polmonare (questi però sono traumi classificati come aperti). Queste lesioni sono più frequentemente: • Contusioni: 30-35% • Lacerazioni: 95% • Ematomi: che si presentano come ombre rotonde del parenchima a margini sia delimitati che vaghi, e che permettono quindi la diagnosi differenziale con gli ematomi da neoplasia • Cisti aerea: ematoma che si è svuotato Inoltre, un trauma chiuso di solito pone a rischio di danneggiamento intenso le strutture bronchiali e tracheali; la lesione di un bronco o della tracheasi ha per compressione contro la parete addominale o per fenomeni di scoppiamento, quando il paziente sia a glottide chiusa durante il trauma. Sono lesioni molto gravi che portano spesso alla morte. Altre cause di lesioni alle vie aeree sono: • Urto (incidente automobilistico  urto contro il cruscotto) • Armi • Lesioni da filo teso (motociclista) • Intubazione La ferita chiusa e la contusione polmonare danno di solito la sintomatologia di: 11. Atelettasia 12. Pneumotorace 13. Enfisema mediastinico A questi possono aggiungersi: • Tosse • Emottisi • Dispnea • Pneumomediastino • Cianosi • Enfisema sottocutaneo • Sindrome di Hartuann Le lesini a carico di cuore e grossi vasi si creano o per la frattura delle coste in posizione anteriore con interessamento dello sterno, oppure per l’effetto diretto della compressione sul cuore, specialmente in diastole. Le lesioni vanno da una semplice contusione alla rottura ventricolare acuta. La rottura si accompagna a dolori di tipo anginoso, con segni di scompenso e di insufficienza, alterazioni ECG e dilatazione della camere cardiache. La rottura del primo tratto dell’aorta può decorrere con la formazione di aneurismi traumatici o con l’emomediastino grave e pericoloso. La diagnosi viene fatta con la valutazione dell’allargamento

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dell’ombra mediastinica e con l’angiografia. Infine si può avere rottura della cava superiore. La rottura diaframmatica è una evenienza grave ma purtroppo abbastanza comune, che si manifesta con alterazioni della respirazione ma anche con l’immediata intromissione di visceri addominali nel torace, che tendono a produrre un’ernia facilmente strozzabile. 4.2 TRAUMI APERTI DEL TORACE Ferite pleuropolmonari Le ferite di questo tipo sono frequentemente ferite da arma da fuoco, da dividere in ferite a fondo cieco, in cui si evidenzia solo un foro di entrata, e quelle trapassanti, in cui c’è sia un foro di entrata che uno di uscita. Il foro da proiettile può dare un fenomeno di cavitazione, ossia la formazione di una grossa cavità fra un foro di entrata e un foro di uscita piccoli, per effetto dell’energia cinetica posseduta dal proiettile. Un difetto parietale prodotto da queste ferite provoca la presenza di un respiro sibilante, con l’aria che esce ed entra dal foro (pneumotorace aperto). Non sempre naturalmente si forma lo pneumotorace, e a volte rimane anche chiuso. Anche l’emotorace è un trauma frequente delle ferite penetranti, e spesso i due eventi sono in associazione; il versamento ematico, che unisce alla sintomatologia da insufficienza respiratoria anche la presenza di emorragia con polso piccolo e filiforme. Il trauma sanguinante si può avere tipicamente dopo diverse ore dall’incidente. Le complicanze infettive sono comuni, a carico delle ossa e di quelle ferite con una soluzione ampia che permangono aperte a lungo. Anche le ferite vascolari e del cuore da penetrazione sono possibili e anche abbastanza frequenti da trauma aperto, e decorrono con le stesse modalità di quelle da trauma chiuso. Idem per le lesioni toracoaddominali da proiettile, che però rispetto alle ferite chiuse di diagnosticano meglio, se sono presenti un foro di entrata nel torace e uno di uscita nel mediastino. 4.3 TERAPIA DEI TRAUMI TORACICI Lo scopo della terapia è quello di garantire: • Parete toracica libera e funzionante senza movimenti paradossi • Pervietà delle vie aeree • Pleura libera L’intubazione tracheale e la tracheotomia sono i presidi migliori per mantenere le vie aeree pervie. L’intubazione viene fatta come misura di emergenza non appena si riscontri un qualsiasi segno di ostruzione delle vie aeree, mentre la tracheotomia viene eseguita soltanto quando ci siano evidenti segni di occlusione insuperabile a monte della glottide e anche insufficienza respiratoria elevata, oppure si renda necessaria una assistenza respiratoria prolungata nel tempo. I vantaggi della tracheotomia sono l’accesso diretto alla biforcazione bronchiale, con la possibilità di medicazione, la facilità con cui viene effettuata la ventilazione intermittente per correggere un movimento toracico paradosso, la possibilità di sollevare il malato dal lavoro respiratorio. Come contro ci sono le complicazioni settiche e emorragiche. La toracocentesi e il drenaggio chiuso continuo sono i trattamenti per mantenere libera la pleura. Si fa la toracocentesi sia a scopo diagnostico che a scopo terapeutico di un emo/pneumotorace, mentre si esegue il drenaggio continuo in situazioni di versamento grave o recidivante

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La stabilizzazione della parete è ottenuta mediante applicazione di trazioni continue, per riduzione cruenta e osteosintesi delle coste fratturate. Infine, in ogni momento è indicata una toracotomia quando si presentino quadri di: • Lesione o sospetto di lesione del cuore o dei grossi vasi • Emorragia intratoracica persistente • Grave lacerazione del polmone • Lacerazione esofago, trachea o grossi bronchi • Lesione ampia della parete toracica • Lesione del diaframma 4.4 TRATTAMENTO CHIRURGICO DELLE BRONCHIETTASIE Sono dilatazioni delle componenti bronchiali di secondo, terzo e quarto ordine, che provocano l’accumulo di secrezioni e le complicanze infettive delle aree interessate. In genere si tratta di condizioni acquisite che si accompagnano a particolari malattie, come: • Deficit di IgG • Ipogammaglobulinemia primitiva • Defecit di α1 antitripsina • Fibrosi cistica • Sindrome di Kartagener (situs visceurum inversus, sinusite, bronchiettasie) Le forme acquisite sono legate alla partecipazione di meccanismi come la presenza di infezioni croniche recidivanti dei bronchi e la presenza di masse ostruenti o corpi estranei. La patogenesi di queste forme è essenzialmente legata ad alterazioni della mucosa, del tessuto muscolare elastico e cartilagineo, con ritenzione delle secrezioni, dilatazione e riparazione con fibrosi. Questo porta alla dilatazione abnorme del bronco perifericamente, tipicamente di III o IV ordine. Morfologicamente queste forme si possono distinguere in forme: • Cilindriche (post tubercolari) • Sacculari (polmoniti ricorrenti atelettasiche) • Ampollari • Pseudobronchiettasie: episodi reversibili con terapia medica La localizzazione varia a seconda delle forme: Congenite: o Bilaterali e plurisegmentarie dei lobi superiore e inferiore Post tubercolari: o Lobo superiore o Segmenti apicali inferiori Postinfettive: o Segmenti basali o Lobo medio o Lingula polmone sinistro Secondarie ad ostruzione da corpo estraneo o Segmenti distali Il reperto di bronchiettasia si associa ad alcune variazioni anatomiche come l’atelettasia, le aderenze

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pleuriche, una abnorme dilatazione bronchiale, consolidamento tissutale attorno al bronco, ascessi disseminati in corso di infezione. La microscopica della lesione si associa ad un quadro infiammatorio con ulcerazioni, mucosa iperemica, infiltrazione di cellule infiammatorie, fibrosi parenchimale, La clinica è: • Dispnea (dopo distruzione del parenchima funzionante) • Tosse produttiva • Espettorazione maleodorante • Ricorrenti episodi febbrili • Emottisi secondaria a rottura peribronchiale • Ippocratismo digitale (da ipossia) La diagnosi viene fatta con: • RX standard del torace, con osservazione di quadri di riduzione del polmone malato e aumento compensatorio di quello sano (osservazione indiretta) • Segni radiologici diretti, come osservazioni di cisti multiple e di segno radiologico a nido d’api sono estremamente rare. • La broncografia è l’esame di elezione perché oltre alla visione del bronco permette il mapping preoperatorio. • La fibrobroncoscopia (FBS) permette invece l’esecuzione della rimozione di eventuali corpi estranei inalati. Il trattamento deve essere fatto con cicli ripetuti di antibiotico terapia, con broncodilatatori ed eventualmente drenaggio posturale. L’intervento chirurgico di rimozione del bronco ostruito e atelettasico è riservato a quei pazienti che hanno frequenti e recidivanti fenomeni di broncopolmonite. La selezione chirurgica viene effettuata in quei pazienti che hanno problemi di bronchiettasie serie, ma localizzate a 6 segmenti o due lobi senza interessamento del medio, e che sono irreversibili. In pazienti giovani con compromissione della funzione respiratoria per gravi bronchiettasie diffuse ci può essere una indicazione al trapianto di polmone. Dopo la chirurgia, nel 75% dei casi c’è asintomaticità, mentre possono intervenire complicanze come le prolungate perdite aeree, fistole bronco/pleuriche, empiema pleurico e polmonite. Bisogna preservare il paziente dallo scolo delle secrezioni e il loro accumulo in sede pleurica.

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CAP 5 PATOLOGIA CHIRURGICA DEL MEDIASTINO Il mediastino è lo spazio toracico compreso fra i due polmoni, delimitato dalle pareti pleuriche mediali, dallo sterno e dalla colonna vertebrale. In basso è chiuso dal diaframma, e superiormente, attraverso lo stretto toracico, comunica direttamente con le fasce cervicali. Il mediastino anatomicamente può essere diviso in tre comparti, ognuno contenenti alcuni visceri e vasi e nervi: • Comparto anteriore: contiene timo, linfonodi, e vasi mammari interni • Compearto medio: pericardio, cuore, grossi vasi, nervi frenici, vaghi, trachea e ilo del polmone • Comparto posteriore: contiene esofago, dotto toracico, vene azigos ed emiazigos, aorta discendente, catene simpatiche, nervi vaghi, linfonodi. Le varie alterazioni del mediastino provocano solitamente variazioni di volume della struttura, o alterazioni delle componenti organiche nei loro rapporti o nella loro morfologia. La radiologia in proiezione anteriore e laterale è il primo approccio, che evidenzia però solo masse notevoli, che poi vengono indagate con la TAC e la RMN che è più costosa ma più sicura. L’indagine contrastografica dell’aorta, la visione diretta della trachea e dell’esofago e lo studio scintigrafico delle paratiroidi e della tiroide sono i mezzi di indagine più specifici che abbiamo a disposizione. Infine, la mediastinoscopia, esame diretto di importanza fondamentale anche se molto invasivo, soprattutto per quello che riguarda la biopsia di linfonodi nel sospetto di metastasi del tumore polmonare. 5.1 SINDROMI MEDIASTINICHE DA COMPRESSIONE O INFILTRAZIONE Riguardano gli organi comprimibili del mediastino, da parte di una neoformazione, di solito tumorale, e quindi la presenza di queste sindromi ha un importante valore diagnostico. Si hanno due meccanismi: • Compressione: le strutture che più precocemente risentono della presenza di una massa sono quelle più collassabili, cioè le vene, soprattutto la vena cava superiore, che da una importante sintomatologia. Più tardivamente risentono della compressione anche l’esofago e la trachea. • Infiltrazione: le cellule neoplastiche infiltrano efficacemente le strutture nervose del mediastino, dando dolore e alterazioni funzionali del diaframma. SINDROME DELLA VENA CAVA SUPERIORE La compressione della cava che impedisce il reflusso del sangue dalla parte alta del torace, dal collo e dal capo è caratterizzata sul piano clinico da sintomi specifici: • Turgore delle giugulari: non influenzato dagli atti del respiro • Congestione ed edema dei tessuti molli del capo e delle estremità superiore, delle spalle e degli arti superiori (edema a mantellina) • Mancato svuotamento delle vene dell’arto superiore quando questo è rialzato. A seconda della sede dove viene a trovarsi l’ostruzione, la sintomatologia assume caratteristiche diverse. Importante è il rapporto dell’occlusione con l’ostio della vena azigos: se si occlude infatti questo, l’unica possibilità di circolo collaterale è la presenza delle mammarie interne, che nascono dall’anonima destra, e che portano il sangue alla cava inferiore per mezzo delle epigastriche. Si avranno quindi edema e turgore giugulare marcato, con segni importanti di circoli collaterali nell’addome a decorso verso il basso, a differenza dell’ascite. Mentre con l’azigos aperta, sia che l’occlusione sia a monte e a valle, essa funziona come sistema drenante molto efficace, prendendo il sangue dal plesso della spalla e riversandolo nella cava se l’ostruzione è distale al suo sbocco nella cava, invece prendendo il sangue dalla cava e immettendolo nella cava inferiore se l’ostruzione è

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prossimale al suo ostio e questo è pervio. Il quadro descritto può essere solo oppure accompagnato da altri segni di compressione mediastinica di altre strutture. La massima parte delle volte si ha una compressione da parte di un linfonodo, sede di un processo neoplastico oppure di una reazione infiammatoria. Più raramente è un tumore maligno o benigno che infiltra direttamente la cava. Ancora più rara ma sempre possibile è la compressione da parte di un aneurisma aortico dell’aorta ascendente. La sintomatologia si può instaurare bruscamente, e allora è più intensa per la mancanza di circoli collaterali di compenso, e si associa al segno di Stokes, la comparsa di fossette alla base del collo. Dopo un po’ di tempo i sintomi si attenuano per lo sviluppo di circoli collaterali che permettono lo smaltimento di una maggiorequantità di sangue e quindi la perdita dei segni come quello di Stokes. Rimane però sempre l’ipertensione venosa degli arti. La TC è l’esame più sicuro per la diagnosi di ostruzione, in quando la cavografia rischia, specie in presenza di trombosi neoplastica, di far partire un embolo pericolosamente vicino al cuore. SINDROME DA COMPRESSIONE DELLA TRACHEA E DELL’ESOFAGO  Nella trachea la lesione compressiva compare tardivamente, per la sua struttura rigida. Essa può essere una compressione antero-posteriore (trachea piatta) o laterale (trachea a fodero di sciabola), alterazioni visibili alla radiografia. Se il lume viene ridotto a meno della metà della normale canalizzazione, si ha una sindrome da cornage, ossia esistenza di uno stridore respiratorio, oppure da tirage, caratterizzata dall’aumento della contrazione dei muscoli respiratori accessori, e da aumento della depressione inspiratoria. Il peggioramento della compressione produce ristagno delle secrezioni, tosse e cianosi, e può portare a morte per asfissia prima del tumore che comprime.  Nell’esofago la compressione provoca essenzialmente disfagia, che si manifesta però quando la stenosi raggiunge, come già detto, il 60% del lume, quando essa è endogena. Quando viene dall’esterno, la sintomatologia è ancora più tardiva, perché l’esofago è molto mobile e la compressione di esso si verifica soltanto per infiltrazione, e schiacciamento contro la colonna vertebrale. SINDROME NEUROLOGICA Sindrome disnoica per compressione del nervo frenico,con paralisi in innalzamento dell’emidiaframma omolaterale. Sindrome di Bernard Horner caratterizzata dalla paralisi della catena del simpatico, e la disfonia da interessamento del laringeo, più frequente a sinistra per il maggior decorso da questo lato nel mediastino (il destro nasce in rapporto con la biforcazione dell’arteria anonima,più in alto. 5.2 MEDIASTINITI E TRAUMI DEL MEDIASTINO La mediastinite acuta è facilmente prodotta dalla propagazione di un focolaio infettivo o infiammatorio del collo o da un ascesso tiroideo attraverso lo stretto toracico. Oltre a questo, la propagazione per via linfatica di un focolaio pneumonico oppure infine la perforazione di un viscere cavo come l’esofago o la trachea. L’infiammazione suppurativa nel mediastino si associa in genere a due condizioni: • Mediastinite suppurativa flemmonosa, con tendenza alla diffusione verso il cuore o la pleura • Ascesso mediastinico, localizzato, con tendenza alla fistolizzazione nell’esofago o nella trachea Comunque si sviluppi, la mediastinite ha la caratteristica di svilupparsi con febbre, dolore

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retrosternale costante, e a seconda delle situazione con intensità variabile, con tosse, disfagia, e congestione della rete venosa superficiale del collo. Clinicamente può essere difficile da svelare, ma la diagnosi con TC e radiografia sciolgono in genere il dubbio. La terapia della mediastinite si basa in genere sulla profilassi antibiotica e il supporto delle funzioni vitali, e la terapia chirurgica, spesso in accesso invasivo diretto, del focolai settico o della lesione viscerale che l’ha prodotto. In genere la mortalità della mediastinite è del 70%. 5.3 TUMORI DEL MEDIASTINO I tumori sono la malattia del mediastino più frequente. In base alla zona da dove prendono origine, si distinguono in tumori del mediastino anteriore, medio e posteriore. In genere i sintomi locali da compressione descritti appaiono tardivamente, soprattutto se non interessano la cava che è l’organo più sensibile a questo tipo di patologia. I segni compaiono anche in associazione con sintomi aspecifici come la febbre, l’astenia e il calo ponderale. Le situazioni però possono variare di molto: infatti alcuni tumori specifici si associano ad una sintomatologia endocrina precisa, altri essere inserite in posizioni strategiche e dare disturbi da compressione/infiltrazione di strutture vicine. Fra le associazioni paraneoplastiche importanti si ricorda: • Timoma  miastenia gravis • Gozzo plongenat  ipo/ipertiroidismo • Adenoma paratiroideo ectopico mediastinico  iperparatiroidismo • Feocromocitoma  crisi ipertensive La presenza di sintomatologia soggettiva accompagna circa il 70% delle lesioni maligne, e il 10% di quelle benigne. I tumori primitivi del mediastino più frequenti sono: • Tumori neurogeni • Tumori del timo • Tumori disemriogenetici o Omoplastici o Eteroplastici • Tumori primitivi delle vie linfatiche • Tumori mesenchimali rari Tumori neurogeni La loro tipica sede di insorgenza è la doccia costovertebrale, dove le strutture nervose della spina dorsale prendono origine e escono all’aperto (nervi intercostali, gangli e catena del simpatico). Dalle strutture perinervose del SNP (cioè dalle cellule di Schwann del rivestimento mielinico dell’assone e dai fibrociti della glia) originano rispettivamente lo Schwannoma e il Neurofibroma (benigni) lo Schwannosarcoma e il neurofibrosarcoma (maligni e aggressivi). Le neoplasie delle cellule gangliari del SNA (paragangliomi) originano dalla porzione posteriore, sono il ganglioneuroma e il ganglioneuroblastoma. Il neuroblastoma invece è un tumore molto aggressivo tipico dell’infanzia, che origina dalle cellule gangliari simpatiche, che a volte possono sintetizzare catecolamine e assomiglia ad un altro tumore importante, il feocromocitoma , un paraganglioma cromaffine che secerne catecolamine. Anche il paraganglioma non secernente, nonostante l’assenza di sindromi endocrine, può rendersi visibile per la compressione dei vasi e del pericardio, in quanto insorge dal plesso simpatico dei grossi vasi mediastinici.

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Nel 10% dei casi questi tumori si estendono al canale vertebrale e assumono una conformazione a clessidra evidenziabile con la TAC. Tumori del timo • Iperplasia timica: distinta i vera e follicolare, è una neoformazione rara, benigna, che si osserva a volte in corso di chemioterapia • Cisti timiche: lesioni rare, non neoplastiche, presenti talvolta nella linea di discesa del timo lungo il collo, che comprimono altre strutture ma non sono sintomatiche • Timomi: sono tumori del sistema linfatico, ma non sono linfomi perché non riguardano generalmente alterazioni della crasi ematica, e non hanno una strette componente linfatica. Infatti, a seconda delle popolazioni cellulari interessate, si possono distinguere tre classi: linfocitico, epiteliale, misto. All’esame istologico si possono definire male le caratteristiche di malignità del tumore, che pertanto è importante classificare secondo un criterio macroscopico. A tale scopo, esistono varie forme di staging: o Stadio I: tumore incapsulato non invadente o Stadio II: invasione del tessuto adiposo peritimico, oppure della pleura o Stadio III: invasione del pericardio, dei grossi vasi e del polmone o Stadio IV/a: disseminazione alla pleura o al pericardio o Stadio IV/b: metastasi linfatiche o emaotogene Circa nel 60% dei casi si presenta allo stadio I e la rimozione chirurgica è risolutiva. Si associa spesso alla sintomatologia della Miastenia Gravis, in 20 paziente su cento, in 10 con sintomi elevati. La rimozione del timoma annulla la sintomatologia. La spiegazione più probabile per questa associazione è la diminuzione dei recettori per l’ACH nelle cellule della placca, forse ad opera di un fattore solubile timico che legandosi ai recettori ne promuove la downregulation. La presenza della miastenia è indice prognostico negativo. La sintomatologia da compressione è rara e può dare sindrome della vena cava superiore e sindrome mediastinica. La diagnosi di timoma è spesso occasionale per un RX toracico eseguito per altri motivi. La terapia chirurgica è risolutiva nei tumori capsulati. • Carcinoma del timo: neoplasie rare, divise in diversi sottogruppi, a prognosi molto severa per la loro rapida invasività e tendenza alla metastasi. • Carcinoide timico: appartiene al gruppo delle neoplasie APUD, determina spesso sintomatologia locale compressiva, e nonostante le caratteristiche neurosecretive, raramente da una sintomatologia endocrina. • Timolipoma e tumori a cellule germinali: rari • Linfoma timico: raramente primitivo, più frequenti i linfomi originati nel mediastino che tendono a infiltrare il timo • Tumori metastatici: rari Tumori a cellule germinali I disembriomi sono distinguibili in omoplastici e eteroplastici. I primi sono essenzialmente formazioni benigni, generalmente cistiche, dei bronchi e delle pleure, del pericardio e del sistema linfatico. I disembriomi eteroplastici sono formati da più di un foglietto embrionale, e quindi possono contenere più strutture. In particolare il teratoma deriva da cellule di tutti e tre i foglietti e può contenere in varia misura tutte le cellule dell’organismo. Ad eccezione del teratocarcinoma, del seminima, del coriocarcinoma hanno tutti una tendenza alla benignità, ma possono facilmente recidivare se l’exeresi chirurgica è stata incompleta. Le cisti di queste formazioni hanno localizzazioni di solito fisse, in sede antero-inferiore, paratracheale e paraesofagea.

http://www.hackmed.org [email protected] La terapia chirurgica è solitamente risolutiva.

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CAP 6 CHIRURGIA DELLA TUBERCOLOSI Patogenesi Dopo il contatto con il micobatterio la patologia tubercolare si esplica con la moltiplicazione del batterio a livello alveolare, con suscitamento della reazione infiammatoria, e successiva diffusione ai linfonodi polmonari, mediastinici e spesso di tutto il corpo. Alcuni propongono che il batterio non raggiunge nell’alveolo una carica infettante, a causa della sua poca diffusione dell’ambiente, ma si localizza prevalentemente del bronco, dove viene drenato dalla rete linfatica che affiora nella mucosa. Se le condizioni generali non sono buone o la carica virale è elevata, si sviluppa subito una infezione sintomatica (tubercolosi primaria) In genere entro uno o due mesi si sviluppa una risposta immune essenzialmente in grado di far regredire il focolaio flogistico e di portare alla risoluzione l’infezione, che rimane però latente nel granuloma. Eventuali reinfezioni oppure la diminuzione delle difese dell’ospite portano alla riacutizzazione dell’infezione (tubercolosi post-primaria). Alcune condizioni facilitano la ripresa della patologia tubercolare post-primaria, come: • Età • Condizioni metaboliche • Immunodepressione farmacologica o AIDS Anatomia patologica Le lesioni possono riguardare, indipendentemente dal processo primario o post primario che si realizza, la pleura, il parenchima, i linfonodi, i bronchi. Invece cambia il tipo di reazione che si produce: • Nel caso di una reazione primaria efficace, abbiamo per prima cosa una produzione una alveolite con essudato infiammatorio con cellule competenti del SI e macrofagi. Essi però non riescono a distruggere il batterio fagocitato, e si forma con l’intervento dei linfociti, una struttura con caratteristiche di un granuloma caseoso, con necrosi centrale, nella quale possono sopravvivere molti batteri. Dalla necrosi, si passa alla razionefibrosa, alla deposizione di sali di calcio e addirittura alla metaplasia ossea. Il batterio risulta, da uno di questi fenomeni, confinato e “murato vivo” fino a che le difese dell’organismo tengono o si verifica una reinfezione. • Nel caso di un processo post primario si ha la formazione immediata del tubercolo, cioè dello stesso granuloma della forma primaria, ma che tende ad espandersi per una maggiore aggressività della reazione dell’organismo, e a produrre quindi una reazione infiammatoria di notevole intensità. I tubercoli possono confluire in noduli, e da qui procedere a lesioni cavitarie. Nell’adulto e nel bambino la localizzazione è diversa: nel primo, sono comuni le regioni apicali sia dei lobi inferiori che di quelli superiori, probabilmente per il ridotto deflusso toracico, mentre nel secondo sono comuni i campi polmonari medi, probabilmente per il maggior tempo che il lattante passa in decubito orizzontale. La reazione infiammatoria primaria può essere prevalentemente essudativa (segno di scarsa attività di difesa) con tendenza ad evolvere verso le lesioni cavitarie, oppure prevalentemente fibrosa, con tendenza alla risoluzione cicatriziale, e significato di buona reazione dell’organismo. Le lesioni cavitarie si formano quando un focolaio di necrosi caseosa viene a colliquare, e si svuota in un bronco con espettorazione del materiale. La lesione che si forma indica che i sistemi di contenimento del batterio sono stati poco efficaci. Essa è formata da una parte esterna, atelettasica, formata dai bronchioli e alveoli compressi dal processo, da una parte intermedia, formata da tessuto di granulazione con cellule macrofagiche e da uno strato interno, caseoso, con tessuto necrotico. Il lume e le pareti della cavità sono percorse da vasi spesso ectasici, con aneurismi di Rasmussen che

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possono rompersi e dare emottisi. Si chiamano invece tubercolomi quelle formazioni chiuse, delimitate, di diametro non inferiore al centimetro, composte in prevalenza da materiale necrotico caseoso, e raccolte dentro una capsula connettivale. Sarebbero praticamente un’entità usata in radiologia per raccogliere sotto una sola denominazione tutte le lesioni tubercolari importanti (tubercoli, noduli, caverne eccetera). Si distinguono quattro aspetti: 17. Tubercolomi a struttura uniforme: materiale caseoso povero di concrezioni calcareee circoscritto da una capsula fibrosa. Si tratta di focolai broncopneumonici nodulari, o anche più importanti, bloccati dalla terapia antimicotica. 18. Tuberocolomi stratificati: più comuni, classici e patognomonici della TBC, sono formazioni caratterizzate dalla presenza di ombre rotondeggianti all’esame radiologi, prodotte dalla stratificazione concentrica di lamelle di calcio disposte attorno ad un tessuto necrotico. Sono prodotti dalla continua riaccensione e arresto del processo infettivo. 19. Tubercolomi da agglomerati di focolai: focolai primitivi si fondono insieme, formando una struttura che deriva dalla confluenza di noduli o di focolai miliari disseminati in una regione piccola 20. Tubercolomi da caverne piene: quando una caverna viene bloccata nel suo drenaggio dalla stenosi del bronco drenante o dalla terapia collassante (oggi in disuso) si ottiene un riempimento di essa con materiale omogeneo, ben delimitato, più o meno solido. Interessamento linfonodale L’estensione del processo ai linfonodi è iniziale, durante la fase di immunizzazione da primo contatto, e riguarda essenzialmente i linfonodi dell’ilo lobare e quelli parenchimali direttamente coinvolti. Talvolta si estendono anche a tutto l’ilo polmonare. Questi complessi sono detti complessi primari di Ranke, mentre il primissimo focolaio parenchimale, quello di infezione dei primi micobatteri, è detto complesso di Ghon. Le adenopatie possono guarire da sole completamente, oppure evolvere verso una risoluzione sclerotica, o ancora, se la flogosi non si risolve, si possono avere dei fenomeni di ulcerazione del linfonodo nel bronco, con una fistola che permette la disseminazione del processo in tutto il polmone per via aerogena. La sclerosi del linfonodo può invece provocare la sclerosi bronchiale e la perforazione del bronco, evenienza questa molto più rara. Interessamento del bronco Nel bronco il processo tubercolare si manifestacon tre principali caratteristiche: • Flogosi • Ulcerazioni • Formazioni vegetanti: o Tubercolomi: tumefazione sessile a larga base di impianto, rosso vivo, dura e a differenza dell’adenoma broncogeno, scarsamente sanguinante alla biopsia o Forme vegetanti: rare, associate alle ulcere, pallide, molli e facilmente sanguinanti Altri sintomi meno comuni possono essere: • Stenosi: principalmente del bronco di sinistra principale, che è più lungo e di diametro minore, ed è in stretto rapporto con l’arteria polmonare. Si hanno per l’evoluzione cicatriziale di un processo infiammatorio diretto, oppure per la compressione da parte di un linfonodo. • Bronchiettasie: conseguenza sia della TBC bronchiale, che della stenosi cicatriziale da

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compressione linfonodale Broncolitiasi: conseguenza di una fistola fra linfonodo e bronco, si tratta di un processo che produce la migrazione del materiale caseoso e calcifico dell’ulcera linfonodale nel bronco. Non è una condizione specifica della TBC, e produce spesso a valle delle bronchiettasie.

Interessamento della pleura Molto frequentemente si manifesta una pleurite siero-fibrinosa a carattere quindi essudativo. Altre forme meno comuni sono le pleuriti fibrinosa secca, purulenta, emorragica, eosinofila. Possono derivare da un processo primario o post-primario, essere estese a tutto il polmone o localizzarsi in posizioni circoscritte. L’evoluzione della pleurite di solito è la formazione di briglie aderenziali con retrazione cicatriziale che può anche essere importante e portare a grave deficit funzionale. Un forma oggi poco frequente ma molto grave è la pleurite purulenta, con formazione di essudato empiemico diffuso, che deriva essenzialmente dalla rottura di sacche granulomatose sotto la pleura stessa, o più frequentemente da una fistola bronco-pleurica. Dal punto di vista della patologia, la pleura risulta ispessita con depositi di calcio, e nel cavo pleurico si repertano spesso blocchi di fibrina oppure calcio. CLINICA Tubercolosi primaria Anche questa qui si può distinguere in tre quadri sintomatici, a seconda della sua evoluzione: • Regredibile: non da sintomi e guarisce subito, lasciando eventualmente segni di calcificazioni linfonodali o parechimali • Sintomatica semplice: pochi disturbi respiratori aspecifici, simili a bronchite o broncopolmonite. Regrediscono con l’acquisizione della resistenza • Sintomatica progressiva: in paziente defedato o anziano o lattante. In genere si ha una evoluzione molto varia, da sintomi di TBC miliare diffusa, spesso accompagnata dalla meningite, a pleurite essudativa, che può anche essere la manifestazione principale. L’interessamento dei linfonodi porta alla aspirazione di materiale che deriva delle fistole con sviluppo di broncopolmonite, oppure alla compressione e atelettasia bronchiale In tutti i casi si ha febbre, astenia, anoressia, calo ponderale, tosse con espettorato mucoso-purulento ed eventualmente emoftoe. Tubercolosi post-primaria Varie manifestazioni, spesso presenti sintomi generali di febbricola serotina, astenia, anoressia, compromissione dello stato generale. Frequenti tosse con espettorato mucopurulento, e dolore toracico; talora che emoftoe. L’esame obiettivo risulta in genere negativo, a meno che vi sia la presenza di infiltrati apicali con retrazione delle basi, oppure versamento pleurico. TERAPIA Ci sono normalmente 5 tipi di pazienti che sviluppano patologia tubercolare conclamata e che necessitano di interventi chirurgici specifici: • Pazienti con TBC resistente alla chemioterapia • Pazienti con tubercolomi • Pazienti con sequele bronchiali come stenosi, bronchiettasie e broncolitiasi

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Pazienti con sequele polmonari come caverne semplici e complicate da infezioni o broncheittasie Pazienti con esito di trattamento con collasso/terapia

La collassoterapia è stata per anni l’unico presidio terapeutico presente, per far collabire il tessuto leso e facilitare i fenomeni riparativi al suo interno. La terapia con collasso però risultava difficile perché spesso nella pleura infiammata si formano dei fenomeni di aderenze pleuriche fibrose che impediscono il collasso del parenchima polmonare. Allora sono state introdotte varie metodiche: • Collasso/terapia endoscopica di Jacobaeus: una primitiva base di video-laparoscopia, prevedeva l’impiego di uno pneumotoraceparziale normalmente, ma se si rivelava la presenza di briglie che impedivano il collasso del lobo, allora si eseguiva una serie di accessi separati per l’introduzione di materiale ottico che permetteva l’esecuzione del taglio direttamente dall’esterno delle briglie aderenziali. • Pneumotorace extrapleurico: si tratta dell’esecuzione di uno pneumotoracecon scollamento della pleura parietale dalla parete toracica, nel momento in cui una briglia aderenziale risulta troppo estesa per tagliarla. • Piombaggio: introduzione di materiale inerte nel cavo prodotto con lo pneumotorace, per aumentare il collasso del parenchima e impedirne la riespansione. Metodica abbandonata subito per le gravi conseguenze. • Paralisi del diaframma ottenuta con frenicoexeresi: follia pura • Toracoplastica: resezione delle prime 3-5 coste, per provocare un collasso senza pneumotorace. Usata per diversi anni, ma spesso debilitante. Attualmente, le indicazioni per il trattamento chirurgico portano all’esecuzione di interventi di resezione polmonare¸ dalle più ampie alle più limitate, dalle pneumectomie alle segmentectomie. Attualmente, le indicazioni chirurgiche sono: • TBC polmonare cavitaria resistente alla chemioterapia eseguita correttamente per 5-6 mesi • TBC da atipici circoscritta • Sequele bronchiali (trattamento chirurgico di queste) • Sequele parenchimali • Tubercolomi • Empiema pleurico con o senza fistola bronco/pleurica Spesso si tende, al contrario del carcinoma polmonare, a risparmiare il più possibile il parenchima ed asportare soltanto quello che è strettamente necessario: alle estese lobectomie si preferiscono resezioni segmentali oppure enucleazione delle regioni lese. Non sempre questo è possibile, perché spesso per lesioni molto estese o per la presenza di complicazioni a livello del parenchima, si devono fare asportazioni più ampie, che spesso riguardano tessuto praticamente distrutto dalla malattia. L’intervento di pneumectomia si fa solo quando il polmone risulta distrutto. L’empiema pleurico viene di solito trattato con drenaggio, terapia sistemica e medicazioni locali, ma può essere necessario l’intervento chirurgico, qualora permanga un cavo con sottostante polmone integro, e sia possibile quindi recuperare il tessuto. Si asporta, possibilmente in blocco unico, l’empiema con tutta la materia che vi è all’interno e il suo rivestimento di membrane piogene. Un caso particolare è formato dai quei soggetti che hanno una patologia pleurica con in aggiunta una fistola, che bisogna trattare con complessi interventi di pleuro-lobectomia contemporanea. Questi interventi, un tempo difficili e complicati da molte sequele sfavorevoli, oggi sono fatti con tecniche

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migliori. Per proteggere i monconi bronchiali ed evitare la presenza di cavi residui, si ricopre la superficie di taglio con segmenti del muscolo gran dorsale, gran pettorale eccetera oppure con il grande omento. Nel caso di stenosi bronchiale è indicata la resezione del parenchima a valle per via delle numerose complicanze flogistiche oppure se il bronco interessato è grosso, la resezione della stenosi con anastomosi del segmento residuo alla trachea.

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CAP 1 VALUTAZIONE PREOPERATORIA DEL PAZIENTE 1.1 VALUTAZIONE DEL RISCHIO PREOPERATORIO RISCHIO ANESTESIOLOGICO

La classificazione ASA (American Society of Anestesiology) divide i pazienti in 7 classi prognostiche a seconda delle loro condizioni, che sono utilizzate dall’anestesista per poter utilizzare procedure e metodiche differenti a seconda dei pazienti che si trova dinanzi. classe

chirurgia

CARATTERISTICHE DEL PAZIENTE

COMPROMISSIONE STATO DEL PAZIENTE

I

Paziente sano

II

Malattia sistemica di media o modesta entità

III

Elettiva

Malattia sistemica grave ma non invalidante Malattia sistemica che richiede costante supporto alle funzioni

IV V VI VII

Urgenza Paziente moribondo senza aspettative di sopravvivenza

Nessuna Lieve Grave Molto grave Assente o lieve Grave o molto grave Moribondo

Oltre a questo, esiste la valutazione preoperatoria di Goldmann del 1977 che divide i pazienti in 4 classi in base al rischio presentato di complicanze. ELEMENTI DI RISCHIO ASSOCIATI AD UN INTERVENTI CHIRURGICO • Del chirurgo: esperienza, capacità di concentrazione e di decisione, abilità manuale, doti umane • Del tipo di intervento: durata nel tempo, estensione, tipo di anestesia • A carico del paziente: o Età o Morfotipo o Malattie di base e loro ripercussioni  Malattie respiratorie  Malattie cardiovascolari  Diabete  Obesità  Terapia farmacologica in atto  Denutrizione  Stato renale  Stato epatico  Shock  Neoplasie  Immunodepressione  Infezioni  Coagulopatie o Atteggiamento psichico

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Età Con la presenza di pazienti anziani e lattanti si aumentano notevolmente le condizioni di rischio anestesiologico e chirurgico. I bambini molto piccoli in genere hanno come problemi specifici: • La mancanza di un SI competente • Ridotto volume corporeo (variazioni piccole di anestetico si traducono in grandi variazioni di concentrazione) • Diminuita tolleranza alle modificazioni dell’omeostasi termica, elettrolitica Invece il paziente anziano ha essenzialmente dueordini di problemi: l’aumento delle patologie concomitanti che si possono trovare e la naturale degenerazione dei parenchimi. In questi pazienti è necessario valutare molto a fondo la funzione renale, cardiaca, epatica e respiratoria. Anche le malattie croniche degenerative tipiche dell’anziano sono in genere fattori che diminuiscono la sopravvivenza, così come la diminuita capacità di adattamento allo stress, e la generale anoressia fisiologica che comporta una riduzione delle capacità di riserva metabolica e di competenza immunitaria. Malattie respiratorie Le complicanze respiratorie post-operatorie sono numerose, perché aumenta il numero di pazienti anziani, per via degli accessi chirurgici usati, in addome superiore e nel torace, che diminuiscono la profondità del respiro, perché i farmaci anestetici sono responsabili di alterazioni della meccanica respiratoria e provocano stasi bronchiale (depressione del centro del respiro e della motilità delle ciglia) La valutazione del rischio respiratorio prevede: • • • •

Anamnesi: presenza di tosse, infezioni polmonari recenti, asma, enfisema, TBC eccetera Esame obbiettivo torace: rumori patologici, asimmetrie, versamento pleurico eccetera. Valutazione del tempo espiratorio e inspiratorio Emogasanalisi Prove spirometriche

Una volta individuate le condizioni di rischio, bisogna correggere le situazioni alterati. Eradicazione dei processi infettivi, corollo mediante farmaci mucolitici e broncodilatatori, Il fumo va sospeso 30 giorni prima dell’intervento, la sospensione migliora la funzionalità dell’epitelio respiratorio, mentre l’astinenza per sole 24 h riduce il tasso di CO nel sangue. Aumenta la clearence mucociliare e riduce la quantità di secrezione. Anche la fisioterapia della respirazione èimportante. Malattie cardiovascolari • Anamnesi accurata: o Familiarità per cardiopatie o Tabagismo o Pregresso infarto miocardico o Ipercolesterolemia o Angina o Sedentarietà e stress o Dispnea da sforzo • Esame obiettivo:

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Soprappeso Ipertensione arteriosa Aritmie Soffi Segni di scompenso:  Edemi  Cianosi  Rumori umidi Inoltre una volta accertata la presenza di patologie cardiache si devono eseguire esami più specifici, come la ecocardiografia, l’ECG dinamico e da sforzo, valutazioni strumentali della frazione di eiezione. Tutti i pazienti che si devono operare fanno un ECG e una radiografia del torace. o o o o o

Item Età > 70 Infarto negli ultimi 6 mesi Ritmo di galoppo e turgore giugulare Stenosi aortica serrata Ritmo no sinusale, extrasistolia atriale Extrasistoli ventricolari ripetute all’ECG PO2 < 60 o PCO2 > 50 Potassiemia < 3 o Bicarbonati < 20 Azotemia>50 o creatininemia >3 Segni di insufficienza epatica Intervento intraperitoneale o toracico Intervento d’urgenza

Esistono due indici per valutare il rischio di operazione nel paziente dal punto di vista cardiaco.

Massimo totale

PUNTEGGIO 5 10 11 3 7 7 3 3 4 53

Valutazione NYHA delle cardiopatie Classe I Attività fisica ordinaria senza dispnea, palpitazioni o fatica Classe II Benessere a riposo, astenia, palpitazioni e dispnea nell’attività fisica ordinaria Classe III Benessere a riposo, sintomi dopo sforzi minimi Classe IV Sintomi anche a riposo Di solito i pazienti delle classi I e II non hanno problemi, mentre quelli delle classi III e IV mostrano una buona possibilità di avere delle complicazioni e aumento della mortalità postoperatoria. La classificazione di Goodmann valuta invece il rischio suddividendolo per ITEMS. Punti

Classe

0-5 6-12 3-25 >25

I II III IV

Rischio 0.7% 5% 11% 25%

Una volta che si è accertato il rischio di complicanze, si deve provvedere alla rimozione, con la terapia appropriata, di tutte quelle condizioni che possono favorire le complicazioni cardiache. Si applicano quindi i seguenti presidi terapeutici: •

• •

Riduzione del peso corporeo

Abolizione del fumo Differimento dell’intervento ad almeno 6 mesi dall’infarto (salvo emergenze)

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Correzione farmacologica della patologia cardiaca

Diabete Il diabete deve essere valutato e distinto nella sua forma clinica. Il profilo glicemico va monitorato con attenzione, sia prima dell’operazione, riducendo gli ipoglicemizzanti orali nella fase di digiuno preoperatorio, sia dopo, quando il fabbisogno di insulina aumenta per la mobilitazione dei corticoidi endogeni in risposta allo stress dell’intervento. L’obiettivo immediato del postoperatorio è quello di ridurre la glicemia sotto i 170 e mantenerla sopra 80. Obesità Maggior incidenza di vasculopatie ischemiche celebrali e cardiache, diminuita riserva respiratoria e cardiaca, aumentata incidenza di diabete. Valutare complicanze del postoperatorio e volumi respiratori. Terapie farmacologiche in atto Non assumere prime dell’intervento nessun farmaco se non strettamente necessario, per un periodo di tempo necessario ad annullarne gli effetti. Correggere eventuali squilibri elettrolitici presenti come effetto dei farmaci presi. Da controllare essenzialmente anticoagulanti, ipoglicemizzanti e farmaci attivi sul SNC. Sospendere completamente gli inibitori delle MAO. La terapia anticoagulante, se non può essere sospesa, deve venir sostituita dall’eparina, più maneggevole e facilmente antagonizzabile, e lo stesso gli ipoglicemizzanti dall’insulina. Nelle pazienti che assumono contraccettivi orali estrogenici è necessario istituire una terapia antitrombotica a dosaggio pieno. Rischio emorragico Elementi per la valutazione della presenza di un rischio di emorragia operatoria sono: • Storia familiare di sanguinamenti • Pregresso sanguinamento in corso di intervento o di evento traumatico • Emorragia grave in un pregresso intervento maggiore • Episodi ricorrenti di sanguinamento spontaneo, a carico di muscoli ed articolazioni • Emorragia spontanea dopo assunzione di FANS • Insufficienza renale, epatica, o malattie croniche ematologiche • Assunzione di farmaci anticoagulanti. • Età > 45 anni Rischio trombotico 14. Familiarità ed eventi trombotici prima dei 35 anni. 15. Chirurgia neurologica, pelvica, oncologica, ortopedica 16. Durata > 3 ore 17. Allettamento 18. Neoplasie 19. Obesità 20. Uso di contraccettivi orali, gravidanza e puerperio 21. Varici degli arti inferiori 22. Insufficienza cardiaca, aritmie, pregresso infarto del miocardio.

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Rischio epatico e valutazione preoperatoria Il paziente con malattia epatica deve prima di essere sottoposto all’intervento, essere reinserito nella classe A di Child. Questo viene fatto essenzialmente attraverso lacorrezione della malnutrizione, somministrazione di vitamina K, riduzione dell’ascite, e riduzione dell’ammoniemia (lattuoloso). La terapia sul fegato è importante, a causa dell’enorme implicazione di quest’organo per quel che concerne gli interventi chirurgici: • Fattori della coagulazione • Osmolarità del plasma (volumi di distribuzione dei farmaci) • Metabolismo dei farmaci • Detossificazione di sostanze neuroattive (ammoniaca) • Glicemia La classificazione di Child permette di dividere i pazienti in base ai loro parametri epatici in classi di rischio intraoperatorio Parametro Albuminemia Bilirubinemia Ascite Encefalopatia Nutrizione

Classe A

CLASSE B

CLASSE C

RISCHIO MINIMO

RISCHIO MODERATO

RISCHIO ELEVATO

> 3,5 >2 Assente Assente Normale

3 – 3,5 2–3 Moderata Moderata (I) Sufficiente

<3 >3 Grave Grave (III-IV) Insufficiente

Altre condizioni: • Denutrizione • Insufficienza renale • Shock preoperatorio • Neoplasie • Infezioni 1.2 PREPARAZIONE ALL’INTERVENTO CHIRURGICO Essenzialmente si tratta di misure, come quelle che abbiamo descritto a carico di specifiche alterazioni o malattie, volte a prevenire l’insorgenza di eventuali rischi operatori; inoltre si eseguono alcuni interventi non preventivi, ma preparatori, a carico di singoli organi o di apparati. Chemioprofilassi L’impiego di antibiotici prima degli interventi è utile se effettuato con rigorosi criteri, per ridurre la prevalenza di complicazioni infettive; bisogna però fare attenzione a non incorrere in modificazioni della flora intestinale, reazioni allergiche o stimolazione di ceppi resistenti. La profilassi locale sulla ferita chirurgica non è essenziale in aggiunta alle normali medicazioni a meno che non si inserisca in essa una protesi oppure non sia una ferita contaminata, come quelle da trauma. La profilassi sistemica si associa a quegli interventi che possono portare nell’organismo batteri provenienti dalle aree contaminate o dall’esterno, come: • Interventi sul tubo digerente • Interventi sulle vie biliari • Interventi per via vaginale • Impiego di protesi • Interventi di lunga durata (> 2 ore)

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• Interventi settici o sporchi La maggior parte degli antibiotici raggiunge una concentrazione oraleelevata massima nel giro di 90 minuti, e deve essere somministrata subito prima dell’intervento, per avere la max concentrazione al momento in cui la carica batterica raggiunge il tessuto. Se l’intervento dura a lungo, è consigliabile una seconda somministrazione intraoperatoria. Nella scelta dell’antibiotico si deve valutare il tipo di batterio con cui probabilmente il paziente verrà a contatto con quel tipo di intervento. Profilassi antitrombotica • Mobilitazione precoce del paziente a partire dalla prima giornata del postoperatorio, sollevamento degli arti inferiori (15-20°) durante e dopo l’intervento, fisioterapia. Tutti questi accorgimenti richiedono la collaborazione attiva del paziente. • Compressione pneumatica intermittente degli arti inferiori • Somministrazione di eparina calcica, sottocute, preferibilmente dopo l’intervento operatorio, per 7 giorni • Se la trombosi è sopravvenuta, si somministra eparina sodica per EV in bolo e poi in infusione continua. Preparazione dell’intestino • Digiuno per 12 ore prima dell’intervento, non assunzione di liquidi per almeno 8 ore • In caso di interventi sull’intestino è necessaria una preparazione meccanica e una profilassi antibiotica. La preparazione antibiotica si esegue con farmaci attivi contro i germi aerobi e anaerobi, mentre la preparazione meccanica intestinale si fa in tre modi: • Lassativi, clisteri e dieta: purganti energici come il solfato di Mg e clisteri • Purganti osmotici: lattuloso o mannitolo la sera prima dell’intervento. Hanno anche l’effetto di ridurre l’insorgenza di encefalopatia epatica. • Whole gut irrigation: introduzione attraverso un sondino nasogastrico di soluzione fisiologica (circa 12-24 litri) finché le scariche diarroiche non diventano chiare come la soluzione inserita. Il paziente in seguito a questo trattamento aumenta di peso di 1,5 Kg che viene eliminato con la diuresi. Scomodo e fastidioso, questo metodo non va bene nell’insufficienza renale ed epatica, nella insufficienza cardiaca (ipervolemia) e in corso di qualsiasi ostruzione intestinale.

PREPARAZIONE IGIENICA Lavaggio del paziente accurato, con sapone liquido, da eseguirsi da se, la sera prima dell’intervento, mediante doccia. Tricotomia nella zona chirurgica da trattare, con rasoio elettrico, poche ore prima dell’intervento. Disinfezione con iodio o altro analogo disinfettante prima dell’incisione, con strofinamento del tampone per 2-5 minuti. Infine, si deve inserire un catetere vescicale, di tipo Foley per impedire la fuoriuscita di esso dalla vescica, nelle seguenti condizioni: • Interventi su organi pelvici in cui la distensione della vescica interferisce • Interventi di chirurgia maggiore o di urgenza in cui è necessario monitorare la diuresi • Nella previsione di una ritenzione urinaria postoperatoria. Il Sondino nasogastrico viene applicato: • Negli interventi peritoneali in cui si prevede la comparsa di ileo paralitico • Nell’occlusione intestinale o in qualsiasi rischio di vomito, per il pericolo di aspirazione del materiale vomitato.

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• Nei pazienti che devono essere sottoposti ad interventi chirurgici di urgenza. 1.3 LA NUTRIZIONE DEL PAZIENTE CHIRURGICO La maggior parte dei pazienti sottoposti ad intervento non hanno problemi perché si tratta di chirurgia di elezione, con un breve periodo di catabolismo e di digiuno che di solito si superano senza entrare nelle fasi di catabolismo delle proteine endogene. Questi pazienti sono di solito non trattati in alcun modo. Per 2-3 giorni, si può somministrate per via EV soltanto soluzioni con 5 gr di zucchero in 100 ml (al 5%), che portano però un apporto nutrizionale scarsamente quantitativo. Le indicazioni alla nutrizione chirurgica parenterale sono: • Malnutrizione preoperatoria • Digiuno perioperatorio prolungato • Presenza di complicanze • Ileo paralitico prolungato I tipi di nutrizione sono essenzialmente: •

Nutrizione parenterale periferica o centrale: è il metodo per alimentare quei pazienti che non possono alimentarsi per via enterale. Si possono usare per questo scopo due tipi di accessi, le vene periferiche e le vene centrali. Le seconde si usano, specie la succlavia, quando il tempo che il catetere deve restare è lungo o si applica la nutrizione totale, perché la brachiale ha il braccio piccolo. La nutrizione totale consiste nell’infondere tutte le sostanze nutritive, aminoacidi, carboidrati e lipidi. Questa necessita per forza di un accesso ad un vaso ad alto flusso, perché la soluzione concentrata è lesiva per l’endotelio e deve essere diluita nel plasma (si raggiungono le 900 mOsm/l). I principi nutrienti vengono miscelati in una sacca, e la soluzione appare bianca per la presenza di lipidi. (sacche bianche). Siccome si ha una forte glicemia dopo la somministrazione, si ha un incremento della produzione di insulina, che al termine della terapia può esserresponsabile di una sindrome da rembound. La nutrizione parziale permette la somministrazione di grassi e lipidi a basse concentrazioni (soluzioni al 10% ) cambiando ogni 2-3 giorni accesso alle vene periferiche. Permette di andare avanti somministrando 2/3 del fabbisogno calorico anche per 2-3 settimane. E’ adatta per degenze lunghe, ma non di durata maggiore al mese. Complicanze: possono realizzarsi numerose complicanze sia dovute alla puntura venosa che alla somministrazione delle sostanze, o al funzionamento e manutenzione del catere - Embolia polmonare gassosa - Trombosi venosa - Pneumotorace - Puntura dell’arteria succlavia - Emotorace -

Sfilamento accidentale del catetere Rottura e ostruzione Sepsi

-

Iperglicemia Ipoglicemia da rembound Reazioni allergiche all’infusione di proteine Ipersensibilità e alterazioni epatiche nell’infusione di lipidi

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Nutrizione enterale: si ha quando il paziente presenta l’impossibilità di usare lo stomaco (gastroresezione) e allora si posiziona un catetere in un’ansa intestinale, oppure in quei pazienti comatosi o in rianimazione (mediante sondino). Particolarmente utile in terapia intensiva.

Il sondino può essere inserito: • Nasogastrico • Stomaco (stenosi serrata dell’esofago o pazienti che devono portarlo per mesi) • Digiuno (malattie dello stomaco o del duodeno) • Sondino naso digiunale: gastroresecati con gastrodigiunoanastomosi e pazienti in coma con rischio di aspirazione del materiale refluito dallo stomaco Le complicanze maggiori sono la diarrea e l’occlusione della via di infusione.

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• Cap 2 Lo shock e il suo trattamento in chirurgia Sindrome polisistemica derivata dal crollo della produzione energetica cellulare e dalla diminuzione della disponibilità di O2, e dalla attivazione conseguente dei meccanismi di compenso, lo shock è essenzialmente distinguibile in due grossi meccanismi patogenetici: • Primitivo: derivato da un danno cellulare non legato alla nutrizione circolatoria, ma per esempio alla sepsi e al suo effetto sulle cellule, o al contatto con sostanze inibitorie del metabolismo cellulare ossidativo. Definito anche shock ad alta gittata. • Secondario: derivato da una qualsiasi causa di scompenso cardiaco o vascolare che porta all’ipossia tissutale. Viene detto ovviamente shock a bassa gittata. In entrambi i casi, si produce una situazione di risposta compensatoria, responsabile di parte della sintomatologia, volta a migliorare la perfusione degli organi vitali e restituire al cuore la capacità di sostenere il flusso. Questa risposta, in genere, è destinata a fallire. Eziologicamente, i vari processi che possono provocare lo shock distinguono questo in almeno 4 tipi: emorragico CARDIOGENO SETTICO NEUOGENO / ANAFILATTICO

Clinica

Esami di laboratorio Patogenesi Terapia

Pallore Cute sudata e fredda Tachicardia Oliguria Ipotensione

Pallore Cute sudata e fredda Aritmia Oliguria Ipotensione

Diminuzione di ematocrito ed emoglobina Ipovolemia

Segni enzimatici ed elettrocardiografici di danno cardiaco Riduzione della GC e della perfusione coronarica

Fluidi Sangue Arresto emorragie

Antiaritmici Inotropi Vasopressori Vasodilatatori coronarici

Febbre e brividi Cute calda Tachiacardia Oliguria Alterazione della coscienza Leucocitosi e colture batteriche positive

Cute calda Tachicardia Oliguria Ipotensione

Difetto cellulare di utilizzo dell’ossigeno, vasodilatazione mediata da citochine Liquidi Antibiotici NOS inibitori Drenaggio chirurgico

Vasodilatazione centrale

Liquidi plasma expandere, simpaticomimetici centrali e periferici

A parte lo shock settico, le varie cause di shock (vasodilatazione, ipotensione, insufficienza di cuore) sono una la conseguenza dell’altra: la riduzione del flusso provoca aumento della richiesta dal cuore, che se non riesce a compensare si trova dinanzi alla venomozione dei tessuti periferici: infatti inizialmente la risposta dell’ortosimpatico riesce a compensare la situazione con la vasocostrizione periferica e i meccanismi renali di compenso, e a migliorare la funzione cardiaca. Dopo un certo periodo, se la situazione non si risolve, ad esempio in una emorragia non rifornita e continua, o in un danno primitivo di cuore, la situazione peggiora ancora perché si passa allo shock cardiogeno. A questo punto il cuore non riesce più a compensare le richieste, e la perfusione tissutale peggiora ancora. Il flusso sanguigno ai tessuti diventa così basso, e le necessità così elevate, che i meccanismi periferici di controllo del flusso hanno il sopravvento su quelli centrali, e si manifesta il fenomeno della vasoparalisi, ossia di una dilatazione delle arteriole periferichenon responsiva al simpatico e quindi al trattamento farmacologico. Questa fase, che è detta shock irreversibile, e si manifesta quando la pressione scende anche per pochi minuti al di sotto dei 45 mmHg, è indice di un danno tissutale irreversibile e porta invariabilmente a morte. 2.1 LO SHOCK A BASSA GITTATA Patogenesi E’ la condizione che meglio si riesce a trattare: è infatti sufficiente correggere la causa primaria di

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shock per risolvere il quadro, a meno che i danni tissutali e renali (essenzialmente la necrosi corticale per ridotto flusso, e la necrosi tubulare da eccessivo accumulo di mioglobina, derivata a sua volta dalla necrosi muscolare) siano stati irreversibili. Durante l’ipovolemia si attivano recettori (barocettori carotidei e aortici, chemocettori del glomo carotideo, osmocettori ipotalamici) che attivano il simpatico, il Sistema Renina Angiotensina, l’ADH (vasopressina), l’aldosterone, e la risposta metabolica con catecolamine e glucocorticoidi. A ciò, oltre agli effetti diretti di questi sistemi (che non riscrivo perché se uno fa Patologia Chirurgica senza sapere queste cose è un disgraziato, e vuol dire che finora ha passato gli esami coi prosciutti...) si aggiungono gli effetti sul sistema respiratorio, e l’aumento del richiamo di liquidi dai comparti extravascolari. Quest’ultimo evento è un effetto dell’emoconcentrazione e della ritenzione di sodio, che aumentano l’osmolarità del plasma, ma anche dell’aumento della concentrazione di glucosio, e dei fenomeni vasomotori che riducono la pressione all’interno del capillare. Nel complesso questo fenomeno si chiama refilling. Ci sono alcune differenze importanti fra una ipovolemia pura o da bassa gittata, derivate essenzialmente dal fatto che nel primo caso la massa effettiva circolante diminuisce davvero, nel secondo c’è ristagno venoso per insufficienza eiettiva, con turgore giugulere, edema polmonare, reflusso epato-giugulare. Clinica I principali segni clinici da osservare nell’ipossia da bassa gittata sono: • Vasocostrizione cutanea: cute pallida e sudata, fredda • Vasocostrizione renale: anuria e segni di insufficienza renale • Vasocostrizione venosa: collasso delle vene superficiali (quelle profonde vengono spremute molto di più, ma non ci sono segni clinici). In realtà le vene del collo si evidenziano collassate nell’emorragia, turgide nello scompenso cardiaco • Tachicardia o aritmie • Tachipnea • Ipertensione solo nelle fasi iniziali ben compensate, poi predomina l’ipotensione, segno di un compenso insufficiente • Sintomi e segni specifici di condizioni predisponenti allo shock a bassa gittata, come infarto, pneumotorace, embolia, occlusione intestinale, peritonite, traumi, malattie del SNC, reazioni anafilattiche L’evoluzione dello shock tende alla MOF, se non viene compensato automaticamente dall’organismo. Questo spesso diventa impossibile, quando, come principio generale, vengono seriamente danneggiati quei sistemi preposti al compenso stesso. Se c’è quindi danno cardiaco, perdita di sangue, danno respiratorio grave o sequestro di liquidi eccessivo, e non si interviene dall’esterno fino a compenso, la prognosi è destinata ad essere infausta. 2.2 LO SCHOCK AD ALTA GITTATA Lo shock settico è accompagnato da alcuni sintomi sistemici, secondari alla reazione del SI, che lo rendono di facile discriminazione. Questa risposta è detta SIRS: Sindrome da Risposta Infiammatoria Sistemica, e comprende: • Temperatura >38° (fase reattiva) o < 36° (fase passiva, prognosi negativa) • Tachicardia > 90 • Tachipnea (>20/min o PCO2 < 35) • Leucocitosi o leucopenia

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La risposta si compone anche di variazioni del metabolismo intermedio, che sono responsabili della patogenesi dello schock; tale risposta non è specifica nei confronti del patogeno, perché è mediata dalle sostanze che i linfociti secernono in risposta all’infezione, sempre uguali. Fase preclinica (patogenesi) Infezione da soluzione di continuo, trauma o penetrazione di altro tipo, e superamento delle difese dell’ospite; in questa fase vengono prodotte le citochine, in particolare l’IL1, responsabili delle manifestazioni della sepsi, e del catabolismo proteico muscolare che permette la produzione di glucosio e delle proteine di fase acuta, e che può condurre alla cachessia. Le proteine di fase acuta agiscono proteggendo in vario modo i tessuti dall’azione degli enzimi litici cellulari, in particolare come antiossidanti e scavengers di specie reattive: per questo la disfunzione epatica è un fattore sfavorevole nell’evoluzione della sepsi. L’infiammazione produce trombossani e PG, che producono, assieme ad altri mediatori più immediati, una vasodilatazione che comincia i suoi effetti patogenetici (è il fattore principale che media lo shock). Inoltre, si realizza la chemiotassi delle cellule infiammatorie che danneggiano i tessuti con i loro enzimi lisosomiali. Fase di compenso Le reazioni che seguono sono tutte un tentativo di compensare i processi metabolici e organici descritti prima, che in questa fase, a seguito del potenziamento della carica infettante, diventano maggiori e richiedono appunto un compenso. Prima di tutto aumentano le richieste metaboliche, per l’incremento del catabolismo tissutale e del dirottamento del glucosio verso la genesi delle proteine di fase acuta e anche per lo stato di ipertermia. L’aumento dell’uso degli aminoacidi ramificati produce ammoniaca, che può essere alla base dell’aumento della tendenza all’encafalopatia. Compenso circolatorio Il difetto di estrazione di ossigeno e la vasodilatazione producono aumento della gittata, della frequenza e quindi del lavoro e del consumo di O2 del miocardio. Questo tende a normalizzare la pressione arteriosa, o addirittura ad aumentarla. Questa risposta, molto chiara dal punto di vista clinico, può non verificarsi nelle situazioni di ipovolemia o di presenza di cardioinibitori settici. Compenso respiratorio L’edema, l’ingorgo linfatico che comprime i bronchi, e le alterazioni del flusso provocano difficoltà respiratorie, e c’è una diminuita stimolazione centrale per il risparmio del glucosio che produce meno CO2 perché viene di meno catabolizzato. C’è, per via delle modificazioni del flusso secondarie alla vasodilatazione, un aumento dello shunt e dello spazio morto fisiologico. In questa fase lo shock risponde molto bene alla terapia di supporto alla funzione cardiocircolatoria e respiratoria, che opportunamente associata al trattamento della sepsi risolve in genere il quadro. Fase di scompenso Interviene quando il peggioramento del danno supera le capacità compensatorie dell’organismo. A livello periferico c’è una riduzione dell’utilizzo di substrati metabolici come il glucosio e i lipidi, cosa che aggrava l’ipossia delle cellule, mentre a livello del fegati si manifesta soprattutto un aumento del catabolismo aminoacidico, con produzione di ammoniaca, che è responsabile e della sindrome encefalica settica, sia di una parte della vasodilatazione. La diminuzione delle resistenze vascolari diventa enorme, a causa del fatto che la carenza di ossigeno alle cellule è molto aumentata. Il compenso cardiaco non riesce a far fronte alle esigenze: permane lo stato iperdinamico e inizia a manifestarsi una acidosi metabolica che deriva dalla glicolisi.

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L’edema tissutale da rigonfiamento delle cellule (diminuzione dell’attività della pompa del sodio), la diminuzione della capacità di compenso del cuore, che si manifesta con ipotensione, la presenza di segni di encefalopatia, e la diminuzione della differenza artero-venosa di O2, segno di una diminuita estrazione cellulare indicano che si sta passando alla fase pre/terminale. In questa fase, il passaggio alla fase finale dello shock può avvenire anche per l’improvviso cedimento funzionale di uno o più organi, che magari erano già parzialmente compromessi (insufficienza subliminale). Il cuore, i polmoni o i reni e il fegato sono gli organi principalmente causa di questo cedimento, qualora esista una patologia sottostante a loro carico. Fase di insufficienza multiorganica (MOF) Si hanno alterazioni di uno o più sistemi che conducono poi inevitabilmente alla disfunzione di altri e al precipitare della situazione verso la fine. Insufficienza metabolica Non responsività cellulare agli ormoni catabolizzanti, per difetto multienzimatico (principalmente piruvico deidrogenasi); cessazione del controllo epatico sulla glicemia, soprattutto per l’incapacità del fegato di utilizzare substrati aminoacidici. Questa condizione di ipometabolismo acuto provoca la cessazione funzionale di organi importanti e vitali, ed è alla base della MOF. Inoltre, l’edema cellulare interno che deriva dalla cessata funzione della Na/K+ ATPasi provoca ipovolemia. [Le alterazioni che seguono sono valide anche nel meccanismo di shock a bassa gittata, nel quale cambia solo il meccanismo patogenetico] Insufficienza respiratoria Direttamente legata all’aumento della permeabilità dei capillari alveolari, l’ARDS, che si verifica per alveolite e deposizione di mebrane di fibrina nell’alveolo, spesso è la causa alla base della cascata di fallimenti organici che si verificano. Insufficienza renale Danno glomerulare e tubulare da ipotensione, che si manifesta con anuria e accumulo di sostanze di rifiuto, come ammoniaca e creatinina. Sembra che l’endotelina sia uno dei fattori che maggiormente contribuiscono al danneggiamento del tessuto renale. E’ la causa del 40% della morte da shock, ed è una delle complicazioni più tardive, che può verificarsi anche settimane dopo l’evento acuto. Insufficienza cardiaca In genere evento tardivo, compare comunque in qualunque momento, anche perché l’attività del cuore aumenta in corso di sepsi per molto tempo anche prima dello shock. Purtroppo la forma più frequente è quella dell’insufficienza cardiaca ad alta gittata: ossia il cuore effettivamente lavora più del normale, ma è sempre comunque al di sotto delle richieste (insufficienza relativa). A causa della mancanza dei segni di scompenso, è un quadro di difficile diagnosi molto insidioso. Insufficienza epatica Fondamentale la funzione del fegato per la sopravvivenza. L’insufficienza interviene con ittero diretto (o misto) non associato ad ostruzione delle vie biliari. L’iperammonemia e gli enzimi sono comuni, e anche l’EPS. Si associa anche ipoglicemia da deficit della gluconeogenesi.

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Altre condizioni • EPS • Pancitopenia • Alterazioni atrofiche della mucosa intestinale : derivate dalla carenza di sangue e dal mancato stimolo funzionale, queste alterazioni spesso si accompagnano ad una diminuzione barriera intestinale contro le infezioni, e quindi a peritonite settica 4.3 PARAMETRI E DIAGNOSI DELLO SHOCK I dati disponibili sono così tanti, sia clinici che di laboratorio, che è indispensabile l’interpretazione dei risultati. I segni clinici che abbiamo descritto precedentemente sono addizionati da una serie di esami di laboratorio e di parametri ematici, come: • Pressione arteriosa: poco significativa, perché è una condizione necessaria e non sufficiente perché coesista una perfusione tissutale adeguata • Frequenza cardiaca • Pressione venosa centrale: indica la presenza di una insufficienza primitiva o secondare di cuore assoluta, con accumulo di precarico. • Output cardiaco: frequenza X gittata • Emogasanalisi con test del pH ematico: valutazione della situazione metabolica e della funzione polmonare, di un compenso metabolico e/o respiratorio dell’acidosi. • Emogasanalisi del sangue venoso centrale: valutazione dell’estrazione di O2 dal circolo ematico. • Ematocrito • Lattato ematico • Diuresi Il catetere di Swan-Ganz serve per misurare la pressione nell’arteria polmonare, indice più affidabile della PVC, e permette la misurazione della pressione nell’atrio destro del cuore. Terapia  Nello shock a basso flusso, si deve mantenere una adeguata quantità di sangue e pressione (che in questo caso è proporzionale alla perfusione tissutale), e quindi si agirà: • Sulla volemia (soluzioni expander e trasfusioni di sangue intero) • Sull’ossimetria • Sull’equilibrio acido-base ed elettrolitico • Sulla funzione renale • Sul sostegno del cuore e la prevenzione delle aritmie Inoltre naturalmente si deve riconoscere e rimuovere la causa di shock primitiva e trattare emorragie, embolie, infarti eccetera  Nello shock ad alto flusso, è fondamentale trattare l’infezione, sostenendo nel contempo gli organi compromessi o in difficoltà. Eventualmente le soluzioni expander sono indicate per la possibilità di un sequestro di fluido nei tessuti. Accanto alla terapia antibiotica, che viene effettuata tenendo conto della tossicità dei farmaci su organi eventualmente compromessi, si deve prevedere la rimozione del focolaio settico quando e appena è possibile.

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CAP 3 L’EQUILIBRIO IDROELETTROLITICO E ACIDO/BASE 3.1 EQUILIBRIO IDROSALINO DEL PLASMA Il contenuto acquoso dell’organismo, variabile dal 50 al 70%, è correlato a diversi fattori come il sesso, l’età e la presenza di tessuto adiposo, che è povero di acqua fin quasi all’assenza. Le entrate di acqua e sodio sono rappresentate da: • Acqua bevuta: 800-1500 ml • Acqua alimentare: 500-700 ml • Acqua metabolica: 150-300 ml • Sodio: 50-70 mEq Le uscite: • Acqua nelle urine: 800-1500 ml • Acqua nell’intestino: 100-150 ml • Acqua della prespiratio insensibilis: 600-900 ml (fino a 3-4 l nella sudorazione profusa) • Sodio nelle urine 10-80 mEq(media 40) • Sodio nell’intestino: 0-20 mEq Comparto plasmatico: 3000 ml Comparto extracellulare: 28000 ml Comparto interacellulare: 13.000 ml (di cui 1.500 transmembrana) L’osmolarità del plasma dipende soprattutto dalla natremia ed è regolata in modo essenziale dal rene. Ci sono fondamentali differenza fra i liquidi intracellulari ed extracellulari, dovuti soprattutto alla presenza di proteine e all’inverso rapporto sodio/potassio che sussiste dentro la cellula rispetto a fuori. Quindi l’attività osmotica (numero delle molecole disciolte) e l’attività elettrochimica (numero delle cariche isolate) in una soluzione è diversa nei vari comparti. Riequilibrio idro/elettrolitico nel postoperatorio Il paziente nell’immediato postoperatorio ha perso una quantità di liquidi che deve essere reintegrata, per via endovenosa, anche per compensare la quantità di essi che doveva essere assunta per bocca normalmente. Se la pressione arteriosa, l’ematocrito e la crasi ematica sono normali, allora si passa ad equilibrare gli elettroliti, sempre per endovena. Infatti, nell’immediato postoperatorio non è possibile contare sui normali meccanismi di assorbimento di liquidi dall’intestino perché siamo in presenza di ileo paralitico. Le principali alterazione degli elettroliti PATOGENESEI EZIOLOGIA CLINICA TRATTAMENTO Alterazione Iperidratazione extracellare

Aumento della ritenzione idrica e di sodio, oppure eccesso di sodio in difetto di acqua.

Iperidratazione cellulare

Diminuzione della osmolarità • del plasma e passaggio di acqua dal plasma alle cellule, secondaria ad un eccesso di • acqua o ad un difetto di sodio

Disidratazione extracellulare

Perdita del patrimonio di sodio, simile alla forma precedente.

21. Glomerulonefr iti 22. Sindromi nefrosiche 23. ICC 24. Cirrosi compensata Apporto di acqua eccessivo rispetto a quello di sodio Inappropriata secrezione di ADH



Digestivo: vomito, diarrea



Renale: nefropatie e diabete, aumento

Edema fino all’anasarca

Diuretici ed astinenza dal sodio

Disturbi digestivi (nausea, vomito, assenza di sete) e neurologici (cefalea, nevralgie, parestesie fino al coma) Riduzione della natremia Segni di disidratazione cutanea, tendenza al collasso, ipotenzione, assenza di sete, contrazione della diuresi,

Somministrazione di sodio o eliminazione di acqua a seconda della eziologia e di quale alterazione si è verificata Reidratazione con perfusione di soluzioni fisiologiche. Nel caso di iperidratazione cellulare associata, si da anche una

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164 /278 eccessivo di aldosterone

• Disidratazione cellulare

Bilancio negativo di acqua rispetto alle perdite, compare sempre con iperosmolarità plasmatica

maggiore quota di sodio rispetto all’acqua

Compare quando il paziente non è in grado di compensare le perdite. Sete, secchezza delle fauci, alterazioni respiratorie e neurologiche, fino al coma

Somministrazione di acqua, per via orale o nasogastrica se la via enterale è praticabile e il sensorio integro. Altrimenti, soluzioni glucosate per EV. Associare ormone ADH nel diabete insipido.

Cutanea: colpo di calore •

Colpo di calore e disidratazione • Ipertermia nel coma • Vomito e diarrea • Diuresi osmotica Iperglicemia, somministrazione di diuretici osmotici

Cloruro di sodio, o bicarbonato di sodio, a seconda dello stato dell’equilibrio acido/base. Nel caso di Vera: perdita di sodio reale, Perdita di sodio da Come la disidratazione collasso, importante iposmolarità plasmatica ed qualsiasi causa, come extracellulare stabilire prima la volemia extracellulare con associata nella disidratazione con expander iperidratazione cellulare extracellulare Ipernatremia Meno frequente, conseguenza Essenziali: rare, turbe di Nelle essenziali, il difetto Come la disidratazione, di un bilancio negativo regolazione della centrale si manifesta con infusione di liquidi però dell’organismo con natremia. assenza del senso della ipotonici con diluizione conservazione del sodio sete. Nelle secondarie la del plasma Secondarie sete è invece intensa Il deficit di potassio si valuta non con la kaliemia, che è la concentrazione plasmatica di potassio, ma con il rapporto fra questa e la distribuzione totale, anche intracellualare, di potassio. Questo rapporto è molto più importante, perché raramente la kaliemia crea disturbi se è alterata senza variazioni della concentrazione totale. Ipokaliemia con Perdite massive di potassio per Vomito, diarrea, (kaliuria Alterazioni della Eliminare le perdite e diminuzione via digestiva o renale. minima), muscolatura cardiaca di correggere il deficit. totale Raramente carenza di apporto iperaldosteronismo, tipo aritmico, paralisi Dieta ricca nelle forme diuretici drastici della muscolatura lievi, cloruro di potassio (iperkaliuria) intestinale, e ipotonia o citrato di potassio in muscolare fino alla quelle severe a seconda paralisi. Sotto a 2 rischio del pH ematico. Molte elevato di arresto interazioni con digitalici cardiaco e con altri elettroliti. Ipokalemia senza Passaggio del potassio dal Malattia di Westphal Paralisi a trasmissione diminuzione settore intra a quello familiare totale extracellulare Iperkalemia Condizioni che diminuiscono Oligo/anuria. Alterazioni dell’ECG con Favorire la penetrazione l’eliminazione. Intossicazione e Nell’insufficienza renale minaccia di fibrillazione, del potassio nelle cellule: rabdomiolisi (grave) è rara, perché il rene parestesie e paralisi soluzioni glucosate conserva a lungo la flaccida (molto rara) ipertoniche capacità di eliminarlo accompagnate da insulina e alcalinizzazione del plasma Ipocalcemia Deficit di assorbimento renale e Molte condizioni di Alterazioni Calcio gluconato o calcio di riassorbimento osseo e infiammazione acuta neuromuscoalari, cloruro. intestinale. Deficit di vitamina (pancreatiti) e disturbi fascicolazioni, e spasmo D3 e quindi della sintesi di endocrini e delle laringeo. Alterazioni PTH paratiroidi. Osteolisi, ECG insufficienza renale Anoressia, nausea, Sodio, diuretici che Ipercalcemia Abnorme riassorbimento osseo Neoplasie, esagerato riassorbimento iperparatiroidismo, TBC, vomito, ileo, astenia interferiscono colesterolo enterale sarcoidosi, berilliosi... muscolare, convulsioni riassorbimento renale, fino al coma, alterazioni farmaci che impediscono ECG. Calcificazioni altri riassorbimenti metastatiche

Iponatremia

Falsa: una parte del volume cellulare è occupata dal un soluto diverso dal sodio

disturbi neurologici

3.2 EQUILIBRIO ACIDO-BASE

Quantità di sodio/kg normale, no alterazioni del comparto cellulare

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Il range di pH cellulare è abbastanza ampio, da 4,5 a 7,6 mentre quello plasmatico varia molto meno, sia perché è difficile trovare in vivo valori plasmatici molto alterati, sia perchéè strettamente regolato. Valori compatibili con la vita sono fra 6,8 a 7,8. Siccome questi sistemi sono molto efficaci e molto precisi, la variazione di pH che possa minacciare la vita del paziente è un evento molto raro. L’organismo reagisce molto meglio all’acidosi che all’alcalosi, e nel pH minore di 7 non si possono somministrare le amine vasoattive, perché subiscono riduzione della loro attività. Sistemi tampone dei liquidi cellulari Nel sangue: 7. sistema HCO3- / H2CO3: in diretto equilibrio con la CO2, ha una riserva normale di 24 mmol/l ed è responsabile del 65% dell’attività tamponante del plasma. Ha una pK di 6,10, perché il suo equilibrio ottimale deve essere quello che corrisponde ad un PCO2 adeguata. 8. Proteine del plasma ed emoglobina: pur essendo anfoliti, si comportano da cationi a pH ematico. Il pK dei vari sistemi varia da 6,5 a 8. Sono responsabili del 35% dell’attività tamponante. 9. Fosfato bivalente/fosfato monovalente:meno dell’1% dell’attività nel plasma. Nel liquido interstiziale ci sono i Bicarbonati soltanto, perché il liquido interstiziale è privo di proteine, e nelle cellule sono invece attivi principalmente i fosfati. Regolazione polmonare e Il polmone attraverso l’eliminazione della CO2 modifica l’equilibrio acido-base rendendo però un servizio limitato perché non è in gradi di eliminare gli acidi fissi, ma solo di amplificare (comunque enormemente) l’attività del sistema del bicarbonato. La messa in opera di questi meccanismi è immediata, per via della sensibilità dei chemocettori centrali. Rene Elimina gli acidi fissi (cioè quelli legati alla molecola, che non possono essere rimossi da nessun sistema tampone) e produce con lo stesso meccanismo ioni bicarbonato. Infatti l’escrezione avviene sottoforma di ioni ammonio. Il pH urinario varia da 4,4 a 8, e la capacità di eliminare acidi si aggira attorno alle 20-40 mmol di protoni al giorno ACIDOSI RESPIRATORIA Un pH inferiore a 7,38 con una CO2 maggiore di 42 significa acidosi legata all’accumulo di CO2 da insufficiente ventilazione. Di solito c’è un difetto respiratorio, altre volte può essere soffocamento da eccessivo assorbimento, oppure aumentata produzione endogena. Si ha una forma acuta, con rapido aumento della pCo2 e con diminuzione della presenza di bicarbonati, in cui il compenso renale non è importante. In questa fase il pH scende soprattutto nel liquor, dove non ci sono proteine che lo tamponano, e quindi lo stimolo arriva al centro respiratorio. Si ha quindi un’iperventilazione che tenta di compensare l’aumento di CO2. Ciò è ovviamente deleterio se si ha una saturazione di CO2 atmosferica. Le forme croniche, tipiche delle CORD, sono tipicamente compensate con aumento della CO2, ma pH ematico normale. Risultano aumentati i bicarbonati plasmatici Clinicamente, l’aumento della Co2 determina effetti periferici e centrali. Sui vasi e sulla muscolatura cardiaca produce depressione, quindi abbiamo effetto aritmogeno e vasocostrizioni periferiche, per l’effetto di liberazione delle catecolamine periferiche. Sul SNC, soprattutto a causa della dilatazione, si produce edema che induce turbe dell’attenzione, cefalea, fino al coma e alla morte. Frequente anche l’ipertensione arteriosa sistemica e polmonare La rimozione della CO2 deve essere fatta gradualmente, per non indurre una brusca cessazione della

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stimolazione adrenergica, che potrebbe tradursi in un collasso. Inoltre, si deve aumentare l’escrezione di bicarbonati. Si cura con la terapia della causa che ha prodotto ipoventilazione, con ventilazione artificiale in caso di insufficienza periferica, neostigmina se c’è blocco competitivo dei recettori nicotinici, naloxone per la paralisi respiratoria centrale da oppiacei. ALCALOSI RESPIRATORIA Sempre la conseguenza di una iperventilazione alveolare, con pH maggiore di 7,45. La forma acuta si accompagna ad una riduzione modesta dei bicarbonati, con pH francamente alcalino (scompansata), e la vasocostrizione celebrale che ne deriva (qui il pH aumenta molto, per la diffusibilità della CO2) facilita la comparsa di infarto celebrale. Invece la forma cronica produce una ipercloremia secondaria per la diminuzione della loro escrezione renale, che riequilibrando la forma anionica nel plasma tampona in qualche maniera il pH. A livello renale c’è riassorbimento attivo di H+ e contemporanea perdita di potassio. L’alcalosi ha effetto di vasocostrizione celebrale che produce eccitabilità, convulsioni, tetania muscolare fino al coma. A livello periferico si ha una significativa riduzione della gittata cardiaca. ACIDOSI METABOLICA Aumento degli H+ da acidosi lattica (qualsiasi condizione importante di ipossia), chetoacidosi diabetica, malattie renali da difetto di eliminazione di H+ eccetera. A parte le condizioni in cui c’è una perdita renale (nefrite acuta) o digestiva (diarrea profusa) di basi, allora si ha una importante diminuzione di basi che vengono usate per tamponare gli acidi fissi. Le cause più comuni sono: • L’acidosi lattica è un particolare tipo di acidosi metabolica comune in chirurgia, che si ha quando il lattato nel sangue si trova in concentrazione maggioredi 5 mmol/l, e che però non è diversamente a quello che si ritiene la fonte degli H che creano l’acidosi. Essa è l’ATP, che venendo idrolizzato ad ADP perde un H+. Questo avviene molto di più in condizione di ipossia, di cui il lattato è un affidabile indice. • Chetoacidosi diabetica • Fistola enterica: la comunicazione dell’intestino con l’esterno produce la perdita di bicarbonati, così come la diarrea. Le diarree più pericolose da questo punto di vista sono quelle da colera e da vipoma pancreatico (colera pancreatico) • Sindrome da gastrinoma: produzione di HCl nello stomaco aumentata; ma viene incrementata molto anche la secrezione di bicarbonato. Si realizza la particolare condizione della alcalosi ipocloremica. Il compenso viene fatto dai bicarbonati, che risultano scesi sotto a 10, e dalla diminuzione della pCO2 per compenso alveolare. La sintomatologia dell’acidosi è in gran parte in rapporto alla causadella malattia (ad esempio il diabete). Segni non specifici sempre presenti, oltre alle alterazioni umorali, sono: • Iperventilazione • Raramente alterazioni della coscienza Si cura quasi sempre risolvendo la causa; nel caso sia meno facile accedere alla terapia in tempi brevi, si possono infondere tampone bicarbonato sodico per EV. Non va bene questo nell’acidosi lattica perché in una condizione di carenza di O2, il bicarbonato legando gli H+ libera CO2, che può danneggiare le cellule già ipossiche. ALCALOSI METABOLICA Eccesso tamponi nel sangue, raramente per aumentata produzione, più spesso per perdita con vomito

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o diarrea di H+ o altri elettroliti. La CO2 risulta lievemente aumentata per la depressione dei centri respiratori, ma mai molto. Le forme digestive hanno spesso il fenomeno dell’aciduria paradossa: durante la diarrea, oltre alla perdita di cloro, causa costante di tutte le forme digestive, si ha una disidratazione, che viene compensata dal rene con il riassorbimento del sodio. In questo modo, si eliminano a livello renale H + e potassio, con acidificazioe delle urine. Cause comuni: • Iperaldosteronismo primario e secondario (deplezione di potassio e di H+) • Ipopotassiemia (diuretici e lassativi) • Assunzione eccessiva di bicarbonato, negli ulcerosi (sindrome di Burnett) • Antibiotici a livelli elevati (penicillina) • Riventilazione • Ipovolemia • Stenosi pilorica Possono comparire disturbi del ritmo cardiaco (legati al potassio), depressione neurologica e muscolare. MONITORAGGIO DEL PH: o Emogas o Phmetria o Po2 o Saturazione dell’Hb o PCO2 o Bicarbonati

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CAP 4 LE INFEZIONI, IL TRAUMA E LE FERITE 4.1 LE INFEZIONI IN CHIRURGIA Le infezioni sono la complicazione chirurgica più comune. A seconda del tipo di intervento e della contaminazione, oltre che dello stato immunitario del paziente,si ha una notevole differenza di incidenza, dall’1 al 40% degli operati. Le più frequenti sono: o Infezione delle ferite o Infezioni respiratorie o Infezioni delle vie urinari (cateteri) o Infezioni delle vie biliari o Infezioni dei cateteri venosi o Ascessi profondi e trombosi settiche Agenti infettivi implicati 19. Gram +: t. Stafilococchi  ferite e infezioni da corpo estraneo u. Streptococchi 22. Gram -: w. E. Coli x. Klebsiella y. Proteus z. Pseudomonas Particolarmente temuti fra gli anaerobi i CLOSTRIDI Nella maggior parte dei casi le ferite sono polimicrobiche, con flora diversa a seconda dell’ambiente, e variabile composizione di tipo aerobio/anaerobio, con i secondi più presenti negli ascessi chiusi. Due aspetti importanti: • La presenza nella cute e nell’intestino di patogeni opportunisti, che infettano i soggetti debilitati (anche farmacologicamente) e contaminano le soluzioni di continuo non adeguatamente protette • La diffusione a distanza dei batteri intestinali a seguito di meccanismi di traslocazione batterica, che deriva da una aumentata permeabilità della parete intestinale, a cui fa seguito la diffusione ematica e linfatica di questi batteri. Le condizioni che facilitano l’insorgere di una infezione chirurgica sono frequentemente le soluzioni di continuo delle barriere anatomiche (cateteri, prelievi, sondini, agocannule, interventi di emergenza) e le condizioni di cattiva perfusione tissutale, substrato per la gangrena e per la presenza di detriti necrotici. Le infezioni che si verificano spesso riguardano un’area isolata e rimangono quindi localizzate, formando un ascesso. A volte invece tendono a superare i tentativi di confinamento che l’organismo impone, e si diffondono come focolai settici, ma anche come presenza di batteri attivi e patogeni nel sangue (setticemia). Questi quadri preludono allo shock settico. Diagnosi delle infezioni chirurgiche • Le Infezioni di ferita sono diagnosticabili facilmente per la presenza di segni locali come l’eritema e il dolore, e la suppurazione. • Infezioni delle vie respiratorie: reperti di infezione nel torace all’esame obbiettivo, e documentazione all’RX di addensamento polmonare • Infezioni delle vie urinarie: urinocoltura positiva (105 batteri/mm3) • Altre infezioni: i criteri di certezza sono legati alle indagini specifiche nei confronti del batterio e del luogo di infezione (tamponi, coproculture, eccetera).

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In particolare problemi si pongono per determinare l’agente infettivo specifico per via del carattere polimicrobico delle infezioni che si sviluppano. Inoltre è difficile isolare gli anaerobi, per i quali vanno allestite preparazioni particolari. Si sospetta l’infezione da gram negativi quando ci sono evidenze di: • Materiale di odore fetido, essudato nero, • Infezione in prossimità delle mucose, con presenza di tessuto necrotico • Bolle e crepitio del tessuto, raccolte gassose • Formazione di pseudomembrane • Gangrena • Endocardite negativa per aerobi, trombosi settica, morsi, aborti settici, infezioni dopo interventi sul colon-retto. Trattamento Oltre ad una adeguata terapia di supporto, nutrizionale e delle funzioni vitali, è necessario per il trattamento efficace delle infezioni chirurgiche, una serie di misure profilattiche importanti che facilitano il controllo delle infezioni nosocomiali anche dal punto di vista della prevenzione primaria: • Riequilibrio idro-metabolico del paziente. • Riequilibrio delle malattie di base (diabete, insufficienza d’organo) che tendono a diminuire le difese locali e sistemiche (il diabete, ad esempio, peggiora la crasi immunitaria e la perfusione tissutale) • Corretta preparazione preoperatoria del paziente Importante anche ovviamente una rigorosa antisepsi del paziente e della zona da operare, con le procedure di lavaggio, disinfezione e preparazione del tubo digerente (importante per diminuire la carica batterica endoluminale che non si diffonde più facilmente all’organismo, tenendo conto che ci saranno successivamente processi di ileo paralitico). Infine, la chemio-profilassi preoperatoria viene eseguita secondo le specifiche dell’intervento da intraprendere, distinguendo fra gram + e gram - , aerobi e anaerobi come specie contaminanti più probabili. Tipo di infezioni frequenti Ferite Eritema, dolorabilità e indurimento dei margini sono segni precoci di infezione. La fuoriuscita di pus è un evento tardivo. Il dolore è quasi sempre presente dopo un intervento, ma se non si riduce dopo il primo secondo giorno allora è un segno di infezione, che sarà sicuramente presente quando si associa febbre. Si tratta la ferita riaprendola e drenando eventuali raccolte purulente, e si fa una disinfezione della ferita stessa. Foruncolo Infezione purulenta del follicolo pilifero; compare in tutte le aree non glabre, e si associa a squilibri endogeni dell’attività ormonale, che modificano il trofismo del pelo. Di solito da stafilococco, si risolve spontaneamente con la suppurazione lungo l’asse del pelo, e raramente è fonte di complicazione chirurgica. Favo Ascesso intradermico legato alla contemporaneasuppurazione di più follicoli vicini, che si approfondano nella cute a formare una cavità infetta unica. Aumentando di dimensioni finisce per formare un piastrone sottocutaneo, duro, edematoso, che va incontro a necrosi ischemica settica. Il diabete non controllato fornisce la prima causa predisponente alla comparsa del favo.

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Idrosadenite Infezione delle ghiandole sudoripare, con tendenza alla formazione di ascesso, sostenuta in genere dallo S. aureus, con tendenza all’ascesso e alla suppurazione. A differenza del foruncolo, ha la tendenza a cronicizzare e si distingue da esso per l’assenza del pelo infetto al centro dell’ascesso. [Ascessi e flemmoni] Gangrena Infezione locale acuta, caratterizzata da necrosi dei tessuti con produzione di gas e tossiemia gravissima, sostenuta da anaerobi gram - . Spesso su ferite lacero-contuse, chiuse, con assenza di perfusione e senza esposizione all’aria. I Clostridi producono tossine necrotizzanti, che distruggono i tessuti circostanti, e provocano spesso il quadro della fascite, ossia di quell’infiammazione dei piani connettivali attorno ai muscoli, e dei piani attorno alla cute, che si diffonde attraverso di essi. Inizialmente i batteri producono suppurazione diffusa nei piani della cute, successivamente producono flemmone, e poi alla fine infettano i piani connettivali e le fasce superficiali. La gangrena gassosa è la forma di infezione più grave, che produce dolore, edema, bolle, necrosi dei tessuti, trombosi venosa e ischemia delle zone interessate. Le tossine diffondono per via ematica dando dei quadri sistemici molto gravi. Sintomi locali: • Edema • Cianosi • Flittene • Aspetto a carne lessa • Crepitazione • Secrezione di materiale purulento, fetido e gas Sintomi sistemici

• Tachicardia • Dispnea • Cefalea • Segni di emolisi • Angoscia • Diarrea • Shock • Quasi sempre assente la febbre Oltre che l’infezione delle ferite, i clostridi possono provocare quadri di infezione del lume intestinale (colite psuedomembranosa da clostridium difficilis e infezione da clostridio perfringens) e tetano. Infine, si devono ricordare le molte complicazioni che derivano dallo stare fermi a letto e le complicazioni secondarie al postoperatorio: • Infezioni respiratorie: anestetico • Infezioni urinarie: cateteri • Infezioni intestinali: chirurgia addominale e ileo postoperatorio Un’altra associazione si ha fra le infezioni e la neoplasia. Questa è una situazione predisponente perché:

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• Stato di cachessia e di immunodepressione • Frequenti ospedalizzazioni • Intervento chirurgico complesso e spesso “sporco” • Compressione di bronchi, apparato digerente o strutture linfatiche. 4.2 IL TRAUMA IN CHIRURGIA: ASPETTI GENERALI Il trauma è il trasferimento di qualunque energia al corpo umano che determina un danno anatomico ai tessuti. La mortalità nel traumatizzato ha una distribuzione in tre momenti: sul colpo (< 5%, riducibile con la prevenzione) dopo alcuni minuti od ore (massima mortalità, riducibile con la tempestività e competenza dei soccorsi), dopo alcuni giorni, dovuta a sepsi (riducibile con le adeguate misure antisettiche). Analizzeremo ora i vari tipi di lesioni traumatiche, ognuna delle quali viene distinta in aperta o chiusa a seconda della presenza o meno di una lesione di continuo nella struttura. Contusioni Lesioni che sono provocate dall’applicazione diretta di una forza. Si possono ancora distinguere in: • Abrasioni: lesione più elementare, caratterizzata dalla soluzione di continuo degli strati superficiali della cute ma da niente altro. • Escoriazione: lacerazione più profonda della cute che si approfonda nel derma, con lesione di piccoli capillari e modesto sanguinamento • Ecchimosi: accumulo di sangue nel derma e nel sottocute, causata dalla rottura di capillari per una contusione superficiale della cute • Ematoma: contusione più profonda nella quale i vasi rotti sono di dimensioni maggiori, e si ha una raccolta ematica più abbondante che può scollare i piani della cute. • Necrosi: lesione più grave, a seguito di un colpo violento, che si manifesta con rottura di un vaso o dei nervi che provocano necrosi ischemicadei tessuti. Distorsioni Lesioni degli apparati capsulari e legamentosi delle articolazioni che rendono possibili in esse moviementi abnormi. Rotture e stiramenti di tendini, lesini della capsula o della cartilagine articolare possono essere responsabili di questo quadro. Emartro Raccolta di sangue in una cavità articolare, che è secondaria ad una distorsione o ad una contusione Lesioni muscolari • Contusione: lesione a guarigione spontanea, che si associa ad ematoma locale ed eventualmente a parziale lacerazione delle fibre. • Contusione multipla: come sopra, ma diffuso a molti muscoli, con la presenza di distruzione muscolare estesa. Ne conseguono lesioni degenerative a carattere necrotico, che portano all’accumulo di mioglobina e di altre sostanze tossiche che sono alla base delle complicanze renali, che si mantengono anche per una ENERGIA TIPO DI TRAUMA settimana. Meccanica Aperto (ferita d’arma) • Ferite: conseguenza di traumi diretti Chiuso (incidenti) aperti della cute soprastante: taglio, Ustioni punta, ecc. Viene sempre riscontrata una Termica Congelamenti emorragia, spesso associata ad un Elettrica Folgorazioni processo infiammatorio Chimica Avvelenamenti • Rotture muscolari: si manifestano o a Ustioni seguito di una malattia Causticazioni miodegenerativa, solitamente il tifo, in Radiodermite e malattia da raggi seguito a sforzi anche minimi, oppure in Nucleare

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seguito a traumi che si applicano in un muscolo normale. La terapia è soprattutto chirurgica. • Ernie Lussazioni Perdita del contatto fra i capi di una articolazione. Si chiama sublussazione quando i capi articolari rimangono parzialmente in contatto fra di loro. Possono essere congenite, patologiche per malattie degenerative di articolazioni, oppure traumatiche. Alcune volte sono recidivanti, e possono arrivare a manifestarsi anche in presenza di un piccolo sforzo. Sono pericolose perché si possono associare a lesioni dei tronchi nervosi o dei grossi vasi (complicanze immediate) oppure ad osseificazione dei capi articolari e da atrofia e necrosi delle strutture non più correttamente irrorate. Fratture Soluzione di continuo completa o parziale di un osso. Possono essere classificate in diverso modo: • A seconda del numero di interruzioni scheletriche: o Unifocali o Bifocali o Plurifocali • In rapporto al livello scheletrico di frattura o Diafisarie o Metafisarie o Epifisarie • In rapporto all’entità del danno scheletrico o Complete o Incomplete In relazione al meccanismo di frattura, distinguiamo: • Fratture da flessione: a carico delle ossa lunge, accentuazione traumatica della normale curvatura di un osso. Di solito a rima trasversale, cede la parte dal lato convesso della curva • Fratture da torsione: più frequenti di tutte, l’osso tollera male la torsione lungo il proprio asse • Compressione: tipica dei dischi vertebrali, riguarda solamente il tessuto spugnoso • Da strappamento: causate dalla brusca trazione esercitata da un tendine o da un capo articolare. 4.3 LE FERITE La ferita è una soluzione di continuo della cute . Tendono a guarire secondo due modalità, per prima intenzione , ossia quando i margini sono completamente collabiti e non si forma tessuto cicatriziale, oppure per seconda intenzione, quando si forma necessariamente del tessuto cicatriziale oppure si hanno sovrapposti dei processi infettivi o altre complicazioni. Le fasi del processo di riparazione sono: • Formazione del coagulo • Retrazione del coagulo con avvicinamento dei margini della ferita • Invasione dei fagociti • Proliferazione del tessuto di granulazione • Riepitelizzazione • Organizzazione della cicatrice, che si forma perché la proliferazione della parte fibrosa del tessuto di granulazione è maggiore di quella della parte cellulare. La cicatrice, non vascolare, dura e anelastica, può in seguito andare in contro alla retrazione¸che può anche essere causa di lesioni deturpanti. Invece altra cosa è la contrazione della ferita, che si completa nell’arco di una dozzina

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di giorni, e dipende dalla contrazione delle cellule muscolari presenti nel tessuto di granulazione. Le ferite, profonde o superficiali, possono essere distinte in • Lineari: margini netti e continui. Sono le tipiche ferite da taglio • Contuse: margini frastagliati, spesso necrotici, che devono essere accuratamente ripuliti ed asportati. Sono caratterizzate da ematoma dei bordi, che rappresentano una spaccatura per la pressione esercitata sulla cute • Lacere: ferite rappresentate da bordi frastagliati e di spessore irregolare. Spesso i bordi sono contusi e quindi si ha il quadro della feritalacero-contusa.

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CAP 1 LE EMERGENZE UROLOGICHE 1.1 EMERGENZE NON TRAUMATICHE ANURIA ESCRETORIA L’anuria, cioè la completa abolizione dell’escrezione urinaria, può essere • Pre-renale: ipoperfusione renale da qualsiasi causa  trattamento medico • Renale: danno del parenchima  trattamento medico e dialisi • Post-renale: ostruzione delle vie escretrici o della vescica  trattamento chirurgico In genere l’anuria post renale riconosce due cause: • Anuria escretoria: dovuta alla presenza di un ostacolo (calcolo o coagulo) nell’uretere o nella pelvi; l’urina si accumula nel rene e nelle alte vie escretrici e non raggiunge la vescica. • Ritenzione urinaria acuta: urina accumulata in vescica senza possibilità di svuotamento La seconda condizione risulta naturalmente molto meno grave della prima, e anche di più facile diagnosi per la vescica palpabile e distesa, senso di peso e dolore ipogastrico. Anuria escretoria Può essere monolaterale nel paziente con un solo rene funzionalmente attivo, ma di solito è bilaterale anche se l’ostruzione interessa un uretere solo: l’altro rene, infatti, subisce una riduzione del flusso ematico e una riduzione della sua funzione pervia dell’attivazione del simpatico e del sistema renina angiotensina, che porta alla liberazione di PG ad azione costrittrice. L’anuria può essere sopportata bene dal paziente per 3-4 giorni, ma dopo questo periodo tende ad andare in insufficienza renale e l’ostacolo deve essere superato. E’ necessario cateterizzare dalla vescica fino a monte dell’ostruzione, o se non è possibile praticare un accesso percutaneo ecoguidato nella zona lombare e inserire un catetere nella pelvi. Lo studio e l’eliminazione della causa di anuria può venir posticipato ad un secondo momento per la gravità dell’emergenza. Una volta superato la fase acuta, si ha una ripresa della funzione con poliuria compensatoria, mentre se non si supera si arriva alla iperidratazione, iperazotemia e ipercreatininemia, fino alla sindrome uremica acuta e alla morte. Ritenzione acuta E’ sufficiente effettuare una cateterizzazione in vescica e lasciare in sede il catetere finché perdura la situazione acuta. La decompressione della vescica deve essere fatta lentamente per impedire la rottura dei vasi sottomucosi. Le cause possono essere molte, dalla prostatite, alle neoplasie uretrali e prostatiche, alla vescica neurogena. COLICA RENO-URETERALE Mentre la distensione graduale e lenta dell’apparato urinario si può sopportare senza eccessivo dolore (come ad esempio nell’idronefrosi), la presenza di un ostacolo improvviso e la relativa distensione rapida delle vie urinarie, della pelvi e dei calici provoca un dolore intenso e caratteristico detto colica ureterale. Le cause, che possono essere intrinseche o estrinseche all’apparato urinario sono spesso la calcolosi, lembi di tessuto renale (necrosi papillare), coaguli (ematuria), neoplasie e processi flogistici (dell’uretere o delle strutture vicine) o malformazioni come il reflusso vescico-uretrale. Solitamente insorge all’improvviso nella notte o nelle prime ore del mattino, con dolore acuto che sale rapidamente ad un acme e poi diminuisce altrettanto in fretta, ma non scompare mai del tutto. Dura alcuni minuti od ore, occasionalmente può avere una fortissima intensità.

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La sede è tipicamente lombare, ma può anche, a seconda dell’area interessata dall’ostruzione, spostarsi lungo il decorso dell’uretere anteriormente, in sede ipogastrica o inguinale fino allo scroto o alle grandi labbra. Inoltre tutto l’addome può presentare dolori diffusi, tanto da necessitare a volte di una diagnosi differenziale con l’addome acuto, anche se in genere risulta trattabile e la difesa muscolare è modesta e localizzata prevalentementeal lato interessato. Sintomi associati sono spesso nausea, vomito, tachicardia ma non febbre (diagnosi differenziale con infezioni urinarie), diminuzione della peristalsi a volte fino all’ileo adinamico (diagnosi differenziale con addome acuto). Di solito la colica renale non riesce ad ostacolare del tutto il flusso dell’urina in vescica: nella maggior parte dei casi si verifica oliguria, che è derivata dalla diminuzione dell’attività del rene sano e della vescica per l’ipertono simpatico, come si diceva prima, mentre l’anuria si manifesta occasionalmente ed ha le stesse cause. Infatti l’ostruzione al deflusso porta ad aumento della pressione interna della capsula di Bowman, e quindi una diminuzione della pressione di filtrazione; si attivano allora quei sistemi di vasocostrizione (PG, renina) che servono a mantenere elevata la PFG. Questo però si traduce in una diminuzione del flusso al rene da tutti e due i lati, ma più marcatamente dal lato colpito. Questo fenomeno, che provoca oligo-anuria, è limitato alla fase acuta della colica ostruttiva, ed è reversibile alla rimozione dell’ostacolo. La diagnosi di questa condizione viene fatta con anamnesi ed ecografia. All’anamnesi risulta importante identificare la zona e le modalità di insorgenza del dolore (spesso il paziente si presenta con dolore diffuso), e l’associazione temporale con il vomito e la nausea. Spesso questo è sufficiente a sciogliere il dubbio dell’addome acuto. La manovra di Giordano non sempre è eseguibile per la dolorabilità diffusa, ma si ritiene comunque significativa la dolenzia delle logge renali. L’ecografia, ed eventualmente la diretta addome permettono quasi sempre una diagnosi corretta. L’analisi del sedimento urinario permette di diagnosticare le UTI e la presenza di micro o macro ematuria da calcoli. Bisogna ricordare che l’ematuria microscopica può aversi anche in corso di appendicite o di una annessite. TAMPONAMENTO VESCICALE Condizione in cui, a seguito di ematuria o di necrosi papillare, la vescica si riempie di coaguli e vario materiale e non si svuota. La condizione di tamponamento vescicaleè abbastanza frequente nell’ematuria e nella necrosi papillare, ed è aggravata in queste condizioni dalla oligo-anuria che vi si accompagna e che impedisce ai coaguli e al materiale necrotico di solubizzarsi e di venir escreto con l’urina. 1.2 EMERGENZE TRAUMATICHE TRAUMI DEL RENE Nonostante questi organi siano protetti dalle coste e dalla colonna vertebrale, e circondati dal grasso perirenale, i traumi del rene sono molto frequenti e avvengono spesso durante incidenti stradali, attività sportive o infortuni sul lavoro. La protezione di cui gode l’organo tuttavia ha una conseguenza, e cioè il fatto che soltanto il 10% dei traumi renali sono aperti (ferite da taglio o da fuoco), mentre nel 90% dei casi si tratta di traumi chiusi da compressione. Il rene infatti è un organo parenchimatoso che è ben protetto contro le penetrazioni, ma molto poco resistente alla compressione indiretta. Si tratta quindi spesso di eventi come i colpi forti sull’addome (calci, ginocchiate, caduta, incidenti stradali), la brusca decelerazione (precipitazione, incidente stradale, bungee jumping), oppure la penetrazione delle ultime coste in caso di rottura.

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Le lesioni renali possono essere di vario grado di gravità: 1. Contusione: con edema, e con o senza ematoma sottocapsulare 2. Lacerazione: rottura parenchimale limitata. C’è ematoma ma non lacerazione della via escretrice 3. Frattura: lesione a tutto spessore del parenchima compresa la vie escretrice con spandimento di urina (urinoma) 4. Spappolamento e lesione del peduncolo: gravissime emorragie L’arteria renale porta l’11% della gittata cardiaca e quindi le emorragie di essa sono estremamente massicce. Clinica e diagnosi Il paziente si presenta n varie condizioni, anche perché a volte i sintomi renali possono essere mascherati dalle lesioni a carico di altri organi. I segni più frequenti sono: • Ematuria macroscopica totale: la sua entità non corrisponde alla gravità del danno renale,come ad esempio nel distacco del peduncolo dove c’è emorragia interna gravissima ma non ematuria • Dolore al fianco • Peritonismo e difesa muscolare • Anuria e oliguria: non sono frequenti. Se sono presenti possono essere legati allo shock ipovolemico, da altre cause, che si presenta insieme al danno renale. L’anuria deve essere distinta dalla ritenzione di urina in vescica o da rottura della vescica o dell’uretere, • Febbre: rara. Può insorgere durante il trauma per moltissime altre cause • Shock: presente sia all’esordio che legato all’evento traumatico. L’ematoma renale e la sua emorragia non sono in genere gravissimi soprattutto se è conservata la fascia di Gerota, e anche se può penetrare nel retroperitoneo dalla parte bassa della loggia renale, in genere non si ha stravaso peritoneale di sangue nei traumi chiusi (non emoperitoneo) Laboristicamente, assume grande importanza l’esame completo delle urine e del sangue, con controllo dell’ematocrito nelle ore successive al trauma, della funzione renale (creatinina, azoto). Le tecniche di imaging più informative sono la diretta addome, l’urografia e la TAC. Terapia Per i traumi di livello 1 e 2 è importante l’attesa sotto controllo delle funzioni vitali, il riposo a letto assoluto per 3-5 giorni e la profilassi antibiotica con farmaci ad ampio spettro (cefalosporine, sconsigliati gli aminoglicosidi per la tossicità renale) e antidolorifici. Anche molti mesi dopo è possibile l’insorgenza di una ipertensione nefrogena da costrizione renale. Per i traumi di livello 3 non è sempre conveniente operare: oggi si tende a pensare che nel caso di una lesione che interessi la via escretrice con un urinoma sia opportuno non attendere, così come quando c’è un voluminoso ematoma retroperitoneale. I traumi di livello 4 vengono sempre trattati chirurgicamente, ma spesso la lesione dell’arteria renale non permette, per quanto sia precoce la diagnosi, di salvare il rene dall’ischemia. TRAUMI DELL’URETERE, VESCICA E URETRA, TESTICOLO Uretere Causati quasi sempre da ferite addominali penetranti, e quasi mai da traumi chiusi, hanno una serie variabile di gravità. Infatti la sezione netta dell’uretere è ben tollerata e riparabile, perché i margini sono vascolarizzati, mentre l’asportazione di una parte di uretere (proiettili ad alta velocità), che è il trauma più comune, è molto più grave. Sintomi aspecifici, il dolore non è specifico, c’è ematuria solo nel 50% dei casi (senon c’è stata interruzione dell’uretere), l’oliguria e l’anuria sono presenti solo nei casi di lesione di rene unico

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Vescica Nel bambino la vescica è esposta nell’addome e può essere sottoposta a trami diretti penetranti, mentre nell’adulto viene sottoposta per lo più a traumi indiretti, essendo circondata da strutture ossee rigide. Si tratta quindi praticamente sempre di rotture da compressione che riguardano più spesso la parte superiore, rivestita dal peritoneo soltanto, e la presenza di diverticoli o altre lesioni facilita la rottura. Se la rottura è piccola, la vescica può contrarsi e generare una pressione sufficiente alla minzione, e in questo caso sarà presente ematuria totale. Sintomi tipici sono ematuria, dolore addominale con o senza peritonismo, e mancanza dello stimolo alla minzione. Uretra • Posteriore (prostatica e membranosa) • Anteriore (bulbare e peniena) L’uretra femminile è molto raramente soggetta a traumatismi, ma può essere soggetta a lesioni di partenza vescicale o traumi vaginali. Le cause frequenti sono le cadute (a cavalcioni) e lo schiacciamento del bacino. L’ematuria non sempre è presente, soprattutto perché il paziente può essere incapace di urinare per uno spasmo sfinterico antalgico. Dopo alcune ore è tipico l’ematoma pelvico, perineale o scrotale. La diagnosi è radiologica, e urgente, e viene fatta con diretta addome e urografia. Nella rottura delle ossa del bacino èmolto frequente la presenza di una lesione dell’uretra posteriore. Testicolo Il testicolo è sottoposto frequentemente a traumi per la sua posizione esposta. La contusione si accompagna ad edema ed emorragia intraparenchimali a risoluzione spontanea, con distruzione del parenchima che può essere, nelle lesioni gravi, anche totale. La contusione del testicolo è sempre seguita da dolore, nausea, vomito e talora collasso. La lacerazione è la rottura della tonaca albuginea ed è seguente a traumi molto gravi. Le ferite del testicolo sono frequenti, e a volte si può avere completa asportazione La lussazione consiste nello spostamento del testicolo in sede sottocutanea, nella quale è palpabile, con violento dolore locale, nausea vomito e collasso. SCROTO ACUTO Lo scroto acuto è una condizione di tumefazione scrotale con dolore variamente associata a segni locali (edema, eritema) e segni generali (febbre, nausea e vomito). Questa condizione deve essere attentamente indagata perché è essenzialmente dovuta a due tipi di condizioni, una delle quali è molto grave: 6. Orchiepididimiti 7. Torsione del testicolo Nel primo caso, la diagnosi viene fatta con la ricerca di pus nelle urine e urinocoltura, e può essere effettuata con calma perché l’affezione è benigna e può venir trattata con successo nella totalità dei casi (vedi infezioni urinarie). Invece, nel caso della torsione testicolare, si deve intervenire tempestivamente per evitare la perdita di esso. La diagnosi differenziale di queste due condizioni è importantissima e si avvale di: • Anamnesi: nell’adulto la torsione è difficilissima e non si ha praticamente mai, mentre è molto più frequente nei ragazzi prima della pubertà. Inoltre, l’infezione risulta possibile praticamente solo dopo un rapporto sessuale e quindi è molto rara prima della pubertà. Anche la presenza di episodi pregressi (subtorsioni dopo erezioni spontanee notturne) deve mettere in allarme • Segno di Prehn: nella torsione il sollevamento del testicolo verso l’alto peggiora il dolore, mentre questa manovra risulta invece lenitiva nella orchite.

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Segni dell’infiammazione: sono precoci nella orchite, tardivi nella torsione. In quest’ultima, la febbre non è sempre presente e a volte arriva dopo il dolore, a differenza della orchite. • Riflesso cremasterico: abolito nella torsione • Esami di laboratorio: solo di supporto (emocromo, sedimento, urinocoltura, tampone uretrale) • Eco-tomografia • Scintigrafia • RMN La perdita di un testicolo può essere il primo passo verso la sterilità, sia perché chi ha subito una torsione testicolare spesso è a rischio per la torsione del testicolo residuo, sia perché spesso con la necrosi del testicolo vengono esposti antigeni normalmente sequestrati (il testicolo contiene le cellule aploidi considerate non self) e quindi si può avere in seguito una reazione immunitaria contro l’altro testicolo. La miglior cosa per la diagnosi comunque è effettuare, in caso anche di lieve dubbio, un intervento di chirurgia esplorativa: in questa maniera non si corre il rischio di perdere il testicolo. Il problema è importante perché nella maggioranza dei casi qualsiasi esame che viene eseguito non invasivo risulta troppo lento per valutare con tempestività le condizioni del testicolo. TRAUMI DEL PENE Per la sua particolare posizione anatomica il pene è sottoposto ad alcune affezioni traumatiche particolari. Infatti nello stato di flaccidità risulta molto difficile che si verifichi un traumatismo di quest’organo, mentre nelle condizioni di erezione è molto più facile. La maggior parte dei traumi del pene avvengono infatti durante gli atti sessuali. La tonaca albuginea che riveste i corpi cavernosi pieni di sangue in erezione ha una possibilità molto maggiore di lacerarsi che durante lo stato flaccido; il trauma in cui c’è una lacerazione della sola albuginea sono detti chiusi, quelli in cui è interessata anche la cute e le fasce peniene sono detti aperti. • • • • •

Contusioni Lussazioni Traumi dei corpi cavernosi Ferite cutanee Amputazione

Sono tutti eventi abbastanza rari. Il più comune fra questi è la frattura dei corpi cavernosi, derivata da un forte urto che tende a piegare l’organo eretto (spesso durante il coito per la fuoriuscita accidentale del pene dalla vagina). Provoca violento dolore, detumescenza dell’organo e un ematoma localizzato all’asta se rimane integra la fascia del Buck, allo scroto e al perineo se questa è rotta. Se l’uretra è integra non si ha ematuria. Spesso a seguito di questi traumi rimane una curvatura patologica del pene in erezione oppure si sviluppa insufficienza erettile (fibrosi dei corpi cavernosi e dell’albuginea). Le ferite superficiali si possono trattare efficacemente come qualsiasi altra ferita cutanea, mentre invece il trauma aperto dei corpi cavernosi o l’amputazione produce gravissime emorragie che possono portare anche alla morte. Fimosi e parafimosi  La fimosi è un restringimento della cute dell’orifizio prepuziale tale da rendere impossibile la retrazione della cute sopra il glande. Di solito è una affezione congenita, ma può anche essere infiammatoria o cicatriziale, o addirittura secondaria ad eventi neoplastici del prepuzio. Predispone alle infezioni balano-prepuziali e può essere fonte di disfunzione erettile anche grave (in alcuni casi produce impossibilità alla minzione). Il trattamento è chirurgico e consiste nella circoncisione.

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 La parafimosi è una conseguenza della fimosi: si ha quando il restringimento della cute si porta indietro e si incastra nel solco balano-prepulziale (il solco fra il glande e l’asta). Qui provoca una severa stenosi linfatica e venosa del glande, che diviene edematoso e spesso rende impossibile la riduzione manuale della fimosi. Se la riduzione manuale è impossibile il glande può andare in necrosi ed è necessario un intervento chirurgico di resezione dell’anello stenotico.  Le sinechie balano-prepulziali sono delle aderenze cutanee che si formano fra la parte interna della cute del prepuzio e il glande. Sono frequenti nel bambino,nelle forme tenaci possono saldare il prepuzio sopra il glande, e devono essere rimosse (spesso basta scoprire il glande con unacerta forza) per consentire una buona igiene del pene. Priapismo Condizione acuta di erezione incontrollata e non legata agli atti sessuali, che interessa però soltanto i corpi cavernosi, mentre il glande e il corpo spongioso rimangono flaccidi. Il priapismo è legato alla creazione di uno squilibrio ematico fra i flussi in uscita e quelli in entrata nell’organo, e può essere quindi di due tipi: • A basso flusso (ischemico): in questa forma si ha una diminuzione del flusso in uscita, si crea stasi e iperemia passiva. Entro 8-12 ore il tessuto diventa edematoso e quindi fibrotico con conseguente impotenza. • Ad alto flusso (non ischemico): si ha un eccesso di flusso in entrata, e sebbene vi sia una erezione permanente e dolorosa, non si ha ischemia e non si crea fibrosi ed edema. Idiopatico nella metà dei casi, si può avere per abuso di farmaci e di droghe, per malattie sistemiche o traumi. Sono soprattutto i farmaci vasoattivi somministrati per via intradermica a provocare questa condizione. E’ da considerarsi una vera e propria emergenza urologica, e l’obiettivo immediato è quello di correggere il drenaggio venoso evitando la fibrosi del tessuto cavernoso, che si fa con l’iniezione di farmaci vasocostrittori in loco e con aspirazione.

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CAP 2 MALFORMAZIONI ALTE DELL’APPARATO URINARIO 2.1 ANOMALIE DEL RENE E DEI GROSSI VASI ANOMALIE DI NUMERO Vengono scoperte di solito per calcolosi, traumi o altre condizioni che spingono a fare accertamenti più approfonditi come ecografia o TAC. • Rene unico: rara, maggior frequenza nel maschio. Il rene unico ha una maggiore possibilità di essere posto in sede ectopica, e viene di solito ad avere una cavità pielica più grande. E’ di dimensioni circa doppie del normale. • Rene soprannumerario: per essere tale deve essere fornito di vie escretrici e di vascolarizzazione autonoma. Di solito più piccolo del normale, si situa al di sopra o al di sotto di quello normale dello stesso lato, dal quale è separato o unito da un sottile istmo. L’uretere decorre fra quelli normali, oppure si infila in uno di essi, o ancora può sboccare in vescica o anche fuori di essa. ANOMALIE DI VOLUME E DI STRUTTURA Ipoplasia renale Presenza di un rene di volume inferiore alla norma e insufficientemente sviluppato, con struttura abbozzata (spesso un solo calice). Quella monolaterale solitamente è una condizione asintomatica, ma può anche dare una persistente piuria dal lato interessato, e a volte ipertensione arteriosa. Quella bilaterale si accompagna di regola a sintomi simili alla nefrite cronica con creatininemia e azotemia elevate e sintomi di rachitismo. Quando è presente ipertensione arteriosa risulta importante una diagnostica accurata del rene responsabile; spesso l’ecografia è sufficiente e la diagnosi può avvenire anche per caso durante altri controlli. Anche l’urografia (anterogradae retrograda) possono essere importanti per la diagnosi di contemporanee anomalie delle vie escretrici. La prognosi della forma unilaterale è del tutto benigna e l’ipertrofia compensatoria del rene sano permette una vita del tutto normale, mentre la forma bilaterale è grave. Iperplasia renale Aumento numerico dei lobi, delle piramidi e delle papille, non legate ad una forma di ipertrofia compensatoria. Non ha interesse clinico se non per la compressione che il rene può esercitare sugli organi vicini. Displasia Alterazione della composizione del parenchima e della morfologia del rene. Spesso si associa alla presenza di una duplicazione della via escretrice e la porzione displastica è quella che si associa alla via escretrice soprannumeraria. ANOMALIE DI FORMA • Rene lobulato • Rene corto • Rene triangolare Sono rare e di scarso interesse clinico. A volte però possono dare complicazioni come l’aumento delle infezioni urinarie e la calcolosi. La diagnosi è ecografica. ANOMALIE DI FUSIONE: RENE A FERRO DI CAVALLO E’ una anomalia abbastanza frequente,circa 1:400 e colpisce spesso il sesso maschile (2:1). Si tratta della fusione dei due reni (poli superiori o inferiori) davanti alla colonna vertebrale. L’istmo che unisce i due reni è spesso fibroso e poco vascolarizzato. Se non c’è interessamento della via escretrice, l’anomalia è compatibile con la vita. Spesso la fusione rende impossibile la rotazione interna del rene e quindi i bacinetti e la pelvi sono orientati verso l’avanti. In genere quindi gli ureteri passano al di sopra dell’istmo.

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A volte anche l’istmo presenta un uretere. Le arterie sono in genere molteplici (da 1 a 10) rendono complesse le manovre operatorie. La fusione dei poli inferiori è molto più comune della fusione dei poli superiori. Sintomatologicamente, il rene a ferro di cavallo può dare dolori soprattutto nella posizione eretta, spesso vaghi e mal definiti, che spesso si accentuano nella iperestensione della colonna (segno di Rovsing). L’ammalato quindi assume una postura lievemente flessa. In alcuni casi, la malattia assume note specifiche e si manifesta la triade del Gutierrez (alterazioni della canalizzazione intestinale, dolore epigastrico e modesto screzio urinario) cheè abbastanza patognomonica. La diagnosi viene posta radiologicamente, e completata dall’urografia endovenosa. L’aortografia aiuta a capire le malformazioni della vascolarizzazione dell’organo. Le complicazioni mediche di questa malattia (stipsi eccetera) si trattano normalmente, ma si deve tener conto della grande possibilità di recidive. Invece le complicazioni chirurgiche sono di solito trattate con la contemporanea resezione dell’istmo. ANOMALIE DI POSIZIONE Ectopie renali Rappresentano il gruppo più folto delle malformazioni del rene. Si tratta di spostamenti del rene dalla sua sede normale. Possono essere di due tipi, quelle omolaterali (in cui il rene è spostato in basso o di lato rispetto alla localizzazione normale) e quelle crociate (in cui il rene è spostato dal lato dell’altro, con o senza fusione dei due reni). In genere le ectopie sono accompagnate da complicazioni a carico dell’organo perché la vascolarizzazione provveduta al rene è anomala, avviene in maniera anarchica e insufficiente. Spesso c’è anche ristagno di urina fino a provocare, nei casi estremi, una idronefrosi. Infine si può anche avere una complicazione da compressione di vari organi vicini, come ad esempio oliguria da gravidanza nel caso di rene pelvico uni o monolaterali. A differenza della ptosi renale, il rene ectopico si porta con se i vasi e l’uretere, che hanno quindi una genesi e un decorso anomalo (cosa che rende ragione della differenza di sintomatologia e di complicazioni fra le due malattie). Il rene ectopico risulta in genere caratterizzato da una sintomatologia di dolori vaghi o senso di peso, a meno che si verifichino complicazioni vascolari o infettive (TBC renale e pielonefrosi) oppure calcolosi e idronefrosi da ristagno di urina. L’ecografia è decisamente sufficiente a porre diagnosi dell’assenza di rene dalla sede normale, ma poi serve una indagine radiologica per cercare il rene, che si può identificare con esattezza anche con l’urografia. Di notevole aiuto nella esecuzioni di interventi chirurgici è l’aortografia. Ectopia renale omolaterale • Toracica • Lombare alta (parte alta della loggia renale, vuota quella bassa) • Lombare (nello spazio fra l’ultima costa e la cresta iliaca) • Rene pelvico alto (nella parte alta del bacino) • Rene pelvico basso (nel piccolo bacino) Il rene ectopico talvolta è sprovvisto della capsula adiposa, e anche se presenta un certo grado di mobilità è più fisso del rene ptosico per l’anomala vascolarizzazione che lo tiene ancorato e anche per la numerosa quantità di processi perinefritici. Di solito la forma è leggermente anomala, ma l’ilo rimane nella sua posizione.

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Manca spesso invece il bacinetto, spesso sostituito dalle ramificazioni dell’uretere. Ectopia renale crociata Si tratta di una condizione più rara. Il rene è posto più in basso rispetto a quello normale, ha di solito un volume inferiore alla norma, forma appiattita e l’ilo in corrispondenza della faccia anteriore. Di solito l’uretere incrocia la linea mediana in corrispondenza del sacro o dell’ultima vertebra lombare e raggiunge la vescica dal lato opposto di quello dove si trovano i due reni. Questo può dare seri problemi di decorso dell’uretere,per via degli ostacoli che esso è costretto ad incrociare (mesocolon, grossi vasi, mesentere, intestino), con stasi e stenosi. Molto più rara la condizione di ectopia renale bilaterale. Rene malruotato Normalmente il rene è obliquo dall’alto verso il basso e dall’esterno all’interno. La rotazione anomala provoca malposizioni dei vasi e dell’uretere, con problemi di stenosi e di insufficienza vascolare di varia natura. Anche il colon, che ha un rapporto normale con la parte anteriore, può trovarsi compresso dallo spigolo renale, molto meno deformabile. A volte è possibile un incrocio fra i vasi e le vie escretrici con compressione di queste ultime. Normalmente il mezzo di contrasto permette la diagnosi della rotazione assieme alla RX. ANOMALIE DEI VASI RENALI Possono esserci varie anomalie dei vasi e dell’uretere Vasi arteriosi • Origine anomala • Divisione anomala: biforcazione precoce o mancata biforcazione dell’arteria renale • Decorso anomalo rispetto alla cava inferiore e al bacinetto renale • Penetrazione anomala: penetrazione in un sito diverso dall’ilo • Distribuzione anomala delle collaterali • Numero anomalo Vasi venosi Alterazioni di numero e di decorso, sono piuttosto rare. Un caso particolare è dato dalla situazione di uretere retrocavale, una condizione riguardante il rene di destra in cui la cava si accavalla sull’uretere in un tratto poco distale all’origine di questo. La diagnosi è urografica, anche se può essere suggerita dal reperto ecografico della dilatazione pielocaliciale dell’uretere fino al tratto in cui incrocia la cava. ANOMALIE DEL SISTEMA COLLETTORE (CALICE ED INFUNDIBOLO) • Diverticolo caliceale • Idrocalicosi: rara condizione in cui i calici sono congenitamente più larghi del normale, come se ci fosse una stasi ma senza ostacoli al deflusso di urina. Essendo una malformazione del tutto benigna, bisogna fare attenzione a non sottoporre il paziente ad un intervento inutile • Reni monopapillari • Calici extrarenali • Calici anormali: possono dare l’aspetto di false neoplasie (pseudotumori del rene) • Disgenesia infundibolo-pelvica ANOMALIE DELLA PELVI • Pelvi extrarenale • Pelvi bifida ANOMALIE DELLA GIUNZIONE PIELO-URETERALE Ci sono varie alterazioni che possono riguardare questa porzione, che è l’ultimo tratto del rene prima della genesi dell’uretere.

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Anomalie intrinseche della muscolatura: si ha aumento della componentecircolare che prevale su quella longitudinale della muscolatura di questa zona del bacinetto renale. La muscolatura circolare contraendosi fornisce un ostacolo al deflusso dell’urina dalla pelvi all’uretere. In questa zona infatti la peristalsi è quasi completamente assente, perché è sufficiente la pressione di urina a monte e la forza di gravità per assicurare un corretto deflusso. Anomalie vascolari: la presenza di una vascolarizzazione anomala può comprimere la pelvi o il primissimo tratto dell’uretere Posizione non declive della giunzione: la giunzione nasce in maniera non declive e non permette il deflusso dell’urina. I calici, che normalmente hanno un aspetto a semiluna, assumono una forma a clava.

In genere queste condizioni non danno dolore e sono asintomatiche, ma i calici renali, non riescono a smaltire del tutto l’urina che contengono e si allargano a spese del parenchima circostante. Il parenchima distrutto non si riforma, quindi è importante diagnosticare rapidamente queste condizioni e intervenire con l’asportazione dell’ampolla e la saldatura dell’uretere ai calici. 2.1 ALTERAZIONI DELL’URETERE GENESI ATIPICHE • Uretere bifido: uretere che origina in due componenti che si uniscono in un punto del decorso di esso e che sboccano in vescica.A seconda dell’altezza della riunione dei due segmenti si distinguono in uretere bifido alto, medio o basso. • Uretere duplice: presenza di due canali che originano da due bacinetti, decorrono indipendenti e sfociano in vescica con due fori diversi. Non da di norma complicazioni, e a volte uno dei due ureteri può finire a fondo cieco o inserirsi nell’altro. STENOSI URETERALI Anomale, e di raro riscontro. In genere sono della giunzione pielo ureterale (vedi prima), dello sbocco dell’uretere in vescica (vedi oltre) oppure del tratto medio dell’uretere. Le stenosi hanno una sintomatologia sovrapponibile a quella da ostruzione ureterale da qualsiasi altra causa, e nel bambino la sintomatologia tipo colica o dolenzia continua ha una importanza fondamentale. L’urografia permette una diagnosi precisa della stenosi e delle sue caratteristiche. Provocano danno al parenchima renale (che condiziona la prognosi) e favoriscono la calcolosi. La terapia di queste lesioni è varia a seconda delle circostanze (conservativa o demolitiva). Ultimamente si sono sviluppate tecniche di endoscopia molto efficaci che non richiedono l’intervento chirurgico. Stenosi funzionale dell’uretere (megauretere primitivo) Si ha quando la componente circolaredella muscolatura ureterale diventa predominante su quella longitudinale, un po’ come succede nella giunzione pielo-ureterale. Nel bambino da dolore e bruciore ureterale e febbre. Nel bambino spesso la febbre è sintomo di un interessamento renale o polmonare. ANOMALIE DI SBOCCO IN VESCICA Ureterocele Si tratta di una anomali legata alla dilatazione della porzione intramurale dello sbocco dell’uretere in vescica, che protrude in essa con una sporgenza voluminosa. L’urina defluisce da uno sbocco che si trova di lato alla dilatazione stessa. L’uretrocele finisce quindi per ostruire il flusso di urina in vescica, anche perché spesso della dilatazione si formano calcoli, e tutto il tratto dell’uretere, il bacinetto e la pelvi renale possono essere dilatati, e il parenchima può subire atrofia. La patogenesi di questa condizione è complessa, ed è legata ad alterazioni vescicali congenite o

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malformazioni dello sbocco ureterale. Possono coesistere altre malformazioni come la schisi delle vertebre sacrali. Sintomatologicamente non è molto attivo, se di grande entità può dare dolori renali, pielonefriti, pollachiuria e ritenzione di urina. Più frequente nella donna. Si diagnostica con la cistoscopia (protrusione all’interno del lume vescicale) e più raramente protrude addirittura dalla corta uretra femminile. La terapia è conservativa e consiste nella meatotomia dello sbocco ectasico, se non sono insorte complicazioni renali o vescicali. Uretere ectopico Più frequente nel sesso femminile, è una condizione in cui si ha lo sbocco ureteralenel residuo embrionale del canale di Wolff, che non è regredito. Lo sbocco del canale di Wolff a sua volta può essere nella vescica, e allora sarà una condizione del tutto asintomatica, oppure al di sotto di essa, dopo lo sfintere vescicale. Questo è abbastanza frequente nella donna, ed è associato alla perdita di urina presente dalla nascita e refrattaria alle cure. Se la malformazione è bilaterale e tutti e due i dotti sboccano sotto lo sfintere, avremo assenza completa della minzione. Questo è raro ma possibile. Il continuo scolo di urina provoca irritazione delle cosce e dei genitali esterni. Possono esservi complicazioni infettive recidivanti o croniche. In genere l’evidenza clinica di minzioni regolari associate a perdita continua di urina porta alla diagnosi di uretere ectopico, e l’ispezione dei genitali esterni permette in genere la diagnosi definitiva e la diagnosi differenziale con eneuresi (perdita di urina solo di notte) e incontinenza urinaria (in cui non c’è mai minzione regolare). Terapia chirurgica demolitiva se le alterazioni delle vie urinarie sono gravi, altrimenti conservativa con anastomosi fra il tratto anomalo e l’uretere normale. Reflusso vescico-ureterale Lo sbocco dell’uretere in vescicaè protetto da due meccanismo antireflusso che impediscono alla pressione estremamente elevata durante la minzione (anche 100 mmHg) di provocare il reflusso verso le alte vie urinarie: • Porzione intramurale degli ureteri con decorso ad angolo acuto. Quando la vescica si contrae per la minzione, l’uretere viene schiacciato dalla stessa contrazione vescicale per via del suo decorso. • Contrazione del trigono vescicale, dove la muscolatura è più sviluppata. Il reflusso può essere primitivo o acquisito. Nel primo caso in genere si ha uno sbocco nella vescica ad angolo retto, e quindi manca il meccanismo antireflusso, nel secondo si può avere reflusso per aumentata pressione vescicale (ipertrofia prostatica, stenosi uretrale), per infezioni con edemi della mucosa vescicale. In ogni caso esiste una classificazione del reflusso urinario basato sul reperto contrastografico dopo iniezione del mdc in vescica: GRADO REPERTO

I Reflusso nel solo condotto

II Reflusso nel rene senza dilatazione del condotto

III Reflusso nel rene e leggera dilatazione del condotto

IV Reflusso nel rene e grande dilatazione del condotto

V Reflusso nel rene con dilatazione e perdita dalla papilla.

Il reflusso può essere: • Attivo: si ha soltanto durante la minzione • Passivo: si ha sempre man mano che la vescica si riempie I sintomi sono aspecifici; quello che può più facilmente indirizzare verso un reflusso sono le infezioni urinarie (specie nei bambini), mentre i segni più gravi come l’insufficienza renale da distruzione del

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parenchima e idronefrosi sono tardivi. La diagnosi comunque si pone con la iniezione di mezzo di contrasto in vescica. Il reflusso di questo nell’uretere è sempre patologico. La terapia del reflusso è chirurgica, a parte il trattamento medico delle infezioni. Per i casi più lievi è possibile una terapia endoscopica di iniezione nella regione dello sbocco di sostanze come il collagene bovino o di silicone, che formano un ponfo sottomusoco che ferma il reflusso durante la minzione. Non è una buona terapia nei pazienti paraplegici o con forte ipertrofia vescicale. Altrimenti è possibile effettuare il distacco e il reimpianto dell’uretere.

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CAP 3 INFEZIONI BATTERICHE DELLE VIE URINARIE Le infezioni delle vie urinarie (UTI) sono fra le affezioni batteriche più comuni dopo quelle delle vie respiratorie. La presenza di batteri nel tratto urinario, eccezion fatta per la prima porzione dell’uretra, è sempre patologica. Batteriruria: presenza di germi nelle urine di almeno 100.000 unità per ml. Se i germi si riscontrano nelle urine dopo la loro emissione si parla di contaminazione delle urine per raccolta o conservazione non sterile. L’infezione urinaria manifesta richiede la presenza contemporanea di batteriuria e di leucocituria, oltre ai segni clinici di infezione. Circa l’1-3% dei neonati di ambo i sessi ha una batteriuria asintomatica. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di batteri intestinali commensali gram della famiglia delle enterobatteriacee. Sono poi possibili infezioni da pseudomonas, proteus. Meno frequenti i gram + (strepto e stafilococco) e i batteri specifici del tratto genitale (gonococco, neisseria, clamidie e micoplasmi). 3.1 PATOGENESI DELLE INFEZIONI VIRALI BARRIERE ANTISETTICHE DELLE VIE URINARIE • Parenchima renale: barriera glomerulo-capillare di filtrazione. Nonostante sia sottile, costituisce un importante impedimento alla diffusione dei batteri dal sangue alle vie urinarie. • Uretere e pelvi renale: peristalsi, giunzione uretero-vescicale anti reflusso • Vescica: fattori inibenti la colonizzazione batterica , fattore antibatterico vescicale, minzione completa • Uretra: secreto prostatico nell’uomo che contiene il fattore antibatterico prostatico, PAF, delle ghiandole vaginali e delle ghiandole uretrali. • Urina: osmolarità elevata, urea, pH acido, proteina uromucoide (lega i pili batterici impedendone l’adesione), proteina di Tamm-Horsfall Comune è l’epitelio delle vie urinarie che con la sua sola presenza fornisce una barriera che trattiene moltissimi germi dalla diffusione e penetrazione: la sua lesione è importante come fattore predisponente alle infezioni. Esso è anche rivestito di mucina (antiadesiva) e IgA. La maggior parte dei batteri, specialmente i gram – (che sono i contaminanti più frequenti) hanno bisogno di un pH neutro o alcalino per potersi replicare. FATTORI PREDISPONENTI LOCALI • Vaso anomalo • Calcolo: non essendo aggredibile dagli antibiotici, il calcolo è una sorgente inesauribile di germi • Uretere retrocavale • Neoplasie • Alterazioni dei meccanismi a valvola della vescica (reflusso) • Ostruzioni congenite del giunto vescico-ureterale • Flogosi • Compressioni estrinseche • Uretrocele • Sbocchi anomali • Aumento del volume prostatico • Brevità dell’uretra femminile • Stitichezza ed errata igiene intima (fenomeni dismicrobici con l’uso eccessivo di prodotti

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battericidi) Gravidanza Attività sessuale

• • CLASSIFICAZIONE Alte vie: pielonefriti Basse vie: cistiti, uretriti, prostatiti • • • •

Acuta Cronica (mai debellata) Ricorrente (debellata e ritornata) Complicata: se associata a fattori di rischio che tendono ad aggravare l’evoluzione o predispongono alla ricorrenza.

PATOGENI INTERESSATI Batteri Clamidia, Neisseria, Ureoplasma, Treponema, Heamophilus, Streptococchi, Germi intestinali gram -

funghi Candida albicans

VIRUS

PARASSITI

HSV 2, CMV, Papova (sierotipo Tricomonas, Phtirius pubis, papilloma 11, 13, 16, 18 Sarcoptes scabrei (scabbia) implicati nella genesi del cancro della cervice)

I germi gram – (E. Coli, Streptococco fecale, Proteus, Pseudomonas) sono responsabili da soli del 95% delle infezioni. Importante in questi ceppi è la capacità di aderire alle strutture epiteliali con apposite CAM che permettono al batterio di resistere al wash-out delle vie urinarie. VIE DI PENETRAZIONE DEI GERMI • Via ematogena: in corso di batteriemia. Una volta considerata comune per via dell’alto flusso ai reni, oggi si sa che è una condizione rara nell’adulto, ma possibile nel bambino dove si possono avere infezioni da E. Coli che diffondo al rene formando ascessi corticali e a volte progrediscono alle vie urinarie • Via ascendente: la maggior parte derivano dalla risalita di batteri di derivazione fecale nell’uretra. Sono più facili nella donna, dove lo stesso meccanismo è responsabile anche delle infezioni vaginali • Via parietale (contiguità): ascessi peritoneali, ileite terminale e altri processi che possono aprire fistole fino alle vie urinarie, traumi e interventi chirurgici. Non è sufficiente l’ingresso dei batteri a provocare infezione, ma dipende dalla virulenza di essi e dall’efficacia dei meccanismi difensivi • Via linfatica • Via discendente: raro, eccetto che nella TBC urinaria, in quanto si tratta di una infezione primaria del parenchima successivamente eliminata per batteriuria. 3.2 PIELONEFRITE Si tratta di un processo infettivo che colpisce la pelvi ed il tessuto interstiziale del rene, e si diffonde come processo infiammatorio anche ai glomeruli e ai vasi. Può essere propriamente batterica, oppure derivare da altre noxae patogene come tossine, metaboliti, allergie, e in questo caso prende il nome di nefropatia tubulo interstiziale. Qui ci occuperemo della pielonefrite batterica. Di solito si tratta di colonizzazione ascendente della pelvi da parte dei germi gram – intestinali, ma può anche essere dovuta alla diffusione dal sangue di batteri, soprattutto nei casi di ischemia renale o di ostruzioni della via escretrice. Nella pielonefrite le lesioni si distribuiscono nell’interstizio in modo parcellare, e le alterazioni dei vasi e dei glomeruli sono tardive. Al di sotto della capsula si trovano infatti numerosi focolai ascessuali alternati a zone di tessuto normale. Nella forma cronica, prevale la fibrosi diffusa del rene con perdita progressiva di parenchima e di funzione.

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La sintomatologia è di vario tipo: • Sintomi settici generali: febbre, brividi e sudorazione, a intervalli irregolari durante la giornata, associate ad inappetenza e nausea, e alterazioni della’alvo. • Sintomi urinari: o Dolore vivo alla regione lombare interessata, a volta anche dall’altro lato o Difesa muscolare dal lato interessato o Tenesmo e pollachiuria sono molto meno presenti che nelle infezioni basse o Piuria ed ematuria anche intense • Sintomi di insufficienza renale Nel bambino questi sintomi possono essere anche completamente diversi e si può avere febbricola, vago dolore lombare e anemia. Nelle pielonefriti croniche i sintomi sono in genere più sfumati con febbricola, vago dolore, disturbi della minzione e modesta insufficienza renale. 3.3 ASCESSO RENALE Localizzazione puntiforme di una infezione che da luogo alle forme ascessuali vere e proprie. In esse la partecipazione delle vie urinarie è scarsa o del tutto assente. I bacilli che fanno ascessi nel rene sono lo stafilococco e i colibacilli fecali e di norma si tratta della conseguenza di un processo di setticemia. L’ascesso può essere: • Miliare: aree diffuse di ascessi sottocapsulari (che possono colliquare il tessuto circostante e formare un flemmone) • Ascesso vero e proprio • Antrace: sviluppo del processo purulento su aree infartuali, fenomeno legato ad un’embolia settica. Un ascesso renale ha gli stessi sintomi dell’infezione sistemica che l’ha provocato, ma quando l’infezione si instaura nel rene si osserva un aumento della febbre, e anche se le urine rimangono limpide (a meno che si abbia una diffusione alle vie renali) si sviluppa oliguria e segni di insufficienza renale progressiva. Localmente c’è dolore vivo dal lato colpito. Lasciato a se, l’ascesso renale in molti casi finisce per distruggere il rene e provoca setticemia generalizzata che in breve tempo porta il paziente a morte. La prognosi è sempre infausta per le forme bilaterali. 3.4 CISTITE Cistite acuta Si può sviluppare ad ogni età, con predilezione per il sesso femminile e per i bambini, nei quali spesso è spia di una malformazione urinaria, mentre negli anziani indica spesso una stenosi od ostruzione delle vie urinarie. A volte però può anche essere legata (ed essere la spia) a patologie gravi come la TBC renale, patologie neoplastiche della vescica e delle vie urinarie, calcolosi eccetera. Il germe più frequentemente in causa, l’E. Coli, raggiunge spesso la vescica per via ascendente, ma anche per via ematica e per contiguità (annessiti, peritoniti). La vescica è edematosa e può sanguinare (cistite emorragica) oppure si può osservare ipertrofia dei follicoli linfatici sottomucosi (cistite follicolare). In genere questi quadri sono quelli più comuni che corrispondo ad una infezione superficiale, che però può approfondirsi molto e formare delle ulcerazioni o addirittura produrre necrosi della sottomucosa (cistite ulcerosa e cistite necrotica). Infine si può avere il quadro gravissimo della gangrena vescicale, in cui tutta la vescica viene distrutta

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e i tessuti superficiali vengono eliminati con l’urina. Sintomi patognomonici sono: • Pollachiuria • Urgenza minzionale (spesso incontinenza) • Dolore alla minzione (soprattutto nella fase della contrazione finale della vescica) • Tenesmo • Ematuria, ma più rara La febbre è rara nella cistite. Se presente assieme a sintomi urinari deve far sospettare una infezione delle alte vie o una prostatite. La diagnosi differenziale fra cistite e altre infezioni alte dell’apparato urinario è possibile sulla base di due considerazioni: l’associazione piuria – batteriuria – sintomi urinari c’è solo con interessamento infettivo della vescica, e la febbre c’è solo con interessamento delle alte vie urinarie. La piuria senza sintomi urinari può comparire nelle alte infezioni (e si accompagna a febbre), mentre i sintomi urinari da soli compaiono nelle forme neurogene o nel carcinoma vescicale. Cistite cronica Processi infiammatori a lungo decorso in cui si ha l’estensione del processo in profondità nella mucosa della vescica, con una spiccata evoluzione alla sclerosi. Possono dipendere da diverse condizioni, come la presenza di germi particolarmente virulenti, o fattori che favoriscono il ristagno in vescica dell’urina. Oltre alla sclerosi, permane l’arrossamento e la soffusione emorragica della mucosa, e si notato vegetazioni infiammatorie (pseudopolipi) simili a quelli della colite ulcerosa. I sintomi della cistite cronica non sono mai di tipo generale infettivo. Localmente ci sono sintomi urinari simili alla cistite acuta, ma meno intensi: • Dolenzia e dolorabilità poco intensi • Pollachiuria, che se aumenta repentinamente è un segno di evoluzione verso la sclerosi vescicale • Ematuria microscopica • Piuria e batteriuria sempre abbondati 3.5 DIAGNOSI E TERAPIA DELLE INFEZIONI URINARIE  La diagnosi eziologica delle infezioni urinarie si avvale di: • Esame urine e del sedimento urinario + urinocoltura: non si deve mai fare l’urinocoltura da sola • Tamponi uretrali • Spermiocoltura Le raccolte di urina devono essere eseguite in modo scrupoloso per evitare la contaminazione. Il metodo migliore è quello del mitto intermedio, e poi non si devono superare i 30-60’ dalla raccolta alla semina, altrimenti si avranno cariche falsamente elevate. Il metodo di Meares-Staeney permette di identificare la provenienza di una infezione: • Tampone +, urinocoltura +  infezione urinaria vescicale osuperiore • Tampone +, urinocoltura -  infezione uretrale • Tampone -, urinocoltura -, spermicoltura +  apparato genitale maschile • Tampone -, urinocoltura -, secreto prostatico +  infezione prostatica  La diagnosi dei localizzazione si avvale sia della sintomatologia clinica, che quando è chiara orienta decisamente verso una localizzazione precisa delle infezioni urinarie, sia di indagini dirette e

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indirette: • Tampone ureterale bilaterale: invasivo, rischio di infezione ascendente • Washout vescicale secondo Fairlet: svuotamento vescicale con catetere, riempimento della vescica con soluzione antibiotica, che viene rimossa dopo un’ora. In seguito si raccoglie di nuovo l’urina e si fa la coltura. In caso di infezione alta, l’urina risulta ancora contaminata • Test di dimostrazione nel siero e nelle urine di anticorpi • Dimostrazione di aumento delle proteine immunologiche delle urine (Tamm-Horsfall, β2 microglobulina, isoenzima 5 dell’LDH) • VES, proteina C reattiva  Infine, la diagnosi patogenetica mira a identificare quelle condizioni che possono favorire le infezioni urinarie nel paziente: • ecografia • TAC • RMN • RX Allo scopo di identificare stasi, reflusso, calcolosi e tumori.  La terapia delle infezioni batteriche si avvale di due tipi di presidi: le misure volte alla riduzione della stasi dell’urina nelle vie urinarie, e la chemioterapia antibatterica vera e propria. Spesso il primo tipo di intervento, con l’aumento dell’apporto idrico e la minzione completa, riesce a far regredire le infezioni più lievi, accompagnando soprattutto nella donna una completa e corretta igiene dei genitali dopo il rapporto sessuale. La chemioterapia deve essere mirata e iniziata dopo l’identificazione del patogeno e l’esecuzione dell’antibiogramma e determinazione della MIC. La coltura deve essere fatta tenendo conto delle particolari esigenze di crescita di batteri come ureaplasma, micoplasma e clamidia. Queste colture vanno richieste su preciso sospetto clinico. Si deve tener conto anche nella scelta dell’antibiotico delle sue caratteristiche di diffusione dal sangue ai vari tessuti (testicolo e prostata) e della diluizione che esso subisce nelle urine. Clamidia e ureaplasma  macrolidi Gram -  fluorochinoloni, cotrimossaziolo (bactrim) Rimuovere sempre le eventuali concause di infezione delle vie urinarie

CAP 4 CALCOLOSI URINARIA Il calcolo è una concrezione formata da sostanze organiche o inorganiche che prendono origine talvolta nei serbatoi o nei canali escretori dell’apparato urinario. La calcolosi delle vie urinarie è un fenomeno abbastanza diffuso nella popolazione: • 50 anni  17/1000 • 60 anni  46,5/1000 Alcuni fattori sembrano legati all’aumento della calcolosi: • Razza (aumento in popolazione euroasiatica) • Età (3°-5° decade) • Sesso (M 3:1) • Ereditarietà (per lo più nella calcolosi uratica, vedi) • Geografia (USA, Europa, India) • Clima (alte temperature, clima secco  disidratazione)

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• Dieta (calcio, ossalati, dieta ipeproteica, scarso apporto idrico) 4.1 LA LITOGENESI Ci sono 5 tipi di calcoli che hanno alla base della loro genesi molti meccanismi, in parecchi casi comuni: • Calcoli di calcio: ossalato di calcio, fosfato di calcio, carbonato di calcio, misti 65% • Calcoli di urea 23% • Calcoli fosfo-amino-magnesiaci: legati alle infezioni, in diminuzione 2,5% • Calcoli cistinici 0,5% • Calcoli misti: di solito infezione sopra un nucleo di calcio o urato 9% Esistono due diversi modi di formare calcoli, e diversi fenomeni che sono implicati in misura varia nella lipogenesi. I modi sono la nucleazione eterogeneae omogenea. • Soprasaturazione delle urine: secrezione nelle urine di materiali insolubili in quantità tale da superare il prodotto di solubilità per quelle sostanze e provocarne quindi la precipitazione. Queste sostanze precipitano su aggregati omogenei della stessa composizione (nucleazione omogenea) • Produzione di una matrice proteica nell’urina: questa facilita la precipitazione delle sostanze insolubili eventualmente presenti nelle urine, e si creano quindi dei precipitati composti da un nucleo proteico sul quale si addensano materiali diversi (nucleazione eterogenea) I fattori che possono favorire l’uno o l’altro modo di nucleazione sono: • Aumento di secrezione di una sostanza insolubile: determina il tipo di calcolo che si crea. Come meglio vedremo dopo, queste sostanze possono essere calcio, urati, ossalato, cistina, xantina, diossido di silicio. • Deficit di fattori inibitori: nelle urine esistono molte sostanze che hanno lo scopo di impedire l’avvenimento delle nucleazioni inibendo la formazione dei cristalli, come magnesio, pirofosfato, nefrocalcina, rna, proteina di Tamm Horsfall non polimerizzata. Questi sono importanti perché nell’arco delle giornate e dei mesi possono verificarsi variazioni importanti del volume urinario e queste sostanze impediscono la precipitazione inopportuna di sostanze insolubili. • Variazioni delle urine: aumento del pH, diminuzione del volume. • Aumento dei fattori favorenti la formazione dei cristalli: urato sodico colloidale e proteina di Tamm Horsfall polimerizzata. • Presenza di nuclei litogeni: corpi estranei, tessuto necrotico, matrice mucoproteica che a volte può anche essere l’unica componente di certi calcoli • Anomalie strutturali come il rene a ferro di cavallo o le ectopie. • Stasi urinaria • Infezioni La precipitazione dei calcoli nelle urine avviene secondo uno schema che tiene conto di tutti questi fattori, e non si ha mai una sola causa che porta alla formazione del calcolo. Infatti spesso i calcoli sono presenti in persone che uniscono più di un fattore di rischio, come gli anziani nei paesi caldi che hanno una dieta povera di acqua, una intensa sudorazione e un deficit di fattori inibitori.

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S o v ra s a tu ra z io n e

N u c le a z io n e  s p o n ta n e a o m o gen ea

D im in u z io n e  fa tto ri a n tip re c ip ita n ti

C ris ta lliz a z io n e (m ic ro c ris ta lli)

M a tric e

N u c le a z io n e  s p o n ta n e a e te ro g e n e a

D e fic it d i fa tto ri a n tia g g re g a n ti

M ic ro lito C a lc o lo

I microliti possono venir espulsi con le urine senza eccessive difficoltà, mentre i calcoli si fermano lungo il tratto urinario occludendo temporaneamente il flusso dell’urina, e provocano la sintomatologia detta appunto colica. 4.2 EZIOLOGIA DELLA CALCOLOSI I meccanismi alla base della calcolosi sono sempre gli stessi, ma i fattori causali che portano all’attivazione di questi meccanismi cambiano da caso a caso. LITIASI DA IPERCALCIURIA Deriva dalla eccessiva escrezione di Ca++ nelle urine. • Idiopatica: o Assorbitiva: in corso di dieta ad alto contenuto di calcio, ipervitaminosi D, ipofosfatemia. Il calcio viene assorbito in eccesso nell’intestino, e il surplus viene escreto nel rene. o Perdita renale: mancato riassorbimento di calcio nel rene (ad esempio per deficit di PTH). In questo caso avremo ipocalcemia e calciuria. o Danni primitivi dei sistemi di trasporto: come nella mancanza di PTH si ha deficit di riassorbimento dai tubuli e calciuria, ma qui la ipocalcemia è prevenuta dal PTH, che aumenta il riassorbimento osseo e intestinale. In questo modo, il calcio nel rene aumenta ancora. • Secondaria: o Iperparatiroidismo o Ingestione eccessiva di carboidrati e glucosio o Patologie varie con decalcificazione ossea o Candidiosi, neoplasie maligne metastatizzanti alle ossa, o Mieloma multiplo, leucemia, linfoma, o Ipertiroidismo, intossicazione da vitamina D o Sarcoidosi (aumento dell’assorbimento intestinale) o Cushing e intossicazione da glucocorticoidi (aumento del riassorbimento osseo) LITIASI DA IPEROSSALURIA • Primitiva: difetto enzimatico-metabolico o Tipo I: detta anche aciduria glicotica (deficit di alanina-gliossalato aminotransferasi). Si accumula ossalato in complessi insolubili non riassorbibili. Il calcio, in questo caso, è un fattore protettivo nei confronti della precipitazione dell’ossalato, formando con esso dei complessi più solubili. Nei pazienti con questo tipo di calcoli è indicata una dieta ad alto

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contenuto di calcio. o Tipo II: deficit di un altro enzima o Aumentata sintesi di ossalato da carenza di piridossina Secondaria : la forma più comune è da bypass intestinale o ampie resezioni dell’intestino. Una delle conseguenze del malassorbimento degli acidi grassi che deriva da questo è un accumulo di ossalato. Possibile anche l’eccessiva introduzione con la dieta e l’aumento dell’assorbimento intestinale.

LITIASI DA IPERURICOSURIA I calcoli di urato sono di solito molto piccoli, e quindi la calcolosi vera e propria è rara. Si ha più spesso la formazione di una fine granulazione nei depositi dell’urina (renella) sui quali si depositano poi però cristalli di calcio. Si può avere per: • Eccesso di proteine nella dieta • Sindrome di Lesh-Nyhan • Disordini mieloproliferativi (eccessiva produzione di purine) • Deficit selettivo del riassorbimento tubulare di acido urico (molti diuretici e alcuni antibiotici sono escreti con lo stesso trasportatore degli urati e possono dare competizione) • Deficit non selettivo come nella malattia di Fanconi, in cui diminuiscono le capacità di riassorbimento di tutto il tubulo prossimale (nefrone a collo di cigno) In queste condizioni è importante analizzare a fondo il metabolismo dell’acido urico (uricemia e uricosuria); infatti gli urati nel sangue possono portare a nefropatia interstiziale uratica, e così l’uricosuria, che produce calcolosi e danneggia quindi l’escrezione renale e il tubulo. Tutto questo conduce alla lunga ad insufficienza renale. LITIASI CISTINICA La cisteinuria, una malattia del metabolismo in cui non si ha riassorbimento tubulare della cisteina, produce anche calcolosi urinaria. Questo tipo di calcoli si hanno solo nei portatori di questa malattia, a volte anche negli omozigoti. Alti aminoacidi che sono eliminati in eccesso con le urine sono troppo solubili per formare calcoli. LITIASI INFETTIVA Due sono i meccanismi alla base della formazione di calcoli durante le infezioni del tratto urinario: • Germi urealitici  scissione dell’urea  radicali ammonio  microcristalli di struvite  sovrasaturazione urinaria  calcolosi. L’ammonio libero alcalinizza le urine facilitando il fenomeno. • Reazione immunitaria  mucoproteine  polimerizzazione  matrice proteica  nucleazione eterogenea  calcolosi I calcoli che si formano sono detti racemosi, a corna di cervo, e spesso sono lo stampo delle vie urinarie. 4.3 SINTOMATOLOGIA DELLA LITIASI I calcoli hanno varie sedi a seconda delle quali si hanno vari quadri sintomatologici: • Rene: calici, pelvi  stenosi della giunzione pielo-ureterale • Ureteri: calcoli di origine renali , più raramente primitivi ureterocele, ectopia, stenosi, neoplasie, infezioni, compressione • Vescica: calcoli di origine ureterale o vescicale (se presenti alterazioni del detrusore o lesioni neurologiche) • Uretra

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Prostata

I sintomi più frequenti della calcolosi sono: • Colica reno ureterale: il dolore si presenta in modo gravativo quando il calcolo provoca la distensione delle vie escretrici e della capsula renale per via del ristagno di urina. Invece si presenta a spasmi quando la muscolatura si contrae cercando di vincere l’ostruzione. La colica si ha quando il calcolo si trova nell’uretere. Non è un evento comunissimo, in quanto esso prima deve attraversare la giunzione pielo ureterale, poi incastrarsi nel decorso dell’uretere. Il dolore è diffuso al fianco, e irradia all’inguine e allo scroto (o alle grandi labbra). Per i sintomi e l’irradiazione (vedi capitolo 1) è a volte difficile la diagnosi differenziale con appendicite, gastroenterite, salpingite. Per l’appendicite si può considerare il fatto che essa, a differenza della colica, irradia frequentemente alla gamba destra. • Ematuria macroscopica: presente in circa 1/3 dei casi, a volte costituisce la sola manifestazione clinica. In genere la microematuria c’è sempre, mentre quella macroscopica spesso segue la colica. A differenza delle neoplasie delle alte vie escretrici, c’è prima dolore e poi sangue (nelle neoplasie il dolore è provocato dai coaguli che dopo un sanguinamento si accumulano nell’uretere). • Pollachiuria, urgenza minzionale, stranguria: questi disturbi urinari si hanno solo se il calcolo è abbastanza basso da essere vicino alla vescica. • I sintomi dolorosi e l’ematuria si aggravano dopo una passeggiata, o una gita in macchina 4.4 DIAGNOSI DI CALCOLOSI RENALE • Anamnesi • Esame obiettivo: massa palpabile da idronefrosi (raro), dolorabilità a: - Giordano - Punto prevertebrale - Punto pielocostale - Punto ureterale superiore ed inferiore Esami di laboratorio L’esame delle urine rileva una microematuria eccettuati i casi in cui ci sia ostruzione completa del tratto urinario. Presente sempre una modesta leucocituria. L’osservazione diretta al microscopio dei cristalli a volte permette la diagnosi del tipo di calcolo. Aspetto radiografico La radiografia diretta addome, in varie proiezioni per differenziare i calcoli renali da quelli biliari e dai linfonodi, riesce ad identificare accuratamente tutti i calcoli radiopachi. L’opacità dei diversi tipi di calcoli è variabile: • Radio opachi: fosfato di calcio, ossalato di calcio, carbonato di calcio, calcoli misti (UTI) • Debolmente opachi: fosfato di ammonio-magnesio (struvite), cisteina • Trasparenti: urato, xantinici, ammonio La calcolosi a stampo della via escretrice da all’RX una immagine identica a quella urografica. Aspetto ecografico All’ecografia, ogni calcolo che sia trasparente o meno respinge efficacemente gli ultrasuoni, producendo al di sotto di esso un cono d’ombra facilmente identificabile. Altri esami • Urografia: permette di raccogliere molte informazioni sulla posizione del calcolo (ma non sulla natura) e di effettuare diagnosi differenziale con altre affezioni litiasiche delle vie biliari. Non deve essere eseguita durante o dopo una colica renale, perché il mezzo di contrasto aggrava la distensione di esse. Viene utilizzata essenzialmente per conoscere meglio il campo di indagine ed

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evidenziare eventuali anomalie anatomiche che possono aver contribuito alla genesi del calcolo. • Angiografia: utile per l’identificazione di malformazioni del rene • TAC: importante per vedere l’estensione di un eventuale processo infiammatorio 4.5 TERAPIA DELLA CALCOLOSI I presidi si basano sul trattamento e rimozione del calcolo e sul trattamento delle condizioni litogeniche. Terapia medica dell’episodio acuto FANS, antispastici, antidolorifici, agenti parasimpaticolitici che diminuiscono la peristalsi delle vie escretrici. L’utilizzo di antispastici deve essere limitato, ed è meglio usare antidolorifici che non interferiscono sulla peristalsi, in quanto essa facilita l’eliminazione del calcolo. Nei pazienti che non hanno una dilatazione eccessiva e che hanno calcoli bassi, è utile anche l’idratazione. Terapia medica di elezione • Litiasi calcica: dieta e idratazione (previene le recidive), fosfati, citrati, diuretici tiazidici (promuovono il riassorbimento di Ca++ nell’ansa di Henle), allopurinolo (previene la nucleazione del calcio sull’acido urico e promuove l’escrezione di esso) • Litiasi uratica: dieta a basso contenuto di purine, alcalinizzazione delle urine, inibitori della sintesi di urati, allopurinolo (inibitore della xantino ossidasi) • Litiasi ossalica: idratazione, dieta ipossalica, piridossina (favorisce la conversione di ossalato a glicina), colestiramina nell’ossaluria enterica, somministrazione di calcio orale • Litiasi cistinica: idratazione e alcalinizzazione delle urine La profilassi è dietetica e iperidratazione. Eventualmente farmaci che inibiscono l’assorbimento di composti responsabili di una precedente calcolosi. Naturalmente devono essere trattate tutte le condizioni predisponenti alla calcolosi. Terapia topica Solo in alcuni casi selezionati in cui siano evidenti frammenti di calcoli, si può procedere all’irrigazione delle vie urinarie, tramite catetere, con soluzioni litiche. Controindicato in corso di infezioni. Terapia chirurgica Soltanto il 6-8% dei casi non risolvibili con la terapia medica viene indicato per la chirurgia, perché vi sono terapie non chirurgiche di grande efficacia. La chirurgica è riservata a nefrolitiasi racemose, a calcoli con sviluppo caliceale, con stenosi degli infundiboli o del giunto pielo-uretrale. Litotomia percutanea Asportazione del calcolo tramite puntura sotto guida ecografica di un calice renale (preferibile quello inferiore). Il tunnel viene preparato mediante dilatatori nei quali viene inserito il nefroscopio, che permette la distruzione del calcolo con onde di ultrasuoni. Viene usata per quei calcoli di diametro maggiore di 2,5 cm che resistono alla litotrissia extracorporea (cistina) o che sono localizzati in diverticoli stretti. I frammenti vengono drenati tramite lo stesso tunnel nel quale si inserisce la sonda. Litotrissia extracorporea La metodica meno invasiva, che ha tolto circa il 90% dei pazienti alla chirurgia, consiste nella frammentazione del calcolo dall’esterno del corpo mediante generatori di onde d’urto focalizzate da un ellissoide sul calcolo, precedentemente centrato per via ecografica. Alcuni litotritori usano onde d’urto generate da un elettrodo immerso nell’acqua, altri tramite movimenti piezoelettrici, elettromagnetici, microesplosivi e trasmessi al calcolo attraverso appositi dispositivi di interfacciamento, in acqua o altri liquidi. Il calcolo ha una impedenza significativamente diversa dai tessuti molli circostanti e questo provoca la generazione di una resistenza che frammenta il calcolo.

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 I calcoli di cistina non sono sensibili a queste metodiche  Le infezioni, l’ostruzione distale al calcolo, la gravidanza e la diatesi emorragica sono controindicazionià  L’obesità può rendere impossibile la penetrazione delle onde Questa metodica ha evitato la chirurgia e quindi permette la litotrissia in pazienti portatori di calcoli piccoli. Questo fa sì che tutti quei calcoli che prima non si potevano trattare perché troppo piccoli e non giustificanti un intervento chirurgico, adesso possono essere rimossi e non progrediscono, come prima succedeva, a calcoli racemosi e infetti. Litotrissia per via retrograda Rottura del calcolo per via retrograda con cistoscopio ed uretroscopio. Sa ha un risultato simile alla metodica precedente, ma è più invasiva.

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CAP 5 TUBERCOLOSI URINARIA Complesso delle manifestazioni che conseguono alla infezione del rene e delle vie escretrici da parte dei micobatteri. Ogni infezione tubercolare del rene è sempre un processo secondario, mai primitivo, perché l’infezione si localizza sempre per prima cosa nei polmoni. Inoltre interessa sempre l’intero apparato, spesso anche quello genitale, specie nel maschio dove si parla di TBC urogenitale, e mai solo un organo di esso. Epidemiologia A differenza delle forme polmonari, la TBC renale non ha subito un grosso calo ed è stazionaria. Rappresenta il 15-25% delle localizzazioni extrapolmonari. M 2:1, colpiti soggetti fra 40 e 70 anni. Eziopatogenesi Micobatteri come il tubercolosis e bovis sono responsabili di praticamente tutti i casi di TBC urinaria. Gli atipici hanno una importanza discussa. La TBC entra dal polmone (o da cute e intestino, più raramente) e si localizza in una formazione linfoghiandolare o polmonare dove forma il complesso primario, che spesso guarisce, ma può risultare contenere batteri ancora vivi. Da un focolaio primario si può avere una disseminazione ematogena con interessamento del rene bilateralmente; in corrispondenza dei glomeruli si formano numerosi tubercoli. Questi tubercoli si formano in varie parti del corpo, e successivamente sono teatro di una reazione macrofagica che li trasforma in granulomi. Fin qui il processo ha interessato solo la corticale del rene. Qui ci sono tre possibili evoluzioni: • Nei soggetti sani: guarigione del granuloma per sclerosi (o indotta dalla terapia) • Nei soggetti sani in seguito ad una diminuzione del potenziale immunitario: riattivazione del granuloma • Nei soggetti defedati: progressione del granuloma Sia nella riattivazione che nella progressione, i processi che avvengono sono gli stessi: 1. Colliquazione del granuloma, che confluisce con altri tubercoli a formare delle cavità ripiene di materiale caseoso. 2. Diffusione linfatica, ematica e attraverso i tubuli fino alla midollare: le lesioni cavitarie di questa regione tendono alla complicazione e non alla guarigione 3. Necrosi della papilla renale: formazione di caverne sempre più grandi che scaricano materiale colliquato sempre più abbondante nelle urine. Giunto a questo stadio, il processo non è più reversibile spontaneamente. Una volta iniziata la disseminazione di micobatteri nelle vie urinarie, il processo si propaga agli organi vicini: • Propagazione al rene: si tratta di una semplice estensione del processo tubercolare nel parenchima • Propagazione alla via escretrice: diffusione cavitaria per sgocciolamento della necrosi caseosa lungo i condotti delle vie urinarie • Propagazione al perineo: attraverso la rete linfatica • Propagazione ai genitali: per via ematica, linfatica e per contiguità • Propagazione al rene opposto: sebbene di solito il processo infettivo sia bilaterale, può accadere che i granulomi evolvano verso lesioni cavitarie solo da un lato, e l’altro venga colonizzato per via ascendente • Propagazione verso sedi extraurinarie: per un episodio di batteriemia L’interessamento delle vie urinarie è diverso: ad esempio la pelvi e l’uretere possono essere interessati solo in alcuni casi, la vescica lo è sempre.

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La guarigione, spontanea o terapeutica, di questi interessamenti, può comportare la stenosi per fibrosi a livello pielo-ureterale, caliceale o uretero-vescicale. Questi processi possono avvenire anche mentre le lesioni del rene sono ancora attive, e quindi produrre una stasi renale che aggrava la compromissione parenchimale, portando alla distruzione completa del tessuto. Il rene si trasforma in una sacca di urina e materiale caseoso. L’urina viene pian piano riassorbita, e rimane un materiale bianco-cretaceo che prende il nome di rene mastice tubercolare. La vescica, interessata nei 2/3 dei casi, presenta lesioni diffuse a tutta la vescica ma a partenza dall’ostio ureterale. In queste lesioni si osservano una serie di noduli caseosi nella sottomucosa, che tendono ad ulcerare ed infine ad evolvere verso la sclerosi. Il processo fibrotico diffuso riduce la vescica (vescica piccola tubercolare). L’apparato genitale, sebbene raramente, può essere colpito in maniera indipendente da quello renale (TBC miliare), mentre di solito è interessato per contiguità. Fisiopatologia  Nel rene la presenza di lesioni voluminose ripiene di materiale caseoso, oppure cicatrizzate da fibrosi, porta a delle alterazioni funzionali per via della particolare architettura d’organo: • L’interessamento della papilla compromette la funzione di tutta la piramide renale a monte • La vascolarizzazione è di tipo terminale: ogni nodulo tubercolare comprime qualche vaso e provoca ischemia di una zona più o meno estesa di parenchima • L’elemento tubercolare in espansione verso la cavità provoca compressione. Il nodulo in guarigione per sclerosi provoca retrazione e stiramento. In entrambi i casi l’architettura di tubuli e vasi viene gravemente compromessa. Pur essendo una malattia a focolai e pur colpendo una porzione limitata di parenchima, la TBC renale finisce quindi per interessare una grande porzione funzionale del rene. La forma che danneggia di più il rene è ovviamente la forma ulcero caseosa, che porta, come visto prima, al rene mastice, con completa perdita di funzione. Invece la guarigione dei noduli per sclerosi produce il rene grinzo tubercolare, che conserva almeno in parte una certa funzione.  L’uretere può essere interessato dal processo TBC sia per via ascendente che discendente (più frequentemente), e anche per via ematica. L’interessamento di quest’organo con noduli cicatriziali in retrazione provoca spesso delle stenosi  La vescica viene molto spesso colonizzata dai micobatteri per via discendente, perché la stasi dell’urina fornisce ai batteri grandi probabilità di attecchimento. Può essere colonizzata anche per via ematica o linfatica. Siccome spesso viene interessato il meato ureterale, si può creare un ostacolo al deflusso dal lato del rene infetto. Questo provoca stasi, con distruzione del rene infetto, e reflusso vescico-ureterale controlaterale, con colonizzazione ascendente del rene sano. Anche in questo caso l’esito è la stenosi cicatriziale dell’organo. Il processo infettivo si può estendere anche ai tessuti perivesciali e produrre una capsula fibrosa che riveste la vescica stessa. Sia gli ureteri che il collo vescicale possono andare in contro a stenosi, oppure si può avere irrigidimento dell’ostio che produce reflusso e incontinenza urinaria.  L’uretra può essere interessata da sola o più spesso assieme a tutto l’apparato genitale (e alla prostata e vescichette nel maschio). L’evoluzione delle lesioni uretrali è la stenosi. Clinica Dall’infezione ai sintomi intercorrono periodi variabili da qualche mese a 10-15 anni. Quando un focolaio parenchimale in necrosi caseosa si apre nella pelvi e si ha la disseminazione dei batteri in basso, allora la malattia entra allo stadio clinico.

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 Nella fase preclinica ci sono pochi sintomi, perché le lesioni del parenchima renale, anche se gravi, non hanno sbocco all’esterno del rene. Sono presenti: • Sintomi generali: malessere, astenia, febbricola, dimagramento, anoressia (simile alla stessa fase della TBC polmonare) • Ematuria macroscopica e/o piuria ACIDA: sono spesso il primo segno, improvviso, dell’ingresso nella fase clinica.  Le forme cliniche sono nella stragrande maggioranza dei casi iniziate da una cistite, che spesso viene curata con terapie convenzionali alle quale i micobatteri sono completamente insensibili. Pollachiuria, Stranguria e tenesmo vescicale sono i sintomi che l’accompagnano, e sono intensi e progressivi. La pollachiuria dipende dapprima dalla flogosi e irritazione della vescica, successivamente per la reale retrazione fibrosa e diminuita capacità della vescica. Possono aversi anche ematuria, emosperima che mettono in allarme il paziente. La piuria, sintomo importante ma abbastanza tardivo, da un colore torbido o lattescente alle urine, e la sua reazione è acida, segno evidente di infezione da micobatterio.  Alcune forme di TBC urinaria assumono un aspetto sintomatologico anomalo, per via della prevalenza di un particolare sintomo: • Forma pielonefritica: spesso per la sovrapposizione di una infezione del rene, si hanno disturbi urinari con febbre elevata e dolori lombari. Diagnosi differenziale: con la nefrite da germi comuni • Forma dolorosa: a volte il sintomo doloroso è predominante sugli altri, con dolore intenso al fianco oppure di tipo colico. Diagnosi differenziale: colica renale, lombalgia • Forma ematurica: ematuria, imponente e talora isolata. Diagnosi differenziale: neoplasia Diagnosi • Anamnesi: ambiente familiare ed epidemiologico, cistiti recidivanti e poliresistenti, noduli testicolari, ematuria senza neoplasie e emospermia. • Esame urine: piuria con pH acido. L’acidità è dovuta alla caratteristica del micobatterio di non effettuare, a differenza di altri germi, fenomeni di fermentazione ammoniacale delle urine. • Leucocituria, eritrocituria e ricerca del bacillo di Koch nelle urine: la micobatteriuria è intermittente ed è più facile trovarlo nelle urine del mattino (più concentrate) • RX: permette di identificare le calcificazioni renali, caliceali eureterali. Rare quelle della vescica.ù • Urografia: stenosi dei dotti, lesioni parenchimali cavernose che comunicano abbondantemente con le vie escretrici (permettendo la penetrazione del mezzo di contrasto). Permette anche di osservare in una certa misura il tipo di lesione e di stadiare il processo infettivo. • Ureteropielografia ascendente: da limitare per l’ampio rischio di colonizzazione ascendente. • TAC: complementare nella valutazione di masse o della parete ureterale • Arteriografia: da informazioni importanti dal punto di vista terapeutico nell’identificare esattamente il processo infettivo. Le aree tubercolari poco vascolarizzate rispondono male alla terapia medica • Scintigrafia: valuta l’entità del danno. Le aree fredde corrispondono al parenchima danneggiato. • Cistoscopia: permette l’identificazione delle lesioni specifiche della TBC. Terapia medica Isoniazite, streptomicina, etanbutolo, rinfampicina sono i farmaci di prima scelta, dati in schemi a tre o quattro farmaci per diminuire la comparsa di resistenze. Come per la TBC polmonare, la triplice richiede l’applicazione per 6-9 mesi. L’utilizzo

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contemporaneo di glucocorticoidi diminuisce la risposta dell’ospite con minor produzione di tessuto fibroso e minor stenosi delle vie urinarie. Una terapia medica precoce (prima della compromissione delle vie urinarie) permette la guarigione completa in 1-3 anni. Terapia endoscopica • Trattamento delle lesioni stenosanti e rimodellamento delle vie urinarie • Drenaggio percutaneo di urina dal renetramite nefrostomia, che facilita la ripresa funzionale del parenchima • Meatotomia endoscopica dell’ostio ureterale stenotico • Asportazione di tessuto ulcerato non responsivo alla terapia • Resezione endoscopica del collo vescicale nelle stenosi da TBC gravi • Uretrotomia nelle stenosi uretrali gravi • Nella condizione di spasmo muscolare della vescica, non rara come reazione della muscolare al processo infettivo (piccola vescica ipertonica TBC), si trae beneficio dalla distenzione vescicale idrostatica che si pratica sotto copertura antibiotica, in endoscopia e in anestesia. Terapia chirurgica Rimuovere un organo o un tessuto del tutto compromesso; ristabilire la funzione e l’integrità della via escretrice. • Terapia chirurgica demolitiva: rene mastice, rene grinzo, TBC ulcero-cavernosa diffusa in caso di insuccesso della terapia medica • Terapia parzialmente demolitiva: lesioni circoscritte escluse dalla funzione o dall’anatomia delle vie urinarie possono ospitare delle sacche in cui non arrivano i farmaci. Queste lesioni devono essere asportate per evitare una ripresa della malattia al termine della cura. • Terapia chirurgica ricostruttiva: riparare le lesioni cicatriziali e i fenomeni ostruttivi dopo una completa stabilizzazione della malattia (soprattutto stenosi ureterali alte).

CAP 6 TUMORI DELL’APPARATO URINARIO 6.1 TUMORI DEL RENE Le neoplasie del parenchima renale riguardano circa il 3-4% di tutte le neoplasie dell’adulto, mentre sono al secondo posto nel bambino dopo il retinoblastoma, anche se complessivamente i tumori del bambino sono un evento raro. CLASSIFICAZIONE • Benigni: la maggior parte dei tumori benigni del rene sono di origine mesenchimale. Sono tutti scarsamente rilevanti e rari, ad eccezione dei tumori dell’apparato juxtaglomerulare (reninomi) e gli angiomiolipomi o Adenomi: abbastanza frequenti, originano dall’epitelio per stimoli proliferativi ripetuti. Non è facile distinguerli dai tumori maligni e quindi vengono trattati con aggressività. o Fibromi o Lipomi o Osteomi o Angiomi o Mixomi o Angiomiolipoma: tumore connettivale prodotto dalle cellule adipose, fibre muscolari e vasi poveri di fibre elastiche. E’ importante la sua frequente associazione con la sclerosi tuberosa1. La caratteristica del tumore è la frequente possibilità di rottura con gravi emorragie intrarenali o ematuria massiva. Nel caso di sanguinamenti precoci è indicata l’exeresi. In genere benigno, ma in alcuni casi ospita all’interno focolai di carcinoma. 1

Sindrome di Bourneville: adenomi sebacei, facomatosi retinica e celebrale. Nei casi di associazione, l’angiomiolipoma è plurifocale e bilaterale.

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o Oncocitoma: tumore a malignità intermedia, che talvolta può dare alcune metastasi •



Maligni: nel rene assumono una grande importanza, accanto alle forme primitive, anche quelle metastatiche che provengono da polmone, mammella, intestino. o Melanomi o Linfomi o Carcinoma renale parenchimale: detto anche tumore di Grawitz, ipernefroma, adenocarcinoma renale o Nefroblastoma di Wilms: importante tumore renale dell’età pediatrica o Sarcomi: rari ma praticamente incurabili

Altri tumori importanti del parenchima: o Tumori uroteliali: neoplasie della giunzione caliceo-pielica o Tumori della capsula renale:  Benigni (lipomi e fibromi)  Maligni (fibrosarcoma) CARCINOMA RENALE PARENCHIMALE (CRP) Epidemiologia Rappresenta il 2-3 % di tutti i tumori maligni dell’adulto (è infatti da solo la quasi totalità delle lesioni neoplastiche maligne del rene. I maschi sono colpiti circa 3:1, e l’incidenza è massima dopo i 50 anni. • Alcune forme hanno trasmissione ereditaria (4%) • Alcune aree sono ad alto rischio: paesi nordici, con incidenza più alta della media di 5 volte Fattori di rischio • Genetici: Associato alla sindrome di Von Hippel-Lindau (emangiomi retinici e cerebellari) circa nel 35% dei casi. Alcuni casi sono spiccatamente ereditari • Fumo di sigaretta • Obesità • Esposizione al cadmio e ai derivati del petrolio • Eziologia virale: identificato genoma HPV nelle cellule tumorali • AIDS • Malattia cistica acquisita: circa il 6% dei malati sviluppa la neoplasia Aspetto macroscopico Massa solida di aspetto nodulare che comprime il parenchima circostante con margini netti, non ha un aspetto infiltrante (ma è comunque aggressivo). Quasi sempre isolato, ma si deve comunque cercare la presenza di focolai multipli perché se è presente in questa forma non consente una terapia conservativa. Può essere presente nel polo superiore (44%), inferiore (41%) o nella zona mediorenale (15%). Sembra che prenda origine dalle cellule del tubulo prossimale. Aspetto istologico Ci sono tre tipi principali di tumore: • Carcinoma non papillare a cellule chiare e granulose (75-85% dei casi): le cellule chiare hanno una abbondante presenza di glicogeno, quelle granulose contengono molti mitocondri atipici. E’ un adenocarcinoma. • Carcinoma papillare (10-15% dei casi): tumore solido con lesioni di aspetto papillare. Ha una prognosi migliore, ma spesso è bilaterale, anche in tempi diversi. • Carcinoma renale a cellule cromofobe (5%): cellule marcatamente eosinofile • Carcinoma a cellule sarcomatose: tumore a prognosi peggiore, con una importante alterazione

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dell’orletto a spazzola e della lamina basale • Forme miste Infiltrazione • Capsula e grasso renale • Tessuti adiacenti • Via escretrice: ematuria. Questo sintomo, sebbene fondamentale, è molto tardivo. Gli altri sintomi sono ancora più ritardati. • Vena renale: trombo neoplastico, a volte invade un buon tratto della cava. Il tumore infatti è molto vascolarizzato e i vasi che lo attraversano hanno grosse fenestrature. Spesso il tumore cresce in questi spazi e si diffonde lungo le vene maggiori. Metastatizzazione • Ematogena (30-55%): precoce invasione delle radici della vena renale e della cava. Questo tipo di infiltrazione è molto più probabile per tumori del rene di destra. • Contiguità (20-30%): diaframma, peritoneo posteriore, colon, pancreas, milza. Sorprendentemente, il surrene è più spesso interessato da metastasi ematogene. • Linfatica (20%): dal dotto toracico alla cava superiore e spesso al polmone. Gli organi dove più frequentemente si ritrovano metastasi sono: • Polmone (50%) • Ossa (35%) • Fegato • Linfonodi • Surrene • Rene multilaterale (difficile distinguere le metastasi da un carcinoma multifocale) • Encefalo • Genitali esterni • Miocardio, milza, cute Sintomi Esordio estremamente variabile e non specifico. I sintomi principali sono una triade, ma sono tardivi e sono presenti solo nel 10% dei casi: ematuria, dolore lombare, massa al fianco (ballottamento e dolore lombare). L’ematuria isolata, il segno più precoce, è presente nel 30% dei casi, la massa e il dolore sono segno di un livello elevato. L’ematuria è comunque tardiva perché le vie escretrici sono interessate tardi, ed è sempre conseguente ad un interessamento delle vie escretrici. Il dolore del tumore renale può a volte essere confuso con una colica. Questo succede quando il sanguinamento delle lesioni produce un coagulo, che si forma nell’uretere e lo occlude temporaneamente. La diagnosi differenziale fra colica con ematuria e tumore è il fatto che nel tumore c’è prima sanguinamento e poi la colica, e nella colica con ematuria il contrario. Un altro sintomo raro è il varicocele sinistro, per invasione della vena renale da parte del tumore: infatti la vena spermatica sinistra nasce dalla renale e non dalla cava. Meno frequentemente da alcune sindromi paraneoplastiche, come: 10. Ipercalcemia e ipofosfatemia (produzione di PTH) 11. Stato di ipercoagulabilità ematica, che però passa spesso ad una condizione opposta di diatesi emorragica per via del consumo dei fattori della coagulazione con episodi di CID (e per la perdita di funzione epatica) 12. Anemia (consumo di folati e sequestro di ferro da parte del tumore)

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13. Eritrocitosi (produzione di EPO) 14. Ipertensione (10%) per produzione di renina, o fistola AV nel contesto della massa neoplastica Possono esserci anche alterazione della funzione epatica, febbricola e calo ponderale. L’ostruzione della cava si manifesta con edema agli arti inferiori e reticoli venosi addominali. Con l’aumento della TAC si è avuto un notevole aumento della diagnosi precoce di tumori asintomatici: oltre il 60% delle neoplasie renali viene attualmente diagnosticata così Grading • G0: tumore senza anaplasia (adenoma) • G1: ben differenziato • G2: moderatamente differenziato • G3: scarsamente differenziato • G4: indifferenziato (nessuna somiglianza con le cellule dei tessuti di partenza) Staging LIVELLO

DESCRIZIONE

TO

Tumore primitivo non evidenziabile

TX T1 T2 T3

Tumore non valutabile, ma evidenza di tumore renale per una metastasi con cellule renali Tumore limitato al rene Tumore limitato al rene

DIMENSIONI ? Max 2,5 cm > 2,5 cm

Tumore che invade le strutture renali ma non supera la fascia di Gerota

T3a T3b T3c

Ghiandola surrenale Vena renale o vena cava inferiore (al di sotto del diaframma) Vena cava al di sopra del diaframma

Tumore che invade oltre la fascia di Gerota e gli organi vicini T4 La fascia di Gerota è un ispessimento fibroso che circonda il grasso perirenale. Anteriormente prende rapporto con il peritoneo posteriore, e posteriormente con la fascia dei muscoli perivertebrali.

LIVELLO DESCRIZIONE Linfonodi non valutabili (non è stato eseguito uno studio adeguato) NX Linfonodi regionali liberi da metastasi N0 Linfonodo regionale singolo interessato da metastasi non superiore a 2 cm N1 Linfonodi regionali interessati da metastasi di diametro non superiore a 5 cm N2 Linfonodi regionali interessati da metastasi di diametro superiore ai 5 cm N3 La stadiazione clinica dei linfonodi è spesso soggetta ad errori, e anche quella chirurgica. Spesso i linfonodi portati dal patologo risultano essere ingrossati per processi infiammatori e non per la reale presenza di metastasi LIVELLO DESCRIZIONE Metastasi a distanza non accertate MX Assenza di metastasi a distanza M0 Metastasi a distanza presenti (si considerano M anche metastasi a linfonodi extra regionali) M1 Il problema maggiore è la presenza di micrometastasi che si vedono anche dopo 8-10 anni dall’asportazione del tumore primitivo. Diagnosi

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Al 70% incidentale, al 30% suggerita da sintomi specifici. Esame obiettivo Quasi sempre negativo. • Massa palpabile in loggia renale, specie polo inferiore • Varicocele • Edemi degli arti inferiori per compressione della vena cava (segno infausto) • Metastasi palpabili (epatiche, vaginali. Queste ultime rarissime ma molto evidenti) Diagnostica per immagini • RX e urografia: danno poche informazioni • Ecografia: molto diffusa ed efficace, da molte informazioni: o Discriminazione masse solide neoplastiche da cisti o pseudotumori. o Permette l’esecuzione di indagini bioptiche percutanee o Aiuta lo staging delle lesioni e la valutazione dell’estensione locale o Valuta l’interessamento agli organi vicini e soprattutto l’invasione dei vasi • TC: si esegue sempre, per valutare i casi dubbi all’ecografia, distinguere gli oncocitomi e gli angiomiolipomi, e permette di eseguire una stadiazione con una accuratezza di oltre il 90% nelle masse > 3 cm. • RMN • Arteriografia renale: non ha valore diagnostico, serve a pianificare l’intervento chirurgico, specialmente se conservativo. Il circolo dentro il tumore è anarchico con lacune. • Scintigrafia ossea: presenza di metastasi ossee. • RX torace: presenza di metastasi polmonari Terapia La terapia del CRP è solo chirurgica, in quanto il tumore resiste alla radio e alla chemio. • Nefrectomia: asportazione di tutto il rene, surrene e tutto il contenuto della fascia di Gerota. • Linfoadenectomia locoregionale sia per lo staging che come misura preventiva • Nefrectomie parziali, tumorectomie e eneucleoresezioni possono essere effettuate su masse piccole. Queste metodiche, meno distruttive, sono in aumento grazie allo sviluppo di tecniche di diagnosi precoce. La prognosi di questo tumore è imprevedibile, e dipende molto dall’istotipo e dalle condizioni dello staging. Aspettativa di vita a 5 anni: 60-80% T1 e T2, 50% T3, 5% T4. ONCOCITOMA Neoplasia ad evoluzione benigna caratterizzata dal fatto di essere costituita da cellule particolari, dette appunto oncociti. Sono cellule con citoplasma granulare per la presenza di numerosi mitocondri. La prognosi è molto buona (70-85% a 10 anni) con un trattamento chirurgico. Ù La diagnosi precoce è possibile con la TC, con l’osservazione di una massa stellata al centro della neoplasia, ma è estremamente difficile. TUMORE DI WILMS Il nefroblastoma di Wilms è un tumore molto raro (6:1.000.000) ma rappresenta la neoplasia più comune sotto i 15 anni dopo il retinoblastoma. Si presenta in media attorno ai 3 anni, e nel 95% dei casi è monolaterale. Può essere sporadico o ereditario (di tipo autosomico). Sembra che questo tumore sia legato ad una alterazione del patrimonio cromosomico, e in effetti si trova associato a molte altre malattie congenite (come emiridia, neurofibromatosi eccetera). La neoplasia prende origine da elementi non degenerati del metanefro, di tipo epiteliali e stromali. Il tipo istologico condiziona la prognosi, sfavorevole in quei tumori con elementi anaplastici.

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Diffonde per contiguità, per via linfatica o ematica. Circa il 10-15% dei pazienti presenta alla diagnosi metastasi, frequentemente a polmoni e fegato. I sintomi sono dolori addominali, ematuria, nausea e vomito, ma è di difficile diagnosi come tutte le masse renali. Si può trattare sia chirurgicamente che con la chemio (alla quale è molto sensibile), e anche con la radio, anche se questa, per le sequele sulla crescita del bambino, è poco usata. Un approccio misto di chirurgia e terapie mediche porta la sopravvivenza all’80-90%. 6.2 NEOPLASIE DEGLI URETERI I tumori dell’uretere sono abbastanza rari, infatti le neoplasie dell’epitelio uroteliale sono nel 90% dei casi di pertinenza vescicale. Ha una certa prevalenza nell’uomo e nell’età avanzata (50-70 anni). Nella metà dei casi un tumore dell’uretere si associa ad un contemporaneo tumore vescicale. Eziologia Sconosciuta, probabilmente implicati gli stessi fattori di rischio delle neoplasie vescicali (fumo, caffeina, agenti chimici come la fenacetina). A rischio chi abita nei Balcani, per motivi sconosciuti. Sintomi • Ematuria: molto frequente, molto di più che nei tumori del rene. Nella pelvi raggiunge il 6070%, nell’uretere oltre il 90%. • Dolore associato ad ematuria: per il passaggio di coaguli • Sintomi generali sistemici e massa palpabile: poco frequenti, indice dell’estensione della massa ad altri organi. Diagnosi Spesso occasionale, o durante esami radiologici di routine. L’urografia è l’esame di elezione nella diagnosi di questi tumori. La diagnosi differenziale viene posta con i calcoli radiotrasparenti, e viene fatta con l’ecografia. La TAC è utile per identificare infiltrazioni in altre strutture vicine come il rene. La citologia urinaria da informazioni sull’istotipo in circa il 70% dei casi. Istologia Circa il 90% dei tumori ureterali sonocarcinomi a cellule di transizione, spesso di aspetto papillare. Circa il 7-10% sono carcinomi a cellule squamose, che ha una associazione con la calcolosi e la flogosi cronica, e una prognosi molto peggiore. L’adenocarcinoma dell’urotelio è meno dell’1% Lo staging è: • Tis: carcinoma in situ (limitato all’epitelio e alla mucosa) • T1: connettivo sottoepiteliale • T2: muscolare • T3: oltre la muscolare ma non oltre la parete dell’uretere • T4: interessamento degli organi vicini Terapia Trattamento classico è chirurgico e prevede l’asportazione dell’uretere, del rene corrispondente, della porzione di vescica attorno al meato ureterale e dei linfonodi loco-regionali. Neoplasie piccole e poco avanzate possono essere trattate con interventi più conservativi. 6.3 TUMORI DELLA VESCICA I tumori della vescica sono abbastanza frequenti, e interessano più spesso l’uomo rispetto alla donna. Nell’80% dei casi sono al di sopra di 50 anni, e l’incidenza raggiunge in questa classe d’età i 20 casi per 100mila. Al momento della prima diagnosi l’età media è 65 anni. La razza bianca ha incidenza doppia, e fra i 70 e 75 anni hanno una morbilità decisamente elevata. La sopravvivenza è buona e si aggira attorno al 75-85% nelle forme superficiali, 35-45% nelle forme estese.

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Il 95% dei tumori della vescica sono tumori epiteliali. Eziologia • Coloranti e sostanze chimiche (amine aromatiche, vengono glucuronate ed escrete nell’urina. In vescica subiscono una deglucuronazione ed espongono un radicale 18-OH che è cancerogeno). • Materiali plastici • Lavoratori delle industrie tessili, petrolchimiche, trattamenti di cuoio e pellami, parrucchieri • Fumo di sigaretta (aumento rischio di 4 volte) • Inquinamento atmosferico • Caffè ed alcool • Dolcificanti e diete ricche di grassi • Schistosomiasi ed infezioni virali (HPV 16 trovato nel 30% dei tumori) Aspetto e istologia Come aspetto macroscopico si distinguono le forme papillari (pedunculate e sessili), solide, ulcerate, e il carcinoma in situ, che non colonizza i vasi. Quest’ultima presentazione ha un comportamento aggressivo ma non infiltrante. Sono praticamente tutte di derivazione epiteliale. Come istotipo, si distinguono: • Carcinoma a cellule di transizione (papillare e non papillare)  90-95% o Papillare:  Fibroepitelioma benigno (meno di 6 strati cellulari) progredisce a carcinoma  Fibroepitelioma maligno (6 o più strati cellulari) o Carcinoma in situ: piatto, senza grandi anaplasie o Nodulare • Carcinoma a cellule squamose  3-8% • Adenocarcinoma  0,5-2% • Carcinoma indifferenziato  1-2% • Tumori non epiteliali (sarcomi) sono rari, importante il rabdormiosarcoma che colpisce frequentemente i bambini e gli adolescenti. Tutti i tumori non epiteliali sono ad alta malignità e a rapida diffusione. Crescita I tumori superficiali peduncolati come i fibroepiteliomi crescono nella vescica occupando spazio. Si ritiene però che essi possano moltiplicarsi per contatto con altre aree della vescica, anche se non è chiaro se essi sono o meno multifocali o se la colpa delle recidive è una incompleta asportazione. In genere i tumori superficiali della vescica hanno una scarsa tendenza all’infiltrazione e una maggior tendenza alla recidiva locale. Fanno eccezione a questa regola le forme anaplastiche, anche se superficiali, e i carcinomi in situ. I tumori infiltranti danno metastasi per contiguità, per via ematica e linfatica. In genere sono infiltranti fin dall’inizio, ma a volte possono assumere questa caratteristica tardivamente, insorgendo nel contesto di neoplasie più benigne. Grading • 0: papilloma (3-5%). Si tratta in genere di un carcinoma ben differenziato • 1: carcinoma ben differenziato con scarsi elementidi anaplasia • 2: carcinoma moderatamente differenziato, spesso peduncolato • 3: carcinoma scarsamente differenziato, con spiccata anaplasia e mitosi frequenti Diagnosi

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Citologia urinaria: in genere viene effettuata su campioni di urina di 3 giorni consecutivi; importante ricordare che le flogosi possono causare la presenza di cellule atipiche nell’urina ed essere fonte di falsi positivi. Recentemente sono stati messi in commercio nuovi protocolli di test estremamente economici di ottimo uso per lo screening, anche se non del tutto attendibili, come il BTA, l’NMP22. • Ecografia soprapubica: dimostra la presenza di neoformazioni anche piccole (fino a 5 mm), indicando con precisione numero, sede ed estensione. E’ l’esame di approccio da fare in un paziente con ematuria, insieme ad un’eco renale. E’ meno attendibile nella stadiazione in profondità delle neoplasie, ma non vi sono metodiche molto migliori, e la TAC è poco indicativa in questo caso. • Urografia: molto importante per la valutazione dello stato delle vie escretrici e della pelvi renale, è migliore nella valutazione delle lesioni multifocali • Cistoscopia: identifica neoplasie anche di piccolissimo volume e di scarsa anaplasia (CIS). Definisce il numero di foci della malattia, la morfologia, l’estensione, la localizzazione, e i rapporti con gli orifizi vescicali. Scarsa utilità per la stadiazione e la diagnosi differenziale con stati di flogosi cronica come le varie cistiti. E’ utile perché la vescica piena e la sonda ecografica distendono la parete e appiattiscono i tumori molto di piè della cistoscopia. Permette di fare biopsie, ma non di osservare la diffusione all’esterno della vescica. • Esplorazione rettale (uomo) e vaginale (donna). Non sono consigliabili per la scarsa attendibilità. • TAC: solo staging locale e regionale (linfonodi). Limitata nella valutazione dell’infiltrazione parietale, utile in caso di sconfinamento al grasso perivescicale • RMN: Come la TAC • Scintigrafia ossea: analizza le metastasi ossee, e vie utilizzata nell’analisi delle forme ad alto rischio di infiltrazione • Rx torace: metastasi polmonari • Eco e TC addome: metastasi a fegato, surreni, reni. Sintomi • Ematuria macroscopica: primo segno nel 60-75% dei casi, può essere costante ed abbondante oppure breve e capricciosa, segno in questo caso di una lesione probabilmente peduncolata. La vescica si contrae spesso e questo può provocare rottura e sanguinamento del tumore. • Irritabilità vescicale: pollachiuria, tenesmo vescicale, stranguria e bruciori. Sono il quadro principale nel restante 30% dei casi, e va fatta la diagnosi differenziale con l’infezione urinaria Mentre l’ematuria è un sintomo di tumori superficiali, l’irritabilità vescicale è più spesso associata a infiltrazione. Staging LIVELLO DESCRIZIONE TX

Tumore non definibile

T0 TA TIS T1

Tumore non evidenziabile Carcinoma papillare non invasivo che si instaura su un peduncolo Carcinoma in situ, tumore piatto Tumore che invade il tessuto connettivale sottomucoso

http://www.hackmed.org [email protected] T2

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Tumore che invade la parete muscolare. La distinzione nei sottostadi A e B risulta difficile soprattutto nella donna, dove la parete vescicale è di 2-3 mm Invade soltanto la metà interna

T2a Invade tutta la parete vescicale

T2B T3

Tumore che invade i tessuti perivescicali Invasione microscopica

T3a Invasione macroscopica (massa extra vescicale)

T3b T4

Tumore che invade qualsiasi delle seguenti strutture: prostata, utero, vagina,parete pelvica, parete addominale

LIVELLO DESCRIZIONE Linfonodi regionali non valutati NX Linfonodi regionali liberi da metastasi NO Metastasi in singolo linfonodo regionale del massimo diametro di 2 cm N1 Metastasi in 1 o più linfonodi regionali del diametro fra 2 e 5 cm N2 Metastasi in 1 uno o più linfonodi regionali di diametro maggiore di 5 cm N3 I linfonodi regionali sono: otturatori, iliaci interni, iliaci esterni, biforcazione iliaca. Come nel caso del rene, sono frequenti le situazioni di linfonodi ingrossati solo per infiammazione.

LIVELLO DESCRIZIONE Metastasi non indagate MX Assenza di metastasi a distanza M0 Presenza di metastasi a distanza M1 Terapia • Endoscopica: resezione transureterale. Vantaggiosa rispetto alla semplice folgorazione locale perché permette il campionamento istologico. Si arriva anche alla perforazione mirata dalla parete vescicale per prendere tutti gli strati della parete e valutare istologicamente l’infiltrazione. Questo tipo di intervento è diagnostico e terapeutico insieme ed è efficace nei tumori Ta, Tis e T1. Nelle neoplasie più avanzate ha solo valore diagnostico. • Laser terapia: simile alla folgorazione, si brucia la base dell’impianto, e riesca a coagulare i vasi che portano sangue al tumore. Importante come intervento palliativo in T4 per arrestare emorragie nel paziente anziano. Se il tumore non supera la muscolare, questo tipo di interventi è sufficiente. Altrimenti è necessaria la chirurgia maggiore. La terapia chirurgica tradizionale è la cistostomia radicale: per neoplasie T2 e T3. Si asporta anche la prostata, le vescichette seminali, e l’utero, oltre alle ghiandole linfatiche pelviche per permettere lo staging postoperatorio. Viene fatta poi una derivazione urinaria, in casi estremi con una stomia esterna. A volte viene fatto un serbatoio artificiale utilizzando un’ansa intestinale isolata (uretere-intestino-uretra), oppure viene deconnesso il retto dall’intestino, e il resto dell’intestino viene attaccato alla cute. La vescica rettale Perugina è una tecnica che consiste nel creare un abbassamento del sigma nel perineo e utilizzarlo come serbatoio per le feci, collegato all’estero. Il retto, a questo punto, non

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ricevendo le feci dal sigma, viene usato come serbatoio per l’urina. • • •

Radioterapia: adiuvante nei tumori infiltranti in cui non c’è la certezza della radicalità chirurgica Chemioterapia endocavitaria: dopo resezione endoscopica, specie nei T1 di grado G2 e G3, si inseriscono in vescica chemioterapici antiblastici (mitormicina) e immunostimolanti (BCG o INF) a scopo terapeutico e di prevenzione delle recidive. Chemioterapia sistemica: trattamento delle metastasi

Sopravvivenza a 5 anni: circa 50% in pazienti con T1-T2. T3 e T4 circa 20% TUMORE VESCICALE SUPERFICIALE (CARCINOMA IN SITU) Presente nel 26-40% dei casi di tumori uroteliali, ha la possibilità di insorgere anche da solo, mostra una tendenza notevole alla invasione locale (83% a 5 anni) se posto in vicinanza di altre aree di CIS, mentre se isolato è molto meno infiltrante (7% a 5 anni). A differenza dei tumori del rene, il CIS come tutti i tumori della vescica da una sintomatologia frequente caratterizzata da ematuria, stranguria e disturbi minzionali come il tenesmo. Ovviamente non c’è mai dolore colico per la presenza di coaguli nell’uretere. • Dolore al fianco sordo e continuo  sospettare una ostruzione del meato ureterale • Dolore pelvico  sospettare invasione degli organi pelvici • Edemi agli arti inferiori  interessamento dei linfonodi pelvici. L’edema è da stasi linfatica, non ematica

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CAP 7 GRANDI SINDROMI UROLOGICHE 7.1 INCONTINENZA URINARIA Perdita involontaria dell’urina attraverso l’uretra dimostrabile oggettivamente, in grado di provocare un problema igienico e sociale. La perdita dell’urina avviene sempre, anche in luoghi e in tempi inappropriati. E’ un problema prevalentemente femminile, e colpisce il 35% delle donne. Massima incidenza fra i 45 e i 54 anni. Sebbene la normale funzione fisiologica dell’apparato urinario sia la continenza completa delle urine, è la norma che i pazienti anziani abbiano perdite più o meno significative. Bisogna perciò considerare l’impatto che l’invecchiamento ha sui diversi sistemi preposti al mantenimento dell’urina in vescica prima di formulare diagnosi eziologiche errate, e considerare e prevenire i diversi fattori che possono provocare incontinenza. Fisiologia degli sfinteri urinari Per trattenere efficacemente l’urina è necessario: • Apparato sfinteriale adeguato • Sufficiente elasticità e capacità vescicale • Assenza di contrazioni detrusoriali non inibibili. • Perfetta sinergia fra detrusore e sfintere Esistono due sfinteri, quello liscio del collo vescicale e quello striato del pavimento pelvico. Lo sfintere liscio è tonicamente chiuso, e viene aperto dalle fibre del parasimpatico sacrale che si occupano della contrazione del detrusore. Quello striato è volontario. Quando lo stimolo alla minzione è imperioso i tensiocettori provocano la contrazione del detrusore, e il rilasciamento dello sfintere liscio. In queste condizioni la minzione può essere deferita con la contrazione dello sfintere striato e con il controllo dei centri corticali, che inibiscono le contrazioni del detrusore. Dopo alcuni minuti, le contrazioni del detrusore diminuiscono, per tornare successivamente dopo alcuni minuti, finché la vescica non viene svuotata e la pressione al suo interno diminuisce. Dal punto di vista traumatologico, le lesioni spinali si possono tradurre nel danneggiamento di due sistemi: • Parasimpatico sacrale: impossibilità a iniziare il riflesso minzionale e a rilasciare lo sfintere liscio. Incontinenza di tipo iscuria paradossa (perdita di urina goccia a goccia a vescica piena) • Fibre motrici volontarie: impossibilità a deferire la minzione (incontinenza completa) La pressione in vescica è di circa 5-10 mmHg, se non ci sono ostacoli al flusso o fibrosi o ipertrofia vescicale. Classificazione patologica Dal punto di vista patogenetico si possono avere varie situazioni: Cause detrusoriali • Iperattività del detrusore: insufficienza del meccanismo di controllo dei centri ipotalamici (cistite) • Bassa capacità vescicale: vescica plurioperata, flogosi con esiti fibrosi • Bassa complience vescicale: la vescica si distende ma soltanto ad alte pressioni (vescica a colonne) Cause uretrali • Deficit strutturali intrinseci: danno anatomico • Ipermobilità vescico-uretrale: legato ad ostruzioni e rigurgito

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• Deficit di trasmissione • Asincronismo detrusore-sfintere • Ostruzione al flusso e ipertrofia vescicale (frequente nel maschio) Classificazione eziologica Invece dal punto di vista clinico si distinguono tre tipi di incontinenza: • Urge incontinence: incapacità di contenere lo stimolo alla minzione, a cui segue incontinenza. Causato da: infezioni, tumori, corpi estranei, calcoli, ostruzione, malattie neurologiche e stimoli irritativi. • Stress incontinence: incontinenza all’aumento della pressione addominale (vedi figura): legato a cause anatomiche, come: malposizione, prolasso dello sfintere, disfunzione intrinseca della struttura dello sfintere. In tutti questi casi sarà basso il profilo di pressione uretrale (PPU) • Overflow incontinence: eccessiva distensione vescicale provoca la minzione (problema che si ha di solito quando è presente una ostruzione. Il meccanismo della stress incontinence è spiegato nella figura. L’aumento della pressione addominale può essere provocato da uno starnuto o un colpo di tosse. C o n d iz io n i n o r m a li la  p r e s s io n e  d e llo  s f in t e r e r im a n e  m a g g io r e  d i q u e lla  d e lla  v e s c ic a : c o n t in e n z a Addom e

Addom e

P =  10 5 V e s c ic a P = 10 5 ­ 110

P =  5

A p p a r a t o  s f in t e r ic o P = 15 0 U r etr a

V e s c ic a P = 5 ­10 Addom e

P =  10 5

A p p a r a t o  s f in t e r ic o P= 50 U r etr a

V e s c ic a A n o m a lia  d i t r a s m is s io n e d a lla  v e s c ic a  a ll’u r e t r a la  p r e s s io n e  d e llo  s f in t e r e è  in f e r io r e  d i q u e lla  d e lla v e s c ic a : In c o n t in e n z a

P = 10 5 ­ 110

A p p a r a t o  s f in t e r ic o P= 50 U r etr a

Diagnosi Ha tre scopi: • Determinare il tipo e la causa dell’incontinenza • Individuare patologie sottostanti delle vie urinarie • Valutazione complessiva del paziente perverificare la situazione fisica, psicologica, e il suo ambiente per verificare le risorse disponibili (valutazione dell’impatto sociale della malattia)

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Anamnesi: o Tipo di incontinenza o Frequenza, intensità, durata o Diurna o notturna o Sintomi associati o Alterazioni della funzione intestinale e sessuale (perdite durante il rapporto sessuale) o Farmaci o Precedenti interventi chirurgici o Miopatie o Malattie neurologiche o Terapia radiante • Esame obiettivo: o Test di incontinenza di base e dopo l’introduzione di colpocele (valutazione del prolasso) o Manovra di Bonney o Esame pelvico o Esame neurologico (studio del riflesso anale che comprende anche il riflesso sfinteriale e valutazione della sensibilità del perineo) • Esame urine e urinocoltura • Foglio minzioni: foglio in cui viene segnata ora, quantità delle minzioni e le perdite urinarie • Pad-test: applicazione di un pannolino per un numero di ore standard e misurazione della differenza di peso • Citologia urinaria • Ecografia renale e vescicale • Cistoscopia • Esame urodinamico: osservazione della distensione vescicale, analisi delle onde di contrazione, misurazione del flusso urinario, misurazione delle pressioni vescicali, uretrali, addominali. Lo studio urodinamico comprende: o Flussimetria: normale nella urge incontinence o Uromanometria: alterato nella urge incontinence o Elettrourografia: misurazione della contrattilità dello sfintere Terapia • Conservativo: igiene personali, pannoloni eccetera • Farmacologico: in paziente con incontinenza da urgenza, farmaci anticolinergici (ossibutalina, detrusitor). Nella cistite e nelle altre infezioni che provocano irritazione vescicale: trattamento chemioterapico adeguato • Riabilitativo: utile nella stress incontinence, inutile se c’è un danno anatomico come ad esempio il prolasso • Chirurgico: soltanto nel prolasso e per le lesioni degli sfinteri (sfintere artificiale) 7.2 PROLASSO UROGENITALE Il prolasso è la discesa degli organi che comunicano con un orifizio naturale entro quell’orifizio. Differisce dall’ernia perché la fuoriuscita dei visceri dalla loro normale sede avviene attraverso un canale che normalmente esiste, mentre nell’ernia il canale si forma e rappresenta la noxa patogena. Per prolasso urogenitale si intende un’alterazione della statica pelvica per cui alcuni organi pelvici, in primo luogo l’utero, possono parzialmente impegnarsi attraverso aree di debolezza del diaframma pelvico (o attraverso l’orifizio vaginale stesso) e determinare in questo modo anche alterazioni

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posturali di uretra e vescica. La patologia è tipicamente femminile, per i seguenti motivi: • Il pavimento pelvico femminili è naturalmente più fragile per la presenza di un orifizio in più, grande e soggetto a traumi nel parto e durante i rapporti sessuali. Questa malattia infatti è più tipica dell’età adulta e delle pluripare. • La pelvi femminile contiene più organi e l’utero, specialmente se è stato gravido, è soggetto ad alterazioni delle strutture legamentose. • Il piccolo forame pelvico del bacino femminile è più grande di quello del bacino maschile • Il canale vaginale non è provvisto di sfinteri La patologia diviene particolarmente frequente in menopausa, quando la cessazione dello stimolo ormonale produce una ipotrofia degli organi e dei legamenti pelvici. Fisiopatologia La causa prima del prolasso è la forza di gravità che agisce sugli organi della pelvi: questi sono soggetti al prolasso sia perché sono vicini agli orifizi naturali, sia perché su di essi gravano tutti i visceri addominali. In effetti è estremamente raro che il prolasso colpisca gli animali a quattro zampe. Essenzialmente due meccanismi: • Alterazioni della funzione muscolare pelvica • Alterazioni dei legamenti pelvici Il prolasso può assumere tre diverse conformazioni, che prendono diversi nomi: • Colpocele anteriore: prolasso di uretra (uretrocele) e/o della vescica (cistocele) • Istrocele o Isteroptosi o Prolasso della volta: utero e/o cupola vaginale • Colpocele posteriore: anse intestinale (enterocele) e/o retto (rettocele) A sua volta il colpocele anteriore prende origine in due modi differenti:

S itu a z io n e  n o rm a le

U re tro c e le (c o lp o c e le  a n te rio re   d i tip o  I)

C is to c e le

U re tro c is to c e le (c o lp o c e le  a n te rio re   d i tip o  II)

Clinica • Incontinenza • Disuria • Idronefrosi (trascinamento in basso dell’uretere) • Infezioni urinarie ricorrenti • Senso di ingombro pelvico • Ulcere mucose per traumi ed infezioni • Ptosi dei visceri sopra e sottostanti  stipsi per formazione di una sacca rettale che riempie lo spazio lasciato dal cistocele. Diagnosi • Esame obiettivo: paziente in posizione ginecologia con vescica piena e a riposo. Applicando una

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• •

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pressione addominale (o sforzo minzionale o defecatorio) vedere quali visceri escono e di quanto. Valutare la differenza con la situazione a riposo. Ecografia dinamica: a riposo e sotto pressione. Urinocoltura

Si deve misurare l’abbassamento degli organi in cm. Terapia E’ sempre chirurgica. Alcuni presidi medici o di igiene possono in qualche modo aiutare: • Ginnastica per rinforzare i muscoli pelvici • Elettromiostimolazione vaginale ripetuta • Protesi sacro-retto-vaginali che riposizionano la vagina e il retto. Fissate posteriormente al sacro e anteriormente alla vagina • Sfintere vescicale artificiale: formato da un piccolo serbatoio anulare disposto attorno al collo della vescica, che viene riempito di acqua quando deve essere chiuso lo sfintere. L’acqua viene rimossa se il soggetto intende urinare. La pompa per riempire e svuotare il serbatoio viene fissato nella zona perineale, accanto al grande labbro destro o sinistro a seconda della mano dominante. 7.3 DISTURBI DELLA MINZIONE ED EMATURIA Questa sezione contiene una sintetica definizione di tutte le anomalie di interesse semeiologico che si possono riscontrare a carico dell’atto della minzione. Minzione fisiologica Vescica con capacità variabile da 300 a 500 ml (la donna un po’ di più dell’uomo), le minzioni sono da 4 a 6 volte al giorno nell’uomo e da 2 a 4 volte nella donna. La quantità di urina emessa complessivamente è di circa 1500 ml. Pollachiuria Aumento della frequenza delle minzioni, che risultano piccole e frequenti (da distinguere dalla poliuria che prevede minzioni frequenti e consistenti, con aumento complessivo della quantità di urina. Le minzioni possono essere così frequenti da interferire significativamente con qualsiasi attività sociale. Si distinguono due forme: • A bassa capacità vescicale: la vescica è di volume ridotto, per via di fibrosi, compressioni estrinseche, neoplasie. Oppure la vescica si svuota subito appena arriva dell’urina per via di flogosi ed altri processi irritativi. • Ad alta capacità vescicale: la vescica è di normale volume, ma c’è un reflusso o un ristagno e quindi diminuisce lo spazio utile di riempimento. Può accadere questo anche con un diverticolo: esso non è composto della muscolatura (i diverticoli sono fatti soltanto dalla sottomucosa) e quindi si riempie di urina, ma poi non si contrae per svuotarsi durante la minzione. Si svuota invece dopo, quando la vescica è a riposo. Minzione rara Diminuzione della minzione per aumento patologico della capacità vescicale. In alcuni casi non ha un significato patologico, come nelle donne che hanno una vescica grossa e urinano 1-2 volte al giorno. Va distinta dall’oliguria dove diminuisce la quantità di urina emessa complessivamente. Può essere caratteristica di alcuni quadri di vescica neurogena, e predisporre alle infezioni urinarie. Minzione imperiosa Stimolo irrefrenabile alla minzione che non è possibile inibire e che può provocare la perdita involontaria di urina. E’ provocato dalla comparsa di contrazioni del detrusore così forti che non

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possono essere inibite e che fanno vincere la resistenza degli sfinteri. Può essere presente in tutte le patologie irritative dell’apparato urinario e nelle neoplasie, o essere di causa neuorogena. Stranguria Minzione dolorosa, nella maggior parte dei casi localizzata a livello del glande o del meato urinario esterno nella donna. Può essere anche molto intenso e determinare un intenso dolore che perdura diversi minuti dopo la minzione e uno stimolo a urinare a vescica vuota (tenesmo). Tipico dei processi infettivi o infiammatori. Disuria Comparsa di una difficoltà a compiere l’atto della minzione, espressione di uno squilibrio fra le forze detrusoriali e quelle sfinteriche. Può essere iniziale, intermedia o terminale. E’ fisiologico un certo grado di disuria iniziale quando si urina con la vescica molto piena e dopo aver ritenuto a lungo l’urina. Questo avviene sia per l’ipertono dello sfintere che per la pressione che la vescica piena provoca sulle strutture del collo. Possono esserci due cause: • Ostruzione cervico ureterale  ipertrofia vescicale  ristagno di urina e comparsa di diverticoli • Ridotta contrattilità del detrusore, determinata da cause neurologiche traumatiche, diabete, degenerazione muscolare, atrofia dopo ostruzione di lunga durata. Eneuresi Minzione involontaria e incosciente che avviene durante il sonno. Spesso sostenuta da cause organiche come infezioni o ostruzioni, può anche essere neurologica. Di solito l’eneuresi pura (solamente notturna) riconosce cause psicologiche. Ematuria Escrezione di una anomala quantità di eritrociti con le urine. Se questa escrezione è individuabile soltanto con il microscopio, avremo una ematuria microscopica, mentre se le urine sono colorate di rosso si parla di ematuria macroscopica. Diagnosi differenziale con uretrorragia,che è la perdita di sangue dall’uretra per lesioni traumatiche o infettive o neoplastiche. Sebbene sia possibile avere ematuria per lesioni di modesta importanza, molto spesso il sintomo denota la possibilità di una neoplasia alta delle vie urinarie. La forza di questa associazione aumenta con l’età, ed è più spesso verificabile nell’uomo rispetto alla donna, nella quale l’ematuria si associa a tumore con probabilità tre volte inferiore che nel maschio. Una certa quantità di eritrociti nelle urine è fisiologica: il limite è fissato a 1.200.000 unità nelle 24 ore (corrispondente a circa 1000u/ml, e circa 3u/HPF). Il campione di urine può esserecontaminato nella raccolta, ad esempio se è presente mestruo o altre emorragie genitali, se il paziente ha fatto esercizio fisico intenso o se ha subito degli scuotimenti. Le urine rosse possono anche essere dovute ad un aumento di pigmenti come nell’emoglobinuria. In alcuni casi l’emorragia appare soltanto in alcuni periodi della giornata (ematuria capricciosa), in altri come una propria emorragia. Nel caso dell’ematuria macroscopica è possibile individuare la sede probabile di sanguinamento osservando la minzione: • Ematuria iniziale: lesione sanguinante della prostata o dell’uretra • Ematuria terminale: lesione della vescica • Ematuria totale: lesione della di origine renale o vescicale Le cause principali di ematuria sono: • Urologiche: glomerulonefriti, pielonefriti, da nefropatia (spesso accompagnate da proteinuria) • Neoplastiche: ematurie di lieve intensità e non particolarmente abbondanti, costanti nel tempo

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Disordini coagulativi Anemia falciforme ed altre alterazioni della crasi ematica Sforzi fisici (transitorie, scompaiono entro 48 ore) Infezioni delle vie urinarie (associate apollachiuria, stranguria e tenesmo e leucocituria) Calcolosi delle vie urinarie (associata a dolori colici) Ipertrofia prostatica (flogosi da ristagno di urina) Traumi urologici

Poliuria Emissione di più di 2 litri nelle 24 ore di urina. In particolari condizioni come il diabeti insipido la quantità di urina emessa raggiunge anche i 20-30 litri. Le poliurie sono distinte in tre grandi gruppi a seconda delle cause: 27. Cause pre-renali: parenchima integro ma costretto ad eliminare una maggiore quantità di urina per via della alterazione dei meccanismi di controllo del bilancio idrico. Potomania, alterazioni della pressione osmotica del sangue, diabete mellito, diabete insipido pre-renale, malattie del SNC. 28. Cause renali: alterazione temporanea o permanente della funzione renale.Possono essere transitorie dopo una oliguria (poliuria compensatoria) o transitorie dopo una distruzione del parenchima renale (le cellule tubulari neoformate non hanno una grande capacità di riassorbimento dell’urina), rappresentare una insufficienza renale in fase iniziale, ed essere quindi espressione di un danno irreversibile della capacità renale di concentrare l’urina. 29. Cause post-renali: grandi idronefrosi che a volte vanno incontro a bruschi svuotamenti. Oliguria Eliminazione di meno di 500 ml nelle 24 ore. Questo volume urinario è il più piccolo volume di urina in grado di eliminare i metaboliti corporei prodotti in 24 ore. Può essere fisiologica dopo una disidratazione anche parziale. Si verifica dopo ustioni, nelle iperpiressie, dopo interventi chirurgici, nelle malattie gastroenteriche, nello scompenso cardiaco eccetera. E’ legata anche a malattie urologiche, come l’insufficienza renale escretoria (vedi oltre). Anuria Abolizione completa della escrezione urinaria. Si distingue dalla ritenzione urinaria per la assenza di urina in vescica verificata tramite catetere. Come la poliuria, può essere distinta sulla base delle cause: • Anuria pre-renale: ipovolemia o ipoperfusione renale, con tutte le loro cause • Anuria renale: danno parenchimale a diversi livelli. Necrosi tubulare su base ischemica, tossica, ostruttiva. Lesioni glomerulari o vascolari intervengono più raramente. • Anuria post renale: ostruzioni delle alte vie escretrici. Calcoli, compressione. Se un solo rene è interessato, a volte si ha una anuria riflessa: in questa condizione si ha una attivazione del sistema simpatico che cerca di aumentare la pressione di filtrazione nel rene malato, e finisce per provocare ipoperfusione renale anche nell’altro rene. Se non si risolve, porta alla sindrome da iperidratazione, iperammoniemia e ipercreatininemia. 7.4 ALTERAZIONI NEUROLOGICHE DELLE VIE ESCRETRICI La vescica neurogena è una sindrome in cui la funzione del basso tratto urinario (vescica e uretra) è alterata per ragioni neurologiche. Le afferenze alla vescica sono essenzialmente tre. Innervazione della vescica denominazione decorso funzione Centro simpatico (T12-L1) n. ipogastrico – Detrusore: rilasciamento toracolombare detrusore e sfintere liscio Sfintere: contrazione Centro parasimpatico sacrale (S2-S4) n. pelvico – detrusore e Detrusore: contrazione

http://www.hackmed.org [email protected] (centro midollare della minzione) Nucleo del pudendo (nucleo di Oniuf)

218 /278 sfintere liscio

Sfintere: rilasciamento

(S4) n. pudendo – sfintere striato Controllo contrattile dello dell’uretra sfintere esterno. Volontario.

Il centro parasimpatico sacrale e il nucleo del pudendo sono anatomicamente la stessa struttura, deputata però a due funzioni diverse e dalla quale si dipartono due vie. Come si vede il parasimpatico è deputato alla contrazione del detrusore eal rilasciamento degli sfinteri, il simpatico all’opposto. I centri spinali interagiscono con i centri corticali, ricevendo daessi un controllo inibitorio tonico sull’attività del contro parasimpatico sacrale. Il riflesso della minzione è un riflesso anomalo, in quanto: • Ha una durata significativamente più lunga di ogni altro riflesso (di diversi secondi), per permettere lo svuotamento di grandi quantità di urina attraverso uno sfintere decisamente piccolo. • Ha un meccanismo di amplificazione sopraspinale, situato nella sostanza reticolare del ponte e del mesencefalo, che permette appunto la genesi di un segnale di uscita molto più lungo di quello in entrata Questo meccanismo di amplificazione pontino è il centro di una complessa serie di connessioni fra la vescica, i centri spinali deputati direttamente al suo controllo, e i centri superiori che controllano l’atto minzionale e permettono il deferimento di esso. Circuiti pontini: • Circuito 1: corteccia e nuclei della base  ponte  centro simpatico toraco-lombare  sfintere e detrusore. Consente il controllo volontario della minzione ed agisce in senso inibitorio. La sua maturazione nell’infanza a la sua degenerazione senile sono alla base dei fenomeni di incontinenza tipici di queste età. • Circuito 2: Tensocettori vescicali  centro toracolombare2  ponte  centro parasimpatico sacrale. Consente la durata temporale sufficiente dalla contrazione del detrusore, ed è quel meccanismo di amplificazione che si diceva prima. Questo circuito impedisce che durante la minzione la diminuzione della pressione dovuta allo svuotamento sia responsabile della cessazione del riflesso contrattile, e permette di svuotare tutta la vescica. • Circuito 3: Tensocettori vescicali  ponte  nucleo motore del pudendo. Permette il rilasciamento dello sfintere striato in concomitanza con la contrazione del detrusore. La sua lesione provoca o il rilasciamento incontrollato dello striato durante il riempimento vescicale,o una ritenzione da dissinergia fra detrusore e sfintere striato • Circuito 4A: Propriocettori del pavimento pelvico  via propriocettiva spinotalamica  corteccia sensitiva  corteccia motrice  via piramidale  sfintere striato. Permette il rilasciamento e la contrazione volontaria dello sfintere striato. • Circuito 4B: Propriocetori del pavimento pelvico  nucleo pudendo  muscoli del pavimento pelvico (α e γ). Questo circuito è importante per la coordinazione della contrazione dello sfintere striato, e funziona prevalentemente con la contrazione di tipo γ. La sua lesione provoca una flaccidità dello sfintere. • Connessioni con cervelletto: permettono la coordinazione posturale dell’atto della minzione • Corteccia frontale: controllo “emotivo” della minzione. Difficoltà ad eseguire la minzione in 2

Questo è molto importante in seguito ad un trauma spinale: infatti se avviene un recupero della funzione vescicale la presenza di una stazione sinaptica intermedia implica che avvenga una rigenerazione delle fibre da questa ai centri superiori.

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pubblico, in luoghi non idonei, in situazioni di scarsa intimità Controllo con i nuclei della base: aumentano la qualità della coordinazione fra sfintere e detrusore, secondo il programma di movimento appreso della minzione.

Neurofisiologia della minzione Riempimento Durante il riempimento della vescica, la pressione al suo interno non aumenta in proporzione al volume, perché il detrusore si dilata progressivamente adattandosi al contenuto. Questo fenomeno di riempimento è legato a due meccansimi: • Miogeno: interviene nella fase iniziale dalla dilatazione del detrusore. Legato alla proprietà distensiva del muscolo quando viene stirato • Neurogeno: interviene successivamente, per volumi vescicali vicini al riempimento massimo. Si ha attivazione di un circuito spinale che ha come centro il nucleo ortosimpatico toracolombare. Esso (cfr tabella all’inizio del capitolo) inibisce l’attività del detrusore permettendone una maggior dilatazione, e promuove la contrazione dello sfintere liscio per contenere le urine. Minzione Lo stimolo propriocettivo attiva la corteccia frontale e motoria. Il riflesso alla minzione è fortemente inibito dai centri corticali superiori attraverso il circuito 1. La volontà di effettuare la minzione provoca: • Attivazione del circuito 4: rilasciamento dello sfintere striato • Inibizione del circuito 1: liberazione del circuito 2 e del circuito 3 • Attivazione del circuito 2: il riflesso della minzione parte dai propriocettori vescicali, si amplifica nei circuiti riverberanti della sostanza reticolare pontina, e scarica sul centro parasimpatico sacrale, contraendo il detrusore e rilasciando lo sfintere, per un tempo sufficiente ad una minzione completa. Nel frattempo lo stesso circuito 2 blocca il simpatico ed elimina la contrazione dello sfintere liscio e del primo tratto dell’uretra. • Il circuito 3 contribuisce al rilasciamento dello sfintere striato. Fisiopatologia La vescica neurogena è la conseguenza clinica di una alterazione delle vie nervose predisposte al controllo della minzione. Le cause possono essere molte. • Traumatiche • Neuropatiche: sclerosi a placche (associata nel 90% dei casi a vescica neurogena), neuropatia diabetica, alcolica o ferrocarenziale, • Alterazioni della formazione spinale: o Mielodisplasia: molto frequente, mancata chiusura del tubo neurale e alterazione del contenimento del midollo spinale o Agenesia sacrale: assenza completa di uno o più segmenti sacrali o Disrafismo spinale: anomalie della porzione caudale del midollo • Morbo di Parkinson • Patologie della colonna vertebrale di qualsiasi natura: spondiloartopatie, accidenti vascolari, prolassi vertebrali, ernie del disco Queste cause possono produrre quadri diversi a seconda del livello al quale agiscono (centrale o periferico). Questo vale soprattutto per le lesioni traumatiche, che meritano un discorso a parte. Lesioni midollari traumatiche La maggior parte di esse sono legate a fratture, compressioni e dislocazione dei corpi vertebrali, ad

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ematomi subdurali, ferite da taglio e da fuoco ed esiti di interventi chirurgici. Le lesioni possono essere: • Complete: disfunzione vescicale grave e sempre irreversibile. • Incomplete: disfunzione vescicale meno grave, spesso reversibile, anche se non completamente Un trauma spinale ha delle conseguenze sulla funzione residua della zona sottostante che cambiano nel tempo. Si distinguono infatti una fase acuta, detta anche shock spinale, che corrisponde al periodo immediatamente successivo all’evento traumatico, e una fase cronica che si manifesta dopo. Questa distinzione è importante perché può accadere che una volta superata la fase acuta alcune funzioni possano essere recuperate. Vescica neurogena di fase acuta Subito dopo un trauma completo di resezione spinale, il tratto a valle della lesione (e quindi disconnesso dai centri superiori) è caratterizzato da una forte ipoeccitabilità: sono aboliti quindi completamente tutti i riflessi spinali anche se indipendenti dalle strutture superiori, benché le aree deputate al controllo e all’esecuzione di tali riflessi a livello spinale e periferico siano intatte. Questa fase è definita shock spinale, e può durare per un tempo variabile da poche settimane a molti mesi (la sua durata è direttamente proporzionale alla complessità del SNC e negli animali inferiori dura solo alcune ore). La vescica in questa fase è completamente areflessica, ossia il riflesso detrusoriale alla minzione del circuito 2 non si attiva, pur essendo libero dalle inibizioni superiori. Gli sfinteri permangono chiusi tonicamente, e il paziente subisce una ritenzione acuta di urina in vescica. Questa fase dura da 3 settimane a 12 mesi, e viene trattata con il cateterismo vescicale. Tutto ciò avviene perché la vescica è completamente sganciata dal controllo superiore, e quindi l’unica attività è quella dovuta ai riflessi spinali, i quali però sono temporaneamente aboliti. Vescica neurogena cronica La lesione stabilizzata ha delle conseguenze cliniche differenti a seconda del livello della lesione.  Vescica riflessa o automatica:lesione a monte del tratto lombosacrale: funzionamento normale dei riflessi spinali ma completa assenza dell’inibizione centrale. I riflessi vescicali sono aumentati notevolmente per l’assenza del controllo centrale inibitorio, e bastano poche gocce di urina a scatenare la minzione. Clinicamente si ha: • Incontinenza urinaria involontaria con minzione imperiosa al riempimento parziale della vescica • Dissinergia vescico-sfinterica: manca il controllo superiore sulla coordinazione degli sfinteri. Questo comporta un aumento della pressione vescicale e la possibilità di un reflusso ureterale. Si ha quindi contemporaneamente una ritenzione e una incontinenza. • Incapacità di terminare la minzione o di iniziarla volontariamente, anche se il paziente può apprendere ad evocare il riflesso della minzione attraverso la stimolazione di alcune aree cutanee in quanto i riflessi spinali sono conservati. Possono essere presenti dei segni di sezione spinale (Babinsky, iperiflessia osteo-tendinea), la sensibilità vescicale è interrotta. Nondimeno, il paziente può imparare a cogliere segni della distensione vescicale peculiari, in quanto spesso la distensione della vescica in queste condizioni provoca ipertensione, tachicardia, cefalea, sudorazione che sono legati all’attivazione ortosimpatica (meccanismo neurogeno di distensione del detrusore visto prima) non più regolata dalla corteccia, e che possono essere interpretati come segno indiretto del riempimento vescicale. Sono conservati in questo caso in riflessi bulbocavernoso e perianale (ossia la contrazione dello

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sfintere anale provocata rispettivamente dallo strofinamento rapido del glande odel clitoride e della regione perianale), che vengono persi nel caso di lesione del tratto lombosacrale  Neurovescica autonoma: lesione a carico del tratto lombosacrale, con perdita dei neuroni spinali responsabili dei riflessi vescicali e del controllo dei centri nervosi superiori. Sia nella fase di shock spinale che nella fase successiva la vescica è completamente areflessica. Si ha perdita di urina goccia a goccia per la grande distensione urinaria raggiunta (iscuria paradossa). La funzione sfinterica continuamente sottoposta ad alte pressioni può deteriorarsi e si ha quindi sgocciolamento continuo dell’urina. Il paziente non avverte in nessun modo lo stimolo alla minzione, e non esistono riflessi in grado di scatenarla. La minzione avviene solo per il superamento della resistenza sfinterica da parte della pressione vescicale. I riflessi bulbo-cavernoso e perianale sono assenti. Interruzioni parziali dell’innervazione vescicale Neurovescica paralitica da lesione sensitiva Interruzione delle vie sensitive con innervazione motoria perfettamente integra. Può derivare dal diabete mellito o dal tabe dorsale luetico. Con una sintomatologia da ostruzione aspecifica, la malattia produce minzione rara e sovradistensione vescicale: il paziente non si accorge di quando deve urinare, e il getto appare piccolo e poco potente. Si ha anche assenza dei riflessi bulbocavernoso e perianale. Neurovescica paralitica da lesione motoria Lesione delle vie motorie al di sotto di S2 con sensibilità viscerale e cutanea conservata. Anche in questo caso si ha sovradistensione vescicale, ma per incapacità del detrusore di contrarsi. Di solito c’è una sintomatologia simile alla ostruzione, di grado variabile. Diagnosi • Anamnesi: oltre alla anamnesi urologica normale (frequenza, durata e abbondanza delle minzioni, leucocituria, ematuria, fosfaturia, proteinuria, presenza di altri disturbi urinari) assumono particolare importanza la ricerca accurata di fattori eziologici preesistenti come traumi, ictus, discopatie, interventi sul midollo eccetera. Importante anche l’anamnesi farmacologica che verte in particolare su fenotiazine, anticolinergici e antipertensivi. Valutare l’integrità delle vie sensitive e motorie attraverso l’analisi delle sensazioni legati agli atti urinari e sessuali. • Esame obiettivo: sensibilità tattile, termica e dolorifica, assieme alla coordinazione e tono muscolare, più i riflessi spinali permettono di valutare la funzione nervosa e l’integrità delle funzioni spinali. Importanti riflessi sono il bulbocavernoso, il riflesso perianale e il riflesso anale profondo. • Indagini radiologiche: Rx del rachide e urografia. La cistografia dinamica minzionale permete di valutare il livello di contenimento e di stenosi dell’apparato urinario in relazione alla variazione della pressione addominale. I test descritti successivamente fanno parte della indagine urodinamica, una serie di misurazioni che permettono di indagare le vie urinarie in tempo reale e valutarne la correttezza funzionale. •



Uroflussometria: registrazione continua del volume urinario emesso nell’unità di tempo. Di facile esecuzione, ripetibile e non invasivo e molto utile. Perché dia informazioni utili richiede almeno 200 ml di urina; la morfologia del tracciatopermette di identificare alcune alterazioni specifiche che hanno quadri caratteristici. Cistometria: registrazione continua delle variazioni pressorie intravescicali in funzione del volume dell’organo. Può essere eseguito con acqua o con sostanze gassose, ma spesso è invasivo

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perché l’approccio alla vescica tramite catetere falsa i dati, e allora si attua un approccio percutaneo. Si valutano tre parametri: o Sensibilità vescicale: gli stimoli alla minzione sono percepiti fra 150 e 200 ml per la prima volta, e la sensazione di pienezza è indice della capacità vescicale massima o Complience del detrusore: analisi della pendenza della curva pressione volume o Presenza di contrazioni detrusoriali instabili: comparsa, nel tracciato di riempimento, di picchi di ampiezza maggiore di 15 mmHg dovute alla contrazione involontaria e non sopprimibile del detrusore. Tosse, variazioni posturali e riempimento rapido sono spesso sufficienti a provocare queste contrazioni se ci sono. • Test dell’acqua gelata: instillazione endovescicale di SF ghiacciata fino ad 1/3 della capacità vescicale (60-90 ml). Il test è positivo se tutta o quasi la soluzione inserita viene espulsa nel giro di un minuto senza sforzo apparente, ed è indice di una lesione del motoneurone superiore. • Tracciato cistometrico durante la minzione: variante della cistometria che permette di valutare le modalità di svuotamento vescicale ed informa sulle capacità di svuotamento del detrusore. • Stop test: osservazione del picco di pressione del detrusore quando viene ordinato di interrompere la minzione. • Pressione sottratta: quando si valuta il tracciato di pressione della cistometria o dello stop-test si deve riferirsi alla pressione detrusoriale, non a quella complessiva in vescica. Questa si ricava sottraendo la pressione addominale da quella vescicale e ottenendo così la pressione detrusoriale. La P addominale si misura con una sonda rettale. • Profilometria pressoria uretrale (PPU): registrazione della pressione endoluminali lungo le varie porzioni dell’uretra. La pressione di chiusura uretrale è la pressione endouretrale sottratta della pressione vescicale. Valutare questo parametro durante il flusso permette di verificare l’efficacia del meccanismo di trasmissione della pressione dall’addome all’uretra. Questo è importante e può essere alla base dell’incontinenza una sua alterazione: ad un aumento della pressione addominale corrisponde sempre un aumento della pressione vescicale e uretrale, così che le differenze pressorie e la pressione di chiusura uretrale rimangono costanti. Quando è presente un difetto di trasmissione di pressione fra uretra e addome, la P vescicale aumenta con quella addominale, mentre quella uretrale no, con conseguente riduzione della pressione di chiusura uretrale. • Elettromielografia: tecnica recente che valuta il tempo di transito lungo i circuiti del nervo pelvico e del pudendo dell’impulso indotto a livello del nervo dorsale del pene o altrove. Essa permette di verificare l’integrità funzionale dei circuiti 3 e 4B. Terapia Vescica con shock spinale • Catetere permanente, anche per permettere l’esecuzione di altri esami, interventi e controllare la diuresi postoperatoria • Dopo 20-30 giorni, rimozione del catetere. Già dopo questo periodo, l’incidenza di infezioni urinarie è del 100%, e possono esserci calcoli sul palloncino, ulcere dell’uretra, diverticoli • Profilassi delle infezioni urinarie Una vescica da shock non trattata va incontro a infezioni, calcoli, fistole peno-scrotali, diverticoli uretrali, reflusso, insufficienza renale cronica, infezioni genitali e urinarie Vescica areflessica • Non usare farmaci o altro che aumentino la contrattilità della vescica • Drenaggio intermittente: paziente educato a fare l’autocateterismo intermittente, tante volte quanto è necessario rimuovere l’urina (in base ai liquidi ingeriti). Queste manovre non vengono eseguite più di 4-5 volte al giorno. Pesante menomazione della vita sociale.

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Vescica iperiflessica • Cateterismo intermittente • Farmaci e tecniche di riabilitazione chirurgica per ripristinare la continenza delle urina fino a 350500 ml. In questo caso la perdita involontaria e a volte molto frequente dell’urina è un pesante tributo da pagare che spesso limita la vita sociale in maniera considerevole. 7.5 UROPATIE OSTRUTTIVE Si tratta di una serie di alterazioni anatomo-funzionali dell’apparato urinario che si manifestano in seguito alla presenza di ostacoli nel lume urinario. A seconda della zona di ostruzione abbiamo: • UO alta: ostacolo caliceo-ureterale, ostacolo ureterale, reflusso vescico ureterale • UO bassa: ostacolo cervico-uretrale A seconda dell’intensità dell’ostruzione abbiamo: • UO completa: o Alta: calcolo incuneato nell’uretere o Bassa: fase finale fibrotica dell’uropatia ostruttiva cronica periuretrale • UO incompleta (sempre cronica) CAUSE In questa tabella sono riportate le cause più comuni di uropatia ostruttiva dei diversi distretti. Il senso di questo capitolo è infatti quello di fornire non una trattazione clinica delle varie cause, ma un quadro generale della fisiopatologia dell’ostruzione al flusso di urina, e delle sue conseguenze sul rene. Cause URETERE VESCICA URETRA Ostruzione acuta Flogosi, coaguli, traumi, tumori, Litiasi Litiasi, traumi Intrinseca litiasi Estrinseca Ostruzione cronica Congenita Acquisita intrinseca Acquisita estrinseca

Iatrogena

Iatrogena, traumi

Traumi

Malattie del giunto pielo ureterale, megauretere, reflusso vescicoureterale, ureterocele, uretere retrocavale Litiasi, neoplasie dell’alta via escretrice

Sclerosi del collo della vescica

Valvole dell’uretra, stenosi

Fibrosi retroperitoneale, patologie del peritoneo, tumori, metastasi, lesioni iatrogene

Neoplasie del collo vescicale, Stenosi e neoplasie vescica neurogena, patologie prostatiche Patologie della cervice uterina e del colon

FISIOPATOLOGIA Si distinguono tre stadi della malattia ostruttiva cronica: • Stadio iniziale di compenso: aumento dell’attività del detrusore che provoca ipertrofia vescicale • Stadio intermedio di scompenso: aumento ulteriore della resistenza che non riesce più ad essere compensata dall’attività del detrusore. Non è possibile effettuare uno svuotamento completo e quindi rimane un residuo ingravescente • Stadio terminale di distensione: la resistenza aumenta ancora, si verifica sfiancamento della vescica e quindi alla fine c’è iscuria paradossa3 Tutte le ostruzioni, acute o croniche, si accompagnano a stasi, con aumento della pressione e danno 3

L’iscuria è lo sgocciolamento dall’uretra di ogni goccia di urina che entra in vescica. In questo caso si chiama paradossa perché pur essendo una forma di incontinenza, si verifica a vescica piena, perché la distensione vescicale ha superato i limiti di resistenza degli sfinteri e dei meccanismi di contenimento.

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delle strutture a monte. E’ il rene a risentire di più di questa situazione, con alterazioni della sua funzione temporanee o permanenti, a seconda della tempestività della rimozione dell’ostacolo. Una volta che si verifica una ostruzione al deflusso di urina, si verificano in successione i seguenti eventi: • Aumento della pressione endoluminale rapido (ipertonia) dalla norma di 6,5 mmHg fino anche a 70 mmHg 1 ora dopo l’ostruzione, con aumento della peristalsi dell’uretere (ipercinesia) • Stabilizzazione dell’attività peristaltica (l’uretere si “rende conto” dell’impossibilità di superare l’ostacolo). Dalla 24° ora si raggiunge un valore pressorio pari al50% di quella della prima ora, che rimane stabile per circa 8 settimane Tutta questa attività pressoria ha delle conseguenze nella funzione renale e sulla sua morfologia. Modificazioni microscopiche • Appiattimento della papilla e dilatazione del nefrone distale • Dilatazione e necrosi dei tubuli collettori • Riduzione dello spessore della midollare e della corticale Modificazioni macroscopiche • Progressiva dilatazione delle vie escretrici alte • Edema renale con aumento di peso e atrofia parenchimale (successivi l’uno all’altro) • Colore blu scuro, venato del parenchima Modificazioni della via escretrice • Ipertrofia e iperplasia muscolare a monte dell’ostruzione • Proliferazione di collagene  alterata trasmissione dell’impulso miogeno  disturbo della peristalsi (le fibre muscolari si trasformanoin fibre connettivali) Quando il collagene diventa prevalente sulla muscolatura la situazione è irreversibile. La diminuzione della componente muscolare della parete produce una diverticolosi vescicale. • Nell’uropatia ostruttiva alta si ha anche dilatazione e allungamento dell’uretere che produce la flessione della parte bassa di esso, ora sovrabbondante, condizione nota come inginocchiamento ureterale. Alterazioni funzionali • Diminuzione della VFG • Diminuzione del flusso ematico renale (fino anche al 75%). Il flusso ematico diminuiscedi più della VFG, e c’è aumento della frazione di filtrazione  ischemia relativa  renina  ipertensione arteriosa sistemica • Diminuzione della capacità di concentrare le urine (insensibilità all’ADH) • Alterazione di tutte le fasi del processo di controllo dell’equilibrio acido/base • Anuria riflessa del rene non interessato (attivazione del simpatico, fattore renotrofico umorale?) Meccanismi di compenso • Aumento della pressione e della peristalsi • Stravaso di urina negli spazi peripelvici o perirenali • Reflusso pielo-caliceale (idronefrosi cronica) • Reflusso pielo-linfatico (soltanto per ostruzioni parziali con bassa pressione) Tali meccanismi consentono il mantenimento della pressione di filtrazione glomerulare normale ed evitano il grave accumulo di cataboliti nel sangue.

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CLINICA • Ipertensione arteriosa • Eritrocitosi (aumento EPO) • Anuria riflessa neurogena • Calcolosi e infezioni da ulteriore danno parenchimale DIAGNOSI Le alterazioni prenatali sono asintomatiche (spesso molte alterazioni congenite possono essere alla base dell’uropatia ostruttiva) e si vedono all’ecografia materna Quelle postnatali si dividono in acute e croniche: • Acute: dolore colico, ematuria (rara) • Croniche: asintomatiche o paucisintomatiche: dolore gravativo, disuria di grado variabile, infezioni, ematuria, calcolosi TERAPIA Il primo obiettivo è la salvaguardia delle vie urinarie alte: se è possibile si inizia subito una terapia conservativa, ma se le condizioni del paziente sono molto alterate può essere necessario ristabilire la funzione renale con un intervento evacuativo e poi iniziare la terapia. • Catetere utile per ostruzioni delle vie urinarie basse, e successivamente terapia delle condizioni che hanno prodotto la stenosi (ad es. prostatite o calcolosi) • Pielostomia ecoguidata: catetere percutaneo che drena il bacinetto renale Dopo una ostruzione, la diuresi aumenta in maniera tanto più intensa quanto più grande è il carico osmotico di fluidi e suluti trattenuti. E’ più intensa dopo risoluzione di una UO bilaterale o su rene unico. Nella terapia occorre prevedere questo e instaurare un bilancio idrico ridotto per non prolungare l’iperdiuresi, facendo attenzione a non disidratare il paziente.

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CAP 8 PATOLOGIA DELLA PROSTATA 8.1 IPERTROFIA PROSTATICA Rappresenta senza dubbio una alterazione diffusa: 90% dei pazienti intorno agli 80 anni è portatore di una ipertrofia microscopica, e di questi un 50% sperimenta sintomi di stenosi all’efflusso urinario. Complessivamente la patologia interessa circa il 25% dei maschi adulti al di sopra dei 50 anni. Non tutte le prostate significativamente ingrossate sono palpabili all’esplorazione rettale. Eziopatogenesi La patogenesi è senza dubbio multifattoriale, ma ci sono almeno due punti fermi importanti: • La presenza di testicoli o di una fonte di androgeni • L’invecchiamento A differenza di altri organi sessuali maschili, la prostata conserva sempre i recettori per gli androgeni e quindi continua a crescere per tutta la vita del paziente. Questo predispone fortemente tutti gli uomini con genitali funzionanti allo sviluppo di questa patologia. Perché essa si sviluppi, però, non è sufficiente la presenza di testicoli e il tempo: in altre parole i due fattori elencati primasono necessari ma non sufficienti a produrre l’ipertrofia. I fattori ulteriori non sono stati identificati con certezza: • Fattori endocrini: estrogeni, DHT (diidrotestosterone), livello di androgeni liberi nel plasma • Fattori neuroendocrini: KGF, TGFα e β, FGF, EGF • Recupero della capacità proliferativa da parte del mesenchima residuo del seno urogenitale e induzione della produzione di nuovo tessuto prostatico • Alterazione della maturazione delle cellule staminali • Diminuzione dei meccanismi di apoptosi • Fattori di crescita non identificati (alcuni stimolano la mitosi, altri diminuiscono l’apoptosi) • Azioni della matrice cellulare (regola la proliferazione reciprocadi stroma ed epitelio ghiandolare, promovendo e inibendo la secrezione di fattori di crescita e ormoni I due fattori principali, gli androgeni e gli estrogeni, sembrano esercitare un importante sinergismo nella crescita della ghiandola: i primi promuovono la crescita dell’epitelio, i secondi quella dello stroma. Inoltre il legame dei recettori per estrogeni al ligando promuove l’espressione dei recettori per androgeni nell’epitelio ghiandolare e aumenta significativamente la 5 α reduttasi (che trasforma il T in DHT). Nell’anziano c’è aumento relativo di estrogeni rispetto agli androgeni e si ha una proliferazione del tessuto stromale in maggior quantità. Fattori di crescita, azione della matrice, ormoni e apoptosi provocano una crescita equilibrata delle cellule prostatiche . Se si ha uno sbilanciamento di questi meccanismi, otteniamo una crescita patologica. Essa si può esplicare, a seconda delle condizioni e degli stimoli che l’hanno prodotta, in senso benigno o in senso neoplastico. La neoplasia ha in genere una crescita eccentrica e non provoca stesi. La crescita riguarda le porzioni ghiandolari peruretrali ma extrasfinteriche. L’iperplasia ha una crescita concentrica e interessa le ghiandole uretrali intrasfinteriche provocando stasi al flusso. Nell’uno e nell’altro caso, la crescita avviene prevalentemente a carico delle ghiandole della zona di transizione  Esiste una frequente associazione fra ipertrofia e carcinoma prostatico, di significato non ben chiaro, che riguarda il 10% delle ipertrofie. Molto probabilmente è una associazione causale di due entità ben distinte, piuttosto che una progressione dell’ipertrofia verso il carcinoma.

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Fisiopatologia ostruttiva Nel provocare ostruzione la prostata iperplastica agisce con due meccanismi: • Componente meccanica: legata allo sviluppo dei lobi adenomatosi che ostruiscono il lume uretrale e il collo vescicale. I lobi centrali, anche se piccoli e isolati, risultano più ostruenti di due grossi lobi laterali. • Componente funzionale: proliferazioni della componente muscolare con attività α adrenergica. Gli α bloccanti hanno una buona efficacia nel ridurre la pressione prostatica del 40% in fase di minzione. Gli effetti di questa duplice ostruzione sono: • Allungamento e scoliosi dell’uretra; essa si ovalizza • Aumento del volume prostatico, e presenza di una capsula prostatica relativamente poco estensibile • Presenza del 3° lobo, quello intermedio, con una chiusura dell’uretra di tipo valvolare: più il paziente spinge, più il terzo lobo chiude l’imbocco dell’uretra • Rigidità del tessuto periuretrale per l’aumento della componente stromale • Ipertono della muscolatura liscia periuretrale • Modificazioni della vescica: o Ipertrofia (vescica a colonne)  proliferazione del collagene fra le fibre vescicali del detrusore  alterazioni mioelettriche  comparsa di contrazioni instabili e anarchiche con perdita della normale distensibilità viscerale  perdita della complience vescicale e sintomatologia irritativa o Innalzamento del fondo colonnare o Approfondimento delle trabecole fra zone muscolari ispessite  diverticoli Alla fine il detrusore perde sempre di più la sua capacità di contrarsi e si allarga sotto la spinta dell’urina residua che rimane alla fine della minzione e si ha dilatazione della vescica. L’urina che ristagna porta infezioni e compromissione della funzione renale. Il lobo medio, quando interessato dall’ipertrofia, cresce all’interno della vescica e non viene mai percepito all’esplorazione rettale: è per questo che non tutte le ipertrofia sono diagnosticabili con questo esame obiettivo. Invece risulta visibile all’ecografia transrettale. Dal punto di vista funzionale del detrusore esistono le tre fasi della stenosi: • • •

Compenso: aumento della pressione endoluminale e ipercinesia Scompenso: ulteriore aumento della pressione, ma ipocinesia Dilatazione: diminuzione della pressione e acinesia

L’evoluzione attraverso queste tre fasi, che è lenta, rappresenta la progressiva perdita di contrattilità del detrusore che non riesce a bilanciare l’aumento pressorio dovuto al ristagno di urina. Clinica • Sintomi irritativi: pollachiuria diurna e notturna, minzione imperiosa, tenesmo vescicale (da irritabilità del detrusore, diminuzione della capacità del serbatoio, superinfezione batterica) • Sintomi di tipo ostruttivo: (più tardivi) disuria iniziale (difficoltà ad iniziare la minzione), disuria totale (necessità di aumentare la P addominale per urinare), mitto ipovalido, sgocciolamento postminzionale,.

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Esaurimento della capacità contrattile del detrusore: ritenzione acuta (ad esempio al caldo, vasodilatazione della prostata  ingrossamento  minzione impossibile), distensione vescicale, iscuria paradossa Diagnosi • Anamnesi: passaggio lento fra le varie fasi dell’ostruzione (rapido nel carcinoma) • Esplorazione rettale: eseguire a vescica vuota, permetta la valutazione di molti parametri della ghiandola. o Volume della prostata o Conformazione della ghiandola (situazione normale: dimensioni di una castagna con un solco fra i due lobi. Ipertrofia: forma sferica e volume aumentato) o Consistenza: nell’ipertrofia come nella situazione normale è teso-elastica come una pallina da tennis, nel K è lignea o Superficie: nell’ipertrofia è liscia e omogenea come una mela. Nel K può essere irregolare o Limiti: ben delimitata dalla capsula (a meno di ipertrofie grandissime) a differenza del K o Dolorabilità: alla palpazione stimolo a urinare (normale). Nella prostatite o nel carcinoma da dolore • Esame obiettivo addome: ottusità sotto l’ombelico a concavità verso il basso non variante con le varie posizioni del paziente. Eventuale aumento del volume dei reni per idronefrosi • Esami di laboratorio: esame urine non utile (rivela semmai la presenza di complicazione infettive). Molto utile il dosaggio del PSA nella diagnosi differenziale con il K. (0-4: normale; 410: affezioni prostatiche aspecifiche; >10 probabile carcinoma della prostata differenziato, l’indifferenziato non produce PSA). Importante anche la fosfatasi acida, anch’essa prodotta solo dalla prostata. Bisogna valutare il tasso ematico totale di PSA: la frazione libera su quella totale diminuisce in corso di neoplasia maligna. • Uroflussimetria: valori di flusso massimale > di 15 ml/s sono indicativi di assenza di ostruzione, < di 10 ml/sec sono indicativi di ostruzione. • Determinazione del residuo vescicale postminzionale: con catetere o con ECO • Ecografia sovrapubica e transrettale: utile per la valutazione delle zone della prostata inesplorate alla palpazione. • Urografia endovenosa: d’obbligo se è presente ematuria • Cistouretrografia retrograda: eseguire se si sospetta una stenosi uretrale. Terapia medica • Inibizione della 5α reduttasi (finasteride) • α bloccanti: alfizosina, terazosina  rilasciamento del collo vescicale • imepartracina: antimicotico che ha come effetto secondario la riduzione della componente edematosa dell’ipertrofia Terapia chirurgica • Chirurgia tradizionale, soprattutto per prostate molto grandi, per via transvescicale • TURP: resezione prostatica transuretrale, utilizzando un cistoscopio particolare contenente un’ansa con un bisturi elettrico • TUIP: incisione prostatica transuretrale, per prostate piccole in paziente giovane. Asportazione di una parte della prostata e diminuzione della compressione • Coagulazione laser: non molto vantaggiosa rispetto all’asportazione endoscopica, viene effettuata in particolari situazione (come negli anziani) perché è quasi indolore • Termoterapia: con cateteri particolare che raggiungono i 65°C e provocano necrosi coagulativa della ghiandola. E’ una terapia palliativa in anziani o non idonei all’intervento chirurgico

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Dilatazione con palloncino

Le indicazioni alla terapia chirurgica sono • Paziente giovani (circa 50 anni) con ostruzione non grave • Grande ostacolo alla minzione Gli interventi sulla prostata per ipertrofia devono asportare solo la parte ipertrofica, mentre in quelli per carcinoma si asporta tutta la ghiandola. 8.2 CARCINOMA DELLA PROSTATA 3°-4° posto per mortalità, 1° posto dopo 70-75 anni. Dipende anchedalla zona geografica a cui ci si riferisce (minor incidenza in oriente perambiente e alimentazione) Fattori di rischio accertati sono: • Razza • Età (>50) • Familiarità (rischio aumentato di 3 volte) • Dieta: grassi, diminuzione dell’assorbimento di vitamine antiossidanti (A,D,C) • Occupazione: industria tessile, chimica e della gomma • Attività e infezioni sessuali Si tratta nel 95% di adenocarcinomi. I carcinomi a cellule di transizione e squamoso, e i sarcomi occupano insieme il restante 5% Grading Esiste una scala di gradazione detta scaladi Gleason per valutare l’anaplasia delle cellule. Viene riferita ad un sistema di punteggio da 1 a 5 in base alle alterazioni architetturali della 2 popolazioni cellulari più diffuse. Sommati insieme questi due punteggi danno un grading da 2 a 10. Staging • T1: tumore non palpabile clinicamente, non visibile agli strumenti, di riscontro istologico nell’analisi di tessuto asportato per iperplasia benigna (tumore nel contesto di un nodulo iperplastico) o T1a: meno del 5% del tessuto osservato o T1b: maggiore del 5% del tessuto osservato o T1c: PSA elevato • T2: tumore prostatico palpabile limitato dalla capsula o T2a: 1 solo lobo o T2b: ai 2 lobi • T3: tumore extraprostatico o T3a: oltre la capsula nel connettivo periprostatico o T3b: esteso alle vescichette seminali • T4: invasione del retto o della vescica Clinica Ipertrofia ad evoluzione molto più rapida rispetto a quella benigna, con evoluzione scarsamente stenosante e principalmente diretta verso l’esterno della ghiandola. A volte ematuria ed emospermia Diagnosi • Biopsia ecoguidata: unico esame certo per dire se il paziente ipertrofico ha un cancro • Ecografia transrettale: staging • RMN addome e pelvi: staging

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TC addome: metastasi epatiche e renali Scintigrafia ossea: metastasi ossee

Le metastasi sono spesso linfatiche o alle ossa. Terapia Viene scelta in base allo stadio clinico, età, condizioni cliniche del paziente. In genere esistono tre tipi di terapia, con applicazioni differenti: • Chirurgica: applicabile solo al tumore locale. Applicabile fino ai T2, poco ai T3 mai a T4 o se N+ o M+ • Radioterapia: applicabile ai margini della lesione. Viene usata fino a T3. No T4, N+, M+ • Medica: chemio molto poco sensibile; ormonoterapia per metastasi a distanza (M+). Controindicazioni alla chirurgia sono paziente in età avanzata, condizioni scadenti. Alternative sono la radioterapia e l’ormonoterapia.  L’ormonoterapia consiste nell’eliminazione dello stimolo androgenico alla proliferazione del tumore. • Estrogeni: diminuiscono la secrezione ipofisaria di FSH e LH e quindi di testosterone. Effetti avversi sul CV e sull’assorbimento osseo • Antiandrogeni: reale efficacia abbastanza dubbia, anche se funzionano bene nell’ipertrofia benigna. Diminuiscono la libido e l’attività erettile e non sono molto adatti come misura preventiva • Inibitori della 5α reduttasi: dubbia efficicia • Antiandrogeni non steroidei • Analoghi di LH-RH ad azione agonista (castrazione farmacologica, agiscono per esaurimento delle cellule produttrici di LH) • Asportazione dei testicoli: preferibile alla terapia ormonale se si pensa che questa debba continuare per sempre. Gli antiandrogeni, steroidei e non, sono composti agonisti inversi del recettore per il testosterone. I livelli del testosterone rimangono elevati maquesto non può agire perché ha meno affinità degli antiandrogeni per il suo recettore. L’utilizzo contemporaneo di un analogo dell’LH-RH e di un antiandrogeno realizza quello che si chiama blocco androgenico completo. Questo tipo di terapia ha il grosso vantaggio di prevenire l’aumento del T prodotto dall’analogo di LH-RH con l’uso dell’antiandrogeno, che viene iniziato per primo. Gli antiandrogeni inoltre vengono ciclicamente sospesi (perché per intervalli di tempo di qualche mese è sufficiente l’effetto dell’LH-RH ) e questo permette di abbassare i costi e di mantenere, in questi intervalli, una certa attività sessuale. La ripresa della terapia doppia viene attuata quando il PSA sale oltre 10. La terapia alternante ha anche un altro importante vantaggio: alla fine di un ciclo sono aumentate le cellule in fase quiescente (che non richiedono ormone per mantenersi). Queste non sono aggredibile da nessun trattamento, e perciò la sospensione della terapia induce queste a mettersi in fase riproduttiva sotto lo stimolo ormonale. Il nuovo ciclo di terapia tende a distruggerle. L’ormonoterapia è molto efficace nelle metastasi (non se più vecchie di 4-5 anni) e nei tumori primitivi

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 La chemioterapia non è molto efficace. Può essere però usata in associazione con la ormonoterapia per migliorarne l’efficacia: mostarde azotate + estrogeni + estramustina fosfato. Poco indicata negli anziani.  Asportazione chirurgica: T2 ed età minore di 70 anni.  Crioterapia: sonda transcutanea nella prostata vicino allo zero assoluto (azoto liquido) con catetere uretrale per scaldare e proteggere l’uretra

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CAP 9 PATOLOGIA DEL TESTICOLO 9.1 NEOPLASIE DEL TESTICOLO Complessivamente circa l’1% delle neoplasie del maschio, ma sono la neoplasia solida più frequente del maschio fra 20 e 34 anni (tuttavia meno frequenti delle leucemie). Per la loro prognosi poco favorevole e per la notevole gravità della menomazione che lasciano sono malattie di un impatto sociale considerevole, vista anche la fascia di età in cui sono frequenti. L’incidenza di queste malattie è in aumento nella razza bianca e nelle classi sociali elevate. E’ bilaterale nel 2% dei casi (sincroni o metacroni). Fra i 25 e 35 anni sono prevalenti le forme non seminomatose, dopo i 35 anni i seminomi. Classificazione I tumori possono interessare tutte le componenti del testicolo: le cellule germinali, gli stromi gonadici, gli annessi e le altre strutture connettivali. • Tumori a cellule germinali: sono il 95% dei tumori del testicolo o Seminomi:  Seminoma tipico  Seminoma anaplastico  Seminoma spermatocitico o Non seminomi Tumori embrionali  Carcinoma embrionale  Teratoma (teratocarcinoma)  Corioncarcinoma  Tumore del sacco vitellino • Tumori dello stroma gonadico e dei cordoni sessuali: o Tumori a cellule di Leydig o Tumori a cellule di Sertoli • Tumori degli annessi stromali • Carcinoidi, linfomi, metastasi • Forme miste SEMINOMA 70% dei tumori germinativi, dal 30 al 50% di tutte le neoplasie testicolari. Distinto in tre entità morfologiche: • Forma tipica (85%): elementi cellulari uniformi, grandi e rotondi. Lo stroma della neoplasia può essere infiltrato di tessuto linfoide e questo è un indice di aggressività minore • Forma anaplastica (10-15%): un certo grado di anaplasia è presente in tutti i seminomi, ma questo tumore ha anche un indice mitotico elevato. Può essere confusa con il carcinoma embrionale • Forma spermatocitica (2-5%): forma più differenziata, con cellule molto diverse fra di loro. Si osservano ponti citoplasmatici fra una cellula e l’altra come quelli fra spermatidi e cellule del Sertoli. Macroscopica: il testicolo è uniformemente aumentato di volume, consistenza dura, superficie regolare. Non sono di solito interessate albuginea ed epididimo (quest’ultimo è facilmente distinguibile dal resto del testicolo tramite pinzamento) NON SEMINOMI 15-20% dei tumori germinali. Hanno una elevata tendenza alla metastatizzazione per via della loro derivazione da cellule totipotenti (e quindi in grado di sviluppare facilmente fenotipi metastatici). A differenza dei seminomi, la macroscopica di questi tumori indica una consistenza dura e una

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superficie irregolare del testicolo Tumore del sacco vitellino Sinonimi: Carcinoma embrionale infantile; Orchioblastoma; tumore del seno endodermico Si manifesta in genere nei bambini al di sotto dei 4 anni di età, ha una prognosi più misericordiosa e di solito si associa al carcinoma embrionale. Corioncarcinoma Di solito si manifesta come un piccolo focolaio emorragico nel contesto di un tumore embrionale (teratoma o carcinoma embrionale), ed è molto raro in forma pura. Più frequente nei giovani. Ha una notevole aggressività e tendenza precoce alla metastasi per via ematica e linfatica. Si diagnostica con l’analisi microscopica delle cellule che presentano aspetti caratteristici e per l’aumento dei livelli ematici di β-HCG (β globulina corionica umana) Alla palpazione il testicolo appare normale. Teratoma Per teratoma si intende un tumore che è composto dai diversi tipi di foglietti embrionali (tutti e tre contemporaneamente) e quindi da tessuti da essi derivati. A seconda del grado di differenziazione, in questi tumori è possibile trovare tessuti di tutti i generi. I teratomi del testicolo sono di tre tipi e rappresentano il 5-10% delle neoplasie del testicolo. • Maturo (prognosi migliore, presenza di tessuti differenziati) • Immaturo (presenza di strutture embrionali) • A trasformazione maligna (contiene nel suo contesto aree di anaplasia maggiore del parenchima circostante) Il testicolo appare aumentato di dimensioni e consistenza con contorni irregolarmente nodosi e asimmetrici. Appare edematoso, con grosse vene superficiali, e il tumore può formare noduli di dimensioni anche notevoli (caso unico fra i tumori del testicolo, che in genere sono piccoli). La forma più comune è cisti di contenuto acquoso immerse in tessuto solido cartilagineo e a volte anche osso. Carcinoma embrionale 20% delle neoplasie testicolari, questo tumore appare di solito piccolo e di consistenza dura, con variabili aspetti al taglio. Ha infatti una notevole variabilità di aspetti morfologici delle cellule che lo compongono. TUMORI DELLO STROMA GONADICO Sono circa il 6% delle neoplasie testicolari. Leydingoma: tumore ad aspetto nodulare che produce androgeni (si associa a macrogenitosomia nel bambino) o estrogeni (ginecomastia nell’adulto) Tumore a cellule di Sertoli: in genere benigno, o con prognosi favorevole Tumore a cellule granulose Tumore a cellule tecali Tutte queste neoplasie danno metastasi solo nel 10% dei casi e sono considerate favorevoli. La distinzione con altre neoplasie è solo istologica. Il loro trattamento prevede comunque la orchiectomia. FORME MISTE Esistono alcune forme miste che hanno più di una varietà cellulare. La più comune di queste è l’unione fra teratoma e carcinoma embrionale, associazione conosciuta anche con il nome di teratocarcinoma. Nel complesso circa il 40% delle neoplasie del testicolo sono forme miste. Diffusione

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Tutti i tumori maligni del testicolo hanno la caratteristica di dare metastasi molto precoci per via ematica o linfatica. I linfonodi interessati sono quelli retroperitoneali della regione fra l’ilo renale e la biforcazione aortica, che drenano la linfa del testicolo4. Da qui le metastasi possono seguire a ritroso il percorso linfatico fino a raggiungere il circolo venoso. Alcuni tumori come il corioncarcinoma tendono a dare metastasi per via ematica e raggiungono precocemente il polmone. I linfonodi iliaci e gli inguinali sono interessati quando c’è infiltrazione della cute o dell’epididimo. Di solito le metastasi riproducono il tumore primitivo, ma in alcuni casi non è così. Dopo chemioterapia non è infrequente trovare una differenziazione di metastasi. Staging • Tis: neoplasia intratubulare (incerta la sua esistenza clinica) • T1: non apprezzabile alla palpazione e non visibile (riscontro bioptico) • T2a: limitato al testicolo • T2b: invasione di vasi e linfatici intratesticolari • T3: fuoriesce dalla tonaca albuginea • T4: interessa gli organi circostanti • • • •

N0: linfonodi regionali liberi da metastasi (retroperitoneali e inguinali) N1: metastasi in 1-5 linfonodi regionali ognuno con dimensioni < 2cm N2: metastasi in 1-2 linfonodi con dimensioni fra 2 e 5 cm N3: metastasi con massa lifonodale > 5cm

• •

M0: assenza di metastasi a distanza M1: metastasi presenti: o M1a: linfonodi non regionali o polmonari o M1b: parenchimi Attività secernente I tumori del testicolo hanno molti markers: • Gonadotropina corionica • Estrogeni • Androgeni • α-fetoproteina • LDH L’αFP e la HCG sono i due markers più significativi. La prima è presente nel 70-80% dei tumori non seminomatosi, la β-HCG nel 60% dei non seminomatosi e nel 100% dei corioncarcinomi. Essendo poco specifici, questi markers sono utili nel follow-up e nello staging, dove riducono significativamente l’errore. Clinica • Ingrossamento non dolente del testicolo, con consistenza aumentata. Nel 20% ci può essere una certa dolenzia. • Più raramente retrazione e indurimento del testicolo, o sintomi tipici di una orchiepididimite 4

Ricordare che il testicolo ha una vascolarizzazione e innervazione che parte da L2, dermatomero da cui ha avuto origine prima di scendere nella sede definitiva nello scroto

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• Emorragia intratumorale (dolore improvviso) • Sintomi da metastasi (primo segno nel 20% dei casi) • Ginecomastia e pubertà precoce (riferibile a metastasi e produzione di ormoni) Diagnosi • Esame obiettivo: stazioni linfonodali, ginecomastia, palpazione del testicolo. • ECG scrotale: distinguere fra masse del didimo e dell’epididimo, a contenuto solido o cistico. Testicolo omogeneo  seminoma; testicolo con lacune ematiche  non seminoma • Marker tumorali • RMN scrotale • RX torace e addome: preoperatorio e ricerca di metastasi • RMN, TC, RX torace e scintigrafia ossea/celebrale: staging e ricerca di metastasi Terapia La terapia di elezione è la orchifunicolectomia per via inguinale (non si deve mai aprire lo scroto in queste condizioni). Nel caso del seminoma è possibile associare sia la chemio che la radioterapia, mentre nel caso del non seminoma si associa solo la chemio. Il seminoma è estremamente radiosensibile. Si associa a questo la linfoadenectomia bilaterale (spesso però si asporta anche tutta la catena laterale del simpatico con questa manovrae si provoca una impotenza eiaculandi che conduce ad infertilità anche se c’è un testicolo residuo. Ci si limita quindi ad una resezione omolaterale alla neoplasia). Prognosi • Seminoma: stadio I: 95-100% ; stadio II: 75-90% • Non seminoma: stadio I: 90% ; stadio II: 75% 9.2 VARICOCELE Il varicocele è una affezione caratterizzata da dilatazione, allungamento e tortuosità delle vene che formano il plesso pampiniforme, cioè del plesso venoso attorno all’epididimo. Il principale problema del varicocele è l’aumento di temperatura che provoca e che può portare a infertilità perché la produzione di spermatozoi avviene a non più di 32°C. Colpisce i soggetti giovani al di sopra dei 15 anni e nel 90% dei casi è a sinistra. Rarissima la forma solo a destra. Può essere idiopatico perché le vene di questo plesso hanno diverse caratteristiche che le predispongono alla dilatazione: • Sono circondate da un connettivo lasso • La vena spermatica destra sbocca nella cava con decorso obliquo, ma quella sinistra scarica ad angolo retto nella vena renale, in condizioni particolarmente sfavorevoli. • Le vene spermatiche hanno poche o nulle formazioni valvolari • La mesenterica superiore di sinistra comprime la spermatica dello stesso lato. Il varicocele da una sintomatologia scarsa (senso di peso e di stiramento) con modesto dolore. Spesso il riscontro è casuale, nella visita militare o per l’infertilità. La diagnosi è facile ed è essenzialmente una diagnosi clinica, anche se bisogna tener conto del fatto che si deve distinguere fra forma idiopatica e secondaria, quest’ultima spesso legate a cause di compressioni gravi come una neoplasia renale. Tale diagnosi differenziale è facile tendendo conto che: • La forma primitiva insorge in età precoce, la secondaria in avanzata (è legata a neoplasie) • La progressione della primitiva è lenta

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• La primitiva è quasi esclusivamente a sinistra • La primitiva si svuota manualmente, la secondaria quasi mai Nelle forme di difficile interpretazione trovano impiego l’ecodoppler e l’ecografia renale. La terapia, chirurgica, trova giustificazione in forma voluminose o comunque a rischio di complicazioni e di infertilità. Viene fatta una legatura e sezione della vena spermatica 9.3 CRIPTORCHIDISMO Il criptorchidismo è una anomalia congenita di posizione del testicolo che viene estesa come significato a tutte quelle situazioni in cui il testicolo non è palpabile all’esame obiettivo nella sede normale. In realtà il criptorchidismo vero e proprio è la condizione in cui il testicolo non è palpabile in nessun’altra sede; se si trova in un punto lungo la discesa del suo canale allora si parla di ritenzione testicolare, mentre se si trova al di fuori dello scroto (come ad esempio in sede prepubica o femorale) allora si parla di ectopia testicolare. Quasi sempre presente nei nati immaturi, ma con discesa del testicolo in sede normale entro il primo anno di vita. Nei nati a termine la sua incidenza è di circa l’8%. Le complicazioni sono: • Aumentata incidenza di torsioni funicolari, fra l’altro difficili da diagnosticare per via della presenza del testicolo nell’addome (addome acuto) • Aumentata incidenza di neoplasie testicolari (non è chiaro se dipende dalla posizione anomala o tutte e due le cose hanno la stessa causa) • Aumento del rischio di traumi Si può tentare una terapia con gonadotropine che provocano una discesa del testicolo simulando una situazione simile alla pubertà (utile per le ritenzioni poco accentuate). L’ectopia può essere trattata solo chirurgicamente. 9.4 INFERTILITÀ Una coppia infertile quando non riesce a ottenere la fecondazione dopo un anno di rapporti regolari non protetti. E’ primaria quando non c’è mai stata gravidanza fra i due partner, altrimenti è secondaria. La sterilità maschile può avere varie eziologie: • Endocrinoligica: deficit ipofisario, eccesso di androgeni, eccesso di estrogeni, disfunzioni tiroidee • Genetiche: Klinefelter, XXY, XYY, Sindrome di Noonan • Organiche: anorchia, atrofia, criptorchidismo, varicocele, orecchioni, chemioterapia, radioterapia, alcool, fumo, infezioni delle vie genitali, disfunzioni eiaculatorie. • Immunologiche: autoanticorpi • Meccaniche: ostruzioni delle vie seminali • Deficit eiaculativi: iatrogeni (simpatectomia bilaterale), neurologiche L’infertilità può essere produttiva, quando si ha un deficit ormonale o funzionale della produzione degli spermatozoi nel testicolo, o escretoria, quando c’è ostruzione delle vie escretrici genitali (congenite, infiammatorie, traumatiche o funzionali) Diagnosi di infertilità • Anamnesi • Esame obiettivo: si studiano i testicoli il pene alla ricerca di alterazioni di forma, posizione e funzione • Esame di laboratorio: o Spermiogramma: va sempre ripetuto per fare diagnosi di infertilità maschile, e si fa dopo 1-5 giorni di assenza di eiaculazioni.

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o ECG o Esame colturale e istologico dello sperma Nello spermiogramma si valuta il numero di spermatozoi e la loro mobilità. Normalmente vengono ritenuti normali 20 milioni o più di spermatozoi per ml. Al di sotto si parla di oligospermia, fino all’azoospermia in cui c’è assenza di spermatozoi nello sperma. Si valutano poi alterazioni di forma, mobilità e vitalità degli spermatozoi. La motilità viene valutata come rapidamente progressivi, lentamente progressivi, mobili in situ, immobili La morfologia viene considerata normale se ci sono almeno il 40% di spermatozoi normali 23. Vescicolo-defernto grafia: incannulare il dotto deferente e immettere in esso mezzo di contrasto per osservare il decorso e la eventuale presenza di ostruzione. Oggi questo esame è molto in disuso in quanto è invasivo. 24. Ormoni: TH, prolattina, LH, estradiolo, test di stimolazione con GnRH 25. Valutazione del cariotipo 26. Esame istologico/biopsia Terapia La terapia chirurgica riguarda le anomalie vascolari e anatomiche del testicolo, e può permettere la ricostruzione delle vie spermatiche. In caso di flogosi  antibiotici In caso di ipogonadismo ipogonadotropo  FSH, HCG In caso di iperprolattinemia  agonisti dopaminergici In caso di Ab anti spermatozoi  steroidi o immunosoppressori

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CAP 10 PATOLOGIA DEL PENE 10.1 BALANO-POSTITE Affezione infiammatoria superficiale del glande (balanite) a cui si unisce l’interessamento del foglietto interno del prepulzio (postite). E’ una frequente complicazione di processi ni fettivi uretrali dove la ritenzione di secreti irritanti nel sacco prepulziale è la causa scatenante. E’ una situazione frequente nella fimosi, o nelle persone sudice, e molto rara nei circoncisi. 10.2 INDURAZIO PENIS PLASTICA (IPP) Condizione in cui si ha la formazione di un cheloide fra il tessuto lasso dell’albuginea e il tessuto cavernoso. La triade sintomatologica è dolore, incurvatura o retrazione del pene, insufficienza erettile. Si presenta attorno ai 50-60 anni, 1:200, ma anche in soggetto più giovani. Sembrano legati fattori genetici (associazione con la contrattura palmare di Dupuytren) o autoimmunitari. Il processo fibrotico è preceduto dalla vasculite dei vasi del connettivo lasso circostante, proliferazione dei fibroblasti e genesi di tessuto fibroso. Infine si depongono sali di calcio e si forma un tessuto cartilagineo o osseo. L’erezione risulta gravemente compromessa da questa condizione perché il segmento sclerotico impedisce l’estensione dell’organo, il quale risulta sottoposto ad una curvatura patologica, e anche perché nel punto della sclerosi si ha insufficiente compressione della venadorsale e quindi deflusso di sangue dall’organo turgido. Diagnosticarla è facile, può risultare complessa la diagnosi differenziale con le fibrosi posttraumatiche, e anche con le neoplasie e la trombosi della vena dorsale. La terapia deve essere effettuata con infiltrazioni di cortisonici nella vena dorsale (fase iniziale della malattia) o correzione chirurgica della curvatura (fase avanzata). Lasciata a se stessa la malattia finisce per peggiorare nella funzione erettile e nella curvatura, mentre diminuisce il dolore. 10.3 TUMORI DEL PENE Il tumore del pene è una malattia oncologica rara, e rappresenta circa lo 0,4% di tutti i tumori. La sua incidenza varia molto in aree dove raggiunge il 15% come la Cina, la Tailandia e il Vietnam. Eziologicamente è una malattia molto poco chiarita. Fattore probabile sembra essere la fimosi, in quanto lo smegma sembra essere cancerogeno. Fibrosi, infiammazione cronica, traumi ripetuti sono fattori importanti, come le malattie sessualmente trasmesse (HPV). Nel 97% dei casi si tratta di carcinoma squamoso. Sono rari il sarcoma di Kaposi, melanomi e tumori metastatici. L’altro tumore importante è il carcinoma verrucoso, che è un carcinoma spinocellulare ben differenziato, con acantosi e ipercheratosi, che cresce in maniera vegetante particolarmente evidente, tanto da avere anche il nome di condiloma gigante. Due lesioni caratteristiche sono considerate come lesioni precancerose: • Eritroplasia di Queyrat: piccola chiazza lucente che evolve verso una lesione rilevata e vellutata • Malattia di Bowen: lesione secca, spesso ricoperta da una crosta, talvolta ulcerata Si sviluppa facilmente sul glande (90%), poi sul prepuzio. Inizialmente è una placca arrossata, irregolare e spesso ulcerata. Crescendo assume due aspetti istologici definitivi: 25. Ulcerativo 26. Infiltrante Il carcinoma verrucoso, come si è detto, è invece vegetante.

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Tipica di queste neoplasie una reazione infiammatoria peritumorale. Evoluzione lenta, scarsa tendenza alla metastasi, ma buona diffusione linfonodale: dal pene si estende ai linfonodi cutanei, con necrosi cutanea, sovrainfezione e cachessia neoplastica. Talora può esserci edema degli arti inferiori per compressione dei tronchi linfatici. Il dolore è il sintomo più frequente, a volte emorragie più o meno importanti. Raramente la malattia si dissemina a distanza (anche perché spesso si muore prima per complicanze infettive regionali), quindi i sintomi sono locali. La lesione primaria è spesso ben visibile E’ facile la diagnosi con la biopsia, ed ogni lesione del glande e del prepuzio fino a prova contraria deve essere sospettata come neoplasia (non ce ne sono molte altre cause). Il laboratorio è di scarso ausilio e non esistono marker specifici. La RX è importante per valutare l’estensione e l’approccio terapeutico ideale, ma è di gran lunga superata da RMN e TC. L’unica diagnosi differenziale di rilievo è quella con le lesioni sifilitiche. Lo Staging è: • Tis: carcinoma in situ • Ta: carcinoma verrucoso non invasivo • T1: connettivo sottoepiteliale • T2: corpi spongiosi o cavernosi • T3: uretra o prostata • T4: invasione delle strutture adiacenti La terapia è l’escissione per le lesioni precancerose, e anche per le forme di carcinoma squamoso e verrucoso localizzate ai foglietti prepuziali. Invece risulta importante la radioterapia (solo nei soggetti giovani) e la circoncisione per le lesioni prepuziali. L’amputazione del pene estesa in proporzione alla malattia appare il rimedio più efficace, perché la semplice escissione si accompagna a recidive in circa il 40% dei casi. Importante la linfadenectomia bilaterale inguinale per via delle modalità di diffusione della malattia. Il ruolo della chemioterapia sistemica in corso di diffusione a tutto l’organismo è controverso.

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CAP 1 PATOLOGIA CHIRURGICA DELLA TIROIDE E DELLE PARATIROIDI 1.1 NEOPLASIE DELLA TIROIDE Comunque sia classificato, il tumore della tiroide si manifesta sempre con un nodulo, sul quale si deve rivolgere tutta l’attenzione diagnostica nei confronti della malattia. Il nodulo tiroideo si distingue in due gruppi: 30. Nodulo asintomatico: piccolo, ma sempre indice di una neoplasia, benigna o maligna, e pertanto necessita di indagini immediate ed approfondite. 31. Nodulo sintomatico: più grande, ed è indice di una malattia tiroidea diffusa (gozzo, ipertiroidismo eccetera) oppure di una malattia neoplastica midollare. Importante la modalità di crescita: un nodulo che cresce improvvisamente senza essersi notato prima è di solito una cisti tiroidea che ha subito una emorragia, mentre la neoplasia maligna cresce rapidamente ma dopo un periodo di stasi (quindi è più probabile che sia maligno un nodulo che cresce rapidamente essendo stato presente già da tempo nella tiroide del malato). Anche l’anamnesi è importante, in quanto alcune condizioni riguardanti la tiroide si associano ad un maggior rischio di neoplasie e alla possibilità che il nodulo in questione sia maligno. Tali malattie sono: • Pregresse affezioni tiroidee • Trattamento con estratto di tiroide per gozzo adenomatoso • Terapia radiante del collo Inoltre si deve tener presente, alla patologica prossima, che: • Alterazioni della funzionalità tiroidea non sono da porsi in relazione con neoplasia, anche se non è una regola assoluta • Di solito le neoplasie non sono dolenti • La raucedine invece può indicare una compressione neoplastica del nervo vago • La disfagia, se è correlata alla neoplasia, indica una fase avanzata di infiltrazione • Un gozzo plurinodulare è molto poco probabilmente neoplastico, a differenza di un nodulo isolato. • Alla scintigrafia il nodulo tumorale solitamente appare incapace di captare il tracciante radioattivo (nodulo freddo) • All’ecografia le lesioni cistiche di diametro < 4 cm non sono di solito maligne • La diagnosi definitiva si fa con l’agobiopsia. TUMORI BENIGNI Adenoma follicolare Sono per la maggior parte di tipo epiteliale, a carattere follicolare (quindi adenomi follicolari), sono racchiusi da una capsula e hanno dimensioni variabili, ma sempre forma ovoidale. Spesso nel contesto dell’adenoma si sviluppa emorragia o infarto, e allora il paziente rileva un brusco aumento di dimensioni, oppure si hanno fibrosi e calcificazione. Internamente ci sono molti follicoli, spesso di piccole dimensioni e vuoti, intorno ad una zona centrale fibrosa e necrotica. Va differenziato da un carcinoma in fase iniziale, e questo si fa essenzialmente osservando la capsula, che nel caso del carcinoma presenta infiltrazioni. Di solito non da disfunzione tiroidea, ma molti pazienti hanno elevati livelli di ormoni tiroidei. Possono essere sia caldi che freddi a seconda della loro popolazione, cellulare o fibrosa. Difficile la transizione a carcinoma Adenoma a cellule di Hurthle Tumore con cellule di grosse dimensioni, ricche in mitocondri, plurinucleate con nucleoli evidenti. Le cellule, che si ammassano fra di loro costruendo strutture lineari simili a colonne, sono atipiche ma

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non necessariamente maligni. Tuttavia sono considerati forme intermedie, a basso grado di malignità, e sovente danno luogo a recidive dopo l’asportazione chirurgica. I tumori benigni della tiroide sono normalmente trattati per escissione della emitiroide corrispondente. Durante l’intervento si provvede ad una analisi istologica, e se si trovano gravi atipie si asporta tutta la tiroide. TUMORI MALIGNI Il cancro della tiroide corrisponde all’1-2% delle neoplasie oggi diagnosticate con una incidenza che sembra aumentare in relazione probabilmente a fenomeni come le fughe radioattive (si sviluppano tipi istologici ad aggressività crescente). Epidemiologia Prevalenza: 1-2% della popolazione Incidenza: 40/1000 anno 11° posto di tutte le neoplasie, 1° di tutte le neoplasie maligne endocrine F 2/4:1 Età 45-50 anni Mortalità 1 caso/mille/anno Fattori di rischio accertati sono: • Carenza di iodio (collegata agli adenocarcinomi follicolari) • Esposizione a fonti radioattive in età precoce e a bassa dose • Familiarità (geni ras, gas, tsh-R, ret, trk, p53) • Sindromi tumorali familiari • Età e sesso In aree come il Giappone e le Hawaii raggiunge incidenza del 20%. La classificazione di questi tumori li divide in tre forme principali, più altre neoplasia meno frequenti: Classificazione • Forme differenziate: 15. ADENOCARCINOMA PAPILLIFERO (80%) 16. ADENOCARCINOMA FOLLICOLARE (15-20%) 17. ADENOMA A CELLULE DI HURTLE (classificato anche fra i tumori benigni, e lì discusso) • Forme indifferenziate: 19. CARCINOMA ANAPLASTICO (5-10%) 20. CARCINOMA INSULARE (5%) 21. ADENOCARCINOMA MIDOLLARE (5-10%) • Forme rare 23. A CELLULE SQUAMOSE 24. LINFOMA 25. ANGIOMIOSARCOMA Inoltre, l’1-2 % dei tumori maligni della tiroide sono rappresentate dai linfomi e sarcomi e dalle forme metastatiche provenienti dal polmone, mammella, melanomi e dal rene (queste molto aggressive).

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Adenocarcinoma papillifero Colpisce prevalentemente le donne fra 25 e 45 anni, non i bambini Tumore più frequente, rappresenta l’85% delle neoplasie maligne della tiroide. Rimane spesso localizzato nella ghiandola, ma quando metastatizza lo fa generalmente attraverso le vie linfatiche del collo e del mediastino superiore. I linfonodi interessati sono palpabili, e presentano una neoplasia spesso più grande di quella originaria, che può essere frequentemente non palpabile. Raramente si estende fino ad invadere le strutture adiacenti oltre la capsula tiroidea, segno prognostico, questo, estremamente grave. Si realizza nel contesto di un nodulo, spesso piccolo, bianco-grigiastro, dalla consistenza variabile, solida o cistica. Le cellule che lo formano, di tipo colonnare e con scarse atipie, crescono attorno ad un asse fibrovascolare, che può pendere in una cavità cistica all’interno del nodulo, oppure essere circondato da tessuto. Nella metà di queste formazioni, si trovano delle aree di calcificazione all’interno dei rami fibrovascolari, che sono detti corpi psammomatosi. La loro presenza è patognomonica e sta ad indicare che ci si trova davanti ad un tumore di vecchia data. Cresce molto lentamente ed ha una prognosi molto favorevole con sopravvivenza a 5 anni del 90%, a dieci dell’80%. La maggior parte rimane stabile, ma una certa percentuale, dopo una latenza di 20-30 anni, assume caratteristiche di marcata anaplasia. Varianti: a cellule alte, a cellule cilindriche, a sclerosi diffusa. Sono più aggressive Adenocarcinoma follicolare 10% di tutte le neoplasie maligne, anch’esso a lenta crescita, appartenendo comunque alla classe dei tumori differenziati, ma con prognosi lievemente peggiore del papillifero. Soprattutto sono frequenti e caratteristiche le metastasi ossee, alla scapola allo sterno e al cranio, che compaiono anche a 20-30 anni dalla rimozione del tumoreprimitivo. Sia le metastasi che il tumore sono caldi e captano lo iodio. Microscopicamente assomiglia molto agli adenomi follicolari, con le strutture cellulari organizzati in follicoli piccoli, ma differisce da questi, come detto, per la presenza di un infiltrato della capsula che può essere anche molto evidente e aggressivo. 5 La diagnosi deve essere fatta essenzialmente nel contesto della lesione primitiva, ma non al centro, dove ci sono cellule dall’aspetto praticamente normali, bensì al margine della lesione, per valutare la possibilità di infiltrazione della capsula. Spesso viene fatta come trattamento una tiroidectomia totale, giustificata sia dalla malignità della neoplasia, sia dalla frequente necessità di trattare le metastasi con derivati dello iodio radioattivo: infatti se venisse conservata la tiroide, assorbirebbe lei tutto il medicamento, e sarebbe difficile anche, per lo stesso motivo, diagnosticare le metastasi con la scintigrafia. Adenocarcinoma insulare Aggressivo, ha una prognosi intermedia fra follicolare e l’anaplastico. Si sviluppa per lo più nelle aree carenti di I. Lì ci sono aree insulari di tessuto neoplastico, cellule tondeggianti e regolari. La prognosi, non molto drammatica, dipende dalla tempestività della diagnosi Adenocarcinoma midollare Rappresenta il 5% dei tumori della tiroide, e colpisce in genere gli adulti oltre i 50 anni. Può esistere come tumore sporadico, ma nel 20% dei casi riconosce una spiccata ed evidente familiarità. Si tratta di un APUD-oma, un tumore delle cellule secernenti in grado di captare e decarbossilare le amine biogene (APUD sta per Amine Precursors Uptake & Decarbossilation), che origina dalle cellule C della tiroide, e che secerne prevalentemente calcitonina, che si trova in concentrazione elevata nei sieri dei pazienti, ma anche serotonina, ACTH, MSH, PG e somatostatina, nonché antigeni 5

Alcuni autori indicano il carcinoma follicolare distinto in due gruppi: capsulare (che corrisponde a quello che qui è chiamato adenoma follicolare) e invasiva (che corrisponde al nostro adenocarcinoma follicolare)

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oncofetali come il CEA. Il tumore è generalmente un nodulo freddo, ma per le sue caratteristiche dette capta efficacemente traccianti come quelli usati per il feocromocitoma, ed altri tumori di derivazione neuro-ectodermica. Si presenta a volte da se, nella forma così detta sporadica, oppure associato ad una complessa sindrome che comprende altre neoplasie in grado di secernere sostanze biologicamente attive, come la MEN II, caratterizzata da Feocromocitoma, carcinoma midollare e adenoma paratoroideo, con marcate caratteristiche di familiarità. La manifestazione primaria del tumore, indipendentemente dalla forma, può essere varia: • Nodulo tiroideo + adenoma latero-cervicale omolaterale • Adenoma latero-cervicale in assenza di nodulo palpabile • Metastasi • Compressione e/o infiltrazione delle strutture adiacenti (dispnea, disfagia, singhiozzo tardivamente compare tirage tracheale e infine crisi asfittiche) La presenza di linfonodi laterocervicali ingrossati e della infiltrazione del tumore non è necessariamente un segno prognostico sfavorevole o di maggiore malignità, ma indica comunque uno stadio avanzato di carcinoma. L’aspetto della neoplasia è quello di un nodulo biancastro, spesso ben delimitato, localizzato frequentemente nella parte alta della ghiandola, dove abbondano le cellule C. In questo nodulo sono presenti delle strutture di raggruppamenti di cellule piccole, rotonde o poligonali, con parecchi nuclei disposti in modo eccentrico. Assomiglia molto al carcinoide. Le metastasi sono prevalentemente dirette ai linfonodi regionali, ma l’aggressione delle strutture limitrofe può anche essere intensa, e si rivolge soprattutto all’esofago cervicale (disfagia) eal ricorrente (disfonia). Possono anche esserci metastasi a: -Polmone -Ossa -Mammella -Trachea (indice di grande aggressività) Si tratta con la tiroidectomia totale, soprattutto se non fa parte della MEN II, nel qual caso è possibile un trattamento più conservativo Una possibile individuazione precoce è la ricerca del protoncogene ret con il test del c-dna. Carcinoma anaplastico Tumore più maligno e più aggressivo, la maggior parte dei pazienti muore nell’arco di qualche settimana o mese, perché si manifesta spesso che ha già dato metastasi diffuse e anch’esse aggressive. Si definisce anaplastico perché nel suo contesto non si trovano strutture tissutali come follicoli o cisti, e le cellule che lo compongono possono essere giganti o piccole: gli elementi giganti sono associate ad una malignità ancora più elevata. A volta può derivare dalla crescita maligna di altre neoplasie già discusse. L’invasività tissutale è impressionante e sono molto frequenti i danni a carico di altri organi e tessuti vicini, come l’infiltrazione della trachea e dell’esofago, e anche delle strutture vascolari. Nella maggior parte dei casi non è operabile, e si tratta soltanto in modo palliativo per ridurre i disturbi provocati dalla compressione. DIAGNOSI DEI TUMORI MALIGNI La diagnosi clinica dei noduli non riesce mai a differenziare in fase precoce un adenoma da un

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carcinoma: può semmai ricercare i segni di interessamento linfonodale o della compressione delle strutture vicine, oppure cercare le evidenza di una sindrome da carcinoide (flushing, diarrea e miocardiopatie). L’anamnesi e la valutazione della funzionalità tiroidea sono in genere negative. L’analisi degli enzimi sierici di provenienza tiroidea e degli ormoni tiroidei non offre alcun aiuto nella diagnosi differenziale fra malattie neoplastiche benigne o maligne e malattie tiroidee. Invece può essere importante come follow-up nel post operatorio. Marker tumorali: 27. Tireoglobulina: nei tumori differenziati per seguire il post operatorio e monitorare recidive e metastasi non osservate durante l’intervento 28. Calcitonina: importante nei Cr. Midollari, specialmente se in associazione con sindrome da carcinoide e aumento del CEA. Ecografia: permette di osservare la morfologia e la distribuzione dei noduli, i suoi margini, lo stato della capsula e soprattutto le caratteristiche della vascolarizzazione nodulare: se essa è interna al nodulo, in un modo caratteristico definito pattern di tipo III, allora si è con buona probabilità davanti ad un nodulo neoplastico. Osserva inoltre anche le linfoadenopatie satelliti. Scintigrafia: differenziazione fra noduli caldi e freddi, e la presenza di immagini di captazione attiva al di fuori della tiroide è indice di metastasi. Si tenga presente che la tiroide può assorbire tutto il tracciante e mascherare la presenza di metastasi attive. (Tc99 I131 o I123). Un nodulo freddo ha, tutto considerato, una probabilità del 30% di essere un carcinoma. Agoaspirato con ago sottile: permette in maniera agevole la diagnosi differenziale fra carcinoma e tiroidite Tracheoscopia ed esofagoscopia: valutazione della infiltrazione di queste strutture RX torace: valutazione dell’infiltrazione toracica e delle eventuali metastasi polmonari TC e RMN: fondamentale per l’analisi di masse che interessano le strutture mediastiniche e i polmoni. STAGING • T1: nodulo di diametro fra 0 e 1 cm • T2: nodulo tra 1 e 4 cm • T3: diametro >4 cm • T4: qualunque diametro con interessamento extra tiroideo • •

N0: linfonodi regionali liberi da metastasi N1: metastasi ai linfonodi laterocervicali o mediastinici anteriori o mediastinici superiori

Si fa anche la distinzione in stadi a seconda dello staging, dell’età del paziente e del tipo di tumore. L’anaplastico, che viene sempre considerato al quarto stadio, da una sopravvivenza di pochi mesi, mentre il differenziato da il 50% di possibilità di sopravvivere a 5 anni. TERAPIA Da sempre quando è possibile si ricorre alla tiroidectomia totale, anche se la neoplasia è benigna; si

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toglie la tiroide, e si da in sostituzione eutirox (T4) che è del tutto efficace. Il carcinoma papillare è spesso multifocale, quindi suscettibile di recidive controlaterali nell’emitiroidectomia. L’intervento consente una migliore scintigrafia con iodio corporea totale e non è gravato dal rischio operatorio maggiore della forma parziale. Inoltre il paziente che ha un residuo di tiroide deve avere un dosaggio ormonale maggiore che agisca da inibitore alla proliferazione tiroidea, e quindi può sviluppare un ipertiroidismo iatrogeno che può anche essere grave. Dopo la tiroidectomia è sempre necessario eseguire una radioterapia con iodio radioattivo diffusa a tutto il corpo per eliminare le metastasi captanti. La rimozione del tessuto linfatico, che si fa per necessità (ossia se c’è riscontro di metastasi) nel carcinoma differenziato, deve essere fatta di principio per il carcinoma midollare, che frequentemente si diffonde anche ai linfonodi. La linfectomia deve essere bilaterali giugulo-carotidea, e centromediastinica. Si può anche effettuare una linfectomia funzionale non radicale,con asportazione dei giugulari, degli SMC e delle ghiandole sottomandibolari. In genere si lascia il 20% di tessuto linfatico, ma si tratta poi con la terapia radiante. Un altro importante presidio terapeutico in corso di infiltrazione della trachea è la resezione e l’endoprotesi, eventualmente accompagnata dalla laser terapia. In questi pazienti non c’è speranza di guarigione se l’infiltrazione riguarda più di metà della lunghezza della trachea. L’uso dell’endoprotesi è essenzialmente palliativo, non aumenta la quantità di vita, ma migliora la qualità. Il carcinoma anaplastico, essendo inoperabile, viene come detto trattato palliativamente. In genere il cancro della tiroide è a lenta crescita e radiosensibile, quindi la principale attività terapeutica è andare dietro alle metastasi. Le metastasi polmonari bilaterali non vanno asportate ma trattate, mentre le metastasi ossee circoscritte possono al contrario essere asportate efficacemente. Le complicanze chirurgiche possono essere l’asportazione delle paratiroidi con ipercalcemia, e neurologiche (lesione del nervo ricorrente). Le terapia palliative sono l’endoprotesi, la laserterapia, e la ricanalizzazione tracheale. L’endoprotesi funziona anche come barriera meccanica per prevenire l’infiltrazione. 1.2 GOZZO TIROIDEO NON TOSSICO Per gozzo si intende qualsiasi aumento di volume della ghiandola tiroidea indipendente dal suo stato funzionale. Si distingue poi il gozzo tossico (quello cioè iperfunzionante, che da tireotossicosi), dal gozzo non tossico, che è solo un aumento di volume con funzione tiroidea normale o ridotta. Un gozzo può essere classificato in base anche al suo aspetto morfologico (diffuso, uninodulare, multinodulare). Queste differenze morfologiche riflettono differenze nel meccanismo eziologico dei gozzi: il gozzo non tossico, ad esempio, tende ad essere diffuso, mentre quello tossico tende ad essere nodulare. Eziologia Il gozzo non tossico riconosce due tipi di eziologia: • Gozzo non tossico sporadico • Gozzo non tossico endemico (5-30% della popolazione) Entrambe le forme di gozzo prevalgono nel sesso femminile  Nelle aree endemiche la malattia è diffusa in almeno il 10% della popolazione adulta e nel 20% di quella scolastica. Nella forma classica di gozzo endemico, diffusa in Italia in alcune aree della Val d’Aosta e nella dorsale appenninica, il fattore causale è la carenza di iodio, che provoca un deficit funzionale della ghiandola fin da prima della nascita. Questo provoca la cronica stimolazione con

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TSH che produce aumento diffuso della ghiandola, e nei casi gravi cretinismo, ossia un ritardo mentale dovuto a deficit della funzione tiroidea prenatale (il T3 prima della nascita è un fattore di crescita importante per il SNC). Altri fattori implicati con minore importanza nella patogenesi del gozzo sono immunitari, ed altre sostanze gozzigene (Ca++, tiocianato, eccesso di iodio). L’apporto normale di I è di circa 100-150 ug/die.  Le forme sporadiche di gozzo si hanno quando l’incidenza della malattia in una popolazione è al di sotto del 5%. E’ una condizione legata essenzialmente adalterazioni del metabolismo dello iodio: • Deficit enzimatici genetici • Estrogeni • Gonadotropine • Agenti ambientali Tipico nella gravidanza e in età puberale (specie nelle ) Fisiopatologia Lo sviluppo del gozzo attraversa due fasi: • Funzionale: il gozzo non è ancora presenta, ma la ghiandola, sotto lo stimolo del TSH, aumenta la velocità di metabolizzazione del poco iodio disponibile. • Strutturale: si sviluppa il gozzo vero e proprio, perché la ghiandola risponde allo stimolo del TSH con iperplasia, ipertrofia e aumento della vascolarizzazione. In questa fase, si possono sviluppare gozzi diffusi, che però tendono alla progressione a gozzi nodulari se non vengono prese misure terapeutiche che ne diminuiscono la stimolazione. Il fatto che alcuni gozzi seguano una evoluzione di tipo nodulare viene giustificato, nella teoria di Studer, con l’affermazione che i diversi follicoli tiroidei abbiano, nel contesto della ghiandola, differenti sensibilità al TSH. Questa differenziazione intraghiandolare sarebbe promossa da fattori familiari (genetici). Oltre all’aspetto nodulare, il gozzo può avere anche altri aspetti • Microfollicolare (parenchimatoso) • Colloido-cistico • Cistico (tiroide sostituita da cisti con parete) • Adenomatoso • Nodulare singolo • Multinodulare Clinica • Tumefazione diffusa in regione sottoioidea anteriore del collo, eventualmentedi tipo nodulare • Sensazione di peso • Dispnea, disfagia, disfonia (tardivi) • Sindrome mediastinica se gozzo plongeant  vedi • Dolore locale improvviso per emorragia intracistica • Turgore delle giugulari alla manovra di Valsalva (è possibile provocare un sanguinamento del gozzo) Diagnosi • Anamnesi geografica e personale • FT3, FT4, THS: in genere la funzione tiroidea è normale (può esserci un aumento del TSH), e i

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valori di ormoni liberi variano solo se il gozzo sta degenerando in ipertiroidismo. • Ecografia: esame di elezione perché permette di valutare lesioni di pochi mm di diametro, definirne la struttura e la consistenza, e guidare l’aspirazione con ago sottile. • Scintigrafia tiroidea (aumento captazione a differenza del tumore) • Diminuzione dell’escrezione urinaria di iodio (minore di 50 ug per ogni 50 mg di creatinina) • RX standard e in due proiezioni del torace • Studio dello stretto toracico superiore con opacizzazione dell’esofago eanalisi dei suoi spostamenti Terapia • Inizio con dosi aggiustate individualmente di ormone per sopprimere l’aumento di TSH e mettere la ghiandola in una specie di riposo funzionale. Questa soppressione funziona tanto meglio quanto il paziente è giovane e il gozzo si è instaurato da poco. Se questa semplice terapia medica non produce una significativa diminuzione del gozzo entro due anni, allora è meglio sospenderla. • Profilassi nelle zone endemiche con Iodio • Chirurgia indicata in: o Paziente anziano (terapia medica non funziona) o Gozzo voluminoso o Sospetta malignità o Compressione e accrescimento mediastinico La terapia chirurgica tende ad essere conservativa nei gozzi non tossici. Complicanze • Tiroidite • Emorragia intraparenchimale • Compressione e malattia tracheale: dopo l’intervento il paziente deve essere valutato con una broncoscopia per diminuire il rischio di collasso tracheale post-intervento. Può essere utile l’endoprotesi. • Basedowficazione: trasformazione in ipertiroidismo • Cancerizzazione (19%) • Migrazione intratoracica  gozzo immerso 1.3 GOZZO IMMERSO (PLONGEANT) Tumefazione di origine tiroidea che, a collo iperesteso, rimane per almeno due cm sotto lo stretto toracico superiore, o comunque con una porzione mediastinica maggiore di quella cervicale. Può essere dovuto ad un prolungamento di un lobo tiroideo dentro al mediastino (gozzo migrante o cervico-mediastinico), oppure ad una posizione anomala della tiroide (o di una tiroide aggiuntiva) nel mediastino (gozzo ectopico). Il primo è molto più comune, può prendere origine da uno o l’altro dei lobi tiroidei e possono prendere origine per la presenza di alterazioni o caratteristiche anatomiche particolari del paziente. Il secondo è invece molto più raro, e spesso è di tipo colloido-cistico, situato nel mediastino anteriore. A seconda della posizione che assume in rapporto ai grossi vasi di origine aortica, il gozzo toracico prende il nome di: • Prevascolare: 80% questi gozzi si sviluppano davanti all’aorta e derivano dalla porzione inferiore e anteriore dei lobi tiroidei, oppure dall’istmo. Sono più frequenti a destra, dove danno poche compressioni della struttura aortica e dei suoi rami (mentre a sinistra comprimono parecchio, e sono limitate da questo nel loro sviluppo), e a sinistra comprimono molto aorta e trachea. • Retrovascolare: 20% partono dalla faccia posteriore dei lobi inferiori della tiroide. Anche questi

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possono dare problemi di compressione molto maggiorea sinistra rispetto a destra. Possono porsi a lato della trachea, o dietro di essa fra questa e l’esofago, o ancora dietro l’esofago. Un numero piccolo di questi gozzi può nascere a sinistra, essere spinto oltre il piano mediale del corpo dall’ingombro dei vasi arteriosi e finire a destra.

G o z z o r e t r o a r t e r io s o p r e tr a c h e a le

G o z z o p r e a r te r io s o s in is tr o (g r o s s a m o d ific a z io n e d e lla p o s t u r a t r a c h e a le )

G o z z o r e tr o a r te r io s o r e tr o tr a c h e a le

G o z z o p r e a r te r io s o d e s tro (p o c h e c o m p r e s s io n i)

Patogenesi Alcuni fattori favorenti la discesa di un gozzo nel torace sono: • Costituzione: collo corto e tozzo • Cifosi • Notevole sviluppo dei muscoli cervicali (collo taurino) • Età (porta allargamento dello stretto toracico) • Eventi iatrogeni: interventi chirurgici sul collo Su questi fattori si innestano a volte delle cause determinanti la migrazione dei gozzi: • Sede, consistenza, forma del gozzo • Forza di gravità (lavoro in piedi, oscillazioni, squotimenti) • Compressione muscolare Clinica • Asintomatico nel 15-20% dei casi • Ingombro con sindrome mediastinica: o Dispnea

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Disfagia Disfonia Edema a mantellina Bernard-Horner (sviluppo posteriore del gozzo); può richiedere la diagnosi differenziale con la sindrome di Pancoast • Dolore: spesso indica una degenerazione a carcinoma Diagnosi • RX torace e stretto toracico • Ecofragia • TC e RM • Scintigrafia • Broncoscopia a fibre ottiche • EGDS • Agobiopsia o o o o

La diagnosi differenziale si pone con: • Masse di origine vascolare (emoangiomi) • Masse del mediastino anteriore (timomi, linfomi, teratomi, linfangiomi cistici) • Masse del mediastino medio (cisti broncogena, linfadenopatie, cisti pericardiche) • Neoformazioni del mediastino posteriore Trattamento Le indicazioni alla chirurgia sono: 15. Sindrome mediastinica 16. Inefficacia della terapia medica o rischio di osteoporosi per trattamento 17. Tireotossicosi 18. Aumento repentino delle dimensioni del gozzo ed emorragie 19. Degenerazione neoplastica L’approccio iniziale è una cervicotomia anteriore, e se non si riesce a tirare su il gozzo si ga una incisione dello sterno anteriore longitudinale. 1.4 TIREOTOSSICOSI E CONDIZIONI ASSOCIATE La tireotossicosi è una condizione in cui c’è una eccessiva produzione e liberazione di ormoni tiroidei. Ha un incidenza di 4/1000 , e 0,8/1000 . Fisiopatologia • Aumento sintesi di T3 e T4 • Assunzione esogena di ormoni tiroidei eccessiva • Aumento del TSH e TRH (tumori ipofisari) • Stimolazione autoimmune della tiroide (M. di Basedow) • Aumento del rilascio ormonale per distruzione del tessuto tiroideo Clinica La sindrome da ipertiroidismo è legata all’esaltazione degli effetti periferici degli ormoni tiroidei: naturalmente questa sindrome avrà caratteristiche diverse a seconda della rapidità e della quantità di ormoni liberati. Alcuni sintomi (come la tachicardia, la sudorazione e i tremori) si avranno in maniera repentina per una liberazione parossistica di grandi quantità di ormone, mentre altre condizioni come l’aumento di peso e l’esoftalmo si hanno per via di una continua presenza in circolo di grandi quantità di ormone. • Iperfagia con dimagramento

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Iperidrosi Tricopatia: capelli fragili e sottili Onicolosi: distacco dello unghie dal letto ungueale (tipico della sindrome di Plummer) Palpitazioni, tachicardia, aritmie Iperpigmentazione cutanea: aumentato rilascio del cortisolo Oligomenorrea fino ad amenorrea

Alcuni sintomi sono definiti extratiroidei, perché non sono in relazione alla diretta attività del T3 e del T4, ma alla loro attività sulla proliferazione del connettivo mucoso. Nel caso della acropachia, il legame è oscuro • Esoftalmo: patologia infiltrativa del connettivo retro-orbitale . Fino al 90% dei casi • Mixedema pretibilae: edema infiltrativo indurato da accumulo di GAG. Nel 5% dei casi • Acropachia: dita a bacchetta di tamburo e unghie a vetrino d’orologio. Nell’1% dei casi Questi sintomi extratiroidei sono tipici delle affezioni tiroidee di lunga durata, come il morbo di Basedow e di Plummer. Queste due affezioni sono sindormi che causano un gozzo iperfunzionante. Morbo di Plummer Malattia caratterizzata da un gozzo iperfunzionante di tipo uninodulare (molto spesso un singolo nodulo caldo), è legata ad una progressione del gozzo endemico; esso si riorganizza, e nella nuova configurazione la ghiandola tiroidea risulta diffusamente ipocaptante, con un solo nodulo iperfunzionante responsabile della sintomatologia da ipertiroidismo. In genere questo tipo di alterazione si ha in donne anziane e viene trattata chirurgicamente in maniera abbastanza radicale, in quanto si tratta comunque di una alterazione primaria della tiroide, che in genere funziona in maniera autonoma rispetto al tessuto ipofisario. Questo giustifica un trattamento chirurgico di principio da eseguirsi con una lobectomia totale (raramente una exeresi più ampia) Morbo di Basedow-Graves Alterazione di tipo autoimmune che rappresenta la prima causa di ipertiroidismo prima dei 60 anni. Non ha un andamento di associazione epidemiologica con il gozzo endemico, ed ha anche una fisiopatologia poco nota. E’ caratterizzato da gozzo, di tipo diffuso, oftalmopatia e mixedema. E’ tipico delle giovani donne ed ha una certa associazione con malattie autoimmuni organospecifiche come diabete mellito di tipo 1, miastenia gravis. Nel siero delle pazienti si trovano Ab anti TSH-R, che sono la causa della stimolazione diffusa della tiroide. I fattori predisponenti sono senz’altro di natura genetica, mentre quelli scatenanti possono essere: • Malattie infettive virali • Stress • Dieta povera di Iodio La storia naturale è anomala, e circa il 20-80% di queste malattie possono avere una remissione, ma che si protrae fino all’atrofia. Si tratta con farmaci tireotossici, (metilmercaptoimidazolo, propiltiuracile, urileni), con terapia radiometabolica, che si preferisce nelle non più fertili, in quanto l’anziano è meno responsivo ai farmaci, mentre nelle giovani si preferisce la chirurgia. Gozzo tossico multinodulare A differenza del morbo di Plummer, alcuni gozzi iperfunzionanti sono multinodulari, e sono tipici dell’età avanzata e del sesso femminile. Molto spesso si è visto che i gozzi multinodulari non tossici

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tendono a divenire iperfunzionanti se lasciati stare per diversi anni. Ci sono varie teorie sulla patogenesi di questi gozzi: • Diversa sensibilità al TSH dei diversi tireociti • Presenza di cellule non differenziate nella tiroide, che ad un certo punto possono proliferare in maniera eccessiva • Mutazione somatica attivante il recettore per il TSH in forma costitutiva La diagnosi di questi gozzi viene fatta con il dosaggio ormonale (T3, T4), ECO e scintigrafia (tiroidite: non captante; Basedow: captazione attiva diffusa; gozzo tossico multinodulare: aree di iper e ipocaptazione) Il trattamento di questi gozzi è al solito medico, radiometabolico o chirurgico a seconda delle condizioni. Diagnosi • FT3, FT4, TSH: test abbastanza affidabili. Il T3 può essere normale nelle forme – evidenti, ma la soppressione del TSH è un indice molto sensibile • AutoAb • Ecografia • Scintigrafia • Transaminasi: tireotossicosi  danno epatico • Ginecomastia e diminuzione della libido nel 1.5 IPERPARATIROIDISMO Le paratiroidi sono 1, 2 o 3 coppie di ghiandole situate tipicamente a lato e posteriormente alla tiroide e in stretto rapporto con essa, ma con possibilità di essere disposte in tutta l’area del mediastino anteriore e nella parte superiore del collo. Originano dalla 3° e 4° tasca branchiale (e infatti si possono trovare in rapporto con tutti gli organi che condividono la loro embriogenesi) e sono deputate, tramite la secrezione di PTH, all’omeostasi del calcio. Il loro ormone infatti aumenta il riassorbimento osseo, la produzione di calcitriolo e il riassorbimento renale di calcio. Epidemiologia L’aumento della produzione di PTH in maniera primaria è raro (circa 25-28 :100.000 nelle , 3 volte di meno nei . La frequenza aumenta con l’età e la familiarità è rara. Sopra i 40 anni l’incidenza aumenta a 1 su 500. Eziopatogenesi • Adenoma paratoriedeo: 80-90% dei casi • Iperplasia • Carcinomi: tendono anche a recidivareù • MEN1, MEN2A Clinica La clinica può essere classificata in vari modi: • Severa • Sintomatica e complicata • Asintomatica e complicata • Asintomatica e non complicata Complicato: significa presenza di calcolosi occulta, ipercalcemia, osteoporosi grave e ipertensione arteriosa Sintomatico: si riferisce ai soli effetti sull’osso e sul rene

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Effetti ossei Aumento del turnover a livello della zona corticale dell’osso. Le erosioni tipiche si manifestano a livello della II e III falange delle mani, con il classico quadro della osteite fibroso cistica. Si hanno quadri difficilmente distinguibili da osteoporosi o osteomalachia, in cui predominano le cisti ossee a contenuto emorragiche. Dolori ossei, fratture spontanee a consolidamento lento, che esitano in deformità permanenti e tumefazioni. Cranio a vetro smerigliato, scomparsa della lamina fibrosa dei denti. Effetti renali Frequenti, 60-80% dei casi. • Calcolosi renali fino a nefrocalcinosi • Insufficienza renale per deficit funzionale, con poliuria e polidipsia. • Calcoli a stampo nei bacinetti Psiche, neuromuscolare ed effetti sistemici dell’ipercalcemia • Depressione • Letargia e affaticabilità • Dolori articolari • Pancreatite acuta • Litiasi acuta ipercalcemica per calcemia > di 13 mg/dl  dà sintomi simili all’addome acuto, con dolore, nausea, vomito, stipsi, prurito, anemia, polidpisa, poliuria e alterazioni del ritmo cardiaco • Turbe del comportamento fino all’agitazione psicomotoria • Ulcera peptica Diagnosi • Esame obiettivo poco significativo: il riscontro di una massa palpabile a livello delle paratiroidi è indice semmai di trasformazione maligna • Calcemia e calciuria, dosaggio del PTH, funzione renale • TAC • Scintigrafia • RMN Terapia Medica solo sintomatica in attesa di una correttaimpostazione della diagnosi chirurgica. Ridurre l’ipercalcemia e trattare le eventuali complicazioni renali, ossee,cardiache e del GE. Il trattamento di elezione è chirurgico, e si hanno le indicazioni quando c’è: • Calcemia > 12 mg/dl • Calciuria > 400 mg/dl • Densità ossea alterata oltre 2DS rispetto all’età e al sesso del paziente • Stato sintomatico • Età < 50 anni FORME SECONDARIE DI IPERPARATIROIDISMO Affezione seguente alla stimolazione cronica delle parotidi in risposta all’ipercalcemia. Si può manifestare per: • Rachitismo • Osteomalachia • Intossicazione da fosfati • Insufficienza renale cronica  causa più frequente In questi quadri i sintomi sono prevalentemente renali,non ci sono gravi alterazioni ossee e la terapia

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tende ad essere medica e conservativa FORME TERZIARIE DI IPERPARATIROIDISMO Condizione in cui l’iperattività delle paratiroidi è conseguente ad una forma secondaria, ma permane anche dopo la rimozione della causa di essa. Frequente dopo trapianto renale per correggere una insufficienza renale che aveva prodotto iperparatiroidismo secondario FORME DI IPOPARATIROIDISMO Diminuita o mancante funzione delle paratiroidi. E’ molto raro come forma idiopatica, anche se può aversi nei neonati da madri che soffrono di iperparatiroidismo (l’alto livello di PTH inibisce lo sviluppo delle ghiandole nel feto) oppure possono svilupparsi da asportazione o danneggiamento delle ghiandole stesse. A volte casi iatrogeni, di terapia radiante del collo. Si ha ipocalcemia con iperfosfatemia, ma ipofosfaturia perché la carenza di PTH diminuisce l’escrezione renale dei fosfati. I sintomi importanti sono legati alla carenza di calcio (< di 7-8 mg/dl) e sono:+ • Tetania • Senso di malessere generale • Depressione • Segni tardivi caratteristici di quadri cronici, come alterazione trofica della cute, e cataratta Diagnosi clinica e terapia esclusivamente medica con riequilibrio della calcemia e somministrazione di vitamina D.

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CAP 2 TUMORI DEL TIMO Il timo è composto da due lobi, separati da un tralcio sottile o fusi insieme. L’organo, legato a volte alla tiroide, raggiunge il massimo delle dimensioni a 12-14 anni per poi degenerare, ed è localizzato nel mediastino anteriore a cavallo dei grossi vasi. Classificazione • Iperplasia timica: distinta i vera e follicolare, è una neoformazione rara, benigna, che si osserva a volte in corso di chemioterapia • Cisti timiche: lesioni rare, non neoplastiche, presenti talvolta nella linea di discesa del timo lungo il collo, che comprimono altre strutture ma non sono sintomatiche • Timomi: sono tumori del sistema linfatico, ma non sono linfomi perché non riguardano generalmente alterazioni della crasi ematica, e non hanno una strette componente linfatica. Infatti, a seconda delle popolazioni cellulari interessate, si possono distinguere tre classi: linfocitico, epiteliale, misto. All’esame istologico si possono definire male le caratteristiche di malignità del tumore, che pertanto è importante classificare secondo un criterio macroscopico. Circa nel 60% dei casi si presenta allo stadio I e la rimozione chirurgica è risolutiva. Si associa spesso alla sintomatologia della Miastenia Gravis, in 20 paziente su cento, in 10 con sintomi elevati. La rimozione del timoma annulla la sintomatologia. La spiegazione più probabile per questa associazione è la diminuzione dei recettori per l’ACH nelle cellule della placca, forse ad opera di un fattore solubile timico che legandosi ai recettori ne promuove la downregulation. La presenza della miastenia è indice prognostico negativo. La sintomatologia da compressione è rara e può dare sindrome della vena cava superiore e sindrome mediastinica. La diagnosi di timoma è spesso occasionale per un RX toracico eseguito per altri motivi. La terapia chirurgica è risolutiva nei tumori capsulati. • Carcinoma del timo: neoplasie rare, divise in diversi sottogruppi, a prognosi molto severa per la loro rapida invasività e tendenza alla metastasi. Sono solo epiteliali • Carcinoide timico: appartiene al gruppo delle neoplasie APUD, determina spesso sintomatologia locale compressiva, e nonostante le caratteristiche neurosecretive, raramente da una sintomatologia endocrina. • Timolipoma e tumori a cellule germinali: rari • Linfoma timico: raramente primitivo, più frequenti i linfomi originati nel mediastino che tendono a infiltrare il timo • Tumori metastatici: rari TIMOMI I timomi non sono in genere classificabili con facilità sulla base delle caratteristiche istologiche e quindi esistono delle classificazioni intraoperatorie che funzionano sia da staging che da tipizzazione istologica. La più importante di queste è la classificazione di Masaoka in 4 stadi: • 1: lesione incapsulata • 2: invasione del grasso mediastinico peritimico • 3: interessamento dei grossi organi del mediastino, pericardio, grossi vasi, pleura mediastinica • 4A: lesioni endotoraciche a distanza • 4B: lesioni extratoraciche a distanza Altre classificazioni tengono presenti il rapporto fra la componente epiteliale e quella linfatica. Come detto, sono associati alla miastenia gravis. Sintomi

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Sindrome compressiva del mediastino anteriore Dolore toracico Tosse: irritazione delle strutture reflessogene endotoraciche Dispnea Miastenia gravis  in tal caso è raccomandata la timectomia, che riesce a farla regredire. Da notare che la miastenia si può manifestareanche dopo timectomia in paziente senza timoma (probabilmente c’entra l’esposizione di antigeni.) • Anemia e piastrinopenia: la prima più frequente e anch’essa con motivazioni immunitarie • Sindromi autoimmuni: anticorpi contro il muscolo e le strutture nucleari (AMA, ANCA) I sintomi sono progressivi Diagnosi Diagnosi differenziale con linfomi Specie quelli di Hodgkin. Non si distinguono bene, e anche la TAC da risultati parziali. Viene in aiuto la clinica, con la linfoadenopatia in altre sedi tipica del linfoma e la miastenia tipica del timoma In molti casi non si riesce a dirimere il quesito diagnostico prima dell’intervento. Il problema è che mentre per il timoma è importante l’asportazione diretta, il linfoma risponde meglio ai farmaci e l’intervento provoca solo un altro stress al paziente. Diagnosi differenziale con carcinoidi Attuata in base ai marker specifici Diagnosi differenziale con gozzo immerso Questo ha per definizione contiguità con la tiroide (a parte le rare forme ectopiche), e si può ricorrere alla scintigrafia con I131 Per la diagnosi sono importanti: • RX standard: indagando il mediastino anterosuperiore anche per altri motivi si possono scoprire anche alterazioni asintomatiche • TAC del torace: densità della lesione permette di differenziare fra cisti, timolipomi e timomi. Permette poi lo studio delle stazioni linfonodali profonde, la diffusione delle lesioni nel grasso peritimico e la presenza di metastasi endotoraciche • Mediastinoscopia cervicale:accesso dal giugulo • Mediastinoscopia anteriore secondo Chamberlein: incisione longitudinale parasternale a dx o sx a seconda delle situazioni. Utile anche per neoplasie polmonari e gli altri tumori del timo. • Biopsia: da evitare direttamente sul timoma, perché può farlo passare di stadio. Utile su linfonodi e polmoni e altre strutture del mediastino viste alla TAC. Terapia La terapia in elezione chirurgica ha una buona prognosi con sopravvivenza a 10 anni (è lento e sono tardive le recidive) alta. La radio e la chemio hanno un ruolo marginale. La prima può avere significato adiuvante nel trattamento preoperatorio delle lesioni di 3° stadio, la chemio viene fatta nelle situazioni non operabili, e con la radio nel postoperatorio. C’è discussione sull’approccio meno invasivo possibile, che ancora non si è capito se è meglio o peggio della chirurgia a cielo aperto. Potrebbe essere usato per lo stadio 1 L’accesso tradizionale è la sternotomia mediana, migliore di altri meno traumatici come quello transcervicale che non sempre garantisce la radicalità dlel’intervento. I momenti dell’intervento sono: • Asportazione del timo

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Asportazione del grasso mediastinico Apertura dei 2 sacchi pleurici Asportazione del pericardio e della vena brachiocefalica sinistra se sono interessati. In questa vena arriva il sangue del timo tramite le vene di Kins Portare via tutta la malattia visibile, compresi gli eventuali infiltrati pleurici

Si deve fare attenzione a non sezionare i nervi frenici. In un paziente con miastenia gravis questo può essere immediatamente letale. Si può invece asportare una parte del diaframma se è interessato. Prognosi L’asportazione più completa possibile e l’unica cosa che può dare guarigione o aumentare la sopravvivenza. STADIO I II III IV SOPR A 10 ANNI 80% 70% <50% Bassissima

CAP 3 TUMORI NEUROENDOCRINI Questi tumori sono neoplasie originate dalla componente delle cellule endocrine dell’apparato digerente. Sono esse cellule che si localizzano in varie porzioni del tubo digerente nello strato basale dell’epitelio, con la funzione di costruire una rete di segnali endocrini a distribuzione paracrina che sincronaizzano la funzione del sistema digerente. Queste cellule producono una notevole quantità di ormoni (VIP, gastrina, glucagone, insulina, somatostatina, CCK, secretina eccetera) e amine biogene (istamina e serotonina in maggioranza). Si possono distinguere due tipi di tumori derivati da queste cellule: 8. APUD-omi: tumori derivati dalle cellule endocrine del pancreas e dello stomaco-duodeno. Sono produttori di ormoni attivi ed hanno caratteristiche intermedie di malignità 9. Tumori neuroendocrini: tumori derivate dalle cellule enterocromaffini del Kulchintsky, strutture cellulari particolari appartenenti al sistema endocrino enterico, ma distinte rispetto alle cellule APUD (con le quali condividono funzione endocrina e derivazione embrionale). Hanno la capacità di essere colorate con il sale ClK. Si distinguono in argentofile (captano l’argento e non lo riducono) e argentaffini (captano e riducono l’argento). Ci occupiamo in questo capitolo dei tumori neuroendocrini, mentre i tumori APUD vengono trattati con la parte della patologia pancreatica. Questi tumori hanno la caratteristica di produrre amine ad attività ormonale (enteramine) e di provocare una sintomatologia particolare detta sindrome da carcinoide. Sono tumori maligni di tipo epiteliale che tendono a crescere e a dare infiltrazione e metastasi, esattamente come il carcinoma, ma a differenza di questo hanno: • Crescita estremamente lenta, metastasi tardiva e incostante • Sintomatologia precoce e caratteristica • Capacità di sintetizzare peptidi e amine attive (notevole differenziazione) • Recettori peptidici di membrana che permettono la responsività a numerosi fattori di crescita, offrendo agganci terapeutici importanti • Possibilità di determinazione istochimica 3.1 TUMORI NEUROENDOCRINI DEL POLMONE CLASSIFICAZIONE Si classificano in base al grado clinico di malignità • Basso grado di malignità  carcinoide tipico

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Grado medio di malignità  carcinoide atipico Grado elevato di malignità  carcinoma anaplastico a grandi cellule  carcinoma anaplastico a piccolecellule TIPO età media insorgenza CORRELAZIONE % % SOPRAVVIENZA A 5-10 ANNI CON IL FUMO

Carcinoide tipico Carcinoide atipico Anaplastico grandi cell. Anaplastico a piccole cell

50 56 60 62

Aneuploidia Carcinoide tipico 4% Carcinoide atipico 50% Anaplastico grandi cell. 75% Anaplastico a piccole 60% cell TIPO

30-40 35-60 97-100 93-100

87-95 40-60 10-33 5-15

P53 --+ +++ +++

I carcinoidi si possono trovare sia nell’apparato digerente che nelle vie aeree o in altri sedi extradigestive dove sono presenti le cellule dalle quali originano. Oltre alla serotonina, che è la principale produzione di questi tumori, producono sostanze che sono responsabili di altre attività del tumore, come callicreina, istamina, prostaglandine, motilina, sostanza P, ACTH, β-HCG, melatonina. Carcinoide tipico Il carcinoide tipico nel polmone rappresenta il 50-60% dei tumori neuroendocrini. Si trova preferenzialmente nel lume dei grossi bronchi, e quindi non è quasi mai periferico. La sua sintomatologia è quindi da ostruzione del lume bronchiale, in associazione con il fatto che è un tumore molto vascolarizzato: • Tosse • Emoftoe • Infezioni ricorrenti • Sindromi neuroendocrine (vedi) Può essere associato con: MEN I, timoma, leoimiosarcoma. La sua distribuzione centrale riguarda: • Bronchi principali: 20% • Bronchi lobari: 60% • Bronchi segmentali: 20% Di solito interessa la carena dello sterno e la trachea nella sua invasività e raramente è multicentrico. Il suo diametro è più o meno di 20 mm, e nel 10-15% dei casi da metastasi ai linfonodi. Le rare forme periferiche sono subpleuriche, prive di capsula ma comunque circoscritte, multicentriche. Presentano il fenomeno del tumor-lets, cioè il distacco di parti di tumore dalla massa principale. Carcinoide atipico 10% di tutti i carcinoidi, può essere centrale o periferico, con una spiccata tendenza ad avere

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dimensioni maggiori di quelle del carcinoide tipico (circa 36 mm di diametro medio). La diffusione linfonodale è frequente (N1 50%  linfonodi ilari; N2 22%  linfonodi mediastinici), e anche la metastasi a distanza (9-19%). Abbastanza frequenti le mitosi (2-20 per 10 HPF) Il problema maggiore è la necrosi per invasione dei linfatici. Carcinoma anaplastico a grandi cellule Considerato a volte come una variante anaplastica dell’adenocarcinoma, questo tumore ha una popolazione cellulare che lo distingue in due gruppi, entrambi però con cellule grandi: la variante anaplastica a cellule multinucleate e pleiomorfe, e la variante a cellule chiare con scarso nucleo e abbondante glicogeno. Ma la distinzione in gruppi non è importante, perché comunque è molto aggressivo, e le metastasi avvengono sia per via linfatica che ematica e molto rapidamente. Quelle linfatiche sono più comuni a livello ilare. Carcinoma anaplastico a piccole cellule (microcitoma) E’ il tipo più maligno per la sua capacità di dare metastasi a distanza in modo molto rapido: queste sue caratteristiche lo rendono praticamente sempre incurabile al momento della diagnosi. Spesso l’esordio clinico è caratterizzato dalla comparsa delle fratture patologiche alle ossa, frutto delle metastasi, perché anche se si sviluppa in genere all’ilo, non da molto una sintomatologia diretta. Invece assume importanza in questo tumore in modo particolare la produzione di ormoni e di sostanze endocrine, tanto da produrre con buona frequenza delle sindromi paraneoplastiche. La principale produzione ormonale riguarda ACTH, ADH e paratormone, ma anche serotonina, calcitonina, MSH ed EPO. La morfologia delle cellule è di cellule appunto piccole, omogenee con nucleo tondo o fusiforme e nucleolo scarsamente visibile. Si possono distinguere tre varietà: - A chicchi d’avena - A cellule intermedie - Composto SINDROME DA CARCINOIDE I carcinoidi tipici e atipici sono caratterizzati da un complesso di sintomatologie che derivano dalla loro complessa produzione di sostanze: • Manifestazioni cutanee: flush cutaneo: vampata di calore in seguito all’assunzione di alcool. Quello bronchiale è caratterizzato da rossore del volto ed esacerbazione della diarrea • Manifestazioni digestive: diarrea (76%), tenesmo rettale e dolore crampiforme • Manifestazione respiratorie: crisi asfittiche da broncocostrizione dovuta a 5HT • Manifestazioni cardiache (50%): reazione fibrotica dell’endotelio del cuore destro nella componente valvolare  insufficienza tricuspidale e stenosi polmonare • Manifestazioni renali: oliguria e riduzione del filtrato glomerulare secondario alla vasocostrizione dell’arteriola afferente mediata da 5HT DIAGNOSI La diagnosi anatomopatologica è difficile, e richiede peculiarità particolari. La biopsia bronchiale porta con se un 32% di diagnosi non corrette. Idem per l’analisi sui campioni anatomopatologici a fresco. Non è possibile fare una diagnosi clinica di carcinoide in assenza di sintomi tipici, a meno che si tratti di un ritrovamento casuale chirurgico. Importanti sono: • Dosaggi immuno-enzimatici • Test di stimolazione con sostanze in grado di liberare 5HT (alcool, calcio, secretina eccetera)

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• RX • Scintigrafia • TC, RMN, biopsia TERAPIA Il trattamento ideale è chirurgico. Condizionano la risoluzione chirurgica dei carcinomi polmonari la presenza di tumor-lets, l’interessamento linfonodale e le forme centrali. Dopo l’intervento sono importanti: • Chemioterapia, raramente da sola nei casi inoperabili • Farmaci bloccanti la sintesi di 5HT • Cortisonici (attacchi di asma) • Antistaminici • Octreotide (analogo della somatostatina) sia nella preparazione all’intervento chirurgico che nel follow-up. • Follow-up • Scintigrafia La prognosi in genere non è infausta, ed è condizionata dalla sede del carcinoide, dell’aspetto istologico e dall’estensione, dal numero di metastasi, dalle caratteristiche di aneuploidia e di anaplasia delle cellule. 3.2 SINDROMI POLIENDOCRINE Le sindromi poliendocrine sono dette anche MEN (multiple endocrine neoplasia), e sono affezioni ereditarie caratterizzate dall’interessamento sincrono o metacrono di più ghiandole endocrine. Esistono due forme, dette MEN1 e MEN2. La prima è caratterizzata da neoplasie contemporanee di paratiroidi, pancreas ed ipofisi, la seconda da lesioni a carico di tiroide (carcinoma midollare) e feocromocitoma. Sono sempre ereditarie, e le forme sporadiche rappresentano mutazioni ex novo insorte nella popolazione. Si pensa che le mutazioni siano due, una predisponente ed ereditata in modo autosomico dominante, la seconda casuale, determinante la malattia, ma non ereditata. •

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MEN1 o Iperparatiroidismo o Gastrinoma Insulinoma GlucagonomaVIPoma PPoma o Tumori ipofisari MEN2A: forma più tipica, si ha associazione di tumore tiroideo secernente calcitonina, serotonina e PG, e nel 5% dei casi anche feocromocitoma MEN2B: carcinoma midollare della tiroide + feocromocitoma, ma associata ad altre alterazioni genetiche come i disordini dei gangli nervosi addominali MEN2C: carcinoma midollare della tiroide è la sola manifestazione

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CAP 4 PATOLOGIA CHIRURGICA DEL SURRENE 4.1 TRAUMI E CISTI Traumi Interessate da traumi solo in rari casi nell’adulto, le ghiandole surrenali possono subire traumi nel neonato. Si tratta frequentemente di emorragie intraparenchimali, sottocapsulari ed extracapsulari, più gravi. Si diagnostica con l’osservazione di shock e violento dolore al fianco, ed è difficile distinguere queste affezioni da altre degli organi vicini. E’ opportuna TAC e RMN. La terapia prevede la regressione dello shock e la rimozione chirurgica di ematomi e pseudocisti emorragiche Cisti Molto rare, colpiscono individui fra 40 e 60 anni, spesso , e sono unilaterali. Di dimensioni variabili da pochi mm a molti cm, sono di tre eziologie: • Parassitarie 5-10% • Vere o Epiteliali 10% o Endoteliali 45% • Pseudocisti ematiche 40% Le pseudocisti a differenza di quelle vere non hanno un epitelio che le circonda, e sono separate dal parenchima circostante tramite una capsula fibrosa. La sintomatologia è poco specifica ed è data dalla triade di Abeshouse (dolore lombare, disturbi digestivi, tumefazione in sede lombare), a cui a volte si aggiungono disturbi urinari da compressione. Sono diagnosticabili con gli esami RX, angiografie e TC. A volte l’urografia identifica la loro impronta sul rene. Quando la diagnosi eziologica non è certa, la cosa migliore è la rimozione chirurgica, ma è possibile anche effettuare un trattamento di agoaspirazione. 4.2 IPERFUNZIONE SURRENALICA MORBO DI CONN (IPERALDOSTERONISMO PRIMARIO) Epidemiologia ed eziopatogenesi Sindrome rara, responsabile dell’1-2% dei casi di ipertensione arteriosa, questa malattia è spesso rappresentata da un adenoma cortico-surrenalico. Colpito di più il sesso , frequenza massima fra la III e IV decade. Nel caso di adenoma la secrezione non risponde ai normali meccanismi di controllo, mentre nell’iperplasia surrenalica la causa è secondaria ad un aumento della secrezione di ACTH. Clinica • Ritenzione idrica ipernatriuremica: ipertensione o Ipervolemia: poliuria resistente all’ADH, nicturia, polidipsia (da iperosmolarità) • Perdita di potassio: miastenia, aritmie e parestesie diffuse o Alcalosi ipokaliemica: crampi muscolari e tetania Diagnosi Ipokaliemia e iperkaliuria, livelli elevati di aldosterone plasmatico e riduzione dell’attività della renina plasmatica. Precisazioni diagnostiche vengono fatte con test al: • Furosemide • Floroidrocortisone • Sporonolattone • Angiotensina La localizzazione della lesione surrenalica si effettua con TAC e RM.

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Terapia Chirurgica per gli adenomi e carcinomi, nelle forme iperplastiche è di solito possibile il controllo farmacologico. Per evitare danni irreversibili l’intervento deve essere più precoce possibili. MORBO DI CUSHING (IPERSURRENALISMO PRIMARIO) Eziopatogenesi Aumentato livello plasmatico di glucocorticoidi provocato nell’80% dei casi da una ipertattività della surrene provocata dalla attività ipofisaria, e nel 20% da adenomi e carcinomi primitivi. Di particolare interesse chirurgico è la patologia surrenalica primitiva. Questa è legata a: • Iperplasia semplice primitiva • Adenoma: tipico del sesso nell’età infantile, non fa distinzioni al di sopra dei 50 anni, in genere unico. • Carcinoma: distribuzione bimodale, nella prima infanzia e nella IV-V decade. Ha uno spiccato potere invasivo e tendenza alla metastasi Clinica • Iperaldosteronismo: ipertensione sistolica di solito non molto alta • Diabete steriodeo: di solito non gravissimo, con intolleranza al glucosio, ma può anche essere glicosurico ed è insulino-resistente. • Obesità androide: per differente sensibilità dei tessuti ai glucocorticoidi e all’insulina, si ha dimagrimento degli arti distali, e obesità del collo, della faccia, della pancia e delle natiche. • Osteoporosi: di solito tardiva • Irsutismo: sostenuto dalla aumentata produzione degli steroidi ad attività sessuale, che nella si accompagna ad amenorrea • Sintomi minori da glucocorticoidi: ritardo della guarigione delle ferite, ecchimosi spontanee, tendenza alle infezioni Diagnosi • Reperti di laboratorio: iperglicemia, glicosuria, eosinofilia, linfocitopenia, ipokaliemia con alcalosi metabolica, bilancio del Ca++ negativo • Determinazioni ormonali: aumento del livello plasmatico di cortisolo con variazioni del ritmo circadiano, alterazione della concentrazione plasmatica dei metaboliti. Il livello di ACTH permette di distinguere un cushing primitivo da uno secondario • Test di Liddle: inibizione della secrezione di glucocorticoidi dopo somministrazione di desametazone. • RX, TAC e RMN: identifiacazioni delle lesioni surrenali Terapia Trattamento causale complesso.Terapia medica antipofisaria e rimozione dell’ipofisi nelle forme secondarie, surrenectomia nelle forme primitive. SINDROME SURRENOGENITALE PRIMARIA Situazione in cui la normale attività surrenalica è aumentata, con modificazioni dei caratteri genitali, fin dalla nascita. Si tratta di un deficit enzimatico trasmesso per via autosomica recessiva, a carico della 21 idrossilasi e della 11 idrossilasi, che blocca la sintesi del cortisolo e dell’aldosterone, con unica produzione di ormoni ad attività sessuale. Oltre a questo, la carenza di glucocorticoidi provoca un aumento della produzione di ACTH con iperplasia dell’ipofisi. Clinicamente è una sindrome complessa: • Segni di aumento dell’ACTH: colorazione bronzina della cute (ipermelanodermia) • Segni di iperandrogenismo nel : macrogenitosomia precoce, pubertà precoce ed eccessiva

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virilizzazioe Segni di iperandrogenismo nella : pseudoermafroditismo , con distribuzione dei peli di tipo maschile, ipertrofia clitoridea, ginecomastia. Dopo la pubertà irsutismo, voce baritonale, psicologia di tipo maschile, ipertrofia muscolare, amenorrea. Aumento di estrogeni nel : pseudoermafroditismo maschile e femminilizzazione alla pubertà Aumento di estrogeni nella : pubertà precoce

A questo si può aggiungere i segni della carenza di glucocorticoidi e di aldosterone, in misura variabile, con varie sintomatologie tipiche del morbo di Addison (vedi) SINDROME SURRENOGENITALE ACQUISITA Si manifesta in età pediatrica o in età adulta, in entrambi i sessi, con virilizzazione o femminilizzazione a seconda dei casi, ed è legata alla presenza di una iperplasia, un adenoma o un carcinoma surrenalico funzionante. Più frequentemente si ha virilizzazione della donna adulta, con segni di amenorrea, ipotrofia mammaria, ipertrofia del clitoride, acne, irsutismo con distribuzione androgena dei peli, ipertrofia muscolare. 4.3 TUMORI DEL SURRENE TUMORI NON FUNZIONANTI

Sono una patologia in costante aumento grazie alla diagnosi precoce delle neoplasie con la TAC. Sono classificate in stromali e parenchimali: • Stromali o Mielolipoma: tessuto adiposo e mieloide mescolati insieme o Fibroma o Fibrosarcoma o Lipoma o Angioma • Parenchimali o Adenoma o Carcinoma Mielolipomi: sono neoformazioni in genere piccole, e raramente diventano abbastanza grandi da provocare dolenzia all’ipograstrio ed essere palpabili. Di fondamentale importanza per la diagnosi sono la TAC e l’ecografia, nei casi dubbi l’agobiopsia. E’ importante l’asportazione solo nei soggetti giovani, negli anziani è preferibile il follow-up. Adenomi e carcinomi: masse di grandezza variabile che possono arrivare anche a 3 Kg, di aspetto irregolare e lobulato. Non sono sintomatici in fase iniziale e danno disturbi da compressione tardivamente, e quindi sono spesso un reperto occasionale. ECO e TAC sono diagnostiche. Le masse < di 3 cm sono in genere benigne ed è indicato il follow-up, nelle forme più grandi si fa surrenectomia e nefrectomia, per la frequente infiltrazione del rene da parte di questi tumori. TUMORI FUNZONANTI: FEOCROMOCITOMA Il feocromocitoma è un tumore midollare funzionante ad attività endocrina. Più spesso colpisce le donne in età compresa fra i 20 e i 50 anni, più spesso a destra, e raramente colpisce i bambini. Pur essendo nel 90% dei casi presente nelsurrene, il feocromocitoma può insorgere spesso in qualunque sede siano presenti residui di tessuto cromaffine. Può essere associato in sindromi come la MEN 2a e 2b.

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E’ una neoplasia tondeggiante, ben capsulata, di colore rosso bruno e liscia. Ha dimensioni variabili fra 1 e10 cm e peso attorno a 20-300 g. Riconosce diversi aspetti istologici. Caratteristica la colorabilità con i sali di cromo (colorazione giallo brunastra). Le forme maligne sono il 5% dei casi, e nel 98% insorgono primitivamente. Alcuni autori considerano il feocromocitoma come una lesione potenzialmente maligna. I feocromocitomi sintetizzano adrenalina e noradrenalina, in genere quest’ultima in quantità predominante. E’ possibile distinguere il feocromocitoma dal paraganglioma per via della differente concentrazione di adrenalina nelle dueneoplasie: nei paragangliomi non c’è mai la feniletanolamina metil-transferasi (NOR  ADR) e quindi non c’è mai secrezione di adrenalina. I sintomi sono: • Forme ipertensive parossistiche, forme ipertensive stabili, forme ipertensive continue con crisi parossistiche (secrezione prevalente di NOR) • Forme di alterazioni metaboliche iperglicemiche (secrezione prevalente di ADR) La diagnosi è difficile perché i sintomi sono aspecifici e vari. La palpazione è di scarso aiuto, e a volte possono scatenare delle crisi ipertensive. Importante l’analisi dei cataboliti delle catecolamine nelle urine (VMA). Sia la TAC che la RMN sono abbastanza diagnostici, e va bene anche la scintigrafia con I 131 che può identificare le metastasi Il trattamento è chirurgico e comprende l’asportazione della neoplasia e la preparazione con α e β bloccanti per impedire crisi simpaticomimetiche da liberazione di catecolamine. E’ possibile, dopo l’asportazione del tumore, entrare in uno stato di shock da vasodilatazione dal quale è molto difficile uscire. PARAGANGLIOMI I paragangli sono formazioni rotondeggianti di 1-3 mm di diametro localizzati in prossimità dei gangli simpatici ma anche nel collo in prossimità delle arterie e dei nervi, lungo il decorso della polmonare e nella catena simpatica mediastinica. Sono APUD, e dopo la nascita vanno incontro a progressiva involuzione e quindi scompaiono. I residui embrionali di queste strutture possono dare origini a neoplasie dette appunto paraganglioma. Sono forme che insorgono spesso nell’addome, e in altre sedi sono più rare e generalmente silenti. Nel 10% dei casi sono multipli, più spesso quando si manifestano nel contesto delle MEN2. Dal punto di vista sintomatico sono in grado di secernerecatecolamine come il feocromocitoma, e sono difficili da distinguere dal punto di vista clinico. Aiuta nella diagnosi differenziale la considerazione che non secernono mai adrenalina, in quanto non hanno l’enzima che converte la NOR in ADR. Si diagnosticano clinicamente, con il dosaggio del VMA nelle urine e con TAC, RMN e scintigrafia con I131. A volte può essere utile una arteriografia. In ogni caso, anche in quelli asintomatici, è indicata l’exeresi chirurgica.

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CAP 5 PATOLOGIA DEL PANCREAS 5.1 PANCREATITE ACUTA Si tratta di una condizione di flogosi acuta, con fuoriuscita di enzimi pancreatici dal sistema duttale della ghiandola con elevazione degli enzimi pancreatici nel siero e nelle urine e con distruzione più o meno diffusa della ghiandola. Classificazione In genere si distinguono le pancreatiti acute, che hanno una ripercussione temporanee sulla funzionalità del pancreas e sono quindi reversibili, dalla pancreatiti croniche, che possono o no manifestare episodi sintomatici acuti ma sono sempre accompagnate dalla diminuzione della funzionalità del pancreas esocrino. Le forme acute e quelle croniche possono essere singole o ricorrenti, ma mantengono questa distinzione nell’effetto sulla funzionalità. In base alla gravità, poi, le forme acute sono distinguibili in: • Edematose: sintomatologia modesta autolimitantesi • Persistenti: gravi con possibile sviluppo di complicazioni • Necrotico emorragiche: ad evoluzione fulminanti Eziologia I fattori eziologici che portano alla pancreatite sono moltissimi. I principali fattori con il loro meccanismo patogenetico sono indicati qui di seguito. Alcolismo In Europa è la seconda causa di pancreatite, in Usa e in Australia la prima. L’alcool provoca diverse cose, che contribuiscono tutte contemporaneamente alla patogenesi della malattia. • Aumento della secrezione di gastrina  stimolo alla secrezione di colecistochinina per tamponare il pH acido  stimolo alla secrezione • Aumento della concentrazione proteica nel secreto pancreatico  genesi di piccoli calcoli nel dotto  ostruzione delle vie escretrici  pancreatite da autodigestione per attivazione intraduttale degli enzimi • Aumento della sensibilità del pancreas alla secretina • Effetto citotossico diretto • Stimolo diretto alla secrezione  ipertrofia duttale • Stimolo vagale & stimolo diretto alla contrazione dello sfintere di Oddi  ostacolo alla secrezione e ristagno di enzimi litici nel dotto. Calcolosi biliare Circa il 60% delle pancreatiti sono secondarie alla calcolosi biliare che a sua volta ha due meccanismi patogenetici: • Calcolo proveniente dal coledoco ostruisce il dotto di Wirsung nel suo sbocco nella papilla • Un calcolo della papilla ostruisce il coledoco, il quale fa refluire la bile in eccesso nel Wirsung (teoria del dotto comune). Si obbietta a questa teoria la difficoltà anatomica di creare un reflusso del genere e la presenza di un gradiente pressorio dal W al coledoco e non viceversa. Inoltre la bile in vitro non danneggia le cellule pancreatiche.Si pensa quindi più che altro ad una infezione del secreto batterico con successiva estensione del danno alle cellule parenchimali del pancreas. Si pensa che nelle prime fasi dell’ostruzione la secrezione pancreatica continui, i dotti continuino a riempirsi di secreto con la conseguenza di una ipertensione endoluminare, che porta a rottura i dotti e

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alla diffusione del secreto pancreatico lungo il parenchima. Successivamente, le cellule non possono più secernere i loro enzimi che rimangono dentro di essere,distruggendole (teoria della secrezione ostruzione) Ipercalcemia Il calcio in eccesso provoca da un lato precipitazione dei calcoli nel dotto, dall’altro attivazione dei proenzimi in precocemente rispetto alla norma Iperlipoproteinemia Una concentrazione elevata di acidi grassi liberi, provocata dall’idrolisi dei trigliceridi, induce un danno vascolare del microcircolo, con danneggiamento ischemico del pancreas Anche gli interventi vicini al pancreas hanno la pancreatite come complicazioni, qual’ora si generi un edema circostante che comprima il tessuto. Malattie vascolari, trattamento con cortisone, ed altri farmaci sono agenti eziologici meno frequenti. Inoltre una certa percentuale di pancreatiti ha un carattere idiopatico. Patogenesi Nella maggior parte delle situazioni che porteranno alla pancreatite acuta,il danno primario è il danneggiamento del parenchima funzionale da parte degli enzimi che normalmente sono inattivi (secreti come zimogeni) e compartimentalizzati. Il ristagno nel dotto per qualsiasi causa di ostruzione provoca l’autodigestione del tessuto ghiandolare e di conseguenza la lisi della ghiandola e del suo tessuto, con le conseguenze che ne derivano. Normalmente gli enzimi si attivano per l’attività dell’enteropeptidasi intestinale che si produce in risposta agli stimoli secretori e che converte il tripsinogeno a tripsina, la quale attiva tutti gli altri zimogeni (amilasi, lipasi, proteasi). La fosfolipasi A e la lipasi riescono a danneggiare la parete cellulare e sono responsabili della maggior parte del danno cellulare mentre la elastasi è la responsabile del danno al connettivo. Inoltre si attiva il sistema del complemento, con le PG e le chinine, sotto lo stimolo della chinina. Tutti questi meccanismi di attivazione si hanno anche in condizioni normali, ma sono prevenuti dalla presenza degli inibitori della proteasi, α1 antitripsina e α2 macroglobulina. Altri meccanismi patogenetici, oltre alla teoria del dotto comune, e della secrezione ostruzione, che portano all’auto-attivazione degli enzimi pancreatici,sono quelli alla base della teoria del reflusso duodenale, ossia la possibilità che l’incontinenza dell’Oddi possa permettere il reflusso del contenuto duodenale nel pancreas In corso di pancreatite acuta il processo digestivo si estende molto nello spazio retroperitoneale, e inoltre, per motivi non chiari, si osserva una diffusione dei liquidi negli spazi extracellulari in tessuti anche molto distanti dal pancreas, come l’interstizio polmonare o il sottocute. Si sviluppa quindi ipotensione, sia per la difficoltà del cuore a far fronte alle esigenze di vascolarizzazione del tessuto periferico per la vasodilatazione e l’ipovolemia, con conseguente venomozione, sia per la liberazione delle sostanza vasoattive. Un altro effetto importante è la diminuzione della concentrazione di calcio, dovuta a diversi meccanismi: -diminuzione dell’albumina per effetto della produzione di essudato infiammatorio -precipitazione dei sali di calcio nelle arie di liponecrosi -diminuzione dell’attività delle paratiroidi

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-aumentata liberazione di calcitonina L’ipotensione si ripercuote soprattutto a livello di rene e polmone, dove si aggiunge anche il danno da essudato. Gli effetti di questo sono una sindrome polmonare simile all’ARDS e una sindrome uremica renale. Anatomia patologica Nella forma edematosa c’è edema diffuso che aumenta lo spessore della ghiandola, che diventa pallida, con evidenza di infiltrati di PMN, senza danno cellulare. Questo processo corrisponde alle fasi iniziali della malattia, e se si presenta da solo non è associato a danno cellulare e regredisce nell’arco di pochi giorni. La forma emorragica si presenta con diffuse aree di emorragia, che hanno due destini: l’ascesso se si sovrappone una infezione batterica, la cisti se si ha il riassorbimento del sangue da parte dei macrofagi. La forma necrotica comincia con la necrosi parenchimale della ghiandola, e in seguito il processo si estende a anche al grasso retroperitoneale e si ha la steatonecrosi diffusa. Tale processo, che si associa ad un’alta mortalità, può portare alla distruzione completa della ghiandola. Ogni focolaio necrotico rappresenta la situazione ideale per la proliferazione batterica, che si associa spesso alla necrosi con la formazione di un focolaio suppurativo. Queste lesioni, che sono le più comuni, danno il nome ai tipi più diffusi di pancreatite, classificate così in base al tipo di lesione che si presenta maggiormente. In realtà sono spessissimo forme miste e la classificazione anatomo-patologica non è molto in uso. Clinica La sintomatologia della pancreatite acuta è complessa, e offre numerose difficoltà di diagnosi differenziale, anche perché le forme lievi edematose sono di solito limitate ad una dolorabilità simile all’ulcera con un dolore che si presenta per 2-3 giorni e poi scompare, le forme gravi con interessamento del grasso peritoneale e flogosi estesa provocano un dolore lancinante che simula un quadro di infarto mesentericoo di occlusione intestinale. La diagnosi differenziale risulta molto importante perché la pancreatite a differenza di altre situazioni di addome acuto non si tratta precocemente in maniera chirurgica, ma riconosce prima di tutto un trattamento medico. Dolore: il dolore pancreatico è presente praticamente sempre, ed ha caratteristica continua e diffusa, sordo e ottenebrante. E’ uno dei dolori più intensi che esistono, non è trafittivo, ed ha come paragone l’infarto miocardico, perché come questo si associa al panico della morte imminente. Non viene lenito dalla morfina (che aumenta il tono dello sfintere di Oddi ed aumenta il danno), ma meglio dai salicilati. Tipicamente è localizzato nell’ipogastrio, esteso ai lati e a sbarra nel terzo inferiore della schiena. Il paziente tende ad assumere la posizione antalgica a canna di fucile. Per la localizzazione del pancreas, raramente si osserva reazione peritoneale di difesa. Insorge bruscamente, raggiunge l’apice in pochi minuti, ed è insopportabile tale da richiedere la somministrazione continua di oppioidi a distanze brevi. Non varia nel tempo e rimane sempre stabile, per molte ore o addirittura molti giorni. Nausea e vomito compaiono spesso come sintomatologia riflessa. Il vomito non è a getto, come il vomito centrale, e continua molto a lungo. Finito il vomito alimentare il paziente continua ad emettere succhi gastrici e bile.

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Segni di ecchimosi addominali ai fianchi (Gray-Turner) o nell’area periombelicale (Cullen) indicativi di uno stravaso ematico proveniente dal retroperitoneo Ileo paralitico Ittero per la compressione del coledoco da parte della testa del pancreas Alcuni importanti segni sistemici sono: • Disidratazione, ipotensione e shock, depressione della funzionalità miocardica • Danno polmonare con ARDS • Anuria e sindrome uremico emolitica • Comparsa di versamento pleurico basilare, frequentemente a sx per il rapporto della base del polmone con la base del pancreas. La valutazione clinica della gravità della pancreatite acuta è importante, perché un trattamento medico delle forme aggressive risulta efficace, mentre quelle blande possono risolvere spontaneamente anche in 24-48 h. I parametri clinici che si associano alla gravità della pancreatite sono quindi importante. Un modo semplice per valutare la gravità è la ricerca addominale di un liquido nerastro simili ad olio per motore, che deriva dalla steatonecrosi, attraverso una paracentesi esplorativa. Inoltre esistono i criteri predittivi di Ramson per valutare la mortalità. Sono undici parametri, che a seconda di quanti sono positivi nel paziente indicano la mortalità: 0-3 criteri, 0.9%; 3-4 18%, 5-6 40%, >6 90% Sono distinti in criteri al momento del ricovero e in criteri dopo 48 ore di osservazione. 1. Età > 55 anni 2. Leucociti >16000 3. Glicemia > 200 4. LDH > 350 5. SGOT >250 Dopo le 48 h: • Riduzione dell’Ht > 10% • Azotemia > 50 • Calcemia < 8 • PO2 < 60 • Deficit di basi fino a 4 mEq • Sequestro di liquidi > 600ml Complicanze Sono l’ascesso e la pseudocisti le complicanze più importanti, associate ad altre complicanze minori, meno frequenti. Pseudocisti Raccolta di materiale necrotico, sangue e succo pancreatico in una cavità costituita da aderenza fibrose post infiammatorie, ma prima di un rivestimento epiteliale proprio. L’infezione di questa raccolta, che si sviluppa nel pancreas, nelle sue vicinanze ma anche nella pelvi, porta alla formazione dell’ascesso. La pseudocisti, che raramente si forma per ostruzione del dotto in assenza di pancreatite acuta,alla sua origine ha sempre una comunicazione con il sistema duttale, ma la può perdere in seguito. Non si risolvono spontaneamente e sono caratterizzate dalla presenza di una dolorabilità alla palpazione della sede interessata, dove compare anche una dolorabilità diffusa. Non è rara la compressione dell’intestino a livello duodenale e la complicazione ostruttiva pilorica, con nausea e

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vomito. Si diagnosticano molto bene con le tecniche di imaging e con l’ecografia. La diagnosi differenziale con la neoplasia cistica del pancreas è però impossibile prima dell’intervento chirurgico. Le pseudocisti possono essere fonte di altre complicazioni, come : • Suppurazione • Rottura nella parete addominale o nel mediastino (peritonite o ascesso mediastinico) • Fistolizzazione: nel duodeno seguono 10-15 scariche di diarrea con risoluzione spontanea. La fistola con il colon deve essere chiusa per evitare l’infezione retrograda del pancreas • Fissurazione che porta all’ascite pancreatica con liquido ricco di amilasi e lipasi • Emorragia che porta a melena o ematemesi, per via della comunicazione della fistola con il sistema duttale. L’emorragia che ne consegue è cospicua e a volte può mandare il paziente in shock. La terapia di questa complicazione è essenzialmente il drenaggio interno (creazione di una comunicazione fra la fistola e il duodeno), oppure la resezione, o l’asportazione della parte di pancreas che la contiene (possibile se questa è la coda). Il mezzo di elezione è però il drenaggio esterno percutaneo ecoguidato. Ascesso pancreatico Non raramente le raccolte di materiale necrotico si infettano e vanno incontro a suppurazione chiusa; iniziano cioè come una pseudocisti, ma sono complicate da infezioni, e sono comuni dopo ripetuti episodi di pancreatite lieve o al primo episodio di pancreatite acuta grave. Possono essere vicini al pancreas ma anche diffusi nella cavità addominale, in caso di ascessi multipli possono fondersi fra loro formando una serie di cisterne comunicanti. In massima parte si sviluppano davanti al pancreas nello spazio retroperitoneale fra questo e la cavità degli epiploon, e poi a volte discendono lungo le docce coliche dando un ascesso a ferro di cavallo. I batteri arrivano con tutta probabilità per diffusione linfatica partendo dal colon e dall’ileo. Dopo una pancreatite acuta regredita, l’ascesso pancreatico deve essere sospettato in presenza della triade sintomatologica febbre, dolore addominale e tensione epigastrica. La diagnosi viene fatta con Rx, TAC ed ecografia. La terapia dell’ascesso è il drenaggio in laparotomia, perché la diffusione dell’ascesso crea peritonite settica molto spesso fatale. • • • • • • • •

Tetania: molto spesso legata al quadro di ipocalcemia Diabete mellito: danneggiamento della porzione insulare Emorragie gastrointestinali: dalle pseudocisti, dall’ischemia intestinale provocata dall’estensione del processo di flogosi, dall’erosione dei vasi da parte degli enzimi pancreatici Insufficienza renale acuta: ischemia ed azione tossica degli enzimi pancreatici a livello del tubulo Encefalopatia pancreatica: insufficienza epatica da ipotensione ed effetti diretti sulla mielina da parte delle lipasi ARDS: a livello polmonare il versamento pleurico e l’edema si sommano all’azione litica degli enzimi lipatici sul surfactante Tromboflebiti migranti Fistole e perforazioni intestinali

Diagnosi

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Il quadro labolatoristico è abbastanza esteso: • Amilasemia: aumenta in quantità variabili ma costantemente, da valori normali di 150-200 a punte di anche 8000. Il picco si ha rapidamente nei primi 2-3 giorni della sintomatologia ma altrettanto rapidamente scompare, anche in quei casi in cui si è determinata la distruzione completa della ghiandola. Infatti l’entità dell’aumento non è indice di gravità. Infatti, a parte che l’amilasi non è specifica per la ghiandola pancreatica (anche se solo in corso di pancreatite si raggiungono valori molto alti), il test non è molto sensibile. Inoltre, bisogna discriminare se l’aumento dell’amilasi dipende dalla distruzione della ghiandola stessa o dalla regressione della malattia. • Amilasuria: nei pazienti con pancreatite acuta e normale funzionalità renale, la clearence dell’amilasi può essere rapida e si avrà amilasuria anche in assenza di amilasemia. Questo rimane persistente anche diversi giorni dopo la pancreatite cronica. • Clearence renale: dopo una pancreatite acuta la clearence dell’amilasi è maggiore. Allora esiste un indice per valutare il rapporto fra amilasuria e clearence renale, cioè: Amilasuria creatinemia × × 100 . Se questo valore è < 3, non si tratta di patologia pancreatica, fra amilasemia creatinuria 3 e 5 è incerto, oltre a 5 è sicuramente pancreas. • Lipasemia: aumento tardivo ma persistente nel tempo. • Calcemia: come si è detto diminuisce, ed è un criterio prognostico negativo • Valori elevati di enzimi cellulari: LDH, GOT, GPT • Attivazione del complemento • Criteri metabolici di Ramson • Bilirubina, ALP e γGT se c’è ostruzione al flusso biliare La diagnosi con le tecniche di imaging si avvale di: 4. Radiografia diretta addome: si evita il mezzo di contrasto nella fase acuta, e si hanno soltanto segni indiretti come la presenza di dilatazione intestinale e livelli idroaerei. L’ansa sentinella è un segno di livello idroaereo a livello della prima ansa del digiuno, segno di flogosi pancreatica. Il segno del colon escluso è invece quando la distensione gassosa del colon appare dall’ascendente al trasverso, ma il discendente rimane escluso. 5. RX torace: Aree di atelettasia delle basi, edema interstiziale del polmone, flogosi della pleura. 6. Ecografia: poco diagnostica per via della presenza di strutture piene di gas prima del pancreas, evidenzia però le successive evoluzioni della malattia, lo stato degli organi vicini, calcoli e complicazioni come gli ascessi o le pseudocisti. 7. Tac: esame migliore, l’unico che permette la stadiazione del processo pancreatico valutando l’estensione agli organi vicini. 8. Laparotomia esplorativa Diagnostica differenziale • Ulcera gastrica o duodenale perforata: si differenzia con una RX diretta addome che evidenzia la falce d’aria sottodiaframmatica nella perforazione del viscere cavo. Inoltre il dolore dell’ulcera ha una insorgenza trafittiva, a colpo di pugnale, mentre la pancreatite è si veloce, ma richiede alcuni minuti per raggiungere l’apice del dolore. Infine, nella pancreatite l’addome a tavola non compare se non in fase avanzate, nell’ulcera molto precocemente. • Occlusione intestinale: dolore crampiforme, non ci sono segni di difesa muscolare se non interviene perforazione, e c’è distensione addominale. L’RX diretta mostra livelli idroaerei specifici.

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Infarto intestinale: paziente cardiopatico o con insufficienza vascolare, presenza di diarrea sanguinolenta, segno di peritonismo Aneurisma aorta addominale: massa pulsante addominale, si differenza con la TAC e l’ecografia Colica biliare: dolore ipocondrio dx, a colica (a differenza di quello pancreatico), che regredisce con l’uso di antispastici e di analgesici. Murphy positivo, evidenza di calcoli all’ecografia (che possono anche essere patogenetici di una pancreatite)

Terapia La terapia medica è la terapia che viene utilizzata inizialmente nel trattamento della pancreatite acuta. Ha come scopo la correzione dello squilibrio elettrolitico, la sedazione del dolore e la copertura antibiotica. Si deve inoltre mettere a riposo il pancreas con alimentazione parenteraletotale. Importante il posizionamento di un sondino per l’aspirazione delle secrezioni pancreatiche e la riduzione della pressione esercitata dallo stomaco sul pancreas. Il paziente deve rimanere a digiuno per circa 7 giorni. Importante anche il monitoraggio della pressione di O2 e dell’equilibrio acido base, eventualmente subito corretti. Solo nei casi gravi con ARDS è necessaria l’intubazione. Anche il lavaggio peritoneale può essere indicato. La terapia medica specifica per la messa a riposo della ghiandola è il trattamento con ranitidina (anti H2) somatostatina e sostanze inibitrici degli enzimi pancreatici, come il trasidol. Il trattamento chirurgico si fa quando c’è:  fallimento della terapia medica  necrosi pancreatica estesa  segni di peritonismo  diagnosi dubbia In questi casi si esegue un intervento di chirurgia pancreatica precoce e si esegue una necrosectocia, una sequestrectomia (drenaggio dei liquidi e del materiale sequestrato dalla ghiandola) ed eventualmente una exeresi della ghiandola, che però è un evento abbastanza raro. L’intervento permette anche la decompressione biliare, il posizionamento di tubi di drenaggio, la colangiografia intraoperatoria e la toeletta di raccolte extrapancreatiche. 5.2 NEOPLASIE PANCREATICHE CARCINOMA DEL PANCREAS Il carcinoma del pancreas è rappresentato per il 90% da adenocarcinomi duttali (cellule del dotto di Wirsung), mentre le forme a cellule insulari costituiscono il restante 5%. La testa del pancreas è interessata in maniera doppia, circa il 50% dei casi, rispetto al corpo (30%) e alla coda (20%). Si sviluppa attorno ai 50 anni, M=F, incidenza 10/105. Eziologia Fattori di rischio certi sono: • Fumo di sigaretta • Caffè • Dieta iperlipidica • Pancreatite cronica • Contatto prolungato con i derivati del benzene Non sono invece associati a fattori di rischio eventi come alcolismo, diabete, colecistotomia. Clinica Se si esclude l’ittero, i sintomi di esordio sono in genere abbastanza insidiosi. L’ittero invece ha

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comparsa improvvisa, senza dolore iniziale, ed è provocato dall’ostruzione del coledoco. Infatti il tumore si accresce nel lume e invade la parete, obliterando il dotto. Una volta che questo evento ostruttivo si è verificato, si manifestano i segni della clinica, ma è comunque ormai troppo tardi per intervenire: il 98% delle persone che sviluppano una neoplasia pancreatica muoiono per le sue conseguenze. • Dispepsia • Perdita dell’appetito • Astenia • Calo ponderale (sempre presente, per malassorbimento e per anoressia) • Dolore epigastrico a sbarra, spesso notturno, esacerbato dal cibo, di difficile controllo, che spesso richiede oppiacei, quando soprattutto si verifica una infiltrazione dei nervi splacnici e del peritoneo. E’ più forte se associato a neoplasie del tronco e della coda, ed è caratteristicamente attenuato dalla flessione delle gambe sul bacino. • Urine ipercromiche • Feci di aspetto chiaro • Prurito • Regola di Courvoisier: colecisti distesa e palpabile in assenza di colangite e senza colica biliare fa ipotizzare una neoplasia del pancreas. Più raramente, il tumore può comprimere le strutture vicine, dando ipertensione portale e splenomegalia. La malattia ha una diffusione locale molto rapida, perché il pancreas non ha la tonaca sierosa essendo un organo retroperitoneale. Per contiguità diffonde rapidamente a duodeno, stomaco, vasi retroperitoneali. Diffonde anche rapidamente per via linfatica e per via celomatica. Diagnosi La diagnosi precoce di questo carcinoma è molto difficile: infatti i sintomi e la clinica danno una evidenza minima soltanto quando la neoplasia si è già diffusa: questo accade per la rapidità di diffusione metastatica. I marker che esistono sono due: CEA: sensibile ma poco specifico CA19.9: sensibilità 81%, specificità 90%; non è però precoce. Attualmente si cerca di usarlo come programma di Screening. • Ecografia: associata allo studio radiologico con mezzo di contrasto per escludere ulcera peptica ed ernia iatale. • TAC: staging . Sensibilità per lesioni del diametro di almeno un cm, evidenzia l’80% delle lesioni maligne, può dare falsi positivi. Carcinoidi: Oltre ai tumori propri del pancreas, a • Retrograda: diagnostica le stenosi del Wirsung. questa famiglia appartengono anche neoplasie Pochi falsi negativi, ma diagnosi differenziale intestinali APUD che derivano dalle cellule difficile con la pancreatite cronica. entrocromaffini (le cellule endocrine intestinali) • Agobiopsia con guida ecografica: conferma del ma anche dall’appendice o nello stomaco. Sono tumori a lenta crescita, ma provvisti di un sospetto clinico, evita l’intervento chirurgico, ma è inequivocabile potenziale maligno, che si associata a rischio di disseminazione (seeding). assomma alla loro capacità di secernere ormoni. • Angiografia: permette di valutare l’estensione La presenza di un carcinoide, per via delle della massa. sostanze prodotte, induce una sindrome Terapia

caratterizzata da una triade sintomatologica: • Flushing cutaneo (Vampate di calore) • Diarrea • Valvulopatia cardiaca

che però finisce per riguardare solo il 5% di pazienti, essendo la neoplasia per lo più asintomatica.

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Unica efficace è la resezione chirurgica completa. E’ possibile solo nel 10% dei casi, non associati a metastasi toraciche o addominali e la mortalità è alta. Tuttavia, poiché spesso solo con la chirurgia si distinguono neoplasie pancreatiche da altri tumori del coledoco o dell’ampolla, suscettibili di terapia risolutiva, vale la pena di tentare l’intervento. Inoltre i pazienti operati hanno una mortalità minore quando si presentano recidive. Un intervento palliativo è una protesi del Wirsung con un tubicino di materiale a memoria di forma. TUMORI ENDOCRINI SECERNENTI DEL PANCREAS I tumori endocrini del pancreas appartengono ad una classe particolare di neoplasie che secernono ormoni e che hanno in comune la proprietà APUD (ammine precursor uptake & decarbossilation), ossia la capacità di produrre dalle ammine endogene sostanze come la serotonina, l’istamina e la dopamina. Oltre a questo, queste sostanze hanno la possibilità di sintetizzare, con un meccanismo differente, una serie di peptidi endogeni ad attività ormonale che ne permettono la classificazione specifica. Gli APUDomi, detti così per le caratteristiche spiegate sopra, si trovano localizzati in tutto l’intestino e nel pancreas. Normalmente non hanno attività maligna, non infiltrano i tessuti circostanti, ma la produzione di ormoni può avvenire in grande scala, e alla fine produrre delle sindromi neuroendocrine di rilevante entità. Oltre a quelli propri del pancreas, un cenno importante da fare sono i carcinoidi intestinali (vedi riquadro a fianco). I tumori del pancreas sono tumori a cellule insulari; tali cellule sono di quattro tipi, le A secernenti glucagone, le B secernenti insulina, le D che producono somatostatina e le PP che producono polipeptide pancreatico. Ognuna di queste cellule è in grado di secernere anche altri peptidi regolatori, come gastrina, VIP, ACTH eccetera. I tumori quindi possono secernere di tutto, e si classificano sulla base di quello che producono prima che secondo le cellule da cui prendono origine. Gastrinoma Descritto nel 1955 da Zollinger ed Ellison (vedi), il tumore che produce la sindrome omonima, sebbene raro, è la forma più frequente di neoplasia endocrina secernente. La sua incidenza è bassa anche nei gruppi selezionati. Dal 25 al 50% dei tumori del genere si associano alla sindrome MEN1, ossia alla presenza di neoplasie endocrine multiple, soprattutto con l’ipoparatiroidismo. Circa l’80% origina dalle isole pancreatiche, gli altri prendono origine dal triangolo dei gastrinomi come già detto altrove. Il comportamento biologico varia, ma in genere è abbastanza aggressivo: dalla metà a due terzi di questi tumori sono caratterizzati da andamento maligno, con metastasi al fegato e alle ossa. Sembra però che attualmente le metastasi siano in diminuzione al momento della diagnosi, anche grazie a criteri più selettivi e precisi. Questo è importante soprattutto per il fatto che questo tipo di neoplasie si asportano bene quando sono isolate. E inoltre le metastasi possono avere un comportamento diverso, e più aggressivo, delle neoplasie originarie. Insulinoma (a cellule beta) Abbastanza comune, subito dopo il gastrinoma, questi tumori hanno la caratteristica invariabile di produrre una ipoglicemia incontrollabile. Sono prevalenti nella popolazione con 8 casi su 10 milioni, ed insorgono per lo più fra il 5° e il 7° decennio di vita. La malattia si manifesta classicamente con la triade di Whipple, così definita: 27. Ipoglicemia a digiuno 28. Sintomi di ipoglicemia

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29. Reversibilità di questi dopo infusione endovenosa di glucosio. Attualmente la diagnosi viene posta considerando la presenza di ipoglicemia in presenza di normali o aumentati livelli di insulina. Tutto questo è anche accompagnato spesso da diversi sintomi legati alla ipersecrezione di insulina, e da obesità per eccesso di cibo ingerito ( e anche per aumento dell’anabolismo). Correlati all’ipoglicemia si possono trovare: • disturbi della parola • cefalea • alterazioni psicologiche • confusione, come e morte • secrezione di catecolamine, con sudorazione, pallore, palpitazioni e aritmie Caratteristicamente, i sintomi associati alla lesione inizialmente sono intermittenti, perché la secrezione di insulina è transitoria. Questo è associato quindi spesso ad un periodo di digiuno. Con il progredire del tempo si instaurano costantemente. In genere i sintomi sono così precoci che la diagnosi si fa per tumori ancora molto piccoli. Molto spesso sono associati alla sindrome multipla neuroendocrina (MEN 1)e il 10% di questi tumori ha un andamento maligno con invasione dei linfonodi regionali. I tumori insulina secernenti extrapancreatici sono rari, e riguardano sempre tessuto insulare ectopico. Il test di elezione è il monitoraggio della glicemia nel paziente a digiuno per 24 ore, che in genere scende sotto ai livelli di ipoglicemia (50 mg/dl per l’uomo e 45 per la donna). Se necessario si fa un test di resistenza alla sforzo fisico. La diagnosi differenziale comprende alcune disfunzioni di ipersecrezione di sostanze iperglicemizzanti, come tumori secernenti cortisolo, feocromocitoma, e la assunzione di sostanze come insulina o composti simili. Quanto all’assunzione di insulina dall’esterno, esso è facilmente identificabile con il dosaggio del peptide C, particolarmente significativo in quanto l’insulinoma produce insulina in modo incompleto, con parecchio peptide C. La terapia definitiva consiste nella resezione chirurgica, ma si possono attuare vari presidi di supporto, intesi a mantenere elevata la glicemia (diazzosido e beta bloccanti) o a diminuire la secrezione di insulina (il miglior inibitore è l’octreotide). Non sono molto facili da rilevare perché sono piccoli (spesso < 2cm) ma nell’85% dei casi l’ecografia endoscopica riesce a rilevarli. Attenzione, per quei pazienti che non possono essere operati, a monitorare sempre la terapia cronica: in non pochi casi possono insorgere metastasi secernenti glucagone che implicano un radicale cambiamento dei farmaci somministrati. Vipoma (sindrome da diarrea acquosa) Malattia rara (1 caso su un 10 milioni) caratterizzata dalla presenza di un tumore entero-pancreatico produttore di VIP. Le manifestazioni cliniche sono secrezione endoluminare di potassio, con diarrea acquosa, ipokalemia e insufficienza renale. La diarrea può superare i 3 litri al giorno, e la perdita di bicarbonato con le feci produce acidosi e danneggia il rene. Il VIP induce la secrezione gastrica di glucagone, e anche la diminuzione del potassio. La secrezione di insulina è diminuita dalla perdita di potassio. Le cellule insulari che controllano la glicemia sono infatti così regolate. Il glucosio che entra dall’esterno attiva la glicolisi, produce ATP, e attiva la pompa del sodio, la quale pompa all’intero potassio. La [K+] è quindi proporzionale a quella del glucosio. L’insulina quindi viene secreta in presenza di alte concentrazioni di potassio, il glucagone durante la ipokalemia. Molti pazienti con VIPoma sviluppano iperglicemia.

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La diagnosi è facile e si basa sulla presenza di alti livelli di VIP in associazione a diarrea di almeno 1l al giorno. I VIPomi sono essenzialmente tumori pancreatici: adifferenza di altri, però, possono raggiungere dimensioni notevoli prima di essere clinicamente evidenti. Sono in genere abbastanza maligni, e al momento della diagnosi hanno già dato metastasi nel 60% dei casi. La terapia è l’escissione chirurgica, ma non sempre questa è possibile per la presenza di metastasi. Esistono farmaci anti secretori, come il prednisolone, e l’octreotide. Nei pazienti con metastasi la miglior cosa è la chemioterapia con streptozocina e fluoro-uracile. Glucagoma Serie di tumori che secernono diversi peptidi, ma che hanno in comune la produzione di glucagone. Unici, di grandi dimensione e a lenta crescita, più del 75% di questi tumori ha già metastatizzato, al fegato o alle ossa, al momento della diagnosi. In alcuni casi sono associati alla MEN1. Livelli di glucagone sopra ai 1000 ng/l sono indicativi, livelli più bassi possono essere associati al diabete ed altre patologie del fegato. Le alterazioni metaboliche nel catabolismo degli aminoacidi e nella produzione di glucosio producono iperglicemia, diminuzione della concentrazione di aminoacidi anche del 25%, e ipocolesterolemia. Una manifestazione caratteristica è un rash cutaneo migrante, a caratteristiche variabili da bolloso a psoriasico a crostoso. Il diabete è di solito modesto e non si associa a chetoacidosi. La terapia radicale chirurgica è risolutiva solo nel 30% dei casi: nonostante le dimensioni, infatti, non danno sintomi importanti per molto tempo. La chemioembolizzazione dell’arteria epatica e l’alcolizzazione danno risultati buoni, molto meglio della chemioterapia. La lenta crescita comunque permette una lunga sopravvivenza anche di quei pazienti che hanno già metastasi. Somatostatinoma Ultimai identificati nel campo dei tumori pancreatici, queste malattie hanno caratteristicamente una triade sintomatologica: • Diabete mellito (probabilmente per la secrezione di altri peptidi) • Colelitiasi • Steatorrea (inibizione della secrezione pancreatica) La sede primaria è il pancreas, seguita dall’intestino tenue, in cui si manifesta però una sintomatologia più modesta. In genere sono unici, voluminosi e metastatici al momento della diagnosi. Molti tumori secernono somatostatina; le associazioni più comuni di somatostatinoma sono con la MEN-2.

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CAP 6 OBESITÀ DI INTERESSE CHIRURGICO L’obesità viene riconosciuta come una malattia multifattoriale e non solo il risultato della trasgressione alimentare. Si definisce obesità come un eccesso di massa grassa superiore al normale per età, sesso e costituzione. Nell’uomo la massa grassa varia dal 12 al 17%, nella donna dal 20 al 25%. In genere ogni ulteriore aumento di peso al termine dell’accrescimento corporeo corrisponde ad un aumento di massa grassa. Calcolo del peso standard Due tipi di formule: • Formule che calcolano il peso ideale in relazione lineare con l’altezza • Formule che calcolano il peso ideale in relazione esponenziale con l’altezza. Le seconde, che sono molto più accurate e veritiere, sono rappresentate dal calcolo dell’indice di peso in Kg massa corporea (BMI) = ( altezza in m ) 2 , mentre le formule del primo tipo sono quelle come la formula di Broca: peso ideale = altezza in cm – 100 (104 per le ) L’obesità può essere: • Androide o ginoide: a seconda se interessa prevalentementela metà superiore del corpo o la metà inferiore. • Ipertrofica o iperplastica: a seconda se insorge nell’età infantile (crescita di adipociti ex-novo, iperplasia), oppure nell’età adulta (le cellule adipose non crescono nell’età adulta di numero, ma subiscono ipertrofia). Quest’ultimo tipo di obesità è più facile da trattare • Sottocutanea o viscerale: a seconda del rapporto fra massa adiposa superficiale e grasso viscerale. Quella viscerale più frequentemente è associata ad alterazioni metaboliche e fisiche6 Eziopatologia BMI normale: 19,5 – 25 , 18,5-24 Quadri fra 26 e 30 indicano soprappeso, fra 30 e 40 obesità, sopra a 40 obesità di interesse chirurgica in entrambi i sessi. L’obesità grave interessa il 5% degli uomini e il 7,5 % delle donne nei paesi industrializzati. L’obesità in età prepuberale è nell’80% dei casi conservata anchenell’individuo adulto. L’obesità può riconoscere essenzialmente tre grandi tipi di eziologie: • Fattori genetici e congeniti: malattie del metabolismo, regolazione anomala del SNC dell’apporto calorico e della termogenesi, eccetera • Fattori alimentari e dietetici: bisogna considerare che non serve mangiare tanto per mantenersi obesi, basta mangiare normale • Fattori psicologici ed emotivi L’obesità riduce la qualità e l’aspettativa di vita in modo significativo ed è un fattore di rischio indipendente per molte malattie, soprattutto cardiovascolari. Indicazioni e terapia chirurgica dell’obesità In candidati all’intervento chirurgico per l’obesità hanno: • BMI superiore a 40 • Età fra 18 e 60 anni • Assenza di endocrinopatie 6

Tali anomalie sono: ridotta tolleranza al glucosio, colesterolemia, trigliceridemia e uremia elevate, ipertensione, apnea notturna (da sollevamento del diaframma e accumulo adiposo attorno alla glottide)

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Terapia medica dietetica fallita Presenza di patologie associate Disponibilità all’intervento e al follow-up

Tenendo presente che la terapia chirurgica non è affatto la soluzione ideale per il paziente obeso, si sono sviluppati interventi che mirano a ridurre l’apporto energetico agendo su: • Superficie di assorbimento (bypass intestinale) • Secrezione biliare (diversione bilo-pancreatica) • Serbatoio gastrico Questo tipo di chirurgia si chiama chirurgia bariatrica. Descriviamo qui di seguito gli interventi più importanti con i loro vantaggi e svantaggi. Bypass digiuno-ileale Primo intervento proposto su larga scala, consiste nel realizzare, dopo 30 – 50 cm di intestino tenue, una connessione diretta con il colon trasverso. Il resto dell’intestino viene così escluso dalla digestione attiva. Sebbene ottenga una significativa riduzione di peso, ci sono diversi problemi di assorbimento elettrolitico, epatopatia e difficoltà di assorbimento delle vitamine liposolubili. Si usa allora fare una anastomosi fra il primo tratto del digiuno (30 cm) e l’ultimo tratto dell’ileo (20 cm) permettendo così un miglior assorbimento delle vitamine e degli elettroliti. Una ulteriore modifica è creare una anastomosi fra la colecisti e l’ileo escluso, diminuendo le complicazioni come la calcolosi e il danno epatico grave. Rimangono comunque molte le complicazioni soprattutto a carico del fegato e la diarrea. Ultima modifica è l’anastomosi digiuno-ileale latero-laterale che riguarda sempre digiuno e ultimo tratto dell’ileo, ma diminuisce il rischio di deiscenze dell’anastomosi. Diversione bilo-pancreatica Consiste in: • Resezione gastrica fino al volume di 200-300 ml • Anastomosi fra il moncone gastrico residuo e la porzione terminale di ileo • Il resto dell’intestino, dal duodeno, inizia a fondo cieco, e porta la bile ma non riceve cibo A questo intervento viene sempre associata l’asportazione della colecisti per via della massiccia calcolosi di essa che si verifica sempre. Funziona molto bene e riduce fino all’80% del soprappeso, si associa a diarrea irrefrenabile ma che tende a scomparire dopo un po’ (risponde bene al trattamento farmacologico). Complicanze aderenziali e pancreatite sono importante (circa 5-10% dei pazienti). Interventi di resezione gastrica • Bypass gastrico: tasca gastrica di circa 40 cm comunicante con il tratto iniziale del digiuno. Esclusione di tutto lo stomaco e duodeno. Difficile da eseguire. • Gastric banding: benderella di materiale non degradabile chesepara la prima parte dello stomaco formando una tasca di circa 30 cm, che comunica, con uno stretto canale, detto neopiloro, con la parte successiva dello stomaco. Questa prima parte si riempie in fretta e il paziente avverte un senso di sazietà precoce. Ottimi vantaggi e risultati • Gastroplastica orizzontale: separazione fra piccola e grande curvatura che riduce lo stomaco ad un canale di 10-12 mm di calibro. Complicata da cedimenti e stenosi del canale • Gastroplastica verticale: sembra essere attualmente l’intervento all’apice della chirurgica bariatrica. Con una serie di suture chirurgiche si costruisce una tasca gastrica piccolissima (circa 40cc) collegata al resto dello stomaco da un foro di circa 1 cm di diametro (neopiloro). Le piccole

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dimensioni di questa tasca inducono nell’obeso una sensazione di sazietà prolungata. I risultati in termini di calo ponderale sono buoni e i problemi e le complicazioni sono molto minori.

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